e-mail
info.ptpl@tiscali.it

APPALTI
CONVEGNI
FORUM
G.U.R.I. - G.U.U.E. - B.U.R.L.
LINK
NEWS PUBBLICATE:
1-aggiornam. pregressi
2-Corte dei Conti
3-
dite la vostra ...
4-dottrina e contributi
5-funzione pubblica
6-giurisprudenza
7-modulistica
8-news
9-normativa
10-note, circolari e comunicati
11-quesiti & pareri
12-utilità
- - -
DOSSIER
:
13-
ABBAINO
14-
ABUSI EDILIZI
15-
AFFIDAMENTO IN HOUSE
16-AGIBILITA'
17-AMIANTO
18-ANAC (già AVCP)
19
-APPALTI
20-ARIA
21-ASCENSORE
22-ASL + ARPA
23-ATTI AMMINISTRATIVI
24-ATTI AMMINISTRATIVI (accesso esposto e/o permesso di costruire e/o atti di P.G.)
25-ATTI AMMINISTRATIVI (impugnazione-legittimazione)
26-ATTIVITA' COMMERCIALE IN LOCALI ABUSIVI
27-BARRIERE ARCHITETTONICHE
28-BOSCO
29-BOX
30-CAMBIO DESTINAZIONE D'USO (con o senza opere)
31-CANCELLO, BARRIERA, INFERRIATA, RINGHIERA in ferro
32-CANNE FUMARIE e/o COMIGNOLI
33-CARTELLI STRADALI
34-CARTELLO DI CANTIERE - COMUNICAZIONE INIZIO LAVORI
35-CERTIFICATO DESTINAZIONE URBANISTICA
36-CERIFICAZIONE ENERGETICA e F.E.R.
37
-COMPETENZE GESTIONALI
38
-COMPETENZE PROFESSIONALI - PROGETTUALI
39-CONDIZIONATORE D'ARIA
40-CONDOMINIO
41-CONSIGLIERI COMUNALI
42-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
43-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (gratuità per oo.pp. e/o private di interesse pubblico)
44-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (prescrizione termine dare/avere e legittimazione alla restituzione)
45-CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (rateizzato e/o ritardato versamento)
46-DEBITI FUORI BILANCIO
47-DEFINIZIONI INTERVENTI EDILIZI
48-DIA e SCIA
49-DIAP
50-DISTANZA dagli ALLEVAMENTI ANIMALI
51-DISTANZA dai CONFINI
52-DISTANZA dai CORSI D'ACQUA - DEMANIO MARITTIMO/LACUALE
53-DISTANZA dalla FERROVIA

54-DISTANZA dalle PARETI FINESTRATE
55-DURC
56-EDICOLA FUNERARIA
57-EDIFICIO UNIFAMILIARE
58-ESPROPRIAZIONE
59-GESTIONE ASSOCIATA FUNZIONI COMUNALI
60-INCARICHI LEGALI e/o RESISTENZA IN GIUDIZIO
61-INCARICHI PROFESSIONALI E PROGETTUALI
62-INCENTIVO PROGETTAZIONE (ora INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE)
63-INDUSTRIA INSALUBRE
64-L.R. 12/2005
65-L.R. 23/1997
66-LEGGE CASA LOMBARDIA
67-LICENZA EDILIZIA (necessità)
68-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
69-LOTTO INTERCLUSO
70-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
71-MOBBING
72-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
73-OPERE PRECARIE
74-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
75-PATRIMONIO
76-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA
77-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
78-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (verifica in istruttoria dei limiti privatistici al rilascio)
85
-
PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
86-
PERTINENZE EDILIZIE ED URBANISTICHE
87-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
88-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
89-PISCINE
90-PUBBLICO IMPIEGO
91-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
92-RIFIUTI E BONIFICHE
93-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
94-RUDERI
95-
RUMORE
96-SAGOMA EDIFICIO
97-SANATORIA GIURISPRUDENZIALE E NON (abusi edilizi)
98-SCOMPUTO OO.UU.
99-SEGRETARI COMUNALI
100-SEMINTERRATI
101-SIC-ZSC-ZPS - VAS - VIA
102-SICUREZZA SUL LAVORO
103
-
SILOS
104-SINDACATI & ARAN
105-SOPPALCO
106-SOTTOTETTI
107-SUAP
108-SUE
109-STRADA PUBBLICA o PRIVATA o PRIVATA DI USO PUBBLICO
110-
TELEFONIA MOBILE
111-TENDE DA SOLE
112-TINTEGGIATURA FACCIATE ESTERNE
113-TRIBUTI LOCALI
114-VERANDA
115-VINCOLO CIMITERIALE
116-VINCOLO IDROGEOLOGICO
117-VINCOLO PAESAGGISTICO + ESAME IMPATTO PAESISTICO + VINCOLO MONUMENTALE
118-VINCOLO STRADALE
119-VOLUMI TECNICI / IMPIANTI TECNOLOGICI

120-ZONA AGRICOLA
121-ZONA SISMICA E CEMENTO ARMATO

NORMATIVA:
dt.finanze.it
entilocali.leggiditalia.it

leggiditaliaprofessionale.it

simone.it

SITI REGIONALI
STAMPA
 
C.A.P.
Codice Avviamento Postale

link 1 - link 2
CONIUGATORE VERBI
COSTO DI COSTRUZIONE
(ag
g. indice istat):

link ISTAT
DIZIONARI
indici ISTAT:
link 1 - link 2

interessi legali:
link 1
MAPPE CITTA':
link 1 - link 2 - link 3
link 4 - link 5
METEO
1 - PAGINE bianche
2 - PAGINE gialle
P.E.C. (indirizzi):
delle PP.AA.
delle IMPRESE e PROFESSIONISTI
PREZZI:
osservatorio prezzi e tariffe

prodotti petroliferi
link 1
- link 2
PUBBLICO IMPIEGO:
1 - il portale pubblico per il lavoro
2
- mobilità
 

AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2018

Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).  -      segnala un errore nei links                                                                                

aggiornamento al 28.08.2018 (ore 23,59)

aggiornamento al 13.08.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 28.08.2018 (ore 23,59)

ã

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti.
In materia di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti l'art. 1 della l.r. Lombardia n. 15 del 1996, poi trasfuso nell'art. 63 della l.r. n. 12 del 2005, che ne prevede la possibilità, ha quale presupposto che la trasformazione avvenga in ordine ad un volume già esistente e che abbia, in partenza, dimensioni tali da essere praticabile e da poter essere abitabile, sia pure con gli aggiustamenti che occorrono per raggiungere i requisiti minimi di abitabilità.
Solo a queste condizioni il "recupero", che la legge regionale classifica come "ristrutturazione" (art. 3 comma 2), è effettivamente ascrivibile a tale categoria di interventi, come definita dall'art. 31 della legge n. 457 del 1978 (oggi, art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001), la quale postula che il nuovo organismo edilizio corrisponda a quello preesistente, senza alterarne in misura sostanziale sagoma, volume e superficie.
Diversamente l'intervento si risolverebbe non già nel recupero di un piano sottotetto, ma nella realizzazione di un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri della ristrutturazione per integrare un intervento di nuova costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.07.2018 n. 1858 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Nell’odierno giudizio le parti controvertono in ordine a quale regime urbanistico debbano essere assoggettate delle unità abitative ricavate dal recupero di sottotetti adibiti a scopo residenziale e ricadenti entro edifici realizzati, dietro Convenzione, in esecuzione di un PIR ex LR Lombardia n. 23/1990.
Secondo la parte ricorrente, essendo stati i sottotetti trasformati successivamente alla stipula della Convenzione e non essendo inclusa la relativa superficie entro quella prevista e disciplinata in quest’ultima (peraltro completamente eseguita), i relativi spazi abitativi sarebbero cedibili in regime di libera vendita.
Secondo il Comune di Milano, il vincolo sorto sulle unità abitative degli edifici si estenderebbe anche ai sottotetti, ancorché realizzati successivamente, in ragione dell’inscindibile unità del corpo di fabbrica e della sottoposizione di quest’ultimo alla disciplina del Piano di Recupero.
Quest’ultima tesi è corretta, mentre le argomentazioni cui sono affidate le censure di parte ricorrente sono prive di fondamento.
   I) Deve preliminarmente rilevarsi che il rapporto tra la parte ricorrente e l’Ente non è regolato solamente dalla Convenzione; e che quest’ultima non è un negozio libero nell’oggetto e nel fine.
Se le parti avessero stipulato un negozio soggetto solamente alla disciplina comune, la tesi della parte ricorrente sarebbe stata corretta, in quanto, una volta assolta la destinazione ai fini pattuiti della superficie totale prevista in Convenzione, tutte le ulteriori sopravvenienze edilizie, ancorché derivanti (come una sorta di specificazione) da un diverso utilizzo degli spazi (oppure da una trasformazione planovolumetrica dal manufatto originale, come ad esempio una sopraelevazione oppure un ampliamento di altro genere) sarebbero state libere da vincoli; o comunque una diversa disciplina giuridica delle abitazioni ricavate avrebbe dovuto essere tradotta in una nuova Convenzione.
Tuttavia, deve osservarsi che la Convenzione che regola l’intervento abitativo è funzionalmente orientata all’esecuzione del Programma approvato con la deliberazione nr. 430 dell’11 e 12.11.1994 del Consiglio Comunale e n. 6492 del 15.12.1995 della Giunta Regionale cui aderisce e che ne conforma la causa sulla base delle previsioni di cui alla LR Lombardia 02.04.1990 nr. 23 e della legge 05.08.1978, n. 457.
Quest’ultima introduce una disciplina di favore (volta a favorire l’accesso all’abitazione), includente vantaggi di tipo strettamente edilizio e planovolumetrico (v. ad es. gli artt. 31 e 43 della L. 457/1978), nonché forme specifiche di finanziamento o agevolazioni di tipo finanziario; sussiste altresì una minore incidenza dei costi di costruzione del fabbricato rispetto alle edificazioni ordinarie (per effetto dell’art. 7 della l. 10/1977, argomento questo particolarmente approfondito dalla difesa del Comune senza specifiche contestazioni da parte della ricorrente).
L’assoggettamento dei relativi alloggi al regime di prezzi che è sancito nella Convenzione, all’art. 8, è funzionale quindi all’esigenza propria del sistema normativo di assicurare che le unità immobiliari realizzate sulla base dei programmi integrati siano effettivamente accessibili all’utenza secondo quella particolare logica di favore di tutela del diritto all’abitazione che giustifica la realizzazione degli interventi edilizi di cui si discute.
Invero, come puntualmente argomentato dalla difesa dell’Ente, in regime di edilizia convenzionata l’Amministrazione riduce la misura degli oneri relativi all’intervento edilizio perché il costruttore è vincolato, con la stipula della Convenzione, ad applicare il prezzo calmierato in luogo del prezzo di mercato, beneficio del quale si giovano sia, direttamente, il costruttore, che ne fruisce, sia, indirettamente, l’acquirente, che acquista l’appartamento ad un prezzo più conveniente di quello che avrebbe ottenuto sul mercato, in regime di libera contrattazione (realizzando così in concreto quel meccanismo di facilitazione dell’accesso all’abitazione che il legislatore si propone).
A fronte di questa agevolazione, la legge pone a carico del costruttore e dell’acquirente l’obbligo di non vendere a prezzo superiore a quello di acquisto per un determinato periodo di tempo.
Nello specifico, con la concessione in variante n. 65 del 20.02.2001, la misura del contributo per il rilascio della concessione –determinata in base all’incidenza delle spese di urbanizzazione ed al costo di costruzione, ai sensi dall’art. 3 della legge n. 10/1977– veniva ridotta rispetto a quella prevista dalla concessione n. 300/2003, in base all’art. 7 della legge n. 10/1977 (che limita il contributo ai soli oneri di urbanizzazione se il concessionario, stipulando una Convenzione con il comune, si obbliga ad applicare i prezzi convenzionati).
Atteso il relativo regime, l’immobile realizzato entro un piano di recupero come quello in esame e con i vantaggi sin qui descritti in termini di costi, è dunque qualificato dallo scopo dell’intervento e come tale è soggetto alla relativa disciplina nella sua interezza; la descrizione –contenuta nella Convenzione attuativa– che compendia gli alloggi alla cui realizzazione il privato si obbliga, entro la relativa quantità di superficie utile destinata alla residenza, non esclude dunque affatto che successivi incrementi di detta superficie –localizzati entro la sagoma dell’edificio e conseguenti ad interventi di recupero di spazi tecnici come i sottotetti– seguano il medesimo regime giuridico, poiché si tratta di interventi su spazi pertinenti alle unità abitative originali (e dunque già esistenti al tempo di realizzazione di queste ultime in esecuzione della Convenzione).
Invero,
in materia di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti, l'art. 1 l.reg. Lombardia 15.07.1996 n. 15, poi trasfuso nell'art. 63 l.reg. n. 12 del 2005, che ne prevede la possibilità, ha quale presupposto che la trasformazione avvenga in ordine ad un volume già esistente e che abbia, in partenza, dimensioni tali da essere praticabile e da poter essere abitabile, sia pure con gli aggiustamenti che occorrono per raggiungere i requisiti minimi di abitabilità (altezza media ponderale m. 2.40: cfr. art. 2 l.reg. 15.07.1996 n. 15, oggi art. 63, comma ultimo, l.reg. n. 12 del 2005); solo a queste condizioni il "recupero", che la l. reg. classifica come "ristrutturazione" (art. 3, comma 2), è effettivamente ascrivibile a tale categoria di interventi, come definita dall'art. 31 l. n. 457 del 1978 (oggi, art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001), la quale postula che il nuovo organismo edilizio corrisponda a quello preesistente, senza alterarne in misura sostanziale sagoma, volume e superficie; diversamente l'intervento si risolverebbe non già nel recupero di un piano sottotetto, ma nella realizzazione di un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri della ristrutturazione per integrare un intervento di nuova costruzione (così TAR Milano, II 02.04.2010 n. 970).
In questi termini,
la giurisprudenza chiarisce che ai sensi dell'art. 63 commi 1 e 2, l.rg. Lombardia 11.03.2005 n. 12, il recupero a fini abitativi dei sottotetti (per essi intendendosi i volumi sovrastanti l'ultimo piano degli edifici) “costituisce un ampliamento volumetrico ammissibile solo se compatibile con le prescrizioni dettate dalla disciplina urbanistica vigente e, quindi, nel rispetto degli indici di edificabilità e dei parametri stabiliti dagli strumenti urbanistici comunali, salve le ipotesi derogatorie da detta disciplina espressamente dettate (Consiglio di Stato sez. IV 04.02.2008 n. 298; TAR Milano, Lombardia, I 06.12.2016 n. 2305), con la conseguenza che “ai sensi dell'art. 63 commi 1 e 2, l.rg. 11.03.2005 n. 12, il recupero volumetrico a scopo residenziale del piano sottotetto non può prescindere dall'esistenza dell'edificio e del sottotetto medesimo —da intendersi come vero e proprio volume preesistente— e deve avvenire nel rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie e di abitabilità previste dai regolamenti vigenti (Consiglio di Stato sez. IV 20.02.2013 n. 1058).
Dunque,
il recupero dei sottotetti operato in forza dell’art. 63 della l.r. n. 12/2005 è dipendente dall’edificio cui essi accedono sul piano strutturale e tecnico-costruttivo; pertanto, non può che seguire anche il regime derivante dalla natura dell’edificio stesso, con soggezione, nel caso in cui l’edificio sia stato realizzato nell’ambito di un PIR ex lege nr. 23/1990, alle limitazioni inerenti la formazione del prezzo di vendita dei relativi alloggi.
Condivisibilmente, invero, la difesa comunale rileva che in caso contrario, ossia ritenendo i sottotetti come organismo a se stante in quanto “nuova costruzione”, come sostiene parte ricorrente, e non come unico involucro urbanistico contenuto nell’immobile recuperato, si contravverrebbe alla finalità propria dell’edilizia convenzionata, creando evidenti disparità di trattamento tra gli assegnatari degli alloggi, in quanto risulterebbero assoggettati appartamenti del medesimo edificio ad un regime giuridico diverso, per alcuni dei quali (appartamenti all’ultimo piano) si applicherebbe in caso di vendita, il prezzo di mercato, senza vincoli e limitazioni di sorta, mentre agli appartamenti dei restanti piani il prezzo convenzionato -nonché il divieto temporaneo di cessione– con evidenti differenze in termini di realizzazione degli scopi di tutela dell’intervento medesimo.
Del resto, non è possibile invocare –a sostegno della tesi di parte ricorrente– una esigenza di tutela dell’affidamento (a che gli obblighi della Convenzione fossero assolti e quindi si potesse ottenere dalla commercializzazione degli appartamenti insistenti nei sottotetti recuperati un provento corrispondente alla redditività di mercato dell’investimento), poiché, nel sistema della legge, i prezzi di vendita degli alloggi sono determinati sulla base del piano finanziario (che è infatti puntualmente sollecitato dalla nota impugnata) così da assicurare comunque la remunerazione dell’investimento.
Dunque, prospettare che il privato possa alienare a prezzo di mercato l’appartamento ricavato dal recupero del sottotetto a fini abitativi entro un edificio realizzato in regime di edilizia convenzionata implicherebbe una evidente locupletazione del costruttore in quanto quest’ultimo –profittando, da un lato, della riduzione dei costi di costruzione relativi al fabbricato al momento della sua realizzazione e, dall’altro, del maggior prezzo di mercato ricavabile in libera contrattazione– massimizzerebbe il profitto non tramite un vantaggio competitivo imprenditoriale vero e proprio (imputabile alla propria iniziativa e merito aziendale con assunzione del relativo rischio di impresa), bensì grazie alla traslazione a carico della collettività pubblica dei costi dell’aggravamento del carico urbanistico conseguente all’ampliamento della base residenziale della zona.
Ne consegue che
i sottotetti recuperati ad uso abitativo entro un edificio realizzato nell’ambito di un PIR successivamente all’esecuzione della relativa Convenzione, sono soggetti alle medesime condizioni fissate per gli altri appartamenti dal relativo regime di circolazione.
Le censure dedotte al secondo motivo di ricorso sono quindi infondate e vanno ritenute generiche e meramente formali quelle relative al difetto di motivazione di cui al primo motivo, con conseguente reiezione del gravame.

IN EVIDENZA

APPALTI: Calcolo dell’anomalia dell’offerta e taglio delle ali nel sistema di aggiudicazione al prezzo più basso.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Sistema di aggiudicazione del prezzo più basso – Taglio delle ali – Va effettuato secondo il c.d. criterio del blocco unitario.
Anche con la nuova disciplina dettata dall’art. 97, comma 2, lett. a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 nel caso in cui il sistema di aggiudicazione è quello del prezzo più basso il taglio delle ali per verificare l’anomalia dell’offerta va effettuato secondo il c.d. criterio del blocco unitario (detto anche criterio relativo), cioè procedendo all’accorpamento delle offerte di egual valore vuoi che si collochino al margine delle ali, vuoi che si collochino all’interno delle stesse, e non con il cd. criterio assoluto, tenendo cioè conto di tutte le offerte presenti all’interno delle ali singolarmente considerate (1).

---------------
   (1) La Sezione ha ritenuto estensibili i principi, espressi dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 19.09.2017, n. 5 in vigenza della pregressa disciplina dettata
Ha chiarito che l’introduzione di altri strumenti anticollusivi non vale a dare per superate le esigenze a suo tempo ritenute da Cons. Stato, A.P., 19.09.2017, n. 5 che privilegiano, perché più confacente allo scopo, il c.d. criterio assoluto. Per quanto alla luce della normativa sopravvenuta, appaia meno facile figurare –mediante l’indebito concordamento delle modalità di formalizzazione delle offerte– un’alterazione anticoncorrenziale della determinazione della soglia di anomalia, resta comunque che il criterio del blocco unitario appare convergente al medesimo scopo, la cui rilevanza non è diminuita nel nuovo contesto (nel senso che “la condivisibile ratio ‘antiturbativa’ non [possa] considerarsi venuta meno solo per effetto del complesso meccanismo introdotto dalla novellata disciplina dell’art. 97 del Codice in tema di esclusione automatica”, cfr., parere 12.02.2018 n. 361 della Commissione speciale di questo Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua, delle linee guida ANAC).
Piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior criterio ermeneutico, anche per basilari esigenze di sicurezza giuridica, appare il mantenere, fino a dimostrazione di una volontà contraria del legislatore, l’orientamento della consolidata giurisprudenza e con essa gli acquisiti presidi di funzionalità, di efficienza, di trasparenza e concorrenzialità dei procedimenti di evidenza pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.08.2018 n. 4821 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
8. Il ricorso solleva la questione, già oggetto di divergenti ricostruzioni interpretative nel vigore del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, (da ultimo superate dalla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 19.09.2017, n. 5), della corretta procedura di determinazione della soglia di anomalia delle offerte, giusta il criterio del c.d. taglio delle ali, per le procedure da aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso.
È noto che nell’alternativa tra il criterio del c.d. blocco unitario (c.d. criterio relativo, che impone di considerare, ai fini della determinazione matematica della soglia di anomalia, le offerte con identico ribasso quali offerta unica, vuoi che si collochino al margine delle ali, vuoi che si collochino all’interno delle stesse) e il c.d. criterio assoluto (che impone, all’incontro, la distinta considerazione delle singole offerte, pur quando caratterizzate dal medesimo ribasso) –la richiamata decisione dell’Adunanza plenaria (che peraltro non si pronuncia sulle previsioni– comunque non applicabili ratione temporis al caso deciso) ha preferito il primo in ragione di diversi argomenti:
   a) sia di carattere testuale (discendenti dalla comparazione del primo e del secondo periodo dell’articolo 121, comma 1, primo e secondo periodo, del d.P.R. 05.10.2010, n. 207, dal cui confronto emerge la distinzione tra le offerte intermedie, escluse dal “taglio delle ali” –per le quali opera il c.d. criterio assoluto– e le offerte estreme o marginali, interessate dal “taglio delle ali”, per le quali opera invece il c.d. criterio relativo):
   b) sia di carattere sistematico (connesse alla finalità complessiva di salvaguardare l’interesse pubblico al corretto svolgimento delle gare e a prevenire manipolazioni delle gare e dei relativi esiti, ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso).
9. La tesi dell’appellante assume che, alla luce della formulazione letterale della norma ora contenuta nell’art. 97, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 (diversa rispetto a quella dell’art. 86 d.lgs. n. 86 del 2016) e della sua ragione giustificatrice, la soluzione accolta dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2017 vada rimodulata, venendo meno (con il nuovo Codice degli appalti pubblici e la corrispondente attenuazione dei rischi di manipolazione della gara derivanti da non prevedibilità del metodi di calcolo della soglia di anomalia), le esigenze che avevano portato a un’interpretazione teleologicamente orientata: sicché non vi sarebbe ragione per non privilegiare ora il prioritario criterio letterale, alla cui stregua –in conformità al c.d. criterio assoluto– ogni offerta caratterizzata da identico ribasso andrebbe computata, ai fini del taglio delle ali, singolarmente e non (più) cumulativamente.
10. Detta conclusione muove, in particolare, da un duplice e convergente tratto argomentativo:
   a) per un verso (in negativo) l’abrogazione dell’art. 121 d.P.R. n. 207 del 2010 avrebbe caducato il solo riferimento positivo e testuale al criterio assoluto, così esprimendo un’intenzione del legislatore nei sensi della innovazione;
   b) per altro verso (e in positivo), l’introduzione di una regola anticollusiva e proconcorrenziale (incentrata sulla estrazione a sorte tra più, alternativi criteri di individuazione dell’anomalia e sulla consequenziale “incalcolabilità” preventiva ad opera delle imprese concorrenti) avrebbe eliso la forza e la concludenza dell’argomento teleologico.
11. La tesi in esame non merita condivisione.
12. Devono, al riguardo, richiamarsi le considerazioni sulla base delle quali
questa Sezione (cfr. Cons. Stato, V, 21.06.2018, n. 3821) ha già evidenziato che la regola del c.d. blocco unitario continui a trovare applicazione anche nel vigore del Codice degli appalti pubblici del 2016.
12.1. Anzitutto,
è manifesto che l’abrogazione dell’art. 121 è coerente con la sostituzione del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 con il d.lgs. n. 50 del 2016, non accompagnata da una disciplina secondaria esecutiva ed attuativa (a quella preferendo ora la legge il sistema delle linee guida): il che rende l’abrogazione indifferente rispetto al criterio in esame. Del resto, la citata disposizione regolamentare si limitava ad esplicitare una regola logica che la giurisprudenza amministrativa aveva ricavato dal sistema normativo ancor prima della sua introduzione.
12.2. A sua volta,
l’introduzione di altri strumenti anticollusivi non vale, di suo, a dare per superate le esigenze a suo tempo ritenute da Cons. Stato, Ad. plen., 19.09.2017, n. 5 che privilegiano, perché più confacente allo scopo, il c.d. criterio assoluto.
Per quanto, alla luce della normativa sopravvenuta, appaia meno facile figurare –mediante l’indebito concordamento delle modalità di formalizzazione delle offerte– un’alterazione anticoncorrenziale della determinazione della soglia di anomalia, resta comunque che il criterio del blocco unitario appare convergente al medesimo scopo, la cui rilevanza non è diminuita nel nuovo contesto (nel senso che “la condivisibile ratio ‘antiturbativa’ non [possa] considerarsi venuta meno solo per effetto del complesso meccanismo introdotto dalla novellata disciplina dell’art. 97 del Codice in tema di esclusione automatica, cfr., parere 361/2018 della Commissione speciale di questo Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua, delle linee guida ANAC).
12.3.
Piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior criterio ermeneutico, anche per basilari esigenze di sicurezza giuridica, appare il mantenere, fino a dimostrazione di una volontà contraria del legislatore, l’orientamento della consolidata giurisprudenza e con essa gli acquisiti presidi di funzionalità, di efficienza, di trasparenza e concorrenzialità dei procedimenti di evidenza pubblica.
13.
Tali considerazioni di ordine logico e sistematico impongono dunque di interpretare l’art. (art. 97, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 50 del 2016, coerentemente con la ratio legis e, dunque, in senso sostanziale e non meramente formale o letterale, dovendosi quindi ritenere che il termine “offerte” di maggiore o minore ribasso contenuto nella suddetta norma vada inteso in senso logico e non in senso numerico.
14. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve, pertanto, essere respinto.

APPALTI: Sulla corretta procedura di determinazione della soglia di anomalia delle offerte.
Il Collegio rileva che:
   a) è, anzitutto, manifesto che l’abrogazione dell’art. 121 cit. è coerente con la sostituzione del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 con il d.lgs. n. 50 del 2016, sostituzione avvenuta senza essere accompagnata da una disciplina secondaria esecutiva ed attuativa (a quella preferendo ora la legge il sistema delle linee guida): il che rende l’abrogazione, quanto al criterio in esame, indifferente;
   b) a sua volta, l’introduzione di altri strumenti anticollusivi non vale, di suo, a dare per superate le esigenze a suo tempo ritenute da Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2017 che privilegiano, perché più confacente allo scopo, il criterio c.d. assoluto: per quanto alla luce della normativa sopravvenuta, appaia meno facile figurare –mediante l’indebito concordamento delle modalità di formalizzazione delle offerte– un’alterazione anticoncorrenziale della determinazione della soglia di anomalia, resta comunque che il criterio del blocco unitario appare convergente al medesimo scopo, la cui rilevanza non è diminuita nel nuovo contesto (nel senso che “la condivisibile ratio ‘antiturbativa’ non [possa] considerarsi venuta meno solo per effetto del complesso meccanismo introdotto dalla novellata disciplina dell’art. 97 del Codice in tema di esclusione automatica”, cfr., parere 361/2018 della Commissione speciale di questo Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua, delle linee guida ANAC);
   c) piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior criterio ermeneutico (cui sono altresì sottese, dal lato delle stazioni appaltanti, commendevoli ragioni di certezza operativa) appare il conservare e preservare, fino a dimostrazione dell’espressa od implicita volontà contraria del legislatore, tutti gli acquisiti presidi di funzionalità, di efficienza, di trasparenza e concorrenzialità dei procedimenti di evidenza pubblica.
---------------

... per la riforma della sentenza 02.03.2018 n. 147 del Tar Umbria (Sezione Prima), resa tra le parti;
...
Ritenuto che l’appello –che ripropone la questione, già oggetto di divergenti ricostruzioni interpretative, da ultimo superate dalla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2017, della corretta procedura di determinazione della soglia di anomalia delle offerte, giusta il criterio del c.d. taglio delle ali, per le procedure da aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso– è, in forza delle considerazioni che seguono, fondato e merita di essere accolto;

Considerato che –nell’alternativa tra il criterio del c.d. blocco unitario (c.d. criterio relativo, che impone di considerare, ai fini della determinazione matematica della soglia di anomalia, le offerte con identico ribasso quali offerta unica, vuoi che si collochino al margine delle ali, vuoi che si collochino all’interno delle stesse) e il criterio c.d. assoluto (che impone, all’incontro, la distinta considerazione delle singole offerte, pur quando caratterizzate dal medesimo ribasso)– la richiamata decisione dell’Adunanza plenaria (che peraltro non si pronuncia sulle previsioni –comunque non applicabili ratione temporis al caso deciso– del Codice degli appalti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, in ordine alle quali ha evidenziato la presenza di elementi di continuità e di discontinuità) ha preferito il primo a causa di vari argomenti:
   a) sia di carattere testuale (discendenti dalla comparazione del primo e del secondo periodo dell’articolo 121, comma 1, primo e secondo periodo, del d.P.R. 05.10.2010, n. 207, dal cui confronto emerge la distinzione tra le offerte intermedie, escluse dal ‘taglio delle ali’ –per le quali opera il c.d. criterio assoluto– e le offerte estreme o marginali, interessate dal ‘taglio delle ali’, per le quali opera invece il c.d. criterio relativo):
   b) sia di carattere sistematico (connesse alla finalità complessiva di salvaguardare l’interesse pubblico al corretto svolgimento delle gare e a prevenire manipolazioni delle gare e dei relativi esiti, ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso);
Ritenuto, per contro, che la sentenza appellata ha tratto dalla sopravvenuta abrogazione della normativa regolamentare dell’art. 121 d.P.R. n. 207 del 2010 e dalla riformulazione, nell’art. 97 d.lgs. n. 50 del 2016, dell’abrogato art. 86 d.lgs. n. 163 del 2006, che, sia sul piano letterale che su quello della corrispondente ragione, la soluzione meritasse di essere rimodulata, venendo meno (con l’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti e della corrispondente attenuazione dei rischi di manipolazione della gara derivanti dalla non prevedibilità del metodi di calcolo della soglia di anomalia), le esigenze che avevano portato a un’interpretazione teleologicamente orientata, sicché non vi sarebbe ragione per non privilegiare ora il prioritario criterio letterale, alla cui stregua –in conformità al criterio c.d. assoluto– ogni offerta caratterizzata da identico ribasso andrebbe computata, ai fini del taglio delle ali, singolarmente e non (più) cumulativamente;
Ritenuto che detta conclusione, valorizzata in prime cure, muove da un duplice e convergente tratto argomentativo:
   a) che, per un verso (e in negativo) l’abrogazione dell’art. 121 d.P.R. n. 207 del 2010 avrebbe caducato il solo riferimento positivo e testuale al criterio assoluto, così manifestandosi una intenzione del legislatore nei sensi della sua deliberata modificazione;
   b) che per altro verso (e in positivo), l’introduzione di una regola anticollusiva e proconcorrenziale (incentrata sulla estrazione a sorte tra più, alternativi criteri di individuazione dell’anomalia e sulla consequenziale “incalcolabilità” preventiva ad opera delle imprese concorrenti) avrebbe eliso la forza e la concludenza dell’argomento teleologico;
Considerato per il Collegio che la decisione merita di essere rimodulata, in quanto:
   a) è, anzitutto, manifesto che l’abrogazione dell’art. 121 cit. è coerente con la sostituzione del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 con il d.lgs. n. 50 del 2016, sostituzione avvenuta senza essere accompagnata da una disciplina secondaria esecutiva ed attuativa (a quella preferendo ora la legge il sistema delle linee guida): il che rende l’abrogazione, quanto al criterio in esame, indifferente;
   b) a sua volta, l’introduzione di altri strumenti anticollusivi non vale, di suo, a dare per superate le esigenze a suo tempo ritenute da Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2017 che privilegiano, perché più confacente allo scopo, il criterio c.d. assoluto: per quanto alla luce della normativa sopravvenuta, appaia meno facile figurare –mediante l’indebito concordamento delle modalità di formalizzazione delle offerte– un’alterazione anticoncorrenziale della determinazione della soglia di anomalia, resta comunque che il criterio del blocco unitario appare convergente al medesimo scopo, la cui rilevanza non è diminuita nel nuovo contesto (nel senso che “la condivisibile ratio ‘antiturbativa’ non [possa] considerarsi venuta meno solo per effetto del complesso meccanismo introdotto dalla novellata disciplina dell’art. 97 del Codice in tema di esclusione automatica”, cfr., parere 361/2018 della Commissione speciale di questo Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua, delle linee guida ANAC);
   c) piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior criterio ermeneutico (cui sono altresì sottese, dal lato delle stazioni appaltanti, commendevoli ragioni di certezza operativa) appare il conservare e preservare, fino a dimostrazione dell’espressa od implicita volontà contraria del legislatore, tutti gli acquisiti presidi di funzionalità, di efficienza, di trasparenza e concorrenzialità dei procedimenti di evidenza pubblica;
Ritenuto che, su tali basi, l’appello merita di essere accolto, e con travolgimento della pedissequa condanna al risarcimento del danno, che trae fondamento –nell’appellata sentenza– dall’asserita illegittimità della aggiudicazione. Sicché, in riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va definitivamente respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.06.2018 n. 3821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAEsposizione di auto smantellata.
Il comune che accerta l'occupazione abusiva di un'area da parte di un concessionario di autoveicoli deve ordinare l'immediata cessazione dell'esposizione a cielo aperto. Anche se si tratta di una porzione di terreno posizionata in una zona periferica degradata che è stata curata negli anni grazie all'intervento del commerciante di automobili.

Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la sentenza 09.08.2018 n. 8949.
Un concessionario della periferia romana si è allargato recintando un'area confinante con la sua e posizionando negli anni in questo spazio una vera e propria esposizione di veicoli a cielo aperto.
A seguito di un controllo della polizia municipale di Roma capitale il dirigente capitolino ha ordinato l'immediata cessazione dell'occupazione abusiva e l'interessato ha proposto ricorso contro questa determinazione. Ma senza successo.
Non interessa tanto il fatto che i veicoli in questione siano solo in esposizione e non in vendita, specifica il collegio. Quello che rileva è il fatto che senza alcun titolo il commerciante abbia posizionato dei veicoli su una porzione di terreno per esercitare la sua attività commerciale
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2018).
---------------
MASSIMA
Rileva il Collegio che il presupposto in fatto delle censure dedotte –secondo il quale la ricorrente avrebbe ottenuto l’area in questione in affidamento in custodia a seguito di eventi di rilievo per l’ordine pubblico puntualmente descritti in ricorso– è del tutto recessivo rispetto all’oggetto del provvedimento impugnato, che è rivolto a determinare la cessazione dell’attività di deposito a cielo aperto di autoveicoli, questione che attiene all’utilizzazione in atto dell’area, non alla sua titolarità in capo alla ricorrente stessa.
Quest’ultima trascura di considerare che
la collocazione di autoveicoli in area a cielo aperto in uso all’azienda comporta la qualificazione dell’attività come di deposito, senza che rilevi lo specifico scopo commerciale (che può variare a seconda della natura dell’attività di impresa) ai fini del quale l’esposizione degli automezzi è rivolta e finalizzata (in ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita e la necessità della SCIA, si veda TAR Lazio, II-ter, 18.01.2018 nr. 651; per il rapporto tra l’attività in parola ed il regime del titolo edilizio, si veda, della stessa Sezione, sentenza nr. 11090 del 07.11.2017), con la conseguenza che, ai fini dell’odierno giudizio, l’asserita locazione finanziaria degli autoveicoli medesimi non implica la qualificazione del relativo esercizio in termini di attività finanziaria sottratta all’applicazione dell’art. 19 della l. 241/1990 (quanto al regime delle attività semplificate, però, non nei termini della possibilità di esercitare senza alcun titolo).
In ogni caso, non sussiste dimostrazione alcuna né della titolarità dell’affidamento dell’area in custodia che parte ricorrente afferma, ma non comprova, di avere ricevuto (peraltro da funzionari di altra amministrazione, non proprietaria dell’area, né titolare di poteri di amministrazione attiva di tipo territoriale); né della circostanza, del pari meramente affermata, secondo la quale sarebbe stata comunicata l’attività di collocazione della recinzione (ciò rileva sia ai fini della decorrenza dei termini di cui alla seconda censura,
sia al fine di valutare la regolarità edilizia della recinzione, che, pertanto, allo stato va ritenuta insussistente, dal momento che il relativo regime dipende dalle caratteristiche tipologiche e rimane esclusa la necessità di un titolo solo in caso di modesta consistenza senza opere murarie di alcun genere, vedasi da ultimo Consiglio di Stato, IV 15.12.2017, n. 5908).
Nessuna delle censure dedotte può quindi trovare accoglimento, stante l’irrilevanza della natura finanziaria o meno dell’attività, nonché essendo palese l’insussistenza di qualsiasi legittimo affidamento (difettando un provvedimento di assegnazione dell’area come pure un titolo per la sua trasformazione), ed avendo riguardo alla completezza dell’istruttoria condotta dall’ufficio (che aveva richiesto di dimostrare il titolo dell’assegnazione dell’area).
Quanto agli ulteriori profili inerenti le spese eseguite dalla ricorrente sull’area, deve affermarsi che l’espletamento di fatto dell’attività sull’area ed il relativo possesso, ancorché prolungato, non costituiscono titolo per il permanere dell’occupazione dell’area pubblica ai fini del deposito a cielo aperto; ogni questione inerente il rapporto economico tra il valore e l’utilità dell’occupazione, anche sotto il profilo della tutela di ordine pubblico della zona, si colloca in fase esecutiva della determinazione impugnata ed attiene allo stato a poteri non ancora esercitati (non risultando avanzata dalla ricorrente alcuna richiesta di indennizzo o di risarcimento, né, di converso, adottata alcuna determinazione in merito da parte dell’Amministrazione), con conseguente impossibilità per il giudice di pronunciarsi al riguardo.
Resta salva, naturalmente, l’azione della PA cui compete di valutare, nel procedimento amministrativo, ogni eventuale istanza che il privato riterrà di proporre ai fini della valutazione del valore delle opere eseguite.
Il ricorso è quindi infondato e come tale va respinto, con ogni conseguenza in ordine alle spese di lite che si liquidano come in dispositivo.

EDILIZIA PRIVATA: In ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto di veicoli, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita e la necessità della SCIA.
Ai fini del decidere appaiono rilevanti i presupposti di fatto e le determinazioni assunti con l’ordinanza impugnata e, quindi, gli aspetti qualificanti la specifica attività svolta sul terreno, consistente in un deposito a cielo aperto di veicoli che “non può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene, partendo dalla qualificazione dell’attività come descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere con il Comune e non deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle modalità di esecuzione del servizio, come indicate nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio (con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del capitolato) costituisce componente necessaria per l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma (trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la disponibilità).
Sicché, non è possibile equiparare l’attività della ricorrente riguardo il deposito-stazionamento degli automezzi da adibire per il predetto servizio a quella del soggetto privato che parcheggia la propria vettura nel garage di casa o su un terreno in locazione per tale scopo, come sostenuto, ipotesi non necessarie di autorizzazione.
Nella specie, va rilevato che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi (che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa, come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d. Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l’interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post.
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative alla violazione della normativa in materia di c.d. Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza in materia secondo cui il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella relativa legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza dei lavoratori”.
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di attività che necessita di un pubblico controllo ed involge la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che dagli atti di causa non risulta in modo evidente che nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
---------------

2. La controversa vicenda è volta all’annullamento dell’ordinanza n. 9 del 29.07.2016 emessa dal Comune di Fiumicino nei confronti della società ricorrente nonché della successiva nota prot. n. 21802 del 12.08.2016 di rigetto dell’istanza di riesame proposta dalla società.
In particolare con l’ordinanza il Comune ha disposto a carico della società ricorrente la cessazione dell’attività abusivamente intrapresa di deposito a cielo aperto di veicoli (mezzi Ama) su terreno in locazione, in quanto attività sprovvista della prescritta autorizzazione amministrativa o segnalazione certificata di inizio attività Scia ex art. 19 della legge n. 241 del 1990, previa contestazione con nota n. 28020/16 della violazione dell’art. 33 del Reg. di P.U.
2.1. Osserva il Collegio che la contestazione di fondo della ricorrente, come sopra riportato, verte sul profilo della carenza di motivazione, sul travisamento dei fatti e la carenza di istruttoria e sulla erronea valutazione del Comune riguardo la pretesa Scia per il deposito dei veicoli, in quanto non si tratterebbe di attività abusiva di deposito di veicoli da considerare “merce” per l’esercizio dell’attività, come tale soggetta a Scia, ma di uno stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere con il Comune di Roma.
Preliminarmente occorre perimetrare l’oggetto del contendere che non attiene ai profili urbanistico-edilizi del terreno, abusivamente modificato da lavori eseguiti sullo stesso, risultando ininfluenti i riportati tratti del parallelo contenzioso presso il g.o., puntualmente svolti in fatto dalla ricorrente, in quanto ai fini del decidere appaiono rilevanti i presupposti di fatto e le determinazioni assunti con l’ordinanza impugnata e, quindi, gli aspetti qualificanti la specifica attività svolta sul terreno, consistente in un deposito a cielo aperto di veicoli che “non può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene partendo dalla qualificazione dell’attività come descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere con il Comune di Roma e non deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle modalità di esecuzione del servizio, come indicate nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio (con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del capitolato) costituisce componente necessaria per l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma (trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la disponibilità).
Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente non è possibile equiparare l’attività della ricorrente riguardo il deposito-stazionamento degli automezzi da adibire per il predetto servizio a quella del soggetto privato che parcheggia la propria vettura nel garage di casa o su un terreno in locazione per tale scopo, come sostenuto, ipotesi non necessarie di autorizzazione; nella specie, va rilevato che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi (che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa, come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d. Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l’interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 05.07.2016, n. 7707; idem, 02.11.2016, n. 10809; Tar Campania, Napoli, sez. II, 25.07.2016, n. 3869; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 09.02.2017, n. 203).
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative alla violazione della normativa in materia di c.d. Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza in materia secondo cui il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell'attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella relativa legislazione a tutela del bene “salute” e della “sicurezza dei lavoratori” (cfr. Corte Cost. 23.01.2013, n. 8).
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di attività che necessita di un pubblico controllo ed involge la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che dagli atti di causa non risulta in modo evidente che nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
Per quanto riguarda, infine, il difetto di motivazione dell’impugnato provvedimento il Collegio osserva che l’atto de quo non presenta deficit motivazionale in ragione dell’indicato presupposto di fatto accertato (attivazione di attività con deposito senza autorizzazione o Scia) nonché dei richiami normativi contenuti; inoltre la natura vincolata del provvedimento fa sì che lo stesso sconti in sede procedimentale la sola verifica di conformità al paradigma normativo di riferimento; sicché, ogni vizio di carattere formale e/o procedimentale non assume nella fattispecie valore viziante (art. 21-octies, L. n. 241 del 1990).
In definitiva, il ricorso è infondato e va, dunque, respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 18.01.2018 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita ed il regime del titolo edilizio.
La regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile che ospita l’attività commerciale è una delle condizioni oggettive di quest’ultima, in assenza della quale l’Amministrazione esercita i propri poteri di intervento conseguenti alla mancanza dei requisiti dell’attività privata.
---------------
La trasformazione di un manufatto ai fini dell’individuazione della corretta disciplina edilizia ed urbanistica, va apprezzata nella sua globalità e nell’assetto finale della sua consistenza, senza che sia possibile scindere il risultato unitario nelle singole operazioni che lo compongono (così da sostituire il permesso a costruire con la somma di singole operazioni edilizie da assoggettarsi a DIA o SCIA), con conseguente insufficienza della DIA relativa alla sola recinzione a consentire l’uso dell’intera area come deposito.
---------------
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art. 3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e comporti la trasformazione permanente dello stato dei luoghi, necessita del permesso di costruire, non essendo riconducibile al regime delle pertinenze.
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile: le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite al momento della presentazione della SCIA di avvio e se queste difettano perché –in tesi– sono state operate trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla condizione dell’immobile e non si verte intorno a provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento della responsabilità del soggetto agente.
---------------

Nell’odierno giudizio, parte ricorrente agisce per l’annullamento degli atti impugnati con i quali l’Amministrazione intimata ha dichiarato l’inefficacia della SCIA di avviamento dell’attività commerciale della ricorrente stessa, nel presupposto della mancanza di conformità urbanistica dell’immobile nel quale è condotta.
Prima di procedere all’esame delle ragioni di censura, è bene premettere che la regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile che ospita l’attività commerciale è una delle condizioni oggettive di quest’ultima, in assenza della quale l’Amministrazione esercita i propri poteri di intervento conseguenti alla mancanza dei requisiti dell’attività privata (da ultimo, vedasi TAR Lazio, II-ter, 16.06.2017, nr. 07097 e 19.09.2017, nr. 9820/2017, nonché richiami ivi contenuti).
Nel caso di specie, secondo l’Amministrazione l’uso dell’area utilizzata dalla ricorrente per l’esposizione a cielo aperto di veicoli destinati alla vendita avrebbe necessitato di un permesso a costruire, a mente del combinato disposto di cui all’art. 3, punto 1- lett. 7 del DPR 380/2001 (applicabile ratione temporis), sussistendo trasformazione del suolo.
L’effettiva sussistenza di tale ultima condizione è stata l’oggetto dell’indagine svolta a seguito della fase cautelare.
Alla luce delle risultanze di giudizio, il ricorso si rivela infondato e come tale va respinto.
Dagli atti depositati da parte di Roma Capitale, emerge che, con DD del 17.01.2005, a seguito di sopralluogo dell’08.11.2004 e con DD n. 53 del 13.01.2006 era stata riscontrata la realizzazione abusiva di un manufatto prefabbricato in legno di circa mq 30 (uso ufficio); un secondo manufatto, sempre prefabbricato, di circa 16,00 mq, con antistante veranda (uso ufficio); una tettoia in legno e pilastri infissi a terra per circa 72 mq, adibita a lavorazione del legno; un box prefabbricato in legno, adibito a magazzino, per circa 15,0 mq.
Sull’area di interesse sussisteva, dunque, una pregressa situazione di abusivismo che ha comportato l’emanazione della DD di demolizione e ripristino nr. 53 del 13.01.2006, di cui però non si conosce l’esito.
Dal sopralluogo effettuato il 26.10.2016 emerge la presenza di un primo manufatto di circa 28,00 mq, che la parte ricorrente dichiara di aver chiesto di sanare, producendo poi, da ultimo, il relativo provvedimento nr. 383540 del 23.06.2017.
Quanto a tale aspetto, deve convenirsi con Roma Capitale circa l’irrilevanza della sanatoria del fabbricato, posto che si tratta di un elemento della fattispecie sopravvenuto rispetto agli atti impugnati (e dunque dovrà eventualmente tenersene conto in esito all’eventuale riproposizione di una istanza da parte della ricorrente, in quella sede verificando la pertinenza o meno del manufatto rispetto all’area di interesse); in ogni caso, dal confronto tra la descrizione degli abusi edilizi oggetto dei provvedimenti di demolizione sopra indicati e la descrizione degli abusi oggetto del provvedimento di sanatoria da ultimo intervenuto, non si evince una perfetta corrispondenza, e dalle risultanze del sopralluogo emerge la presenza di un secondo manufatto (di mt. 1,50 x 1,50), del quale non risultano i titoli edilizi. Altresì risulta, sempre dal sopralluogo, la realizzazione di un impianto di illuminazione e l’adeguamento del selciato con collocazione di materiale inerte, opere che implicano, di per sé, trasformazione del suolo.
Si aggiunga che –differenza di quanto dichiarato dalla ricorrente nell’apposita asseverazione– l’area è gravata dal vincolo paesaggistico ed archeologico (nota prot. 194799/2015 del 10.11.2015), circostanza in ordine alla quale non risultano efficaci controdeduzioni sostanziali.
Pertanto, anche ad attenersi alla sola situazione descritta nel sopralluogo da ultimo svolto in contraddittorio (dal momento che, per quanto sopra indicato, non è chiaro se i manufatti oggetto degli accertamenti operati nel 2004 sono stati demoliti a seguito della DD nr. 53/2006 e, laddove persistano, siano inclusi nell’area oggetto della SCIA), è infondata la principale censura di gravame secondo cui non sarebbe stato necessario il permesso di costruire ai fini della regolarità urbanistica dell’immobile, rendendosi invece necessario quest’ultimo.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, peraltro, la trasformazione di un manufatto ai fini dell’individuazione della corretta disciplina edilizia ed urbanistica, va apprezzata nella sua globalità e nell’assetto finale della sua consistenza, senza che sia possibile scindere il risultato unitario nelle singole operazioni che lo compongono (così da sostituire il permesso a costruire con la somma di singole operazioni edilizie da assoggettarsi a DIA o SCIA; vedasi TAR Lazio, II-ter, 13.07.2016, nr. 8058 e 16.06.2017, nr. 7092; v. anche TAR Napoli, VIII 08.11.2012 n. 4496), con conseguente insufficienza della DIA relativa alla sola recinzione a consentire l’uso dell’intera area come deposito.
Nessuna delle censure o degli argomenti dedotti a sostegno, può quindi trovare condivisione.
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art. 3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e comporti la trasformazione permanente dello stato dei luoghi necessita del permesso di costruire, non essendo riconducibile al regime delle pertinenze (vedasi, tra le tante, Cass. pen. Sez. III, sent. n. 6593 del 24.11.2011; Sez. III, n. 8064 del 02.12.2008; Tar Piemonte, Torino, 18.01.2017, n. 134).
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile: le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite al momento della presentazione della SCIA di avvio e se queste difettano perché –in tesi– sono state operate trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla condizione dell’immobile e non si verte intorno a provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento della responsabilità del soggetto agente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 07.11.2017 n. 11090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

INCARICHI PROGETTUALIStop ai bandi pubblici senza compenso per il professionista. Dal Tar Calabria stop ai bandi pubblici gratis.
A ribadire il concetto è il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, che, con la sentenza 02.08.2018 n. 1507, ha annullato la delibera della giunta del comune di Catanzaro n. 33 del 17.02.2016 dedicata alla realizzazione del piano strutturale comunale.
La sentenza del tribunale è contraria a quanto dichiarato dal Consiglio di stato con la sentenza 4614/2017, che aveva dichiarato legittimo il bando emesso dal comune calabrese.
Il bando in questione, e la successiva sentenza del Cds, sono state tra le cause scatenanti della manifestazione organizzata dalle varie categorie alla fine del 2017 per la definizione di una norma per tutelare i compensi dei lavoratori autonomi e alla conseguente riapertura della discussione sul tema, conclusasi poi con l'approvazione della norma sull'equo compenso per i professionisti avvenuta con la legge di bilancio 2017.
Il tribunale amministrativo ha accolto il ricorso contro il bando comunale presentato da un ingegnere, peraltro neanche abilitato a poter prendere parte alla gara. Il ricorso si basava sul fatto che, per l'espletamento delle attività preposte nel bando, non vi fosse previsto un compenso per il professionista incaricato ma solo un rimborso spese (seppur di 250 mila euro).
Secondo il tribunale la gratuità del bando non è legittima perché in violazione del codice degli appalti (dlgs 50/2016), in particolare nella parte in cui viene stabilita l'essenziale onerosità degli appalti pubblici e l'illegittimità di quelli che prevedano solo forme di rimborso spese o di forme di compenso non finanziarie.
Se il codice degli appalti è il pilastro su cui si basa la sentenza del Tar Calabria, nel dispositivo viene fatto uno specifico riferimento alla norma sull'equo compenso approvata in legge di bilancio. La disposizione non può trovare applicazione nel caso in questione, in quanto avvenuto prima dell'approvazione della norma.
Però «le ricordate disposizioni (equo compenso), non direttamente applicabili alla vicenda in esame, nondimeno lasciano emergere come nell'ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo, una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto»
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2018).
----------------
MASSIMA
1. – Gi.An., ingegnere, ha impugnato d’innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale il bando e il disciplinare di gara con i quali il Comune di Catanzaro ha messo a gara l’affidamento dell’incarico per la redazione del nuovo piano strutturale comunale, nonché le delibere prodromiche all’indizione della gara.
Con motivi aggiunti egli ha impugnato anche gli atti attraverso i quali si è giunti all’affidamento dell’incarico al R.T.I. St.As. d:rh architetti ed associati / Cr. S.r.l. Società di Ingegneria.
...
6. – Gi.An. ha impugnato la legge speciale di gara anche nella parte in cui prevede che l’incarico sia a titolo gratuito, salvo un rimborso delle spese sino ad un ammontare massimo di € 250.000,00.
6.1. – Egli ritiene che tale clausola sia illegittima sotto vari profili e, in particolare, si ponga in contrasto con le norme del codice civile e del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, dalle quali si ricaverebbe l’essenziale onerosità degli appalti pubblici.
Tale illegittimità precluderebbe una seria partecipazione alla gara e, pertanto, potrebbe essere fatta valere impugnando immediatamente il bando di gara, senza la necessità di presentare domanda di partecipazione alla procedura.
6.2. –
Il Collegio conviene che la clausola che preveda la gratuità della prestazione in favore dell’amministrazione pubblica sia, ove effettivamente risulti essere illegittima, immediatamente lesiva della posizione giuridica soggettiva dell’operatore che, pur essendo interessato a svolgere il servizio, non intenda prestare gratuitamente la propria opera.
Si tratta, invero, di una clausola preclusiva della partecipazione, in quanto impedisce di presentare un’offerta economicamente valida a colui che non intenda prestare gratuitamente la propria opera.
La clausola è, pertanto, immediatamente impugnabile e Gi.An., pur non avendo partecipato alla procedura, è legittimato a ricorrere al giudice amministrativo per farne valere l’illegittimità.

7. – Nel merito della questione,
il Tribunale, pur consapevole del diverso avviso espresso dal giudice dell’appello (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.10.2017, n. 4614), ritiene di dover ribadire il proprio orientamento, espresso con la sentenza del 13.12.2016, n. 2435, con la quale, su ricorso degli ordini professionali interessati, era stato ritenuto illegittimo proprio il bando nuovamente oggetto di sindacato.
8. – Possono dunque richiamarsi le motivazioni già rassegnate, con cui è stata data risposta negativa alla questione giuridica concernente la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero “atipico” rispetto alla disciplina normativa di cui al d.lgs. n. 50 del 2016.
9. – In effetti,
la qualificazione dell’oggetto della gara in esame –peraltro formalmente riconosciuta dalla stessa Amministrazione nel richiamo alle diverse norme del d.lgs. n. 50 del2016– quale appalto di servizi è desumibile dalla natura imprenditoriale che si richiede all’organizzazione delle risorse, soprattutto umane, da parte dell’operatore economico partecipante, in considerazione della peculiare complessità dell’oggetto della specifica organizzazione e dalla predeterminazione della sua durata (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2012, n. 2370; Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2000, n. 1019).
L’affidamento ha infatti ad oggetto la “elaborazione, stesura e redazione integrale del Piano Strutturale del Comune di Catanzaro” e di tutte le norme, discipline, atti, piani, programmi e accordi di governo del territorio, di settore e di programmazione, comunque correlati (ivi compresa la redazione del regolamento edilizio e urbanistico); ovvero la redazione di un atto di pianificazione territoriale, compresa la relativa necessaria “Valutazione Ambientale Strategica”, che non tenga conto solo del profilo urbanistico, ma anche dei diversi profili connessi (specificatamente indicati: geologici, idrogeologici, sismici, ambientali, culturali, tecnologici, storico-architettonici, socio-demografici, economici); la natura organizzativo-imprenditoriale è peraltro imposta dalla stessa stazione appaltante che richiede specificamente all’operatore di avvalersi di una pluralità di figure professionali, specializzate in funzione delle diverse competenze tecniche richieste dalla particolare complessità del servizio di progettazione (cfr. art. 1, lett. b, n. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, del capitolato speciale di appalto.
L’appalto pubblico di servizi rientra, come è noto, nella categoria dei “contratti speciali di diritto privato” connotata da una disciplina, di derivazione europea, derogatoria dei contratti di diritto comune, in ragione degli interessi pubblici sottesi e della natura soggettiva del contraente pubblico, e che trova la sua principale fonte nel cd. Codice di Contratti Pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016). Non vi è dubbio che, alla stregua di tale normativa speciale, il contratto di appalto sia contraddistinto dalla necessaria “onerosità” e sinallagmaticità delle prestazioni, essendo connotato sia dalla sussistenza di prestazioni a carico di entrambe le parti che dal rapporto di reciproco scambio tra le stesse.
E’ sufficiente sul punto richiamare la definizione normativa di cui all’art. 3, co. 1, lett. ii), di “appalti pubblici” di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 quali contratti a titolo oneroso e stipulati per iscritto; e, quanto alla tipologia dei “servizi di architettura ed ingegneria e altri servizi tecnici” alla definizione rinvenibile nell’art. 3 lett. vvvv) come quelli “riservati ad operatori economici esercenti una professione regolamentata ai sensi dell’art. 3 della Direttiva 2005/36/CE”.
A tale specifica tipologia di servizi fa inoltre riferimento anche la norma di cui all’art. 95, co. 3, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016 che stabilisce come obbligatorio il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, nell’ipotesi di contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura, e degli altri servizi di natura tecnica ed intellettuale, di importo superiore a € 40.000,00, così confermando la necessità che sia specificato il valore della prestazione richiesta, ovvero che sia previsto come elemento essenziale del contratto il corrispettivo.

Sul punto, come correttamente rappresentato da parte ricorrente, assumono particolare rilievo le linee guida n. 1 e 2 adottate dall’ANAC, rispettivamente con delibera del 14 e del 21.09.2016.
Con le prime, recanti Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, e dirette a garantire la promozione dell’efficienza, della qualità delle stazioni appaltanti, della omogeneità dei procedimenti amministrativi ex art. 213, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, si sottolinea l’esigenza che il corrispettivo degli incarichi e servizi di progettazione ai sensi dell’art. 157 del Codice degli Appalti venga determinato secondo criteri fissati dal decreto del Ministero della Giustizia 17.06.2016 “nel rispetto di quanto previsto dall’art. 9, co. 2, del decreto 24.01.2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla Legge 24.03.2012 n. 27, così come ulteriormente modificato dall’art. 5 della legge 134/2012”, al fine di garantire anche il controllo da parte dei potenziali concorrenti della congruità della remunerazione”.
Con le Linee Guida n. 2 “Offerta economicamente più vantaggiosa”, si specifica che la valutazione dell’offerta sulla base di un prezzo o costo fisso è ammessa solo entro i limiti rigorosi dell’art. 95, comma 7, del Codice, ovvero o nell’ipotesi in cui esso sia rinvenibile sulla base di “disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative al prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di servizi specifici”, o, in mancanza, “valutando con attenzione le modalità di calcolo o di stima del prezzo o costi fisso. Ciò al fine di evitare che il prezzo sia troppo contenuto per permettere la partecipazione di imprese “corrette” o troppo elevato, producendo danni per la stazione appaltante”; fermo restando, in questa ultima ipotesi, l’obbligo di un particolare impegno motivazionale dal quale emerga l’iter logico comunque seguito per la determinazione del prezzo fisso, a garanzia della imparzialità della scelta del contraente e in generale dell’obiettivo che la concorrenza si svolga nel rispetto della sostenibilità economica e quindi “serietà” delle offerte.
La necessaria predeterminazione del prezzo del servizio oggetto di appalto, anche quando tale componente quantitativa sia valutata unitamente a quella qualitativa, nell’ottica del legislatore sia nazionale che europeo, è funzionale a garantire il principio di qualità della prestazione e della connessa affidabilità dell’operatore economico, rispetto al quale va contemperato e per certi versi anche “misurato” il principio generale di economicità, cui solo apparentemente sembra essere coerente il risparmio di spesa indotto dalla natura gratuita del contratto di appalto “atipico”.
Il principio della qualità delle prestazioni che l’amministrazione aggiudicatrice intende acquistare sul mercato e che, in termini economici, si traduce nella “serietà” dell’offerta sotto il profilo quantitativo, è infatti alla base della regolamentazione specifica dell’anomalia dell’offerta (ora disciplinata dall’art. 97 del Codice degli Appalti), poiché, anche nella prospettiva del perseguimento da parte dell’amministrazione del “risparmio di spesa”, le offerte che appaiono “anormalmente basse rispetto ai lavori, alle forniture o ai servizi potrebbero basarsi su valutazioni o prassi errate dal punto di vista tecnico, economico o giuridico” (considerando 103 della Direttiva 2014/24 UE), così rischiando di rivelarsi, nel lungo periodo, poco convenienti, foriere di ritardi, inadempimenti, contenziosi giurisdizionali (cfr. Corte Cost. 05.03.1998 n. 40 i cui principi sono applicabili anche nel vigore delle norme attuali; cfr. anche TAR Lombardia–Brescia, Sez. I, 09.07.2007 n. 621).
10. – Alla luce della natura essenzialmente onerosa del contratto di appalto pubblico di servizi, devono ritenersi pertanto fondate le censure di violazione delle norme del Codice degli appalti sopra indicate, che, come indicato in premessa, costituiscono applicazioni specifiche del principio di onerosità del contratto di appalto di servizi.
11. – Per mera completezza di motivazione pare opportuno aggiungere che ad una diversa figura contrattuale, quella del contratto di opera di prestazione professionale intellettuale ex art. 2230 e ss.cc. si riferisce invece la delibera della Corte dei Conti sezione regionale di controllo per la Calabria del 29.01.2016 n. 6, cui rinvia espressamente la determinazione del Comune del 24.10.2016, n. 3059.
La considerazione che, almeno per una parte della giurisprudenza civilistica, il corrispettivo in tale tipo contrattuale sia considerato quale elemento “naturale” e non essenziale del contratto non rileva nel caso di specie, poiché, anche alla stregua della disciplina civilistica, il contratto in controversia deve essere invece qualificato come appalto di servizi, poiché connotato dalla organizzazione dell’attività di servizi in forma imprenditoriale (cfr. Cass. 12519/2010); in quanto tale “tipicamente” oneroso e commutativo anche secondo la disciplina civilistica, come attestato dall’art. 1657 c.c. che, in caso di mancata determinazione del corrispettivo, rimette in via sussidiaria tale determinazione al giudice; né il contratto di appalto pubblico di servizi “gratuito” potrebbe essere configurato facendo leva sulla generale capacità dell’amministrazione di stipulare contratti atipici ex art. 1322 c.c., la quale deve essere comunque esercitata compatibilmente la realizzazione degli interessi pubblici, ostandovi, da un lato, la natura “speciale” e vincolante della disciplina pubblicistica dei contratti di appalto; dall’altro, la considerazione che, proprio alla luce dei principi di imparzialità, tutela della concorrenza ed economicità dell’azione amministrativa cui risponde il requisito della “onerosità” del contratto di appalto di servizi come sopra indicato, il contratto di appalto pubblico di servizi “atipico” perché gratuito non supererebbe comunque il vaglio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2 c.c..
12. – Riportate, ai §§ 9-11, le motivazione della sentenza del 13.12.2016, n. 2435, si intende operare qualche ulteriore riflessione, anche alla luce delle sopravvenienze normative, che a parere del Collegio avvalorano la soluzione cui in quella sede si era giunti.
12.1. – In primo luogo, con la l’art. 12 l. 22.05.2017 n. 81, la quale reca “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, è stato imposto alle amministrazioni pubbliche di promuovere la partecipazione dei lavoratori autonomi nelle gare di appalti pubblici per la prestazione di servizi o ai bandi per l’assegnazione di incarichi. In tal modo, viene espressamente riconosciuto un notevole rilievo ai lavoratori autonomi nella dinamica delle relazioni economiche.
12.2. – Più significativamente, la l. 04.12.2017, n. 172, nel convertire d.l. 16.10.2017, n. 148, vi ha inserito l’art. 19-quaterdecies, il quale, al comma 3, stabilisce che la pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della citata legge di conversione.
Il compenso si intende equo, ai sensi del comma 2 dell’art. 13-bis l. 31.12.2012, n. 247, che proprio il citato art. 19-quaterdecies ha introdotto e reso applicabile a tutti i professionisti, se è proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione.
12.3. – Le ricordate disposizioni, non direttamente applicabili –lo si ribadisce– alla vicenda in esame, nondimeno lasciano emergere come
nell’ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro.
Non a caso, l’art. 35 Cost. tutela il lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto alla retribuzione, non discrimina tra le varie forme di lavoro.
12.4. – Ebbene,
la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto a tale affresco, tenuto conto che non ogni servizio prestato reca con se vantaggi curricolari e di immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali da soddisfare il diritto a un equo compenso.
Ciò, invero, pare al Collegio avvalorare la ricostruzione del sistema adottata da questo Tribunale.
13. – In conclusione, il ricorso va accolto e gli atti oggetto di impugnazione annullati.
Le parti non hanno dedotto che sia stato stipulato il contratto tra l’amministrazione e il soggetto aggiudicatario, cosicché non occorre su di esso pronunziare.

COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla competenza, o meno, di un ingegnere meccanico in materia di pianificazione urbanistica e territoriale.
Sino alla riforma dell’Albo degli ingegneri, avvenuta con gli artt. 45 ss. d.P.R. 05.06.2001, n. 328, la professione di ingegnere era unitaria.
Colui che era laureato in ingegneria meccanica, dunque, poteva, una volta superato l’esame di abilitazione alla professione e una volta iscritto all’Albo, esercitare la professione di ingegnere che, ai sensi dell’art. 51 r.d. 23.10.1925, n. 2537, ricomprende “il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”.
Con il citato d.P.R. n. 328 del 2001 è stata prevista la ripartizione dell’Albo in due sezioni, la A (per coloro che abbiano conseguito la laurea magistrale) e la B (per coloro che abbiano conseguito la laurea triennale). Entrambe le sezioni sono articolate in tre settori: civile e ambientale; industriale; dell’informazione.
Ai sensi dell’art. 49 del testo normativo, coloro che già appartenevano all'Ordine degli ingegneri al momento della riforma dell’Albo sarebbero stati iscritti nella sezione A dell'albo degli ingegneri, nonché nel settore, o nei settori, per il quale ciascuno di essi dichiara di optare.

----------------
MASSIMA
1. – Gi.An., ingegnere, ha impugnato d’innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale il bando e il disciplinare di gara con i quali il Comune di Catanzaro ha messo a gara l’affidamento dell’incarico per la redazione del nuovo piano strutturale comunale, nonché le delibere prodromiche all’indizione della gara.
Con motivi aggiunti egli ha impugnato anche gli atti attraverso i quali si è giunti all’affidamento dell’incarico al R.T.I. St.As. d:rh architetti ed associati / Cr. S.r.l. Società di Ingegneria.
...
5. – Venendo all’esame dei motivi di ricorso, occorre interrogarsi sulla legittimazione del ricorrente a proporre l’azione oggi in esame.
5.1. – Va premesso, in proposito, che Gi.An. non ha partecipato alla gara.
Egli, infatti, ha conseguito nel 1955 la laurea in ingegneria meccanica, mentre il disciplinare di gara prevede che il progettista responsabile del gruppo di progettazione sia in possesso della laurea in pianificazione urbanistica e territoriale o in architettura o in ingegneria civile.
In proposito, ritiene il Collegio che non si si possa ritenere l’equipollenza tra la laurea in ingegnera meccanica conseguita dal ricorrente e quelle richieste dal bando.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, ove il bando richieda per la partecipazione ad un pubblico concorso il possesso di un determinato titolo di studio o di uno ad esso equipollente, la determinazione dello stesso deve essere intesa in senso tassativo, con riferimento alla valutazione di equipollenza formulata da un atto normativo e non può essere integrata da valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post dall'amministrazione (Cons. Stato, Sez. V, 06.12.2012, n. 6260; TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, 21.06.2007, n. 1677).
Ebbene, nel caso di specie nessuna norma sancisce l’equipollenza tra le due lauree in considerazione.
Dunque, il ricorrente non avrebbe potuto partecipare alla procedura di gara quale responsabile della progettazione, in quanto la laurea da lui conseguita non può essere considerata equipollente a quelle richieste dal bando.
5.2. – Ancorché non abbia partecipato alla procedura di gara, Gi.An. dunque legittimato a impugnare la clausola del disciplinare di gara, che risulta escludente nei suoi confronti (il principio è stato da ultimo ribadito da Cons. Stato, Ad Plen., 26.04.2018, n. 4).
5.3. – Sempre in via preliminare va affermato che, benché il bando e il disciplinare di gara siano stati preceduti da una delibera di Giunta comunale e da alcune determinazioni dirigenziali, pure fatte oggetto di impugnative da parte del ricorrente, è solo lex specialis di gara ad avere rilevanza esterna.
La tempestività dell’impugnazione, contestata dal Comune di Catanzaro, va dunque verificata in ragione della pubblicazione di tali atti, nel caso di specie avvenuta in data 24.10.2016,
Il ricorso, portato alla notifica il 22.11.2016, è pertanto tempestivo.
5.4. – Nel merito, il ricorrente contesta la previsione del disciplinare di gara avente effetto escludente nei suoi confronti, in quanto sarebbe irragionevole e si porrebbe in contrasto con l’art. 49 d.P.R. 05.06.2001.
5.5. – Va rilevato che, sino alla riforma dell’Albo degli ingegneri, avvenuta con gli artt. 45 ss. d.P.R. 05.06.2001, n. 328, la professione di ingegnere era unitaria.
Colui che era laureato in ingegneria meccanica, dunque, poteva, una volta superato l’esame di abilitazione alla professione e una volta iscritto all’Albo, esercitare la professione di ingegnere che, ai sensi dell’art. 51 r.d. 23.10.1925, n. 2537, ricomprende “il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”.
Con il citato d.P.R. n. 328 del 2001 è stata prevista la ripartizione dell’Albo in due sezioni, la A (per coloro che abbiano conseguito la laurea magistrale) e la B (per coloro che abbiano conseguito la laurea triennale). Entrambe le sezioni sono articolate in tre settori: civile e ambientale; industriale; dell’informazione.
Ai sensi dell’art. 49 del testo normativo, coloro che già appartenevano all'Ordine degli ingegneri al momento della riforma dell’Albo sarebbero stati iscritti nella sezione A dell'albo degli ingegneri, nonché nel settore, o nei settori, per il quale ciascuno di essi dichiara di optare.
Dalla documentazione in atti risulta che l’odierno ricorrente è allo stato iscritto all’Albo degli Ingegneri, Sezione A, per tutti i settori previsti dalla legge.
Egli, pertanto, può, sin dalla sua iscrizione all’Albo –avvenuta nel 1956– svolgere l’attività di ingegnere civile.
5.6. – La previsione del disciplinare di gara oggetto di censura, da parte sua, non tiene conto dell’evoluzione normativa, escludendo dalla partecipazione alla gara chi, come il ricorrente, legittimamente esercita l’attività di ingegnere civile, sol perché ha conseguito la laurea sotto un regime normativo diverso, che non differenziava così nettamente come fa la legislazione attuale, le varie branche dell’ingegneria.
Tale esclusione è evidentemente irragionevole e si pone in contrasto con l’art. 49 d.P.R. n. 328 del 2001, il quale ha dettato una specifica disciplina transitoria per salvaguardare la posizione di chi si sia laureato e abbia avviato la propria attività di ingegnere sotto il precedente regime normativo.
5.7. – Il ricorso è sul punto fondato, essendo illegittima la previsione del disciplinare di gara che, all’art. 3.b.1., prevede che il soggetto responsabile del gruppo di progettazione sia in possesso della laurea in pianificazione urbanistica e territoriale, o in architettura o in ingegneria civile e non consente la partecipazione alla gara quali responsabili del gruppo di progettazione a coloro che siano iscritti all’Albo degli ingegneri, Sezione A, settore ingegneria civile e ambientale pur non avendo conseguito la laurea in ingegneria civile (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, la sentenza 02.08.2018 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAL'Iva agevolata per le manutenzioni delle abitazioni (articolo ItaliaOggi Sette del 13.08.2018).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Informative in consiglio. Legittime le comunicazioni del presidente. Il loro contenuto va verbalizzato a tutela dei diritti dei consiglieri.
In materia di funzionamento del consiglio comunale, è legittima la norma regolamentare che affida al presidente del consiglio comunale la facoltà di eventuali comunicazioni proprie o della giunta sull'attività del comune e su fatti ed avvenimenti di particolare interesse per la comunità, lasciando ai singoli gruppi solo il diritto di replica, senza possibilità, per i consiglieri, di introdurre questioni nuove? Tale disposizione, consentendo al presidente di allargare l'ordine del giorno senza verificare la presenza e l'accettazione dell'unanimità degli altri componenti del consiglio, potrebbe presentare profili di illegittimità?
L'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, stabilisce che il funzionamento dei consigli è disciplinato dal regolamento, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto; il regolamento, in particolare, secondo la citata disposizione, deve prevedere le modalità per la presentazione e la discussione delle proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo assegna al presidente del consiglio, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio e, al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio. Su tali questioni, soggette alla deliberazione del consiglio, i consiglieri, ai sensi dell'art. 43 del citato Tuel, hanno diritto di iniziativa e possono, altresì, presentare interrogazioni e mozioni.
Nel caso di specie, la norma regolamentare affida al presidente, nella fattispecie il sindaco, la facoltà di informare il consiglio, in apertura di seduta, in merito a questioni che interessano l'operato del sindaco o della giunta o a questioni di particolare interesse per la comunità non iscritte all'ordine del giorno a cui, dunque, non dovrebbe seguire alcuna deliberazione. Ferma restando la riconosciuta potestà, in capo al presidente, di dirigere i lavori e le attività del consiglio, la norma contenuta nel regolamento non appare limitativa del diritto dei singoli consiglieri a partecipare alle decisioni nelle materie di stretta competenza del consiglio medesimo, ai sensi dell'art. 42 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, che si concretizzano nell'ordine del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del presidente e le repliche affidate ai rappresentanti dei gruppi devono, comunque, essere riprodotti nel verbale di seduta, di libero accesso ai singoli consiglieri, ivi compresi gli assenti alla seduta.
Qualora, dalla lettura di tali verbali, emergano aspetti ritenuti di interesse, i singoli consiglieri, possono sempre utilizzare gli strumenti offerti dall'ordinamento, inducendo una eventuale deliberazione, in presenza dei relativi presupposti di competenza, con la richiesta di inserimento della questione in un successivo ordine del giorno, secondo le normali procedure regolamentari, oppure presentare mozioni o interrogazioni
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza paletti. Al riscontro fornito dal comune alla Corte conti. La conoscenza di tali atti non viola alcun segreto istruttorio.
In materia di diritto di accesso, da parte dei consiglieri comunali, è legittimo, ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, il diniego espresso da un comune nei confronti di un consigliere che ha chiesto all'ente di potere acquisire «il riscontro fornito dal comune ad una nota della Corte dei conti»?
Nella fattispecie in esame il comune, che avrebbe parzialmente riscontrato la richiesta della Corte dei conti ha, precisato che trattasi di «chiarimenti e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'organo di revisione contabile».
In particolare, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso al consigliere, che ha diffidato il responsabile del settore ai sensi dell'art. 328, comma II, del codice penale, hanno rilevato che le richieste della Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, comma 166 e segg. della legge 23/12/2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs 18/08/2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'ente e per l'attività della stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura giudiziale (rispetto ai quali la commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con talune pronunce –v. plenum del 25/01/2005– ha optato per il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano, invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni grave irregolarità contabile e finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe, dunque, alcun segreto istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del consigliere al vincolo della riservatezza.
Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» ed il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale.
Lo stesso, infatti, deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il Consiglio di stato, Sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto «sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000».
Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta materia».
Pertanto, come affermato dalla stessa commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque, e dunque anche i consiglieri comunali, ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha l'obbligo di pubblicare
».
Alla luce del quadro sopra delineato, e ferma restando l'opportunità, per l'ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio dell'esercizio di tale diritto, non appare, dunque, che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).

APPALTIOGGETTO: Conseguenze derivanti dall’omessa comunicazione di modifiche all’assetto proprietario e degli organi sociali da parte dell’impresa iscritta nella white list. Quesito (Ministero dell'Interno, nota 24.04.2018 n. 11001/119/20(5)-A di prot.).

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni organizzative / Il nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il 21/05/2018 prevede una nuova disciplina per le posizioni organizzative.
Si prevede inoltre un periodo transitorio nel corso del quale gli incarichi di posizione organizzativa già conferiti e ancora in atto, proseguono o possono essere prorogati fino alla definizione del nuovo assetto delle posizioni organizzative e, comunque, non oltre un anno dalla data di sottoscrizione del presente CCNL.
In relazione al suddetto periodo transitorio si chiede di chiarire se un ente che non abbia ancora definito i nuovi criteri e procedure relativi al nuovo assetto delle posizioni organizzative possa conferire un nuovo incarico su una posizione organizzativa già esistente?

Nel merito del quesito formulato, relativamente alla particolare problematica esposta, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che, anche se l’ente non ha ancora proceduto alla definizione del nuovo assetto delle posizioni organizzative (modifica dei contenuti delle precedenti posizioni organizzative in relazione al nuovo assetto delineato dal CCNL; graduazione delle stesse sulla base anche dei nuovi criteri previsti dalle parti negoziali; diversa disciplina delle modalità di determinazione della retribuzione di posizione e di risultato; determinazione dei nuovi criteri generali per il conferimento e revoca degli incarichi), stante la necessità di garantire la funzionalità ed operatività degli uffici, lo stesso possa ugualmente, in via del tutto eccezionale, anche durante il periodo transitorio, conferire la titolarità della posizione organizzativa priva di titolare, applicando i criteri già precedentemente adottati nell’osservanza delle precedenti previsioni del precedente art. 9, comma 2, del CCNL del 31.03.1999 e fino ad oggi già applicati.
Tale ultimo incarico, peraltro -come tutti gli altri incarichi di posizione organizzativa già conferiti e ancora in atto, anche se con scadenza successiva al 20.05.2019, oppure prorogati, alla data di sottoscrizione del nuovo contratto collettivo nazionale, secondo la disciplina generale dell’art. 13, comma 3, del CCNL del 21.05.2018- giungerà, comunque, a scadenza al momento dell’adozione del nuovo assetto delle posizioni organizzative o, comunque, non oltre un anno dalla data di sottoscrizione del CCNL (orientamento aplicatico
02.08.2018 CFL 6 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGOPart-time orizzontale, i permessi familiari vanno riproporzionati.
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, caratterizzato da una ridotta prestazione oraria su tutti i giorni lavorativi, il riproporzionamento dei permessi retribuiti per particolari motivi personali o familiari deve essere fatto non soltanto sul monte ore annuo a disposizione (18 ore), ma anche rispetto alle 6 ore quale decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di fruizione del permesso per l'intera giornata.

Anche l'Aran, con l'orientamento applicativo CFL 5 del 02.08.2018, torna sul tema della disciplina dettata dall'art. 32 del nuovo Ccnl del 21.05.2018 con. Esso stabilisce che i permessi per motivi personali e familiari possono essere fruiti anche per la durata dell'intera giornata lavorativa e che, in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a 6 ore.
Il contratto dispone anche che le 18 ore di permesso sono riproporzionate in caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, ma non chiarisce se in tal caso vadano riproporzionate anche le 6 ore convenzionali di incidenza sul monte ore del dipendente nel caso di fruizione per l'intera giornata lavorativa. L'Aran propende per la tesi affermativa, «per coerenza ed al fine di assicurare trattamenti uniformi con il personale a tempo pieno». Sul medesimo argomento, inoltre, è rilevante la precisazione per cui l'eventuale fruizione nei primi mesi del 2018, di assenze per visite specialistiche a giorni non può avere alcuna incidenza sul quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina contrattuale riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà comunque fruire di permessi retribuiti per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, nel limite delle 18 ore annue, anche se precedentemente al 21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la medesima motivazione.
Del resto, la suddetta clausola contrattuale non contiene alcuna espressa indicazione circa una eventuale maturazione progressiva del diritto ai permessi di cui si tratta. Sempre l'Aran, infine, fornisce un importante chiarimento in ordine al cosiddetto elemento perequativo, previsto quale specifica, autonoma e distinta voce retributiva, la cui corresponsione avviene una tantum nell'arco di uno specifico e determinato periodo temporale. Proprio per tale caratteristiche, esso non è «stipendio» e, pertanto, non rientra in nessuna delle nozioni di retribuzione.
L'ulteriore conseguenza è che esso non può essere considerato nella base di calcolo né del compenso per lavoro straordinario né dell'indennità di turno o di qualunque altro compenso che assuma, comunque, una delle suddette nozioni di retribuzione come base. Esso inoltre non può neanche essere qualificato come «trattamento economico accessorio» e quindi non va sottoposto alla trattenuta per i primi 10 giorni di malattia
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per motivi personali o familiari / Il nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il 21/05/2018 stabilisce che i permessi per motivi personali e familiari possono essere fruiti anche per la durata dell’intera giornata lavorativa e che, in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a sei ore.
Stabilisce inoltre che le 18 ore di permesso sono riproporzionate in caso di rapporto di lavoro a tempo parziale.
In relazione alle suddette nuove previsioni contrattuali, si chiede di sapere se, in caso di part-time orizzontale, vadano riproporzionate anche le sei ore convenzionali di incidenza sul monte ore del dipendente nel caso di fruizione per l’intera giornata lavorativa?

Per quanto riguarda il personale con rapporto di lavoro a tempo parziale, in coerenza con i principi generali che regolano tale tipologia di rapporto di lavoro, la clausola del contratto prevede espressamente il riproporzionamento del monte ore annuo di 18 ore di permessi retribuiti per particolari motivi personali o familiari (art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018).
Trattandosi di permesso fruito su base oraria, il riproporzionamento va effettuato in tutti i casi di rapporto di lavoro a tempo parziale (verticale, orizzontale e misto).
Per coerenza ed al fine di assicurare trattamenti uniformi con il personale a tempo pieno, si è altresì dell'avviso che, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, caratterizzato da una ridotta prestazione oraria su tutti i giorni lavorativi, debba procedersi anche al riproporzionamento delle sei ore, previste dal comma 2, lett. e), del citato art. 32 del CCNL del 21.05.2018, quale decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di fruizione del permesso per l'intera giornata (
orientamento applicativo 02.08.2018 CFL 4 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / E’ possibile fruire per frazioni di ora (esempio, per 45 minuti) le 18 ore annuali di permesso permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici previste dall’art. 35 del nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il 21/05/2018?
L’art. 35, comma 1, del CCNL del 21.05.2018 riconosce la fruibilità dei permessi in oggetto sia su base giornaliera sia su base oraria. In mancanza di espresso divieto in tal senso nella disciplina contrattuale, si ritiene che i predetti permessi possano essere fruiti anche per frazioni inferiori alla singola ora, con imputazione al monte ore annuale delle 18 ore delle frazioni di ora effettivamente utilizzate (ad esempio, 45 minuti).
E’ sempre possibile, in ogni caso, l'utilizzo per periodi composti da un'ora o da un numero intero di ore, seguiti da frazioni di ora (ad esempio, un'ora e quindici minuti, un'ora e trenta, due ore e 30 ecc.). Anche in questi casi la decurtazione sarà pari alla durata del permesso effettivamente utilizzato dal dipendente.
Quindi, nel caso di un permesso fruito per 3 ore e 31 minuti, la decurtazione sarà pari a 3 ore e 31 minuti (
orientamento applicativo 02.08.2018 CFL 3 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / Le 18 ore annuali di permesso per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici previste dall’art. 35 del nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il 21/05/2018, vanno riproporzionate nell’anno 2018 tenuto conto che il nuovo CCNL è divenuto efficace solo dal 22/05/2018?
L’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 ha introdotto un’organica ed esaustiva disciplina in materia di “assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici”.
Il nuovo istituto contrattuale, applicabile dal 22.05.2018, infatti, prevede un quantitativo di 18 ore annue che, potranno essere fruite, alle condizioni espressamente stabilite dal citato art. 35 del CCNL del 21.05.2018.
Trattandosi di un istituto del tutto nuovo, l’eventuale fruizione nei primi mesi del 2018, di assenze per visite specialistiche a giorni non può avere alcuna incidenza sul quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina contrattuale riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà comunque fruire di permessi retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, nel limite delle 18 ore annue, anche se precedentemente al 21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la medesima motivazione. Del resto, la suddetta clausola contrattuale non contiene alcuna espressa indicazione circa una eventuale maturazione progressiva del diritto ai permessi di cui si tratta.
Si ritiene, in conclusione, che i lavoratori possano, comunque, avvalersi per intero, entro il 31.12.2018, delle 18 ore annuali della nuova tipologia di permesso, anche se il contratto collettivo nazionale è stato sottoscritto definitivamente solo in data 21.5.2018 (
orientamento applicativo 02.08.2018 CFL 2 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Elemento perequativo una-tantum / Qual è la natura della voce retributiva “Elemento perequativo” prevista dal nuovo CCNL del comparto Funzioni Locali, sottoscritto il 21/05/2018?
In particolare, si chiede di chiarire se sia sottoposta alle decurtazioni del trattamento accessorio per i primi dieci giorni di malattia e se vada conteggiata nella base di calcolo utile per la corresponsione di alcuni trattamenti accessori (ad esempio, straordinario e turni).

Sulla base delle previsioni dell’art. 66 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, l’elemento perequativo rappresenta una specifica, autonoma e distinta voce retributiva, la cui corresponsione avviene una-tantum nell’arco di uno specifico e determinato periodo temporale.
Proprio per tale caratteristiche:
   a) esso non è “stipendio” e, pertanto, non rientra in nessuna delle nozioni di retribuzione di cui all’art. 10, comma 2, lett. a), b) e c), del CCNL del 09.05.2006; l’ulteriore conseguenza è che esso non può essere considerato nella base di calcolo né del compenso per lavoro straordinario né dell’indennità di turno o di qualunque altro compenso che assuma, comunque, una delle suddette nozioni di retribuzione come base;
   b) non può neanche essere qualificato come “trattamento economico accessorio”; conseguentemente, si ritiene che non vada sottoposto alla trattenuta per i primi 10 giorni di assenza per malattia (
orientamento applicativo 02.08.2018 CFL 1 - link a www.aranagenzia.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PATRIMONIO: Oggetto: Monitoraggio dello stato di conservazione e manutenzione delle opere di competenza - URGENTE (ANCI Veneto, circolare 23.08.2018 n. 1997 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: Il Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico -presso il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare- ha il compito di monitorare e promuovere le attività degli Enti locali finalizzate all’incremento del verde urbano e peri-urbano [art. 3, comma 2, lett. a) e b), L. 14.01.2013 n 10 - Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani].
In questo contesto si inseriscono le Buone Pratiche sul verde urbano raccolte nella Banca dati GELSO realizzata da ISPRA.
Al riguardo, si leggano:

  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 14.05.2018 n. 27.
---------------
Premessa
Per baratto amministrativo si intende, essenzialmente, uni strumento -disciplinato a livello nazionale con legge, e a livello locale con regolamento- che in situazioni prestabilite consente ai cittadini di pagare tasse o tributi (quali TASI, IMU e TARI e, in generale, di di estinguere le situazioni di debenza legate alla fiscalità locale), mediante prestazioni personali di utilità sociale (ad esempio, tagliare l'erba nei parchi, pulire le strade, prestare opere di manutenzione o recuperare e riqualificare aree e beni immobili inutilizzati).
(...continua)

  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 04.05.2018 n. 26.
---------------
Premessa
Come noto, i referendum consultivi comunali sono espressione del più ampio fenomeno della democrazia partecipativa, e rappresentano una delle forme di consultazione della popolazione previste dall'art. 8 del d.lgs. n. 267/2000. In particolare, il comma 4 dell'art. 8 stabilisce che i referendum consultivi devono riguardare materie di esclusiva competenza locale.
(...continua)


   ●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 04.05.2018 n. 25.
---------------
Premessa
E’ diffusa esperienza, nel Paese, che comitati di quartiere e singoli cittadini siano disposti a contribuire, con donazioni volontarie, e a partecipare operativamente a interventi di messa a dimora di alberi, da condividere con le amministrazioni locali, specie in luoghi nei quali, per eventi esterni, cattiva manutenzione, rifacimento di marciapiedi o altro, le piante vengono abbattute.
Si tratta di situazioni in cui, in buona sostanza, i cittadini desiderano mettere a dimora alberi a proprie spese su suolo comunale. (...continua).

   ●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 04.05.2018 n. 24.
---------------
Premessa
E' accaduto di constatare che, una volta abbattuti -per comprovate ragioni di sicurezza, attestate da tecnici qualificati- gli alberi collocati in un dato sito urbano, la Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio competente per territorio abbia negato la messa a dimora, nello stesso sito, di nuovi alberi.
(...continua)


  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 04.10.2017 n. 20.
---------------
Premessa

Con il recente DL n. 14/2017, convertito, con modificazioni, con L. n. 48/2017, sono state introdotte nuove norme a presidio -in ambito urbano- non solo della sicurezza, ma anche del decoro.
(...continua)


  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 03.10.2017 n. 22.
---------------
Premessa

Constano a questo Comitato diffuse situazioni, nel Paese, nelle quali, a fronte delle previsioni regolamentari tuttora vigenti in tema di fascia di rispetto ferroviaria, non si fa alcuna distinzione fra alberi messi a dimora prima o dopo il 1980, e si privilegia -con troppa semplificazione- la soluzione dell'abbattimento sulle altre che siano in concreto possibili, ad iniziare, ovviamente, da quelle di ordine manutentivo.
(...continua)


  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 03.10.2017 n. 21.
---------------
Premessa

Informazione e comunicazione istituzionale degli enti locali sono attività essenziali anche ai fini della promozione e dello sviluppo degli spazi verdi urbani. Il tema si pone, infatti, anche quando, come nel caso dell'obbligo di mettere a dimora un albero per ogni nuovo nato o adottato, la legge prevede un adempimento puntuale a carico delle amministrazioni territoriali.
(...continua)


  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 03.07.2017 n. 19.
---------------
Linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile

  
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico, deliberazione 22.05.2017 n. 18.
---------------
Premessa

1. Lo scrivente comitato, quale organo istituzionale che, nell'ambito dell'amministrazione statale, ha il compito di dare attuazione alla legge italiana n. 10/2013, verificando il rispetto della normativa di settore, avendo appreso dalla stampa che il Comune di Frosinone aveva multato per circa 1300 euro la Asl di Frosinone, per un taglio di alberi "non autorizzato" (effettuato da quest'ultima, alle spalle della palazzina che ospita il reparto di fisioterapia), ha richiesto, con nota del 22.03.2017, la trasmissione e l'acquisizione di tutta la documentazione utile alla verifica di cui sopra (art. 3, comma 2, lett. d), l. n. 10/2013), previo svolgimento degli accertamenti per legge di competenza degli uffici in indirizzo, al fine del perseguimento delle responsabilità personali di cui abbiano a ricorrere in concreto i presupposti.
(...continua)

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Alla luce delle novità legislative introdotte con l’approvazione dell’art. 1, comma 526, della legge 205/2017 (legge di stabilità per il 2018), gli incentivi disciplinati dall’articolo 113 del d.lgs. 50/2016, essendo erogati su risorse finanziarie individuate ex lege e facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017.
Con la conseguenza che i compensi incentivanti per funzioni tecniche risultano attualmente svincolati dai limiti vigenti in materia di trattamento accessorio del personale.
Inoltre, la concreta erogazione di tali compensi può avvenire soltanto a seguito della preventiva predisposizione, da parte dell’Ente, del Regolamento previsto dalla normativa, per non incorrere in quanto previsto dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 13384/2004, con la quale è stato riconosciuto il risarcimento del danno per inottemperanza all’obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
---------------

... il Comune di Pasiano di Pordenone (PN) ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui, dopo aver succintamente rappresentato le circostanze di fatto e di diritto, pone un quesito in materia di incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, l’Ente richiedente ha formulato un quesito volto a sapere:
   1) Se gli incentivi per le funzioni tecniche, come disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 e s.m.i. trovino applicazione anche agli Enti della Regione Friuli Venezia Giulia;
   2) Se sia possibile escludere tali incentivi dalle misure di contenimento del salario accessorio previste dalla vigente normativa di coordinamento della finanza pubblica;
   3) Se sia possibile ricalcolare, a prescindere dalla fonte giuridica, con riferimento ad eventuali incentivi inclusi nell’aggregato “salario accessorio del personale”, il limite dell’anno 2016 ai fini del contenimento del salario accessorio per l’anno 2017 alla luce del nuovo dettato normativo.
...
Come esposto nella premessa ed in sede di esame preliminare dell’ammissibilità, sul piano oggettivo, del quesito in esame, deve innanzitutto evidenziarsi che questa Sezione ha recentemente avuto modo di esaminare la problematica relativa ai compensi incentivanti per funzioni tecniche, come disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, precipuamente con riferimento alle novità legislative introdotte con l’approvazione dell’art. 1, co. 526, della legge 27.12.2017, n. 205 (legge di stabilità per il 2018).
Con tale novella, è stato previsto che all'articolo 113 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma: «5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture»”.
Alla luce di tale modifica legislativa, con il parere 02.02.2018 n. 6 si è avuto modo di affermare che “
…da ciò si evince che gli incentivi non fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera”.
Tali conclusioni vanno riaffermate anche in questa sede, con la conseguenza, quindi, che
gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, essendo erogati su risorse finanziarie individuate ex lege e facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
Così inquadrata la disciplina attualmente vigente in materia di incentivi per funzioni tecniche, i quesiti posti dal Comune richiedente trovano una loro pacifica soluzione,
dovendosi applicare anche nel Friuli Venezia Giulia la recente novità legislativa, che appare pienamente compatibile anche con la legge regionale n. 14/2002 e ss. mm. e ii., con la conseguenza che i compensi incentivanti per funzioni tecniche risultano attualmente svincolati dai limiti vigenti in materia di trattamento accessorio del personale.
Ad ogni buon conto, vale la pena di rimarcare che
la concreta erogazione di tali compensi può avvenire soltanto a seguito della preventiva predisposizione, da parte dell’Ente, del Regolamento previsto dalla normativa, per non incorrere in quanto previsto dalla Corte di Cassazione nella sentenza 19.07.2004 n. 13384, con la quale è stato riconosciuto il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice (cfr. in tal senso, parere 02.02.2018 n. 6 cit.).
Infine, anche in questa sede vale la pena di ricordare quanto affermato da questa Sezione con la deliberazione n. 51/2016, richiamata anche dal citato parere 02.02.2018 n. 6, secondo cui “
anche con riferimento al comparto unico del pubblico impiego regionale e locale … si devono categoricamente escludere interventi in sanatoria, dovendosi necessariamente procedere ad una preventiva individuazione a bilancio delle risorse, ad una successiva costituzione del fondo ed infine all'individuazione delle modalità di ripartizione del fondo mediante contratto decentrato, in maniera tale da rispettare il principio di preventiva assegnazione degli obiettivi e di successiva verifica del loro raggiungimento" (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 02.08.2018 n. 35).

SEGRETARI COMUNALISui diritti di rogito spunta il rischio debiti fuori bilancio.
Sui diritti di rogito spunta il rischio debiti fuori bilancio.
È una delle possibili conseguenze della recente deliberazione 30.07.2018 n. 18 con cui la sezione delle autonomie della Corte dei conti (si veda ItaliaOggi del 27/07/2018) ha messo la parola fine alla telenovela sulla spettanza di tali emolumenti, allineandosi all'orientamento espresso dal giudice ordinario e modificando la propria precedente interpretazione restrittiva.
Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di enti di piccole dimensioni collocati in fascia C, dall'altro lato si è argomentato che negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
La magistratura contabile ha sposato la prima tesi, sebbene con non poche oscillazioni che avevano reso necessario, come detto, un primo intervento chiarificatore delle Autonomie con la deliberazione 24.06.2015 n. 21.
Sul fronte opposto, si sono schierati compatti i tribunali del lavoro, che aditi dai segretari esclusi hanno sempre accolto i ricorsi. Da qui, il cambio di rotta, sollecitato dalla sezione regionale di controllo per il Veneto e imposto dalla necessità di pervenire finalmente a una soluzione definitiva «rispettosa di un principio di coerenza sistematica» dell'ordinamento.
Insomma, la Corte si è adeguata, pur senza rinunciare a rimarcare le differenze fra il proprio percorso valutativo e quello fatto proprio dal giudice ordinario: mentre quest'ultimo privilegia, sulla base dell'interpretazione letterale di una norma poco chiara, l'interesse patrimoniale particolare della categoria dei segretari, la prima aveva optato per un'interpretazione funzionale al conseguimento dell'interesse pubblico a garantire maggiori entrate in favore degli enti locali.
A questo punto, quindi, i ragionieri possono procedere a liquidare i diritti di rogito. Per il pregresso, è certamente legittimo l'utilizzo delle somme che nel frattempo sono state prudenzialmente accantonate (anche se ciò ha un impatto negativo sul pareggio di bilancio, almeno fino a che non saranno recepite le pronunce della Consulta sulla piena disponibilità dell'avanzo).
Le amministrazioni che non avessero proceduto in tal senso, invece, potrebbero trovarsi di fronte addirittura a dei debiti fuori bilancio, avendo usufruito di un servizio (che si è scoperto poi essere) oneroso senza le necessarie coperture. Si tratterebbe di un paradosso evidente, per evitare il quale, però, è necessario forzare le attuali regole contabili. Non è escluso, quindi, che la Corte debba tornare nuovamente sul tema
(articolo ItaliaOggi dell'08.08.2018).

SEGRETARI COMUNALI: In riforma del primo principio di diritto espresso nella deliberazione 24.06.2015 n. 21, alla luce della previsione di cui all’art. 10, comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito, nei limiti stabiliti dalla legge, competono ai segretari comunali di fascia C nonché ai Segretari comunali appartenenti alle fasce professionali A e B, qualora esercitino le loro funzioni presso enti nei quali siano assenti figure dirigenziali.
---------------
5. La questione, all’esame della Sezione, ripropone il quesito circa la riconoscibilità o meno -ancorché nei limiti indicati dalla legge di riforma della materia de qua (articolo 10, comma 2-bis, del d.l. n. 90/2014)- dei proventi discendenti dall’attività rogatoria espletata dai Segretari comunali, ove questi ultimi, ancorché appartenenti alle fasce professionali A e B, esercitino le loro funzioni presso enti nei quali siano assenti figure dirigenziali.
Occorre preliminarmente precisare che la necessità di un ulteriore intervento da parte di questa Sezione si impone in quanto le reiterate ed univoche, nel merito, pronunce del giudice del lavoro, oltre a far prefigurare la, non remota, possibilità di ulteriori repliche di tali pronunciamenti, mettono in evidenza la progressiva disapplicazione di uno dei due principi di diritto pronunciati da questa Sezione nella ricordata delibera ed il diffondersi di aspetti di disomogeneità e frammentarietà nei modi di risolvere la medesima questione.
Si tratta di pronunce che, ovviamente, si fondano su un percorso valutativo che si differenzia radicalmente da quello della Sezione delle autonomie. Una differenza che rileva sia in ordine alla situazione giuridica soggettiva considerata nella tutela azionata dai segretari che ricorrono al giudice del lavoro e cioè il diritto patrimoniale soggettivo all’emolumento, sia per quel che riguarda l’individuazione dei parametri normativi di riferimento che portano all’accertamento costitutivo del diritto alla percezione dei diritti di rogito, vale a dire la verifica “tout court” del presupposto che dà titolo all’attribuzione patrimoniale e cioè l’assenza di figure dirigenziali nella sede di servizio. In sostanza si evidenzia la funzione di reintegrazione del patrimonio del ricorrente che si assume illegittimamente leso dal diniego opposto dall’amministrazione di servizio al riconoscimento di un diritto soggettivo perfetto.
Questa Sezione, nella deliberazione 24.06.2015 n. 21 ha privilegiato, invece, una interpretazione della norma funzionale al conseguimento dell’interesse pubblico a garantire maggiori entrate in favore degli enti locali che fa recedere l’interesse (patrimoniale) particolare del segretario comunale, “fatta salva l’ipotesi della fascia professionale e della condizione economica che meno garantisca il singolo segretario a livello retributivo”.
Ciò detto, il percorso argomentativo per una nuova valutazione degli aspetti di diritto del tema posto deve muovere dalla verifica di una compatibilità logica tra gli aspetti sostanziali sottesi al consolidato indirizzo giurisprudenziale che connota gli accertamenti costitutivi del giudice del lavoro e quelli sottesi alla prospettazione della questione che aveva indirizzato questa Corte nell’analizzare l’articolo 10, comma 2-bis, del d.l. n. 90/2014 che è sfociato, poi, nella deliberazione 24.06.2015 n. 21: garantire, nell’ottica di un contemperamento tra due interessi diversi, maggiori entrate agli enti locali, così da salvaguardare un superiore interesse pubblico, qual è la concreta tutela della finanza locale.
In sostanza, nel definire il perimetro dell’azione di contemperamento disegnato dal legislatore con la previsione legislativa in argomento, questa Sezione ha individuato due aspetti meritevoli di tutela: garantire maggiori entrate alle amministrazioni locali, salvaguardando, nel contempo, gli specifici interessi patrimoniali della sola categoria professionale dei Segretari comunali di fascia C, la cui tutela rinviene la sua qualificazione in una finalità perequativa necessaria a sopperire a situazioni stipendiali meno favorevoli.
Opinando diversamente, il giudice del lavoro, così come una parte della giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo, nel privilegiare l’interpretazione letterale della norma, hanno, al contrario, ampliato l’area di legittimazione alla percezione dei diritti di rogito, individuandone il presupposto nell’assenza di figure dirigenziali nell’ente in cui è prestato il servizio.
Logico corollario di tale assunto è, pertanto, una dilatazione del suddetto contemperamento fino al punto di prevenire il sacrificio di ulteriori posizioni di vantaggio quali sono da considerare quelle dei segretari comunali appartenenti alle fasce A e B che però prestano servizio in enti privi di dirigenza.
In proposito vale considerare che,
verosimilmente, la ratio della disposizione non è da individuarsi nella carenza in sé nell’ente di personale con qualifica dirigenziale, circostanza che da sola non consente di costruire concettualmente la logica dell’attribuzione, ma nel fatto che tale carenza influisce sulla consistenza del trattamento economico, tenuto conto della disciplina delle sue specifiche componenti che risentono, nella loro quantificazione, della correlazione alle dimensioni dell’ente dove il segretario presta servizio.
Tale azione di conformazione della situazione di fatto alla norma, prodotta dalle sentenze del G.O. in quanto declinata in reiterate pronunce, assume la sostanziale consistenza di parametro di valutazione alla luce del quale va ridefinito il suddetto perimetro.
In questa operazione di rivisitazione del principio di diritto espresso dalla Sezione delle autonomie nella delibera più volte richiamata, si concretizza la verifica di compatibilità tra indirizzo del giudice ordinario, del quale non può non prendersene atto ed orientamento della Corte dei conti.
In altri termini il predetto indirizzo assurge anch’esso, come appena ricordato, a sostanziale parametro di riferimento oggettivo, in punto di diritto, nella decisione della questione di massima.
Per le ragioni esposte ed in considerazione della fondamentale regola di giudizio per cui è compito del Giudice utilizzare ogni strumento ermeneutico che gli consenta di pervenire ad una soluzione del caso sottoposto al suo esame e rispettosa di un principio di coerenza sistematica,
si ritiene maggiormente aderente ai motivati parametri di riferimento, in punto di diritto, accedere ad una interpretazione letterale della norma.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto con la deliberazione 18.06.2018 n. 192, enuncia il seguente principio di diritto:
In riforma del primo principio di diritto espresso nella deliberazione 24.06.2015 n. 21, alla luce della previsione di cui all’art. 10 comma 2-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito, nei limiti stabiliti dalla legge, competono ai segretari comunali di fascia C nonché ai Segretari comunali appartenenti alle fasce professionali A e B, qualora esercitino le loro funzioni presso enti nei quali siano assenti figure dirigenziali” (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 30.07.2018 n. 18).

SEGRETARI COMUNALIDiritti di rogito a tutti i segretari. Se sono insediati in sedi comunali prive di dirigenti. La sezione autonomie della Corte conti fa dietrofront dopo anni di contenziosi e incertezze.
Diritti di rogito a tutti i segretari Diritti di rogito a tutti i segretari comunali di qualsiasi qualifica, se insediati in sedi di comuni privi di dirigenti. Si va verso un'interpretazione estensiva delle previsioni contenute nell'articolo 10, comma 2-bis, del dl 90/2014, che ha inteso abolire la compartecipazione ai diritti di rogito per i segretari comunali operanti negli enti con qualifica dirigenziale.
La Corte dei conti, sezione delle autonomie (deliberazione 30.07.2018 n. 18), modificando di 180 gradi il proprio avviso sul tema, espresso con la deliberazione 24.06.2015 n. 21, da un lato risolve un problema concreto che si trascina da anni, dall'altro torna a porre in maniera molto forte il grave problema della funzione di controlli cosiddetti collaborativi della Corte dei conti, regolati dall'articolo 7 della legge 131/2003.
Tale disposizione consente a regioni e comuni di richiedere alle sezioni regionali di controllo pareri in materia di contabilità pubblica, che la magistratura contabile esprime in assolvimento ai propri compiti di collaborazione ai fini del coordinamento della finanza pubblica. Tuttavia, con l'andare degli anni e, soprattutto, con il moltiplicarsi di una serie di norme e regole dettate più da logiche di efficienza operativa e gestionale, da una visione quasi esclusivamente finanziaria, si è tracciato un confine molto forte tra le esigenze della cosiddetta amministrazione «attiva», consistente nel concreto agire, e l'amministrazione «consultiva», cui latamente poter ricondurre la funzione collaborativa della Corte dei conti, che resta, comunque, giurisdizionale.
L'occhio attento in via esclusiva al coordinamento della finanza pubblica, nel caso dei diritti di rogito ha creato un cortocircuito incredibile tra funzione giurisdizionale della magistratura contabile, funzione amministrativa e giurisdizione civile.
I comuni, infatti, sono stati investiti dalle richieste, legittime, dei segretari di ottenere il pagamento della compartecipazione ai diritti di rogito, ma hanno negato queste richieste, col problema, però, di accantonare le somme in vista di possibili vertenze davanti al giudice civile. Le cause non sono certo mancate e a partire dal 2016 le sentenze dei giudici del lavoro favorevoli ai segretari e fortemente critiche nei confronti della Corte dei conti si sono moltiplicate.
Un caos che ha prodotto tensioni, ma soprattutto costi amministrativi e giudiziari che oggettivamente sono andati ben al di là degli effetti sulla finanza pubblica che si volevano preservare: senza dimenticare che i segretari comunali compartecipano ad un'entrata, dunque i diritti di rogito sono integralmente e abbondantemente finanziati.
Si tratta di un cortocircuito già visto ormai troppe volte. Lo stesso è accaduto per gli incentivi per le funzioni tecniche: anche qui la sezione autonomie ha prima ritenuto che fossero al di fuori del tetto della spesa per il salario accessorio, per poi cambiare opinione, dopo aver indotto il legislatore ad una sorta di interpretazione autentica con la legge di bilancio 2018. Ancora aperti sono i problemi sulla qualificazione della spesa per gli incarichi dirigenziali a contratto: mentre la legge esclude la spesa conseguente ai contratti a termine regolati dall'articolo 110 del dlgs 267/2000 dal tetto alla spesa per lavoro flessibile, la sezione autonomia è rimasta ancora all'inclusione di tale spesa nel vincolo, ma molte sezioni regionali contraddicono questa visione.
Di recente, la sezione Puglia ha aperto un nuovo fronte di confusione: ha ritenuto priva di efficacia la dichiarazione congiunta n. 5 al Ccnl 21.05.2018, il cui scopo consiste nell'escludere che l'articolo 67, comma 7, del contratto possa essere letto nel senso di scaricare sul fondo della contrattazione decentrata i maggiori oneri per le posizioni di sviluppo derivanti dalle progressioni orizzontali e per l'indennità annua di euro 83,20 che scatta dal 2019.
La funzione «collaborativa» della Corte dei conti finisce troppe volte per scontrarsi con esigenze di carattere sostanziale o con la visione di altre giurisdizioni. La legge 131/2003 sconta il vizio, per altro, dell'assenza di contraddittorio: i pareri vengono resi dalla magistratura contabile senza sentire alcuna controparte. Né sui pareri, essendo espressi nell'esercizio di una funzione giurisdizionale, sono ammessi gravami o ricorsi.
Insomma, se non ci ripensa la stessa magistratura contabile, quanto espresso con le delibere resta invariabile: le amministrazioni non ritengono di avere la forza per superare con ragionate motivazioni i contenuti di quelli che, comunque, restano pareri. E così, magari per anni, come avvenuto con i diritti di rogito, si esacerba lo scontro tra giurisdizioni e si innescano contenziosi e costi. Un ripensamento di questo sistema appare ormai non rinviabile
 (articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMini enti, assunzioni flessibili. Corte dei Conti.
Le assunzioni flessibili dei mini enti possono aggirare il tetto di spesa se questo è modesto e quindi non idoneo a costituire un ragionevole parametro assunzionale.

È l'importante chiarimento contenuto nella deliberazione 30.07.2018 n. 15 della Corte dei conti, sezione autonomie.
In forza dell'art. 9, comma 28, del dl 78/2010, la spesa per le assunzioni flessibili deve essere contenuta entro il limite del 100% del valore registrato nel 2009 per gli enti in regola con gli obblighi di riduzione della spesa di personale, del 50% per gli altri enti. Laddove la spesa dell'anno di riferimento fosse pari a zero, si può assumere come parametro la spesa media del triennio 2007/2009.
Se anche quest'ultima era pari a zero, in base alla deliberazione n. 1/2017 della stessa sezione autonomie, l'ente può comunque procedere alle assunzioni strettamente necessaria per far fronte ai servizi essenziali. In questo quadro, rimaneva ancora una zona d'ombra, in cui si collocavano le malcapitate amministrazioni che avessero una spesa benchmark, ma talmente esigua da non consentire alcune spazio per nuovi reclutamenti.
In questi casi, secondo la tesi più restrittiva non vi erano margini. Si trattava di un evidente paradosso, che per fortuna la sezione autonomie cancella sulla scorta di argomentazioni assolutamente condivisibili: una scelta diversa, si legge nella deliberazione in commento, finirebbe per risultare lesiva dell'autonomia degli enti locali, in quanto vanificherebbe quei margini di scelta tra le varie tipologie di spesa nel rispetto del limite complessivo che la stessa Consulta, nella sentenza n. 173/2012, ha ritenuto incomprimibili.
Inoltre, il ricorso a queste forme contrattuali non può essere precluso indipendentemente dall'osservanza o meno, da parte dell'ente, dei vincoli di spesa ed assunzionali vigenti, in quanto ciò impedirebbe il ricorso ad una modalità organizzatoria che, in presenza dei presupposti stabiliti dall'art. 36 del dlgs n. 165/2001, mira a sopperire a carenze temporanee di personale necessario a garantire, soprattutto nei piccoli comuni la continuità dell'attività istituzionale
(articolo ItaliaOggi dell'08.08.2018).
---------------
MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto con la deliberazione n. 180/2018/QMIG, enuncia il seguente principio di diritto: “
Ai fini della determinazione del limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010 e s.m.i., l’ente locale di minori dimensioni che abbia fatto ricorso alle tipologie contrattuali ivi contemplate nel 2009 o nel triennio 2007-2009 per importi modesti, inidonei a costituire un ragionevole parametro assunzionale, può, con motivato provvedimento, individuarlo nella spesa strettamente necessaria per far fronte, in via del tutto eccezionale, ad un servizio essenziale per l’ente. Resta fermo il rispetto dei presupposti stabiliti dall’art. 36, commi 2 e ss., del d.lgs. n. 165/2001 e della normativa –anche contrattuale– ivi richiamata, nonché dei vincoli generali previsti dall’ordinamento”.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORisorse per le assunzioni senza vincoli di destinazione.
Possibile assumere personale con qualifica dirigenziale utilizzando gli spazi finanziari derivanti dalla cessazione dal servizio di personale non dirigente.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, col parere 26.07.2018 n. 222 chiarisce che le risorse disponibili per le assunzioni costituiscono un insieme unico, senza vincoli di destinazione derivanti dalla fonte di produzione.
In parole più semplici, in enti nei quali siano presenti dirigenti non si verifica che le risorse derivanti dalla cessazione di personale non avente qualifica dirigenziale siano riservate a tale tipo di personale e, quindi, non siano utilizzabili per assumere nuovi dirigenti.
Il parere della sezione Lombardia fornisce risposta positiva al quesito posto dal sindaco di un comune volto proprio a comprendere se sia possibile «utilizzare la spesa conseguente alla cessazione di personale di qualifica non dirigenziale, applicando le percentuali di facoltà assunzionali previste per tali categorie e ad oggi disponibili, per poter incrementare le facoltà assunzionali da destinare ad assunzioni di personale dirigente».
Per i giudici contabili è un'ipotesi «percorribile» quella di «utilizzare la spesa conseguente alla cessazione di personale dirigenziale e non dirigenziale per il calcolo della capacità assunzionale destinabile ad una unità con qualifica dirigenziale», purché ovviamente nel rispetto dei complessivi vincoli di finanza pubblica.
Il chiarimento è particolarmente utile ai fini della necessaria flessibilizzazione della gestione del personale e conferma la tesi simmetrica: come è possibile utilizzare risorse liberate dalla cessazione di personale non dirigente per assumere i vertici amministrativi, allo stesso modo deve considerarsi possibile la situazione opposta, cioè utilizzare le risorse liberate dal turn over delle qualifiche dirigenziali per effettuare assunzioni di personale non dirigenziale.
Ciò risulta coerente con la normativa vigente, in particolare l'articolo 1, comma 228, della legge 2087/2015 e l'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, i quali nel disciplinare le percentuali di turn over previste non pongono nessun genere di vincolo all'utilizzo delle risorse assunzionali, che quindi costituiscono un insieme unico.
Il parere della sezione Lombardia non si sofferma sul tema della programmazione del fabbisogno, ma è comunque possibile osservare che quanto espresso dalla magistratura sia coerente anche con l'articolo 6 del dlgs 165/2001 che, come noto, indica alle amministrazioni pubbliche di impostare i fabbisogni assunzionali non a partire da una dotazione organica precostituita e rigida, bensì dalla valutazione dei fabbisogni di professionalità rilevati, tradotti poi in una dotazione organica da ricomporre annualmente a valle di un processo che parta dalla rilevazione del tetto di spesa di personale massimo possibile (la media del triennio 2011-2013), per controllare se la somma tra spesa per il salario accessorio e spesa per il trattamento fondamentale del personale in servizio sia al di sotto del tetto fissato: il che consente di prevedere nuove assunzioni entro il differenziale tra tetto previsto e spesa sostenuta cui aggiungere le risorse assunzionali.
Tocca a ciascun ente stabilire, in relazione ai fabbisogni rilevati, se la spesa utilizzabile per nuove assunzioni sia da finalizzare a questa o quella categoria giuridica (e profilo professionale).
Il parere della Corte dei conti fonda una piena autonomia di scelta, da dimostrare col piano dei fabbisogni, nell'ambito di risorse finanziarie derivanti dal turn over che non scontano il problema di una loro rigida distinzione a seconda del possesso o meno della qualifica dirigenziale del personale cessato, ma che appunto sono da considerare come un plafond unico
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHESolo gli incentivi tecnici del 2018 vanno esclusi dai limiti di spesa.
Solo gli incentivi per funzioni tecniche erogati nel 2018 vanno esclusi dai limiti alla spesa di personale e al trattamento accessorio.

Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, che nel recente parere 25.07.2018 n. 265 è tornata sul tema da poco affrontato dalla sezione autonomie.
La materia è disciplinata dall'art. 113 del dlgs 50/2016 e dall'art. 23, comma 2, del dlgs 75/2017. La prima norma definisce a chi e per quali attività spettano i compensi aggiuntivi. Il nuovo codice dei contratti ha, da un lato, escluso le attività di progettazione, dall'altro ha esteso gli incentivi, oltre che ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e forniture. Mentre per i lavori, possono essere beneficiari sia i tecnici che il restante personale che abbia prestato la propria collaborazione, per servizi e forniture, gli incentivi sono previsti esclusivamente per il direttore dell'esecuzione.
A tali soggetti, sulla base di un atto unilaterale dell'amministrazione (non soggetto a contrattazione sindacale), possono essere destinate somme non superiori al 2% dell'importo posto a base di gara ed entro un tetto pari al 50% del trattamento economico complessivo spettante al singolo dipendente.
Ma il vero nodo riguarda la portata della seconda norma, che limita la consistenza complessiva del fondo per le risorse decentrate all'importo del 2016. Non era chiaro se gli incentivi per funzioni tecniche fossero da includere in tale limite o se ne siano esclusi (come accadeva per i vecchi incentivi alla progettazione). Sul tema, sono intervenuti prima il legislatore (con la legge 205/2017, che ha introdotto nel corpo dell'art. 113 il nuovo comma 5-bis) e poi la Sezione delle Autonomie (con deliberazione 06.04.2017 n. 7), facendo prevalere la tesi dell'esclusione.
Si pone, tuttavia, un problema di diritto intertemporale, ovvero se possano essere esclusi anche gli incentivi per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis. La Sezione di controllo veneta propende per la tesi negativa, per cui per il pregresso continuano a operare i tetti alla spesa di personale e al trattamento accessorio
(articolo ItaliaOggi del 28.07.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco della Città di Porto Viro (RO) ha inviato
a questa Sezione di controllo una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando i seguenti quesiti:
   1) Se per quegli enti che si "associano" mediante convenzione per la costituzione di una centrale unica di committenza (in attuazione di quanto previsto dall'art. 33, co. 3-bis del D.lgs. n. 163/2006, come riformulato dall'art. 9, co. 4, del D.L. n. 66/2014, convertito nella legge n. 89/2014 e per come integrato nei profili applicativi dall'art. 23-ter del D.L. n. 90/2014 convertito nella legge n. 114/2014) il limite di spesa inerente il trattamento accessorio, così come stabilito dalla normativa vigente, vada calcolato sul complesso delle spese destinate al salario accessorio sostenuto dagli enti associati;
   2) Se il Comune associato che eroga al proprio personale dipendente il trattamento accessorio possa portare in diminuzione l'importo rimborsatogli da altro comune associato, in forza della convenzione istitutiva della centrale di committenza, ai fini del calcolo del proprio limite di spesa stabilito dalla vigente normativa per il trattamento accessorio complessivamente erogato;
   3) Se il Comune che eroga al proprio personale dipendente il trattamento accessorio possa portare in diminuzione l'importo rimborsatogli da altro comune associato, in forza della convenzione istitutiva della centrale di committenza, ai fini del calcolo del proprio limite di spesa complessiva inerente il personale stabilito dalla vigente normativa;
   4) Se i trattamenti accessori (incentivi) di cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis del medesimo decreto, introdotto dalla novella di cui all'art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 27/12/2017 (legge di bilancio 2018), debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa.
La nota concludeva precisando “Tanto, in relazione al vigente quadro normativo di cui all’art. 1, comma 557-quater, della legge n. 296/2006 ed all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017”.
...
IV. Premesso quanto sopra in ordine alla delimitazione di competenza della Corte nell’ambito dell’attività consultiva, e dunque non potendo sindacare nel merito le scelte dell’ente, né tanto meno valutare l’esistenza dei presupposti che consentono di esprimersi sulla legittimità dell’azione amministrativa gestionale,
questa Sezione ritiene che i primi tre quesiti formulati dal Comune di Porto Viro non siano oggettivamente ammissibili.
Infatti, le questioni prospettate si ricollegano necessariamente ai contenuti di una convenzione tra amministrazioni destinata a regolare i rapporti nell’ambito dell’operatività di una centrale unica di committenza, compresi quelli relativi alla distribuzione degli oneri di funzionamento tra i quali generalmente, in tali casi, si annoverano quelli diretti, quelli generali e comuni, nonché le modalità con le quali ogni singolo ente associato mette a disposizione il proprio personale. Quest’ultimo, infatti, come noto può essere reso disponibile da parte di ogni comune con ricorso ai diversi istituti giuslavoristici previsti dalla normativa vigente e dai CCNL (distacco, convenzione, utilizzo ecc.) in relazione agli accordi scaturenti dalla convenzione.
In relazione a quanto da ultimo rappresentato, pertanto, ove la Sezione rendesse il parere rispondendo ai primi tre quesiti prospettati si violerebbe il richiamato principio di astensione dall’attività consultiva nei casi in cui vengano in poste discussione fattispecie concrete che, nel caso in specie, trovano nel rapporto convenzionale gran parte della loro origine. Ciò proprio al fine di evitare l’ingerenza della Corte nelle scelte gestionali da operare solo ed esclusivamente da parte dell’amministrazione attiva.
V. Con riferimento, invece, al quarto quesito, la Sezione ritiene che lo stesso possa essere reso atteso che si verte in ordine all’interpretazione della normativa vincolistica in materia di personale (limite di spesa del trattamento accessorio) in correlazione, in particolare, a quanto disposto dall’art. 113 del nuovo Codice degli Appalti dedicato agli incentivi per funzioni tecniche, al fine della sua corretta applicazione. Ciò, ovviamente astraendo il parere reso da ogni eventuale riferimento a fattispecie concrete sottostanti, offrendo esclusivamente una lettura interpretativa delle norme di contabilità pubblica che regolano la materia in oggetto.
Venendo al merito, preliminarmente,
si evidenzia come la ratio sottesa alla previsione normativa di incentivi per il personale delle pubbliche amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione interna agli enti pubblici oltre che nelle attività di esecuzione dei lavori pubblici era finalizzata a valorizzare le professionalità interne esistenti: ciò anche con lo scopo di originare risparmi sulla spesa corrente delle pubbliche amministrazioni che in tal modo, avrebbero potuto evitare di ricorrere, per l’acquisizione di tali prestazioni, all’esternalizzazione con una probabile levitazione degli oneri.
Non va poi sottaciuto che il quadro normativo di riferimento è stato caratterizzato da numerose integrazioni delle disposizioni in materia succedutesi nel tempo in modo non sempre organico.
In particolare, l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche”, ha riproposto, in materia di incentivi tecnici, norme previgenti (quali l’art. 18 della legge n. 109 del 1994, e successive modifiche ed integrazioni, e l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo). Detta norma consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Successivamente, l’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, ha innovato la disciplina prevedendo che l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, vada effettuato non solo con riferimento agli appalti di lavori (nella formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni e di servizi.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”. L’importo del fondo è destinato a remunerare una serie di funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni ben individuate quali: “attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
Il successivo comma 3 della medesima disposizione non solo estende la possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori” ma stabilisce che l’80% delle risorse allocate sul detto fondo possa ripartirsi, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”, ai destinatari indicati al comma 2.
Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le infrastrutture; attivazione di tirocini formativi; svolgimento di dottorati di ricerca; etc.).
Rispetto alla previsione di detti incentivi, che di per sé sono annoverabili nell’ambito del trattamento accessorio del personale, si pongono, tuttavia, una serie di norme vincolistiche di finanza pubblica che, nel corso degli ultimi anni hanno posto dei limiti alle risorse che ogni amministrazione deve destinare al relativo Fondo facendo emergere questioni interpretative non di poco conto incentrate sulla riconduzione o meno di detti e delle risorse destinate agli incentivi nell’ambito “tetto” al Fondo delle risorse decentrate,
Con riguardo a tali disposizioni si richiama dapprima l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 del 2010 con il quale si disponeva che l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non potesse superare il corrispondente importo dell'anno 2010 e che a decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio andassero decurtate di un importo pari alle riduzioni operate.
In seguito, l’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015 ha introdotto analoga limitazione, statuendo che “Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con particolare riferimento all’omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal 1° gennaio 2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente".
Il citato comma è stato poi abrogato dall'art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017, che, a decorrere dal 1° luglio, dispone che “l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
Fatto il debito richiamo al quadro normativo di riferimento si rammenta che recentemente la Sezione delle Autonomie chiamata a pronunciarsi in merito alla questione interpretativa prospettata dalla Sezione di controllo per la Lombardia in ordine alla circostanza “se i compensi erogati a carico del predetto fondo per gli incentivi tecnici debbano essere computati ai fini del rispetto dei limiti al trattamento accessorio disposti dal soprarichiamato articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017”, ha affermato, sul punto, il seguente principio di diritto “
Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017” (
deliberazione 26.04.2018 n. 6 Sezione delle Autonomie).
Nella citata deliberazione viene chiarito che
l’incentivo, essendo previsto da una disposizione di legge speciale (art. 113 del D.lgs. 50/2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, non è assoggettabile al vincolo del trattamento accessorio che, invece, trova la sua fonte nei contratti collettivi di comparto. Ed ancora, viene affermato che “gli incentivi per le funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici”.
Alla luce di dette considerazioni che si fondano sullo ius superveniens, viene pertanto, superato il precedente orientamento della stessa Sezione delle Autonomie, in vigore fino a tutto il 2017, che riteneva che gli incentivi fossero da includere nel tetto del trattamento accessorio di cui all’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) (
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24 Sezione delle Autonomie ).
Nella stessa
deliberazione 26.04.2018 n. 6, veniva poi affrontato un ulteriore quesito interpretativo posto dalla Sezione remittente lombarda e precisamente quello in ordine a “quali siano le concrete modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici devono adottare per osservare la regola dell’eventuale sottoposizione degli incentivi previsti dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, al limite complessivo posto al trattamento economico accessorio dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Detto quesito nasceva da una serie di considerazioni sulle problematiche interpretative della norma di cui al comma 5-bis formulate dalla Sezione lombarda, che in parte attengono alla questione odierna, e che qui si richiamano integralmente “Il primo problema attiene alla modalità di computo degli incentivi erogati nel 2016 (anno base), ai sensi del d.lgs. n. 163 del 2006, in modo da avere un omogeneo termine di riferimento per l’esercizio di osservazione (per es., il 2018), in cui andrebbero inseriti gli emolumenti spettanti ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Tuttavia, come più volte affermato, mentre i primi erano riferiti ai soli appalti di lavori, i secondi premiano anche agli appalti di forniture e di servizi, e, come tali, dovrebbero, fisiologicamente, essere di un importo superiore rispetto a quanto impegnato/erogato nel 2016 per i soli lavori (elemento che prefigura, già in astratto, un potenziale sforamento del limite).
Il secondo dubbio attiene al computo degli incentivi in discorso, ai fini del limite di finanza pubblica, sia nell’anno base (2016) che in quello oggetto di limitazione (per es. 2018), in termini di cassa o di competenza (o sulla base di altro eventuale criterio).
Se si propende per la cassa, occorrerebbe inserire anche emolumenti che derivano da attività aggiudicate o eseguite in anni precedenti, esercizi per i quali l’orientamento delle Sezioni riunite avevano escluso la soggezione al limite di finanza pubblica (e, facendo affidamento su tale principio, le singole PA avevano costituito i vari fondi). Se si ragiona, invece, per competenza (come accade, in generale, per l’applicazione delle regole limitative di spesa), occorre chiarire a quale esercizio imputarle. Una prima ipotesi potrebbe essere di imputarle a quello di costituzione del fondo (in cui l’attività incentivata, tuttavia, potrebbe non essere stata ancora espletata).
In alternativa, si potrebbe imputarle a quelli di effettivo espletamento dell’attività tecnica incentivata, proponendosi però un problema applicativo per gli incarichi per natura coinvolgenti più esercizi (quali il RUP, la direzione dell’esecuzione del contratto, il collaudo in corso d’opera, etc.) in ragione della necessità di individuare un parametro affidabile di ripartizione (non sempre omogenea allo stato di avanzamento delle opere), anche al fine di evitare interpretazioni elusive del dettato normativo. In alternativa, per avere un ancoramento puntuale, si potrebbe imputare la spesa all’esercizio di formale affidamento dell’incarico (con conseguenti dubbi, tuttavia, per le attività che devono, per loro natura, essere concretamente eseguite in esercizi successivi).
Ulteriore problema attiene al trattamento giuridico da accordare ai compensi incentivanti collegati al medesimo lavoro, servizio o fornitura per attività, tuttavia, espletate su più esercizi.
L’ancoramento del limite generale di finanza pubblica posto al trattamento economico accessorio ad un anno base di riferimento, determina il rischio, per gli appalti aventi esecuzione o efficacia pluriennale, dell’erogabilità dell’incentivo a favore di alcune attività strumentali espletate dai dipendenti interni, e non di altre, in ragione dell’esercizio di imputazione (se capiente o meno), con riferimento, tuttavia, al medesimo lavoro, servizio o fornitura (con conseguente necessità di adottare un criterio per es. decurtazione proporzionale, che non determini disparità di trattamento fra dipendenti interni, fonte di potenziale contenzioso).
Orbene, è proprio in relazione alle prospettate questioni poste dalla Sezione lombarda, che si ricollega, almeno in parte, il quarto quesito prospettato in questa sede dal Comune di Porto Viro ovvero se gli incentivi “... di cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis del medesimo decreto, …… debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa
”.
Detto quesito, può trovare la propria soluzione alla luce delle considerazioni sopra richiamate svolte dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
In relazione alla questione se gli incentivi “per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis del medesimo decreto, ……debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa” la soluzione non può che essere ricondotta all’effetto innovativo prodotto dal comma 5-bis dell’articolo 113 a far data dall’entrata in vigore della disposizione normativa in relazione sia al principio del tempus regit actum che a quello dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1, delle Preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo).
La stessa Sezione delle Autonomie, d’altronde afferma che “
… va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici …”.
Per altro verso la richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione delle Autonomie dopo aver affermato che “la ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure” in ordine al fatto se le prestazioni per gli incentivi vadano o meno considerate quale spesa del personale, è giunta a ritenere chiaramente che “L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
Con ciò confermando che l’onere relativo non transita nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale e, quindi non può essere soggetto ai vincoli posti, nel caso in specie agli enti territoriali, alla relativa spesa.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo per il Veneto dichiara inammissibili oggettivamente i primi tre quesiti formulati dal Comune dei Porto Viro, e rende il parere nei termini sopra espressi in relazione al quarto quesito prospettato.

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, regolamenti non retroattivi.
Il regolamento per gli incentivi tecnici non può avere effetti retroattivi, ma la sua mancata approvazione non preclude la ripartizione delle risorse in precedenza accantonate, purché ovviamente in modo conforme ai limiti di legge.

Il nuovo chiarimento sulla ingarbugliata questione degli emolumenti previsti dall'art. 113 del dlgs 50/2016 (che ha sostituito il previgente art. 93 del dlgs 163/2006) arriva ancora una volta dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto della Corte dei conti, che con il parere 25.07.2018 n. 264 ha affrontato un altro nodo critico, ossia le conseguenze della mancata adozione del regolamento previsto sia dal vecchio che dal nuovo codice dei contratti per disciplinare nel dettaglio tutti gli aspetti del riparto di tali risorse non oggetto di specifica previsione da parte del legislatore.
In tal senso, esso, per pacifica e consolidata giurisprudenza contabile, si configura in maniera inequivocabile, quale presupposto necessario della erogazione degli incentivi, nel senso che in mancanza del regolamento non è possibile procedere al pagamento.
Infatti, sulla scorta di quanto affermato anche dalla Corte di cassazione, lo svolgimento delle attività tecniche e (oggi anche) amministrative incentivatili non costituisce, in sé, un fatto compiuto generatore della pretesa patrimoniale (essendo, a tal fine, necessario il regolamento e la fissazione dei criteri di riparto del fondo, la cui assenza, sempre secondo la Suprema Corte, non può essere ovviata attraverso l'esercizio della potestà di cui all'art. 2099 c.c.) o, comunque, determinante l'acquisizione definitiva di una utilità da parte dei soggetti interessati.
Tuttavia, l'assoggettamento alla disciplina regolamentare del riparto delle risorse accantonate tra i dipendenti che abbiano svolto le attività in questione, purché effettuato con riferimento alle norme ratione temporis applicabili alla fattispecie, secondo il criterio di regolazione in esse espressamente previsto o, in mancanza, in base al disposto dell'art. 11 delle Preleggi, non concretizza una estensione retroattiva degli effetti di tale disciplina ovvero una violazione del principio di irretroattività.
In altri termini, l'irretroattività del regolamento non preclude la ripartizione delle risorse in precedenza accantonate e ciò rende legittimo l'accantonamento, in misura ovviamente conforme al limite normativo, nelle more dell'adozione di tale atto. Deve certamente escludersi, invece, che il regolamento possa avere ad oggetto riparti già effettuati, al fine di porre rimedio, con effetto ex tunc, al mancato, tempestivo adeguamento a quanto prescritto dalla legge, come non potrebbe lo stesso modificare a posteriori l'aliquota effettiva di risorse già destinate al fondo (cfr. Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7).
Sarebbe comunque auspicabile, rilevano i giudici veneti, un intervento del legislatore che chiarisse la portata temporale delle norme regolamentari, anche prevedendo una espressa (e possibile) deroga al principio di irretroattività
(articolo ItaliaOggi del 02.08.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Fossalta di Portogruaro (VE)
, tenuto conto degli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di incentivi per funzioni tecniche (
deliberazione 26.04.2018 n. 6), sulla base delle modifiche normative introdotte dalla L. n. 205/2017, riguardanti la contabilizzazione delle risorse ad essi destinate nei bilanci delle amministrazioni pubbliche, chiede se le conclusioni alle quali era giunta questa Sezione regionale di controllo (parere 07.09.2016 n. 353) e le considerazioni espresse dalla Sezione Regionale di controllo per la Basilicata (parere 08.03.2017 n. 7) siano ancora attuali, avuto riguardo alla possibilità di liquidare (a far data dal 2014) le somme accantonate prima della adozione, da parte delle amministrazioni medesime, del regolamento previsto dal Codice degli appalti (vecchio e nuovo) e di fare riferimento, a tal fine, ai “patti sindacali” ossia al contenuto della contrattazione decentrata integrativa.
...
La richiesta di parere all’esame di questa Sezione ha ad oggetto gli incentivi per funzioni tecniche disciplinati dal precedente e dall’attuale Codice degli appalti e, specificamente, la possibilità di ripartire le somme accantonate prima della adozione del regolamento previsto dalla normativa richiamata, allo scopo di remunerare prestazioni rese in precedenza dai dipendenti dell’ente.
La questione è stata già affrontata da questa e da altre Sezioni regionali di controllo.
Nel
parere 07.09.2016 n. 353 (espressamente menzionato nella richiesta di parere), questa Sezione si è pronunciata su alcuni quesiti interpretativi incentrati sul previgente art. 93 del D.lgs. n. 163/2006: in particolare, dopo aver affermato l’irretroattività del regolamento ivi previsto, espressamente finalizzato, nel testo della norma, alla quantificazione della “percentuale effettiva” delle risorse da destinare ad apposito fondo nonché a disciplinare, mediante il recepimento dei criteri definiti in sede di contrattazione decentrata, il riparto del fondo medesimo tra i dipendenti interessati, ha concluso che la disciplina regolamentare è “condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate” e che, comunque, nelle more della adozione di tale atto, l’ente possa provvedere all’accantonamento delle risorse entro i limiti percentuali normativamente fissati (non più del 2 per cento sull’importo dei lavori dei lavori, servizi o forniture).
Ad analoga conclusione è giunta anche la Sezione di controllo per la Basilicata (
parere 08.03.2017 n. 7, del pari, richiamata nella richiesta di parere), anche se attraverso un percorso argomentativo differente, caratterizzato dalla previa individuazione del momento di insorgenza del diritto al compenso e dall’analisi della diversa incidenza, su tale genesi, dei presupposti contemplati dalla norma, con un distinguo tra contrattazione collettiva decentrata integrativa e regolamento vero e proprio.
In sostanza,
a prescindere dal momento genetico del diritto e dalla qualificazione dei presupposti contemplati dalla norma, l’adozione del regolamento è stata ritenuta presupposto necessario ai fini della remunerazione anche delle prestazioni svolte in precedenza, sulla base dei criteri e delle modalità da esso recepite e dell’ammontare complessivo del Fondo ivi stabilito.
In tal senso, si è espressa anche la Sezione Lombardia, secondo cui
i “nuovi” incentivi previsti dall’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016 possono essere erogati una volta adottato il regolamento, anche se relativi a funzioni tecniche espletate nel periodo anteriore, purché in riferimento a procedure bandite dopo l’entrata in vigore del suddetto Decreto legislativo e mediante l’utilizzazione delle somme accantonate nel quadro economico riguardante lo specifico appalto (
parere 12.06.2017 n. 191 e parere 07.11.2017 n. 305).
In merito alla irretroattività del regolamento, affermata in linea di principio da questa Sezione nella citata delibera -in ragione della natura di atto normativo allo stesso attribuibile e della conseguente applicazione dell’art. 11 delle Preleggi- ed esclusa, invece, dalla Sezione Basilicata, limitatamente a quella parte dell’atto finalizzata al recepimento degli esiti della contrattazione collettiva decentrata integrativa, appare opportuno formulare alcune considerazioni, che consentiranno di affrontare i profili problematici segnalati dall’ente.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che, nell’art. 93 del vecchio codice degli appalti -nel testo modificato dall’art. 13-bis della L. n. 114/2014 (di conversione del D.L. n. 90/2014)- il regolamento in questione, come si è già evidenziato, oltre a disciplinare il riparto del fondo, attraverso l’assunzione dei criteri e delle modalità stabilite in sede di contrattazione decentrata integrativa, definiva, altresì, la percentuale “effettiva” delle risorse da impiegare, entro il limite massimo del 2% degli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori.
Nell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, invece, al regolamento non è più demandata la definizione della percentuale effettiva delle risorse da destinare al fondo, ma esso rimane strumento della disciplina di dettaglio riguardante tutti gli aspetti del riparto di tali risorse non oggetto di specifica previsione da parte della norma, qualificandosi, in maniera ancor più inequivocabile, quale presupposto necessario della erogazione degli incentivi per funzioni tecniche (“L’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento, adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”).
Fatta questa precisazione,
deve rilevarsi che, sia con riguardo alle disposizioni del vecchio codice che con riguardo a quelle attualmente in vigore, la conclusione secondo cui, a seguito dell’adozione del regolamento, si può disporre la ripartizione degli incentivi per attività espletate dopo l’entrata in vigore delle disposizioni medesime ma prima di tale adozione, mediante l’utilizzazione delle somme accantonate, non si pone in contrasto con l’irretroattiva del regolamento, comunque riferibile, ad avviso di questa Sezione, all’atto nella sua interezza, senza distinzioni.
Gli incentivi in esame, diversamente da quanto accade per il trattamento retributivo (principale o accessorio) dei pubblici dipendenti, di competenza della contrattazione collettiva nazionale, sono previsti dalla legge –attualmente, art. 113 del D.lgs. n. 50/2016– che definisce le prestazioni (espletamento di funzioni tecniche, appunto, analiticamente individuate) che danno luogo alla corresponsione degli stessi; lo speciale trattamento retributivo in questione, dunque, trova la propria fonte in una norma, la quale prevede, ai fini della corresponsione –rectius ripartizione del fondo all’uopo accantonato– la fissazione dei criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad esso specificamente “destinate” in sede di contrattazione collettiva decentrata e l’adozione di “apposito regolamento”.
Quest’ultimo costituisce un “passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia” (
deliberazione 13.05.2016 n. 18), strumento di adattamento della disciplina normativa alle specifiche esigenze dell’ente, legate alle singole procedure di appalto, ma, nell’ottica che qui interessa, è soprattutto l’atto che, recependo i criteri e le modalità individuati dalla contrattazione decentrata, consente il riparto delle risorse accantonate e rende determinabile il quantum dell’incentivo spettante ai singoli dipendenti, con ciò sancendo il sorgere della pretesa patrimoniale (ovvero del diritto) alla corresponsione del trattamento accessorio.
Invero,
il momento in cui può dirsi sorto il diritto alla erogazione degli incentivi (per la progettazione, prima, e per le funzioni tecniche, attualmente), in passato, era stato identificato con l’espletamento della prestazione.
In particolare, la Sezione delle Autonomie e, seguendone l’orientamento, anche alcune Sezioni regionali di controllo, avevano ritenuto, sulla scorta di una pronuncia della Suprema Corte (sentenza 19.07.2004 n. 13384), che
il diritto all’incentivo –ossia quello allora previsto dall’art. 18 della L. n. 109/1994– costituisse “un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (…) che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo dell’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso” e che “dal compimento dell’attività nasce il diritto al compenso (
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG).
Di recente, tuttavia, sempre con riferimento ad una fattispecie sorta nella vigenza della disciplina anteriore al Codice degli appalti, la Corte di Cassazione ha chiarito il proprio orientamento, precisando che
i principi affermati nella sentenza del 2004 non avallano affatto la possibilità di riconoscere il diritto all’incentivo in assenza del regolamento (allora prescritto dall’art. 18 della L. n. 109/1994, a seguito delle modifiche introdotte prima dall’art. 16 della L. n. 127/2007 e poi dall’art. 13 della L. n. 144 del 1999) e che, in ogni caso, “l’incentivo può essere attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva decentrata e se sia stato adottato l’atto regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle risorse finanziarie confluite nel Fondo (Cass. civ. sez. lav., sentenza 05.06.2017 n. 13937).
Sulla base del tenore, assolutamente analogo, sotto il profilo considerato, delle disposizioni sin qui menzionate ed alla luce delle condivisibili conclusioni alle quali è giunto anche il Giudice del lavoro,
non può configurarsi un diritto soggettivo alla erogazione dell’incentivo (per la progettazione o per funzioni tecniche) prima della adozione del regolamento.
In altri termini,
secondo il chiaro disposto tanto del previgente art. 93 del D.lgs. n. 163/2016 –ancora applicabile alle fattispecie afferenti alle procedure bandite prima della entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti– quanto dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, lo svolgimento delle attività tecniche (ed amministrative) non costituisce, in sé, un fatto compiuto generatore della pretesa patrimoniale (essendo, a tal fine, necessario il regolamento e la fissazione dei criteri di riparto del fondo, la cui assenza, sempre secondo la Suprema Corte, non può essere ovviata attraverso l’esercizio della potestà di cui all’art. 2099 c.c.) o, comunque, determinante l’acquisizione definitiva di una utilità da parte dei soggetti interessati.
L’assoggettamento alla disciplina regolamentare del riparto delle risorse accantonate tra i dipendenti che abbiano svolto le attività in questione, purché effettuato con riferimento alle norme ratione temporis applicabili alla fattispecie, secondo il criterio di regolazione in esse espressamente previsto o, in mancanza, in base al disposto dell’art. 11 delle Preleggi, dunque, non concretizza una estensione retroattiva degli effetti di tale disciplina ovvero una violazione del principio di irretroattività.
Deve certamente escludersi, invece, che il regolamento possa avere ad oggetto riparti già effettuati, al fine di porre rimedio, con effetto ex tunc, al mancato, tempestivo adeguamento a quanto prescritto dalla legge, come non potrebbe lo stesso –con riferimento alle procedure di appalto instaurate nel vigore dell’art. 93 del D.lgs. n. 163/2006- “modificare a posteriori l’aliquota effettiva di risorse già destinate al fondo (Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7, cit).
L’irretroattività, inoltre, va valutata in relazione al contenuto dell’atto de quo ovvero agli aspetti che esso regolamenta e che può legittimamente regolamentare. L’art. 113, in particolare, ne colloca la disciplina esclusivamente nell’ambito del riparto delle risorse finanziarie del fondo e della determinazione delle modalità di quantificazione del corrispettivo, provvedendo alla individuazione analitica delle varie tipologie di prestazioni rilevanti ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio, con la conseguenza che è alla norma soltanto che occorre fare riferimento, sia sotto il profilo temporale che della corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta ivi prevista, per stabilire se una prestazione possa essere o meno riconosciuta, una volta sussistenti tutti i presupposti dei quali si è detto.
In conclusione,
l’irretroattività del regolamento non preclude, per le ragioni dianzi specificate, la ripartizione delle risorse in precedenza accantonate e ciò rende legittimo l’accantonamento, in misura ovviamente conforme al limite normativo, nelle more dell’adozione di tale atto.
Al fine di fugare ogni dubbio in merito ed evitare problemi applicativi alle amministrazioni, comunque, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che chiarisse la portata temporale delle norme regolamentari, anche prevedendo una espressa (e possibile) deroga al principio di irretroattività.
Il quadro appena delineato va valutato alla luce del principio di diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6, secondo cui gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016 non soggiacciono al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del D.lgs. n. 75/2017. Sulla base dello ius superveniens, la Sezione ha superato il precedente orientamento, in base al quale gli incentivi erano, invece, da includere nel tetto del trattamento accessorio (deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24).
L’ente richiedente, infatti, ha espresso perplessità circa la compatibilità del suddetto, nuovo principio con la ritenuta utilizzabilità delle risorse accantonate ai fini del riparto, una volta adottato il regolamento.
Le perplessità sembrerebbero prendere le mosse dalla considerazione che, una volta esclusi gli incentivi dalle voci di bilancio che riguardano la spesa di personale, in forza del comma 5-bis dell’art. 113, introdotto dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, che li ha collocati sui capitoli di spesa previsti per i singoli lavori, servizi e forniture, verrebbe meno l’impianto argomentativo che giustifica il riparto nei termini anzi detti.
Invero,
sia la modifica normativa che la conseguente interpretazione della disciplina sugli incentivi formulata dalla Sezione delle Autonomie non appaiono in contrasto con le conclusioni sin qui esposte.
Nella pronuncia del 2018, si afferma che; l’allocazione contabile degli incentivi nell’ambito dei medesimi capitoli di spesa dei singoli lavori, servizi o forniture, se pure “potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente -trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale”– tuttavia, “sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e della spesa per il trattamento accessorio”; la ratio legis è quella “di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure”; in definitiva, “l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici”.
Ne emerge, in sostanza, la presa d’atto della considerazione, in termini di specialità, degli incentivi in esame, non a caso “disciplinati da una disposizione di legge speciale, valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto” (
deliberazione 26.04.2018 n. 6), che trovano origine nella legge e non nella contrattazione collettiva (e men che meno quella decentrata integrativa, cui compete, nella specie, soltanto la fissazione dei criteri di riparto tra i dipendenti del fondo all’uopo stanziato).
La contabilizzazione delle risorse secondo un modello predeterminato ed al di fuori dei capitoli destinati alla spesa di personale non collide con la possibilità di ripartire le risorse del fondo per remunerare le prestazioni tecniche precedentemente rese dai dipendenti, una volta adottato il regolamento, così come sin qui argomentato –tenuto conto del vincolo al trattamento accessorio di cui all’art. 23, comma 2, del D.lgs. n. 75/2017, nei termini indicati, da ultimo, nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle Autonomie- generando semmai il dubbio che la speciale disciplina contabile, per effetto delle modifiche introdotte dal citato art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, abbia conformato anche la natura giuridica del trattamento economico in questione.
Vero è che –come prospettato dall’ente nella richiesta di parere- nel quadro appena delineato ed alla luce delle considerazioni contenute nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6 dianzi riportate, non sembra avere più molta utilità distinguere tra contrattazione decentrata integrativa e Regolamento destinato a recepirla ai fini della individuazione della genesi del diritto a percepire gli incentivi per funzioni tecniche; tanto più che, in ogni caso, essa non consente (e non consentiva secondo l’orientamento delle Sezioni regionali di controllo, in generale) di liquidare gli incentivi in assenza del prescritto regolamento.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: I compensi incentivanti non sono riconoscibili ai Commissari di gara.
Gli incentivi ex art. 113 D.Lgs. n. 50/2016 retribuiscono dal 19/04/2016 (art. 220) soltanto le funzioni prettamente “tecniche” (gestionali, esecutive e di controllo), attingendo al Fondo vincolante risorse non superiori al 2% dell’importo a base di gara, con copertura “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1” (c.d. “quadro economico” dell’appalto) secondo il comma 5-bis, introdotto da art. 1, comma 526, della L. 205/2017.
---------------
Secondo il criterio transitorio dell’art. 216 Cod., l’art. 113 si applica a tutte le procedure o ai contratti per cui -dopo l'entrata in vigore del Codice- sono stati pubblicati i bandi o gli avvisi, o sono stati inviati gli inviti a presentare le offerte. L’incentivo è erogabile in tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalti: lavori, servizi e forniture, senza che sia necessaria la presenza di un appalto “misto”, purché sussista una pubblica gara.
Il Regolamento è elemento integrativo della “fattispecie complessa” prodromica alla liquidazione dell’incentivo, ma non è necessario per costituire il Fondo, che il Comune è autorizzato per legge ad accantonare prima, purché nei limiti massimi (2%).
Esso è condizione di legittimità per ripartire, tra gli aventi diritto, in recepimento dei criteri e modalità fissati in sede di contrattazione decentrata, le risorse del Fondo ed ha duplice ruolo: esecutivo delle tassative previsioni legali nella parte in cui ripartisce gli incentivi tra le diverse categorie di beneficiari; normativo, ove specifica le percentuali da corrispondere a ciascuna figura professionale ed il concetto di “collaboratori” del RUP.
---------------
L’elencazione tassativa delle attività incentivabili (cfr. “esclusivamente” in 2° co.) preclude di ricomprendere estensivamente l’attività dei Commissari di gara, in quanto valutativa e non tecnico-esecutiva. I Commissari sono retribuibili -con onere gravante sul quadro economico dell’appalto- soltanto ove nominati tra professionisti esterni alla Stazione (cfr. art. 77, 10° co., Cod. e art. 2 DM Infrastrutture 12/02/2018).
Né sono incentivabili i dipendenti della Stazione appaltante operanti come Commissari di gara (neppure entro il 25% dell’incentivo previsto dal 2° co., se distaccati presso la CUC).
Il Regolamento è richiesto soltanto dal 3° co. per ripartire le risorse tra gli aventi diritto nel caso in cui sia l’Ente locale, gestendo direttamente l’appalto, a dover devolvere l’80% del Fondo, ma non per devolvere “tutto o parte” del Fondo di cui al 2° co., ai dipendenti della CUC di cui il Comune si avvale, spettando poi alla CUC ripartire tali risorse con proprio Regolamento.
Il Comune può riconoscere incentivi entro il 25%, di cui al 5° co., se li attribuisce ai suoi dipendenti, previo consenso della CUC presso di cui li ha distaccati, per lo svolgimento di funzioni tecniche a vantaggio di Comuni diversi.
Sono incentivabili i componenti della Conferenza Unificata tecnica della CUC (di cui fa parte il Responsabile della CUC e possono far parte i Segretari comunali), purché non svolgano funzioni valutative.
---------------
Dal 01.01.8 le spese relative agli incentivi tecnici non sono più iscrivibili nel capitolo di spesa del personale relativo al trattamento accessorio, né sottoponibili ai relativi vincoli e limiti.
Esse devono trovare iscrizione contabile nel medesimo capitolo di spesa (di investimento) destinato a coprire il costo complessivo dei lavori, servizi e forniture: Tit. II della spesa, ove si tratti di opere pubbliche e Tit. I, nel caso di servizi e forniture, “con qualificazione coerente con quella del tipo di appalto di riferimento”.
Ne consegue che la spesa relativa agli incentivi è finanziabile con l’indebitamento, non ostandovi il 119 Cost..

--------------- 
... il Sindaco pro tempore del Comune di San Cesareo (RM) ha effettuato richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131 del 2003, con riferimento agli “incentivi per funzioni tecniche” riconosciuti, dall’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, ai pubblici dipendenti, formulando i seguenti quesiti:
   1. “se tra le attività riportate al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, per lo svolgimento delle quali è prevista la possibilità di riconoscere gli incentivi tecnici, rientrano anche le attività svolte dai dipendenti come commissari di gara”;
   2. “se, in mancanza di Regolamento comunale per la ripartizione degli incentivi tecnici ed in assenza della previsione, tra le risorse variabili del Fondo della contrattazione decentrata del Comune, delle somme necessarie a finanziare i medesimi incentivi, sia possibile riconoscere alla CUC la quota del 25% dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016”;
   3. “se la quota del 25% che ciascun Comune versa alla CUC possa essere utilizzata per corrispondere gli incentivi tecnici solo al personale stabile della CUC (l’art. 113, comma 5, parla di compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza) o se, invece, è possibile riconoscere tali compensi anche ai commissari di gara formalmente incaricati dal RUP della CUC (tali dipendenti, anche in altri comuni aderenti alla CUC, sono considerati funzionalmente distaccati presso la Centrale) ed ai membri della Conferenza unificata tecnica della CUC (di cui fa parte anche il responsabile della CUC o un suo delegato o di cui possono far parte anche i segretari comunali)”;
   4. “
se, dopo l’approvazione del Regolamento comunale, sia possibile riconoscere tali incentivi con effetto retroattivo, ovvero anche per le procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture avviate e concluse prima dell’adozione dello stesso”;
   5. “se sia possibile riconoscere tali incentivi dopo l’approvazione del Regolamento, pur in assenza della previsione di tali risorse nel fondo per la contrattazione integrativa dell’anno di riferimento”.
A tal fine, precisa di non aver ancora adottato lo specifico Regolamento comunale per disciplinare la ripartizione degli incentivi tecnici in questione tra il personale dipendente; di non aver stanziato –in sede di costituzione del Fondo della contrattazione decentrata– alcuna risorsa da destinare ad essi come vincolata; di aver aderito ad una Centrale Unica di Committenza (CUC) per l’espletamento delle procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture.
Riferisce, altresì, che il Regolamento della CUC prevede che ciascun Ente aderente ad essa debba riconoscerle il 25% dell’incentivo di cui al comma 2, secondo la propria modulazione, da ripartirsi tra il personale stabile della CUC, i Commissari di gara (nominati dal RUP della CUC tra i dipendenti degli Enti aderenti) ed i membri della Conferenza tecnica unificata (composta dal responsabile della CUC e dai responsabili comunali nominati dalle amministrazioni aderenti).
...
Considerazioni generali.
Occorre premettere, all’analisi specifica dei cinque quesiti ermeneutici prospettati, alcune considerazioni di carattere generale sull’istituto degli incentivi tecnici, quale disciplinato dall’art. 113 del Codice, dapprima novellato dal D.Lgs. correttivo n. 56 del 2017 e poi integrato, con l’aggiunta di un comma 5-bis, dalla L. n. 205 del 2017 (Legge di Stabilità 2018).
Trattasi di interventi normativi, che hanno progressivamente innovato -in modo significativo rispetto a quanto previsto dal Codice previgente (D.Lgs. n. 163/2006)- l’apparato dei compensi incentivanti, i quali –da un canto– non possono più essere corrisposti per le attività di progettazione e –dall’altro– sono stati estesi alle funzioni tecniche svolte dai dipendenti anche nei contratti pubblici di servizi e di forniture e non più soltanto di lavori pubblici.
1. Le origini storiche dell’istituto.
Quanto al primo profilo, giova ricordare che gli incentivi tecnici storicamente nascono come correlati proprio alle funzioni progettuali, stante il principio che alla predisposizione del progetto dovessero provvedere, di regola, gli Uffici tecnici interni alle Amministrazioni, costituendo l’affidamento esterno una mera eccezione: principio introdotto dall’art. 1 del R.D. 1923 n. 422, reiterato dagli articoli 17 e 18 della abrogata L. n. 190 del 1994 (c.d. “Legge Merloni”), nonché confluito nell’art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165 del 2001 e, al contempo, consolidatosi anche a livello giurisprudenziale.
In considerazione di tale conformazione dell’attività di progettazione, l’art. 18 della L. n. 190 del 1994 introdusse l’istituto degli incentivi c.d. “alla progettazione”, poi ripreso –seppure con oscillazioni, nel tempo, delle relative percentuali– dall’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, che (come modificato dall’art. 1, comma 10-quater, del D.L. n. 162 del 2008, convertito dalla L. n. 201 del 2008) pose un tetto massimo, in base al quale l’importo del compenso incentivante non poteva superare quello del complessivo trattamento annuo lordo del dipendente che lo percepiva.
Alla relativa corresponsione era destinato un Fondo interno, alimentato con una quota parametrata all’ammontare del costo preventivato per le opere e per i lavori, da distribuire e liquidare con le modalità stabilite dall’Amministrazione appaltante mediante Regolamento. Si trattava, dunque, di somme finalizzate, con vincolo di destinazione, ad incentivare i dipendenti interni svolgenti, oltre alla progettazione, anche una serie di altre attività tecniche, alcune analoghe a quelle dell’art. 113 in esame, per cui costituivano a tutti gli effetti, anche nel portato dell’interpretazione giurisprudenziale, oggetto di un diritto soggettivo retributivo del pubblico dipendente (sub specie di “salario accessorio”).
Diritto che era considerato direttamente nascente da disposizioni normative e, dunque, sussistente ove pure la P.A. restasse inottemperante riguardo alla predisposizione del Regolamento (in tal senso Cass. sentenza 19.07.2004 n. 13384, in relazione alla formulazione dell’art. 18, come modificato dall’art. 6, comma 13, della L. n. 127/1997, che peraltro non subordinava –come l’attuale 113– l’emanazione del Regolamento alla previa stipula della contrattazione collettiva decentrata integrativa, a differenza di quanto è stato poi previsto sin dall’art. 13, comma 4, della L. n. 144/1999).
Con gli articoli 13 e 13-bis del D.L. n. 90 del 2014 e la relativa L. di conversione n. 114 del 2014, l’istituto fu, poi, profondamente innovato e la disciplina degli incentivi alla progettazione interna di opere o lavori, con effetto dal 19/08/2014, non più allocata nell’abrogato comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, venne riproposta, con modifiche, all’interno del successivo art. 93, escludendosi:
   a) la categoria dirigenziale dall’erogazione dei compensi incentivanti, in quanto –ove pure essa fosse chiamata a svolgere funzioni tecniche, quali quelle elencate– doveva ritenerle retribuite dall’onnicomprensivo trattamento economico percepito (comma 6-bis, aggiunto all’art. 92), con eccezione reiterata in modo espresso nell’ultimo inciso del terzo comma dell’art. 113 del nuovo Codice;
   b) le attività di pianificazione urbanistica, nonché quelle di progettazione riguardante attività di manutenzione straordinaria e ordinaria, dal novero delle attività tecniche incentivabili.
2. Il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016).
In seguito al generale riordino della materia dei contratti pubblici, operato dal nuovo Codice, approvato in recepimento delle Direttive europee n. 2014/23/UE, n. 2014/24/UE n. 2014/25/UE, oggi, per discrezionale scelta di politica legislativa (art. 113), gli incentivi non retribuiscono più l’espletamento di funzioni progettuali da parte dei dipendenti.
E ciò sebbene la regola resti, anche nel nuovo Codice, quella di affidare la progettazione a dipendenti interni, visto che l’art. 23, comma 2, dispone: “Per la progettazione di lavori di particolare rilevanza sotto il profilo architettonico, ambientale, paesaggistico, agronomico e forestale, storico-artistico, conservativo, nonché tecnologico, le stazioni appaltanti ricorrono alle professionalità interne, purché in possesso di idonea competenza nelle materie oggetto del progetto o utilizzano la procedura del concorso di progettazione o del concorso di idee di cui agli articoli 152, 153, 154, 155 e 156. Per le altre tipologie di lavori, si applica quanto previsto dall'articolo 24”.
In base a quest’ultimo articolo, la progettazione, che per i lavori pubblici si articola in tre livelli (progetto di fattibilità, progetto definitivo e progetto esecutivo) è affidata, in prima battuta, agli uffici tecnici delle Stazioni appaltanti (lett. a del comma 1) o agli uffici consortili costituiti da Enti pubblici o ad altri organismi di altre PA e, in via soltanto residuale, ad operatori economici privati esterni (facendo la lett. d rinvio recettizio all’art. 46). Mentre “La progettazione di servizi e forniture è articolata, di regola, in un unico livello ed è predisposta dalle stazioni appaltanti, di regola, mediante propri dipendenti in servizio” (art. 23, comma 14, Codice).
L’esclusione, dall’ambito di operatività dei nuovi incentivi tecnici, dell’espletamento di funzioni progettuali è da ricondurre, già a monte, alla ratio della legge delega emanata per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (art. 1, comma 1, lett. rr, L. n. 11/2016), secondo la quale detti compensi sono finalizzati a incentivare specifiche attività –di natura eminentemente tecnica– svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle di programmazione, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara, nonché di esecuzione del contratto, “escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”, in modo espresso ed inequivoco.
Gli oneri necessari, invece, per coprire le funzioni progettuali svolte da professionisti esterni della Stazione pubblica appaltante, direttamente “fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti” (art. 113, comma 1, Codice).
3. I nuovi incentivi “tecnici” (art. 113).
Gli incentivi tecnici sono, pertanto, oggi funzionalmente destinati a retribuire –in chiave premiale ed aggiuntiva rispetto al trattamento economico ordinario– soltanto le funzioni più prettamente gestionali, esecutive e di controllo e sono corrisposti attingendo al Fondo in cui sono vincolate risorse non superiori al 2% dell’importo complessivo posto a base di gara, con copertura “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1” (art. 113, comma 2), costituenti il c.d. “quadro economico” dell’appalto.
Anche la Sezione Autonomie di questa Corte ha, del resto, esplicitamente dato atto della intervenuta abolizione degli incentivi alla progettazione previsti dal previgente Codice e della introduzione di nuove forme di incentivazione per funzioni tecniche, ad opera dell’art. 113 del nuovo Codice (deliberazione 13.05.2016 n. 18, citata e confermata da deliberazione 06.04.2017 n. 7). Ed ha ribadito che, comunque:
   a) gli incentivi per la progettazione affidata a dipendenti interni, per quanto ancora spettanti in applicazione dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, sono contabilmente inquadrabili come spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, non soggiacenti alle riduzioni di cui all’art. 1, commi 557 e 562, della L. 2006 n. 296 (
delibera 13.11.2009 n. 16/2009);
   b) gli incentivi per la progettazione ancora spettanti in applicazione dall’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, al personale degli uffici tecnici incaricato della realizzazione di lavori pubblici, incentivi che sono stati i primi ad essere ritenuti non sottoposti al tetto del Fondo per la contrattazione decentrata e dal tetto della spesa del personale, continuano ad esserne esclusi (Sezione Autonomie, deliberazione 10.10.2017 n. 24).
4. Il regime transitorio.
Problematica di rilevante importanza è quella relativa al regime di diritto transitorio applicabile, in particolare, all’istituto degli incentivi tecnici, quale disciplinato dall’art. 113, considerato che il protrarsi nel tempo delle procedure di appalto le espone allo ius superveniens.
A decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore del Codice (ex art. 220, dal giorno stesso della sua pubblicazione nella G.U.), il criterio di diritto transitorio enunciato dall’art. 216 del Codice, in difetto della previsione di espresse eccezioni, risulta generale e applicabile anche riguardo all’operatività della disciplina recata dall’art. 113. Secondo detto criterio, la questione di diritto intertemporale va risolta nel senso che le nuove disposizioni del Codice si applicano a tutte le procedure o ai contratti per i quali i bandi o gli avvisi risultano pubblicati (o, quando si prescinde dal bando, gli inviti a presentare le offerte sono stati inviati) posteriormente all'entrata in vigore dello stesso.
Ai fini della applicabilità del regime normativo disciplinante, invece, i pregressi ed abrogati incentivi alla progettazione, si deve far riferimento –secondo il vincolante orientamento espresso dalle delibere della Sezione Autonomie– alla data di effettivo espletamento delle funzioni progettuali (
deliberazione 08.05.2009 n. 7; deliberazione 24.03.2015 n. 11 e deliberazione 13.05.2016 n. 18): per cui, ove il bando sia stato approvato dopo il 19.04.2016, continuerà ad applicarsi la previgente disciplina alle attività di progettazione incentivate espletate prima di tale data, che risulteranno liquidabili purché sia stato già emanato il Regolamento e purché siano stati effettuati gli accantonamenti nell’apposito Fondo.
La “necessità per gli enti locali di adeguare tempestivamente la disciplina regolamentare in materia, nella quale peraltro trova necessario presupposto l’erogazione dei predetti incentivi” è stata, peraltro, espressamente ribadita anche dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 23.03.2016 n. 10).
Il criterio dell’effettivo espletamento non è stato tuttavia riproposto dalla medesima Sezione Autonomie, in funzione di orientamento generale, nella più recente deliberazione (cit. deliberazione 26.04.2018 n. 6), che si è proprio occupata dell’ermeneusi del comma 5-bis, senza effettuare, tuttavia, alcuna osservazione che possa vincolare le Sezioni regionali sotto il profilo del diritto transitorio: il che è condivisibile considerato che del resto non avrebbe potuto spingersi a favorire una interpretazione contraria alla chiara lettera dell’art. 216 del Codice.
Per cui è da ritenersi che l’art. 113, sia applicabile a tutte le procedure ed ai contratti per i quali i bandi o gli avvisi risultano pubblicati dopo l'entrata in vigore del Codice, ovvero, in difetto di essi, dopo tale data siano stati inviati gli inviti a presentare le offerte per le funzioni tecniche (in tal senso anche Sez. reg. controllo Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177).
5. L’ambito di operatività dell’istituto.
I nuovi e diversi incentivi per funzioni tecniche oggi erogabili, nell’ambito della contrattualistica pubblica, sono riferiti agli appalti sia di lavori, sia di servizi, sia di forniture. In tal senso si era già espressa, nell’interpretare l’art. 113 nella sua originaria formulazione, altra Sezione regionale di controllo di questa Corte, affermando che “la disposizione in esame si applica a tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalti: lavori, servizi e forniture” (Sez. Reg. controllo E. Romagna, parere 07.12.2016 n. 118) e “senza che sia necessaria, per il riconoscimento dell’incentivo, la presenza di un appalto misto, ossia di un appalto di un servizio o fornitura collegato ad un lavoro pubblico” (Sez. reg. controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), così anticipando quanto poi meglio esplicitato dal decreto correttivo n. 56/2017.
Con l’emanazione di quest’ultimo decreto, tuttavia, l’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti di affidamento di servizi e forniture, è risultata –al contempo– fortemente ridotta, in quanto contemplata soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore dell’esecuzione” (parte finale del comma 2, come modificata, in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del D.Lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso dal RUP, altrimenti nessun dipendente svolgente le funzioni enumerate dal comma 2 dell’articolo 113 può percepire compensi incentivanti.
E tale distinta nomina è richiesta soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo superiore a 500.000 euro, ovvero di particolare complessità, con valutazione spettante ai dirigenti (secondo quanto specificato al punto 10 delle Linee guida n. 3/2017, emanate dall’Anac, in attuazione dell’art. 31, comma 5, Codice, con delib. n. 1096 del 26.10.2016, per disciplinare in modo più dettagliato “Nomina, ruolo e compiti del RUP, per l’affidamento di appalti e concessioni”, ed aggiornate con la delib. n. 1007 dell’11.10.2017).
Tali incentivi non possono erogarsi neppure nell’ambito di contratti di appalto e concessione di servizi, che l’art. 17 del Codice fa oggetto di “Esclusioni specifiche”, stabilendo che ad essi le disposizioni del Codice non si applicano (ad es. servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri).
6. Il presupposto applicativo: la gara.
È pacifico che, essendo la presenza di una pubblica gara il presupposto indefettibile di operatività dell’istituto, le funzioni tecniche svolte da dipendenti in procedure di somma urgenza o svolte mediante affidamento diretto, non siano incentivabili mediante tale meccanismo indiretto, che presuppone la costituzione di un Fondo e la predisposizione di un Regolamento e non fa discendere la corresponsione del compenso incentivante –in via sinallagmatica e diretta– dal compimento della prestazione lavorativa, alla luce della previsione legale, analogamente a quanto avviene per i professionisti esterni (in tal senso, Sez. reg. controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185 e parere 09.06.2017 n. 190, Sez. reg. controllo Toscana, parere 14.12.2017 n. 186 e parere 27.03.2018 n. 19).).
7. La valenza giuridica del Regolamento ed il suo contenuto.
Il Regolamento comunale, stando alla lettera della interpretata disposizione, non è necessario per costituire il Fondo, che l’Ente è autorizzato dalla legge ad accantonare anche in un momento anteriore, purché nei limiti massimi previsti (2% di cui al comma 2), ma è condizione di legittimità per ripartirne, in recepimento dei criteri e modalità fissati in sede di contrattazione decentrata integrativa, le risorse tra gli aventi diritto, in modo funzionale alla assunzione dei relativi impegni e dei correlati pagamenti.
Esso costituisce, in sintesi, un elemento atto ad integrare la “fattispecie complessa” che conduce alla liquidazione del compenso incentivante (in tal senso Sez. reg. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 02.02.2018 n. 6 e Sez. reg. Toscana, parere 14.12.2017 n. 186, che la definisce “condicio sine qua non” per attuare il riparto).
Al Regolamento è demandata dalla legge valenza esecutiva delle tassative previsioni legali, nella parte in cui gli si affida l’individuazione delle tipologie di dipendenti beneficiari.
Ma gli è anche demandato il compito di individuare sia la portata definitoria del termine “collaboratori” del RUP, che la legge lascia aperto, evitandone uno sproporzionato ampliamento, sia l’ammontare delle percentuali da corrispondere a ciascuna figura professionale interna, sempre in un’ottica di congruenza, logicità e ragionevolezza.
L’Ente locale, dunque, nelle more della approvazione del Regolamento e della stipula del contratto decentrato, può (ed anzi deve), in esecuzione dell’art. 113, accantonare, a copertura degli incentivi tecnici, risorse nel Fondo, entro i limiti massimi previsti dalla legge, ma non può liquidarli, ripartendoli tra i propri dipendenti, poiché a tale ripartizione è funzionale e necessaria proprio l’emanazione dell’atto regolamentare.
A meno che –a prescindere dalla costituzione del Fondo– non avesse già stipulato, prima della entrata in vigore della norma, “contratti o convenzioni che prevedano modalità diverse per la retribuzione di funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”, ai sensi dell’ultima parte del comma 2 dell’art. 113 in esame.
La forza derogatoria dei contratti e delle convenzioni, rispetto alla nuova disciplina che impone alle Amministrazioni aggiudicatrici la costituzione del Fondo, non opera, quindi, per l’avvenire, ma soltanto per il passato, trattandosi di previsione di diritto intertemporale che si limita a far salva l’efficacia delle pattuizioni già stipulate, non consentendo di effettuarne di nuove, in deroga all’art. 113.
Mediante la fonte regolamentare e nell’esplicazione di una potestà normativa, è demandata alla prudente valutazione dell’Ente, la possibilità, in rapporto all'entità ed alla complessità dell'appalto da realizzare, di abbassare l’aliquota di stanziamento del Fondo, comprimendola in una misura inferiore al 2%.
E ciò anche dopo aver prudenzialmente accantonato un Fondo in misura massima legale, il che determina la conseguenza che la differenza accantonata in eccesso, va ad accrescere il risultato di amministrazione (Sez. reg. controllo Veneto parere 07.09.2016 n. 353 e Sez. Controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185).
8. Il Fondo.
Mentre l’accantonamento –a monte– degli stanziamenti finalizzati a costituire ed impinguare il Fondo è frutto di una discrezionale ed unilaterale scelta dell’Ente, la ripartizione dei compensi incentivanti tra le diverse categorie di beneficiari è operata dal Regolamento, tenute in debito conto le responsabilità professionali connaturate alle specifiche prestazioni da svolgere, in relazione a ciascun ruolo, in recepimento ed in applicazione delle modalità e dei criteri concertati in sede di contrattazione decentrata.
Tanto che si è condivisibilmente osservato che “la disciplina che quantifica l’incentivo da pagare ha –e conserva– natura sostanzialmente contrattuale e, pertanto, l’ammettere che la stessa possa regolare anche il riparto del Fondo per prestazioni rese prima della sua approvazione non lede il principio di irretroattività del Regolamento, inteso come fonte normativa” (Sez. reg. controllo Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7, che approfondisce i rapporti tra contrattazione e Regolamento).
9. Il rapporto tra Regolamento e contrattazione collettiva decentrata.
Ciò resta fermo pur dopo l’introduzione del comma 5-bis, ad opera della L. n. 205 del 2017, e, pertanto, è bene chiarire, riguardo al rapporto tra Regolamento e contrattazione decentrata, che il primo può assumere, in via provvisoria, anche un ruolo sostitutivo della seconda, stante la perdurante vigenza della normativa del Testo Unico sul pubblico impiego (D.Lgs. n. 165/2001) e, soltanto in tal caso resterà ferma la sua irretroattività, direttamente conseguente alla natura normativa.
In particolare, l’art. 45, comma 1, del T.U. enuncia la regola generale secondo cui “Il trattamento economico fondamentale ed accessorio, fatto salvo quanto previsto all'articolo 40, commi 3-ter …, è definito dai contratti collettivi”.
L’art. 2, comma 3, del T.U. stabilisce che “L'attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e salvo i casi previsti dai commi 3-ter… dell'articolo 40”.
Quest’ultimo, al comma 3-ter, pone una clausola di salvaguardia di carattere eccezionale, prevedendo che “Nel caso in cui non si raggiunga l'accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, qualora il protrarsi delle trattative determini un pregiudizio alla funzionalità dell'azione amministrativa, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede fra le parti, l'amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo fino alla successiva sottoscrizione e prosegue le trattative al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell'accordo. Agli atti adottati unilateralmente si applicano le procedure di controllo di compatibilità economico-finanziaria previste dall'articolo 40-bis.”
In difetto di accordo raggiunto in sede di contrattazione integrativa decentrata, quindi, il Comune può provvedere unilateralmente alla ripartizione, fermo che “Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall'entrata in vigore dal relativo rinnovo contrattuale” (così prosegue il citato comma 3 dell’art. 2 del TU).
In quest’ultimo caso, il contenuto normativo del Regolamento non può certamente retroagire, ma deve limitarsi a disciplinare le sole fattispecie verificatesi dopo la sua entrata in vigore, mentre, ove esso si ponga come contenitore di mero recepimento delle pattuizioni contrattuali, occorre porre mente, a tutela dei diritti quesiti dai lavoratori, al fatto che i criteri e le modalità di ripartizione degli incentivi sono già stati fissati dalle parti in sede di tale contrattazione decentrata (e non in via unilaterale dall’Ente, che si limita, di regola e salvo le illustrate eccezioni, a renderle semplicemente operative con proprio atto regolamentare).
Quindi, ai fini della maturazione del diritto alla liquidazione dell’incentivo, è maggiormente rilevante, sotto il profilo cronologico, il momento in cui è stata stipulata la contrattazione decentrata integrativa, che fissa i criteri di ripartizione degli incentivi.
10. La ratio dell’istituto degli incentivi tecnici.
Innegabile è la funzione premiale dell’istituto, volto a incentivare, con un surplus di retribuzione, lo svolgimento di prestazioni intellettive qualificate che, ove fossero svolte –invece che da dipendenti interni ratione officii– da esterni sarebbero da considerare prestazioni di lavoro autonomo professionali. La ratio dei nuovi incentivi è, infatti, anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva.
Ed è direttamente la legge a prescrivere, in funzione di razionalizzazione e contenimento della spesa, che le quote relative agli incarichi conferiti a professionisti esterni vadano ad accrescere l’ammontare del Fondo da ripartire.
Il comma 3 dell’art. 113 attribuisce al Regolamento la fissazione dei criteri di riduzione del Fondo, nel caso in cui non siano rispettati i costi ed i tempi inizialmente previsti nel quadro economico del progetto esecutivo dell’appalto ed in proporzione a tali evenienze. Ciò al fine di stimolare, in sede di realizzazione delle opere o dei lavori pubblici, in capo ai pubblici dipendenti coinvolti, ogni sforzo utile al rispetto delle tempistiche e dei costi, penalizzando di conseguenza i ritardi o le lievitazioni di costi ingiustificati ai sensi del Codice, mediante una riduzione delle risorse finanziarie stanziate per il pagamento degli incentivi tecnici.
11. L’effettivo espletamento delle funzioni tecniche incentivate.
In ottemperanza al generale principio di effettività, sancito dall’art. 7, comma 5, del D.Lgs. n. 165/2001 “Le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”. Per cui gli incentivi devono essere correlati allo svolgimento delle prestazioni tecniche realmente svolte, in modo da remunerare il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti (su questa linea, ha preso posizione la Sezione Autonomie, seppure in relazione al vecchio Codice, con deliberazione 13.05.2016 n. 18), con accertamento da certificarsi a cura dei Dirigenti o dei Responsabili.
Ciò premesso sulla genesi e sulla conformazione giuridica dell’istituto, quale delineato nella formulazione dell’art. 113, poi modificata dal correttivo operato con D.Lgs. n. 56 del 2017, onde agevolare una più ampia comprensione del tema, si può passare alla disamina ed alla risoluzione dei singoli quesiti prospettati dall’Ente locale nella richiesta di parere.
I quesiti.
   1) Al primo quesito deve darsi risposta senz’altro negativa, poiché non è possibile riconoscere gli incentivi tecnici per l’espletamento di attività svolte dai dipendenti della stazione appaltante come Commissari di gara, in quanto, come può agevolmente desumersi dall’univoco avverbio “esclusivamente”, riportato nel comma 2, l’elencazione delle attività incentivabili con tali compensi è da reputarsi tassativa e, dunque, non suscettibile di interpretazione estensiva o, peggio, analogica.
Le funzioni incentivabili sono, invero, soltanto quelle “tecniche” specificamente enumerate dalla norma: funzioni di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e delle procedure di esecuzione dei contratti pubblici, funzioni di RUP, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione, funzioni di collaudo tecnico-amministrativo o di verifica di conformità e funzioni di collaudatore statico.
Nel senso della tassatività delle attività incentivabili e del conseguente divieto di ampliamento oltre la lettera della legge, si è anche espresso il prevalente orientamento di questa Corte, che ha costantemente considerato tale disciplina di stretta interpretazione, sulla scorta della considerazione che si pone come derogatoria al principio generale di onnicomprensività del trattamento economico (in tal senso: Sez. reg. controllo Puglia, parere 13.12.2016 n. 204, parere 24.01.2017 n. 5, parere 21.09.2017 n. 108 e deliberazione 09.02.2018 n. 9; Sez. reg. controllo Marche parere 27.04.2017 n. 52, Sez. reg. controllo Lombardia parere 09.06.2017 n. 185).
Da ultimo la Sezione Autonomie, in funzione di orientamento generale, ha confermato che “si tratta, quindi, di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge” (deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Tra le attività menzionate dall’art. 113, comma 2, non rientra, pertanto, né può essere fatta rientrare a livello interpretativo, l’attività svolta dai Commissari di gara, poiché non può essere qualificata come tecnico-esecutiva, ma resta eminentemente valutativa, seppure condotta in applicazione delle regole e dei criteri enunciati nel bando di gara.
L’art. dell’art. 77, comma 10, infatti recita: “Le spese relative alla commissione sono inserite nel quadro economico dell'intervento tra le somme a disposizione della stazione appaltante”. Ma, poiché l’ultima parte del citato comma 10, dispone che: “I dipendenti pubblici sono gratuitamente iscritti all'Albo e ad essi non spetta alcun compenso, se appartenenti alla stazione appaltante”, ne consegue che i Commissari di gara possono essere retribuiti –e con onere gravante sul quadro economico dell’appalto– soltanto ove siano nominati tra professionisti esterni alla Stazione appaltante.
È bene ricordare che la prassi di scegliere i Commissari di gara tra i dipendenti interni alla Stazione appaltante, in modo discrezionale, continuava a fondarsi sul comma 12 dell’art. 77, che disponeva “Fino alla adozione della disciplina in materia di iscrizione all'Albo di cui all'articolo 78, la commissione continua ad essere nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante”.
Ma tale disposizione è stata abrogata, con effetto dal 20.05.2017, ad opera dell'art. 46, comma 1, lett. f), D. Lgs. 19.04.2017, n. 56, comportante, di riflesso, l’esaurimento degli effetti anche della analoga disciplina transitoria recata dall’art. 216, comma 12, del Codice. La possibilità, per la Stazione appaltante, di nominare Commissari di gara (ma non Presidente della Commissione) “alcuni componenti interni alla stazione appaltante, nel rispetto del principio di rotazione” permane oggi soltanto nelle residuali ipotesi di “affidamento di contratti per i servizi e le forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35, per i lavori di importo inferiore a un milione di euro o per quelli che non presentano particolare complessità”, in quanto implicanti “procedure svolte attraverso piattaforme telematiche di negoziazione ai sensi dell'articolo 58” (art. 77, comma 3).
La nuova disciplina contenuta negli articoli 77 e 78 del D.Lgs. n. 50/2016, contempla la creazione, presso l’Anac, di un Albo nazionale obbligatorio, dal quale dovranno essere attinti i nominativi da sorteggiare per effettuare le nomine dei componenti delle Commissioni giudicatrici degli appalti pubblici, in modo che la Autorità possa accentrare in sé non soltanto il controllo sui requisiti di moralità e di professionalità dei medesimi, ma anche sulle eventuali ipotesi di conflitto di interessi.
Albo che resterà, comunque, aperto anche all’iscrizione dei dipendenti interni e che sarà comunque unico per i soggetti esterni ed interni alle Stazioni appaltanti, non avendo Anac accolto l’indicazione del Consiglio di Stato nella parte in cui riteneva preferibile l’istituzione di Albi separati ed avendo precisato che, in ogni caso, nell’Albo dovrà essere evidenziato quale sia l’Ente di appartenenza dell’esperto, in modo da rendere evidente se si tratti o meno di un dipendente interno alla Stazione appaltante.
In materia sono state emanate, in funzione integrativa del Codice dei contratti pubblici, dapprima le Linee Guida Anac n. 5, approvate con determinazione n. 1190 del 16.11.2016, a cui il Consiglio di Stato nell’apposito parere preventivo ha riconosciuto natura vincolante (CdS delib. n. 1919 del 14.09.2016), con le quali sono stati fissati i “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti all’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici”.
A seguito del correttivo del Codice sui contratti pubblici (adottato con D.Lgs. n. 56/2017), si è reso necessario un aggiornamento delle predette Linee Guida Anac n. 5, che è stato effettuato con determinazione n. 4 del 10.01.2018, previo parere del Consiglio di Stato n. 2163 del 19.10.2017. Tale articolata disciplina, avente nel suo complesso carattere normativo e vincolante, non è tuttavia ancora entrata a pieno regime, in quanto non può essere applicata finché l’Anac non abbia dichiarato operativo l’Albo, previa disciplina delle procedure informatiche da adottare per garantire la casualità del sorteggio dei Commissari e le modalità di rotazione tra i medesimi, adempimento a cui è pure subordinata l’entrata in vigore dell’art. 1 del Decreto del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti del 12.02.2018, che è stato pubblicato in attuazione dell’art. 77, comma 10, del Codice, per stabilire le tariffe di iscrizione all’Albo ed i parametri di calcolo dei compensi dei Commissari.
L’art. 2 del citato DM, al comma 2, che ribadisce che: “2. Ai dipendenti pubblici che svolgono la funzione di componente della commissione in favore della stazione appaltante di appartenenza non spetta alcun compenso” è, invece, entrato in vigore il 02.05.2018.
Per cui, seppure sia possibile continuare a nominare i Commissari tra i dipendenti della Amministrazione aggiudicatrice, trattasi di incarico considerato ricompreso nella normale retribuzione di servizio, che non può determinare il percepimento di incentivi tecnici ex art. 113 del Codice.
Sull’assunto consolidato, che correla la corresponsione dell’incentivo tecnico ad una funzione esclusivamente tecnico-amministrativa, non può incidere la assai discussa questione se possa essere o meno nominato Commissario di gara il RUP, che è –di regola– un dipendente interno della Stazione appaltante.
Significativo elemento discretivo tra le due funzioni è che il dipendente della stazione appaltante può rifiutare la nomina a Commissario di gara (gratuita), ma non quella di RUP, che è ufficio obbligatorio, ai sensi di quanto prescritto dall’art. 31, comma 1, ultima parte, del D.Lgs. n. 50/2016, e per lo svolgimento del quale, secondo l’art. 113, può percepire incentivi tecnici.
Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sull'abrogato art. 10, comma 2, del D.Lgs. n. 163 del 2006, che attribuiva in via residuale al RUP, nell’ambito delle procedure di affidamento, lo svolgimento di tutti i compiti non specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti, aveva effettuato una rilevante distinzione, asserendo che “competenza esclusiva della commissione è l'attività valutativa, mentre ben possono essere svolte dal responsabile unico del procedimento quelle attività che non implicano l'esercizio di poteri valutativi”, in quanto il RUP ed i suoi collaboratori sono chiamati a svolgere, sovente, attività istruttoria e di supporto ai compiti della Commissione e della Stazione appaltante (Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2014, n. 5760).
Il nuovo Codice, come modificato dal decreto correttivo n. 56/2017, distingue le funzioni svolte dai Commissari di gara e le funzioni tecniche, prevedendo, all’art. 77, comma 4, che “I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta” e, dunque, eleva a regola generale la nomina dei Commissari di gara tra soggetti esterni all'Amministrazione aggiudicatrice, che nel previgente Codice era una eccezione e lo fa con riferimento non soltanto al ruolo di Presidente ma anche a quello di Componente della Commissione di gara. La netta distinzione di compiti, stabilita dal citato art. 77, comma 4, tra il ruolo di Commissario di gara e le funzioni tecnico-amministrative svolte in relazione al contratto di appalto dal RUP, è stata tuttavia temperata dall’inciso, introdotto dal D.Lgs. "correttivo" n. 56 del 2017, che “La nomina del RUP a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura”.
Ciò conferisce alla Stazione appaltante un certo margine di manovra, nel senso che, ferma l'incompatibilità tra il ruolo di Commissario e lo svolgimento di altre funzioni o incarichi tecnici o amministrativi relativi al contratto da affidare, la possibilità di nominare Commissario di gara il RUP può essere valutata dalla Stazione appaltante con riferimento “alle attività effettivamente svolte dal RUP nell'ambito della specifica procedura di gara" (come esplicitato dalla relazione di accompagnamento all’aggiornamento delle sopra già citate Linee guida Anac n. 3). Tanto che il Consiglio di Stato, nel pronunciarsi sullo schema delle medesime Linee, ha evidenziato come sia stata riconosciuta la "possibilità che il RUP sia altresì membro della Commissione giudicatrice" (Cons. Stato, parere n. 2040/2017).
Del resto, la drastica incompatibilità pregressa tra tali tipologie di funzioni prevista dal nuovo Codice, nella sua formulazione antecedente al correttivo, si poneva in evidente antinomia normativa, rispetto all’art. 107, D.Lgs. n. 267 del 2000, che attribuiva e continua ad attribuire ai Dirigenti degli Enti locali "tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente […] la presidenza delle commissioni di gara e di concorso; la responsabilità delle procedure d'appalto e di concorso […]".
Antinomia non sanabile col ricorso al principio dell’abrogazione tacita ad opera della fonte di pari grado successiva, considerata la natura “rafforzata” del D.Lgs. n. 267 del 2000, visto che il suo art. 1, comma 4, dispone che "ai sensi dell'art. 128 Cost. le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni”.
Resta inteso che, ove pure il RUP sia chiamato a svolgere, secondo la prudente valutazione della Stazione appaltante, la funzione di Commissario di gara, il medesimo potrà percepire gli incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, soltanto in stretta correlazione alle sue funzioni tecnico-amministrative di RUP (o al limite per la mera attività istruttoria di supporto tecnico ai compiti valutativi riservati alla Commissione), in quanto si ribadisce che tali incentivi non sono erogabili per lo svolgimento delle funzioni di Commissari di gara e correlate attività, ancorché svolte dai pubblici dipendenti, interni alla Amministrazione aggiudicatrice (o, come di seguito si esplicherà, da questa distaccati presso la CUC).
   2) Il secondo quesitose, in mancanza di Regolamento comunale per la ripartizione degli incentivi tecnici ed in assenza della previsione, tra le risorse variabili del fondo della contrattazione decentrata del Comune, delle somme necessarie a finanziare i medesimi incentivi, sia possibile riconoscere alla CUC la quota del 25% dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016” risulta in parte superato dalla novella recata dalla legge di bilancio 2018, che ha introdotto una nuova forma di copertura mediante il comma 5-bis, per la interpretazione del quale si rinvia, infra, alla risposta al quinto quesito, diversa da quella prima prevista tramite le risorse variabili del Fondo di contrattazione decentrata.
È comunque ovvio che nulla possa essere ripartito con Regolamento, in carenza di adeguato Fondo di copertura.
Quanto al quesito residuo se sia possibile riconoscere la quota del 25% dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, in caso di mancata emanazione di Regolamento comunale, occorre rammentare che quest’ultimo è richiesto dalla legge come condizione di legittimità per ripartire le risorse tra gli aventi diritto agli incentivi soltanto nel caso in cui sia l’Ente locale a dover devolvere l’80% del Fondo, in quanto non si avvale di una CUC, ma gestisce direttamente l’appalto.
In tal caso, l’impossibilità di liquidare legittimamente gli incentivi a prescindere da una apposita normazione regolamentare della loro ripartizione è del resto assunto pacifico, che viene dato per scontato anche dall’Organo richiedente il parere, il quale richiede, invece, un chiarimento ermeneutico in relazione ad un aspetto ulteriore, e certamente più problematico. Il Sindaco chiede, in sostanza, di sapere se, pur in carenza di Regolamento comunale, la quota del 25%, prevista come massima dal comma 5 dell’art. 113, possa essere devoluta dal Comune alla CUC (o meglio ai relativi dipendenti).
Orbene, il Regolamento comunale è richiesto dal comma 3 soltanto per poter liquidare l’80% degli incentivi tecnici ai propri dipendenti, mentre la previsione del comma 2 (secondo la quale tutto o parte del Fondo può essere dal Comune destinato ai dipendenti della Centrale Unica di Committenza che il medesimo ha costituito o di cui si avvale), non richiede a tal fine un Regolamento comunale, né fa riferimento alla contrattazione collettiva decentrata. Spetterà, ovviamente, poi alla CUC ripartire tali risorse con un proprio Regolamento.
   3) Più delicato è il terzo quesitose la quota del 25%, che ciascun Comune versa alla CUC possa essere utilizzata per corrispondere gli incentivi tecnici solo al personale stabile della CUC (l’art. 113, comma 5, parla di compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza) o se, invece, sia possibile riconoscere tali compensi anche ai Commissari di gara formalmente incaricati dal RUP della CUC (tali dipendenti, anche in altri Comuni aderenti alla CUC, sono considerati funzionalmente distaccati presso la Centrale) ed ai membri della Conferenza unificata tecnica della CUC (di cui fa parte anche il responsabile della CUC o un suo delegato o di cui possono far parte anche i segretari comunali)”.
La risposta a tale quesito richiede delle debite distinzioni.
Le ipotesi che possono verificarsi sono, perciò, in linea di massima tre:
   A) o l’Ente locale è abilitato a conferire, gestire ed eseguire da solo l’appalto, poiché questo è contenuto entro le soglie indicate dall’art. 37 (forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro e lavori di importo inferiore a 150.000 euro) o perché possiede i requisiti di qualificazione richiesti dall’art. 38 e, dunque, deve stanziare il Fondo, per ripartirlo poi all’80%, tra i suoi dipendenti interni chiamati a svolgere le relative funzioni tecniche come indicato dal comma 3 (con Regolamento comunale) ed al 20%, come indicato dal comma 4;
   B) oppure l’Ente è tenuto ad avvalersi di una Centrale Unica di committenza ed in tal caso, può decidere di destinare tutto o parte del Fondo, di cui al comma 2, ai dipendenti della CUC, la quale poi lo ripartirà in base ai criteri fissati in un proprio atto regolamentare;
   C) o infine, l’Ente è tenuto ad avvalersi di una CUC ed a questa al contempo invia –mediante comando o distacco– suoi dipendenti, chiamati ad operare nella CUC ma anche “per conto di altri enti”, ossia anche di Comuni diversi da quello di loro provenienza, purché aderenti alla CUC. In tal caso, a tali dipendenti può essere corrisposto dal loro Ente di provenienza (se la CUC è d’accordo e lo richiede espressamente) un compenso incentivante nei limiti massimi del 25%, ossia di un quarto dell’indennità prevista dal comma 2.
Quindi il Comune potrà riconoscere incentivi tecnici ai suoi dipendenti al massimo entro l’80% di cui al comma 2, se lo fa direttamente, ripartendolo con proprio Regolamento tra i medesimi, oppure entro i limiti del 25%, di cui al comma 5, se glieli attribuisce previo consenso della CUC presso di cui li ha distaccati, per lo svolgimento di funzioni tecniche a vantaggio di Comuni diversi da quello di appartenenza.
In relazione quest’ultimo profilo, infatti, è bene ricordare, anzitutto, che i compensi incentivanti non sono riconoscibili a Commissari di gara chiamati ad aggiudicare l’appalto, previa adozione delle relative valutazioni in applicazione dei criteri del bando, ma sono limitati a compensare soltanto l’esercizio di funzioni tecniche. Per cui, non può aggirarsi tale chiaro divieto normativo mediante un mero distacco –presso la CUC– dei dipendenti comunali chiamati a svolgere le funzioni di Commissari di gara, in quanto nominati dal RUP. Ne discende che non pare ammissibile attribuire incentivi tecnici ai Commissari di gara che siano nominati tra i dipendenti comunali distaccati presso la CUC, neppure entro i limiti del 25% dell’incentivo previsto dal comma 2.
Per quel che concerne, invece, i membri della Conferenza Unificata tecnica della CUC, di cui fa parte anche il Responsabile della CUC e della quale, trattandosi di organo di regola permanente, che è istituito ai sensi della L. 241/1990 e s.m.i. per garantire il coordinamento tecnico amministrativo e giuridico tra la CUC ed i Comuni aderenti ad essa, possono essere chiamati a far parte anche i Segretari comunali, non pare sussistano ragioni ostative all’attribuzione degli incentivi tecnici ai suoi componenti (tra cui anche i Responsabili comunali), purché non svolgano funzioni valutative in relazione alla gara d’appalto.
Di recente, è stato, infatti, ribadito che il Fondo in questione “può essere finalizzato a premiare esclusivamente le funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni”, quali quelle specificamente elencate dalla norma, in funzione propulsiva della corretta e tempestiva attuazione dell’appalto (Sezione Autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6).
   4) Negativa è la risposta al quarto quesito, che chiede “se, dopo l’approvazione del Regolamento comunale, sia possibile riconoscere tali incentivi con effetto retroattivo, ovvero anche per le procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture avviate e concluse prima dell’adozione dello stesso”, poiché, in difetto di una specifica ed espressa disposizione legislativa in tal senso, deve escludersi la natura retroattiva del Regolamento comunale, attuativo del terzo comma dell’art. 113.
Ciò in quanto esso è, nelle sole parti in cui detta regole normative, un atto di diritto pubblico, unilateralmente emanato dall’Autorità comunale, che introduce nell’ordinamento, a livello locale, norme generali ed astratte di rango secondario, in funzione di attuazione e di integrazione delle norme di principio recate dal Decreto legislativo approvativo del nuovo Codice, in relazione ad una serie di aspetti già evidenziati nelle premesse generali.
In applicazione del generale principio di irretroattività degli atti amministrativi a contenuto normativo, promanante dal combinato disposto degli articoli 3, 4 e 11 delle preleggi al cod. civ., il Regolamento comunale ha, di regola, efficacia ex nunc (Sez. regionale di controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185), ossia limitata alle procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture che non risultino ancora concluse al momento dell’emanazione dello stesso.
Considerata la sua natura normativa quando è adottato in transitoria sostituzione della contrattazione collettiva, è da escludere che il Regolamento possa ripartire tali incentivi con effetto retroattivo (pur in presenza di un accantonamento di risorse in bilancio già tempestivamente effettuato dall’Ente, in via prudenziale, nei limiti di legge), a coloro che, dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, abbiano espletato attività tecniche nelle procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture non soltanto già avviate, ma anche già concluse, prima dell’adozione dell’atto regolamentare.
È chiaro che, ove nelle more dell’adozione del Regolamento siano stati comunque già fissati, in sede di contrattazione integrativa, i criteri di riparto delle risorse accantonate, che lo stesso è chiamato soltanto a recepire, la mera carenza dell’atto regolamentare o la sua tardiva emanazione non possono ledere il diritto al compenso incentivante spettante al dipendente che ha eseguito la funzione incentivata, e la questione è suscettibile di tutela a livello giurisdizionale, su eventuale iniziativa del singolo. Ciò in quanto “le amministrazioni interessate sono tenute, per il principio di correttezza e buona fede, a procedere speditamente all’emanazione e, a seguito di modifica della normativa legislativa, all’aggiornamento dei regolamenti attuativi (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 09.03.2012 n. 3779 ha riconosciuto al dipendente il diritto al risarcimento del danno discendente dalla mancata possibilità di percepire l’incentivo previsto dalla normativa)” (così, testualmente Sez. reg. controllo Piemonte, parere 09.10.2017 n. 177).).
Il riconoscimento della applicabilità del Regolamento, nella parte in cui recepisce i criteri di ripartizione già adottati in sede di contrattazione integrativa, non viola in realtà il principio di irretroattività degli atti normativi, poiché in parte qua esso deve essere considerato un elemento che concorre al formarsi della fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e liquidazione dell’incentivo stesso e “l’applicazione del regolamento di cui al richiamato art. 113 agli incentivi degli incarichi espletati prima della sua adozione (ma pur sempre dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016) non pone un problema di efficacia <<retroattiva>> del regolamento stesso, ma di concreto perfezionamento della fattispecie produttiva del diritto all’incentivo” (in tal senso Sez. Reg. controllo Umbria parere 19.03.2018 n. 41).
Con particolare riferimento agli incentivi da corrispondersi dopo la entrata in vigore del D.L. n. 90/2014, di modifica al D.Lgs. n. 163/2006, con riferimento alle funzioni espletate tra l’estate del 2014 e la data in cui è entrato in vigore il nuovo Codice, ferma l’applicazione del Regolamento attuativo già per esse, al tempo, adottato, non pare più ammissibile l’adozione –dopo il 19.04.2016– di un Regolamento concernente i criteri di ripartizione dei pregressi incentivi per le funzioni come modificate nel 2014, trattandosi di normative abrogate (seppure possa essere tutelata, sotto il profilo risarcitorio, in presenza di correlata contrattazione collettiva decentrata, la posizione di coloro che avrebbero avuto diritto a percepirli, per aver svolto le attività indicate dalla norma).
Questo è un aspetto che, pertanto, l’Ente locale è tenuto prudenzialmente a valutare con rigore, onde evitare possibili contenziosi con i dipendenti aventi diritto ad una tempestiva ripartizione dei compensi incentivanti, in quanto, se i criteri e le modalità di riparto siano stati già concertati in sede di contrattazione integrativa decentrata, la carenza di Regolamento preclude, di fatto, l’adempimento del rapporto contrattuale.
È ovvio che l’adozione del Regolamento presuppone a monte il tempestivo accantonamento del Fondo, sulla base delle cui risorse gli incentivi devono essere ripartiti ed in difetto del quale nulla può essere corrisposto, in virtù dei generali principi di bilancio, anche in presenza di un Regolamento emanato prima della conclusione della procedura di appalto.
   5) Al quinto quesitose sia possibile riconoscere tali incentivi dopo l’approvazione del Regolamento, pur in assenza della previsione di tali risorse nel fondo per la contrattazione integrativa dell’anno di riferimento” può essere data, invece, risposta positiva, seppure con ulteriori precisazioni, considerato il mutamento normativo introdotto dall’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017, n. 205 (“Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”), che ha aggiunto all’art. 113 un comma 5-bis, prevedente che tali incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture” e considerato, altresì, il nuovo orientamento assunto dalla Corte dei conti in materia.
Il citato comma riconduce, in sostanza, anche la copertura degli incentivi per le funzioni tecniche –seppure per il tramite del Fondo– alla regola generale già contenuta nel comma 1 dello stesso articolo, prevedente che “gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”, menzionando molte delle funzioni pertinenti, secondo il comma 2, ai beneficiari degli incentivi tecnici e, in effetti, senza fare alcuna espressa distinzione in ragione del fatto che tali funzioni fossero attribuite a professionisti privati soggetti esterni, oppure a dipendenti della P.A..
La Sezione delle Autonomie, pronunciandosi sulle questioni di massima poste dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia (con la deliberazione 09.02.2018 n. 9) e dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia (con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40), ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Dopo la novella, quindi, tutte le figure destinatarie della incentivazione delle funzioni tecniche, compreso il RUP e coloro che sono impegnati nella programmazione della spesa per gli investimenti, nella predisposizione e nel controllo delle procedure di gara e loro collaboratori, sono incentivate con oneri gravanti sugli stanziamenti destinati al finanziamento del singolo appalto e che vanno imputati allo stesso capitolo che sovvenziona l’opera o l’acquisto di beni o servizi.
Tra tali Collaboratori è possibile includere anche quei dipendenti della Stazione appaltante che non svolgono un ruolo prettamente tecnico, ma attività amministrative e contabili, purché strettamente collegate ai lavori (occupandosi, ad esempio, degli adempimenti relativi alla procedura di esproprio prodromica alla realizzazione dell’opera pubblica), a condizione che siano dotati della necessaria competenza professionale.
In tal senso, seppure nel vigore della precedente normativa, si erano già pronunciate altre Sezioni (Sez. reg. controllo Marche, parere 17.12.2014 n. 141), il cui orientamento sul punto è stato confermato –con valenza generale– dalla Sezione Autonomie (deliberazione 13.05.2016 n. 18 e poi deliberazione 06.04.2017 n. 7, che rimarca l’intento legislativo del nuovo Codice di “ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili tecnici e non del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa”).
La corretta perimetrazione della nozione di “Collaboratori” è demandata all’esercizio della potestà regolamentare dell’Ente, tenuto comunque ad esercitarla in modo da evitare ingiustificati ampliamenti della platea dei destinatari (in tal senso: Sezione autonomie, nella deliberazione 13.05.2016 n. 18).
La erogazione di tali incentivi, dunque, prescinde da un accantonamento vincolato di risorse –a tal fine specificamente destinate– nel Fondo per la contrattazione integrativa dell’anno di riferimento, ma non può prescindere, ovviamente, dallo stanziamento di un apposito Fondo, che deve essere costituito a valere sulle risorse che finanziano l’appalto, come del resto già avrebbe potuto desumersi da una corretta interpretazione dell’inciso iniziale del comma 2 dell’art. 113 “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo”.
Resta fermo che, pur dopo la approvazione del relativo Regolamento, resta preclusa all’Ente la possibilità di liquidare incentivi tecnici se non è stato stanziato come vincolato un Fondo nei quadri economici dei singoli appalti, per evidente difetto di copertura (Sez. reg. controllo Toscana parere 27.03.2018 n. 19).).
Quanto alle modalità di contabilizzazione, gli importi per pagare gli incentivi tecnici devono trovare allocazione contabile nel medesimo capitolo di spesa (di investimento), destinato a coprire il costo complessivo dei lavori, servizi e forniture e non possono più confluire nel capitolo di spesa del personale relativo al trattamento accessorio, né sono sottoponibili ai relativi vincoli e limiti di spesa.
Il riconoscimento degli incentivi tecnici, infatti, non soggiace più, a decorrere dal 01.01.2018, né al tetto massimo di spesa del personale, né ai vincoli imposti al trattamento retributivo accessorio del personale da ultimo dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017, che ha abrogato con effetto dal 01.01.2017, il limite posto dall’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016).
Tale limite reiterava l’originario tetto posto dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010 (deliberazione 07.12.2016 n. 34) e comportava anche la automatica riduzione del Fondo medesimo in misura proporzionale alla fisiologica riduzione del personale in servizio, tenuto conto, altresì, dei vincoli normativi all’assunzione di nuovo personale.
Ne discende che la spesa relativa alla corresponsione degli incentivi tecnici, a decorrere dalla entrata in vigore al 01.01.2018, della L. Stabilità 2018, non si configura più quale spesa di funzionamento (sub specie di spesa corrente e di personale), come a suo tempo ritenuto dall’orientamento della Sezione Autonomie, superato in quanto formatosi in relazione alla previgente normativa (deliberazione 06.04.2017 n. 7, che classificava l’erogazione di tali incentivi nell’ambito delle “spese di funzionamento e dunque come spese correnti e di personale”). Essa si connota, oggi, come spesa di investimento, attinente alla gestione in conto capitale, che dunque, a differenza della prima tipologia di spesa, può essere finanziata con ricorso all’indebitamento, non ostandovi il divieto di cui all’art. 119 Cost.
La spesa per gli incentivi tecnici è, quindi, spesa di investimento, al pari di quanto già riconosciuto dagli orientamenti di questa Corte in relazione al diverso istituto degli incentivi alla progettazione di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. n. 163/2006 (
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, ripresa da deliberazione 04.10.2011 n. 51, che facevano discendere la esclusione dal tetto di spesa stabilito per il salario accessorio dal fatto che si trattava di “compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati”).
E, come tale, è spesa da contabilizzare nel Titolo II della spesa, ove si tratti di opere pubbliche, e nel Titolo I, ove si tratti di servizi e forniture, “ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalto di riferimento” (Sez. Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Ciò nonostante, la liquidazione –e, prima, la ripartizione– degli incentivi tecnici richiedono pur sempre, oggi, l’adozione di uno specifico atto regolamentare da parte del Comune, previa fissazione –in sede di contrattazione integrativa decentrata del personale– dei criteri e delle modalità di ripartizione dei medesimi tra gli aventi diritto, poiché la novella non ha cancellato il riferimento agli istituti di contrattazione decentrata, contenuto nel comma 3.
La lettera dell’art. 113, del resto, come si è sopra evidenziato, pone già dei limiti massimi alla spesa per la corresponsione degli incentivi tecnici, parametrandoli –in linea generale– al singolo appalto (non potendo il Fondo superare il 2% del quadro economico posto a base di asta) e –in linea particolare– al singolo dipendente (non potendo quest’ultimo percepire, neppure da diverse PP.AA., incentivi su scala annuale complessivamente superanti il 50% del suo trattamento economico annuo lordo).
E, inoltre, si assicura, con apposita prescrizione, che gli incentivi non siano devoluti “a pioggia”, ma corrisposti dal dirigente competente in importo proporzionato al previo accertamento delle attività effettivamente espletate dal dipendente ed in applicazione delle modalità e dei criteri “previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale” (cfr. in tal senso l’interpretazione del comma 3 dell’art. 113 fornita da Sez. reg. controllo Umbria, con la
parere 05.02.2018 n. 14, che richiama le argomentazioni di Sez. reg. controllo Liguria deliberazione 29.06.2017 n. 58, già favorevole all’esclusione degli incentivi tecnici dai vincoli e dai limiti massimi previsti in materia del personale, secondo una prospettazione confermata –dopo la modifica operata dalla L. n. 205/2017– anche dalla pronuncia di orientamento adottata dalla Sezione Autonomie con deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Quanto alla applicabilità cronologica del nuovo comma 5-bis dell’art. 113, ai fini della individuazione della linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, essa decorre dal 01.01.2018, trattandosi di disposizione introdotta dal comma 526 dell’art. 1 della legge di stabilità 2018 e non avente natura di interpretazione autentica, per cui non può considerarsi retroattivamente operativa (in tal senso Sez. reg. controllo Puglia, deliberazione 09.02.2018 n. 9, che coglie l’occasione per richiamare l’attenzione sulla discrasia sussistente tra il riferimento operato dal comma 5-bis del 113 al “medesimo capitolo di spesa” e la nuova disciplina in materia di armonizzazione contabile recata dall’art. 13 del D.Lgs. n. 118/2011, che fa riferimento a missioni e programmi, con terminologia mutuata dall’art. 191 TUEL).
La novella legislativa che modifica la fonte di copertura del Fondo, richiama, in effetti, l’attenzione su un momento antecedente alla pubblicazione del bando, fornendo un argomento motivazionale a favore della operatività, con portata limitata a tale specifico caso, del criterio di diritto intertemporale già individuato, in via generale, in modo ben articolato e ragionato, dalla Sezione Basilicata di questa Corte (Sez. reg. controllo Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7, che richiama il parere 12.02.2015 n. 3 e parere 20.04.2017 n. 22).
Per cui risulta logico ritenere che la fonte di copertura inizi a variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti. Per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data.
In conclusione, a salvaguardia tanto dell’autonomia del Comune richiedente, quanto della posizione di terzietà ed indipendenza connotante questo organo magistratuale nell’esercizio della funzione consultiva, resta escluso che quanto esplicato per chiarire i dubbi ermeneutici correlati alla normativa oggetto di richiesta di parere (e che deve risolversi in un ausilio interpretativo astratto della disciplina esaminata), possa condizionare le scelte gestionali concrete le quali, pur se da adottarsi in un’ottica di sana gestione finanziaria e di prudente tutela degli equilibri di bilancio, restano rimesse alla esclusiva competenza dell’Ente locale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCaos sul salario accessorio dopo il «no» di Corte conti alle deroghe scritte nel contratto.
Tutti gli incrementi previsti dal nuovo contratto nazionale rientrano nei limiti del trattamento accessorio.

Non è bastata la dichiarazione congiunta n. 5 e neppure la certificazione positiva della Corte dei conti a sezioni Riunite per escluderli dal tetto del 2016.
La Corte dei conti della Puglia, con il parere 05.07.2018 n. 99 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 9 luglio) manda in tilt gli operatori che in questi giorni sono alle prese con la prima costituzione del fondo in base all'articolo 67 del contratto del 21 maggio.
Norme e contratto
L'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 prevede che, fino a quando non sarà realizzata la convergenza dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici confluiti nei quattro comparti di contrattazione, l'ammontare complessivo del trattamento accessorio non deve superare il relativo importo dell'anno 2016.
Due soli soggetti hanno, quindi, in mano le chiavi per sbloccare la situazione: il legislatore -che però finora non è intervenuto a nessuna modifica– oppure il contratto nazionale, il quale, però, anziché armonizzare le retribuzioni, richiama più volte la medesima disposizione limitatrice. Tutto sospeso, quindi, fino a data da destinarsi.
Il contratto, tra le varie forme di alimentazione del fondo delle risorse decentrate, prevede all'articolo 67, comma 2, lettera a) risorse fresche, ma solo a partire dall'anno 2019. Come la mettiamo, a questo punto, con il rispetto del tetto dell'anno 2016? Gli 83,20 euro a dipendente presente al 31.12.2015 rientrano tra le somme che vanno incluse nella verifica dell'articolo 23, comma 2?
La risposta positiva della Corte dei conti della Puglia, di fatto vanifica l’incremento che sarebbe come a dire che le parti contrattuali hanno previsto un aumento non realizzabile. Ovvero, sarebbe concretizzabile a patto di ridurre altre componenti soggette a limitazione.
La soluzione dei magistrati contabili
La soluzione, peraltro, sembra essere suggerita proprio dai magistrati contabili: abbassare altre voci incluse nel limite, come ad esempio gli importi finalizzati alle posizioni organizzative, per fare spazio a questi incrementi di parte stabile del fondo. Il cosiddetto principio dei vasi comunicanti.
A questo punto, però, non possiamo non ricordare che ai fini del rispetto della norma, la giurisprudenza contabile ha ritenuto che rientrino nei vincoli anche i valori della maggiorazione della retribuzione di posizione del segretario comunale (Corte conti Lombardia, deliberazione n. 116/2018) o delle somme aggiuntive ai soggetti incaricati secondo l'articolo 110 del Tuel (Corte conti Piemonte, deliberazione n. 144/2017, anche se sono presenti interventi in senso contrario).
Ben vengano, quindi, gli incrementi del nuovo contratto, ma a patto di ridurre da qualche altra parte. Il tutto, però, suona alquanto strano. Se queste somme fossero state nel limite, perché le parti hanno pensato comunque di quantificarle? Avrebbe avuto più senso spalmarle sui trattamenti fondamentali mensili, piuttosto che perderle definitivamente. Ma i magistrati della Puglia non hanno dubbi.
E pensare che la Corte dei conti a sezioni Riunite, nella deliberazione n. 6/2018, aveva dapprima dato atto della dichiarazione congiunta tendente a precisare che tali nuovi oneri «in quanto derivanti da risorse definite a livello nazionale e previste nei quadri di finanza pubblica, non siano assoggettabili ai limiti di crescita dei Fondi previsti dalle norme vigenti» e poi certificato positivamente il contratto.
Nella vicenda, almeno, c'è una nota positiva. Poiché gli aumenti vi saranno solo dal 2019, ci sono ancora sei mesi per vedere come si evolverà la situazione. E quasi sicuramente, a questo punto, verrà inviato tutto alla sezione Autonomie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.07.2018).

---------------
MASSIMA
L’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 è tuttora vigente e si applica anche in rapporto agli aumenti previsti dall’art. 67, comma 2, del C.C.N.L. del personale non dirigente degli enti locali del 21.05.2018.
Nessuna rilevanza, in senso contrario, può essere attribuita alla dichiarazione congiunta n. 5, allegata al C.C.N.L. in parola, non avendo la stessa alcun valore normativo e non risultando, quindi, né vincolante, né, tantomeno, idonea a derogare a norme di contenimento della spesa pubblica.
---------------

Il Sindaco del Comune di Statte (TA), con nota n. 11085 dell’11.06.2018, ha posto alcuni quesiti in merito alla normativa recentemente introdotta dal C.C.N.L. del 21.05.2018 relativo al personale non dirigente degli enti locali.
Con un primo quesito, richiamando l’art. 67, commi 2 e 7, del suddetto C.C.N.L. e la dichiarazione congiunta n. 5 allegata al medesimo C.C.N.L. che disciplinano il fondo delle risorse decentrate, il Comune di Statte chiede, in sintesi, se gli aumenti previsti si pongono al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017.
Con un secondo quesito, richiamando gli articoli 64 e 65 dello stesso C.C.N.L. che dispongono aumenti tabellari con decorrenze diversificate, l’Amministrazione chiede, sostanzialmente, se e con quali modalità le risorse utili a corrispondere gli arretrati economici possono essere ricavate dal bilancio e/o dalle risorse accessorie.
...
Fermo restando che, in sede consultiva, è consentito dare risposta ai quesiti posti solo in termini generali ed astratti e che ogni decisione rimane di esclusiva competenza e responsabilità dell’ente, il Collegio ritiene, quindi, di poter rispondere alle questioni sollevate unicamente per gli aspetti legati alla normativa che pone limiti alle spese per il personale, con esclusione degli aspetti relativi all’applicazione di istituti contrattuali di carattere economico.
Conseguentemente, questo Collegio ritiene di doversi esprimere in merito al rapporto tra le norme in tema di fondo delle risorse decentrate previste dal nuovo C.C.N.L. (in particolare l’art. 67, commi 2 e 7) e i limiti alle spese del personale posti dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017. Tale aspetto, infatti, rientra certamente nella competenza di questa Sezione, in sede consultiva, atteso che trattasi di interpretazione di norme di contenimento della spesa pubblica (ex multis, Sez. controllo Lombardia n. 54/2018/PAR).
Il 21.05.2018 è stato sottoscritto, previa certificazione positiva della relativa ipotesi di accordo da parte delle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti (deliberazione n. 6/SSRRCO/CCN/18), il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto Funzioni locali per il triennio 2016-2018. Questo C.C.N.L. regola il rapporto di lavoro dei dipendenti comunali e destina una parte delle risorse disponibili all’incremento del fondo risorse decentrate. L’art. 67, comma 2, lettere a) e b), del C.C.N.L. consente, infatti, uno stabile incremento del fondo delle risorse decentrate. Appare opportuno evidenziare che l’aumento disposto dalla lettera a) opera solo a decorrere dal 31.12.2018 e a valere dall’anno 2019. Ai sensi dell’art. 15, comma 5, dello stesso C.C.N.L. le risorse per le posizioni organizzative sono a carico del bilancio degli enti, anche per quelli dotati di personale dirigenziale. Questa nuova modalità di finanziamento impatta sulle modalità di costituzione del fondo delle risorse decentrate (deliberazione n. 6/SSRRCO/CCN/18).
L’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 prevede, in attesa della graduale convergenza, attraverso la contrattazione collettiva nazionale, dei trattamenti economici accessori del personale delle amministrazioni pubbliche “anche mediante la differenziata distribuzione, distintamente per il personale dirigenziale e non dirigenziale, delle risorse finanziarie destinate all'incremento dei fondi per la contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione” (comma 1), a decorrere dal 2017, che l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016.
Tale norma, emanata nell’ambito di una riforma complessiva del Testo unico sul pubblico impiego (D.Lgs. n.165/2001), prevede, quindi, in materia di salario accessorio, con effetto dall’01.01.2017 e senza una scadenza, disposizioni vincolistiche sostanzialmente analoghe a quelle costantemente adottate negli ultimi anni dal legislatore. Anche tale disposizione, infatti, pone limiti quantitativi all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio del personale. L’espressa abrogazione dell’art. 1, co. 236, della legge n. 208/2015, tuttavia, ha fatto venir meno l’ulteriore obbligo, per l’ente, di ridurre automaticamente il suddetto fondo in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio (Sez. controllo Puglia, n. 110/2017/PAR).
Nel computo del tetto di spesa previsto dalla menzionata disposizione rientrano, se non diversamente previsto dalla legge, tutte le risorse stanziate in bilancio dall’ente con destinazione al trattamento accessorio del personale, indipendentemente dall’origine delle eventuali maggiori risorse, proprie dell’ente medesimo, a tal fine destinate. Il limite all’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio riguarda, infatti, sia le risorse tratte dai fondi per la contrattazione integrativa (circolare MEF-RGS n. 12/2011 e SS.RR. in sede di controllo n. 51/2011/CONTR), sia le risorse poste direttamente a carico del bilancio delle singole amministrazioni (Sezione delle Autonomie, n. 26/2014/QMIG). Nel trattamento accessorio del personale rientrano, quindi, tutti gli oneri accessori del personale, ivi comprese le risorse destinate a finanziare le posizioni organizzative nei Comuni privi di qualifiche dirigenziali (Sez. controllo Lombardia n. 54/2018/PAR).
Il contenuto dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 è sostanzialmente confermato dall’art. 67, comma 7, del C.C.N.L. del 21.05.2018, relativo al personale non dirigente degli enti locali, secondo il quale “la quantificazione del fondo delle risorse decentrate e di quelle destinate agli incarichi di posizione organizzativa di cui all’art.15, comma 5, deve comunque avvenire, complessivamente, nel rispetto dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017”.
La suddetta norma contrattuale, di contenuto univoco, non risulta smentita dalla successiva dichiarazione congiunta n. 5, allegata al C.C.N.L. in parola, secondo la quale “in relazione agli incrementi del fondo risorse decentrate previsti dall’art. 67, comma 2, lett. a) e b), le parti ritengono concordemente che gli stessi, in quanto derivanti da risorse finanziarie definite a livello nazionale e previste nei quadri di finanza pubblica, non siano assoggettati ai limiti di crescita dei fondi previsti dalle norme vigenti”, atteso che, come talvolta confermato anche dalla stessa ARAN, le dichiarazioni congiunte non hanno valore normativo e, quindi, né sono vincolanti, né, tantomeno, possono derogare a norme di contenimento della spesa pubblica quale è il più volte menzionato art. 23.
La possibile contraddizione tra l’art. 67, comma 7, e la citata dichiarazione congiunta può essere superata osservando che, in pratica, un incremento del suddetto fondo delle risorse decentrate può risultare legittimo se non comporta un incremento dell’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale rispetto all’anno 2016. Tale obiettivo può essere raggiunto attraverso una corrispondente riduzione delle risorse destinate agli incarichi di posizione organizzativa.
Questa conclusione trova sostanziale conferma nell’art. 15, comma 7, del C.C.N.L. secondo il quale “per effetto di quanto previsto dall’art. 67, comma 7, in caso di riduzione delle risorse destinate alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative previste dal comma 5, si determina un corrispondente ampliamento delle facoltà di alimentazione del Fondo risorse decentrate, attraverso gli strumenti a tal fine previsti dall’art. 67”. E’ previsto, praticamente, un sistema di “vasi comunicanti” (SS.RR. n. 6/SSRRCO/CCN/18) che trova un limite invalicabile “nel rispetto dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017” (art. 67, comma 7, del C.C.N.L.).
In conclusione, riassumendo in estrema sintesi,
l’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 è tuttora vigente e si applica anche in rapporto agli aumenti previsti dall’art. 67, comma 2, del C.C.N.L. del personale non dirigente degli enti locali del 21.05.2018. Nessuna rilevanza, in senso contrario, può essere attribuita alla dichiarazione congiunta n. 5, allegata al C.C.N.L. in parola, non avendo la stessa alcun valore normativo e non risultando, quindi, né vincolante, né, tantomeno, idonea a derogare a norme di contenimento della spesa pubblica.
La richiesta di parere risulta, invece, oggettivamente non ammissibile per gli aspetti relativi all’applicazione di istituti contrattuali di carattere economico (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 05.07.2018 n. 99).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:  Le risorse destinate a remunerare le indennità, di posizione e risultato, spettanti ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l’aggiornamento teorico dei valori minimi e massimi (art. 15, c. 2, CCNL comparto Funzioni locali 21.05.2018), debbono osservare, sommate alle risorse confluenti nei fondi per la contrattazione integrativa, il limite di finanza pubblica posto dall’art. 23, c. 2, d.lgs. n. 75/2017.
La sezione Lombardia conferma: posizioni organizzative vincolate anche dopo l’aggiornamento.
Le risorse destinate a remunerare le indennità di posizione e risultato che spettano ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l'aggiornamento dei valori massimi da parte del nuovo contratto per le funzioni locali del 21.05.2018, devono complessivamente osservare, sommate alle risorse che confluiscono nei fondi per la contrattazione integrativa, il limite posto dall'articolo 23 del Dlgs 75/2017 in ordine al trattamento accessorio.
Di conseguenza, l'eventuale incremento dovrebbe avvenire solo ed esclusivamente in presenza di corrispondenti margini, ricavabili mediante un bilanciamento con il fondo del restante personale (nel rispetto delle relazioni sindacali) ovvero a seguito di accadimenti che liberano congrui spazi di manovra (come, ad esempio, il venire meno di altre posizioni organizzative).

È quanto ha sancito la sezione della Lombardia della Corte dei conti (con il parere 02.07.2018 n. 200), rispondendo alla richiesta di un ente ed evidenziando, così come già avvenuto anche da parte della Sezione Puglia (parere 05.07.2018 n. 99), le difficoltà di raccordo tra le disposizioni contrattuali e i vincoli di finanza pubblica progressivamente introdotti.
La nuova soglia introdotta dal contratto
La questione riguarda, soprattutto, la nuova soglia introdotta dal contratto della retribuzione di posizione, pari a 16mila euro (per tredici mensilità), che può condurre a un incremento del trattamento riconosciuto a condizione che, insieme alle restanti somme destinate al salario accessorio che concorrono al limite, sia rispettato il vincolo derivante (ordinariamente) dalle corrispondenti risorse 2016.
Peraltro, è utile ricordare, da un lato, che l'importo attribuito a ogni posizione organizzativa deve risultare da un meccanismo di ponderazione formalizzato che tenga conto delle responsabilità e dei carichi di lavoro connessi a ciascun incarico.
Dall'altro lato, che –secondo l'articolo 13 del contratto- gli incarichi di posizione organizzativa conferiti, a suo tempo, proseguono o possono essere prorogati fino alla definizione delle nuove attribuzioni e, comunque, non oltre un anno dalla data di sottoscrizione del contratto del 21.05.2018.
Secondo la pronuncia, del resto, anche il nuovo contratto del comparto funzioni locali si è premurato di precisare che, comunque, la somma complessiva delle risorse finanziarie destinate al trattamento economico accessorio del personale, sia che abbiano fonte nei fondi per la contrattazione sia che siano destinate alla remunerazione delle indennità dei titolari di posizione organizzativa, debba osservare il limite di finanza pubblica.
Ciò a prescindere dalle scelte eseguite dallo stesso contratto in ordine alle modalità di finanziamento, posto che, dal 2018, anche negli enti con “dirigenza” le risorse destinate alla remunerazione delle indennità dei titolari di posizione organizzativa devono trovare copertura direttamente nel bilancio dell'ente locale.
La rimodulazione
Peraltro, il contratto consente agli enti di rimodulare, all'interno del tetto massimo posto all'ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale, le risorse destinabili ai titolari di posizione organizzativa rispetto a quelle spettanti al restante personale, accrescendo le une e diminuendo le altre o viceversa.
Infatti, nel caso di riduzione delle risorse destinate dagli enti locali alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, si determina un corrispondente ampliamento del fondo risorse decentrate, mentre nel caso contrario, di incremento del trattamento delle posizioni organizzative, occorre passare per la “contrattazione” e non per il “confronto” per procedere alla riduzione del fondo.
Infine, sempre secondo la Corte, a corroborare ulteriormente la conclusione rileva altresì la dichiarazione congiunta n. 5, secondo la quale la quale solo determinati incrementi del fondo risorse decentrate (che non comprendono quelli in esame) non sono assoggettati ai limiti di crescita dei fondi previsti dalle norme vigenti. Previsione che, tuttavia, secondo la Sezione Puglia non appare conforme alle disposizioni di legge che vincolano le risorse destinabili al trattamento accessorio da parte degli enti locali (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.07.2018).
---------------
MASSIMA
Il Comune di Lentate sul Seveso (MB) ha posto
alla Sezione una richiesta di parere inerente ai limiti di finanza pubblica posti al trattamento economico accessorio del personale dipendente da enti locali.
Nello specifico, il Sindaco premette che, in data 21.05.2018, è stato sottoscritto il nuovo Contratto collettivo nazionale dei dipendenti degli enti locali, il cui art. 15, comma 2, stabilisce che l’importo della retribuzione di posizione dei titolari di incarico di posizione organizzativa può variare da un minimo di euro 5.000 ad un massimo di euro 16.000 annui lordi (suddiviso per tredici mensilità), da graduare sulla base delle responsabilità e dei carichi di lavoro connessi a ciascun incarico.
L’art. 13, comma 3, del medesimo CCNL stabilisce, inoltre, che gli incarichi di posizione organizzativa conferiti, a suo tempo, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 31.03.1999 e dell’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, proseguono o possono essere prorogati fino alla definizione delle nuove attribuzioni (da effettuare dopo la determinazione dei relativi criteri generali, ex art. 14, comma 1) e, comunque, non oltre un anno dalla data di sottoscrizione del CCNL del 21.05.2018.
Esposto brevemente il quadro della normativa contrattuale nazionale, il Comune istante, dovendo attuare il percorso palesato dall’esposto art. 13, comma 3, del ridetto CCNL, chiede se gli incrementi teorici agli importi delle retribuzioni di posizione, previsti dall’art. 15, comma 2, prima esposto, debbano rispettare i limiti dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, il quale stabilisce che, a decorrere dal 01.01.2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016.
In alternativa, prospetta la possibilità, alla luce dell’entrata in vigore del CCNL del 21.05.2018, di reperire in bilancio le risorse necessarie a finanziarie i predetti incrementi.
...
L’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, facendo seguito, anche se con formulazione precettiva differente, a quanto disposto da precedenti norme di finanza pubblica, dispone che, nelle more di quanto previsto dal comma 1 della medesima disposizione (percorso di omogeneizzazione dei trattamenti retributivi dei dipendenti pubblici), a decorrere dal 01.01.2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016, con conseguente abrogazione dell’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015, che, per il 2016, aveva imposto analogo limite finanziario (facendo seguito a quelli prescritti, per il quadriennio 2011-2014 dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010, e, per il 2015, sempre dalla disposizione da ultimo citata come integrata dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013).
La disposizione di finanza pubblica in esame pone un limite all’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale in servizio presso pubbliche amministrazioni, non distinguendo fra quelle aventi fonte nei fondi per la contrattazione integrativa previsti dai vari contratti collettivi nazionali di comparto (Circolare MEF-RGS n. 12/2011 e Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, deliberazione n. 51/2011/CONTR) e quelle finanziate direttamente a carico del bilancio delle amministrazioni (come ha avuto modo di affermare, dopo un iniziale convivenza di orientamenti contrapposti, la Sezione delle autonomie della Corte dei conti con la deliberazione n. 26/2014/QMIG).
Tale ultima ipotesi si verifica, per esempio, proprio nel caso delle indennità remuneranti le c.d. posizioni organizzative attribuite al personale degli enti locali.
Nella vigenza dei contratti collettivi nazionali del comparto enti locali anteriori a quello stipulato il 21.05.2018, le indennità di posizione organizzativa attribuite dagli enti locali privi di dirigenti erano (e sono) finanziate direttamente a carico del bilancio, senza transitare per lo specifico aggregato delle risorse destinate, annualmente, alla costituzione dei fondi per la contrattazione integrativa. Su questi ultimi fondi gravavano, invece, le risorse necessarie a finanziare le indennità attribuite ai titolari di posizione organizzativa dagli enti locali con dirigenza.
Il Contratto collettivo nazionale del comparto funzioni locali del 21.05.2018 ha uniformato le esposte divergenti modalità di finanziamento, prevedendo che, in entrambi i casi (sia per gli enti locali con dirigenti che per quelli che ne sono privi), le indennità, di posizione e di risultato, spettanti ai titolari dei predetti incarichi, debbano essere finanziate dal bilancio indistinto dell’ente. La scelta contrattuale ha comportato, per gli enti locali con dirigenti, una parallela decurtazione delle risorse destinate, fino al 2017, ai fondi per la contrattazione integrativa (pari al valore delle indennità spettanti ai titolari di posizione organizzativa nel predetto esercizio).
La differente modalità di copertura finanziaria non ha inciso, tuttavia, sul limite di finanza pubblica da osservare ai sensi della fonte legislativa primaria (il sopra esposto art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Anche il nuovo CCNL del comparto funzioni locali si è premurato di precisare, infatti, che, comunque, la somma complessiva delle risorse finanziarie destinate al trattamento economico accessorio del personale, sia che abbiano fonte nei fondi per la contrattazione sia che siano destinate alla remunerazione delle indennità dei titolari di posizione organizzativa, debba osservare il limite di finanza pubblica (introducendo, peraltro, come si avrà modo di specificare, un percorso di contrattazione sindacale teso a travasare risorse da un aggregato ad un altro).
L’art. 13 del CCNL “Funzioni locali” del 21.05.2018, rubricato “area delle posizioni organizzative”, prevede che gli enti locali istituiscano posizioni di lavoro (assegnabili, di regola, a personale di categoria D) che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di risultato, lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità (lett. a) o di attività con contenuti di alta professionalità (lett. b).
Il successivo art. 15 del ridetto CCNL disciplina la retribuzione di posizione e di risultato spettante al personale incaricato, stabilendo che l’importo dell’indennità di posizione possa variare da un minimo di euro 5.000 ad un massimo di euro 16.000 annui lordi (ammontare, quest’ultimo, incrementato rispetto a quello indicato nell’art. 10 del CCNL del comparto enti locali del 31.03.1999), sulla base della relativa graduazione. Tale trattamento, unitamente a quello di risultato (previsto dal successivo comma 4), assorbe tutte le competenze accessorie previste dal medesimo CCNL (compreso il compenso per il lavoro straordinario e fatti salvi gli emolumenti elencati nel successivo art. 18).
Il comma 5 dell’art. 15 in esame precisa, come in precedenza accennato, che, a seguito della decurtazione, dalle risorse c.d. stabili che alimentano il fondo per la contrattazione integrativa, di quelle che gli enti locali hanno destinato (nel 2017) alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative in precedenza istituite, il finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative va coperto a carico del bilancio indistinto dell’ente.
L’art. 67 del nuovo CCNL, infatti, prescrive che, a decorrere dal 2018, il “fondo risorse decentrate” è costituito da un unico importo sommante tutte le risorse c.d. “stabili” (indicate dall’art. 31, comma 2, del CCNL del 22.01.2004) di competenza 2017, come certificate dal collegio dei revisori (ivi comprese quelle dello specifico fondo per le progressioni economiche e le risorse che hanno finanziato le quote di indennità di comparto di cui all’art. 33, comma 4, lett. b) e c), del citato CCNL del 2004). Tali risorse, prosegue la nuova norma contrattuale, confluiscono, dal 2018, in un unico importo consolidato, al netto di quelle che gli enti avevano destinato, nel 2017 (a carico del fondo) alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative (fattispecie propria, come già precisato, degli enti locali con dirigenti).
Il combinato disposto degli illustrati articoli del CCNL Funzioni locali (art. 15, comma 5, da un lato, e 67, comma 1, dall’altro) evidenzia, appunto, come, dal 2018, le risorse destinate alla remunerazione delle indennità dei titolari di posizione organizzativa devono trovare copertura direttamente nel bilancio dell’ente locale. Tuttavia, ai fini del rispetto dei limiti di finanza pubblica posti al trattamento economico accessorio del personale, lo stesso art. 67, al comma 7, del nuovo CCNL, si premura di precisare che la quantificazione del fondo delle risorse decentrate e di quelle destinate agli incarichi di posizione organizzativa “deve comunque avvenire, complessivamente, nel rispetto dell’art. 23, comma 2 del d.lgs. n. 75/2017”.
In aderenza alle precedenti interpretazioni della magistratura contabile (per esempio, le deliberazioni di SRC Friuli n. 49/2017/PAR, SRC Piemonte n. 144/2017/PAR, SRC Lombardia n. 145/2016/PAR e n. 54/2018/PAR), il CCNL consente agli enti di rimodulare, all’interno del tetto massimo posto all’ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale, le risorse destinabili ai titolari di posizione organizzativa rispetto a quelle spettanti al restante personale, accrescendo le une e diminuendo le altre o viceversa.
L’art. 15, comma 7, infatti, precisa che, in caso di riduzione delle risorse destinate dagli enti locali alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, si determina un corrispondente ampliamento del fondo risorse decentrate (naturalmente, nei limiti di quelle che, in virtù dell’art. 67 del CCNL, possono alimentare i predetti fondi). Nel caso contrario, l’art. 7, comma 4, lett. u), riserva alla contrattazione l’incremento delle risorse destinate alla corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, “ove implicante, ai fini dell’osservanza dei limiti previsti dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017”, una riduzione delle risorse del fondo per la contrattazione integrativa di cui all’art. 67 del CCNL.
Ulteriore argomento a supporto della soggezione di un eventuale incremento delle indennità spettanti ai titolari di posizione organizzativa al limite di finanza pubblica posto dalla vigente norma legislativa (art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017) si trae, a contrario, dalla “dichiarazione congiunta n. 5”, apposta in calce al CCNL Funzioni locali del 21.05.2018, in base alla quale solo per gli incrementi del fondo risorse decentrate previsti dall’art. 67, comma 2, lett. a (euro 83,20, moltiplicato per il personale in servizio al 31.12.2016, a valere dal 2019) e b (differenze derivanti dall’aggiornamento di valore delle c.d. progressioni economiche), le parti contraenti hanno ritenuto che, in quanto derivanti da risorse finanziarie definite a livello nazionale e previste nei quadri di finanza pubblica, non siano assoggettati ai limiti di crescita dei fondi previsti dalle norme vigenti.
PQM
la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, in riscontro all’istanza di parere del Comune di Lentate sul Seveso, ritiene che le risorse destinate a remunerare le indennità, di posizione e risultato, spettanti ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l’aggiornamento dei valori minimi e massimi contenuto nell’art. 15, comma 2, del CCNL Funzioni locali del 21.05.2018, debbano complessivamente osservare, sommate alle risorse confluenti nei fondi per la contrattazione integrativa, di cui all’art. 67 del medesimo CCNL, il limite di finanza pubblica posto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, come, peraltro, precisato dall’art. 67, comma 7, del ridetto CCNL (salve le facoltà di rimodulazione, ad invarianza complessiva di spesa, previste dagli artt. 15, comma 7, e 7, comma 4, lett. u) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 02.07.2018 n. 200).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
--------------
Il Comune di San Bellino (RO) ha inviato una richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della L. 131/2003, in materia di incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016, recante il “Codice dei contratti pubblici” (il “Codice”).
L’Ente domanda se alla luce delle innovazioni normative introdotte dalla Legge di bilancio 2018 si possa ritenere che gli incentivi in parola debbano essere ricondotti al tetto del fondo del salario accessorio determinato ai sensi del D.lgs. 75/2017.
...
In particolare, l’Ente chiede se, tenuto conto del nuovo comma 5-bis, art. 113, in base al quale “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture” (introdotto dall’art. 1, comma 526, L. 205/2017 a decorrere dal 01.01.2018), i benefici in parola debbano essere ricondotti al tetto del fondo del salario accessorio determinato ai sensi dell’art. 23, comma 2, D.lgs. 75/2017, il quale prevede che “l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
Il quesito in esame trova risposta nel principio di diritto pronunciato dalla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del D.l. 174/2012, convertito dalla L. 213/2012, con la deliberazione 26.04.2018 n. 6, in base al quale “
Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
PQM
la Sezione regionale di controllo per il Veneto rende il parere richiesto dal Comune di San Bellino con nota prot. n. 328 del 18.01.2018 conformandosi alla pronuncia di orientamento della Sezione delle Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6 (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 21.06.2018 n. 199).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici anche nelle operazioni di partenariato pubblico-privato.
Risolto il problema degli incentivi tecnici per gli appalti di lavori pubblici, servizi e forniture, arriva ora un chiarimento dei giudici contabili sulla possibile estensione alle operazioni di partenariato pubblico-privato.

La Corte dei conti veneta (parere 21.06.2018 n. 198) ritiene che questi incentivi siano estendibili anche alle operazioni di partenariato pubblico-privato, con possibile pagamento da parte del privato in relazione a un incremento dell'efficienza e dell'efficacia nella realizzazione dell'opera pubblica o servizio.
Il dubbio del Comune
Un Comune si è interrogato sul fatto che nel regolamento sugli incentivi tecnici non siano stati inseriti quelli relativi alle operazioni di partenariato pubblico privato quali: la finanza di progetto, la concessione di costruzione e gestione, la locazione finanziaria di opere pubbliche, il contratto di disponibilità, gli interventi di sussidiarietà orizzontale, il baratto amministrativo e in generale qualunque altra procedura di realizzazione di partenariato di opere o servizi che presentino le caratteristiche non dissimili dagli istituti disciplinati dal codice.
La possibilità di poter inserire gli incentivi sarebbe sembrata, tuttavia, esclusa dal legislatore che ha inserito gli incentivi tecnici (articolo 113 del Dlgs 165/2001) all'interno dei soli «Contratti di appalto per lavori servizi e forniture», senza fare menzione delle operazioni di partenariato.
La diversa posizione dei giudici contabili
Il Collegio contabile veneto, pur riconoscendo la disciplina di questi incentivi nella sola parte relativa agli appalti di lavori, servizi e forniture, ha evidenziato come le stesse disposizioni del codice dei contratti estendano anche alle concessioni di lavori pubblici e servizi (articolo 164, comma 2) e al partenariato pubblico privato e contraente generale (articolo 179, comma 2) la normativa sugli appalti, in quanto compatibile.
D'altra parte, precisano i giudici contabili veneti, l'articolo 113 sugli incentivi tecnici non si applica, per espressa previsione dell'articolo 3, comma 3, esclusivamente alle seguenti fattispecie espressamente enumerate dal legislatore ovvero: agli appalti di lavori, di importo superiore a 1 milione di euro, sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50 per cento da amministrazioni aggiudicatrici, nel caso in cui tali appalti comportino lavori di genio civile o lavori di edilizia relativi a ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici e universitari e edifici destinati a funzioni pubbliche; agli appalti di servizi di importo superiore alle soglie comunitarie in presenza di sovvenzionamenti, in misura superiore al 50 per cento, da parte di amministrazioni aggiudicatrici; lavori pubblici affidati dai concessionari di servizi, quando essi sono strettamente strumentali alla gestione del servizio e le opere pubbliche diventano di proprietà dell'amministrazione aggiudicatrice; ai lavori pubblici di cui i privati assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale o in regime di convenzione; alle società con capitale pubblico anche non maggioritario, che non siano organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza. Al di fuori di tali espresse esclusioni l'art. 113 si applica anche alle operazioni di partenariato pubblico privato.
In caso di oneri posti in capo all'aggiudicatario
Risolto positivamente il quesito relativo all'incentivazione per le operazioni di partenariato-pubblico privato, resta da chiarire se questi incentivi possano essere posti a carico del soggetto aggiudicatario. Anche in questo caso, precisa il collegio contabile, la risposta può essere positiva qualora, il sacrificio richiesto al privato nel versamento del corrispettivo dovuto all'ente, sia funzionale all'incentivazione dell'efficienza e dell'efficacia nella realizzazione e nell'esecuzione a regola d'arte del lavoro o servizio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.07.2018).
----------
MASSIMA
Il Comune di Treviso ha inviato una richiesta di parere
ex art. 7, comma 8, della L. 131/2003, in materia di incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016, recante il “Codice dei contratti pubblici” (il “Codice”).
L’Ente, dopo aver riportato la normativa di interesse del Codice (art. 113, art. 164, comma 2, art. 179, comma 1) e aver premesso che il Regolamento comunale adottato in materia “non ha previsto espressamente la corresponsione degli incentivi anche per l’esercizio delle “funzioni tecniche” inerenti procedure diverse da quelle di appalto, quali le procedure di aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi (…) e le procedure di affidamento dei contratti di “partenariato pubblico privato””, domanda se:
   1) il regolamento, di cui di cui al comma 3 dell’art. 113 del D.lgs. 12.04.2016 n. 50, possa estendere la corresponsione degli incentivi per le funzioni tecniche, previsti dal medesimo articolo, anche alle procedure di aggiudicazione regolate dalla parte III (concessione di lavori pubblici o di servizi) e dalla parte IV (partenariato pubblico o/e privato) del codice.
   2) in caso di risposta affermativa al quesito di cui al punto l), se tale estensione, dopo essere stata prevista nel regolamento dell’amministrazione, consenta di liquidare gli incentivi anche per le funzioni tecniche svolte prima dell’entrata in vigore del regolamento medesimo, qualora le relative somme siano state accantonate (la sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 14.12.2017 n. 186, ha infatti ammesso la possibilità, in presenza di una procedura di gara o in generale di una procedura competitiva, di “accantonare il fondo che viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento adottato dalla singola amministrazione”).
   3) se l’amministrazione appaltante possa porre a carico del soggetto aggiudicatario del contratto l’onere del pagamento delle somme spettanti ai dipendenti dell’ente che hanno svolto le funzioni tecniche espressamente individuate nell’art. 113, comma 2, del codice, includendole nel quadro economico dell’opera, dei lavori e/o del servizio, con particolare riferimento alle procedure di aggiudicazione regolate dalla parte III (concessione di lavori pubblici o di servizi) e dalla parte IV (partenariato pubblico o/e privato) del codice.
...
Esula dal presente, parere, ogni valutazione in merito alla legittimità sia del Regolamento che il Comune riferisce essere stato adottato nella materia considerata che della corresponsione degli incentivi già erogati o da erogare.
Ciò premesso,
di seguito si procede all’analisi, in termini generali e astratti, del quesito formulato dall’Ente in merito alla possibilità, sulla base della normativa attualmente vigente, di corrispondere gli incentivi in parola, oltre che per i contratti di appalto, anche per i contratti di concessione e di partenariato e, in caso affermativo, di poterli erogare anche per le funzioni svolte anteriormente alla modifica in tal senso del Regolamento e, infine, di poter porre a carico dell’aggiudicatario l’onere delle relative somme includendole nel quadro economico dell’opera, dei lavori e/o del servizio.
Come prospettato nella richiesta di parere all’esame, la sistematica adottata dal Codice merita un approfondimento.
Difatti, l’art. 113, rubricato agli “Incentivi per funzioni tecniche”, è collocato nella parte II del Codice, dedicato ai “Contratti di appalto per lavori servizi e forniture”, e, più precisamente, nel titolo V, contenente norme in materia di “Esecuzione”.
La disposizione di cui trattasi reca l’esplicito riferimento testuale ai soli contratti di appalto:
1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione
.”.
Per ciò che concerne le concessioni, l’art. 164, comma 2, stabilisce che “Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
Si tratta di definire, pertanto, se detto rinvio vada inteso esclusivamente con riferimento agli aspetti prettamente procedurali dell’esecuzione del contratto o, in senso più ampio, a tutte le norme, con l’unico limite della “compatibilità”, che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi compresa la disposizione sull’incentivabilità delle funzioni tecniche.
Attenendosi al dato strettamente letterale e alla sistematica del Codice, si osserva che la disposizione in esame non ha adottato, nella sua seconda parte, la tecnica del rinvio a singoli titoli o capi o articoli della parte II del Codice, a differenza di quanto fa nella sua prima parte in cui rinvia all’interezza delle disposizioni contenute nella parte I e II, il che suggerisce cautela nell’interpretare il riferimento “alle modalità di esecuzione” come afferente indistintamente a tutte le norme contenute nel titolo V, ivi compreso l’art. 113, collocato nella parte II.
Alla stessa considerazione si giunge anche in virtù della specialità e della tassatività della disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche rispetto al principio della onnicomprensività della retribuzione del dipendente pubblico più volte ribadita dalla giurisprudenza contabile.
Tanto dicasi anche per la non generalizzabilità del rinvio operato dall’art. 179, comma 2, che per i contratti di “Partenariato pubblico privato e contraente generale ed altre modalità di affidamento”, prevede che “Si applicano inoltre, in quanto compatibili con le previsioni della presente parte, le disposizioni della parte II, titolo I a seconda che l'importo dei lavori sia pari o superiore alla soglia di cui all'articolo 35, ovvero inferiore, nonché le ulteriori disposizioni della parte II indicate all'articolo 164, comma 2” (tra le quali, per l’appunto, quelle relative alle “modalità di esecuzione”).
Ciononostante, si ritiene di dover prediligere una lettura logico-sistematica che valorizzi la nozione di concessione trasfusa nel Codice (art. 3, comma 1, lett. uu e vv) basata sull’assimilazione di detto istituto al contratto di appalto con la fondamentale differenza del c.d. rischio operativo insito nella concessione, in recepimento delle definizioni di cui alla Direttiva Unica Appalti che indica l’elemento distintivo tra i due contratti (contratti secondo l’orientamento ormai prevalente) nel diritto del concessionario di gestione l’opera o il servizio accompagnato da un prezzo.
Detti elementi caratterizzanti la concessione non appaiono ostativi nel vaglio della compatibilità a cui devono essere sottoposte le norme dettate per gli appalti alle quali rinviare ai sensi del citato art. 164.
Analogamente, e soprattutto, avendo a mente la funzione degli incentivi tecnici prevista dalla legge delega del Codice (art. 1, comma 1, lett. rr), della L. 11/2016) per la quale “al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera”, non si ravvisa preclusione all’estensione dell’istituto in esame anche agli altri contratti pubblici, nei limiti, s’intende, delle specifiche tassative attività prescelte dal legislatore come meritevoli di premialità.
A corroborare tale impostazione soccorrono una serie di disposizioni del Codice che rinviano all’art. 113.
Così l’art. 3, comma 3, stabilisce che non si applica, tra l’altro, l’art. 113 a una serie di fattispecie espressamente enumerate: comma 2 del medesimo articolo, lettera a) (ovvero appalti di lavori, di importo superiore ad 1 milione di euro, sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50 per cento da amministrazioni aggiudicatrici, nel caso in cui tali appalti comportino lavori di genio civile di cui all’Allegato I o lavori di edilizia relativi a ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici e universitari e edifici destinati a funzioni pubbliche), lettera b) (ovvero appalti di servizi di importo superiore alle soglie di cui all’articolo 35 sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50 per cento da amministrazioni aggiudicatrici, allorché tali appalti siano connessi a un appalto di lavori di cui alla lettera), lettera d) (ovvero lavori pubblici affidati dai concessionari di servizi, quando essi sono strettamente strumentali alla gestione del servizio e le opere pubbliche diventano di proprietà dell'amministrazione aggiudicatrice) e lettera e) (ovvero lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione); inoltre, l’art. 113 non si applica nemmeno alle società con capitale pubblico anche non maggioritario, che non siano organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza e agli enti aggiudicatori che affidino lavori, servizi, forniture, di cui all'articolo 3, comma 1, lettera e), numero 1), qualora debbano trovare applicazione le disposizioni della parte II ad eccezione di quelle relative al titolo VI, capo I.
Si ritiene, pertanto, che quando il legislatore abbia inteso non incentivabili attività annoverabili tra le funzioni tecniche svolte nell’ambito di certi contratti pubblici lo abbia fatto esplicitamente.
D’altra parte, l’incentivabilità delle funzioni tecniche è prevista in altre disposizioni del Codice espressamente applicabili anche alle concessioni o indistintamente riferite a tutti i contratti pubblici.
In particolare, l’art. 31, rubricato “Ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni”, stabilisce, al comma 12, che la valutazione, da parte dei competenti organismi di valutazione, dell’attività di controllo svolta dalla stazione appaltante sull’esecuzione delle prestazioni (in base alle modalità organizzative e gestionali, attraverso le quali garantire il controllo effettivo da parte della stazione appaltante sull'esecuzione delle prestazioni, programmando accessi diretti del RUP o del direttore dei lavori o del direttore dell’esecuzione sul luogo dell’esecuzione stessa, nonché verifiche, anche a sorpresa, sull’effettiva ottemperanza a tutte le misure mitigative e compensative, alle prescrizioni in materia ambientale, paesaggistica, storico-architettonica, archeologica e di tutela della salute umana impartite dagli enti e dagli organismi competenti, individuate preventivamente dal soggetto responsabile dell’unità organizzativa) incide anche sulla corresponsabile degli incentivi in esame.
Inoltre, l’art. 102, comma 6, stabilisce che il compenso spettante per l’attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti pubblici (senza alcuna distinzione) è contenuto, per i dipendenti della stazione appaltante, nell’ambito dell’incentivo di cui all'art. 113. A tale proposito, la nozione di contratti pubblici contenuta nel Codice, si noti, ricomprende (art. 3, comma 1, lett. dd), del Codice) sia i contratti di appalto che di concessione aventi per oggetto l’acquisizione di servizi o di forniture, ovvero l’esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti.
Per ciò che concerne il secondo quesito formulato dall’Ente, relativo alla incentivabilità delle funzioni tecniche svolte prima dell’approvazione del relativo regolamento, si ritiene di non discostarsi dai precedenti in argomento per i quali, ferma restando l’indispensabilità del regolamento e ammessa l’accantonabilità ad apposito fondo degli importi che potranno essere erogati successivamente all’adozione di detto regolamento, si deve ribadire l’irretroattività dell’efficacia dell’atto in questione (Sez. Veneto parere 07.09.2016 n. 353 e Sez. Lombardia parere 09.06.2017 n. 185).
Con riferimento, infine, all’ultimo quesito posto dal Comune, relativo alla possibilità di porre a carico del soggetto aggiudicatario del contratto l’onere del pagamento delle somme spettanti ai dipendenti dell’Ente per gli incentivi in parola, per ciò che interessa in questa sede ci si limita a ricordare che la disciplina in esame, come novellata dapprima dall’art. 76, comma 1, lett. a), b) e c) del D.Lgs. 56/2017 (che hanno modificato, rispettivamente, i commi 1, 2 e 3), e dall’art. 1, comma 526, L. 205/2017 (che ha aggiunto il comma 5-bis), stabilisce le modalità di contabilizzazione e corresponsione degli incentivi in materia. Essi devono essere attinti, comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, dall’apposito fondo a valore sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti e, più precisamente, dal medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture, salvo non siano in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dal pubblico dipendenti.
L'amministrazione, inoltre, stabilisce anche i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del Codice.
Ulteriormente, la corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
Ed ancora, gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.
Infine, è disciplinata la destinazione del restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per acquisti di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l’edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico; una parte delle risorse può essere utilizzato per l’attivazione di tirocini formativi e di orientamento o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici.
Risulta, pertanto, che “
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale” (Sez. Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Tanto considerato, si ritiene che la contabilizzazione, la gestione e l’onere finanziario dei benefici in esame, che costituiscono eccezione al principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente in funzione di incentivazione dell’efficienza e dell’efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, sono oggetto di esclusivo adempimento in capo all’amministrazione, impregiudicata la libertà contrattuale di quest’ultima di ipotizzare, in sede di corrispettivo, una modalità di finanziamento degli oneri connessi che, tuttavia, non può andare a incidere sugli aspetti sopra riportati (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 21.06.2018 n. 198).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONiente consulenze a pensionati.
Niente incarichi di studio o consulenza a pensionati, anche se si tratta di lavoratori autonomi in quiescenza.

Il parere 06.06.2018, n. 180 della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia ritorna in maniera molto efficace a chiarire la portata della previsione contenuta nell'art. 5, comma 9, del dl 95/2012, ai sensi del quale «è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (Istat) ai sensi dell'art. 1, c. 2, della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza».
La norma precisa poi che incarichi, cariche e collaborazioni resi da soggetti in quiescenza sono consentiti solo se a titolo gratuito e per la durata massima di un anno.
La ratio della disposizione in esame «è evidentemente di favorire l'occupazione giovanile», come esplicitato dalla sentenza del Consiglio di stato 4718/2016.
La sezione Lombardia richiama le indicazioni date dalla sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del governo e delle amministrazioni dello stato che, nella deliberazione 6/2015/PREV, evidenzia la tassatività e assolutezza del divieto posto dal legislatore.
La magistratura contabile enuncia «la natura palesemente selettiva del divieto introdotto dalla norma, la quale introduce nel sistema, in modo diretto e senza deroghe o eccezioni, se non per il caso della gratuità e per la durata massima di un anno, un impedimento generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza. Tale impedimento appare fondato su un elemento oggettivo che non lascia spazio a diverse opzioni interpretative».
Dunque, il divieto non riguarda solo i pensionati lavoratori dipendenti pubblici o privati e si estende anche ai lavoratori autonomi
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il Sindaco ha richiesto un parere circa “l’'interpretazione in merito alla definizione della natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e l'eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio alla luce della novella normativa di cui all'art. 1, comma 526, della L. 205/2017 al fine di permettere una corretta imputazione di tale fondo sul bilancio comunale.
La Sezione si è pienamente uniformata all’orientamento espresso dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione n 6/SEZAUT/2018/QMIG, secondo il quale "stante che il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale, gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
---------------

Il Sindaco del Comune di Trecate (NO), con nota del 06.03.2018, chiede, all’adita Sezione, l’espressione di un parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131. La Sezione regionale di Controllo per il Piemonte, nell’adunanza del 20.02.2018, ha deliberato di rinviare la discussione del parere posto dal sindaco di Bra.
Tale decisione, ha riguardato anche il parere, richiesto successivamente, dal Comune di Trecate, ed è stata motivata dal fatto che su analogo problema, sollevato dalle Sezioni di Controllo per la Regione Puglia e per la Regione Lombardia, doveva esprimersi, nel breve tempo, la sezione delle Autonomie. Tale decisione è stata assunta in data 10 aprile con deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Nella nota in epigrafe il Sindaco, prima della formulazione del quesito specifico, richiama l’attenzione su alcuni principi normativi. In particolare si fa riferimento all'articolo 113, rubricato "Incentivi per funzioni tecniche", del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, di approvazione del nuovo Testo Unico sui lavori, servizi e forniture, che sostituisce l'art. 93 del D.Lgs. 163/2006, già oggetto di riforma ad opera del D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito con L. 114/2014, riscrivendo la disciplina degli incentivi del personale già denominato "Fondo per la progettazione" ed ora trasformato in "Fondo per le funzioni tecniche", con decorrenza dal 19.04.2016.
Nella nota in epigrafe si sottolinea inoltre “che il D.Lgs. n. 50/2016 ha introdotto la redistribuzione degli incentivi per il buon compimento di appalti pubblici, aventi ad oggetto sia lavori che forniture di beni e servizi;
   - l’art 113, al comma 3, prevede che una somma non superiore all'80% del 2% dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, servizio o fornitura è ripartita tra il responsabile del procedimento e quanti svolgono le altre prestazioni professionali connesse (programmazione della spesa per investimenti, verifica preventiva dei progetti, predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, direzioni lavori e collaudo ovvero direzione dell'esecuzione e verifica di conformità oltre al collaudo statico delle opere ove previsto) in base ad apposito Regolamento;
   - il restante 20% del 2% delle risorse finanziarie del Fondo, è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa, nonché all'ammodernamento e accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini
”.
Si osserva inoltre che la Corte dei Conti, sezione delle Autonomie, con due successive pronunce, deliberazione 06.04.2017 n. 7 e la deliberazione 10.10.2017 n. 24, ha affermato rispettivamente che “gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113 comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all'art. 1, comma 236, L. 208/2015 (legge di stabilità 2016)" e ribadito che "gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell'alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio”; che l’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017 n. 205 ha innovato l'art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 aggiungendo il seguente comma 3-bis: "gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture"; che la Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per l'Umbria, con il
parere 05.02.2018 n. 14 ha analizzato le modifiche apportate al sistema degli incentivi alla luce del mutato quadro normativo ritenendo che gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa relativo all'appalto non rilevando più la qualificazione della spesa come investimento o corrente.
Premesso tutto quanto sopra esposto, il Sindaco del Comune di Trecate chiede:
   - “di esprimere un'interpretazione in merito alla definizione della natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e l'eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio alla luce della novella normativa di cui all'art. 1, comma 526, della L. 205/2017 al fine di permettere una corretta imputazione di tale fondo sul bilancio comunale;
   - di definire la decorrenza del sopra indicato comma e, quindi, se lo stesso trova applicazione a far data dal 01.01.2018
”.
...
 Il quesito posto dall’ente locale fa riferimento, come in precedenza detto, all’art. 113, comma 5-bis, come modificato dall’articolo 1 comma 526 della legge 27.12.2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) che enuncia; “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In quest’ambito si chiede chiarire se gli incentivi per le “funzioni tecniche” di cui al comma 3 del medesimo articolo (peraltro gli incentivi per le funzioni tecniche vengono indicati al comma 2; ed analogamente anche la delibera della sezione regionale di controllo del Piemonte si riferiva al comma 2 e non al comma 3), vadano o meno conteggiati ai fini del rispetto del limite annuale di cui all’articolo 23, comma 2, 3 del D.lgs. n. 75/2017 che rispettivamente recitano:
comma 2 -nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016.
comma 3 - Fermo restando il limite delle risorse complessive previsto dal comma 2, le regioni e gli enti locali, con esclusione degli enti del Servizio sanitario nazionale, possono destinare apposite risorse alla componente variabile dei fondi per il salario accessorio, anche per l'attivazione dei servizi o di processi di riorganizzazione e il relativo mantenimento, nel rispetto dei vincoli di bilancio e delle vigenti disposizioni in materia di vincoli della spesa di personale e in coerenza con la normativa contrattuale vigente per la medesima componente variabile
”.
Su tale quesito si è espressa in modo esaustivo, con deliberazione n. 14 del 05.02.2018, la sezione regionale di controllo per l’Umbria ribadendo che, con riferimento agli incentivi tecnici disciplinati dalla precedente normativa (ex art. 93, comma 7-ter, del D.lgs. n. 163/2006) “vi era stata una pronuncia delle Sezioni Riunite la 51/2011 che aveva “escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione”.
In questo specifico contesto si era espressa anche la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16, disponendo, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006 n. 296, l’esclusione di incentivi per la progettazione interna a motivo della loro riconosciuta natura: “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
La Sezione delle Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, aveva stabilito che gli incentivi per le funzioni tecniche, diversi dagli incentivi per la progettazione, rientrassero nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata.
Su questo punto, in particolare, la sezione di Controllo per la Liguria con deliberazione n. 58/2017 aveva espressamente richiesto alla Sezione delle Autonomie un riesame della problematica in esame: “la Sezione, considerata l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale” sottopone la seguente questione di massima: “se gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015”. 
La Sezione delle Autonomie, in risposta alla richiesta formulata dalla sezione di controllo della Liguria, con deliberazione 10.10.2017 n. 24, aveva ribadito il proprio orientamento espresso con la deliberazione 06.04.2017 n. 7 della stessa Sezione, pronunciandosi sul rapporto tra nuovi incentivi e norme vincolistiche sul contenimento della spesa del personale, rimarcando che gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, fossero da includere nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici “posto che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti, e, quindi, di personale.”
Nella deliberazione 10.10.2017 n. 24 della Sezione delle Autonomie si chiariva che: “Le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione.
IV. Ciò debitamente rappresentato, si osserva che la questione di massima deferita dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria è sostanzialmente identica a quella già valutata e risolta da questa Sezione delle autonomie con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7 assunta nell’adunanza del 30.03.2017 con la quale, sia pure in via incidentale, in conformità alla questione di massima ad essa in tale sede deferita, la Sezione si è pronunciata anche sul rapporto tra nuovi incentivi e norme vincolistiche sul contenimento della spesa del personale.
Come sottolineato in detta deliberazione, nel delineato nuovo scenario normativo gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte esposte nella richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7 –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la deliberazione 04.10.2011 n. 51 (in relazione ai trattamenti accessori del personale) e dalla Sezione delle autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16 (in relazione al limite previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e 562, della l. 296/2006).
IV.1. Sulla problematica si sono successivamente pronunciate, in sede consultiva, le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e Lombardia (rispettivamente con il parere 09.06.2017 n. 113 e parere 09.06.2017 n. 185) in conformità al principio di diritto espresso dalla Sezione delle autonomie. Pertanto, allo stato non si registrano ulteriori contrasti interpretativi in relazione alla novella legislativa oggetto della questione di massima nuovamente riproposta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria, ed oggi all’esame
”.
Fermo restando la ricostruzione fin qui svolta, che dava un orientamento restrittivo, è tuttavia intervenuto successivamente l’articolo 1, comma 526, della legge 27/12/2017, n. 205 che ha aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 il comma 5-bis, che si inserisce all’interno del quadro normativo pregresso, innovandolo.
Nel citato
parere 05.02.2018 n. 14 della sezione di Controllo per l’Umbria si sottolinea che la Legge di Bilancio 2018 con l’articolo 1, comma n. 526, ha infatti, aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 75 del 2016, il comma 5-bis il cui testo è il seguente: “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In tal modo il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs. n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto”.
Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto”.
Con deliberazione 26.04.2018 n. 6 la Sezione delle Autonomie ha affrontato due distinte questioni sollevate, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012 n. 213. In particolare:
   1) dalla Sezione di controllo per la Regione Puglia, con la deliberazione 09.02.2018 n. 9, a seguito della richiesta di parere del Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG) concernente l’accertamento, alla luce della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, della natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e dell’inclusione, o meno, della stessa nell’ambito della spesa per il personale, con le relative conseguenze in ordine al rispetto dei vincoli normativi in tema di trattamento accessorio.
   2) dalla Sezione di controllo per la Regione Lombardia, con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40, in ordine alla richiesta di parere presentata dal Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) in merito alla sottoposizione ai generali limiti posti al trattamento accessorio del personale dipendente anche degli emolumenti economici erogati a titolo di incentivi dall’art. 113 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50/2016.
Anche ad avviso di questa sezione di controllo si ritiene che il nuovo assetto normativo fin qui riproposto, possa dare una “nuova” luce ed una più chiara interpretazione che permetta, in modo più esaustivo, di colmare le distanze rispetto a precedenti interpretazioni normative e giurisprudenziali.
Nella predetta delibera della sezione delle Autonomie si sottolinea che: “Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere. La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti.
Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come configurato a seguito delle ultime modifiche normative intervenute, occorre prendere atto che l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici. Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse, nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della gestione contabile. Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione, la novella impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017
”.
Questa Sezione, pertanto, non può che uniformare il proprio parere a quanto già stabilito dalla Sezione delle Autonomie nella richiamata deliberazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 23.05.2018 n. 56).

PUBBLICO IMPIEGOAi fini applicativi dell’articolo 90 del TUEL, non può essere rinnovato l’incarico nell’ambito dell’Ufficio alle dirette dipendenze del Sindaco a personale collocato in quiescenza, se esso pertiene ad una delle attività indicate dall’art. 5, comma 9 del d.l. n. 95/2012, dato il carattere necessariamente oneroso dell’incarico stesso ex comma 2 del precitato art. 90.
---------------
1) – Il Sindaco del Comune di Città di Castello (PG) ha inoltrato a questa Sezione regionale di controllo, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell'Umbria, una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, per sapere se può “attribuire incarichi, nell’ambito dell’Ufficio Staff del Sindaco, [ai sensi dell’] art. 90 del d.lgs. n. 267/2000, a personale collocato d’ufficio in quiescenza, avendo superato il limite di età ordinamentale, nonché maturato il requisito contributivo per la pensione anticipata e, in caso affermativo, se tale incarico debba essere svolto a titolo gratuito o anche in forma onerosa.
2) – A tal fine, si è fatto presente che:
   a) la richiesta riguarda “un dipendente [del] Comune che ricopriva l’incarico con contratto a tempo determinato, ai sensi del [citato] art. 90 presso l’Ufficio Staff del Sindaco nel profilo di Funzionario addetto all’attuazione del programma, cat. D3, collocato d’ufficio in pensione dall’01/04/2018, per limite di età";
   b) l’idea perseguita è quella di “rinnovare tale incarico”;
   c) i problemi interpetrativo-applicativi relativi al ripetuto art. 90 nascono da “alcune deliberazioni delle Sezioni Regionali della Corte dei conti che […] sembrano escludere tale possibilità”, in relazione anche alla “natura necessariamente onerosa del rapporto di lavoro presso i c.d. Uffici di Staff” (v. Sez. Calabria n. 5/2017 e n. 27/2018), laddove altra Sezione ha precisato che l’incarico ex art. 90 più volte menzionato non deve avere ad oggetto “l’espletamento di funzioni direttive, dirigenziali, di studio o di consulenza, senza specificare ulteriormente se l’incarico [stesso] debba essere gratuito o meno” (v. Sezione Liguria n. 27/2016).
...
5.1)
Il tema del conferimento di incarico di “staff” ex art. 90 TUEL, nei termini in cui è stato prospettato con la richiesta di parere all’esame del Collegio, si intreccia con quello della corretta applicazione dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012, come modificato dall’art. 17, comma 3, della l. n. 124/2015.
Le deliberazioni richiamate nella richiesta di parere (sez. Calabria n. 27/2018 e Sezione Liguria n. 27/2016), infatti, vertono proprio sulla corretta applicazione dell’art. 90 TUEL nel suo combinato disposto con l’appena citato art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012 e s.m.i..
Gli orientamenti espressi con tali deliberazioni, maturati tenendo anche conto delle circolari n. 6/2014 e n. 4/2015 del Ministero per la semplificazione e la pubblica Amministrazione (oltre che dei principi affermati dalla Sezione Centrale di controllo di Legittimità con la deliberazione n. 23/2014), distinguono e separano gli incarichi che possono essere conferiti al personale in quiescenza, da quelli che invece non possono essere conferiti al medesimo personale, specificando trattarsi –relativamente a questi ultimi- di fattispecie non estensibili oltre la puntuale previsione normativa.
5.2) –
Gli incarichi “vietati”, dunque, sono solo quelli espressamente contemplati dal ripetuto art. 5, comma 9, ossia gli incarichi di: “studio e di consulenza”, ovvero “dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni”.
Per espressa indicazione normativa, peraltro, gli elencati “incarichi, cariche e collaborazioni […] sono comunque consentite [se espletati] a titolo gratuito (v. terzo periodo dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012).
5.3) Dal testo normativo e dalle circolari che ad esso fanno riferimento, pertanto,
risultano due condizioni necessariamente concorrenti per escludere la conferibilità degli incarichi in discorso al personale in quiescenza: a) la prima attiene alla natura degli incarichi (direttivi, dirigenziali, di studio, ecc.); b) la seconda attiene al carattere oneroso dell’affidamento.
6) Le deliberazioni considerate nella richiesta di parere all’esame del Collegio, contrariamente a quanto lascerebbe intendere la richiesta stessa, non sono tra loro in disallineamento culturale-interpretativo, ma si integrano, cogliendo ognuna di esse uno dei due aspetti del “divieto”.
6.1) La deliberazione n. 27/2016 della Sezione Liguria, infatti, si occupa della natura dell’incarico che, qualora diverso da quelli poco sopra elencati (direttivi, dirigenziali, di studio, ecc.), ben può essere conferito anche mediante il contratto di cui all’art. 90 TUEL, atteso che la natura intrinsecamente diversa da quelli espressamente “vietati” rende superfluo l’accertamento dell’ulteriore condizione del suo carattere oneroso.
6.2) La deliberazione n. 27/2018 della Sezione Calabria, invece, esamina più in dettaglio proprio il profilo dell’onerosità dell’incarico, evidenziandone l’intrinseca correlazione con le disposizioni del comma 2 dell’art. 90 TUEL. Trattasi, ovviamente, di aspetto da coordinare con quello del contenuto dell’incarico, da ritenere “vietato” se attinenti a funzioni dirigenziali, direttive, di studio, ecc.
7) Nel caso di specie, parrebbe che l’incarico da “rinnovare” sia quello di “Funzionario addetto all’attuazione del programma, D3”, già conferito in precedenza, ai sensi dell’art. 90 TUEL (v. testualmente pag. 1 della nota di richiesta del parere).
7.1) Trattasi, perciò di un incarico “direttivo”, negativamente considerato dall’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012, da affidare mediante un contratto ex art. 90 TUEL, necessariamente oneroso (v. il relativo comma 2).
Salve le diverse determinazioni del Comune di Città di Castello, pertanto, il predetto incarico sembra che non possa essere conferito, ex deliberazioni n. 17/2016 della Sezione Liguria e n. 17/2018 della Sezione Calabria (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 21.05.2018 n. 77).

EDILIZIA PRIVATA«Rottamazione» impossibile per gli oneri accessori dei condoni edilizi.
Il Consiglio comunale non può procedere alla definizione agevolata degli oneri accessori dei condoni edilizi, in considerazione del tasso di interesse applicato (10%) rispetto a quello legale (dal 01.01.2018 pari allo 0,3%).

La risposta negativa al quesito di un Comune arriva dalla Corte dei conti della Campania (parere 09.05.2018 n. 70) e trova fondamento nel fatto che la richiesta riguarda corrispettivi di diritto pubblico che non costituiscono tributi, con impossibilità di estenderne i regimi agevolativi disposti dalle norme tributarie.
La normativa tributaria
La normativa tributaria (articolo 13 della legge 289/2002) lascia ampia autonomia agli enti locali sui propri tributi, sia in merito alla possibilità di poter procedere a una riduzione dell'ammontare delle imposte e tasse dovute, sia sull'esclusione o sulla riduzione degli interessi e sanzioni nel caso in cui, entro un termine fissato dall'ente (non inferiore ai sessanta giorni), i contribuenti adempiano a obblighi tributari precedentemente in tutto o in parte non rispettati.
Sulla base, pertanto, di quanto indicato dalla legge, è rimessa all'ente la possibilità di poter disciplinare in autonomia i possibili criteri di definizione agevolata dei tributi, a condizione che gli stessi siano stati già accertati dall'ente e il contribuente non abbia adempito al pagamento della propria obbligazione tributaria.
Le indicazioni del collegio contabile
Per il collegio contabile campano deve essere esclusa la possibilità, da parte dell'ente locale, di poter procedere nella propria autonomia a stabilire criteri per una definizione agevolata degli oneri accessori al condono edilizio, anche se limitata a ricondurre gli interessi, pari al 10%, a quelli legali, che dal 01.01.2018 sono pari allo 0,3%.
L'esclusione discende dalla natura giuridica degli oneri (compresi gli accessori quali interessi e sanzioni) che è non tributaria, con conseguente impossibilità di estendere la definizione agevolata prevista dal legislatore per i soli tributi. Stessa sorte tocca anche gli altri corrispettivi di diritto pubblico, ossia in generale quelli posti a carico del proprietario e idealmente commisurati ai costi sostenuti dalla collettività e al beneficio resi.
La differenza, infatti, tra tributi e oneri edilizi è sostanziale, in quanto questi ultimi hanno il loro presupposto nella volontà costruttiva del proprietario, mentre il tributo (imposte, tasse, contributi) è una entrata autoritativa o coattiva, la cui obbligatorietà è imposta con un atto dell'autorità senza che vi concorra la volontà del soggetto obbligato, destinata a finanziare le pubbliche spese.
In merito al rilascio dei titoli abilitativi edilizi, la legge prevede che il proprietario costruttore versi due quote, la prima (oneri di urbanizzazione) è dovuta dalla necessità di dotare l'area delle opere di urbanizzazione primarie (servizi all'abitazione) e secondarie (servizi agli abitanti) che ben essere effettuata in via diretta dal proprietario (a scomputo degli oneri dovuti); la seconda quota è invece commisurata al costo di costruzione a fronte del corrispettivo aumento di valore di cui beneficerà l'immobile per effetto delle opere pubbliche che saranno realizzate.
Nel caso dell'abuso edilizio l'oblazione richiesta dalla normativa rappresenta già una forma agevolata di pagamento di per se incompatibile con ulteriori interventi agevolativi, inoltre la natura degli interessi previsti dal legislatore sono da qualificarsi quali interessi moratori incompatibile con la funzione stessa dell'interesse legale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2018).
---------------
MASSIMA
Gli oneri per titoli edilizi costituiscono non un “tributo” ma un “corrispettivo di diritto pubblico” a carico del proprietario, commisurato ai costi sostenuti dalla collettività e al beneficio reso.
Il richiedente il titolo edilizio può sottrarsi al pagamento del contributo, obbligandosi a “realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto [delle norme del codice dei contratti pubblici], con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune» (c.d. opere “a scomputo” degli oneri) (art.16 T.U. edilizia).
Non costituendo, pertanto, l’obbligo di pagamento per siffatti oneri, “tributi” o “imposte e tasse”, la Sezione ritiene che non sia applicabile l’art. 13 della L. n. 289/2002, quale forma agevolata di defezione di rapporti il cui titolo è già sorto, né, pertanto, la definizione agevolata agli interessi per il ritardato pagamento dell’oblazione per il condono edilizio.

---------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agnello (NA) ha chiesto
alla Sezione un parere in merito alla possibilità per gli enti locali di applicare l’art. 13 della Legge n. 289 del 27.12.2002 agli oneri previsti dall'art. 39, comma 10, della legge n. 724/1994 in caso di “condono edilizio.
Segnatamente chiede di sapere se è possibile procedere a definizione agevolata del quantum dovuto per interessi in caso di ritardato pagamento dell’oblazione.
L’Ente osserva che in caso di risposta positiva, intenderebbe procedere alla riduzione del tasso di interesse, stabilito dall'art. 39, comma 10, della Legge 724/1994 nella misura del 10%, rapportandolo al tasso di interesse legale attualmente vigente.
«In tal modo si contempererebbero sia le esigenze dell'Amministrazione, di incassare nel più breve tempo possibile le somme derivanti dalla definizione dei procedimenti di condono, sia quelle dei cittadini, che in tal modo potrebbero procedere al pagamento del dovuto più agevolmente».
...
1. Come è noto, l’art. 13 della Legge n. 289/2002, concede a regioni, province e comuni la facoltà di definire in modo agevolato il rapporto tributario per “tributi propri”, per mezzo di apposite previsioni normative generali, adottate secondo l’ordinamento di riferimento e conformi ai criteri di legge fissati nella stessa disposizione.
Segnatamente: «[…] con riferimento ai tributi propri, le regioni, le province, ed i comuni possono stabilire, con le forme previste dalla legislazione vigente per l’adozione dei propri atti destinati a disciplinare i tributi stessi, la riduzione dell’ammontare delle imposte e tasse loro dovute, l’esclusione o la riduzione dei relativi interessi e sanzioni, per le ipotesi in cui, entro un termine appositamente fissato da ciascun ente, non inferiore a sessanta giorni dalla data di pubblicazione dell’atto, i contribuenti adempiano a obblighi tributari precedentemente in tutto o in parte non adempiuti» (enfasi aggiunta).
Lo stesso articolo precisa che:
   - restano escluse dalla previsione le addizionali, le compartecipazioni a tributi erariali e le mere attribuzioni di gettito di tributi erariali;
   - la definizione agevolata riguarda rapporti tributari, già esistenti per cui si sia registrata una difficoltà di riscossione (“obblighi tributari precedentemente in tutto o in parte non adempiuti”);
   - le agevolazioni potranno essere previste anche per i casi in cui siano già in corso procedure di accertamento o procedimenti contenziosi in sede giurisdizionale, le quali potranno quindi riferirsi anche a tributi ora abrogati.
Tale previsione trova fondamento nell’art. 119 della Costituzione, nel testo modificato con legge costituzionale n. 3/2001, secondo il quale: «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome.
Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio
».
L’applicazione di tale disposizione, dunque, presuppone:
   - la natura tributaria delle entrate;
   - il previo accertamento dell’entrata e la sua mancata riscossione nei termini e tempi di legge;
   - una disciplina attuativa che stabilisca preventivamente ed in generale, nelle forme e con le fonti dell’ordinamento proprio di ciascun ordinamento territoriale, i criteri della definizione agevolata.
2. Il Comune chiede di sapere se tale norma e tali criteri siano applicabili sulle entrate per “oneri” dovuti in relazione al rilascio di titoli edilizi in sanatoria, ai sensi dell’art. dell’art. 39 Legge n. 724/1994, in particolare con riguardo ai previsti interessi del 10% in caso di ritardo nel versamento dell’oblazione.
2.1. La giurisprudenza tributaria, amministrativa e contabile, nonché della Suprema Corte di Cassazione (cfr. TAR Campania-Salerno, Sez. II, 05.10.2009 n. 5318; SRC Lombardia n. 144/2017/PAR; SS.UU. sentenza n. 22514 del 20.10.2006) hanno concordemente affermato che
gli oneri per i titoli edilizi non costituiscono un “tributo”, sia pure nella forma di contributo, ma un “corrispettivo di diritto pubblico”, come tale obbligatoriamente posto a carico del proprietario, idealmente commisurato ai costi sostenuti dalla collettività e al beneficio reso.
Si tratta di una prestazione, da un lato, che ha il suo presupposto nella volontà costruttiva del proprietario, mentre il tributo (imposte, tasse, contributi) è una entrata autoritativa o coattiva, la cui obbligatorietà è imposta con un atto dell'autorità senza che vi concorra la volontà del soggetto obbligato, destinata a finanziare le pubbliche spese.
Infatti, il richiedente il titolo edilizio può sottrarsi al pagamento del contributo se, ai sensi dell’art. 16 del T.U. edilizia, si obbliga «a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto [delle norme del codice dei contratti pubblici], con le modalità̀ e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune» (c.d. opere “a scomputo” degli oneri).
Per altro verso, tale prestazione è commisurata all’utilità diretta del soggetto destinatario del titolo edilizio. Tale corrispettivo si articola infatti in due quote.
Una prima quota, relativa agli “oneri di urbanizzazione” propriamente detti, ha causa nelle spese che l’ente pubblico affronta per dotare un’area delle opere di urbanizzazione primarie (servizi all’abitazione) e secondarie (servizi agli abitanti) ed è commisurata al c.d. “peso insediativo” dell’intervento che il comune dovrà sopportare.
Una seconda quota, commisurata invece al costo di costruzione, è idealmente giustificata in ragione del corrispettivo aumento di valore di cui beneficerà l’immobile per effetto delle realizzande opere pubbliche.

2.2.
Analoga qualificazione “non tributaria”, per estensione, è stata sostenuta con riguardo all’oblazione edilizia accertata e versata ai sensi dell'articolo 35 della Legge n. 47/1985 e dell’art. 39 Legge n. 724/1994 (TAR Campania Salerno Sez. II, sentenza 21.11.2011, n. 1895; Commissione tributaria regionale di Roma, sezione 20, sentenza n. 115 del 07.09.2005).
Trattasi di una somma di denaro determinata con riferimento all'opera abusiva o alla parte abusiva realizzata in relazione al tipo di abuso, ovvero di una somma determinata sulla base delle superfici abusive realizzate, oppure, per alcune tipologie, a forfait.
3.
Ne consegue che l’obbligo di pagamento per siffatti oneri, discendente dall’art. 19 del T.U. Edilizia (D.P.R. n. 380/2001), dal precedente art. 3 della L. n. 10/1977 ed, infine, dalle norme sulla definizione agevolata degli abusi edilizi (capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 e art. 39 della Legge 724/1994), non costituiscono “tributi” o “imposte e tasse”.
Per l’effetto a tale prestazioni non è applicabile l’art. 13 della Legge n. 289/2002, che costituisce una forma agevolata di defezione di rapporti il cui titolo è già sorto.

Tale inapplicabilità riguarda tanto la sorte che gli accessori.
Del resto:
   - da un lato, l’oblazione costituisce già una forma agevolata di pagamento, pertanto logicamente incompatibile con ulteriori manipolazioni agevolative;
   - gli interessi previsti dal comma 10 dell’art. 39 della L. n. 724/1994, sono interessi “moratori” ex art. 1224 c.c., per cui il Legislatore ha espressamente contemplato la divergenza dall’interesse legale, oggi stabilito dall’art. 1284, comma 1, c.c., tramite rinvio ad appositi decreti annui del Ministro del tesoro;
   - le fattispecie di esonero hanno carattere tassativo, costituendo esse eccezione rispetto alla regola del pagamento obbligatorio (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 18.06.2010 n. 2688; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 26.04.2006 n. 1062; TAR Lombardia-Brescia 28.01.2002 n. 100). Infatti, l’unica deroga in materia è quella contenuta nel già citato art. 39 (comma 9) della L. 724/1994, il quale prevede che il contributo non è dovuto se il costruttore, in proprio od in forme consortili, abbia eseguito od intenda eseguire parte delle opere di urbanizzazione, secondo le disposizioni tecniche dettate dagli uffici comunali (c.d. opere a “scomputo degli oneri”).
Ne consegue che non è possibile applicare la definizione agevolata di cui all’art. 13 della Legge n. 289/2002 agli interessi per il ritardato pagamento dell’oblazione per il condono edilizio.

CONSIGLIERI COMUNALIAgli amministratori spese legali rimborsate solo se non colpiscono l’equilibrio di bilancio.
La locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» contenuta nell'articolo 86, comma 5, del testo unico degli enti locali a proposito del rimborso delle spese legali agli amministratori, deve essere riferita all'aggregato delle spese di funzionamento, per cui sono possibili compensazioni interne tramite le quali garantirne la copertura qualora non previste o siano maggiori rispetto agli esercizi precedenti.

Lo afferma la Sez. regionale di controllo per il Molise della Corte dei conti con il parere 03.05.2018 n. 55.
Il tema
Diversi amministratori comunali, sottoposti a indagini penali e per i quali è poi stato dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, hanno chiesto il rimborso delle spese legali. Un sindaco ha chiesto se, alla luce della locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» contenuta nell'articolo 86, comma 5, del Tuel, sia possibile utilizzare come parametro il complessivo equilibrio finanziario dell'ente e non l'invarianza della singola voce di spesa, non avendo mai posto in essere stanziamenti per spese legali. E se è corretto intendere la clausola di invarianza finanziaria nel senso che l'amministrazione provvede attingendo alle ordinarie risorse di cui può disporre a legislazione vigente, senza precludere spese nuove solo perché non precedentemente sostenute o maggiori rispetto alla precedente previsione.
L'articolo 86 vincola il rimborso delle spese legali per gli amministratori locali al limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto previsto dall'articolo 13, comma 6, della legge 247/2012, nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato, presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e assenza di dolo o colpa grave.
Le coperture
A fronte di un diverso avviso espresso dalla sezione Basilicata, secondo cui la facoltà riconosciuta agli enti locali di rimborsare le spese legali deve trovare copertura nelle entrate attese, i magistrati contabili molisani scelgono l'opzione interpretativa secondo cui la locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» deve essere riferita all'aggregato delle spese di funzionamento, che nel bilancio armonizzato è identificato nelle spese della Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di gestione».
L'introduzione o l'aumento della spesa per la voce in esame sono, dunque, preclusi solo qualora determinano un innalzamento delle spese relative all'organizzazione e al funzionamento complessivamente sostenute dall'ente locale rispetto a quanto appostato nel rendiconto del precedente esercizio. Sono conseguentemente possibili compensazioni interne, tramite le quali l'ente può garantire la copertura delle spese per il rimborso agli amministratori a patto che venga rispettato il complessivo aggregato di spesa.
Il fondo rischi
La sezione, poi, ricorda che nel caso in cui abbia una obbligazione passiva condizionata all'esito di un giudizio o di un ricorso, l'ente è tenuto ad accantonare le risorse necessarie per il pagamento degli oneri attraverso la costituzione di un apposito fondo rischi. Spetta alla singola amministrazione valutare se il contenzioso che potrebbe insorgere con gli amministratori aventi diritto al rimborso sia già attualizzato al momento dello stanziamento del fondo, evitando che accantonamenti stanziati per assicurarsi dal rischio di ulteriori eventi sfavorevoli possano essere utilizzati per le segnalate finalità onde evitare di depotenziare l'utilità del fondo stesso a discapito degli equilibri di bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.05.2018).
---------------
MASSIMA
La Sezione -ammessa la richiesta sotto il profilo soggettivo e i primi quattro quesiti sotto il profilo oggettivo– ritiene oggettivamente i restanti quesiti estranei alla materia della contabilità pubblica e richiedenti una risposta puntuale in relazione ad aspetti operativi riconducibili esclusivamente alla sfera amministrativo-gestionale dell’Ente.
Tra le interpretazioni intervenute in ordine all’art. 86, comma 5, TUEL, il Collegio ritiene preferibile l’opzione interpretativa secondo la quale il significato della locuzione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, debba essere riferito all’aggregato di spesa delle spese di funzionamento, in quanto, da un lato, comprensivo delle spese afferenti al mandato degli amministratori ma, dall’altro non così ampio da ricomprendere anche le uscite destinate a soddisfare le finalità pubbliche il cui perseguimento è demandato all’Amministrazione.
Tale aggregato interessa in particolare “tutte le voci di spesa destinate a garantire l’esistenza dell’apparato comunale e il suo funzionamento ed esclude invece quelle voci di spesa per loro natura destinate all’espletamento dei compiti di cui l’ente è intestatario, preordinati ad assicurare e contemperare gli interessi dei soggetti a cui l’azione pubblica è rivolta”. Nel bilancio armonizzato pertanto l’aggregato in questione non può che essere identificato nelle spese della Missione 1 recante “Servizi istituzionali, generali e di gestione”
(cfr. Sez. controllo Lombardia nn. 452 e 470/2015/PAR).
Non intravede ostacoli a che l’Amministrazione, nel rispetto del complessivo aggregato di spesa del precedente esercizio, provveda alle variazioni di bilancio necessarie a garantire la copertura delle spese in questione.
In ultimo, è possibile utilizzare gli importi previsti nel fondo rischi/passività future esclusivamente a fronte di sentenze sfavorevoli non definitive o non esecutive e/o di un contenzioso che si sia già manifestato nell’”an” senza tuttavia essere stato ancora definito tanto nell’esito che nel “quantum”.
L’Amministrazione valuterà pertanto se il contenzioso si fosse già attualizzato al momento dello stanziamento del Fondo in questione e, soprattutto, eviterà che accantonamenti stanziati per assicurarsi dal rischio di ulteriori eventi sfavorevoli (altri contenziosi e/o sentenze non definitive o non esecutive) possano essere utilizzati per le segnalate finalità onde evitare di depotenziare l’utilità del fondo stesso a discapito degli equilibri di bilancio.

SEGRETARI COMUNALIIl blocco del fondo accessorio frena anche la maggiorazione dei segretari.
Dopo i dipendenti del comparto, i titolari di posizione organizzativa e i dirigenti, arriva l'ora dei segretari comunali. Fino a oggi nessuna amministrazione si era azzardata a chiedere lumi sul loro trattamento economico e, nel silenzio, si propendeva per la non applicabilità al tetto del salario accessorio imposto dalla riforma Madia alla loro retribuzione. Ben coscienti dell'assoluta fragilità di questa posizione.
A rompere il castello di carta è arrivata la Corte dei conti per la Lombardia, con il parere 12.04.2018 n. 116.
Il quesito
Un Comune ha interrogato i magistrati contabili sul campo di applicazione dell'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 e, in particolare, se la disposizione impone il limite alla dinamica di crescita anche per la maggiorazione di posizione che può essere riconosciuta ai segretari comunali e provinciali.
I precedenti
La Corte parte da posizioni ormai consolidate nel tempo. Un primo filone, in ordine sia alla predetta maggiorazione, secondo l'articolo 41, comma 4, del contratto del 16.05.2001, che al cosiddetto «galleggiamento», previsto al successivo comma 5, evidenzia come questi istituti, per espressa disposizione contrattuale, possano essere riconosciuti solo nell'ambito delle risorse disponibili e nel rispetto della capacità di spesa. A questo, i magistrati contabili hanno aggiunto che «gli incrementi in esame non possono comportare da parte del Comune concedente la violazione dei vincoli in materia di contenimento delle spese per il personale» (deliberazione n. 30/2010 della Corte dei conti per la Sardegna).
Un secondo filone ha affrontato i problemi applicativi in ordine al tetto del salario accessorio e ha chiarito come il limite debba essere applicato alle risorse destinate al trattamento accessorio del personale nel suo ammontare complessivo e non con riferimento ai fondi riferiti alle singole categorie di personale (di comparto, titolare di posizione organizzativa, dirigente ed, oggi, anche segretari comunali e provinciali).
La posizione della Sezione Autonomie
La posizione è stata definitivamente statuita dalla Sezione delle Autonomie, con le deliberazioni n. 26/2014 e n. 34/2016. Con questi presupposti, la conclusione non poteva che essere una: la maggiorazione della retribuzione di posizione dei segretari rientra nel campo di applicazione dell'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
La deliberazione non lascia per nulla sorpresi. La memoria, infatti, corre ai tempi nei quali si discuteva delle voci da assoggettare a trattenuta nei primi 10 giorni di malattia. In quell'ambito, sia il Dipartimento della Funzione Pubblica che l'Aran avevano affermato che tanto la retribuzione di posizione quanto la maggiorazione e il galleggiamento sono soggette alla trattenuta in quanto fanno parte del trattamento accessorio del segretario.
E se lo sono per la trattenuta Brunetta non possono che essere tali anche ai fini del tetto previsto dalla riforma Madia. Sicuramente questo pone problemi non indifferenti, soprattutto negli enti di minori dimensioni, dove la rotazione del segretario è piuttosto frequente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
---------------
MASSIMA
PQM
La Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia– ritiene che il compenso per la maggiorazione di posizione da attribuirsi al segretario comunale, nei termini espressi nel quesito in epigrafe, sia ricompresa nell’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale e che sia soggetta ai limiti di spesa parametrati al 2016 di cui all’art. 23 D.Lgs. 75/2017 per le ragioni riportate in motivazione.

ATTI AMMINISTRATIVITransazione impossibile sulle sanzioni. Solo i rapporti patrimoniali disponibili possono essere oggetto di transazione da parte dell'ente locale.
Con il parere 12.04.2018 n. 108 la Sez. regionale di controllo della Corte dei Conti per la Lombardia riassume i requisiti essenziali dell'accordo transattivo disciplinato agli articoli 1965 e seguenti del Codice civile.
La scelta discrezionale
Ai magistrati viene chiesto se sia ammissibile una transazione con la curatela di un fallimento, nell'ambito di un contenzioso giudiziario, per il pagamento di fatture relative a prestazioni mai impegnate nel bilancio dell'ente. La Sezione ritiene oggettivamente inammissibile la richiesta di parere, non ravvisando le necessarie caratteristiche di astrattezza e generalità, ma in ottica collaborativa giudica utile richiamare i limiti al ricorso alla transazione da parte degli enti pubblici.
La scelta se proseguire un giudizio o arrivare ad un accordo transattivo spetta all'amministrazione nell'ambito dello svolgimento dell’ordinaria attività amministrativa, e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale. Uno degli elementi che l'ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso relativo, da valutare in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali.
L’esame sulla convenienza
I limiti alla stipula della transazione da parte di enti pubblici attengono alla legittimazione soggettiva e alla disponibilità dell'oggetto, oltre che al rispetto della disciplina pubblicistica. La transazione richiede poi l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata.
Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione, in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all'oggetto della controversia.
I diritti disponibili
Infine la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. È nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge.
In particolare, il potere sanzionatorio dell'amministrazione e le misure afflittive che ne sono l'espressione possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Mozzate (Co) ha formulato
a questa Sezione il seguente quesito: se sia ammissibile una transazione in un contenzioso giudiziario con la curatele di un fallimento per il quale si chiede il riconoscimento di fatture, e conseguente pagamento, per pranzi (n. 1784 coperti) erogati nell'anno 2007 presso un ristorante) per la motivazione presunta di presentazione Piano del Governo del Territorio (approvato l'anno successivo).
La ricorrente Fa. S.r.l. afferma di essere creditore della somma di € 35.057,60 comprovata da n. 17 fatture emesse tra il 2006 e il 2007, rimaste impagate, nonostante l'asserita prestazione di servizi di ristorazione avvenuta in diverse occasioni, a favore del Comune.
A riguardo il segretario comunale evidenzia l'impossibilità a transare, perché, ex art. 194 TU 267/2000, trattasi di debito fuori bilancio non riconoscibile. In questo caso -sempre secondo il segretario- ricorre l'ipotesi di cui all'art. 191, co. 4 del predetto T.U. per cui "il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate e continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibile le singole prestazioni. Secondo il suggerimento del legale del Comune, si può ritenere civilisticamente conveniente la transazione caldeggiata anche dal Giudice della causa, al fine di scongiurare una conclusione con esito sfavorevole per il Comune, con il rischio di condanna alle spese legali anche di controparte."
Il Sindaco poi allega una sintesi della vicenda dove gli elementi più significativi secondo la prospettazione dell'istante, sono rappresentati dal fatto che non esiste da parte dell'Ente alcun impegno di spesa per le prestazioni rese in favore dei partecipanti all'incontro per la presentazione del nuovo P.G.T. (incontro durato alcuni giorni) e che si dubita che tali prestazioni possano essere imputate all'amministrazione.
...
1.3. Alla luce dei principi ora richiamati,
la richiesta di parere in esame deve ritenersi oggettivamente inammissibile, in quanto il relativo quesito sottende valutazioni attinenti alla concreta attività gestionale ed amministrativa di esclusiva competenza dell'Ente istante (cfr., ex multis, le deliberazioni della Sezione nn. 161/2013/PAR e 128/2013/PAR), risultando, dunque, finalizzato ad ottenere -più che un parere avente rilievo interpretativo generale- un vaglio di legittimità e di merito.
Nel caso in esame, infatti, non si deve interpretare una norma di contabilità pubblica, che presenti incertezze o problemi esegetici particolari, ma si deve legittimare una scelta che l'Amministrazione dovrà adottare in ordine ad una transazione caldeggiata addirittura dal Giudice del contenzioso in atto.
Non vi è chi non veda che il caso è caratterizzato da una concretezza estrema.
La Sezione, tuttavia, in un'ottica collaborativa e sempre in linea generale, ritiene di richiamare i seguenti limiti al ricorso alla transazione da parte degli enti pubblici già espressi con orientamenti costanti dalla Corte che possono essere utili al Comune:
   • "
i limiti alla stipulazione della transazione da parte di enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell'ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell'oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione. Sotto quest'ultimo profilo va ricordato che, nell'esercizio dei propri poteri pubblicistici, l'attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell'interesse intestato all'ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l'esercizio del potere dell'Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell'interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell'azione amministrativa;
   •
la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell'oggetto della stessa spetta all'Amministrazione nell'ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l'azione amministrativa. Uno degli elementi che l'ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;
   •
ai fini dell'ammissibilità della transazione è necessaria l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all'oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;
   •
la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art 1966, co. 2 cod. civ.) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. E' nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge. In particolare, il potere sanzionatorio dell'amministrazione e le misure afflittive che ne sono l'espressione possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori (cfr. Sez. Lombardia n. 1116/2009 cit.);
   • requisito essenziale dell'accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell'art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico".

Per quanto attiene alla legittimità della transazione, questa Sezione (deliberazione n. 161/2013/PAR) ha già chiarito che "
non può pronunciarsi in ordine alla ragionevolezza, intesa in termini di opportunità e di convenienza per l'Ente, di una potenziale transazione. Circa gli eventuali spazi per un eventuale accordo [transattivo] si rimanda ai principi elaborati da dottrina e giurisprudenza in merito a presupposti e limiti entro i quali le amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di transazione (senza pretesa di esaustività, deliberazioni della scrivente Sezione n. 26 del 16/04/2008 e n. 1161 del 18/12/2009)".
Appare utile evidenziare, inoltre, che
il comune che sarà tenuto ad una prestazione (il pagamento di una somma di denaro) in esecuzione di un accordo transattivo, debba comunque accertarsi, prima di aderire all’accordo, che la prestazione sia stata effettivamente ricevuta dall’Ente e perciò che l’Ente sia il soggetto legittimato a concludere il contratto di transazione e che non siano, invece, altri i soggetti tenuti all’adempimento.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODoppia riduzione di spesa per legittimare le esternalizzazioni.
Dalla Corte dei conti dell’Emilia Romagna arrivano indicazioni utili sui riflessi finanziari delle esternalizzazioni.

Nel parere 10.04.2018 n. 86, la Sez. regionale spiega che, alla luce della disciplina civilistica in materia di appalto riconosciuta applicabile (articolo 1655 del Codice civile), il corrispettivo pagato dall'ente per l’affidamento all'esterno di un servizio non configura direttamente una spesa per il personale da includere nel calcolo del tetto.
Questa irrilevanza permane anche se il servizio trasferito si qualifica per un elevato tasso di incidenza di manodopera, a patto –ovviamente– che non si tratti di una fattispecie elusiva dei vincoli di finanza pubblica.
Obbligo di risparmi
Tuttavia l’irrilevanza non è assoluta perché, in base all’articolo 6-bis del Dlgs 165/2001, la decisione di esternalizzare il servizio produce effetti immediati sull'organizzazione del personale dell'ente e sulla spesa. La norma stabilisce che, nel rispetto dei principi di concorrenza e di trasparenza, gli enti locali possono «acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie misure in materia di personale».
La norma postula un assetto in grado di essere razionalmente perseguito solo se non produce duplicazioni di spese (soprattutto di personale): sarà quindi legittimo il trasporto all'esterno dei costi di produzione del servizio prima realizzato in house se viene conseguito un risparmio superiore al corrispettivo per l'outsourcing. In altri termini, la norma impone che l'esternalizzazione sia attuata nel quadro di misure di programmazione e riorganizzazione in grado di garantire, nell'ambito della generale riduzione della spesa corrente, anche la contrazione delle spese di personale.
I controlli interni
Quest'ultima deve conseguire dalla nuova modalità organizzativa, come esito naturale della fuoriuscita di attività non più svolte all'interno dell'ente. A parere dei magistrati contabili, insomma, l'esternalizzazione di un servizio è sottoposta a vincoli stringenti, ed è consentita a patto di assicurare in via generale economie gestionali per l'ente, e in via specifica una riduzione della spesa del personale.
Questo rigore si riflette anche dall’obbligo posto agli organi di revisione di verbalizzare i risparmi derivanti dall'adozione dei provvedimenti sull’organizzazione e sul personale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.04.2018).

---------------
MASSIMA
L’esternalizzazione di un servizio è soggetta a vincoli stringenti in quanto è consentita con una riduzione della spesa del personale in ragione del cessato impiego di forza lavoro nel servizio in precedenza gestito in economia, alla condizione di ottenere con l’affidamento dell’appalto all’esterno conseguenti economie di gestione per l’Ente.
...
Il Sindaco del Comune di San Cesario sul Panaro (MO) ha rivolto a questa Sezione una richiesta di parere in materia di personale.
Nello specifico l’Ente domanda se ”ai fini delle norme contabili volte al contenimento della spesa pubblica, sia corretto escludere dal computo delle ‘spese di personale’ il corrispettivo del contratto di appalto volto ad affidare a terzi la gestione di un servizio (o parte di esso) che viene in tal modo esternalizzato, e ciò anche ove si tratti di appalto ad alto tasso d’incidenza della manodopera”.
...
4. ... il Collegio può procedere ad analizzare il merito del quesito con cui, sostanzialmente, si chiede se il corrispettivo per un contratto di appalto con cui si esternalizza un servizio in precedenza gestito internamente da personale dell’Ente abbia rilevanza, ai fini degli obblighi di contenimento della spesa pubblica, sulla spesa per il personale di quello stesso Ente.
In proposito preliminarmente si sottolinea che, come prospettato nella stessa richiesta di parere, il corrispettivo di un contratto di appalto, anche se ad alto tasso di incidenza di manodopera e salvo non si tratti di fattispecie elusiva, non configuri direttamente una spesa per il personale.
Basti, al riguardo, richiamare la disciplina civilistica di riferimento, per cui oggetto dell’appalto è, ai sensi dell’art. 1655 c.c., il compimento di un’opera o di un servizio -con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio- verso un corrispettivo di un prezzo, mentre il contenuto di ogni rapporto di lavoro, comunque declinato, cui si riferisce la spesa del personale, consiste nella prestazione lavorativa in sé (art. 2094 c.c.). Pertanto, nell’un caso si tratta di un’obbligazione di risultato (un’opera o un servizio), nell’altro di mezzi (le proprie energie lavorative), questo a conferma dell’alterità delle due fattispecie.
Ciò premesso, l’esternalizzazione di un servizio assume diretta rilevanza sull’organizzazione del personale dell’Ente e sulla relativa spesa, come peraltro puntualizzato dal d.lgs. del 30.03.2001, n. 165, laddove all’art. 6-bis è statuito che “1. Le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, nonché gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, nel rispetto dei principi di concorrenza e di trasparenza, ad acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie misure in materia di personale.
2. Le amministrazioni interessate dai processi di cui al presente articolo provvedono al congelamento dei posti e alla temporanea riduzione dei fondi della contrattazione in misura corrispondente, fermi restando i processi di riallocazione e di mobilità del personale.
3. I collegi dei revisori dei conti e gli organi di controllo interno delle amministrazioni che attivano i processi di cui al comma 1 vigilano sull’applicazione del presente articolo, dando evidenza, nei propri verbali, dei risparmi derivanti dall’adozione dei provvedimenti in materia di organizzazione e di personale, anche ai fini della valutazione del personale con incarico dirigenziale di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 30.07.1999, n. 286
”.
In proposito, la Sezione delle Autonomie con un recente pronunciamento ha precisato che “Tale disposizione impone alle amministrazioni, al momento di assumere la decisione di esternalizzare un servizio, di adottare le conseguenti misure di riduzione e rideterminazione della dotazione organica. Ne deriva che l’esternalizzazione di un servizio deve essere attuata dall’ente nel quadro di misure di programmazione ed organizzazione in grado di assicurare, nell’ambito della generale riduzione della spesa corrente, anche la riduzione delle spese di personale … . Infatti, tale modalità organizzativa, fisiologicamente, deve generare una contrazione della spesa di personale, in relazione ad attività non più svolte all’interno dell’ente” (deliberazione 04.05.2016 n. 16).
A conferma del fatto che l’esternalizzazione del servizio comporti, necessariamente, una riduzione della spesa di personale, è stato precisato che “Nel caso di esternalizzazione del servizio, non sarebbe coerente con la lettura dell’art. 6-bis, comma 2, del d.lgs. 165/2001, che sancisce il congelamento dei posti e la rideterminazione in riduzione della pianta organica …, computare per la determinazione del budget assunzionale, anche il costo dei dipendenti cessati (rectius trasferiti) per l’esternalizzazione del servizio” (Corte dei Conti Sezione regionale di controllo per la Lombardia/143/2017/PAR).
In conclusione, in ragione del richiamato quadro ermeneutico si puntualizza che l’esternalizzazione di un servizio è soggetta a vincoli stringenti in quanto è consentita con una riduzione della spesa del personale in ragione del cessato impiego di forza lavoro nel servizio in precedenza gestito in economia, alla condizione di ottenere con l’affidamento dell’appalto all’esterno conseguenti economie di gestione per l’Ente.

INCARICHI PROFESSIONALIAnche per i piccoli incarichi di valore serve la selezione pubblica.
Illegittimo e non conforme a legge il regolamento di un Comune che affida incarichi esterni in via fiduciaria anche per prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica svolta in maniera autonoma e saltuaria, non riconducibile a fasi di piani o programmi del committente.

Queste sono le conclusioni della Corte dei Conti piemontese, nella deliberazione 06.04.2018 n. 39.
Il caso oggetto di verifica
Il caso riguarda l'affidamento di un incarico esterno per importi superiori ai 5mila euro, quale membro della commissione veterinaria per il palio della città. I giudici hanno evidenziato come l’incarico avrebbe potuto legittimamente essere disposto se avesse rispettato:
   • una procedura comparativa;
   • la ricognizione preventiva delle professionalità presenti all'interno del Comune;
   • l'osservanza dei limiti della riduzione delle spese per consulenze;
   • l'accertamento preventivo che il programma dei pagamenti fosse compatibile con gli stanziamenti di bilancio e le regole di finanza pubblica;
   • l’adozione preventiva del piano della performance;
   • l'inserimento dell'atto di spesa nel programma annuale degli incarichi;
   • la valutazione della preventiva da parte del revisore o del collegio dei revisori;
  • la dichiarazione preventiva della Pa che il consulente non sia un lavoratore pubblico o privato collocato in quiescenza.
Il Comune non ha effettuato l'esame comparativo sulla base della disposizione del regolamento degli uffici e servizi secondo cui è possibile l'affidamento dell'incarico «in via diretta e fiduciariamente, senza l'esperimento di procedure di selezione» delle «sole prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il collaboratore svolga in maniera saltuaria che non è riconducibile a fasi di piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6 dell'articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001».
Le indicazioni del collegio contabile
Per i giudici contabili le disposizioni regolamentari sono da considerare in violazione di legge (articolo 7 del Dlgs 165/2001) in quanto contravvengono ai principi di concorsualità, di trasparenza e di pubblicità. Infatti, «l'occasionalità è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di incarico esterno» e l'astratta distinzione tra occasionalità e mera occasionalità «non fornisce alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti ricavabile dalla ratio sottesa all'articolo 7 del Testo unico del pubblico impiego» (Corte dei Conti, Sezione Regionale di controllo per la Lombardia deliberazione 03.07.2013 n. 294).
Le uniche eccezioni al principio dell'esame comparativo, secondo i giudici contabili, si possono verificare quando la procedura concorsuale andata deserta, in caso di unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo oppure per un'assoluta urgenza determinata dall’imprevedibile necessità della consulenza e non attribuibile a inerzia dell'amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2018).
---------------
MASSIMA
Gli incarichi esterni devono essere conferiti sulla base di una procedura pubblica comparativa, caratterizzata da trasparenza e pubblicità.
Le deroghe a tale principio hanno carattere eccezionale e sono sostanzialmente riconducibili a circostanze del tutto particolari quali “procedura concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale”.
Risulta, pertanto, in contrasto con tale principio la determinazione con la quale sono stati affidati dal Comune gli incarichi relativi ad una commissione veterinaria sulla base di una scelta discrezionale dell’amministrazione procedente, finalizzata ad assicurare la continuità rispetto alle edizioni precedenti in contrasto, pertanto, anche con il principio della rotazione degli incarichi.
---------------
Parimenti risulta in contrasto con la disciplina richiamata la previsione dell’art. 54, co. 1, lett. c), del regolamento sull’ordinamento dei servizi e degli uffici del Comune, nella parte in cui consente l’affidamento dell’incarico “in via diretta e fiduciariamente, senza l’esperimento di procedure di selezione” delle “sole prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il collaboratore svolga in maniera saltuaria che non è riconducibile a fasi di piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6 dell’articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
L’esclusione, così come formulata, risulta troppo ampia e non tiene conto dei richiamati principi di concorsualità, trasparenza e pubblicità.
Infatti, al di fuori della ricorrenza di quelle specifiche e peculiari circostanze già richiamate, deve escludersi che la natura meramente occasionale della prestazione, il carattere saltuario e pienamente autonomo della stessa, possano giustificare una deroga alle ordinarie regole di pubblicità, trasparenza e parità di trattamento nell’assegnazione dell’incarico.

...
Premesso in fatto
Il Comune di Asti con nota pervenuta in data 04.09.2017, prot. 8373, ha trasmesso a questa Sezione, ai sensi dell’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, la determinazione del Dirigente del Settore cultura, istituti culturali, manifestazioni e sport n. 1501, avente ad oggetto l’affidamento dell’incarico di membro della commissione veterinaria per il palio di Asti 2017 in favore dei dottori Pa.Bo., Fr.Po., Al.Fr., Ro.Gi., Ma.An., Ma.Ca. e An.Ma.Br. per una spesa complessiva di euro 18.551,04.
Dall’esame di tale determinazione, si è evinto che non risultava: l’espletamento di una procedura comparativa, la previa circostanziata ricognizione dell’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di svolgere l’incarico, la dimostrazione che la spesa sia stata finanziata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio o, in mancanza, l’osservanza dei limiti di spesa di cui al D.L. n. 78/2010 conv. in Legge n. 122/2010, art. 6, co. 7; l’accertamento preventivo che il programma dei pagamenti sia compatibile con gli stanziamenti di bilancio e le regole di finanza pubblica, ai sensi dell’art. 9, co. 1, lett. a), n. 2, D.L. n. 78/2009; la previa adozione del Piano della Performance ai sensi e per gli effetti dell’art. 10, co. 5, D.lgs. n. 150/2009; l’inserimento dell’atto di spesa nel programma annuale degli incarichi ex art. 3, co. 55, l. 244/2007 e la coerenza con il medesimo.
Con nota istruttoria prot. 13300 del 02.11.2017, il Magistrato istruttore richiedeva al Comune di Asti atti, documenti e informazioni a chiarimento di quanto sopra.
Con nota di risposta a firma del Responsabile del servizio finanziario, pervenuta al prot. n. 13989 del 17.11.2017, l’ente:
   - in merito alla modalità di affidamento degli incarichi, allegava comunicazione del dirigente del settore cultura, manifestazioni e sport;
   - in merito alla ricognizione dell’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente produceva la certificazione del dirigente del settore risorse umane sulla ricognizione del personale;
   - in merito alla dimostrazione che la spesa è stata finanziata con il contributo della Fondazione cassa di risparmio allegava certificazione del responsabile del servizio finanziario, parere del collegio dei revisori dei conti, lettera della fondazione e atto di entrata n. 96 del 02.08.2017;
   - quanto all’accertamento preventivo che il programma dei pagamenti sia compatibile con gli stanziamenti di bilancio precisava che “la realizzazione del Palio di Asti 2017 rappresenta un macro obiettivo di Performance, inserito nel Piano della Performance 2017/2019 unificato organicamente nel Piano Esecutivo di Gestione ai sensi dell’art. 169, comma 3-bis, del TUEL D.Lgs. 267/2000 approvato con Delibera di Giunta comunale n. 60 del 14/02/2017”;
   - quanto alla previa adozione del Piano della Performance riferiva che “come indicato al punto precedente, ai sensi dell’art. 169, comma 3-bis, del TUEL D.Lgs. 267/2000 2017/2019 il Piano della Performance 2017/2019 e il Piano dettagliato degli Obiettivi 2017 sono unificati organicamente nel Piano Esecutivo di Gestione 2017/2019 approvato con Delibera di Giunta comunale n. 192 del 11/4/2017”;
   - quanto all’inserimento dell’atto di spesa nel programma annuale degli incarichi ex art. 3, co. 55, l. 244/2007 riferiva che la spesa è stata “inserita negli atti di Bilancio e di Programma approvati dal Consiglio comunale come recita l’art. 61 del Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e dei Servizi”.
Non ritenendo superati tutti i rilievi mossi sull’atto oggetto di controllo, il Magistrato istruttore chiedeva al Presidente della Sezione la convocazione dell’odierna adunanza per l’esame collegiale della questione.
Considerato in diritto
1.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è funzionale all’espletamento delle funzioni di controllo assegnate alle Sezioni regionali della Corte dei Conti. Il controllo espletato non incide, nel caso specifico, sull’efficacia dell’atto, ma si sostanzia in un riesame di legalità e regolarità, finalizzato al confronto tra l’attività dell’amministrazione e i parametri normativi vigenti (fra cui, in particolare, l’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 e l’art. 110 del d.lgs. n. 267/2000) in un’ottica non più statica, ma dinamica, che, come sottolineato dalla Corte costituzionale, conduca all’adozione di effettive misure correttive da parte dell’ente
(ex multis Corte costituzionale sentenze n. 60 del 2013, n. 198 del 2012, n. 179 del 2007).
I presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, così come a più riprese modificato.
La linea interpretativa restrittiva è, tuttavia, costante, in quanto, in un’ottica di contenimento dei costi e di valorizzazione delle risorse interne, le amministrazioni pubbliche devono svolgere le loro funzioni con la propria organizzazione e con il proprio personale e solo in casi eccezionali e negli stretti limiti previsti dalla legge possono ricorrere a personale esterno.
A tal fine il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. 165/2001, introdotto dal d.lgs. 25.05.2017, n. 75, ha sancito il divieto per le amministrazioni pubbliche “di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. I contratti posti in essere in violazione del presente comma sono nulli e determinano responsabilità erariale […]”. L’entrata in vigore del divieto è stata, tuttavia, posticipata dall’art. 22, comma 8, della L. 27.12.2017, n. 205, “a decorrere dal 01.01.2019" e, pertanto, fino a tale data, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto degli altri parametri normativi, possono ancora ricorrere a tale tipologia contrattuale.
Il successivo comma 6, fermo restando quanto previsto dal comma 5-bis, individua, infatti, i presupposti necessari per poter conferire incarichi individuali con contratto di lavoro autonomo:
   a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente;
   b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
   c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata (è possibile prescindere dal requisito della comprovata specializzazione universitaria solo nei casi espressamente previsti dalla normativa); non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
   d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione;
   e) il conferimento degli incarichi deve avvenire mediante ricorso a procedure comparative, adeguatamente pubblicizzate;
   f) per gli enti locali con popolazione superiore ai 5.000 abitanti è necessaria la valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti (Corte Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 231/2009/par del 14.05.2009; Corte Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 506/2010/par del 23.04.2010).
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi quali, ad esempio, la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte deliberazione 25.10.2013 n. 362).
Per completezza va, infine, rammentato che
in materia di incarichi esterni rileva la previsione della “disciplina di cui all’art. 6, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114, modificativa dell’art. 5, co. 9, del d.l. n. 95/2012, convertito con l n. 135/2012, che ha posto il divieto di conferimento di incarichi remunerati di studio e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, consentendo a questi soggetti unicamente incarichi gratuiti e comunque per una durata non superiore ad un anno (Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 22/2015/REG).
2. Quanto all’affidamento degli incarichi oggetto di esame, si rileva che, all’esito dei chiarimenti forniti dal Comune di Asti, permangono criticità con riferimento alle modalità di scelta dei soggetti a cui sono stati affidati gli incarichi.
Innanzitutto si evidenzia la centralità del principio secondo cui
gli incarichi esterni devono essere conferiti sulla base di una procedura pubblica comparativa, caratterizzata da trasparenza e pubblicità.
Come sottolineato a più riprese dalla giurisprudenza contabile, infatti,
le deroghe a tale principio hanno carattere eccezionale e sono sostanzialmente riconducibili a circostanze del tutto particolari quali “procedura concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale (Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 122/2014/REG ed in senso analogo, ex multis, Sezione regionale di controllo per il Piemonte, n. 61/2014; Sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 19.02.2013 n. 59; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 22/2015/REG; Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazione n. 28/2013/REG).
In proposito il dirigente del settore cultura, manifestazione e sport del Comune di Asti, riferisce, nella nota prodotta dall’ente a seguito delle richieste istruttorie di questa Sezione, che la commissione veterinaria è presieduta e coordinata dal dott. Fu.Br., il quale “offre da sempre la sua disponibilità a titolo gratuito”. Inoltre, il dirigente riferisce che “in considerazione della delicatezza dell’incarico e dei rischi oggettivi che la manifestazione comporta (3 corse da sette cavalli e 1 finale da 9 cavalli con partenza al canapo) viene richiesto al Dott. Fu.Br. di segnalare i nominativi di professori universitari e veterinari di comprovata esperienza nel settore che diano garanzie all’Amministrazione Comunale di alta professionalità e di trasmettere i relativi curriculum; - gli incarichi, valutati i curriculum, vengono poi conferiti ai sensi del Regolamento sull’Ordinamento dei servizi e degli Uffici di questa Amministrazione (art. 50 e seguenti)”.
L’affidamento degli incarichi relativi alla commissione veterinaria è stato, dunque, effettuato senza il previo esperimento di una procedura pubblica comparativa, adeguatamente pubblicizzata, ma piuttosto sulla base di una scelta discrezionale dell’amministrazione procedente, finalizzata ad assicurare la “continuità rispetto alle edizioni precedenti (come evidenziato nella determinazione n. 1501) in contrasto, pertanto, anche con il principio della rotazione degli incarichi.
Né dalla motivazione della determinazione n. 1501 è possibile riscontrare la ricorrenza di quelle specifiche ed eccezionali situazioni, tipizzate dalla consolidata giurisprudenza contabile, che consentono di derogare alla regola concorsuale.
In particolare,
appare non rispondente a tale giurisprudenza la previsione dell’art. 54, co. 1, lett. c), del regolamento sull’ordinamento dei servizi e degli uffici del Comune di Asti, richiamato nella nota a firma del dirigente del settore cultura, manifestazione e sport, nella parte in cui consente l’affidamento dell’incarico “in via diretta e fiduciariamente, senza l’esperimento di procedure di selezione” delle “sole prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il collaboratore svolga in maniera saltuaria che non è riconducibile a fasi di piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6 dell’articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
L’esclusione, così come formulata, risulta troppo ampia e non tiene conto dei richiamati principi di concorsualità, trasparenza e pubblicità. Infatti, al di fuori della ricorrenza di quelle specifiche e peculiari circostanze già richiamate, deve escludersi che la natura meramente occasionale della prestazione, il carattere saltuario e pienamente autonomo della stessa, possano giustificare una deroga alle ordinarie regole di pubblicità, trasparenza e parità di trattamento nell’assegnazione dell’incarico.
Infatti, come ben evidenziato dalla Sezione Regionale di controllo per la Lombardia in un caso del tutto analogo,l’occasionalità è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di incarico esterno” e l’astratta distinzione tra occasionalità e “mera” occasionalità “non fornisce alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti ricavabile dalla ratio sottesa all’art. 7 TUPI (Corte dei Conti Sezione Regionale di controllo per la Lombardia deliberazione 03.07.2013 n. 294).
Pertanto la casistica riportata, pur potendo richiamare il contenuto della Circolare n. 2/2008 della Presidenza del Consiglio dei Ministri e la disciplina delle prestazioni non incompatibili di cui all’art. 53 d.lgs. 165/2001, non rileva ai fini dell’art. 7 TUPI, salvo che, nel caso concreto, ricorra una delle tre eccezioni alla procedura comparativa di cui sopra (procedura concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo o l’assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza) (Corte dei Conti Sezione Regionale di controllo per la Lombardia deliberazione 03.07.2013 n. 294).
Per quanto rilevato, pertanto, risultano non conformi alla disciplina legislativa sia lo specifico atto di conferimento dell’incarico di cui alla determinazione dirigenziale n. 1501, sia il regolamento sull’ordinamento dei servizi e degli uffici nella parte in cui consente da parte del Comune l’affidamento diretto e fiduciario di incarichi nei casi di prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il collaboratore svolga in maniera saltuaria e del tutto autonoma.
Sussiste, dunque, l’obbligo del Comune di Asti di conformare la propria azione amministrativa in materia di affidamento di incarichi alla legge, provvedendo anche alla revisione del disposto dell’art. 54, co. 1, lett. c), del regolamento, e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte
   - dichiara l’atto di affidamento di incarico di cui alla determinazione n. 1501 del 07.08.2017 del Comune di Asti non conforme alla disciplina di legge per quanto esposto nella parte motiva;
   - invita l’Amministrazione ad adottare gli opportuni provvedimenti per conformare la propria attività alla legge in materia di affidamento di incarichi, dando riscontro a questa Sezione delle iniziative conseguentemente assunte;

TRIBUTIAncora un «no» agli incentivi IMU.
Dalla Corte dei conti ancora una volta una delibera negativa rispetto alla possibilità di prevedere incentivi per i dipendenti degli uffici tributi dei Comuni per il recupero dell'evasione Imu, non essendo ammissibili sul tema interventi regolamentari da parte degli enti locali.
La pronuncia
Con il parere 29.03.2018 n. 72 la Corte dei conti della Sicilia ha affrontato la questione degli incentivi ai dipendenti degli uffici tributi degli enti locali per il recupero dell’evasione tributaria.
La corte ha escluso la possibilità di prevedere tali incentivi, rammentando che in base al principio dell’onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici, previsto dall’articolo 2, comma 3, e dall’articolo 24, comma 3, del Dlgs 165/2001, e dall'articolo 45 del medesimo decreto, solo la legge può prevedere qualunque forma di incentivo, insieme al Ccnl. Ciò è quanto è disciplinato ai tempi dell’Ici con l’articolo 3, comma 57, della legge 662/1996 e con l’articolo 59, lettera p), del Dlgs 446/1997.
In particolare, il primo consentiva ai Comuni di destinare una quota del gettito Ici al potenziamento dell’ufficio tributi, mentre la seconda norma ha permesso loro di utilizzare una parte di tale gettito per incentivare gli addetti degli uffici tributi. Il Ccnl del 01.04.1999 aveva previsto l’erogazione ai dipendenti di incentivi stabiliti da specifiche norme di legge (articolo 15, comma 1, lettera k).
La Corte dei conti Sicilia, riprendendo un orientamento già evidenziato dalla Sezione regionale di controllo del Veneto (22/2013), della Lombardia (577/2011) e della Sardegna (127/2011), ribadisce che la deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione non è stato previsto dalla legge sull’Imu e non può essere introdotto da una norma regolamentare del Comune.
Le norme
In effetti, l’articolo 13 del Dl 201/2011 non richiama le norme contenute nell’articolo 59 del Dlgs 446/1997, riferite espressamente all’imposta comunale sugli immobili.
Sulla questione lo schema di contratto dei dipendenti degli enti locali prevede all’articolo 18 che ai titolari di posizione organizzativa, in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, possono essere erogati anche, tra l’altro, i trattamenti accessori riferiti ai compensi che specifiche disposizioni di legge espressamente stabiliscono a favore del personale, in coerenza con le medesime. Trattamenti tra cui la norma include i compensi incentivanti connessi alle attività di recupero dell’evasione dei tributi locali, in base all’articolo 3, comma 57, della legge 662/1996 e dall’articolo 59, comma 1, lettera p), del Dlgs 446/1997.
La norma contrattuale richiama le disposizioni di legge che consentivano l'erogazione di incentivi per il recupero dell'evasione Ici, ma non può estendere l’applicazione degli stessi a un tributo per i quali non sono previsti.
Anche se certo desta qualche perplessità una tale previsione riferita a un tributo ormai abrogato da oltre 6 anni, per il quale sono anche scaduti i termini di accertamento. Pur se va rammentato che l’Aran, con parere 1949, ha ritenuto che «solo a conclusione dei progetti di recupero presi in considerazione nell'anno di riferimento del contratto integrativo, sarà certa l'entità delle risorse effettivamente riscosse e, quindi, anche l’ammontare delle stesse, che può essere erogato sotto forma di incentivi e secondo le regole fissate in sede di contrattazione integrativa, al personale impegnato nei progetti stessi. Nella determinazione di tali risorse, evidentemente, rientreranno anche quelle che, pure oggetto delle attività di recupero dell’evasione dell’anno di riferimento, saranno effettivamente riscosse solo nell'anno successivo. Infatti, si tratta sempre degli effetti delle attività poste in essere dal personale interessato dai progetti nell'anno di riferimento e, quindi, rappresentano anche la misura del grado di raggiungimento degli obiettivi dei progetti stessi e dell’entità degli incentivi da riconoscere allo stesso».
Tale situazione, come più volte richiesto dall’Anutel anche a livello ufficiale, sta generando un effetto disincentivante nei confronti dei dipendenti degli uffici tributi degli enti locali e sta spingendo sempre di più verso l’esternalizzazione delle attività di accertamento tributario, esternalizzazione che se in alcuni casi può fornire un reale supporto agli enti, comporta comunque un depauperamento di conoscenze e di capacità specifiche all’interno dei Comuni che rischia di essere difficilmente recuperabile in futuro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2018).
---------------
MASSIMA
In conclusione, la Sezione, in riferimento al quesito, ritiene, nel merito, che
in assenza di uno specifico intervento legislativo di deroga al richiamato principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici, non è legittimo riconoscere un compenso incentivante aggiuntivo in favore del personale impiegato in progetti di recupero dell’evasione ed elusione IMU.

PATRIMONIOPermuta immobiliare senza vincoli per gli Enti Locali.
La manovra economica correttiva del luglio 2011, approvata con il Dl 98/2011, nell’intento di ottenere risparmi di spesa, ha imposto agli enti territoriali un vincolo di finanza pubblica in materia di operazioni immobiliari in base al quale (a decorrere dal 01.01.2014) essi possono effettuare operazioni di acquisto di immobili solo se ne siano documentate l'indispensabilià, l'indilazionabilità e la congruità del prezzo (quest'ultima attestata dall'Agenzia del Territorio, incorporata dall'Agenzia delle Entrate).
La decisione della Corte dei conti veneta
Il regime vincolistico, disciplinato dall'articolo 12, comma 1-ter, del decreto n. 98, ha sollevato una rilevante questione circa il suo perimetro oggettivo di applicazione, che è stata recentemente affrontata dalla Corte dei conti, sezione di controllo per il Veneto, nella parere 22.03.2018 n. 110.
Più in dettaglio, viene fornita una precisazione circa la corretta interpretazione della disposizione in merito alla riconducibilità al suo alveo applicativo dell'istituto giuridico della permuta immobiliare.
Al riguardo, i giudici del controllo veneto rilevano come in passato la giurisprudenza contabile sia più volte intervenuta chiarendo che la norma si riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo, frutto di una contrattazione tra ente locale e privato, con specifico riferimento al prezzo; viceversa, la sua applicazione è stata esclusa in caso di procedimento autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo (come nell'ipotesi di esproprio), oppure nel caso di acquisizione al patrimonio pubblico di opere di urbanizzazione a scomputo (assimilata all'appalto di lavori).
Da questa interpretazione la sezione del Veneto ricava il principio generale secondo cui la norma vincolistica in questione produce effetti esclusivamente nei confronti degli atti posti in essere iure privatorum dalla Pa in cui la stessa acquisti i beni immobili in contropartita dell'esborso di un prezzo a titolo di corrispettivo. Pur rientrando la permuta nell'ambito degli atti in cui l'ente locale agisce iure privatorum, a parere della sezione Veneto, questa operazione immobiliare è fuori dal regime restrittivo sulla scorta dell'esegesi letterale della norma.
Interpretazione della norma
Sotto il profilo lessicale, dopo aver richiamato l'articolo 1552 del codice civile («la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro»), ravvisando l'incompatibilità con la disposizione in rassegna, che impone espressamente delle restrizioni alle (sole) «operazioni di acquisto di immobili», i magistrati veneti concludono per l'esclusione delle operazioni di permuta dall'ambito delle limitazioni mancando il sinallagma del trasferimento di bene dietro versamento di corrispettivo.
Alla stessa conclusione si perviene pensando allo scopo della disciplina vincolistica il cui fine risiede nel freno agli esborsi di denaro da parte degli enti per l'acquisto del patrimonio immobiliare; circostanza, invece, aliena alla fattispecie permutativa ove nessun versamento di denaro a titolo di corrispettivo viene a sostanziarsi, bensì unicamente un trasferimento di un bene in cambio di un altro bene. In questa prospettiva, infatti, risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali dell'ente, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non regolata dal divieto.
Questa posizione interpretativa viene confermata dalla giurisprudenza sia con riferimento alla permuta “pura”, ovvero al trasferimento reciproco di immobili a parità di prezzo, sia relativamente alla permuta “spuria”, cioè quando il valore del bene del privato risulti diverso da quello pubblico da trasferire, nel particolare caso in cui il valore dell'immobile di proprietà della pubblica amministrazione sia superiore a quello della controparte privata, laddove i giudici veneti risolvono la necessità di omogeneizzare il trasferimento incrociato con il correttivo della compensazione a carico del privato (sotto forma –ad esempio– di opere specifiche come la manutenzione degli immobili trasferiti o altri interventi) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Veggiano (PD) ha formulato
a questa Sezione una richiesta di parere in merito all'ambito applicativo dell'art. 12 del decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011.
Nel dettaglio, il Sindaco ha specificato che è intenzione dell’Amministrazione Comunale individuare un magazzino con uffici da destinare alla Protezione Civile Comunale. Anziché realizzare ex novo tale magazzino, come originariamente indicato nel programma triennale dei lavori pubblici, l’Amministrazione Comunale vorrebbe permutare un’area di proprietà comunale con un lotto di proprietà privata con sovrastante un fabbricato idoneo allo scopo.
Il Sindaco precisa che “il valore della permuta risulta positivo per l’Amministrazione, essendo il valore dell’area comunale ben superiore al valore del lotto con fabbricato proposto dal privato. La differenza tra i due valori di stima sarà destinato esclusivamente ad opere per la manutenzione stessa del fabbricato o per altre opere programmate”.
Il Sindaco chiede chiarimenti in merito all’applicazione dell’art. 12 del decreto legge n. 98/2011 e precisa, comunque, che, nel caso di specie, sussistono i presupposti dell’indispensabilità e indilazionabilità richiesti dalla norma in questione.
...
Ciò nonostante, quanto al quesito prospettato, seppure è da considerarsi apprezzabile lo sforzo dell’Amministrazione Comunale di Veggiano di evidenziare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione, il parere può essere reso solo ed esclusivamente in merito alla riconducibilità dell’istituto giuridico della permuta ai vincoli di finanza pubblica di cui all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011.
Lo stesso non può considerarsi ammissibile per la parte che inerisce il caso concreto che interessa il Comune di Veggiano.
Venendo al merito, il quesito concerne la corretta applicazione dell'art. 12 del decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, e successivamente modificato, secondo cui “
a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (…) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilià e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento (…). La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente”.
La giurisprudenza contabile è più volte intervenuta sulla portata dell’articolo in questione, precisando che
la norma si riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo frutto di una contrattazione tra le parti con specifico riferimento al prezzo. Viceversa, tale norma non si applica quando vi sia un procedimento autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo, come nel caso dell’esproprio.
La norma de qua si applica, pertanto, agli atti posti in essere iure privatorum dalla Pubblica Amministrazione, in cui la stessa acquisti tali beni e corrisponda per essi un prezzo a titolo di corrispettivo.
Le considerazioni che precedono sono altresì funzionali alla soluzione del quesito prospettato nella richiesta di parere, inerente all’applicabilità delle suddette norme vincolistiche all’istituto della permuta.
E’ vero, infatti, che la permuta rientra nell’ambito degli atti iure privatorum della Pubblica Amministrazione, ma è altrettanto vero che non si può prescindere dall’interpretazione letterale della norma e dalla sua ratio.
Sotto il profilo letterale, si sottolinea che, ai sensi dell’art. 1552 c.c., “la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro”. Il comma 1-ter dell’art. 12 citato, invece, impone espressamente delle limitazioni per quanto riguarda “le operazioni di acquisto di immobili”. Ne deriva che
possono considerarsi escluse dall’ambito delle limitazioni di cui all’art. 12 le operazioni di permuta, non essendovi alcun trasferimento di un bene dietro versamento di un corrispettivo.
Alla medesima conclusione dell’esclusione della riconducibilità della permuta alla disposizione di cui all’art. 12, comma 11, del decreto legge n. 98/2011 si perviene se si indaga la ratio della norma. Fine di tale disposizione è quello di limitare esborsi di denaro per l’acquisto del patrimonio immobiliare. In caso di permuta, invece, non v’è alcun versamento di denaro a titolo di corrispettivo, ma unicamente un trasferimento di un bene in cambio di un altro bene.
Giova ricordare che questa Sezione ha più volte ribadito tali concetti, seppur riferendosi alla permuta “pura”, ovverosia al trasferimento reciproco di immobili a parità di prezzo (cfr. Corte dei conti - Sezione Veneto n. 149/2013/PAR e Corte dei conti - Sezione Veneto n. 150/2013/PAR).
Ove, nei casi in cui non ci si trovi dinanzi ad una ipotesi di permuta c.d. “pura”, in quanto il valore del lotto di un privato con annesso, o meno, un fabbricato, risulti diverso dal valore del terreno o dell’immobile da trasferire, possono, comunque, applicarsi i medesimi principi, seppur, a seconda della circostanza concreta, con gli opportuni correttivi.
Infatti, in tutte le circostanze nelle quali il valore del bene di proprietà della pubblica amministrazione sia superiore a quello del privato, in permuta, appare necessario che l’operazione preveda forme di compensazione rispetto al maggior valore del bene pubblico trasferito.
In tal senso, l’amministrazione pubblica avrebbe diritto di ottenere, in aggiunta, anche opere specifiche (consistenti, a mero titolo esemplificativo, nella manutenzione degli immobili trasferiti, piuttosto che in altri interventi, ovviamente previsti o, eventualmente, da prevedersi nell’ambito della programmazione delle opere pubbliche).
Alla luce di quanto sopra evidenziato,
non vi sono ragioni per ritenere che, sia i casi di permuta “pura”, sia quelli rientranti nell’ambito delle fattispecie di permuta c.d. “spuria”, siano riconducibili all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011.

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nei piccoli Comuni tre strade per la gestione delle funzioni fondamentali.
Se mancano le professionalità interne, i piccoli Comuni hanno ancora la facoltà di scegliere tra la forma associata delle funzioni, il conferimento delle competenze gestionali a uno dei membri della giunta ovvero l'affidamento al segretario comunale. La scelta deve, comunque, avere a riferimento due «stelle polari»: il criterio della competenza professionale del nominato e il contenimento della spesa.

Lo asserisce la sezione regionale di controllo per il Lazio della Corte dei conti con il parere 16.03.2018 n. 5.
I quesiti
Un Comune di 551 abitanti formula alla sezione tre quesiti specifici:
   1) se nei piccoli Comuni le funzioni relative al servizio finanziario possano essere affidate a un assessore o al sindaco;
   2) se alcuni adempimenti contabili rilevanti possano essere illegittimi se effettuati dal capo dell'amministrazione in assoluta carenza di professionalità interne;
   3) se il segretario comunale, su specifico incarico del sindaco, possa assumere le funzioni gestionali in modo permanente, supplendo alle carenze di dotazione organica.
Amministratori vs gestione associata
In relazione al quesito 1), la sezione ricorda che nei Comuni con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti gestionali possono essere affidati, in deroga al generale principio di separazione di competenze tra organi politici e dirigenti, a un assessore o allo stesso sindaco, essendo ancora in vigore l'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 che lo consente, a condizione che l'ente abbia adottato apposite disposizioni regolamentari organizzative. Strada che può essere, dunque, percorsa anche a prescindere dalla carenza di professionalità interne, in quanto la norma non subordina la possibilità a questa condizione, che invece è richiesta per il conferimento di incarichi a soggetti esterni. Regola che, quindi, può essere applicata anche nel caso di gestione delle funzioni relative al servizio finanziario.
Ricorda però la sezione –quasi a voler proporre un consiglio– che prima di arrivare a «sacrificare» il principio di distinzione delle funzioni di indirizzo da quelle gestionali è possibile percorrere la via della gestione associata, obbligatoria per quelle fondamentali ai sensi dell'articolo 14 del Dl 78/2010.
Siccome l’obbligo è ancora condizionato dalla individuazione degli ambiti ottimali, i magistrati rimettono al singolo ente la scelta tra le due alternative «del pari giuridicamente legittime», ossia lo strumento associativo e il conferimento delle funzioni a uno dei membri della giunta, cercando comunque la soluzione che consenta di contenere maggiormente la spesa del personale e tenendo conto delle necessarie competenze richieste dall'elevato grado di tecnicità del servizio.
Il ruolo del segretario
La sezione non fornisce risposta al quesito n. 2), viziato da genericità, mentre si esprime sul n. 3), che coinvolge la figura del segretario comunale il quale, ai sensi dell'articolo 97, comma 4, lettera d), del Tuel può esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti o conferitagli dal sindaco.
Tra queste rientra la possibilità di essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi, evidenza che i giudici traggono dall'articolo 109, comma 2, che fa salva l'applicazione della lettera d) per l'attribuzione di questi incarichi nei Comuni privi di personale di qualifica dirigenziale; e dall'articolo 49 che, avendo abolito il parere di legittimità del segretario, valorizza il parere preventivo di regolarità dei singoli responsabili dei servizi, anch'esso affidato al segretario in via residuale nel caso l'ente non ne abbia.
Certo, avvertono i giudici, questa funzione del segretario deve essere esercitata «in relazione alle sue competenze» che, tuttavia, ritengono ampie alla luce dell'articolo 97, comma 4, del Tuel, richiamato espressamente dall'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, che non distingue tra funzioni assegnate in via provvisoria o permanente.
Il combinato disposto consente alla sezione di negare la sussistenza di ragioni ostative all'attribuzione al segretario di funzioni gestionali protratte, anche se ritiene «auspicabile una periodica revisione di tale incarico aggiuntivo, sia sotto il profilo dell'efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell'Ente, sia soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità sotto il profilo economico finanziario» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.03.2018).
---------------
MASSIMA
Nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti, in ragione delle ridotte dimensioni demografiche dell'Ente, resta oggi ancora rimessa alla scelta discrezionale dei medesimi la scelta:
   1) tra forma associata di esercizio delle funzioni fondamentali, tra cui certo rientra il servizio finanziario e di contabilità seguendo lo schema normativo della convenzione/unione di comuni (non essendo ancora operativa la obbligatorietà dello strumento associativo, nelle more della concreta attuazione dell’art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e s.m.i.)
   2) o il conferimento ex art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, di esse, ad uno dei membri della Giunta (Assessori o Sindaco), in deroga al generale principio di separazione di competenze tra organi politici ed organi amministrativi, con un regolamento motivato che ridisegni l’assetto organizzativo interno dell’Ente e senza che sia neppure necessario dimostrare l’assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, nonché fatta salva la verifica annuale del contenimento della spesa in sede di approvazione del bilancio
   3) o l’affidamento delle medesime ex art. 97, comma 4, lett. d) del Tuel al Segretario comunale che, nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale, può essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi (art. 109, comma 2, T.U.E.L), mediante previsioni statutarie, regolamentari o tramite un provvedimento del Sindaco.
Tra questa rosa di possibilità andrà prescelta, da un canto quella che consente di contenere maggiormente la spesa del personale e, dall’altro, tenendo conto delle necessarie competenze richieste dall’elevato grado di tecnicità del servizio finanziario e di contabilità, la cui carenza potrebbe comportare potenziali ricadute in termini di responsabilità amministrativo-contabile.
Scelta da sottoporre a revisione periodica, sia sotto il profilo dell’efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell’Ente, sia onde vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità economico-finanziaria, anche alla luce del criterio della competenza professionale del nominato per individuare il punto di equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità correlate alla peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente.

---------------
... il Sindaco pro tempore del Comune di Salisano-RI (551 abitanti, secondo rilevazione Istat all’01/01/2017) formula richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131 del 2003, con riferimento all’art. 53, comma 23, del D.Lgs. 23.12.2000, n. 388, sui seguenti quesiti:
   1. se nei Comuni aventi popolazione inferiore a 5mila abitanti le funzioni relative al servizio finanziario e contabile possano essere affidate ad un Assessore membro della Giunta o al Sindaco pro-tempore, con regolamento motivato, da cui si evincano le esigenze straordinarie di contenimento della spesa pubblica e, in particolare della spesa del personale, “anche in considerazione dell’attivazione della procedura obbligatoria del trasferimento di funzioni fondamentali di cui all’art. 14 del D.L. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010 e successive modifiche ed integrazioni” e se ciò sia “compatibile con le esigenze connesse alle sopravvenute recenti disposizioni in materia di ordinamento finanziario e contabile degli Enti locali, in attuazione dei principi di armonizzazione contabile introdotti dal D.Lgs. 118/2009 se ed in quanto presupponenti una «specifica» professionalità al riguardo;
   2. “se taluni rilevanti adempimenti contabili aventi carattere ricorrente per l’Ente possano essere inficiati di non conformità alle disposizioni vigenti in quanto effettuati dal capo dell’amministrazione in assoluta carenza di professionalità all’interno dell’Ente”;
   3. “Se il Segretario Comunale, su specifico incarico del sindaco, possa assumere dette funzioni gestionali in modo permanente, supplendo ad ordinarie carenze di dotazione organica, carenze sia pure per motivate ragioni di contenimento della spesa pubblica”.
...
In relazione al primo quesito, si osserva che,
nei Comuni, quali Salisano, aventi popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti, anche di natura tecnica gestionale, ben possono essere affidati, in deroga al generale principio di separazione di competenze tra organi politici (Giunta) ed organi amministrativi (Dirigenti), ad un Assessore o al Sindaco pro-tempore, purché ciò avvenga con un regolamento motivato dell’Ente che ridisegni l’assetto organizzativo interno dell’Ente, al fine di operare un contenimento della spesa, contenimento che deve essere verificato e documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio. In tal senso si è pronunziata anche la giurisprudenza amministrativa, oltre a diverse sezioni di questa Corte (TAR Toscana Firenze Sez. III, 07.01.2014, n. 3, Sez. regionale controllo per il Molise, delib. n. 167/2016/PAR).
E ciò senza che sia neppure necessario dimostrare la assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta condizione, che invece è richiesta per il conferimento di incarichi ad esterni.
A favore di ciò depone, con chiarezza il disposto dell’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, che recita: “Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
E tra tali uffici e servizi sono ricomprese, certamente, anche le funzioni relative al servizio finanziario e contabile, attribuibili ai componenti dell'organo esecutivo (Assessore e Sindaco pro-tempore) mediante disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni, e all'articolo 107 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL).
Orbene, è vero che dal combinato disposto degli artt. 50 e 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000 e dell’art. 4 del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165 (recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) si evince in modo inequivoco che, nel vigente ordinamento, è in auge, anche a livello locale, la netta distinzione fra atti di indirizzo politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione (spettanti agli organi burocratici).
In altri termini, il TUEL ha devoluto, rispettivamente, agli organi politici (Consiglio Comunale, Giunta Comunale e Sindaco) la competenza ad emanare gli atti di indirizzo e, ai dirigenti amministrativi comunali, la competenza ad adottare atti di gestione.
L’art. 107, comma 4, in particolare, pone una riserva di legge a garanzia della indipendenza -sotto il profilo gestionale- dei dirigenti, dotati anche di autonomo potere di spesa, rispetto agli organi politici, laddove prevede che “4. Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
Tuttavia l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (finanziaria 2001) è proprio una specifica disposizione derogatoria, pacificamente compatibile col sistema normativo vigente (in tal senso anche Consiglio di Stato sent. n. 5296/2015, che ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità sulla disposizione).
La deroga è ammessa in ragione delle ridotte dimensioni demografiche dell'Ente locale, ma va interpretata restrittivamente e non è estensibile oltre i casi e i modi espressamente regolati (Corte dei conti, sez. reg. controllo Lombardia, delib. n. 513/2012/PAR del 10.12.2012).
A latere della possibilità di attribuire a componenti della Giunta lo svolgimento di funzioni gestionali amministrative, l’ordinamento disciplina, al contempo, la possibilità -ed in taluni casi l’obbligo- di svolgere in forma associata, le medesime funzioni fondamentali: articoli 30 e 32 del Tuel e art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e successive modifiche ed integrazioni.
Tramite il TUEL, sin dal 2000 sono state introdotte, come facoltative, forme associative, quali la stipula di apposite convenzioni onerose tra Enti locali, “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati” (art. 30) o l'Unione di Comuni, con la creazione di un Ente locale ex novo, costituito -di norma- da due o più Comuni contermini e “finalizzato all'esercizio associato di funzioni e servizi” (art. 32).
L’art. 14 del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e successive modifiche ed integrazioni, ha prescritto che i Comuni con popolazione fino a 5000 abitanti “esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali di cui al comma 27”, tra le quali rientra, certamente, la gestione finanziaria e contabile.
Senza entrare in questa sede sulla portata della regolamentazione in ordine alle dimensioni territoriali ottimali, (come previsto dall’art. 14, comma 30, del D.L. n. 78/2010),
permane un indiscusso favor legislativo per la forma associata di esercizio delle funzioni, ancorché intesa come rimessa alla mera facoltà di scelta discrezionale dell’Ente locale (Sez. Aut. Audizione alla Camera dei deputati del 01.12.2015).
Nell’attesa della concreta operatività della disposizione tesa a rendere ciò obbligatorio in risposta al primo quesito, si osserva che
al Comune è demandata oggi la scelta tra due alternative del pari giuridicamente legittime, ossia tra lo strumento associativo (convenzione/unione di comuni) o il conferimento delle funzioni del servizio finanziario e di contabilità ad uno dei membri della Giunta (Assessori o Sindaco).
L’Ente sarà tenuto ad operarla discrezionalmente ma seguendo, da un canto, la soluzione che consente di contenere maggiormente la spesa del personale e, dall’altro, tenendo conto delle necessarie competenze richieste dall’elevato grado di tecnicità del servizio finanziario e di contabilità, la cui carenza potrebbe comportare potenziali ricadute in termini di responsabilità amministrativo-contabile.
Il secondo quesito pare, invero, viziato da genericità, nella parte in cui si riferisce a “taluni rilevanti adempimenti contabili aventi carattere ricorrente”, senza specificarli ed è ritenuto dal Collegio inammissibile, anche per carenza di indicazione del riferimento normativo da interpretare in sede consultiva, ancor prima della specificazione del dubbio ermeneutico che la Sezione di controllo è chiamata a dirimere in questa sede.
Quanto al terzo quesito si richiama, in funzione di mero ausilio dell’Ente, l’articolo 97, comma 4, lett. d) del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 che stabilisce che il Segretario comunale “d) esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco”.
Tra le quali rientra, come esplicitamente contemplato all’art. 109, comma 2, del T.U.E.L., la possibilità di essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi, in quanto tale comma recita: “2. Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”. Applicazione che potrà avvenire mediante previsioni statutarie, regolamentari o tramite un provvedimento del Sindaco (Tar Piemonte, sent. n. 4094/2006).
Occorre anche considerare che, visto il disposto dell’art. 49 del Tuel, che ha abolito il parere di legittimità del Segretario, risulta valorizzato -ancor più nel testo complessivamente modificato a decorrere dall’11.10.2012- il parere preventivo di regolarità, obbligatorio ma non vincolante, dei singoli Responsabili dei servizi (tra cui anche quello di contabilità, chiamato a rendere un parere di regolarità -non tecnica ma contabile- su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio).
La disposizione, in via residuale, individua nel Segretario comunale il soggetto titolato ad esprimere il parere “nel caso in cui l’ente non abbia i responsabili dei servizi”, con la limitazione individuata “in relazione alle sue competenze” (cit. art. 49, comma 2), che tuttavia possono ritenersi in senso ampio ex art. 97, comma 4, TUEL.
La vigenza di tale disposizione è espressamente fatta salva dall’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, invero, senza distinguere tra funzioni assegnate in via provvisoria o permanente, per cui, pur non sembrando in astratto sussistere ragioni ostative all’attribuzione al medesimo di funzioni gestionali contabili protratte (attribuzione tanto più giustificata ove il nominato sia in possesso di specifica professionalità contabile),
pare comunque auspicabile una periodica revisione di tale incarico aggiuntivo, sia sotto il profilo dell’efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell’Ente, sia soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità sotto il profilo economico-finanziario.
In conclusione,
quale che sia la soluzione, tra quelle astrattamente possibili, scelta dell’Ente, essa dovrà avere come stelle polari, da un canto, il criterio della competenza professionale del nominato e, dall’altro, il criterio del contenimento della spesa, con l’esigenza di individuare, nella applicazione congiunta dei due criteri, il punto di equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità correlate alla peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComando con proroga oltre il triennio per il personale degli Enti Locali.
Il parere 12.03.2018 n. 61 della Corte dei conti, sezione di controllo per la Liguria, fornisce rilevanti chiarimenti in merito alla normativa applicabile all'utilizzazione di personale, da parte degli enti locali, mediante l'istituto giuridico del comando.
Nel tracciare l'evoluzione legislativa intervenuta in materia, i giudici contabili rilevano come il testo unico sul pubblico impiego, approvato con il Dlgs 165/2001, abbia posto la necessità di rivalutare l’istituto, alla luce della cosiddetta privatizzazione del rapporto lavorativo pubblico e della stipula dei contratti collettivi nazionali di comparto.
In quest'ultima occasione, mentre alcuni contratti (come quello relativo ai ministeri) hanno espressamente regolato l'istituto del comando (mantenendolo, dunque, in vita), quelli invece inerenti al comparto delle Regioni e degli enti locali non hanno previsto un’analoga disciplina (ponendone, quindi, in dubbio la sopravvivenza).
Il quadro normativo
Solo con il Collegato lavoro del 2010 si è assistito a una regolamentazione uniforme dell'utilizzo del comando in abito pubblico. E invero, col nuovo comma 2-sexies dell'articolo 30 del Testo unico (aggiunto dall'articolo 13, comma 2, della legge 183/2010), superando ogni aporia esegetica, è stata introdotta la norma generale secondo cui tutte le pubbliche amministrazioni, per esigenze organizzative motivate nei documenti di programmazione dei fabbisogni di personale, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni, per un periodo non superiore a tre anni (fermo restando quanto già contemplato da norme speciali in materia e il relativo regime di spesa).
È in questo quadro legislativo, pertanto, che trova (sola) fonte normativa la facoltà per gli enti territoriali di utilizzare temporaneamente –tramite comando– un dipendente in organico presso altra pubblica amministrazione.
La decisione dei giudici liguri
La sezione Liguria osserva che il limite temporale (triennale) risulta coerente con il carattere interinale del comando e con i presupposti propri dell'istituto, ovverosia la temporaneità e la strumentalità (o propedeuticità) al trasferimento definitivo presso l'amministrazione utilizzatrice (mediante cessione del contratto secondo l’articolo 30 del Testo unico) ovvero al rientro in servizio presso quella di appartenenza.
Questo termine cronologico, tuttavia, non sarebbe da intendersi come perentorio, lasciando così aperta la strada a una prosecuzione del rapporto lavorativo temporaneo anche oltre i tre anni, nelle particolari ipotesi in cui emerga il bisogno di consentire al comandato di portare a termine quelle attività per cui il comando è stato appositamente attivato (si pensi, a titolo esemplificativo, a settori quali i lavori pubblici caratterizzati da frequenti ritardi esecutivi e dalla esigenza che il Rup segua l'intero iter realizzativo dell'opera).
Infatti, anche sulla scorta del parere n. 26908/2014 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funziona pubblica, i magistrati del controllo ligure si esprimono favorevolmente in ordine a una proroga del comando successiva al triennio.
Le condizioni
Ma si tratta di una concessione subordinata a specifiche condizioni. In primo luogo, si impone una nuova valutazione sia del fabbisogno professionale da parte dell'amministrazione di destinazione che delle esigenze organizzative di quella di appartenenza (quest'ultima, non costituendo la cessione temporanea risparmio di spesa utile a determinare il contingente assunzionale, si priverebbe di un'unità di personale senza, però, poterla sostituire con altra).
Secondariamente, non deve trattarsi di una proroga sine die del personale comandato, né tanto meno di un rinnovo, bensì unicamente di un breve differimento, ancorato a precise, motivate e documentate esigenze provvisorie.
È, infine, richiesto che la situazione di necessità non debba ascriversi a un comportamento colpevole dell’amministrazione utilizzatrice, la quale conserva l'onere di attivare tempestivamente le procedure di selezione concorsuale, o di mobilità, per provvedere alle necessitate assunzioni di personale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Comune di Arcola (SP) ha chiesto un parere in merito ai limiti temporali dell’utilizzazione di personale, mediante l’istituto del comando, in organico presso altre pubbliche amministrazioni.
Premette che il Comune nel 2015 ha sostituito un dipendente trasferitosi con mobilità volontaria utilizzando l'istituto del comando, ai sensi dell'art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001. La scelta è stata dettata dal fatto che, al momento del trasferimento, non era possibile coprire il posto con altre modalità, visto l'allora vigente obbligo di ricollocazione del personale di province e città metropolitane. Il lavoratore comandato, al quale è stata affidata la responsabilità dell’Area lavori pubblici, ha seguito alcuni progetti di edilizia (finanziati con fondi comunitari) di rilevante importanza per l’ente, che avrebbero dovuto compiersi nel periodo del comando.
Nel corso del passato esercizio, prosegue, a causa di problemi dichiarati non imputabili all’Amministrazione, si sono purtroppo verificati ritardi nell’esecuzione delle opere, la cui conclusione è attesa per l'anno 2019. Per i suddetti motivi, in vista della scadenza del comando in essere, prevista per settembre 2018, il Comune riferisce di ritenere necessaria una proroga di un anno nell'utilizzo del dipendente, in quanto un cambiamento di gestione potrebbe comportare un (ulteriore) ritardo nella loro realizzazione.
Ricorda che l’art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001 sembra porre un limite massimo di durata all'utilizzo del lavoratore in tre anni (“Le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti dai documenti di programmazione previsti all'articolo 6, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e dal presente decreto").
Sulla base di quanto esposto, il Comune chiede di conoscere il parere della scrivente Sezione regionale di controllo in merito all’applicabilità dell’art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001 all'istituto del comando e, in caso di risposta positiva, se il termine ivi previsto rivesta carattere ordinatorio o perentorio, vale a dire se sussista la possibilità di proroga o rinnovo oltre la durata dei tre anni ove ricorrano motivazioni comprovabili, quali quelle riportate in premessa.
...
L’origine della disciplina dell’istituto del comando si rinviene negli artt. 56 e 57 del DPR 10.01.1957, n. 3 (“Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”), che derogavano alla regola generale (desumibile anche dal medesimo art. 56, comma 6) del divieto di assegnazione, anche temporanea, di personale ad uffici diversi da quelli di ruolo. Il comando, in base alla predetta disciplina, poteva essere disposto unicamente per un tempo determinato (la norma non individuava un limite specifico) e per riconosciute esigenze di servizio, nonché qualora fosse richiesta una speciale competenza.
Successivamente,
l’art. 43 dell’abrogato d.lgs. 03.02.1993, n. 29, ha mantenuto un riferimento al comando, pur senza disciplinarlo in maniera organica. Anche l’art. 17 della legge 15.05.1997, n. 127, ai commi dal 15 al 17, nell’apportare alcune modifiche ai citati artt. 56 e 57 del DPR n. 3 del 1957, confermava la perdurante vigenza dell’istituto.
Il testo unico sul pubblico impiego, con disposizione confermata dal successivo d.lgs. 30.03.2001, n. 165, ha posto la necessità di una rinnovata valutazione della permanenza dell’istituto, alla luce della successiva, prescritta, stipula dei contratti collettivi nazionali di comparto. L’art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993 (confermato dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001) prevede la cessazione degli effetti della normativa relativa al rapporto di lavoro, previgente alla c.d. privatizzazione del pubblico impiego, a seguito della sottoscrizione della seconda tornata dei contratti collettivi nazionali di comparto (intervenuta con i Contratti del quadriennio 1998-2001).
In tale occasione alcuni CCNL, tra cui quello del comparto Ministeri, hanno regolato l’istituto del comando (mantenendolo, pertanto, in vita), mentre quelli di altri comparti (segnatamente quello di regioni ed enti locali) non hanno previsto analoga disciplina (ponendo il dubbio della permanenza).
L’art. 13, comma 2, della legge n. 183 del 2010 ha aggiunto, all’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, un comma 2-sexies, chiarendo che tutte le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti dai documenti di programmazione dei fabbisogni di personale, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni, per un periodo non superiore a tre anni.
Un limite temporale era già contemplato, altresì, all’art. 4, comma 4, del CCNL del comparto Ministeri del 16.05.2001, il quale stabiliva che “la posizione di comando cessa al termine previsto e non può superare la durata di 12 mesi rinnovabili una sola volta” (coerentemente, al comma 5, si prevedeva la possibilità del dipendente di chiedere, al termine del periodo di comando, il passaggio diretto nell’amministrazione utilizzatrice mediante il diverso istituto della c.d. “mobilità”, o, più precisamente, della cessione del contratto ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001).
La novella del 2010, come visto, delimita a tre anni l’assegnazione temporanea del dipendente, ponendo un vincolo anche alla contrattazione collettiva nazionale (il cui effetto “disapplicativo” di disposizioni di legge e regolamentari concernenti il rapporto di pubblico impiego si ferma alle norme antecedenti ai d.lgs. n. 29 del 1993 e n. 165 del 2001, e non già a quelle successive, per gli ordinari principi della successione delle leggi nel tempo e della gerarchia delle fonti).
Per inciso,
il nuovo CCNL del comparto “Funzioni centrali”, per il triennio 2016-2018, sottoscritto il 12.02.2018, all’art. 51, ripropone la disciplina il termine annuale (“l’assegnazione temporanea cessa al termine previsto e non può superare la durata di 12 mesi, rinnovabili”). Non si rinviene, invece, analoga disposizione nell’ipotesi di accordo sul CCNL del comparto “Funzioni locali”, per il medesimo triennio 2016-2018. Pertanto, per gli enti territoriali (fra cui, in primo luogo, regioni ed enti locali), la possibilità di utilizzare temporaneamente un dipendente in organico presso altra pubblica amministrazione trova fonte normativa nel solo art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Il limite temporale contenuto in quest’ultima disposizione appare coerente con i due caratteri propri dell’istituto del “comando”, quello della temporaneità e quello della strumentalità (o propedeuticità) al passaggio definitivo presso altra pubblica amministrazione (mediante cessione del contratto ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001).
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funziona pubblica, nel parere n. 26908 del 14.10.2014,
nel confermare il comma 2-sexies dell’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001 quale norma generale di riferimento per le assegnazioni temporanee (fermo restando eventuali disposizioni di legge speciali), ha ritenuto che quest’ultima non escluda la possibilità di un rinnovo, alla scadenza del termine, anche successivamente al triennio, salva la necessità di effettuare una nuova valutazione del fabbisogno professionale da parte dell’amministrazione di destinazione e delle esigenze organizzative di quella di appartenenza.
La possibilità, palesata dal predetto parere, di prorogare l’utilizzo temporaneo di un dipendente da parte di un ente locale non può, tuttavia, far venir meno quei caratteri di temporaneità e strumentalità del comando, istituto avente carattere interinale destinato, necessariamente, a sfociare nel trasferimento presso l’amministrazione utilizzatrice ovvero nel rientro in servizio presso quella di appartenenza. Di conseguenza, può essere condiviso l’orientamento sopra esposto nella parte in cui impone una nuova valutazione del fabbisogno professionale da parte dell’amministrazione di destinazione e delle esigenze organizzative di quella di appartenenza.
Quest’ultima, infatti, si priva di un’unità di personale senza, tuttavia, stante il carattere temporaneo della cessione, poterla sostituire con altra (non costituendo risparmio di spesa utile a determinare il contingente assunzionale). La prima, d’altronde, potrebbe avere bisogno di una breve proroga al fine di consentire di portare a termine le attività per le quali il comando era stato attivato, specie in un settore quale quello dei lavori pubblici caratterizzato da (purtroppo ricorrenti) ritardi esecutivi (anche non necessariamente dovuti a colpa delle amministrazioni procedenti) e dall’opportunità che il responsabile unico del procedimento segua tutto l’iter realizzativo, se possibile fino al collaudo dell’opera.
Naturalmente,
tali esigenze, valorizzate nel parere della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non possono consentire una proroga sine die del personale comandato oltre il prescritto termine triennale (né, tanto meno, un rinnovo), ma solo un breve differimento, ancorato a precise, motivate e documentate esigenze provvisorie. Inoltre, la situazione di necessità non deve essere causata da comportamento colpevole della medesima amministrazione, che deve attivare per tempo le procedure di selezione concorsuale, o di mobilità, per procedere ad assunzioni.
Sotto quest’ultimo profilo si ricorda che l’art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004 dispone che “in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno precedente”.
Sul punto, come condiviso anche dal Comune istante, la Sezione delle Autonomie, nella deliberazione n. 19/QMIG/2015, aveva specificato che la priorità della ricollocazione del personale di province e città metropolitane, secondo le previsioni dei commi 421-425 della legge n. 190 del 2014, non appariva compatibile con l’operatività, per il limitato arco temporale degli esercizi 2015 e 2016, delle disposizioni in materia di mobilità volontaria dettate dall’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e, in particolare, con il principio di neutralità ai fini assunzionali, posto dal citato art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004).
Tale incompatibilità veniva limitata alla completa ricollocazione del personale soprannumerario degli enti di area vasta (in termini, la Circolare del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 1 del 29 gennaio 2015).
Al momento, pertanto, ultimate le procedure di riassorbimento del predetto personale, è tornata ad essere operante la regola della neutralità della mobilità ai fini assunzionali, con conseguente possibilità, per un ente locale, di assumere mediante cessione del contratto da altre pubbliche amministrazioni soggette a limitazioni assunzionali, senza dover osservare i contingenti annuali (aventi fonte, allo stato, nell’art. 1, comma 228, della legge n. 228 del 2015), salvo il necessario rispetto del tetto alla spesa complessiva per il personale (art. 1, commi 557 e seguenti, della legge n. 296 del 2006).

PATRIMONIOPer gli enti restano i paletti all'acquisto di immobili.
Per gli enti territoriali gli acquisti di immobili restano contingentati.

Lo ha chiarito la Corte dei conti Lombardia con il parere 09.03.2018 n. 78, chiarendo nuovamente la portata applicativa dall'art. 12 del dl 98/2011.
Tale disposizione, nel testo modificato dalla l. 228/2012, prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, le p.a. locali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove sussistano precise condizioni. In primo luogo, occorre l'attestazione di indispensabilità e indilazionabilità dell'acquisito da parte del responsabile del procedimento.
Inoltre, la congruità del prezzo di acquisito deve essere attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese e fatto salvo quanto previsto dal contratto di servizi stipulato ai sensi dell'art. 59 del dlgs 300/1999. Infine, delle operazioni di acquisto deve essere data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente.
Tale disciplina (che ha sostituito l'ancora più restrittivo divieto di procedere a nuovi acquisiti previsto per il 2013) è tuttora in vigore, per cui restano valide anche lo modalità attuative stabilite dal decreto del ministro dell'economia e delle finanze 14.02.2014 e le istruzioni operative sono state fornite con la circolare della Ragioneria generale dello stato n. 19/2014.
In particolare, l'art. 3 del citato dm dispone in ordine all'individuazione dei requisiti di indispensabilità e indilazionabilità degli acquisti programmati, affinché la relativa attestazione non sia generica, ma esponga le concrete motivazioni poste a fondamento delle operazioni di acquisto. In merito al requisito dell'indispensabilità, si chiarisce che lo stesso attiene all'assoluta necessità di procedere all'acquisto di immobili in ragione di un obbligo giuridico incombente all'amministrazione nel perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero nel concorso a soddisfare interessi pubblici generali meritevoli di intensa e specifica tutela (ad esempio, rispetto delle norme vigenti in materia di tutela dell'ambiente, della sicurezza sui luoghi di lavoro ecc.).
Quanto all'indilazionabilità, l'attestazione deve comprovare che l'amministrazione si trova effettivamente nell'impossibilità di differire l'acquisto, se non a rischio di compromettere il raggiungimento degli obiettivi istituzionali o di incorrere in possibili sanzioni
(articolo ItaliaOggi del 20.03.2018).
---------------
MASSIMA
Un ente locale, per procedere all’acquisizione di beni immobili, deve dimostrare nel provvedimento di autorizzazione, salvo che ricorrano una delle eccezioni previste dalla norma, l’esistenza dei requisiti di “indispensabilità e indilazionabilità”, richiesti dall’art. 12, comma 1-ter del d.l. n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011, esplicitando puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base dell’acquisto al patrimonio comunale ed evidenziando i vantaggi, anche economici, derivanti da tale opzione.

ENTI LOCALIDalla Corte dei Conti richiamo ai revisore che non verificano i fondi di cassa vincolati.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Liguria, con la deliberazione 09.03.2018 n. 60, ha formalmente ammonito un organo di revisione contabile per aver dichiarato nella relazione allo schema del rendiconto di aver effettuato la verifica preliminare circa «la corrispondenza tra le entrate a destinazione specifica e gli impegni di spesa assunti in base alle relative disposizioni di legge» accettando, senza alcuna rilevazione di irregolarità, una cassa priva di vincoli che si è dimostrata successivamente non veritiera.
La vicenda
A un Comune, oggetto di verifica in sede di controllo, la Corte territoriale ha richiesto specifiche motivazioni circa la rappresentazione dei vincoli di cassa pari a zero alla data del 01.01.2015. Sia il Comune, in sede di risposta nel febbraio 2016, sia il collegio contabile, in sede di verifica avvenuta nel 2017, hanno evidenziato l'errore, avendo di fatto accertato la reale presenza dell'utilizzazione di fondi vincolati per il pagamento di spese correnti non ricostituiti al termine dell'esercizio finanziario 2014, puntualizzando che l’errore si fosse protratto per tutto l'anno 2015.
L'organo di revisione contabile, nonostante l'errore evidenziato e ammesso dallo stesso Comune, ha dichiarato, invece, sia nel parere reso nello schema di rendiconto di gestione per l'esercizio finanziario 2015 sia nella relazione-questionario sul bilancio consuntivo dello stesso anno, che non c’era nessuna grave irregolarità contabile da parte dell'ente locale.
Le indicazioni del collegio contabile
Il Collegio contabile ligure ha rilevato che, nella premessa del parere dell'organo di revisione al rendiconto di gestione, veniva specificato che «l'organo di revisione ha verificato utilizzando motivate tecniche di campionamento …. la corrispondenza tra le entrate a destinazione specifica e gli impegni di spesa assunti in base alle relative disposizioni di legge» e che «gli utilizzi, in termini di cassa, di entrate aventi specifica destinazione per il finanziamento di spese correnti sono stati effettuati nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 195 del TUEL e al 31/12/2015 risultano reintegrati».
La dichiarazione, non potendo rappresentare una mera operazione di stile, risulta non conforme sia alle precedenti certificazioni della stessa amministrazione, che ha ammesso l'esistenza di vincoli di cassa, sia da parte della stessa sezione di controllo che ha evidenziato l'assenza della separazione nel fondo di cassa delle somme aventi destinazione vincolata e la necessità di ricostituirle nella misura in cui non siano state spese in conformità ai loro vincoli.
A causa del mancato accertamento dei vincoli di cassa, il collegio contabile richiama formalmente l'organo di revisione, alla luce delle rappresentazioni non veritiere della situazione finanziaria, ad adempiere al mandato assunto con la massima diligenza e professionalità, oltre che evitare inutili aggravi di lavoro alla stessa Sezione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2018).

PATRIMONIOAcquisto di immobili solo se indispensabile e urgente. Il via libera spetta all'agenzia del Territorio.
Per poter acquistare immobili, gli enti locali devono sempre verificare l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti previsti dall'articolo 12, comma 1-ter, del Dl 98/2011, con particolare riferimento alla indispensabilità, indilazionabilità e congruità economica del prezzo. Operazione, quest'ultima, che spetta all'agenzia del Territorio e non più a quella del Demanio.

Lo affermano la sezione regionale di controllo per il Piemonte della Corte dei conti con il parere 02.03.2018 n. 26 e quella per la Lombardia con il parere 09.03.2018 n. 78.
Il primo caso
Nel caso esaminato dalla sezione Piemonte, il Comune ha avviato le procedure per lo scioglimento di una Srl a capitale interamente pubblico, costituita per la gestione dei parcheggi pubblici. Nominati i liquidatori, a seguito della presentazione del bilancio finale di liquidazione, il Comune avrebbe avuto intenzione di avere in assegnazione l'immobile adibito a parcheggio.
Ha chiesto alla sezione come regolarsi con l'articolo 12, comma 1-ter, del Dl 98/2011 nel testo modificato dall'articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, che consente agli enti territoriali di effettuare operazioni di acquisto di immobili «solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento». La congruità del prezzo è attestata dall'agenzia del Demanio, previo rimborso delle spese.
Il secondo caso
Il caso esaminato dalla sezione Lombardia riguarda una convenzione per l'uso di un'area di proprietà ecclesiastica finalizzata alla realizzazione di un nuovo parcheggio a uso pubblico. La parrocchia proprietaria ha comunicato la volontà di cedere le aree e pertanto il sindaco ha chiesto un parere circa la possibilità di acquisto, previa acquisizione di perizia tecnica che ne quantificasse il reale valore di mercato. Gli stringenti criteri del comma 1-ter si applicano anche nel caso di assegnazione dell'immobile ai soci a seguito di scioglimento societario e in quello di cessione dell'area?
I vincoli
Nell'esprimere il parere, le due sezioni si trovano in perfetta sintonia, escludendo qualsiasi deroga alla regola generale e attestando che le disposizioni del comma 1-ter devono applicarsi a tutti gli acquisti di immobili posti in essere successivamente al 1° gennaio 2014, indipendentemente dalla natura dell'operazione di acquisto e dal tipo contrattuale utilizzato.
I criteri devono, dunque, essere applicati anche nel caso di acquisizione di un immobile a seguito dello scioglimento di una società partecipata, così come in quello del terreno di proprietà parrocchiale, perché l'elemento di distinzione per l'applicabilità della disciplina è dato dalla presenza di un contratto in cui l'effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico.
Per la valutazione dei requisiti della «indispensabilità e indilazionabilità» è, quindi, necessario che il provvedimento di autorizzazione espliciti puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base dell'acquisto al patrimonio comunale, evidenziando in particolare i vantaggi, anche economici, derivanti da tale opzione.
Pochi i casi in cui è possibile escludere la soggezione alla disciplina limitativa: l'acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo, posto che l'acquisizione avviene a seguito di un contratto assimilato all'appalto di lavori pubblici e non ad una compravendita; l'acquisto di immobili effetto di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità; l'acquisizione di immobili aventi titolo nel contratto di permuta e di transazione.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del demanio, i magistrati contabili rammentano che l'articolo 6, comma 1, della legge 158/2017 ha spostato la competenza in carico all'Agenzia del territorio che, peraltro, a decorrere dal 01.12.2012, è stata incorporata dall'Agenzia delle entrate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.03.2018).
---------------
MASSIMA
L'art. 1, comma 138, legge n. 228/2012 è applicabile a tutti gli acquisti di immobili posti in essere successivamente al 01.01.2014, indipendentemente dalla natura dell'"operazione di acquisto" (e, quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal momento in cui quest'ultima sia stata eventualmente deliberata dal competente organo (l'art. 42 TUEL riserva la competenza al Consiglio - lett. L).
L'Amministrazione richiedente, prima di procedere alla realizzazione del progetto dovrà verificare l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti previsti dal comma 1-ter dell'articolo 12 del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111 ed in particolare l'indispensabilità, l'indilazionabilità e la congruità economica dell'operazione, con le specifiche modalità previste.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte dell'Agenzia del Demanio (cfr. delibera di questa sezione di controllo n. 197/2017), l'articolo 6, comma 1, della Legge 06.10.2017, n. 158, ha previsto che la suddetta valutazione, per i soli casi indicati, spetti all'Agenzia del Territorio, e non più all'Agenzia del Demanio.
Sulla base del D.L. n. 95 del 06.07.2012, convertito in Legge n. 135 del 07.08.2012, l'Agenzia del Territorio, a decorrere dal 01.12.2012 è stata incorporata dall'Agenzia delle Entrate (art. 23-quater).

LAVORI PUBBLICI: Le opere pubbliche finanziate con entrate incerte e variabili sono da considerare in violazione di legge
L'interesse del parere reso dai giudici contabili, pur non potendo entrare nel merito dei quesiti posti su fatti concreti, risiede in una questione importante, ossia la possibilità di poter o meno finanziare la realizzazione di opere pubbliche cui parte della copertura finanziaria sia da considerare incerta e/o variabile, ovvero rinvii a future acquisizione di finanziamenti.
---------------

Il Sindaco del Comune di Cavriago (RE) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere in merito all’attuazione, in caso di esito positivo di un referendum consultivo, per la realizzazione di un nuovo edificio scolastico in alternativa alla ristrutturazione di una scuola primaria esistente.
In particolare il Comitato promotore del referendum, dopo vari incontri con il Comitato dei Garanti, previsto dall’articolo 4 del “Regolamento per la disciplina del referendum comunale” del Comune di Cavriago, ha formulato il seguente quesito da sottoporre a Referendum popolare e in caso di accoglimento alla successiva deliberazione del Comune di Cavriago: “Sei favorevole alla realizzazione di un nuovo edificio scolastico in alternativa alla ristrutturazione della scuola primaria Rodari? La nuova struttura ospiterebbe la scuola media inferiore, mentre tutte le sezioni delle scuole verrebbero trasferite negli attuali plessi scolastici di Via De Amicis e Vida Del Cristo. Gli importi previsti per i due interventi sono i seguenti: 3.872.000 euro per la nuova scuola media (2.200 mq); 3.000.000 euro per la ristrutturazione della Rodari (1900 mq) più 300.000 euro per il noleggio delle strutture temporanee necessarie per ospitare gli studenti nel corso dei lavori. La nuova scuola verrebbe costruita su un’area comunale, in zona Pianella, e le maggiori spese rispetto all’intervento sulla Rodari –pari a 2.762.000 euro, al netto della fideiussione che copre parzialmente l’intervento di ristrutturazione- sarebbero coperte dall’alienazione dei diritti edificatori di proprietà dell’Azienda Speciale CavriagoServizi ( che ammontano a 916.060,18 euro) dalla vendita delle azioni Iren di proprietà del Comune attualmente cedibili (pari a 340.061 quote, valore di mercato di una quota 2,43 euro, ricavo dalla vendita 826.348 euro) e dagli oneri di urbanizzazione delle prossime due annualità (la seconda annualità andrebbe a finanziare l’ultimo stato di avanzamento lavori)”.
Il Comitato dei Garanti ha ritenuto il quesito ammissibile pur in presenza di un parere negativo del responsabile del Servizio di ragioneria dell’Ente in merito al finanziamento dell’opera che avrebbe la relativa copertura finanziaria “con entrate previste a Bilancio su annualità future”.
In tale contesto il Sindaco esponeva nella richiesta di parere che a seguito di risoluzione parziale per inadempimento da parte della Società Pratonera Gestioni S.r.l dell’Accordo di pianificazione ai sensi degli articoli 30, comma 10, e 18 della L.R. n. 20 del 2000 al quale era succeduto la stipula dell’atto convenzionale per la cessione di aree a fronte di realizzazione di opere tra le quali la ristrutturazione e l’ampliamento della Scuola elementare Rodari, il Comune ha escusso la fideiussione di 2.090.000,00 euro, somma comunque vincolata alla ristrutturazione della Scuola in questione.
Il Sindaco del comune di Cavriago richiedeva, anche per il tramite del Consiglio delle autonomie locali, l’avviso della Sezione in merito alla:
   a) responsabilità dei consiglieri nell’adozione della delibera relativa ai provvedimenti necessari all’attuazione del quesito referendario, in quanto il finanziamento della spesa necessaria alla realizzazione dell’opera pubblica ivi prevista non trova una corretta e completa copertura ed è subordinato al verificarsi di condizioni incerte e future, quali la vendita di azioni e l’alienazione di diritti edificatori;
   b) responsabilità dei consiglieri comunali nell’adottare l’atto di cui sopra che comporta la perdita di somme già nelle disponibilità dell’Ente (2.090.000,00 euro);
   c) responsabilità del dirigente che appone parere favorevole di regolarità tecnica e del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 49 e 147-bis TUEL.
...
Sulla base di quanto appena sopra per ultimo evidenziato,
la richiesta di parere del Sindaco del comune di Cavriago dev’essere considerata oggettivamente così come formulata nei tre quesiti inammissibile poiché va rilevato che nel complesso caso sottoposto al parere della Sezione, l’auspicata funzione consultiva implica una anticipata valutazione di legittimità di numerosi comportamenti amministrativi –peraltro esplicitamente invocata dall’estensore dei quesiti- e richiede altresì considerazioni che potrebbero interferire con eventuali successive pronunce giurisdizionali.
In sostanza i quesiti, invece di porre come previsto una questione generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità pubblica, ricostruiscono e prospettano diverse e concatenate attività gestionali, a monte della conclusiva richiesta di conoscere la legittimità degli atti consequenziali da adottare dall’Amministrazione comunale all’esito positivo del referendum popolare.
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi a valutazioni rimesse alla discrezionalità amministrativa delle pubbliche amministrazioni, nonché nelle specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro organi (cfr. Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione del 17.01.2013, n. 2/2013; deliberazione del 14.02.2013, n. 22/2013) mentre nel caso di specie è palese che la finalità della richiesta di parere non è quella di richiedere chiarimenti sulle normative e sui relativi atti applicativi che disciplinano in generale l'attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore (cit. Sezioni Riunite in sede di controllo, deliberazione n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010), bensì quella di ottenere una valutazione di legittimità sulla soluzione gestionale da applicare al caso concreto, in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei conti.
La Sezione ritiene opportuno richiamare comunque l’obbligo della certezza e della determinatezza della integrale copertura finanziaria delle deliberazioni degli organi degli Enti locali, in generale e nel caso specifico in materia di opere pubbliche, principio vigente nel nostro sistema amministrativo e contabile che trova la sua fonte persino nelle disposizioni Costituzionali previste dall’art. 81 di sana e virtuosa finanza pubblica, nonché dall’art. 97 relativamente al buon andamento dell’amministrazione.
A ciò si aggiungono le vigenti disposizioni primarie previste dal combinato disposto degli articoli 153, 183 e 191 del d.lgs. n. 267 del 2000.
In definitiva,
per il concreto rispetto delle disposizioni sull’obbligo della copertura finanziaria delle opere da realizzare, la stessa copertura se riferita ad entrate di futura o incerta acquisizione o variabili nel tempo sulla base di fattori economici non determinati, tra l’approvazione del progetto con la relativa quantificazione economica e l’erogazione concreta a seguito di procedura ad evidenza pubblica e la realizzazione dell’opera, deve considerarsi inadeguata e non legittima per violazione di legge, nonché contraria ai principi di buona amministrazione.
Ne consegue comunque nelle sopra esposte considerazioni l’impossibilità, per la Sezione, di entrare nel merito dei quesiti posti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 27.02.2018 n. 41).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondo risorse decentrate, adempimento inutile.
La costituzione del fondo delle risorse decentrate anche se obbligatoria si rivela un adempimento burocratico inutile ed incompleto.

Lo conferma indirettamente il parere 21.02.2018, n. 54 della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia  che conferma l'indirizzo ormai consolidato secondo il quale nel tetto delle risorse del salario accessorio indicato dall'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017 vanno considerate «tanto le risorse del bilancio imputate al fondo quanto le risorse direttamente stanziate in bilancio a copertura degli oneri relativi alle posizioni organizzative nei comuni privi di qualifiche dirigenziali».
Occorre ricordare che quando entrerà in vigore il nuovo Ccnl anche negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali le posizioni organizzative saranno extra fondo, ma gli oneri di spesa saranno da computare nel tetto del 2016.
Infatti, spiega la sezione Lombardia, le due opzioni presentano «nel computo del tetto di spesa ora previsto dal comma 2 dell'art. 23 del decreto legislativo n. 75 del 2017 rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio dall'ente con destinazione al trattamento accessorio del personale, indipendentemente dall'origine delle eventuali maggiori risorse, proprie dell'ente medesimo, a tal fine destinate».
Questo perché il legislatore non ha riferito il tetto alle sole risorse del fondo decentrato, ma ha usato locuzioni come «l'ammontare complessivo delle risorse» destinate al «trattamento accessorio del personale»: il che dimostra, per la magistratura contabile, che il medesimo legislatore «ha voluto comprendere nel limite stabilito, al di fuori di fattispecie tipiche ed eccezionali, anche le eventuali entrate, proprie dell'ente, ulteriori rispetto a quelle presenti nei fondi delle risorse decentrate».
Così stando le cose, la pretesa della costituzione del fondo quale premessa inderogabile ai fini della legittimità dell'erogazione del salario accessorio, per altro imposta dal principio contabile 4/2, punto 5.2, al dlgs 118/2011, si rivela adempimento sostanzialmente inutile. Infatti, una volta vigente il nuovo Ccnl, tutti gli enti locali costituendo il fondo evidenzieranno solo una parte (sia pure molto ampia e significativa) delle somme destinate al salario accessorio. La parte destinata a finanziare i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative resterà sempre non evidenziabile col fondo e trarrà la sua destinazione esclusivamente dal bilancio.
Di fatto ciò conferma che a ben vedere è lo stanziamento nel bilancio la corretta e vera fonte che legittima l'impiego dell'«ammontare complessivo delle risorse» e non l'atto formale di costituzione, che si manifesta più che altro come mera formalità, priva di contenuto sostanziale, tale da imporre un urgente ripensamento dei principi contabili e delle interpretazioni giurisprudenziali, volto ad attuare quella semplificazione nella gestione dei contratti decentrati, predicata dal dlgs 75/2017 ma oggettivamente rimasta solo nelle intenzioni
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2018).
---------------
MASSIMA
Nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione, che al riguardo formula il seguente principio di diritto: «
nel computo del tetto di spesa (ora) previsto dal comma 2 dell’art. 23 del decreto legislativo n. 75 del 2017 –conformemente all’orientamento interpretativo formatosi con riferimento all’analoga formulazione impiegata dall'art. 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 (v. deliberazione di questa Sezione n. 123/2016/PAR)– rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio destinate al trattamento accessorio del personale, anche derivanti da risorse proprie dell’ente».

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel tetto di spesa anche i fondi di bilancio per le posizioni organizzative nei Comuni senza dirigenti.
Nel computo del tetto di spesa previsto dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs n. 75/2017 rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio destinate al trattamento accessorio del personale, comprese quelle derivanti da risorse proprie dell’ente.
È quanto sostiene la sezione regionale di controllo per la Lombardia della Corte dei Conti con il parere 21.02.2018 n. 54.
La questione
Alla sezione era stato chiesto se fosse possibile istituire posizioni organizzative, derogando ai limiti di spesa cui sono soggette le risorse da destinare annualmente al trattamento accessorio del personale, tramite l’impiego di risorse proprie di bilancio e senza utilizzare completamente quelle previste dall’articolo 15 del Ccnl del 1999.
L’articolo 23 del Dlgs n. 75/2017 al comma 1 rinvia alla contrattazione collettiva nazionale la graduale convergenza dei trattamenti accessori anche mediante la differenziata distribuzione delle risorse finanziarie destinate all’incremento dei fondi per la contrattazione integrativa. Nelle more, il comma 2 fissa l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale al corrispondente importo determinato per il 2016. Il riferimento è all'anno 2015 per gli enti locali che non hanno potuto destinare nel 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità 2015.
Il comma 3 consente di destinare risorse specifiche alla componente variabile dei fondi, anche per l’attivazione dei servizi o di processi di riorganizzazione e il relativo mantenimento, ma fermo restando il limite delle risorse complessive previsto dal comma 2.
La posizione della Corte
Secondo la sezione Lombardia, le risorse destinate al finanziamento del trattamento accessorio degli incaricati di posizioni organizzative in Comuni privi di qualifiche dirigenziali rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, a mente del quale l’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale non può superare il corrispondente importo del 2010 ed è automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio.
A decorrere dal 01.01.2015, le risorse sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate.
Riferendosi la norma all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, devono essere considerate tutte le risorse destinate alla copertura degli oneri accessori, senza alcuna considerazione per l’origine o la provenienza. Per questo vanno considerate sia le risorse imputate direttamente al fondo, sia quelle stanziate a copertura degli oneri relativi alle posizioni organizzative nei Comuni privi di qualifiche dirigenziali «presentando le due opzioni, ai fini che in questa sede rilevano, le medesime caratteristiche funzionali di destinazione e la medesima idoneità ad incrementare la spesa per il trattamento accessorio del personale, in ragione del concreto utilizzo delle risorse stesse».
Il tetto
Stesso ragionamento deve essere riproposto per il computo del tetto di spesa ora previsto dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, nel quale rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio con destinazione al trattamento accessorio del personale, indipendentemente dall’origine delle eventuali maggiori risorse, proprie dell’ente, a tal fine destinate.
D’altro canto, il comma 3 espressamente riconosce la possibilità di destinare risorse specifiche alla componente variabile dei fondi per il salario accessorio, anche per l’attivazione dei servizi o di processi di riorganizzazione e il relativo mantenimento, ma nel rispetto dei vincoli di bilancio e delle vigenti disposizioni in materia di vincoli della spesa di personale e in coerenza con la normativa contrattuale vigente per la medesima componente variabile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.03.2018).
---------------
MASSIMA
Nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione, che al riguardo formula il seguente principio di diritto: «
nel computo del tetto di spesa (ora) previsto dal comma 2 dell’art. 23 del decreto legislativo n. 75 del 2017 –conformemente all’orientamento interpretativo formatosi con riferimento all’analoga formulazione impiegata dall'art. 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 (v. deliberazione di questa Sezione n. 123/2016/PAR)– rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio destinate al trattamento accessorio del personale, anche derivanti da risorse proprie dell’ente».

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il sindaco di Parma interroga circa una risalente vicenda amministrativa riguardante il tema della corresponsione di compensi a dipendenti del Comune che, nel tempo, hanno svolto attività di progettazione ed altro in favore di società di trasformazione urbana convenzionate con il Comune nonché di responsabile del procedimento e di collaudo, svolte per opere realizzate da privati ed acquisite dal Comune (opere fuori comparto).
In particolare si chiede alla Sezione se sia “legittimo” procedere, ora, alla liquidazione delle somme richieste dai propri dipendenti considerato che alcuni di loro, pur in presenza di intese generiche fra il Comune e le S.T.U. hanno fornito le prestazioni in assenza di atti di nomina e di fissazione dei corrispettivi, e che altri risultano responsabili del procedimento pur in assenza di un bando di gara.
Il Collegio ha ritenuto inammissibile sotto il profilo oggettivo il quesito poiché implica una anticipata valutazione di legittimità di numerosi comportamenti amministrativi –peraltro esplicitamente invocata dall’estensore- e richiede altresì considerazioni che non mancherebbero di interferire con successive pronunce giurisdizionali, che non è irragionevole considerare possibili alla luce della situazione venuta a determinarsi, suscettibile di scaturire in contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre come previsto una questione generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità pubblica, ricostruisce e prospetta diverse e concatenate attività gestionali, e formula la conclusiva richiesta di conoscere la liceità dell’eventuale erogazione dei compensi sollecitati dagli interessati. La giurisprudenza contabile ha puntualmente più volte rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l'organo di controllo esterno.
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad impingere, in tutto o in parte, nell'ambito della discrezionalità, nonché nelle specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro organi mentre il quesito si pone in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei Conti.
---------------

Il Sindaco del Comune di Parma ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere circa una risalente ed articolata vicenda amministrativa, avviatasi nel 2004 e riguardante il tema della corresponsione di compensi a dipendenti del Comune che, nel tempo, hanno svolto attività di progettazione ed altro in favore di società di trasformazione urbana convenzionate con il Comune (segnatamente “Area Stazione” s.t.u. SPA e “Pasubio” s.t.u. SPA) nonché di responsabile del procedimento e di collaudo, svolte per opere realizzate da privati ed acquisite dal Comune (opere fuori comparto).
In particolare il Sindaco (allegando copiosa documentazione consistente negli atti stipulati fra il Comune e le due citate società, nelle richieste di liquidazione dei propri dipendenti e, per ultimo, in numerose diffide a procedere ai richiesti pagamenti) chiede alla Sezione “se sia legittimo” procedere, ora, alla liquidazione delle somme richieste dai propri dipendenti considerato che:
   - alcuni di loro, per anni, hanno prestato la loro attività professionale di progettazione in favore delle s.t.u. “Area Stazione” e “Pasubio” in presenza di deliberazioni di Consiglio e di Giunta comunale che, pur prevedendo al riguardo un supporto del Comune a tali società per la realizzazione dei programmi di riqualificazione urbana, non avevano poi trovato ulteriore riscontro e specifica finalizzazione in atti di nomina degli interessati che disciplinassero i corrispettivi delle attività in considerazione, e che gli schemi di convenzione fra il Comune e le due società, poi predisposti al fine di regolamentare ex post i rapporti per le prestazioni rese dal personale comunale a vantaggio delle società stesse, elaborati nel 2007 ed approvate dal Comune con deliberazione di Giunta (nonché accompagnate da comunicazioni dell’ Ufficio del personale del Comune che evidenziavano come il pagamento sarebbe avvenuto successivamente alla sottoscrizione delle suddette convenzioni) non erano, poi, mai stati sottoscritti dalle parti;
   - altri hanno svolto, su nomina dell’ amministrazione, attività di responsabile del procedimento nel contesto di acquisizioni da parte del Comune di opere realizzate da privati, e nonostante l'assenza di un bando di gara, sono stati riconosciuti come destinatari degli incentivi previsti dalla legge Merloni (in atti del medesimo Comune) anche se “parrebbe mancare il presupposto fondamentale da cui discende il diritto allo stesso incentivo” mentre, nel contesto di analoghe acquisizioni da privati, altro dipendente ha svolto i relativi collaudi, in forza di una convenzione fra il Comune e questi ultimi, ed in attuazione della quale il Comune ha già ingressato i relativi compensi ed accantonato le relative somme.
Il Sindaco soggiunge che, in data 27.03.2017, l’amministratore unico dell’”Area Stazione” s.t.u. ha ribadito la propria indisponibilità a procedere al pagamento delle prestazioni ricevute.
...
3. Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo, occorre anzitutto evidenziare che la disposizione contenuta nel comma 8 dell’art. 7 della legge 131 del 2003, deve essere raccordata con il precedente comma 7, norma che attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare il rispetto degli equilibri di bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi statali e regionali di principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli enti locali.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il comma 8 prevede forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del precedente comma rese esplicite, in particolare, Sull’esatta individuazione di tale locuzione e, dunque, sull’ambito di estensione della funzione consultiva intestata alle Sezioni di regionali di controllo della Corte dei conti, che non può essere intesa quale una funzione di carattere generale, sono intervenute sia le Sezioni riunite sia la Sezione delle autonomie con pronunce di orientamento generale, rispettivamente, ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. n. 78/2009 e dell’articolo 6, comma 4, d.l. n. 174/2012.
Con deliberazione 17.11.2010, n. 54, le Sezioni riunite hanno chiarito che la nozione di contabilità pubblica comprende, oltre alle questioni tradizionalmente ad essa riconducibili (sistema di principi e norme che regolano l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli enti pubblici), anche i “quesiti che risultino connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti da principi di coordinamento della finanza pubblica (….), contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Successivamente la Sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 3/2014/SEZAUT, ha operato ulteriori ed importanti precisazioni rilevando come, pur costituendo la materia della contabilità pubblica una categoria concettuale estremamente ampia, i criteri utilizzabili per valutare oggettivamente ammissibile una richiesta di parere possono essere, oltre “all’eventuale riflesso finanziario di un atto sul bilancio dell’ente” (criterio in sé riduttivo ed insufficiente), anche l’attinenza del quesito proposto ad “una competenza tipica della Corte dei conti in sede di controllo sulle autonomie territoriali”.
E’ stato, altresì, ribadito come “materie estranee, nel loro nucleo originario alla contabilità pubblica –in una visione dinamica dell’accezione che sposta l’angolo visuale dal tradizionale contesto della gestione del bilancio a quello inerente ai relativi equilibri– possono ritenersi ad essa riconducibili, per effetto della particolare considerazione riservata dal Legislatore, nell’ambito della funzione di coordinamento della finanza pubblica”: solo in tale particolare evenienza, una materia comunemente afferente alla gestione amministrativa può venire in rilievo sotto il profilo della contabilità pubblica.
Al contrario, proprio per quanto di specifico interesse per il caso in esame, nella medesima deliberazione della sezione delle Autonomie è affermato che la presenza di pronunce di organi giurisdizionali di diversi ordini, la possibile interferenza con funzioni requirenti e giurisdizionali delle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti o di altra magistratura, nonché il rischio di un inserimento nei processi decisionali degli enti territoriali, che ricorre quando le istanze consultive non hanno carattere generale e astratto, precludono alle sezioni regionali di controllo la possibilità di pronunciarsi nel merito.
Sulla base di quanto appena sopra per ultimo evidenziato, la richiesta di parere del Sindaco di Parma dev’essere considerata oggettivamente inammissibile poiché va rilevato che nel complesso caso sottoposto al parere della Sezione, l’auspicata funzione consultiva implica una anticipata valutazione di legittimità di numerosi comportamenti amministrativi –peraltro esplicitamente invocata dall’estensore del quesito- e richiede altresì considerazioni che non mancherebbero di interferire con successive pronunce giurisdizionali, che non è irragionevole considerare possibili alla luce della situazione venuta a determinarsi, ben suscettibile di scaturire in contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre come previsto una questione generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità pubblica, ricostruisce e prospetta diverse e concatenate attività gestionali, a monte della conclusiva richiesta di conoscere la liceità dell’eventuale erogazione dei compensi sollecitati: il descritto approccio rende oggettivamente problematica anche la doverosa prospettiva di provare ad enucleare comunque, dal caso concreto rappresentato, le disposizioni di contabilità pubblica da porre a base della formulazione del parere.
La giurisprudenza contabile, del resto, ha puntualmente più volte rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l'organo di controllo esterno (cfr. ex multis SRC Lombardia, n. 36/2009/PAR, delibera Sezione di controllo regione Piemonte, n. 345/2013/SRCPIE/PAR).
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad impingere, in tutto o in parte, nell'ambito della discrezionalità, nonché nelle specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro organi (Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione del 17.01.2013, n. 2/2013; deliberazione del 14.02.2013, n. 22/2013) mentre nel caso di specie è palese che la finalità della richiesta di parere non è quella di ottenere chiarimenti sulle normative e sui relativi atti applicativi che disciplinano in generale l'attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore (cit. Sezioni Riunite in sede di controllo, deliberazione n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010), bensì quella di ottenere una valutazione di legittimità sulla soluzione gestionale da applicare al caso concreto, in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei conti.
Ne consegue l’impossibilità, per la Sezione, di entrare nel merito del quesito (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 13.02.2018 n. 37).

ENTI LOCALIPartecipate senza sotterfugi. Soggette al T.u. le società a capitale pubblico frazionato. La Corte conti Liguria ha chiarito i casi in cui sussiste il controllo pubblico.
Una società partecipata da enti pubblici, quando deve essere considerata a controllo pubblico?
La domanda se l'è posta la provincia di Savona che ha presentato un quesito in tal senso alla Corte dei conti - sezione di controllo della Liguria.
Il caso riguardava una società consortile, senza scopo di lucro, avente per oggetto la promozione, il coordinamento e la realizzazione di attività didattica e di formazione a favore dell'insediamento universitario sito nel comune di Savona, gestendo, in accordo con l'Università degli studi di Genova, le attività del campus universitario.
Il capitale sociale di questa società è posseduto dalla provincia di Savona, dalla camera di commercio e dal comune di Savona con un 25% ciascuno, dall'Università di Genova per un 20% e dall'Unione industriali per il restante 5%. La preoccupazione della provincia di Savona era quella di determinare, in assenza di patti parasociali che regolino le decisioni tra soggetti pubblici, se per questa società ci fosse il controllo pubblico, previsto dall'art. 2 del dlgs 175/2016, meglio conosciuto come Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica.
La Corte (parere 24.01.2018 n. 3) si è così espressa. Il dlgs. n. 175 del 2016, individua le società a controllo pubblico, aggregato soggettivo a cui si riferiscono varie disposizioni precettive del testo unico (prime fra tutte, quelle dettate dagli artt. 11 e 19 in punto di disciplina di amministratori e dipendenti) in virtù del combinato disposto delle definizioni contenute alle lettere b) ed m) dell'art. 2. In particolare, la citata lettera m) precisa che, ai fini dell'applicazione delle norme del T.U. sono considerate società a controllo pubblico quelle in cui «una o più amministrazioni pubbliche» esercitano poteri di controllo ai sensi della precedente lettera b).
La citata lett. b), a sua volta, riconduce il controllo alla situazione descritta nell'art. 2359 del codice civile, vale a dire quando: 1) si dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) si dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) una società è sotto influenza dominante di un'altra (o, va aggiunto, di un ente pubblico o altro soggetto giuridico) in virtù di particolari vincoli contrattuali.
La medesima lett. b) del comma 1 dell'art. 2 in esame precisa, inoltre, che «il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo».
Mentre l'art. 2359 del codice civile, infatti, considera società controllate quelle in cui un'altra società dispone dei voti o dei poteri (anche aventi fonte contrattuale) indicati ai numeri 1), 2) e 3) della ridetta disposizione, in virtù del combinato disposto delle lettere b) ed m) dell'art. 2 del T.u. vengono qualificate come «società a controllo pubblico» quelle in cui una o più amministrazioni dispongono dei voti o dei poteri indicati nel codice civile.
L'interpretazione sopra esposta, in conformità alla ratio normativa, evita che le società a capitale pubblico frazionato (ricorrenti nell'ambito dell'espletamento dei servizi pubblici locali) possano strumentalmente sottrarsi all'applicazione delle disposizioni dettate, per esempio, in materia di amministratori e dipendenti (artt. 11, 19 e 25 T.u.) nei confronti delle (sole) società a controllo pubblico (eccependo l'assenza di norme di legge, statutarie o di patti di sindacato fra i soci pubblici esplicitanti e delimitanti le modalità di esercizio del controllo).
Le esposte conclusioni sembrano fatte proprie anche dalla deliberazione della sezione delle autonomie n. 27/2017 che, incidentalmente, dopo aver ricordato che le società a controllo pubblico sono quelle in relazione alle quali una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo, sottolinea come si tratti di definizione particolarmente rilevante, in quanto la maggior parte delle deroghe alla disciplina di diritto comune presenti nel dlgs n. 175 del 2016 riguardano tale tipologia di società.
Devono essere qualificate, pertanto, come società a controllo pubblico quelle in cui una o più amministrazioni dispongono dei voti o dei poteri indicati nell'art. 2359, numeri 1), 2) e 3) del codice civile. A queste, si aggiunge la fattispecie, ulteriore e autonoma, indicata al secondo periodo della lett. b) dell'art. 2 del Testo unico
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOPermessi in tutto il calendario. Congedo da l. 104 di notte, nei festivi e con il part-time. A chiarirlo è l’Inps nel messaggio n. 3114/2018 sull’assistenza a familiari disabili.
L'assistenza familiare? Anche di notte, di domenica e nelle altre giornate festive. Infatti, i tre giorni di permesso mensili, che in base all'art. 33 della legge n. 104/1992 (art. 33) spettano ai lavoratori che prestano assistenza a familiari disabili, possono essere fruiti anche di domenica o di notte, qualora rientrino in turni di lavoro.
A precisarlo è l'Inps (
messaggio 07.08.2048 n. 3114), aggiungendo che, quando il turno è notturno e la prestazione si svolge a cavallo di due giorni, il permesso è comunque considerato per un giorno soltanto.
Permessi per assistenza. I chiarimenti, come accennato, riguardano i permessi retribuiti cui hanno diritto, ai sensi della predetta legge n. 104/1992, il lavoratore disabile grave e i lavoratori dipendenti con familiari disabili gravi. Nel primo caso si tratta, in particolare, di lavoratori che hanno una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva con le caratteristiche della gravità (come certificata dall'apposita commissione Asl); nel secondo caso di familiari-lavoratori-dipendenti di soggetti aventi le stesse disabilità gravi. Nel primo caso, il lavoratore maggiorenne disabile grave ha diritto, per ciascun mese di lavoro, a:
   • 2 ore di permesso retribuito giornaliero;
oppure
   • a 3 giorni di permesso retribuito, continuativi o frazionati.
Le due ipotesi sono alternative e il lavoratore può scegliere o l'uno o l'altro tipo di permesso (giornaliero o orario). Una volta scelto, il tipo può essere cambiato dal lavoratore da un mese all'altro previa modifica della domanda precedentemente presentata all'Inps. La variazione può essere eccezionalmente consentita anche nell'ambito di ciascun mese, nel caso in cui sopraggiungano esigenze improvvise e non prevedibili all'atto della richiesta dei permessi (da documentare a cura del lavoratore).
Nel secondo caso, i permessi sono riconosciuti ai lavoratori dipendenti che abbiano familiari disabili gravi. I permessi spettano a un unico lavoratore-familiare per l'assistenza dello stesso familiare disabile (c.d. condizione del «referente unico»). In tabella sono indicate le ipotesi e il tipo di permesso cui si ha diritto. I tre giorni di permesso mensile possono essere frazionati anche in permessi orari. Il frazionamento non deve comunque superare le 18 ore mensili se l'orario di lavoro è di 36 ore suddiviso in sei giorni lavorativi.
Si ricorda, inoltre, che i familiari aventi diritto ai permessi mensili possono scegliere, laddove sia possibile (cioè disponibile), la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non possono essere trasferiti senza il loro consenso ad altra sede. I benefici vanno comunque riconosciuti anche ai lavoratori che, pur risiedendo o lavorando in luoghi distanti da quello in cui risiede di fatto la persona disabile grave (personale di volo delle linee aeree, personale viaggiante delle ferrovie o dei marittimi), offrono alla stessa un'assistenza sistematica e adeguata. Il dipendente che beneficia dei permessi mensili per assistere un disabile grave residente in un comune distante più di 150 km rispetto alla propria residenza, deve attestare con idonea documentazione (per esempio esibendo al datore di lavoro il titolo di viaggio) il raggiungimento del luogo di residenza dell'assistito.
Le condizioni. I permessi spettano a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno) presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa. Tuttavia, i permessi vanno concessi in caso di ricovero a tempo pieno:
   • del minore disabile, se i sanitari certificano il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare;
   • del disabile in stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a breve termine.
Per fruire dei permessi occorre fare domanda all'Inps, in modalità esclusivamente telematica.
Come detto, i permessi sono «retribuiti» e il trattamento economico è a carico dell'Inps, anche se il relativo importo è anticipato dal datore di lavoro (che lo recupera successivamente dalle denunce contributive).
Lavoro a turno e notturno. La prima precisazione arriva a seguito della richiesta di chiarimenti sulle modalità di calcolo dei permessi, nei casi in cui l'orario di lavoro è organizzato in turni. Per lavoro a turni, ricorda l'Inps, s'intende ogni forma di orario di lavoro diverso dal normale (cioè giornaliero), potendo comprendere anche il lavoro notturno e quello festivo (come le domeniche). Poiché l'art. 33 della legge n. 104/1992 prevede la fruizione di permessi «a giornata», indipendentemente dall'orario di lavoro, l'Inps precisa che:
   a) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di turni con giornata di lavoro di domenica;
   b) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di turni con orario di lavoro notturno;
   c) in caso di lavoro notturno svolto a cavallo di due giorni solari, la prestazione resta riferita a un unico turno di lavoro e anche il permesso è considerato per un solo giorno.
Nuova formula per il part-time. Nei rapporti di lavoro a part-time i permessi vanno riproporzionati in ragione dell'orario di lavoro ridotto. Semplice è il caso relativo al part-time orizzontale, perché i permessi spettano con riferimento agli effettivi giorni (ridotti) di lavoro; più articolato, invece, è il caso del part-time di tipo verticale o quello di tipo misto, per i quali l'Inps fornisce la formula di calcolo ai fini del riproporzionamento dei tre giorni di permesso mensili, quando l'attività lavorativa è limitata ad alcuni giorni del mese. La formula è data dal prodotto di 3 (i giorni di permesso mensili) e il rapporto tra:
   • «orario medio settimanale teoricamente eseguibile dal lavoratore part-time» e
   • «orario medio settimanale teoricamente eseguibile a tempo pieno».
Un esempio: applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario medio settimanale di 18 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro medio settimanale a tempo pieno pari a 38 ore, si ottiene: (18/38) x 3 = 1,42 che arrotondato all'unità inferiore, in quanto frazione inferiore allo 0,50, dà diritto a 1 giorno di permesso mensile.
Altro esempio; applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario medio settimanale di 22 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro medio settimanale a tempo pieno di 40 ore, si ottiene: (22/40) x 3 = 1,65 che arrotondato all'unità superiore, in quanto frazione superiore allo 0,50, dà diritto a 2 giorni di permesso mensili
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2018).

ENTI LOCALISanzioni e videosorveglianza, vigili alla prova privacy.
Il comando di polizia locale che vuole adeguarsi alla riforma della privacy può confrontarsi tempestivamente con il responsabile della protezione dei dati per organizzare un cronoprogramma dei lavori.
Lo hanno evidenziato implicitamente le linee guida per la sicurezza urbana approvate il 26.07.2018 dalla Conferenza stato-città e autonomie locali (si veda ItaliaOggi del 27/07/2018).
Con il documento appena sottoscritto si è completato il quadro degli strumenti che servono ai sindaci per accordarsi con i prefetti in materia di patti per la sicurezza. Ovvero i contratti che potranno essere adottati in ogni città per la concreta applicazione del pacchetto sicurezza.
Ma intanto occorrerà mettere mano anche al trattamento dei dati personali per consentire ai comandi di polizia locale di essere in regola con la gestione dell'attività sanzionatoria e di polizia giudiziaria. E di trattare con cognizione di causa i moderni impianti di videosorveglianza e successivamente le attività conseguenti ai moderni e imminenti patti per la sicurezza.
Il quadro normativo di riferimento è variegato e non ancora completo. Da una parte infatti abbiamo il Gdpr, ovvero il regolamento 2016/679, in attesa del decreto legislativo che dovrà raccordare meglio la novella con il testo unico della privacy (approvato dal cdm il 08/08/2018). Dall'altra il dlgs 51/2018 che ha recepito nell'ordinamento la direttiva 2016/680 specificamente riferita all'attività di polizia e che dovrà essere meglio dettagliato con un regolamento.
Per organizzare al meglio la messa a regime del trattamento dei dati sarà opportuno effettuare il censimento dei dati, l'individuazione dei contitolari, con la redazione di un registro dei trattamenti comprensivo dell'analisi dei rischi e delle misure di sicurezza. Ma sarà anche opportuno un confronto con il responsabile della protezione dei dati per realizzare un cronoprogramma degli interventi da realizzare. Molto importante sarà però soprattutto la realizzazione di adeguate valutazioni di impatto privacy da effettuare necessariamente per i trattamenti a rischio, come nel caso di utilizzo di impianti moderni di videosorveglianza o di body cam per gli agenti. Dall'8 giugno scorso i comandi dovranno anche fare i conti con la direttiva 2016/680.
Per espressa previsione normativa il Gdpr non troverà infatti diretta applicazione ai trattamenti effettuati per fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati e pubblica sicurezza. I dati personali trattati dalle autorità pubbliche quando utilizzati per tali finalità, sono infatti disciplinati dalla direttiva 2016/680 relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati, recepita con decreto legislativo 18.05.2018, n. 51, entrato in vigore l'8 giugno.
Che per andare a regime richiede però l'adozione di un regolamento specifico. In attesa occorrerà prestare particolare attenzione alla regolamentazione del trattamento dati con impiego di sistemi di videosorveglianza urbana interforze e classificazione e trattamento dei fascicoli di polizia giudiziaria. Ma sarà la nuova stagione dei patti per la sicurezza il vero banco di prova
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2018).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIVia, sanzioni automatiche da 35 a 100 mila euro.
Da oggi parte il formato standard, con contenuti minimi, dei verbali di accertamento per l'applicazione delle sanzioni in materia di valutazione di impatto ambientale. La cosiddetta Via.
Salvo che il fatto costituisca reato, chiunque realizzi un progetto o parte di esso, senza la Via (o senza la verifica di assoggettabilità a Via, ove queste siano prescritte), incapperà in una sanzione amministrativa compresa tra 35.000 e 100.000 euro (per come è disposta all'articolo 29 del dlgs n. 152/2006).

La novità è contenuta in un decreto del ministero dell'ambiente, datato 28.03.2018 (il n. 94, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 09.08.2018 n. 184), che regolamenta i contenuti e le forme dei verbali per l'irrogazione di sanzioni in materia di Via (si veda ItaliaOggi 11.08.2018). Il decreto è attuativo dell'articolo 29 del dlgs 152/2006, modificato dall'articolo 18 del dlgs n. 104/2017.
La notifica del verbale andrà fatta direttamente al trasgressore, obbligato in solido. Il verbale potrà essere consegnato a mano o mediante servizio postale, ufficiale giudiziario o altro notificatore. Oppure tramite Pec, in caso di rifiuto da parte dell'interessato di sottoscrivere il verbale, mediante verbalizzazione del rifiuto. Ma tutto con preavviso che l'invio del verbale avverrà mediante servizio postale, o mediante ufficiale giudiziario, o tramite Pec.
Entro 30 giorni dalla data di contestazione o di notifica dell'atto, gli interessati avranno facoltà di far pervenire scritti difensivi e documenti all'autorità competente, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 689/1981. E potranno chiedere di essere sentiti dalla stessa autorità, che, poi, è il prefetto competente per territorio per i progetti di competenza statale. Mentre, per gli altri progetti, è l'ufficio regionale o provinciale.
Ovviamente, l'accertatore dovrà indicare qual è l'autorità a cui rivolgersi e dovrà anche rendere evidente l'importo minimo e massimo della sanzione prevista. L'autorità, invece, dovrà emettere l'ordinanza di ingiunzione, contenente l'importo esatto della multa, che andrà pagato dal trasgressore con le modalità indicate nel medesimo atto. La legge esclude ogni possibilità di estinzione del dovuto tramite pagamento in forma ridotta
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2018).

PATRIMONIOOpere, monitoraggio fai-da-te. Nessuna comunicazione formale dal Mit ai comuni. L’Anci Veneto avverte: gli enti dovranno attivarsi in autonomia entro il 1° settembre.
Restano solo pochi giorni per effettuare il censimento delle infrastrutture (ponti, strade, gallerie, viadotti, dighe) in condizioni di criticità avviato dal Mit. E i comuni brancolano nel buio anche se una cosa sembra ormai certa: non arriverà ai sindaci nessuna comunicazione formale sul monitoraggio e sarà compito degli enti adottare eventuali provvedimenti urgenti di modifica della circolazione in caso di evidenti criticità di manufatti, ponti e gallerie.
Lo ha evidenziato la circolare 23.08.2018 n. 1997 di prot. indirizzata dall'Anci Veneto a tutti i sindaci del territorio, dopo le numerose richieste di chiarimenti pervenute.
La ricognizione urgente dello stato di manutenzione delle opere infrastrutturali come strade, ponti, dighe e gallerie è stata annunciata dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Danilo Toninelli, il 16 agosto scorso (si veda ItaliaOggi del 17/08/2018).
Dopo aver sentito informalmente il provveditorato interregionale per le opere pubbliche per il Veneto, il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia, l'Anci Veneto ha avvertito gli enti che non perverrà ai singoli comuni alcuna comunicazione formale sul monitoraggio e sulle modalità di esecuzione. Gli enti dovranno attivarsi in autonomia per trasmettere al ministero dei trasporti, entro il 01.09.2018, una scheda informativa sulle strutture viarie che presentano possibili criticità tecniche.
L'associazione dei comuni del Veneto consiglia, infatti, di predisporre una scheda sintetica sui principali interventi necessari, indicando l'ordine di priorità in base al rischio, gli elementi tecnici disponibili, le risorse economiche necessarie, il livello di progettazione e gli eventuali riferimenti all'inserimento delle opere nella programmazione triennale. Tali informazioni dovranno essere trasmesse via Pec al dipartimento delle infrastrutture del Mit e al provveditorato interregionale per le opere pubbliche.
Entro il 1° settembre tutti gli enti e soggetti gestori di strade, autostrade e dighe dovranno quindi inviare una comunicazione formale per segnalare all'organo tecnico centrale tutti gli interventi necessari a rimuovere condizioni di rischio riscontrate sulle infrastrutture di propria competenza. Corredando le relative segnalazioni di adeguate attestazioni tecniche e indicazioni di priorità.
In caso di criticità, il Mit invierà una task force composta da dirigenti e da esperti indipendenti che dovrà vigilare sullo stato di salute delle infrastrutture per prevenire ogni situazione di pericolo.
La conseguenza immediata di questo monitoraggio urgente sarà che eventuali criticità sulle infrastrutture stradali, che dovessero essere evidenziate formalmente dai tecnici comunali all'esito del monitoraggio urgente, dovranno essere accompagnate immediatamente da adeguati e corrispondenti interventi di modifica della circolazione stradale, con responsabilità ricadenti pertanto sui comandanti delle polizie locali e sui sindaci.
Formalmente, dunque, non sono da escludere immediati provvedimenti di limitazione del transito dei veicoli anche su importanti arterie stradali. Si prospetta pertanto un autunno caldo per la viabilità, in vista dell'apertura delle scuole.
Resta però qualche perplessità sulle modalità di coinvolgimento “informale” dei comuni, limitato a un comunicato ministeriale e a chiarimenti forniti in ordine sparso a livello regionale. Peraltro, pur in assenza di un termine perentorio e di precise indicazioni sulla raccolta e trasmissione delle informazioni, l'indagine avviata dal ministero costringe i comuni a una riflessione importante e improcrastinabile e a un attento esame e monitoraggio, assai delicato per i connessi profili di responsabilità civile e penale dei suoi funzionari
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2018).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICIDup, 30 giorni per le osservazioni. In caso contrario gli enti devono mettersi in regola.
Gli enti locali che hanno già approvato il Dup 2019-2021 comprensivo del programma triennale e dell'elenco annuale delle opere pubbliche devono verificare di aver rispettato il termine di 30 giorni per la presentazione di eventuali osservazioni. In mancanza, sono tenuti a regolarizzare la propria posizione.

La questione è stata affrontata dall'Anci nella recente Nota di orientamento (24.07.2018) sulla materia e interessa le numerose amministrazioni che hanno deciso di varare il Dup nella stessa seduta consiliare in cui è stata approvata la salvaguardia degli equilibri e la variazione generale di assestamento, ovvero entro il 31.07.2018.
In tali casi, l'adozione del documento avrebbe dovuto essere anticipata almeno al 30 giugno, al fine di assicurare i tempi di pubblicazione del programma triennale e dell'elenco annuale previsti dal decreto del Mininfrastrutture n. 14/2018. In base a quest'ultimo provvedimento, che ha aggiornato procedure e schemi-tipo per la programmazione dei lavori (oltre che delle forniture e servizi) a quanto previsto dal nuovo codice dei contratti (dlgs 50/2016), è necessario che i relativi strumenti (programma triennale ed elenco annuale appunto) siano adottati dalla giunta inserendoli nel Dup, salvo poi pubblicarli per 30 giorni per consentire la presentazione di eventuali osservazioni. La programmazione deve essere quindi approvata in consiglio entro i termini previsti dal regolamento di contabilità, ma non oltre 60 giorni dalla prima pubblicazione.
Cosa accade se questa sequenza non è stata correttamente rispettata? La nota Anci suggerisce, sia pure implicitamente, una possibile via d'uscita laddove specifica che la nota di aggiornamento al Dup (che deve essere presentata, ricorrendone i presupposti, entro il 15 novembre, insieme allo schema di bilancio di previsione) è possibile procedere all'eventuale aggiornamento anche della programmazione dei lavori pubblici. In pratica, chi avesse «bruciato le tappe» potrà sfruttare la scadenza autunnale per rimettersi in carreggiata.
Se, invece, entro il 31 luglio, la giunta si è limitata a presentare il Dup al consiglio, la necessaria deliberazione consiliare dovrebbe avvenire non prima del 31.08.2018, ma non oltre il 30 settembre, stante il tenore della disposizione ministeriale. Anci ritiene, tuttavia, che il termine massimo dei 60 giorni intercorrente tra l'adozione e l'approvazione del programma triennale delle opere pubbliche e dell'elenco annuale, previsto dal dm 14/2018 non sia perentorio, alla stessa stregua della scadenza del 31 luglio per la presentazione del Dup al consiglio, non essendo prevista alcuna sanzione in caso di ritardo, come peraltro confermato dalla Faq n. 10 della Commissione Arconet
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, norme non retroattive. La Conferenza delle regioni ha approvato il regolamento.
Il regolamento per gli incentivi tecnici non è retroattivo, ma si applica ai lavori, servizi e forniture per le quali il bando, l'avviso o la lettera di invito sono stati pubblicati o trasmessi successivamente alla sua entrata in vigore.
È una delle previsioni contenute nello schema di provvedimento approvato nelle scorse settimane dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome, recependo la bozza elaborata da Itaca (Istituto per l'innovazione e la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale).
La materia è disciplinata dall'art. 113 del dlgs 50/2016, che ha sostituito il previgente art. 93 del dlgs 163/2006, modificando, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo la platea dei beneficiari di tali compensi aggiuntivi. Il nuovo codice dei contratti ha, da un lato, escluso le attività di progettazione, dall'altro ha esteso gli incentivi, oltre che ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e forniture.
Mentre per i lavori possono essere beneficiari sia i tecnici che il restante personale che abbia prestato la propria collaborazione, per servizi e forniture gli incentivi sono previsti esclusivamente per il direttore dell'esecuzione. A tali soggetti, sulla base di un atto unilaterale dell'amministrazione (non soggetto a contrattazione sindacale), possono essere destinate somme non superiori al 2% dell'importo posto a base di gara ed entro un tetto pari al 50% del trattamento economico complessivo spettante al singolo dipendente.
Un elemento di continuità fra il vecchio ed il nuovo codice riguarda l'obbligo, per gli enti, di approvare un regolamento per disciplinare nel dettaglio tutti gli aspetti del riparto di tali risorse non oggetto di specifica previsione da parte del legislatore. In tal senso, esso, per pacifica e consolidata giurisprudenza contabile, si configura in maniera inequivocabile, quale presupposto necessario della erogazione degli incentivi, nel senso che in mancanza del regolamento non è possibile procedere al pagamento.
Tuttavia, secondo un recente parere della Corte dei conti Veneto (
parere 25.07.2018 n. 264) l'irretroattività del regolamento non preclude la ripartizione delle risorse in precedenza accantonate e ciò rende legittimo l'accantonamento, in misura ovviamente conforme al limite normativo, nelle more dell'adozione di tale atto. Invece, lo schema definito da Itaca è più tranchant e, all'art. 14, propende per un'irretroattività piena, escludendo dal suo ambito di applicazione le procedure già avviate.
Per il resto, la Conferenza ha recepito la raccomandazione della commissione tecnica che ha lavorato sul testo affinché, sotto il profilo di ripartizione dei compensi per le figure tecniche e amministrative, si formuli una modalità di riparto del compenso che operi su base previsionale con riferimento all'intero arco temporale dell'intervento come da cronoprogramma allegato al contratto, in modo che il rispetto dell'aliquota del 50% sia da verificarsi distribuita sull'intero arco di durata dello stesso.
Da notare anche la puntuale disciplina dei coefficienti di riduzione degli emolumenti per attività in parte affidate all'esterno e di decurtazione degli stessi per errori o ritardi, nonché delle modalità di quantificazione e liquidazione dell'incentivo
(articolo ItaliaOggi del 21.08.2018).

EDILIZIA PRIVATAEventi privati, polizia a carico. Introiti comunali esclusi dai tetti di spesa per il personale. L’interpretazione del dl n. 50/2017 in una nota della Conferenza unificata stato-città.
Per tutti i servizi di polizia stradale per la regolazione del traffico in occasione di eventi di carattere privato, prive di interesse pubblico, l'organizzatore deve pagare il personale della polizia locale.
E tali somme introitate dal comune non sono soggette ai vigenti limiti per la spesa del personale.

Lo ha precisato la Conferenza unificata stato-città nella seduta del 26 luglio scorso con una nota interpretativa sulla norma introdotta dal decreto legge n. 50 del 24.04.2017.
Il decreto legge n. 50/2017. La legge di conversione n. 96 del 21.06.2017 aveva introdotto il comma 3-bis all'art. 22 del dl n. 50/2017, disponendo che a decorrere dal 2017 le spese del personale di polizia locale, relative a prestazioni pagate da terzi per l'espletamento di servizi di cui all'articolo 168 tuel, in materia di sicurezza e di polizia stradale necessari allo svolgimento di attività e iniziative di carattere privato che incidono sulla sicurezza e la fluidità della circolazione nel territorio dell'ente, sono poste interamente a carico del soggetto privato organizzatore o promotore dell'evento e le ore di servizio aggiuntivo effettuate dal personale di polizia locale in occasione dei medesimi eventi non sono considerate ai fini del calcolo degli straordinari del personale stesso.
Il nuovo Ccnl funzioni locali. Il nuovo contratto collettivo nazionale del lavoro per le funzioni locali sottoscritto il 21.05.2018, ha introdotto uno specifico articolo in merito all'applicazione dell'art. 22, c. 3-bis, del decreto legge n. 50/2017.
Il Ccnl ha precisato che le ore di servizio aggiuntivo del personale, rese al di fuori dell'orario ordinario di lavoro, impiegato per le attività di sicurezza e di polizia stradale necessarie per lo svolgimento di attività e di iniziative di carattere privato, sono remunerate con un compenso di ammontare pari a quelli previsti per il lavoro straordinario dall'art. 38, comma 5, del Ccnl del 14/09/2000; e se le ore di servizio aggiuntivo sono rese di domenica o nel giorno del riposo settimanale, oltre al predetto compenso spetta un riposo compensativo di durata corrispondente a quella della prestazione lavorativa resa.
Le ore aggiuntive non concorrono alla verifica del rispetto del limite massimo individuale di ore di lavoro straordinario e non rientrano nel tetto massimo spendibile per i compensi per lavoro straordinario da ciascun ente. Concretamente, ogni ente locale dovrà inserire apposita regolamentazione nel primo contratto integrativo successivo alla stipulazione del nuovo Ccnl.
La nota interpretativa della Conferenza unificata. Per gli enti pubblici e per gli organizzatori erano emerse incertezze nell'esatta individuazione della «attività e iniziative di carattere privato», di difficile perimetrazione oggettiva. Nella nota interpretativa approvata dalla Conferenza unificata il 26 luglio scorso, viene chiarito che con tale formulazione si deve fare riferimento alle manifestazioni prive di interesse pubblico e che perseguono finalità lucrative.
Peraltro, alle amministrazioni locali è rimessa la valutazione autonoma di escludere dal pagamento le manifestazioni di interesse pubblico, organizzate da soggetti privati o di natura privata destinatari di contributi o di patrocini o di altre forme di riconoscimento della valenza istituzionale dell'evento.
Ma la nota interpretativa si spinge oltre, delineando concretamente in quali casi debba essere fatto il pagamento dei servizi svolti a favore di eventi organizzati da privati. Riepilogando, non sono soggette al pagamento:
   - le attività che devono essere svolte dalla polizia locale in quanto rientranti nel campo delle funzioni pubbliche;
   - le manifestazioni e riunioni pubbliche, tra le quali rientrano anche le cerimonie religiose e i cortei funebri;
   - i servizi svolti dal personale di polizia locale come ausiliario nelle operazioni di pubblica sicurezza, il cui impiego venga disposto con l'ordinanza di pubblica sicurezza della Questura.
Invece, di norma sono sempre soggette al pagamento le attività svolte dalla polizia locale per l'organizzazione e la regolazione del traffico.
Pertanto, per esemplificare, se per un importante concerto musicale i servizi svolti come ausiliari di pubblica sicurezza dai vigili in possesso della qualifica di Agente di P.S. non possono essere conteggiati ai fini del rimborso delle spese sostenute per l'impiego del personale, per i servizi svolti invece per gestire la viabilità stradale l'organizzatore privato deve effettuare il pagamento, che dovrà essere contabilizzato in relazione sia alle ore di turno ordinario che alle ore di straordinario, ponendosi ciò in contrasto, però, con quanto stabilito dal nuovo Ccnl funzioni locali.
Infine, la nota interpretativa fornisce un ulteriore importante chiarimento sulla natura delle risorse introitate come pagamenti dei servizi svolti dalla polizia locale a favore di eventi organizzati da privati.
Secondo la conferenza unificata, tali risorse in entrata, essendo neutrali ai fini del rispetto dei saldi di finanza pubblica, non sono oggetto di conteggio ai sensi delle disposizioni sul contenimento della spesa di personale, come per esempio l'art. 1, commi 557, 557-quater e 562 della legge n. 296/2006 e l'art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017.
---------------
Sagre, si allentano alcuni vincoli.
Semplificazione delle misure di sicurezza per le sagre e le manifestazioni pubbliche con vincoli meno stringenti rispetto a quelli introdotti un anno fa, ma anche più responsabilità a carico di sindaci e comandanti di polizia locale, che avranno più libertà di manovra e più discrezionalità nel valutare i rischi e le criticità di una manifestazione.
Lo prevede la la nota 18.07.2018 n. 11001/1/110/(10) di prot. del Ministero dell'interno, contenente le nuove linee guida sul contenimento del rischio in manifestazioni con peculiari condizioni di criticità.
La classificazione dei rischi correlati a un evento non deve più essere fatta mediante una valutazione tabellare oggettiva, ma verificando le criticità connesse alla tipologia della manifestazione, alla conformazione del luogo e al numero e alle caratteristiche dei partecipanti.
Ed è esclusivamente agli eventi che presentano condizioni di particolare criticità che si applicano le nuove linee guida ministeriali, che abbandonano la classificazione effettuata in base al livello di rischio (basso/medio/alto).
Cambiano le regole per la suddivisione della zona in settori. Sale a 10 mila persone la quota fino alla quale non è richiesta la separazione. I settori devono essere distinti i tra di loro mediante l'interposizione di spazi liberi in cui è vietato lo stazionamento di pubblico ed automezzi non in emergenza aventi larghezza non inferiore a 5 metri e devono essere previsti attraversamenti presidiati in ragione di uno ogni 10 m.
Non è più richiesto il posizionamento di un estintore ogni 200 mq: le nuove linee guida prevedono soltanto un congruo numero di estintori portatili, di adeguata capacità estinguente, in posizioni controllate, mentre nell'area del palco possono essere aggiunti estintori carrellati. Esclusivamente per le manifestazioni dinamiche in spazi limitati è imposta la disponibilità di un estintore ogni 100 mq.
Il servizio di vigilanza antincendio è imposta solo nel caso in cui l'affluenza prevista sia di oltre 20 mila persone. Per l'assistenza all'esodo, l'instradamento e il monitoraggio dell'evento, l'organizzatore della manifestazione deve avvalersi di operatori di sicurezza, che possono essere soggetti iscritti ad associazioni di protezione civile riconosciute oppure il personale in quiescenza già appartenente alle forze dell'ordine, alle forze armate, ai vigili urbani, ai vigili del fuoco, al servizio sanitario, per i quali sia stata attestata l'idoneità psico-fisica, ovvero altri operatori in possesso di adeguata formazione in materia.
Per la lotta all'incendio, vanno impiegati addetti, formati con corsi di livello C (rischio alto) ai sensi del dm 10.03.1998 e abilitati ai sensi dell'art. 3 della legge n. 609/1996
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.08.2018).

ENTI LOCALIL'addio al pareggio di bilancio renderà più libero l'indebitamento.
Il probabile addio al pareggio di bilancio renderà più libero anche il ricorso al debito per il finanziamento degli investimenti. Sebbene la Corte costituzionale abbia sbloccato solo l'avanzo e il fondo pluriennale vincolato, la probabile decisione di eliminare tout court il vincolo avrà l'effetto collaterale di affrancare anche l'indebitamento.

Negli anni del Patto di stabilità e, successivamente, del pareggio, avanzo e debito sono sempre stati equiparati, nel senso che entrambi hanno sempre potuto essere utilizzati solo compatibilmente con gli spazi disponibili nell'ambito dei diversi meccanismi di finanza pubblica.
A legislazione vigente, vi è solo una differenza legata al diverso impatto degli investimenti pluriennali, che se finanziati con avanzo devono essere interamente coperti nell'anno iniziale (con possibilità di traslare gli impegni mediante il fondo pluriennale vincolato), se finanziati a debito devono essere coperti pro quota in ciascun esercizio in base agli stati avanzamento maturati (ma in tal caso il fondo pluriennale vincolato non rileva).
In ogni caso, tali limitazioni hanno fortemente disincentivato gli enti a fare ricorso al mercato dei capitali, inaridendo una fonte tipicamente utilizzata dalle aziende (anche private) per investire.
Dal prossimo anno, il mondo, però, potrebbe cambiare con la cancellazione del pareggio, che finirebbe di liberare anche il debito, fermi restando ovviamente i paletti dell'art. 119, comma 6, Cost. (che circoscrive ai soli investimenti le spese finanziabili a mutuo o con altre forme di funding) e 204 del Tuel (in base al quale l'importo annuale degli interessi non deve superare il 10% delle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto del penultimo anno precedente).
Mentre, a rigore, l'avanzo è immediatamente utilizzabile in base alle sentenze n. 247/2017 e 101/2018 della Consulta (insieme al fondo pluriennale vincolato), per il debito l'intervento del legislatore è ineludibile. In teoria, il pareggio potrebbe anche restare in piedi con l'inclusione del solo avanzo fra le entrate finali e la piena valorizzazione del fondo pluriennale vincolato, ma la cosa più probabile è che si applichino i soli equilibri del dlgs 118/2011, che comprendono anche le entrate del titolo VI.
Se tali scenari si dovessero realizzare, sarebbe necessario per gli enti, in sede di nota di aggiornamento del Dup, rivedere tutto il quadro della programmazione degli investimenti per i prossimi anni, anche alla luce delle imminenti modifiche ai principi contabili, che per le opere di importo superiore a 100.000 euro rendono obbligatorio l'inserimento delle opere nel documento al fine di procedere con la progettazione
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2018).

APPALTIFornitori con cda trasparenti.
Un'impresa iscritta negli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non sottoposti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cosiddetta white list) deve comunicare alla prefettura competente le modifiche apportate ai propri assetti proprietari e gestionali. In particolare di tutti i soggetti titolari di incarichi di amministrazione, direzione e controllo dell'azienda. L'iscrizione nell'elenco ha lo scopo di rendere più efficaci i controlli antimafia nei confronti delle società operanti in settori maggiormente esposti a rischi di infiltrazione mafiosa.

È con la nota 24.04.2018 n. 11001/119/20(5)-A di prot. che il ministero dell'interno fotografa le conseguenze derivanti dall'omessa comunicazione di modifiche all'assetto proprietario e degli organi sociali da parte dell'impresa iscritta nella white list.
L'iscrizione nelle white list «tiene luogo della comunicazione e dell'informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti e subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta» (cosiddetto effetto-equipollenza), sempre che permangano le condizione relative ai soggetti e alla composizione del capitale sociale.
Le stazioni appaltanti devono comunicare alla prefettura, in via telematica, le denominazioni o le ragioni sociali delle imprese in relazione alle quali hanno acquisito la documentazione antimafia tramite consultazione degli elenchi. La richiesta deve indicare gli elementi essenziali idonei ad identificare univocamente l'impresa (ragione sociale, sede legale anche per le imprese straniere, sede secondaria stabile in Italia, numero di codice fiscale e di partiva Iva) e il settore o i settori di attività per cui è richiesta l'iscrizione.
Competente a ricevere la richiesta di iscrizione è la prefettura della provincia dove l'impresa ha posto la propria residenza o sede legale o, se l'impresa è costituita all'estero, la prefettura della provincia dove l'impresa ha una sede stabile ai sensi dell'art. 2508 del codice civile, ovvero, se l'impresa è costituita all'estero e non ha una sede stabile nel territorio dello Stato, qualsiasi prefettura nel cui elenco l'impresa intenda richiedere l'iscrizione
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIAPlacet unico ambientale. Nel Pua autorizzazioni e nulla osta vari. Linee guida del ministero dell’ambiente dopo le novità normative.
Un provvedimento unico ambientale (Pua) che riunisce in un unico atto il rilascio di ogni altra autorizzazione, intesa, parere, nulla osta, o atto di assenso in materia ambientale. Vi sono assorbiti l'autorizzazione integrata ambientale (Aia), le autorizzazioni paesaggistiche e culturali, i nulla osta idrogeologici, le autorizzazioni sismiche e quelle riguardanti gli scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee. Scopo dell'unificazione è quello di rendere più efficienti le procedure amministrative nonché di innalzare il livello di tutela ambientale.

Le istruzioni operative sono contenute in una guida del Ministero dell'ambiente diffusa nei giorni scorsi che spiega le modalità per il rilascio del provvedimento unico ambientale alla luce delle modifiche apportate dal dlgs 16.06.2017 n. 104, in attuazione della direttiva 2014/52/Ue alla parte II del codice dell'ambiente (dlgs 152/2006), alla disciplina sulla valutazione di impatto ambientale.
Il Pua può essere richiesto per tutti i progetti di competenza statale sottoposti a procedura di Via (Valutazione impatto ambientale). L'autorità competente in sede statale è il ministero dell'ambiente, direzione generale per le valutazioni e le autorizzazioni ambientali.
Ruolo commissione tecnica di verifica. La commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale svolge l'istruttoria tecnica finalizzata all'espressione del parere sulla base del quale sarà emanato il provvedimento di Via, previa acquisizione del concerto del ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Il proponente trasmette alla direzione valutazione ambientale l'istanza per il rilascio del Pua utilizzando l'apposito modulo disponibile nella sezione «specifiche tecniche e modulistica» del portale delle valutazioni ambientali http://www.va.minambiente.it/it. All'istanza deve essere allegata la seguente documentazione in formato digitale:
   - progetto di fattibilità tecnico economica (o eventuale diverso livello di progettazione);
   - documentazione ed elaborati progettuali previsti dalle normative di settore per consentire la compiuta istruttoria tecnico amministrativa finalizzata al rilascio dei titoli ambientali richiesti, incluse, nel caso di richiesta di autorizzazione integrata ambientale, le informazioni previste ai commi 1, 2 e 3 dell'art. 29-ter del dlgs 152/2006;
   - studio di impatto ambientale;
   - sintesi non tecnica dello studio di impatto ambientale;
   - informazioni sugli eventuali impatti transfrontalieri del progetto;
   - dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante il valore delle opere da realizzare e l'importo del contributo versato (art. 33 del dlgs 152/2006);
   - copia della ricevuta di avvenuto pagamento del contributo per gli oneri istruttori;
   - risultati della procedura di dibattito pubblico eventualmente svolta (art. 22 del dlgs 50/2016);
   - valutazione di impatto sanitario (se pertinente);
   - piano di utilizzo delle terre e rocce da scavo (se pertinente).
Sospensione dei termini. Il proponente può richiedere alla direzione valutazione ambientale, con adeguate motivazioni, la sospensione dei termini per la presentazione della documentazione integrativa per un periodo non superiore a 180 giorni. La sospensione può essere richiesta o concessa una sola volta nel corso dell'intera procedura. Se il proponente non trasmette la documentazione integrativa entro il termine perentorio stabilito nella comunicazione della Dva, l'istanza si intende ritirata. La Dva procede all'archiviazione della medesima
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2018).

EDILIZIA PRIVATAIl nuovo ecobonus con 28 tetti. Massimali specifici per ogni tipologia di intervento. La bozza di decreto che riformerà l’incentivo. Nel bonifico anche data e numero fattura.
Al via la riforma delle detrazioni fiscali (50 o 65%) per gli investimenti in efficientamento energetico. Con l'introduzione di ventotto tetti di spesa intesi come massimali specifici per ogni singola tipologia di intervento. Il tetto da rispettare sarà duplice: uno globale, riferito a tutte le spese sostenute e uno per i valori unitari, riferito a ciascuna delle spese detraibili. La maggior parte dei massimali saranno stabiliti in base al metro quadro (ad esempio installazione e sostituzione di infissi). Per quanto riguarda, invece, caldaie e similari, l'importo massimo detraibile sarà determinato sulla base dei kilowatt. Ad esempio, per le finestre comprensive di infissi nuovi il limite di spesa sarà di 350 euro al metro quadro per le zone climatiche A, B e C (le più calde) e di 450 euro al metro quadro per le zone climatiche D, E e F (le più fredde).
Queste alcune delle novità che emergono dalla lettura dell'ultima bozza di decreto del ministero dello Sviluppo economico - redatto di concerto con i dicasteri dell'economia, delle infrastrutture e trasporti e dell'ambiente che andrà a cambiare le detrazioni fiscali (si veda ItaliaOggi del 20 luglio scorso) per gli investimenti in efficientamento energetico (articolo 1, commi 344/349, della legge 296/2006). Vantaggi tributari già prorogati dalla legge di Bilancio 2018 (n. 205/2017) che ha anche modificato i confini di riferimento del bonus.
Le nuove misure entreranno in vigore a partire dal terzo mese successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dello schema di decreto. Pertanto restano invariate le regole per i lavori effettuati tra il 01.01.2018 e la data di attuazione della misura. In concreto, con le nuove regole, sarà più arduo utilizzare la detrazione per lavori che non rientrano nello steccato dell' efficientamento energetico.
Tra le altre novità quella per cui il bonifico, non dovrà contenere solo la causale del versamento, costituita dalla norma incentivante (ad esempio, «detrazione del 50% o del 65%
»), il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il numero di partita Iva o il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico viene effettuato ma dovrà essere prevedere anche «il numero e la data della fattura» che viene saldata.
Finalità del nuovo decreto e necessità di aggiornamento. Il provvedimento in commento ha la finalità di aggiornare i requisiti tecnici minimi per le tecnologie che accedono al beneficio delle detrazioni fiscali (c.d. ecobonus), previste dalla finanziaria per il 2007 (articolo 1, commi 344/349, della legge 296/2006).
L'aggiornamento si è reso necessario in quanto negli ultimi dieci anni gli incentivi tributari hanno subito modifiche o proroghe. Comportando un disallineamento rispetto alle disposizioni introdotte con i decreti ministeriali del 2015 in materia di prestazione energetica degli edifici (dm 26.06.2015) e generando nel contempo difficoltà per tecnici e cittadini dovute alla mancanza di chiarezza nella definizione dei requisiti di accesso alle detrazioni fiscali per gli interventi ammessi all'agevolazione.
Di conseguenza sono stati molti i ricorsi presentati all'Agenzia delle entrate.
Alcuni esempi di massimali unitari. I limiti di spesa dell'ecobonus saranno calcolati come abbiamo detto al metro quadro o in base ai kilowatt. A esempio il tetto a metro quadrato riguarderà i seguenti interventi:
   - riqualificazione energetica: limite di spesa di 500 euro al metro quadro per le zone climatiche A, B e C e di 575 euro al metro quadro per le zone climatiche D, E e F;
   - schermature solari e tende solari: limite di 180 euro per ogni metro quadro;
   - strutture opache orizzontali : esterno (limite 100,00 euro), interno terreno (limite 80,00 euro) e parete ventilata (limite 150,00 euro).
Il tetto per kilowatt sarà ad esempio relativo ai microgeneratori (con nuovo limite di spesa di mille euro per kilowatt di energia elettrica potenziale) e le caldaie ad acqua a condensazione e generatori di aria calda a condensazione (con limite di spesa a 250/200 euro per kw di energia elettrica potenziale - kWe)
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).

LAVORI PUBBLICINel Dup opere sopra 100 mila €. Obbligatorio inserirle nel Documento di programmazione. È l’effetto combinato del Codice appalti e dei nuovi principi contabili degli enti locali.
Opere di importo superiore ai 100.000 euro da inserire obbligatoriamente nel Dup.

È questa una delle novità più importanti previste dal combinato disposto del codice dei contratti e dei (rinnovati) principi contabili degli enti locali.
Fino ad oggi, è prassi diffusa quella di inserire nella programmazione triennale opere prive di un livello minimo di progettazione. In base all'art. 21, comma 3, del dlgs n. 50/2016 ciò non è più consentito, essendo obbligatorio dotarsi del documento delle alternative progettuali, per i lavori da inserire nel programma triennale e del progetto di fattibilità tecnica ed economica, per i lavori di importo pari o superiore a un milione di euro, da inserire nell'elenco annuale. È consentita, in ogni caso, l'omissione di uno o di entrambi i primi due livelli di progettazione, purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione.
Nei documenti citati (che sostituiscono lo studio di fattibilità e il progetto preliminare previsto dalla normativa previgente) occorre individuare, tra più soluzioni progettuali, quella che presenta il miglior rapporto costi/benefici, in relazione alle esigenze della collettività da soddisfare. L'ente locale deve, quindi, analizzare, identificare e quantificare gli interventi e le risorse reperibili per il finanziamento dell'opera indicando, dove possibile, le priorità e le azioni da intraprendere per far decollare il nuovo investimento, la stima dei tempi e la durata degli adempimenti amministrativi per la realizzazione e il successivo collaudo. Vanno inoltre stimati, ove possibile, i relativi fabbisogni finanziari in termini di competenza e cassa. Nelle eventuali forme di copertura dell'opera, si dovrà fare riferimento anche al finanziamento tramite l'applicazione nella parte entrata del bilancio del fondo pluriennale vincolato.
Il programma deve in ogni modo indicare:
   • le priorità e le azioni da intraprendere come richiesto dalla legge;
   • la stima dei tempi e la durata degli adempimenti amministrativi di realizzazione delle opere e del collaudo;
   • la stima dei fabbisogni espressi in termini sia di competenza, sia di cassa, al fine del relativo finanziamento in coerenza con i vincoli di finanza pubblica.
Inoltre, occorre considerare le imminenti modifiche all'allegato 4/2 del dlgs n. 118/2011 previste dall'ottavo decreto correttivo, che mirano a rendere più semplice il raccordo fra le norme contabili e quelle sugli appalti di lavori pubblici, introducendo numerose novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della realizzazione delle opere.
In primo luogo, viene disciplinata la registrazione del livello minimo di progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale e nell'elenco annuale. Parliamo, quindi, di opere di taglio pari o superiore a 100.000 euro: in tali casi, le spese di progettazione devono essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup) individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
Il Dup, quindi, oltre a contenere il programma triennale delle opere pubbliche, dovrà individuare le opere per le quali l'ufficio competente è autorizzato, nel primo anno della programmazione, ad avviare la prima fase di progettazione, sia che essa venga svolta internamente o affidata all'esterno
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).

APPALTI: Affidamenti a terzi con nuove regole. Al via da domani l’obbligo per i concessionari scelti senza gara.
Da domani al via le regole per le verifiche sul rispetto dell'obbligo di affidamento a terzi dell'80% dei contratti di lavori, forniture e servizi da parte dei concessionari scelti senza gara (è il 60% per i concessionari autostradali).
È stata infatti pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 del 02.08.2018 la delibera Anac n. 614 del 04.07.2018 riguardante le linee guida n. 11 recanti indicazioni per la verifica del rispetto del limite di cui all'articolo 177, comma 1 (il c.d. 80/20).
Le linee guida n. 11 sono vincolanti e attuano il disposto dell'articolo 177, comma 3, del Codice dei contratti che prevede che l'Autorità detti le regole per la verifica sull'avvenuto ed effettivo affidamento a soggetti terzi di una quota pari all'80% (o al 60% per le concessioni autostradali) di lavori, forniture e servizi di importo superiore a 150 mila euro da parte di concessionari che, a loro volta, non hanno ricevuto la concessione a seguito di procedura ad evidenza pubblica prima del 19.04.2016.
Viene previsto anche un obbligo di adeguamento entro due anni e su questo punto l'Anac ha chiarito che l'obbligo «è immediatamente operativo e che il termine di 24 mesi è soltanto un termine finale entro cui deve essere raggiunta l'aliquota minima dell'80% dei contratti affidati con gara. Quindi man mano che i contratti già affidati vengono a scadenza, i nuovi contratti devono sin da subito essere affidati mediante gara».
Si tratta di un rilevantissimo numero di concessioni (circa 6.500 stando all'indagine Anac del 2017), affidate soprattutto nel settore idrico e del gas, che sono sottratte al confronto competitivo e spesso sopravvivono con proroghe sistematiche limitate alla gestione ordinaria. La stessa norma del codice, oltre a stabilire che spetti all'Anac dettare le regole per le verifiche, stabilisce che «eventuali situazioni di squilibrio rispetto ai limiti indicati devono essere riequilibrate entro l'anno successivo» e che «nel caso di situazioni di squilibrio reiterate per due anni consecutivi, il concedente applica una penale in misura pari al 10% dell'importo complessivo dei lavori, servizi o forniture che avrebbero dovuto essere affidati con procedura ad evidenza pubblica».
Il provvedimento Anac consta di una prima parte con indicazioni (non vincolanti) relative alla corretta interpretazione della disciplina e di una seconda parte che contiene indicazioni vincolanti e operative. Va rilevato che l'Anac ritiene che la disciplina «si applichi ai settori speciali, con la sola esclusione delle concessioni di cui all'articolo 7 del codice dei contratti pubblici, espressamente fatte salve (appalti e concessioni aggiudicati ad una impresa collegata).
Altro elemento di rilievo riguarda il calcolo della percentuale (60 o 80%): l'Anac, su indicazione del Consiglio di stato chiarisce che si deve fare riferimento al valore dei contratti nel suo complesso, senza operare distinzioni tra le quote riferite a lavori, servizi e forniture.
Le linee guida definiscono anche le modalità dei controlli e fissano gli obblighi di comunicazione che devono agevolare le verifiche a carico dell'Autorità; in particolare si prevede l'obbligo di pubblicazione di tutti i dati necessari ai concedenti per lo svolgimento delle verifiche di competenza sul rispetto dei limiti percentuali e all'Anac per l'attività di vigilanza
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).

ENTI LOCALIAvanzi sbloccati, ma i comuni temono sanzioni. I municipi stanno alla finestra in attesa di un intervento del legislatore.
Incognita avanzo di amministrazione per gli enti locali. Le risorse risparmiate negli scorsi esercizi sono state sbloccate dalla Corte costituzionale, ma molti amministratori (e ragionieri) sono ancora in attesa di un intervento del legislatore che faccia piazza pulita delle sanzioni previste in caso di sforamento del pareggio di bilancio.
Con l'approvazione delle delibere sulla salvaguardia degli equilibri e sull'assestamento generale di bilancio, siamo entrati nella fase dell'esercizio in cui di norma è possibile applicare avanzo per finanziare investimenti, al netto delle eventuali quote vincolate già utilizzate. Prima, infatti, è necessario licenziare il rendiconto e verificare che non sussistano squilibri finanziari e/o debiti fuori bilancio a ipotecare i risparmi conseguiti negli scorsi anni.
Ma, come noto, coprire una spesa con l'avanzo richiede la disponibilità di spazi nell'ambito del pareggio di bilancio, che non «vede» tale entrata, mentre registra puntualmente la spesa, ivi compreso il fondo pluriennale vincolato. Sul tale materia, peraltro, è intervenuta ripetutamente la Corte costituzionale (dapprima con la sentenza n. 247/2017 e poi con al sentenza n. 101/2018), censurando le limitazioni previste all'utilizzo delle menzionate poste contabili.
Secondo i giudici delle leggi, l'avanzo, una volta accertato nelle forme di legge, è nella disponibilità dell'ente che lo realizza e non risulta incluso fra le entrate finali solo perché la disciplina del pareggio guarda al bilancio di previsione, mentre l'avanzo, come detto, è accertato in sede di rendiconto. Ancora più nette le affermazioni sul fondo pluriennale vincolato, che gli enti hanno piena facoltà di gestire indipendentemente dalla sua collocazione in bilancio.
Si è trattato di vere e proprie picconate all'edificio del pareggio, che a questo punto rischia di essere del tutto demolito. Nulla è ancora stato deciso, ma la soluzione più gettonata prevede addirittura il completo superamento del meccanismo e l'applicazione dei soli equilibri previsti dal dlgs 118/2011 (che includono pienamente l'avanzo e, come si dirà, il ricorso al debito).
Il nuovo corso dovrebbe scattare con la manovra di fine anno, dopo che il decreto Milleproroghe ha solo sfiorato il tema; ma nel frattempo i vincoli (e le relative sanzioni) sono ancora vigenti, come confermato dal recente decreto del Mef sul monitoraggio e da quello del Viminale che ha applicato le penalità alle amministrazioni che hanno sforato nel 2017. Ma pare difficile che lo Stato possa continuare ad applicare delle penalità sulla base di norme mantenute in vita dalla Consulta sulla base di una interpretazione «costituzionalmente orientata»: anzi, in punto di diritto, è possibile affermare che, dopo l'intervento dei giudici delle leggi, l'avanzo e il fondo pluriennale vincolato sono a pieno diritto entrate valide ai fini del pareggio, senza se e senza ma.
A questo punto, quindi, gli enti sarebbero assolutamente legittimati ad utilizzarle senza il rischi di incappare in conseguenze negative. Ma nella culla del diritto positivo (dove la forma dei precedenti giurisprudenziali, anche se al massimo grado, è tradizionalmente modesta) prevale ancora un atteggiamento di prudenza sia negli amministratori che (soprattutto) nei responsabili finanziari, che attendono di vedere scritte nero su bianco in un provvedimento le nuove regole. Per cui, a meno che il governo decida di accorciare i tempi ed inserire lo sblocco in un decreto legge, dovremo aspettare il 2019 per vedere gli avanzi finalmente liberi: un peccato, perché di fatto si perderà un anno di tempo
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2018).

APPALTIAppalti in versione elettronica entro il 18 ottobre.
Il passaggio alla versione elettronica degli appalti sarà completo entro il 18.10.2018. Data a partire dalla quale sarà possibile presentare le offerte elettronicamente a tutte le amministrazioni aggiudicatrici dell'Ue attraverso il documento di gara unico europeo (Dgue).
Le amministrazioni aggiudicatrici sono invitate a suddividere i contratti in lotti in maniera da facilitare la partecipazione delle Pmi alle procedure di appalto pubblico. Sono comunque libere di non effettuare tale suddivisione. Tuttavia in tal caso devono motivare la loro scelta.

È quanto si legge nella guida sugli appalti pubblici redatta dalla commissione Ue in vista della partenza il prossimo 18 ottobre del documento di gara unico europeo.
Il documento di gara unico europeo consente agli operatori economici di autodichiarare elettronicamente di soddisfare le condizioni richieste per partecipare a una procedura di appalto pubblico.
Soltanto l'aggiudicatario è tenuto a fornire prove documentali complete. In futuro, potrebbe essere eliminato anche questo obbligo qualora tali prove possano essere collegate elettronicamente alle banche dati nazionali.
A partire dal 18.10.2018, al più tardi, un operatore economico potrebbe non dover più fornire documenti amministrativi complementari nel caso in cui l'amministrazione aggiudicatrice possieda già tali documenti.
Il ricorso agli appalti elettronici rende la procedura più trasparente, riduce l'interazione sleale tra i funzionari responsabili degli appalti e gli operatori economici e facilita l'individuazione di irregolarità e corruzione grazie a piste di controllo trasparenti
(articolo ItaliaOggi del 15.08.2018).

TRIBUTICorvée per pagare i debiti fiscali. Sì al baratto amministrativo con lavori socialmente utili. A dare il via libera il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico del Minambiente.
Sì al baratto amministrativo per pagare il fisco con lavori socialmente utili finalizzati al decoro urbano. Si potrà tagliare l'erba nei parchi, pulire le strade, prestare opere di manutenzione o recuperare e riqualificare aree e beni immobili inutilizzati. Non potrà tuttavia essere utilizzato per iniziative di carattere imprenditoriale, quali la realizzazione e la gestione di chioschi o ristoranti o altre attività a pagamento, su aree verdi pubbliche di proprietà del comune.
Questo è l'importante principio che emerge dalla lettura della deliberazione 14.05.2018 n. 27 del comitato per lo sviluppo del verde pubblico del Ministero dell'ambiente circa la possibilità offerta ai cittadini di saldare i propri debiti con il fisco mettendosi a disposizione dell'ente locale attraverso il baratto amministrativo. Ma andiamo con ordine.
I funzionari del comitato ricordano che nel nostro ordinamento l'istituto del baratto amministrativo, espressione del fenomeno del partenariato sociale, riconducibile alla più ampia esperienza della sussidiarietà orizzontale (articolo 118, ultimo comma, Costituzione) è stato introdotto dall'articolo 24 del decreto legge del 12.09.2014 n. 133 convertito nella legge 11.11.2014, n. 164 (c.d. «Sblocca Italia»).
In materia, si è pronunciata più volte in sede consultiva la Corte dei conti (Lombardia parere 24.06.2016 n. 172 e parere 06.09.2016 n. 225) precisando che il precetto dell'articolo 190 del dlgs n. 50/2016 ha ripreso in massima parte le espressioni testuali dell'articolo 24 dello Sblocca Italia ma ha completato l'istituto attraendolo «nella materia dei contratti pubblici di partenariato sociale», cosicché deve ritenersi che «l'area di intervento del baratto concerna i servizi strumentali, le iniziative culturali e il recupero dei beni pubblici, e che l'utilità derivante all'amministrazione per la prestazione eseguita non preveda lucro, bensì riduzione o esenzione dei tributi corrispondenti all'attività svolta dal privato o dall'associazione in funzione dell'utilità che ne deriva alla pubblica amministrazione locale».
L'esenzione può essere concessa solo per un periodo di tempo limitato, a seconda del tipo di tributo da pagare e dell'attività di lavoro socialmente utile.
Fattispecie incluse ed escluse dal baratto. I componenti del comitato del verde pubblico, nell'esaminare l'istituto del baratto amministrativo. affermano che lo stesso non può essere attivato dall'ente locale in diretta applicazione dell'articolo 190 del dlgs n. 50/2016. Occorre che ciascun ente territoriale si doti di una specifica regolamentazione a carattere generale che descriva gli specifici interventi sotto forma di riduzione o esenzione del tributo (Tasi, Imu, Tari e in generale estinzione di debenza legate alla fiscalità locale).
Continuano i funzionari che il riferimento alle aree verdi (siano esse giardini, parchi comunali, boschi o semplici spazi di verde abbandonati o no) contenuto nell'articolo 190 del dlgs n. 50/2016, porta a ritenere, in coerenza con lo spirito della norma, che gli interventi possano consistere in pulizia, manutenzione, abbellimento valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere.
Interventi, cioè, riconducibili, in senso lato al decoro urbano o alla cultura mentre esulano dal baratto amministrativo iniziative di carattere imprenditoriale, quali la realizzazione e gestione di chioschi o ristoranti o altre attività a pagamento, su aree verdi pubbliche.
Bilanci di previsione. Nella delibera in commento, i funzionari ministeriali invitano l'ente locale a stimare in anticipo la minore entrata dovuta alla riduzione o esenzione della tassa locale già in sede di bilancio di previsione ai fini del mantenimento degli equilibri economici.
Andranno, quindi, prestabiliti nei regolamenti e conseguentemente nei bilanci di previsione dei singoli anni, i limiti d'importo entro cui l'ente territoriale intende accettare interventi su beni comuni, rinunciando al credito tributario. Occorre, dunque, pianificare gli interventi suscettibili di baratto amministrativo, in termini di spesa ad essi destinati, da quantificare in termini di ridotte entrate fiscali, individuando i tributi su cui calcolare la minore entrata
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIAEco-reati, delineati i confini. Chi aggrava il danno può rispondere di inquinamento. Il punto sulla giurisprudenza a tre anni dall’entrata in vigore della legge 68/2015.
Può essere chiamato a rispondere del delitto di inquinamento ambientale anche chi aggrava il danno che già affligge una matrice ambientale, così come della più grave fattispecie di disastro ambientale chi, danneggiando l'ecosistema, mette in pericolo l'incolumità pubblica. A distanza di poco più di tre anni dall'entrata in vigore dei nuovi eco-delitti previsti dalla legge 68/2015 sono le diverse pronunce della Suprema corte di cassazione già in materia stratificatesi a tracciare i confini operativi delle fattispecie introdotte direttamente nel codice penale.
Inquinamento e disastro ambientale. I delitti in parola (articoli 452-bis e 452-quater, reclusione fino a 6 e 15 anni) costituiscono le fattispecie cardine dei nuovi delitti previsti dal titolo VI-bis del codice penale, in vigore dal 29.05.2015, alle quali si affiancano in virtù della citata legge 68/2015 quelle della morte/lesioni conseguenza di inquinamento ambientale (452-ter), traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività (452-sexies), impedimento del controllo (452-septies), omessa bonifica (452-terdecies).
Il delitto di inquinamento ambientale consiste nella abusiva compromissione o nel deterioramento significativi e misurabili di: acque, aria; porzioni estese e significative suolo o sottosuolo; ecosistema, biodiversità, flora o fauna. Il delitto di disastro ambientale previsto dall'articolo 452-quater del codice penale punisce chi, fuori dai casi ex articolo 434 c.p. (lo storico delitto di «inquinamento innominato»), abusivamente cagiona alternativamente: un'alterazione dell'equilibrio dell'ecosistema irreversibile o con eliminazione particolarmente onerosa tramite provvedimenti eccezionali; una rilevante offesa pubblica incolumità (per estensione della compromissione cagionata, effetti lesivi o numero persone offese/esposte a pericolo). Sulla portata degli elementi oggettivi delle due ultime fattispecie hanno fatto luce le diverse pronunce della Corte di cassazione.
L'abusività della condotta. Con relazione dell'Ufficio massimario 29.05.2015 la Cassazione ha precisato che è da considerarsi abusiva: la condotta non autorizzata; l'attività posta in essere con inosservanza di prescrizioni e limiti imposti da titoli validi o in presenza di atti scaduti; l'agire solo formalmente ed esteriormente corrispondente a una prescrizione normativa o a una autorizzazione, ma di fatto incongruente rispetto alle finalità da queste perseguite. Mediante la sentenza 46170/2016, il giudice di legittimità ha invece ritenuto «abusiva» la condotta posta in essere in violazione di leggi statali o regionali e prescrizioni amministrative anche non direttamente vertenti in materia ambientale.
Attraverso la sentenza 52436/2017 relativa all'inquinamento provocato attraverso l'attività di depurazione di acque la Corte ha rilevato la sussistenza dell'abusività della condotta per aver l'imputato agito nonostante un provvedimento di diniego dell'autorizzazione funzionalmente richiesta. Sempre in quanto abusiva, con la recente sentenza 28732/2018 la Corte ha ritenuto rilevante ai fini dell'integrazione del delitto in questione la condotta di colui che effettua un prelievo d'acqua pubblica senza il provvedimento autorizzativo o concessorio dell'Autorità competente ex articolo 17, regio decreto 1775/1933.
Compromissione e deterioramento dell'ambiente. Con sentenza 46170/2016 la Cassazione ha sottolineato come la compromissione coincida con uno squilibrio «funzionale» della matrice ambientale, poiché incide sui suoi normali processi naturali, mentre il deterioramento è da considerarsi uno squilibrio strutturale che comporta il vero e proprio decadimento di stato o di qualità dell'eco-sistema. Con la pronuncia 10515/2017, relativa all'inquinamento di due corsi d'acqua con moria di fauna ed incidenza sullo stato di salute di persone, la Cassazione ha riconosciuto che il deterioramento e la compromissione rilevano anche quando tali eventi interessano elementi naturali che sono già in parte stati dagli stessi eventi interessati.
Significatività e misurabilità del danno. Per la sentenza 46170/2016 della Cassazione le condizioni di significatività e misurabilità indicano rispettivamente la necessità che il danno sia (in termini di incisività) rilevante ed altresì oggettivamente rilevabile.
Le matrici interessate. La sentenza 46170/2016 del giudice di legittimità ha rilevato come un parametro dimensionale minimo di inquinamento sia chiesto solo per suolo e sottosuolo, ma non per le altre matrici.
Lo storico reato di «disastro innominato». In base alla sentenza 58023/2017 della Suprema corte la clausola di riserva a favore del delitto di «disastro innominato» ex art. 434 c.p. è funzionale alla salvaguardia dei processi in corso commessi sotto tale fattispecie prima dell'entrata in vigore del neo delitto di disastro ambientale ex articolo 452-quater c.p. Quest'ultima disposizione, rispetto alla prima, non costituisce una ipotesi di nuova incriminazione, essendo il disastro ambientale già punito, ma solo una specializzazione della stessa, con l'introduzione di elementi ulteriori.
L'irreversibilità dell'alterazione. In base alla citata Relazione 29.05.2015 l'«irreversibilità» dell'alterazione ambientale va valutata in senso relativo. Per cui sussiste anche quando l'inversione di tendenza necessita di un ciclo temporale molto più ampio dell'agire umano.
L'offesa della pubblica incolumità. Con la sentenza 29901/2018, relativa a una fattispecie di abusivismo edilizio la Corte ha sottolineato come, nel contesto della nuova figura di «disastro ambientale», l'elemento dell'offesa alla pubblica incolumità deve necessariamente ritenersi riferita a comportamenti comunque incidenti sull'ambiente, rispetto ai quali il pericolo per l'integrità del pubblico è una diretta conseguenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.08.2018).

EDILIZIA PRIVATACondizionatori? Senza fretta. Sotto esame divieti e obblighi del regolamento condominiale. L’installazione dell’impianto comporta immissioni e problemi di decoro, da valutare bene.
Casa fresca d'estate, ma rispettando le regole del buon vicinato. Il condizionatore è uno dei tipici acquisti della stagione calda, quando le temperature cominciano a diventare insopportabili. L'installazione del condizionatore può però comportare dei problemi per i vicini e per i passanti. Infatti il compressore, oltre a emettere rumore, produce anche vapore d'aria calda e stillicidio di acqua.
Inoltre, in mancanza di un balcone, il compressore viene montato il più delle volte sulla facciata dell'edificio, con evidenti problematiche in tema di decoro architettonico e rispetto del regolamento edilizio e condominiale. Vediamo allora quali sono le accortezze che possono garantire un'installazione corretta e rispettosa degli interessi dei terzi.
L'installazione. La prima questione da affrontare quando si acquista un condizionatore è quella di trovare uno spazio adeguato nel quale collocare l'unità del compressore d'aria, la cui grandezza aumenta proporzionalmente alla potenza dell'impianto. Di norma, il motore viene posizionato sul balcone dell'appartamento, in modo da non creare disturbo.
Nel caso in cui manchi il balcone l'unità esterna dovrà necessariamente essere installata sulla facciata dell'edificio. In questo caso occorre che l'installazione sia eseguita senza recare danno alle parti comuni dello stabile. La giurisprudenza, con riferimento ai condizionatori, ha precisato che deve intendersi per danno alle cose comuni anche il pericolo, purché attuale e non solo ipotetico, connesso al rischioso funzionamento o alla realizzazione imperfetta di un impianto.
Il decoro architettonico. L'installazione del compressore sui muri perimetrali del condominio non deve poi ledere il decoro architettonico dell'edificio. La disciplina si ricava dal disposto dell'art. 1102 c.c., ai sensi del quale ciascun condomino può servirsi delle parti comuni e apportare a proprie spese le variazioni necessarie per il miglior godimento del bene, purché non impedisca agli altri comproprietari di farne pari uso.
Occorre però anche tenere conto del successivo art. 1120 c.c., in tema di innovazioni, che impone ai condomini il rispetto delle condizioni statiche dell'edificio e del decoro architettonico. Con quest'ultimo concetto si intende l'estetica dell'edificio nel suo complesso, data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante e che imprimono alle varie parti dell'immobile, nonché al suo insieme, una determinata e armonica fisionomia. Per quanto sopra, se difficilmente un condizionatore potrà alterare le condizioni statiche dell'edificio, più probabile è invece la possibile alterazione del decoro architettonico.
Infatti la giurisprudenza ha per esempio precisato che un voluminoso corpo estraneo sporgente, quale è un condizionatore d'aria di grandi dimensioni, installato da un condomino, altera certamente l'aspetto e il valore estetico della facciata di uno stabile e, quindi, l'impianto in casi del genere deve essere rimosso. Per i condizionatori di dimensioni più contenute sarà invece necessario valutare caso per caso.
Tuttavia è da segnalare una sentenza con cui il tribunale di Milano nel recente passato aveva negato a priori la possibilità di installare un condizionatore sulla facciata di un edificio, ritenendo detto impianto di per sé lesivo del decoro architettonico. Solitamente, però, il relativo accertamento viene condotto dal giudice di merito mediante l'ausilio di un consulente tecnico d'ufficio e quindi con una valutazione specifica del caso concreto.
Il regolamento condominiale. Il regolamento di condominio può contenere clausole che vietino qualsiasi opera che, anche senza arrecare un pregiudizio all'edificio, sia tale da modificarne l'estetica. Tuttavia una simile clausola, che comprime l'esercizio connesso al diritto di proprietà esclusiva, è di natura contrattuale e di conseguenza perché sia valida dovrebbe essere accettata da tutti i condomini, non essendo sufficiente la sola maggioranza (quindi dovrebbe essere contenuta nel regolamento predisposto dall'originario costruttore o risultare da una delibera assembleare approvata con i mille millesimi di proprietà).
Ma spesso i regolamenti condominiali prevedono anche l'obbligo di previa comunicazione all'amministratore delle modifiche che i condomini intendono apportare alle parti comuni dell'edificio oppure l'obbligo di subordinare i lavori alla preventiva accettazione da parte dell'assemblea. In casi del genere, valutando caso per caso la legittimità della clausola regolamentare, la violazione del procedimento previsto dal regolamento condominiale legittima i condomini ad agire in giudizio per chiedere la rimozione del condizionatore, nonché il risarcimento dei danni.
Occorre poi ricordare come il nuovo art. 1122 c.c., modificato dalla legge n. 220/2012 di riforma del condominio, abbia previsto l'onere del condomino di informare l'amministratore condominiale anche nei casi in cui si appresti a effettuare interventi sulle parti di proprietà esclusiva o su quelle comuni di sua proprietà o utilizzo esclusivo (fermo restando che anche tali opere non sono comunque ammesse qualora possano recare danno alle parti comuni o pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio).
La previa informativa all'amministratore è finalizzata a fare in modo che quest'ultimo possa avvertire per tempo l'assemblea, la quale potrebbe per esempio chiedere al condomino di valutare differenti modalità di realizzazione dell'intervento che possano evitare o attutire i disagi temuti dagli altri comproprietari.
I regolamenti edilizi. Un ulteriore limite all'installazione del condizionatore sulle pareti perimetrali dell'edificio può derivare poi dal regolamento edilizio comunale. Infatti gli enti locali, nell'ambito della propria autonomia statutaria e normativa, sono tenuti a disciplinare l'attività edilizia che si svolge sul proprio territorio, includendo nel regolamento norme in materia di decoro architettonico che possono riguardare anche le facciate degli edifici e quindi l'installazione su di esse di impianti di climatizzazione. È quindi consigliabile chiedere informazioni preventive anche all'ufficio tecnico comunale prima di impegnarsi in lavori del genere.
Le immissioni. Il motore del condizionatore, che deve essere collocato necessariamente all'esterno dell'edificio per il suo funzionamento, produce una serie di immissioni, quali il rumore, lo stillicidio d'acqua dovuto alla condensa e getti di vapore d'aria calda. Per questo motivo l'installazione dell'apparecchio deve avvenire nel rispetto delle norme previste dal codice civile a tutela della proprietà.
In casi del genere trova applicazione l'art. 844 c.c., che vieta le immissioni di fumo, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e altre simili propagazioni qualora superino la normale tollerabilità. Il limite oltre il quale le immissioni si ritengono non tollerabili è relativo e si deve valutare in relazione al caso concreto e al luogo in cui le immissioni si propagano e non a quello da cui derivano. Per quanto riguarda il rumore, in particolare, la giurisprudenza ha adottato il cosiddetto criterio comparativo, in base al quale si presume tollerabile il rumore che non superi i tre decibel rispetto al rumore di fondo della zona senza disturbi.
Ciò premesso, si può affermare che la normale tollerabilità si riferisca a immissioni di modesta entità, tenuto conto degli interessi opposti e dei rapporti di buon vicinato. Inoltre è bene precisare che se l'impianto di climatizzazione è troppo rumoroso si rischia anche una condanna per disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone.
Infatti la Suprema corte ha in proposito sottolineato che, per la sussistenza della contravvenzione prevista dal primo comma dell'art. 659 c.p., è sufficiente la dimostrazione che la condotta posta in essere dall'agente sia tale da poter disturbare il riposo e le occupazioni di un numero indeterminato di persone, anche se una sola di esse si sia in concreto lamentata.
Non si potrà quindi installare all'esterno un condizionatore troppo rumoroso ove questo arrechi disturbo ai vicini. Ma se il rumore emesso dall'impianto è percepito in misura inferiore ai tre decibel, lo stesso rientrerà nella normale tollerabilità e il vicino non potrà opporsi all'utilizzo dell'apparecchio
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.08.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIDebiti fuori bilancio, la Corte dei Conti riapre al pagamento prima del riconoscimento in consiglio.
Il tema del riconoscimento, finanziamento e pagamento dei debiti fuori bilancio che derivano da provvedimenti giudiziari esecutivi (sentenze e decreti ingiuntivi) continua a essere al centro dell'attività consultiva della Corte dei conti.
Ciò dovrebbe avvantaggiare gli enti locali, se non fosse che la magistratura contabile è intervenuta più volte, nel giro di poco tempo, con indicazioni discordanti che finiscono, invece, per generare un vero e proprio caos amministrativo.
I precedenti
Mentre con il parere 10.01.2018 n. 2 della sezione di controllo della Campania (si veda il Quotidiano enti locali e della Pa del 31 gennaio) si era aperta la strada al pagamento del debito prima dell'approvazione della deliberazione di riconoscimento da parte del consiglio, il successivo parere 22.02.2018 n. 29 della sezione Puglia (si veda il Quotidiano enti locali e della Pa del 14 marzo) aveva all'opposto escluso la possibilità di discostarsi dalle prescrizioni degli articoli 193 e 194 del Tuel che impongono la preventiva e tempestiva adozione della delibera consiliare di riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, garantendo così una maggiore efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell'ente locale.
La decisione dei giudici liguri
Con il più recente parere 22.03.2018 n. 73, la sezione Liguria cambia –di nuovo– diametralmente interpretazione ritenendo che, salvo comunque l'obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento di riconoscimento, sia possibile procedere al pagamento dell'obbligazione (sorta fuori bilancio) derivante dal provvedimento giurisdizionale esecutivo anche prima della deliberazione consiliare ricognitiva.
Le coordinate ermeneutiche seguite tracciano un percorso di coerenza con il principio di economicità dell'azione amministrativa e con l'interesse pubblico volto a evitare inutili sprechi di danaro pubblico.
Più in particolare, secondo il giudice del controllo ligure, nei casi di ostacoli alla tempestiva adozione della deliberazione consiliare (per mancanza del numero legale prima della votazione finale, non immediata tempistica di convocazione o di istruttoria dell'atto deliberativo, limiti normativi alla gestione del bilancio e alle relative variazioni in caso di esercizio provvisorio o gestione provvisoria, eccetera), l'iter ordinario di riconoscimento risulta inidoneo a scongiurare il rischio di maggiori pregiudizi economici a carico dell'ente (specie in ipotesi, ad esempio, di perdita di agevolazioni accordate dal creditore –come una dilazione o la rinuncia/riduzione degli interessi– se il pagamento avviene entro un prefissato termine).
In questa prospettiva, allora, la soluzione affermativa al pagamento del debito prima dell'intervento consiliare passerebbe proprio attraverso l'interpretazione (funzionale) delle stesse norme vigenti, le quali, nell'ispirare i canoni dell'azione amministrativa volti alla rapida adozione della deliberazione di riconoscimento, sottendono quelle medesime esigenze di evitare danni patrimoniali rinvenibili dal mancato o tardivo pagamento del provvedimento giurisdizionale esecutivo.
I requisiti tecnico-finanziari
I magistrati contabili della Liguria precisano, inoltre, i requisiti tecnico-finanziari al ricorrere dei quali è consentito effettuare il pagamento del debito prima del passaggio consiliare.
In primo luogo, l’evenienza è ammessa laddove, in considerazione dell'oggetto della spesa cui si riferisce l'obbligazione perfezionata con il provvedimento del giudice, sussista già un pertinente e capiente stanziamento di bilancio.
Secondariamente, anche in assenza/incapienza di apposita copertura finanziaria, il pagamento anticipato del debito per evitare aggravi di spesa è concesso ricorrendo alle disponibilità individuate attraverso l'esercizio dei poteri di variazione del bilancio spettanti in via ordinaria agli altri organi dell'ente (ossia la giunta e i responsabili finanziari o della spesa).
Si sottolinea che, in questi casi, posta la peculiarità del debito da riconoscere, la sottoposizione all'esame del consiglio in un momento successivo al pagamento del debito lascia nondimeno inalterati i poteri e i margini di valutazione che competono a detto organo, che potrà esercitarli con uguali modalità nonché pari efficacia e rilevanza.
L'approccio interpretativo assunto dalla sezione ligure privilegia una lettura sostanziale del quadro normativo di riferimento, rispetto al formalismo giuridico accolto dal precedente indirizzo giurisprudenziale.
Per dirimere il contrasto giurisprudenziale, sarebbe opportuna una pronuncia di orientamento della sezione delle Autonomie della Corte dei conti, per l'affermazione di un principio di diritto univoco a cui tutte le sezioni regionali debbano conformarsi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIPassività da sentenze da pagare subito. In questo modo non generano debiti fuori bilancio.
I debiti fuori bilancio sono una preoccupante patologia dei bilanci (e degli equilibri) degli enti locali, in quanto sorgono da obbligazioni nei confronti di terzi assunte senza aver preventivamente adottato un provvedimento di impegno spesa.
La fattispecie del debito fuori bilancio derivante da sentenze, è nell'ambito di tale fenomeno patologico di spesa quella più ricorrente ed è connotata dall'assenza totale dell'elemento volitivo.
Secondo un approccio maggiormente analitico (in un'epoca dove le transazioni erano trattate ancora come debiti fuori bilancio), il dlgs n. 77/1995 prevedeva, tra le casistiche di debito fuori bilancio, non solo le sentenze immediatamente esecutive, ma anche le sentenze passate in giudicato.
Oggi, generalizzando il dettato normativo, il dlgs n. 267/2000 (Tuel), alla lettera a) del comma 1 dell'art. 194 fa riferimento alle sole sentenze esecutive senza ulteriori distinzioni.
Questa genericità rende però di fatto difficile indicare un preciso percorso a cui dovrebbe attenersi l'ente locale nelle individuazione del debito fuori bilancio da sentenze, non solo sotto il profilo tipologico ma anche sotto quello dei tempi e dei modi del procedimento giurisdizionale.
Al fine di precostituire, in tutto o in parte, le occorrenze finanziarie necessarie per la copertura delle spese derivanti da sentenze esecutive, in senso lato, il legislatore dell'armonizzazione al principio contabile 4/2, punto 5.2, lettera h), ha introdotto nell'ordinamento l'istituto del fondo rischi contenzioso, ascrivendolo nella categoria delle spese potenziali e allocandolo nella missione 20 (cfr. artt. 167 e 176 del Tuel).
La presenza o meno di un accantonamento al fondo rischi contenzioso rispetto alla necessità di attivazione delle procedure previste dall'art. 194 è oggetto di disquisizione da almeno un biennio.
In linea con un approccio più contabilistico, la Corte dei conti Lombardia nel parere 06.10.2017 n. 265 ha affermato che non si è nell'ipotesi di debito fuori bilancio da sentenza quando è avvenuto l'accantonamento nel fondo rischi contenzioso e questo e sufficiente.
In senso opposto, la Corte dei conti Campania, nel parere 08.11.2017 n. 249, ha affermato che la procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio deve essere attivata anche in presenza di accantonamento al fondo rischi contenzioso.
In linea invece con la Corte lombarda, Arconet nel corso della riunione del 30.03.2016, aveva già precisato che le obbligazioni passive perfezionate a seguito di sentenze passate in giudicato se impegnate nelle scritture contabili dell'ente entro i termini previsti per il pagamento non generano debiti fuori bilancio; si formano, invece, debiti fuori bilancio qualora gli impegni non vengono registrati tempestivamente.
Chi scrive, pur condividendo un approccio più marcatamente contabilistico («debito fuori bilancio è solo ciò che non è previsto o accantonato in bilancio»), suggerisce di procedere tempestivamente all'impegno e al pagamento delle spese derivanti da sentenze, decreti ingiuntivi, pignoramenti ecc., prescindendo dalla eventualmente necessaria (preventiva o successiva) procedura di riconoscimento ex art. 194 del Tuel.
E ciò indipendentemente dalla tesi sposata dall'ente locale, il tutto evitando di assumere la decisione con intento elusivo rispetto alla obbligatoria comunicazione alla procura della Corte dei conti
(articolo ItaliaOggi del 16.03.2018).

GIURISPRUDENZA

VARITelecamere col sì dei sindacati. Al datore di lavoro non basta il via libera dei dipendenti. Cassazione: reato estinto se si smonta l’impianto e si paga la sanzione amministrativa.
Scatta la condanna penale per il datore se installa una telecamera che riprende i dipendenti all’opera anche quando la realizzazione dei video è giustificata da esigenze di sicurezza. E ciò anche se i gli interessati sono d’accordo e hanno fornito il loro assenso scritto
Il consenso dei dipendenti alle videoriprese non basta. Scatta la condanna penale per il datore se installa una telecamera che riprende i dipendenti all'opera anche quando la realizzazione dei video è giustificata da esigenze di sicurezza. E ciò anche se gli interessati sono d'accordo e hanno fornito il loro assenso scritto: l'apparecchio che potenzialmente può controllare a distanza i dipendenti, infatti, può essere autorizzato solo dall'accordo con i sindacati o dalla direzione territoriale del lavoro, mentre il consenso degli interessati non può scriminare l'imprenditore perché i lavoratori sono «soggetti deboli» del rapporto subordinato. Il tutto anche dopo l'entrata in vigore del Jobs act. Ma attenzione: il reato è estinto se il datore obbedisce alle prescrizioni degli ispettori smontando l'impianto e pagando la sanzione amministrativa.

È quanto emerge dalla sentenza 24.08.2018 n. 38882 e sentenza 24.08.2018 n. 38884 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
Precedente contrario. Cominciamo dalla 38882/18. Confermata l'ammenda al titolare del bar che dallo schermo lcd monitora tutti i luoghi dove i lavoratori svolgono mansioni. E ciò anche se il sistema di videocamere risulta installato per l'incolumità delle persone e la tutela del patrimonio aziendale: una dipendente è stata aggredita da ragazzi ubriachi e si sono verificati furti nel locale.
Il punto è che l'impianto anche solo potenzialmente controlla a distanza i dipendenti: il reato si configura pure quando le telecamere restano spente. Per autorizzarle la legge ha scelto una procedura codeterminativa, vale a dire l'accordo coi sindacati, che è collettivo, o il placet dell'organo pubblico: è indiscutibile la maggiore forza economico-sociale dell'imprenditore, basterebbe farsi firmare dai lavoratori il consenso all'atto dell'assunzione per introdurre qualsiasi tecnologia di controllo.
Insomma: l'iter non può essere derogato dal consenso dei lavoratori, nonostante una sentenza di segno opposto, la 22611/2012.
Estinzione estesa. Chiudiamo con la 38884/18. Il ricorso del pubblico ministero è bocciato perché il datore si salva con l'estinzione in via amministrativa che il dlgs 124/2004 ha esteso a tutte le ipotesi di reato previste dalle leggi in materia di lavoro e legislazione in cui è prevista la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda oppure soltanto quest'ultima
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2018).

APPALTI: Differenza tra le ipotesi di esclusione dalla gara prevista dalle lett. c) e f-bis) del comma 5 dell’art. 80 del Codice dei contratti pubblici.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Ipotesi ex lett. c) e f bis) del comma 5 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 – Differenza - Individuazione.
Le ipotesi espulsive individuate dalle lett. c) e f-bis del comma 5 dell’art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 si differenziano in senso sostanziale, atteso che nell’ipotesi di cui al comma 5, lett. c), la valutazione in ordine alla rilevanza in concreto ai fini dell’esclusione dei comportamenti accertati è rimessa alla stazione appaltante, mentre nel caso del comma 5, lett. f-bis), l’esclusione dalla gara è atto vincolato, discendente direttamente dalla legge, che ha la sua fonte nella mera omissione da parte dell’operatore economico (1).
---------------
   (1) Giova premettere che all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 l’adozione di una misura espulsiva qualora “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
La successivo lett. f-bis dello stesso comma 5 correla l’applicazione della suddetta sanzione dell’esclusione della gara al fatto de “l'operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”.
Ha chiarito la Sezione che fermo restando che, da un punta di vista strutturale, anche l’omessa dichiarazione può concretare un’ipotesi di dichiarazione non veritiera, il discrimen tra le due fattispecie sembra doversi incentrare sull’oggetto della dichiarazione, che assumerà rilievo, ai sensi e per gli effetti di cui alla lett. f-bis), nei soli casi di mancata rappresentazione di circostanze specifiche, facilmente e oggettivamente individuabili e direttamente qualificabili come cause di esclusione a norma della disciplina in commento, ricadendosi altrimenti –alle condizioni previste dalla corrispondete disposizione normativa- nella previsione di cui alla fattispecie prevista al comma 5, lett. c) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.08.2018 n. 5040 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
4.2.
Il codice di contratti, per quanto di più diretto interesse, impone, all’articolo 80, comma 5, lettera c), l’adozione di una misura espulsiva qualora “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
Il successivo comma f-bis correla l’applicazione della suddetta sanzione dell’esclusione della gara al fatto de “l'operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”.
Com’è noto,
l’art. 80, co. 5, sopra trascritto si pone a presidio dell'esigenza di verificare l'affidabilità morale e professionale dell'operatore economico che andrà a contrarre con la p.a.
La declinazione applicativa dei suindicati principi regolatori ha trovato chiara esplicazione nelle linee guida all’uopo confezionate dall’ANAC, che, al punto 4.2., precisano, tra l’altro, che “
la sussistenza delle cause di esclusione in esame deve essere autocertificata dagli operatori economici mediante utilizzo del DGUE. La dichiarazione sostitutiva ha ad oggetto tutti i provvedimenti astrattamente idonei a porre in dubbio l’integrità o l’affidabilità del concorrente, anche se non ancora inseriti nel casellario informatico. È infatti rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il giudizio in ordine alla rilevanza in concreto dei comportamenti accertati ai fini dell’esclusione".
Quanto poi alle possibili ricadute si è ulteriormente chiarito in giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Sez. IV n. 703 del 2018) che,
in alcuni casi, la violazione degli obblighi dichiarativi refluisce nella categoria del cd. illecito professionale di cui all’art. 80, comma 5, lett. c) che, come noto, annovera, tra le altre, anche la seguente fattispecie “il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento delle procedure di selezione”. In siffatta evenienza, l’accertamento del presupposto necessita di una adeguata valutazione e di una congrua motivazione da parte della stazione appaltante.
Al contempo,
l’art. 80 cit., alla lettera f-bis), prevede che le stazioni appaltanti escludono “l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”.
Come evidenziato dal CdS, in sede di parere (numero 2042/2017), licenziato a seguito dell’Adunanza del 14.09.2017,
la differenza tra le due ipotesi è sostanziale, atteso che, nell’ipotesi di cui al comma 5, lett. c), la valutazione in ordine alla rilevanza in concreto ai fini dell’esclusione dei comportamenti accertati è rimessa alla stazione appaltante, mentre nel caso del comma 5, lett. f-bis), l’esclusione dalla gara è atto vincolato, discendente direttamente dalla legge, che ha la sua fonte nella mera omissione da parte dell’operatore economico.
Fermo restando che, da un punta di vista strutturale, anche l’omessa dichiarazione può concretare un’ipotesi di dichiarazione non veritiera, il discrimen tra le due fattispecie sembra doversi incentrare sull’oggetto della dichiarazione, che assumerà rilievo, ai sensi e per gli effetti di cui alla lettera f-bis), nei soli casi di mancata rappresentazione di circostanze specifiche, facilmente e oggettivamente individuabili e direttamente qualificabili come cause di esclusione a norma della disciplina in commento, ricadendosi altrimenti –alle condizioni previste dalla corrispondete disposizione normativa- nella previsione di cui alla fattispecie prevista al comma 5, lettera c).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare, con ricorso incidentale, l’ammissione in gara del ricorrente principale.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorrente incidentale – Impugnazione ammissione alla gara del ricorrente principale – Dies a quo – Dalla conoscenza del provvedimento di ammissione pubblicato sul profilo del committente.
Il dies a quo per proporre il ricorso incidentale avverso l’ammissione alla gara del ricorrente principale decorre dalla conoscenza del provvedimento di ammissione pubblicato sul profilo del committente e non, in applicazione del principio dettato dall’art. 42, comma 1, c.p.a., dalla notifica del ricorso principale (1).
---------------
Contra Cons. St., sez. III, 27.03.2018, n. 1902.
Ha chiarito la Sezione che il termine (di trenta giorni) per la proposizione del ricorso incidentale, da parte del concorrente che, nel quadro del rito di cui all’art. 120, comma 2-bis c.p.a., ha subito in prevenzione l’impugnazione di altro concorrente della propria ammissione al prosieguo della gara (e che intenda far valere l’estromissione del ricorrente principale) decorra non –come nella fattispecie del ricorso incidentale ordinario di cui all’art. 42 c.p.a..- dalla ricevuta notifica del ricorso principale (che, nella ipotesi generale, attiva e fa insorgere l’interesse ad agire), ma dalla conoscenza, nelle forme legali, dell’avvenuta ammissione del ricorrente principale.
La conclusione –che si discosta dal precedente di Cons. St., sez. III, 10.11.2017, n. 5182– conferma la riflessione della dottrina che ha messo in luce le implicazioni, sul piano operativo, del rito superaccelerato sul regime del c.d. ricorso incidentale escludente.
In particolare, la presunzione assoluta di insorgenza immediata dell’interesse a ricorrere, che discende dall’onere di immediata impugnazione dell’art. 120, comma 2-bis, di suo conduce non solo alla successiva non configurabilità di un ricorso incidentale escludente a valle dell’impugnazione principale dell’aggiudicazione, com’è testualmente detto allo stesso comma 2-bis, penultimo periodo («L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale»); ma anche alla non configurabilità di analogo strumento, in senso proprio, come risposta a un ricorso immediato avverso l’altrui ammissione proposto in base al comma 2-bis, primo periodo, seconda parte.
Infatti, l’interesse a proporre un ricorso incidentale sorge soltanto per effetto dell’avvenuta proposizione del ricorso principale (art. 42, comma 1, c.p.a..: «Le parti resistenti e i controinteressati possono proporre domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale, a mezzo di ricorso incidentale»).
Qui la presunzione assoluta e generalizzata di interesse a ricorrere per tutti i concorrenti anticipa figurativamente questa insorgenza dell’interesse a ricorrere “escludente” al momento ufficiale della conoscenza di quell’ammissione.
Sicché la medesima ragione che preclude una reiterazione nel tempo dell’interesse a ricorrere, che si è vista per il primo ricorso, preclude una reiterazione per quello che altrimenti sarebbe un ricorso incidentale. Anche per l’impresa di cui si contesta la legittimazione alla gara opera da subito la presunzione di interesse a contestare in giudizio l’ammissione dell’impresa che muove questa contestazione. In forza della presunzione, simile, simmetrico e simultaneo è il loro interesse alla reciproca esclusione: e questo, per virtuale che sia, tiene ormai luogo di ogni altra effettiva, successiva insorgenza di utilità a quei medesimi riguardi.
In termini pratici segue che l’impresa che immagina un’altrui contestazione della propria legittimazione alla gara dispone, per muovere una simmetrica contestazione in giustizia, dello stesso termine di trenta giorni per ricorrere e dal medesimo dies a quo. E il suo –se segue l’altro- non sarà comunque un ricorso incidentale, ma un ricorso formalmente autonomo: anche se, appunto, in risposta a un ricorso senza il quale non lo avrebbe mosso e comunque a quello stesso connesso.
La Sezione ha rinvenuto una ulteriore conferma alla correttezza delle proprie conclusioni nella sentenza dell’Adunanza plenaria 26.04.2018, n. 4, la quale ha chiarito:
   a) che l’omessa attivazione del rimedio processuale entro il termine di trenta giorni preclude al concorrente non solo la possibilità di dedurre le relative censure in sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, ma anche di paralizzare, mediante lo strumento del ricorso incidentale, il gravame principale proposto da altro partecipante avverso la sua ammissione alla procedura;
   b) che una diversa lettura non potrebbe trarre contrario argomento dal comma 6-bis dell’art. 120 cit. («La camera di consiglio o l’udienza possono essere rinviate solo in caso di esigenze istruttorie, per integrare il contraddittorio, per proporre motivi aggiunti o ricorso incidentale») che, nel contemplare espressamente la possibilità di proporre ricorsi incidentali, potrebbe far propendere, a una prima lettura, per la permanenza del potere di articolare in sede di gravame incidentale, vizi afferenti l’ammissione alla gara del ricorrente principale anche dopo il decorso del termine fissato dal comma 2-bis.
Invero, in senso contrario, va osservato che detta disposizione si riferisce, in realtà, ai gravami incidentali che hanno ad oggetto non vizi di legittimità del provvedimento di ammissione alla gara, ma un diverso oggetto (es. lex specialis ove interpretata in senso presupposto dalla ricorrente principale): diversamente opinando, si giungerebbe alla conclusione non coerente con il disposto di cui al comma 2-bis di consentire l’impugnazione dell’ammissione altrui oltre il termine stabilito dalla novella legislativa.
Per tal via si violerebbe il comma 2-bis e la ratio sottesa al nuovo rito specialissimo che, come sottolineato in sede consultiva dal Consiglio di Stato (parere n. 782/2017 sul decreto correttivo al Codice degli appalti pubblici) è anche quello di “neutralizzare per quanto possibile […] l’effetto “perverso” del ricorso incidentale (anche in ragione della giurisprudenza comunitaria e del difficile dialogo con la Corte di Giustizia in relazione a tale istituto)” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.08.2018 n. 5036 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ancora alla Corte di giustizia Ue l’esclusione dalla gara per grave illecito professionale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Grave illecito professionale – Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2018 – Conseguente risoluzione anticipata di un contratto d’appalto – Esclusione solo se la risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un giudizio – Compatibilità con la disciplina comunitaria – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia UE la questione se il diritto dell’Unione europea e, precisamente, l’art. 57, par. 4, della Direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, unitamente al Considerando 101 della medesima Direttiva e al principio di proporzionalità e di parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale, quale l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n. 50, che, definita quale causa di esclusione obbligatoria di un operatore economico il “grave illecito professionale”, stabilisce che, nel caso in cui l’illecito professionale abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto d’appalto, l’operatore può essere escluso solo se la risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un giudizio (1).
---------------
   (1) La questione era già stata rimessa da Cons. St., sez. V, ord., 03.05.2018, n. 2639.
Ha chiarito la Sezione che la norma interna fa dipendere dalla scelta dell’operatore economico –se impugnare la risoluzione in giustizia– la decisione dell’amministrazione; a fronte di “gravi illeciti professionali” simili, allora, un operatore sarà escluso in quanto non ha proposto impugnazione giurisdizionale della risoluzione e l’altro, per averla proposta, non potrà essere escluso.
I principi di proporzionalità e di parità di trattamento sono principi dei quali gli Stati membri devono tener conto nell’aggiudicazione degli appalti pubblici (Considerando n. 1 e 2 della Direttiva 2014/24/UE; sul principio di parità di trattamento, cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea sentenza 16.12.2008 in causa C-213/07, Michaniki AE).
Ha ricordato la sezione che nella sentenza relativa alla causa C-171/15, Connexxition taxi service in cui la normativa europea rilevante era l’art. 45, par. 2, della Direttiva, 2004/18/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004 la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha affermato: “il diritto dell’Unione, in particolare era l’art. 45, par. 2, della direttiva 2004/18, non osta a che una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, obblighi un’amministrazione aggiudicatrice a valutare, applicando il principio di proporzionalità, se debba essere effettivamente escluso un offerente in una gara d’appalto pubblico che ha commesso un grave errore nell’esercizio della propria attività professionale”.
L’art. 45, par. 2 non era distante dall’attuale formulazione dell’art. 57, par. 4 della Direttiva 2014/24/UE perché prevedeva l’esclusione facoltativa dell’operatore economico “che, nell'esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall'amministrazione aggiudicatrice” (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 23.08.2018 n. 5033 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDocumenti, segretezza da motivare.
L'esistenza di un'indagine penale non implica la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso. E per rendere un atto riservato è sempre necessaria una motivazione che chiarisca le ragioni alla base della segretezza.

È quanto stabilito dal TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 23.08.2018 n. 1737.
Secondo i giudici amministrativi siciliani soltanto gli atti di indagine compiuti dal pm e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 del codice di procedura penale.
Gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, ha chiarito il Tar, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'autorità giudiziaria, con la conseguenza che non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, il diritto di accesso garantito all'interessato dall'art. 22 della legge n. 241/1990, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di esclusione di cui all'art. 24 della medesima legge.
Il Tar Catania ha anche chiarito che per secretare un atto è sempre necessaria una motivazione che faccia comprendere le concrete ragioni (senza alcuna necessità, ovviamente, di divulgazione) per le quali i documenti richiesti siano stati classificati come «riservati», non potendosi ritenere sufficiente il mero rinvio alla normativa regolante la materia, trasfusa nel decreto del presidente del consiglio dei ministri 06.11.2015, n. 5
(articolo ItaliaOggi del 25.08.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti classificati “riservati”.
---------------
Accesso ai documenti - Documenti classificati “riservati” – Motivazione sulla riservatezza – Necessità.
In tema di accesso agli atti di documenti ritenuti riservati, la Prefettura che forma il documento classifica il documento e/o le parti dello stesso da ritenere “Riservato”, attenendosi alle direttive contenute nell’all.to D del d.P.C.M. 12.06.2009, n. 7 o rinvenendo altre assimilabili ipotesi; ciò implica una motivazione puntuale, che faccia comprendere le concrete ragioni (senza alcuna necessità, ovviamente, di divulgazione) per le quali i documenti richiesti siano stati classificati come “riservati”, non potendosi ritenere sufficiente il mero rinvio alla normativa regolante la materia, trasfusa nel d.P.C.M. 06.11.2015, n. 5 (1).
---------------
   (1) Ha aggiunto la Sezione che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990 (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 23.08.2018 n. 1737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
II. Con il provvedimento impugnato, il Prefetto di Catania ha negato l’accesso poiché il “verbale della -OMISSIS- documenti e pareri acquisiti nonché la relazione del Procuratore Generale della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - hanno carattere riservato ai sensi del D.P.C.M. del 06.11.2015 n. 5 recante “Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate a diffusione esclusiva” e, come tali, sono sottratti all’accesso …”.
Parte ricorrente manifesta, in ricorso (coerentemente con la sintetica istanza di accesso, nella quale si fa riferimento al “rischio alla persona” e alle “misure di protezione” asseritamente vulnerate, nonché, in sede di ricorso alla Commissione per l’accesso, al “bene vita” e alla sua “sicurezza”) l’interesse alla tutela della sua incolumità, mentre, poi, in sede di memoria conclusiva, precisa ancora meglio che il diniego costituirebbe un vulnus anche alle sue funzioni.
Premette il Collegio che, in ragione delle motivazioni personali espresse nelle istanze, non può considerarsi, ove mai fondata, la censura relativa all’illegittimità del diniego di accesso in ragione delle funzioni svolte dal ricorrente.
Vero è che l’art. 3, comma 2, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 06/11/2015, n. 5 stabilisce che “l'accesso alle informazioni classificate è consentito soltanto alle persone che, fermo restando il possesso del NOS quando richiesto, hanno necessità di conoscerle in funzione del proprio incarico”, ma, in disparte l’assenza del NOS, tali esigenze non sono state, si ribadisce, evidenziate nelle istanze, essendo state introdotte altre ragioni, assolutamente comprensibili, ma di natura strettamente personale, seppur collegate all’Ufficio ricoperto.
Ciò posto, va ricostruita la complessa normativa posta a presidio della tutela dei documenti “riservati”, cui il Prefetto di Catania si è riferito per negare l’accesso.
In termini generali, l’art. 24 della l. 241/1990, nella parte di interesse, stabilisce: “1. Il diritto di accesso è escluso:
   a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo.
... 6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400 , il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi:
... c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini.
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 , in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale
”.
Con decreto ministeriale 10.05.1994, n. 41 (recante il regolamento del Ministero dell’Interno per la disciplina delle categorie di documenti sottratti all'accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma 4 -ora comma 6-, della l. n. 241 del 1990), all’art. 3, lett. b), del comma 1, vengono sottratte all’accesso “le relazioni di servizio, informazioni ed altri atti o documenti inerenti ad adempimenti istruttori relativi a licenze, concessioni od autorizzazioni comunque denominate o ad altri provvedimenti di competenza di autorità o organi diversi, compresi quelli relativi al contenzioso amministrativo, che contengono notizie relative a situazioni di interesse per l'ordine e la sicurezza pubblica e all'attività di prevenzione e repressione della criminalità, salvo che, per disposizioni di legge o di regolamento, ne siano previste particolari forme di pubblicità o debbano essere uniti a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità;".
La Giurisprudenza (cfr. TAR Bari, III, 06.02.2018, n. 151) ha condivisibilmente precisato che <<la norma in esame debba essere interpretata in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione delle finalità perseguite dalla l. n. 241 del 1990>> (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 06.10.2010, n. 1653; id., 15.10.2009, n. 949).
Con specifico riferimento alla lett. b) dell'art. 3, comma 1, del d.m. n. 415 cit., sussiste "l'esigenza di evitare che, stante l'ampia formulazione della previsione stessa, essa si traduca in una sottrazione indiscriminata e generalizzata all'accesso di una grandissima parte dei documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno. Donde la necessità che la clausola escludente ex art. 3, comma 1, lett. b), del D.M. n. 415 del 1994, operi a sua volta, quale causa di giustificazione del diniego di accesso, in presenza di quelle situazioni ed esigenze -strumentali alla tutela dell'ordine pubblico ed alla repressione della criminalità- elencate dall'art. 24, comma 6, lett. c), della l. n. 241/1990" (TAR Latina, sez. I, sent. 262 del 02.04.2012).
<<
Inoltre, la disposizione regolamentare di cui all'art. 3, comma 1, lett. b), del D.M. n. 415 del 1994 va coordinata con quella generale dettata dall'art. 8, comma 2, del D.P.R. n. 352 del 1992, secondo cui "I documenti non possono essere sottratti all'accesso se non quando essi siano suscettibili di recare un pregiudizio concreto agli interessi indicati nell'art. 24 della legge 07.08.1990, n. 241">>.
<<
E' stato osservato in proposito che "l'inaccessibilità generalizzata delle categorie di atti di cui al citato art. 3, comma 1, lett. b), del D.M., a prescindere dalla verifica, in concreto, dell'incompatibilità dell'accesso con la tutela della riservatezza prevista dalle norme sovraordinate, risulterebbe in insanabile contrasto con queste ultime e imporrebbe la disapplicazione della disciplina ministeriale (in senso conforme cfr. TAR Liguria, sez. II, 06.02.2013 n. 241)" (TAR Toscana sez. II, sent. 2122 del 23.12.2014)>>.
Il Prefetto di Catania, però, come chiarito, ha individuato la fonte di riservatezza nel D.P.C.M. del 06.11.2015 n. 5.
L’art. 42 della legge 03.08.2007, n. 124, stabilisce che: “1. Le classifiche di segretezza sono attribuite per circoscrivere la conoscenza di informazioni, documenti, atti, attività o cose ai soli soggetti che abbiano necessità di accedervi [e siano a ciò abilitati] in ragione delle proprie funzioni istituzionali.
1-bis. Per la trattazione di informazioni classificate segretissimo, segreto e riservatissimo è necessario altresì il possesso del nulla osta di sicurezza (NOS).
2. La classifica di segretezza è apposta, e può essere elevata, dall'autorità che forma il documento, l'atto o acquisisce per prima la notizia, ovvero è responsabile della cosa, o acquisisce dall'estero documenti, atti, notizie o cose.
3. Le classifiche attribuibili sono: segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato. Le classifiche sono attribuite sulla base dei criteri ordinariamente seguiti nelle relazioni internazionali.
4. Chi appone la classifica di segretezza individua, all'interno di ogni atto o documento, le parti che devono essere classificate e fissa specificamente il grado di classifica corrispondente ad ogni singola parte
”.
L’art. 3, del predetto D.P.C.M. del 06.11.2015 n. 5, stabilisce che “l'accesso alle informazioni classificate è consentito soltanto alle persone che, fermo restando il possesso del NOS quando richiesto, hanno necessità di conoscerle in funzione del proprio incarico”.
Si è già detto che la disposizione non è applicabile al caso in esame.
L’art. 4 prevede che “in applicazione dell'art. 42, commi 1 e 3, della legge, le classifiche sono attribuite:
   a) per circoscrivere la conoscenza di informazioni, documenti, atti, attività o cose ai soli soggetti che abbiano necessità di accedervi;
   b) sulla base dei criteri ordinariamente seguiti nelle relazioni internazionali, applicabili, per motivi convenzionali e ai fini dell'analisi del rischio di cui all'art. 3, comma 1, lettera s).
2. Le classifiche assicurano la tutela amministrativa di informazioni, documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non autorizzata sia idonea a recare un pregiudizio agli interessi fondamentali della Repubblica.
3. La classifica SEGRETISSIMO è attribuita a informazioni, documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non autorizzata sia idonea ad arrecare un danno eccezionalmente grave agli interessi essenziali della Repubblica.
4. La classifica SEGRETO è attribuita a informazioni, documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non autorizzata sia idonea ad arrecare un danno grave agli interessi essenziali della Repubblica.
5. La classifica RISERVATISSIMO è attribuita a informazioni, documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non autorizzata sia idonea ad arrecare un danno agli interessi essenziali della Repubblica.
6. La classifica RISERVATO è attribuita a informazioni, documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non autorizzata sia idonea ad arrecare un danno lieve agli interessi della Repubblica.
7. Le tabelle A, B, C e D allegate al presente regolamento individuano l'ambito dei singoli livelli di classifica, i soggetti cui è conferito il potere di classifica e le materie che possono essere oggetto di classifica, tra le quali quelle elencate nella colonna 3 delle tabelle stesse
”.
Emerge, quindi, che per i documenti classificati come riservati, la diffusione non autorizzata determina un danno lieve agli interessi della Repubblica.
L’art. 19 del medesimo dpcm stabilisce che “1. Le classifiche di segretezza SEGRETISSIMO (SS), SEGRETO (S), RISERVATISSIMO (RR) e RISERVATO (R), di cui all'art. 42 della legge, assicurano la tutela prevista dall'ordinamento di informazioni la cui diffusione sia idonea a recare un pregiudizio agli interessi della Repubblica e sono attribuite per le finalità e secondo i criteri stabiliti dall'art. 4 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 7 del 12.06.2009”.
Le finalità, quindi, vanno rinvenute, nel caso di specie, all’all. D di tale decreto.
L’all. D, dopo aver premesso questi principi, elenca un numero rilevante di casi, nei quali non rientra la fattispecie in esame.
Tuttavia, alla colonna 3, in premessa, si avverte che l’elenco non è esaustivo, sicché, debitamente la Prefettura può autonomamente valutare che l’ostensione possa determinare la lesione degli interessi (lievi), ove indiscriminatamente ostesi.
In somma sintesi,
l’Autorità che forma il documento (la Prefettura) classifica il documento e/o le parti dello stesso da ritenere “Riservati”, attenendosi a tali direttive o rinvenendo altre assimilabili ipotesi.
Ciò implica una motivazione puntuale, che faccia comprendere le concrete ragioni (senza alcuna necessità, ovviamente, di divulgazione) per le quali i documenti richiesti siano stati classificati come “riservati”.

Nella relazione della Prefettura alla Commissione per l’accesso, si precisa che vi sarebbero anche “atti di natura giudiziaria in ambito processuale non ancora definito”.
Parte ricorrente invoca un precedente di questo Tribunale (cfr. TAR Catania, III, 01.02.2017, n. 229), che il Collegio condivide e secondo il quale <<
l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014).
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990
>>.
Nel caso di specie, come premesso, per quanto riferito nella relazione della Prefettura alla Commissione per l’accesso, le relazioni (atti amministrativi) conterebbero imprescindibili riferimenti a fasi istruttorie di natura penale non chiuse e, quindi, sottratte all’accesso.
Né viene indicata una diversa (o ulteriore) motivazione concreta per la quale quanto richiesto sia classificabile come riservato.
Si deve osservare che i provvedimenti impugnati sono, quindi, affetti da difetto di motivazione, poiché, quanto meno, le ragioni concrete emergono (in parte) nella fase successiva alla loro adozione e dagli stessi non sono richiamate espressamente.
La censura sia pure in maniera sintetica è contenuta in ricorso, nella misura in cui parte ricorrente si duole della circostanza secondo la quale “l’amministrazione ha errato anche perché nell’eccepire la rilevanza del tema della riservatezza si è disfatta dell’istanza di accesso senza alcuna valutazione comparativa con le esigenze anteposte dal richiedente, affermando (implicitamente) la prevalenza di queste ultime acriticamente ed immotivatamente”.
Consegue l’accoglimento del ricorso, facendo obbligo all’Amministrazione di rideterminarsi, consentendo l’accesso o negandolo mediante motivazione coerente con i principi sopra indicati.

VARIIl cliente va avvisato se il cibo è congelato
Commette il reato di frode in commercio il ristoratore che mette nel piatto prodotti congelati senza darne piena evidenza al cliente. Non è sufficiente una postilla generica nel menu, ma è necessario l'impiego di elementi grafici quali per esempio «asterischi a fianco dei prodotti» o una «apposita avvertenza collocata in grassetto prima della lista delle pietanze e non già relegata, con carattere minuscolo, a margine delle pagine di presentazione del locale».

A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 22.08.2018 n. 38793, che ha confermato la condanna a 4 mesi di reclusione a carico di un ristoratore milanese.
A giudizio degli ermellini, la fattispecie di frode nell'esercizio del commercio sancita dall'articolo 515 del codice penale si è concretizzata poiché il sistema di informazione al cliente organizzato dal gestore «non era sufficiente a garantire la qualità del prodotto venduto (fresco, surgelato o congelato)».
Non basta nemmeno il fatto che il personale di sala era stato addestrato per offrire tutte le delucidazioni del caso, in quanto ciò presupponeva «l'iniziativa del cliente, il quale doveva essere ben accorto»
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2018).

LAVORI PUBBLICILavori, la p.a. risponde in solido. Se il danno causato dall’appaltatore deriva dal progetto. La Cassazione rigetta la sentenza d’appello che aveva escluso la responsabilità dell’Anas.
Il committente risponde in solido con l'appaltatore per i danni cagionati nella fase di esecuzione di un progetto approvato dalla pubblica amministrazione.

Lo ha stabilito la I Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza 22.08.2018 n. 20942, che ha accolto il ricorso di un'azienda sanitaria locale contro l'Anas, rea di aver arrecato danni, tramite un'impresa appaltatrice, a un edificio di proprietà della Asl nel corso dei lavori di realizzazione della variante sulla SS80.
Gli Ermellini hanno cassato con rinvio la sentenza con cui il 27.02.2013 la Corte d'appello de L'Aquila aveva rigettato la domanda di risarcimento danni avanzata dall'azienda sanitaria, sollevando l'Anas da ogni imputazione. Secondo i giudici abruzzesi, infatti, la condotta dell'Anas, che pure, come emerso dalle risultanze istruttorie, «aveva approvato un progetto esecutivo dei lavori inadeguato sotto vari profili tecnici», non poteva essere considerata causa o concausa del danno, «essendo assorbente la responsabilità dell'appaltatore per non avere adottato gli accorgimenti necessari ad evitare danni ai terzi, per avere redatto un progetto costruttivo che non aveva sanato le carenze del progetto esecutivo e per non avere proposto l'adozione di varianti migliorative».
Pur nella consapevolezza che la giurisprudenza di legittimità considera «di regola» l'appaltatore di opere pubbliche «unico responsabile dei danni cagionati a terzi nel corso dei lavori» (poiché i limiti alla sua autonomia, derivanti dall'obbligatorietà della nomina del direttore dei lavori e dalla intensa e continua ingerenza dell'amministrazione appaltante «non fanno venir meno il dovere di assumere le iniziative necessarie per la corretta attuazione del contratto anche a tutela dei diritti dei terzi»), il collegio giudicante ha ritenuto che non possa essere esclusa la responsabilità «concorrente e solidale» dell'amministrazione committente «quando il fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del progetto da essa approvato».
La responsabilità esclusiva della p.a., invece, scatta solo allorquando l'ente «abbia rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da neutralizzare completamente la sua libertà di decisione».
«Di questi principi la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione», hanno concluso gli Ermellini, in quanto è stato escluso che il comportamento di Anas, per avere approvato un progetto esecutivo riconosciuto come inadeguato e per non aver adeguatamente vigilato sull'andamento lavori, sia stato concausa dell'evento dannoso
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2018).
---------------
MASSIMA
I motivi in esame sono fondati.
La Corte territoriale ha ritenuto che il comportamento dell'ANAS, che pure aveva approvato un progetto esecutivo dei lavori inadeguato sotto vari profili tecnici, non fosse stato causa o concausa del danno, essendo assorbente la responsabilità dell'appaltatore per non avere adottato gli accorgimenti necessari ad evitare danni ai terzi, per avere redatto un progetto costruttivo che non aveva sanato le carenze del progetto esecutivo e per non avere proposto l'adozione di varianti migliorative.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito il principio secondo cui
l'appaltatore di opere pubbliche è di regola da considerarsi unico responsabile dei danni cagionati ai terzi nel corso dei lavori, poiché i limiti della sua autonomia (derivanti dalla obbligatorietà della nomina del direttore dei lavori e dalla intensa e continua ingerenza dell'amministrazione appaltante) non fanno venir meno il suo dovere di assumere le iniziative necessarie per la corretta attuazione del contratto anche a tutela dei diritti dei terzi; e tuttavia, la responsabilità concorrente e solidale dell'amministrazione committente non può essere esclusa quando il fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del progetto da essa approvato, mentre una sua responsabilità esclusiva resta configurabile solo allorquando essa abbia rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da neutralizzare completamente la sua libertà di decisione (Cass. n. 11356/2002, n. 8802/1999).
Di questi principi la sentenza impugata non ha fatto corretta applicazione nel caso in esame, avendo escluso, in astratto, che il comportamento dell'ANS per avere approvato un progetto esecutivo riconosciuto come inadeguato, e per non avere adeguatamente vigilato sull'andamento dei lavori, possa considerarsi concausa dell'evento dannoso, ai fini del riconoscimento della sua responsabilità concorrente con l'appaltatore.

EDILIZIA PRIVATAAppaltante, indennizzi con Iva. Importi a titolo di arricchimento ingiustificato tassati. Cassazione: non rileva che l’appaltatore abbia o meno versato l’imposta all’erario.
Si applica l'Iva sugli importi dovuti a titolo di arricchimento ingiustificato. Per questo motivo, nel determinare l'indennizzo che l'appaltatore deve versare all'appaltante a ristoro del danno subito, è necessario tenere conto anche dell'imposta, a prescindere dal fatto che l'esecutore dei lavori la abbia versata o meno all'erario.
Queste le conclusioni alle quali è pervenuta la III Sez. civile della Corte di Cassazione, con la ordinanza 22.08.2018 n. 20884.
Il contenzioso vedeva coinvolto un artigiano che aveva svolto dei lavori edili nell'abitazione di una coppia nel 1998. La vicenda era finita in tribunale a seguito di contrasti sul pagamento degli importi pattuiti.
I due gradi di merito facevano emergere un indebito arricchimento del soggetto prestatore, ai sensi dell'articolo 2041 del codice civile, in quanto le opere concernevano un'opera abusiva e quindi il contratto era da ritenersi nullo. Pertanto, in presenza di un arricchimento non sorretto da giusta causa, i magistrati disponevano un indennizzo pari alla diminuzione patrimoniale ingiustamente subita dai committenti. Ma la quantificazione era controversa, in relazione soprattutto al conteggio o meno dell'Iva.
Secondo la Cassazione è indubbio che l'Iva «debba essere applicata anche sugli importi dovuti a titolo di arricchimento ingiustificato».
Nell'ipotesi in esame, alla luce della nullità del contratto, il risarcimento previsto dall'articolo 2041 c.c. «va liquidato nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'appaltatore», che è costituita «anche dalla quota di onere rappresentata dall'Iva e questo indipendentemente se vi sia stato o meno l'accertamento da parte della Gdf, poiché si tratta di un onere al quale per legge il prestatore è tenuto ed è irrilevante per i committenti la circostanza che esso abbia o meno corrisposto l'Iva».
Pertanto la misura del ristoro sarà pari a tutto ciò che eccede «sia la voce relativa ai meri costi, esclusa ogni ipotesi di guadagno, sia la voce relativa alle spese per imposta diretta quale voce di costo del depauperamento»
(articolo ItaliaOggi del 23.08.2018).

PUBBLICO IMPIEGOStatali, niente doppi incarichi. Licenziamento legittimo anche in caso di inerzia del datore. Per la Cassazione la reiterata violazione del divieto di cumulo giustifica la sanzione.
Il licenziamento del dipendente pubblico per violazione del divieto di cumulo degli incarichi è legittimo anche in caso di inerzia da parte del datore di lavoro nel reprimere il comportamento contrario ai doveri di ufficio. Semaforo verde, dunque, al licenziamento del dirigente medico che aveva svolto, senza la preventiva autorizzazione del datore di lavoro, l'incarico di medico penitenziario per due anni, percependo compensi annuali superiori a 100 mila euro.
Lo ha deciso la sezione lavoro della Corte di Cassazione nella sentenza 21.08.2018 n. 20880.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso del medico sanzionato confermando la sentenza con cui la Corte d'appello di Firenze aveva a sua volta ritenuto legittima la decisione di primo grado sul licenziamento. I giudici di primo grado avevano infatti ritenuto l'allontanamento dai ruoli della p.a. per cumulo degli incarichi una sanzione «proporzionata all'addebito contestato» nonostante essa non sia espressamente prevista nell'elencazione dell'art. 55-quater del dlgs 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego).
Infatti, hanno chiarito gli Ermellini, «le fattispecie tipizzate dell'art. 55-quater non costituiscono un numero chiuso, in quanto lo stesso legislatore ha mantenuto ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e ha fatto salve le ulteriori ipotesi previste dai contratti collettivi».
La Cassazione ha smontato tutti i motivi di ricorso sollevati dal medico, a cominciare da quello basato sulla presunta falsa applicazione dell'art. 2 legge n. 740/1970. Tale norma afferma che le prestazioni dei medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena non integrano un rapporto di pubblico impiego, bensì una prestazione d'opera professionale «caratterizzata dagli elementi tipici della parasubordinazione». La Corte ha riconosciuto che la disposizione esclude l'obbligo di esclusività («anche al fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all'incarico, in considerazione della peculiare natura dello stesso»).
Ma da ciò, puntualizza il collegio presieduto dal giudice Antonio Manna, «non si possono trarre le conseguenze pretese dal ricorrente perché la norma non incide sulla disciplina di rapporti diversi da quello al quale si riferisce e, pertanto, non conferisce al medico incaricato il diritto a cumulare l'incarico con qualsiasi altra attività, prescindendo dai requisiti che per quest'ultima il legislatore richiede». «Il distinto rapporto che viene in rilievo», ha proseguito la Cassazione, «resta soggetto alle regole sue proprie, sicché, ove lo stesso sia caratterizzato dall'esclusività, l'obbligo resta immutato e non rileva che l'incarico ulteriore che si pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della legge n. 740/1970».
Gli Ermellini hanno contestato anche l'altra affermazione del ricorrente, secondo cui l'inerzia del datore di lavoro l'avrebbe convinto della liceità della condotta posta in essere. In continuità con quanto recentemente affermato, sempre in materia di divieto di cumulo di impieghi, con la sentenza n. 8722/2017, la Corte ha evidenziato che «nell'impiego pubblico contrattualizzato, il principio di obbligatorietà dell'azione disciplinare esclude che l'inerzia del datore di lavoro posso far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva».
L'inerzia, secondo la Cassazione, può rilevare solo quale causa di decadenza dall'esercizio dell'azione, «ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata».
Non resta quindi che concludere per la legittimità del licenziamento, stante la reiterata violazione, compiuta dal medico, del divieto di cumulo, di cui all'art. 53 del T.U. Una condotta che ai sensi dello stesso dlgs 165/2001 assume rilevanza disciplinare tale da giustificare il recesso, giacché «l'obbligo di esclusività ha particolare rilievo nella disciplina del rapporto e trova il suo fondamento costituzionale nell'art. 98 Cost.»
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2018).

APPALTI: Esclusione dalla gara e soccorso istruttorio in caso di omessa allegazione, alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, del documento di identità del dichiarante.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio - Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà – Allegazione copia fotostatica del documento di identità del dichiarante – Omissione – Esclusione dalla gara – Obbligo di soccorso istruttorio – Non sussiste.
Ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’omessa allegazione alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà –che, in applicazione della lex specialis di gara, doveva essere allegata all’offerta tecnica per attestarne un requisito- della copia fotostatica del documento di identità del dichiarante determina l’esclusione dalla gara del concorrente, perché non può essere sanata né con l’utilizzo del documento depositato nella busta contenente la documentazione amministrativa né con il soccorso istruttorio, essendo volta a dare legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione (1).
---------------
   (1) Ha chiarito la Sezione che l’allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell'art. 38, d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto a conferire –in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione– legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta pertanto di un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta (Cons. St., sez. VI, 02.05.2011, n. 2579).
L'assenza della copia fotostatica del documento di identità non determina, pertanto, una mera incompletezza del documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese partecipanti, l'impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.08.2018 n. 4059 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
Venendo ora al primo motivo dell’appello iscritto al numero di registro generale 7737 del 2017, con esso si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato l’esclusione dell’appellante dalla procedura di gara per non aver allegato alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (di cui al paragrafo 6, punto 2 del disciplinare) la copia fotostatica del documento di identità del dichiarante.
Ad avviso dell’appellante, nel caso di specie non sarebbero revocabili in dubbio né la provenienza, né l’ascrivibilità al legale rappresentante dell’impresa partecipante alla gara del documento oggetto di autocertificazione; né la carenza sarebbe stata tale da incidere sulla regolarità e legittimità della dichiarazione, non trattandosi di mancanza afferente ad elementi di carattere tecnico.
In ogni caso, né il disciplinare di gara, né gli artt. 38 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000 prevedono espressamente alcuna sanzione automatica di esclusione della concorrente dalla gara nell’ipotesi di mancanza della copia fotostatica del documento di identità del dichiarante (laddove, per contro, la dichiarazione sostitutiva e l’allegazione del documento di identità costituirebbero adempimenti distinti, aventi una funzione diversa, sebbene complementare).
L’irregolarità riscontrata avrebbe dunque carattere meramente formale, ragion per cui la stazione appaltante, prima di procedere all’esclusione, avrebbe dovuto richiedere l’integrazione del documento mancante o comunque dei chiarimenti, anche in ossequio ai principi di economicità ed efficacia dell’attività amministrativa nonché di massima partecipazione e di proporzionalità.
Il motivo non è fondato, dovendosi confermare il principio di cui al precedente di Cons. Stato, V, 26.03.2012, n. 1739 –dal quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso di specie, a mente del quale
l’allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell'art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto a conferire –in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione– legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta pertanto di un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta (ex multis, Cons. Stato, VI, 02.05.2011, n. 2579; VI, 04.06.2009, n. 3442; V, 07.11.2007, n. 5761; 11.05.2007, n. 2333).
L'assenza della copia fotostatica del documento di identità non determina, pertanto, una mera incompletezza del documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese partecipanti, l'impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione.
Tale omissione, per espressa disposizione di legge (art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016), non poteva essere sanata con il soccorso istruttorio, né con “l’utilizzo” del documento depositato nella busta contenente la documentazione amministrativa, come ipotizzato dall’appellante.

APPALTI SERVIZI: Non profit, l’affidamento è appalto. A meno che non sia gratuito o con procedure non selettive. Il Cds ha sciolto ogni dubbio sui rapporti tra il codice dei contratti e quello del Terzo settore.
Le procedure di affidamento alle associazioni regolate dagli articoli 56-58 del codice del Terzo settore sono da considerare veri e propri appalti di servizi sociali e rientrano nella disciplina del codice dei contratti. A meno che non si tratti di procedure non selettive o che gli affidamenti siano inequivocabilmente a titolo gratuito.
Il Consiglio di Stato, col parere 20.08.2018 n. 2052 della commissione speciale reso all'Anac nella procedura di aggiornamento delle linee guida per l'affidamento dei servizi ad enti del terzo settore ed ai servizi sociali, elimina ogni equivoco sui rapporti tra il codice dei contratti (dlgs 50/2016) e codice del terzo settore (dlgs 117/2017) in tema di affidamento dei servizi: nel rispetto dei principi enunciati dai trattati e direttive europee sulla concorrenza, prevale il codice dei contratti.
Il parere suona come una doccia fredda per le molte amministrazioni, soprattutto locali, che avevano scorto nelle disposizioni del codice del terzo settore la possibilità di affidamenti di servizi sociali senza gara ad associazioni di volontariato. Il Consiglio di stato evidenzia che, invece, occorre nella maggior parte dei casi attivare le procedure selettive imposte dal codice dei contratti.
Non basta, infatti, che i soggetti destinatari di affidamenti pubblici siano soggettivamente qualificabili come enti del Terzo settore. Se la prestazione richiesta ha rilevanza economica nel mercato, le caratteristiche soggettive dell'affidatario non rilevano, posto che, per palazzo Spada, per impresa deve intendersi l'organismo «che esercita un'attività economica, offrendo beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento», come sancito dalla Corte di giustizia Ue con sentenza 23.04.1991, causa C-41/90, Höfner.
L'affidamento di servizi sociali, dunque, come regola generale deve rispettare la normativa pro concorrenza imposta dalle disposizioni europee, delle quali il codice dei contratti è attuativo.
Nel caso di specie, i servizi sociali aventi rilevanza economica si affidano applicando, se di valore superiore alle soglie comunitarie, gli articoli 140 (per i settori speciali) e da 142 a 144 (per i settori ordinari) del codice dei contratti; fermo restando che nel sotto soglia (appalti inferiori ai 750.000 euro nei settori ordinari) sono applicabili le procedure semplificate previste dall'articolo 36 del dlgs 50/2016.
Possono sfuggire alla necessità di regolare gli affidamenti applicando il codice dei contratti solo tassativi casi.
Per esempio, quello che palazzo Spada definisce il cosiddetto «accreditamento libero»; una sorta di abilitazione dei soggetti operanti nel Terzo settore a svolgere certi servizi, senza che se ne selezionino solo alcuni tra i tanti possibili per rendere quel servizio. Lo stesso vale per i partenariati: possono sfuggire al codice dei contratti solo non selettivi.
Le regole degli appalti non si applicano, poi, nei casi di affidamenti genuinamente gratuiti, che ricorrono, evidenzia il parere, solo quando le prestazioni svolte dal soggetto del terzo settore siano un arricchimento per i destinatari, cui corrisponda un effettivo depauperamento (quanto meno dei costi di produzione) patrimoniale del soggetto che espleta il servizio.
In questi casi sono ammissibili solo rimborsi a piè di lista di costi vivi, senza remunerazione alcuna di altri costi.
Tuttavia, avverte il Consiglio di stato, gli affidamenti gratuiti vanno ben ponderati. Per evitare distorsioni al mercato, andrebbero riferiti ad ambiti non qualificabili come servizi sociali con rilevanza economica: occorrerebbe riferirsi alle codifiche del vocabolario comune degli appalti.
Proprio per questa ragione, anche le convenzioni con gli enti del terzo settore sono ammissibili ed attivabili in applicazione del dlgs 117/2017 e non del codice dei contratti, solo sulla base di una puntuale motivazione. Spiega palazzo Spada: la gratuità «costituisce, in sé, un vulnus al meccanismo del libero mercato ove operano imprenditori che forniscono i medesimi servizi a scopo di lucro e dunque in maniera economica mirando al profitto. La motivazione della scelta quindi non solo è opportuna, ma deve considerarsi condicio sine qua non per l'esercizio di un tale potere»
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2018).

APPALTI SERVIZINon profit e Codice appalti, parola all'Anac.
Non rientrano nell'ambito di applicazione del Codice appalti le procedure di affidamento di servizi sociali prive di carattere selettivo, oppure volte ad affidare un servizio che sarà svolto dall'affidatario in forma integralmente gratuita. Viceversa, e procedure di affidamento dei servizi sociali contemplate nel Codice del terzo settore saranno soggette al Codice dei contratti pubblici, al fine di tutelare la concorrenza anche fra enti del terzo settore, quando il servizio sarà svolto dall'affidatario in forma onerosa. E in tale fattispecie rientra anche la mera corresponsione di rimborsi spese forfettari. In questi casi le amministrazioni, devono motivare il ricorso a tali modalità di affidamento, che, «in quanto strutturalmente riservate ad enti non profit, de facto privano le imprese profit della possibilità di rendersi affidatarie del servizio».

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato nel parere 20.08.2018 n. 2052 reso dalla Commissione speciale di palazzo Spada lo scorso 26 luglio ma depositato il 20 agosto.
A interpellare i giudici di palazzo Spada è stata l'Anac che ha chiesto chiarimenti sulla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del combinato disposto del Codice appalti (dlgs n. 50/2016) e del Codice del terzo settore (dlgs n. 117/2017).
Il Consiglio di stato è intervenuto a dettare chiarimenti anche su quella che costituisce la più problematica modalità di gestione dei rapporti tra amministrazioni pubbliche ed enti del terzo settore, e cioè sulle convenzioni di cui all'art. 56 del dlgs. n. 117 del 2017.
In particolare, a suscitare maggiori problemi interpretativi è il terzo comma dell'art. 56, secondo cui «l'individuazione delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale con cui stipulare la convenzione è fatta nel rispetto dei principi di imparzialità, pubblicità, trasparenza, partecipazione e parità di trattamento, mediante procedure comparative riservate alle medesime».
Il problema, osserva palazzo Spada, è che sono enunciati principi essenzialmente riconducibili nell'ambito dell'imparzialità e della trasparenza e «costituenti il contenuto imprescindibile di ogni procedimento di valutazione comparativa, o ad evidenza pubblica in senso ampio». Tuttavia, osservano i giudici, il procedimento volto alla scelta dell'organizzazione di volontariato o dell'associazione di promozione sociale per la stipula di una convenzione non è permeato dal principio di concorrenzialità, ma solamente da quello di parità di trattamento.
Il Consiglio di stato suggerisce, qualora le circostanze evidenzino che il ricorso alla convenzione realizza un comportamento vietato in quanto distorsivo del confronto competitivo tra operatori economici, di rimettere alla valutazione dell'Anac la decisone di disapplicare l'art. 56 del dlgs. n. 117 del 2017 nella sede competente
(articolo ItaliaOggi del 22.08.2018).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo.
Per giurisprudenza pacifica, poi, deve escludersi la necessità della comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio quando l’emanazione del provvedimento recante l’ingiunzione di demolizione sia stata preceduta, come nel caso di specie, dalla comunicazione dell’ordinanza di sospensione dei lavori, emanata ai sensi dell’art. 27, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
---------------

10) Il primo motivo del ricorso introduttivo è infondato in fatto prima ancora che in diritto.
10.1) Risulta dalla produzione del Comune di Buscate che, anteriormente alla notifica dell’ordinanza di demolizione, l’istante è stato raggiunto sia dall’ordinanza di sospensione dei lavori che dalla comunicazione ex art. 8 della legge n. 241/1990 (cfr. rispettivamente, docc. 5 e 6 della produzione comunale).
Non sussiste, dunque, neanche in punto di fatto la lamentata violazione delle garanzie partecipative, escluso che debba esservi la comunicazione di avvio per l’ordinanza di sospensione, stante la natura cautelare della stessa (ex art. 7, co. 2, legge n. 241/1990).
10.2) In aggiunta, va rammentato, in punto di diritto, che: “l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n. 2681; V, 28.04.2014, n. 2194; TAR Campania, Napoli, II, 20.07.2018, n. 4853; TAR Lazio, Roma, II-quater, 28.05.2018, n. 5937).
Per giurisprudenza pacifica, poi, deve escludersi la necessità della comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio quando l’emanazione del provvedimento recante l’ingiunzione di demolizione sia stata preceduta, come nel caso di specie, dalla comunicazione dell’ordinanza di sospensione dei lavori, emanata ai sensi dell’art. 27, comma 3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (cfr. ex multis, Cons. Stato, IV, 28.09.2017 n. 4533)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.08.2018 n. 1989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La “sagoma” dell’edificio s’individua nella “conformazione planovolumetrica della costruzione e nel suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”.
---------------

Giova rammentare, al riguardo, che la “sagoma” dell’edificio s’individua (cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 1564 del 15.03.2013; Cass., sez. III, 23.04.2004, n. 19034) nella “conformazione planovolumetrica della costruzione e nel suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.08.2018 n. 1989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, 1egge n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso, sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione della stabilità dell’intero manufatto.
Invero, “l'eventualità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria va apprezzata dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione … Il dato testuale della legge è per vero univoco ed insuperabile -muovendosi in coerenza col principio per cui, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso-, ma, al di là della devoluzione del relativo potere alla stessa P.A. competente alla sanzione ripristinatoria, non la onera pure dell'autonomo accertamento d'ufficio sull'eseguibilità condizionata della sanzione. Pertanto ed in base all'altro fermo principio -in virtù del quale il privato ha l'onere d'indicare previamente alla P.A. quali elementi conoscitivi avrebbe potuto introdurre nel procedimento-, è comunque a carico del privato stesso rappresentare, con serietà e rigore, le ragioni dell'impossibilità tecnica della demolizione, onde indirizzare il Comune verso una statuizione che eviti pregiudizi alla parte eseguita in conformità”.

---------------

12.2) Quanto alla restante censura, con cui si lamenta che non sarebbe possibile procedere alla demolizione della parti difformi senza pregiudizio di quelle conformi, si osserva quanto segue.
Per giurisprudenza pacifica, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, legge n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso, sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione della stabilità dell’intero manufatto (TAR Napoli, IV, 02/08/2018 n. 5171; Cons. Stato, Sez. VI, Sent. 04.06.2018, n. 3371, per cui: “l'eventualità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria va apprezzata dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione … Il dato testuale della legge è per vero univoco ed insuperabile -muovendosi in coerenza col principio per cui, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso-, ma, al di là della devoluzione del relativo potere alla stessa P.A. competente alla sanzione ripristinatoria, non la onera pure dell'autonomo accertamento d'ufficio sull'eseguibilità condizionata della sanzione. Pertanto ed in base all'altro fermo principio -in virtù del quale il privato ha l'onere d'indicare previamente alla P.A. quali elementi conoscitivi avrebbe potuto introdurre nel procedimento-, è comunque a carico del privato stesso rappresentare, con serietà e rigore, le ragioni dell'impossibilità tecnica della demolizione, onde indirizzare il Comune verso una statuizione che eviti pregiudizi alla parte eseguita in conformità” Cons. St., VI, 12.04.2013, n. 2001).
In assenza, nella specie, di siffatta dimostrazione a cura del privato, anche la censura in esame non risulta suscettibile di positivo apprezzamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.08.2018 n. 1989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Obblighi di correttezza e buona fede nello svolgimento dell'attività autoritativa.
Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
---------------

2.5. Non è dunque apprezzabile l’errore in cui, secondo la prospettazione dell’appellante, sarebbe incorsa la sentenza gravata nell’accertare a carico del provvedimento di concessione la sussistenza del vizio genetico discendente da una difettosa valutazione della situazione dell’area, quale presupposto della responsabilità precontrattuale riconosciuta in capo all’amministrazione comunale, nei limiti dell’interesse negativo dell’impresa a non essere lesa nell’esercizio della sua libertà negoziale, per aver sollecitato la partecipazione del privato a una procedura di selezione, ignorando i preesistenti vincoli, risultanti dal PSAI, che rendevano impossibile la realizzazione del progetto.
Ciò in quanto, in linea generale, vengono ormai in rilievo nell’agire pubblico, prima e a prescindere dall’aggiudicazione, e senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara, le clausole di correttezza e buona fede di cui all’art. dell’art. 1337 c.c., oggetto di rilettura e rivisitazione quali manifestazioni del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (ex multis, Cass. civ., I, 12.07.2016, n. 14188), con la conseguente possibilità di individuare un comportamento illecito dell’organo pubblico nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento, in correlazione con l’affidamento incolpevole del privato in ordine alla positiva conclusione del procedimento pubblico: ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale, tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
La giurisprudenza ha, infatti, in più occasioni affermato che, anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2018, cit.; Cons. Stato, VI, 06.02.2013, n. 633; IV, 06.03.2015, n. 1142; Cons. Stato, Ad. plen., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ., SS.UU. 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., I, 12.05.2015, n. 9636; 03.07.2014, n. 15250) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.08.2018 n. 4912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl condominio accede agli atti comunali.
Anche il condominio ha diritto di accedere agli atti del comune riguardanti l'esito dei controlli e delle verifiche effettuate sulla qualità dell'acqua .

Lo ha precisato il TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I con la sentenza 09.08.2018 n. 499.
La controversia verte sul diniego tacito da parte del comune di Reggio Calabria di accesso agli atti relativi alla periodica verifica ed ai risultati della qualità dell'acqua destinata al consumo umano erogata nel periodo 2010/2017 nella zona Reggio centro e, più precisamente, a servizio del condominio Ca..
I giudici amministrativi sono stati, così, chiamati a verificare se sussistesse o meno il diritto del condominio di prendere visione ed estrarre copia integrale della documentazione avendo manifestato un interesse specifico per il fatto di aver stipulato il contratto di somministrazione di acqua potabile con il comune stesso e di avere in corso un contenzioso.
La risposta è stata affermativa.
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, del dlgs 19.08.2005, n. 195, infatti, l'autorità pubblica deve rendere disponibile l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, e senza che questi debba dichiarare il proprio interesse.
Detto ciò si rileva anche che l'art. 2 del medesimo dlgs n. 195 cit. chiarisce che per «informazione ambientale» si intende «qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente: 1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria, l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio 3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente di cui ai numeri 1) e 2)».
Ebbene, non vi è dubbio che i controlli che il comune deve effettuare ai sensi del dlgs 02.02.2001, n. 31 possono annoverarsi proprio tra le misure amministrative che incidono sullo stato dell'acqua e sono, quindi, accessibili. Ne consegue che il ricorso presentato dal condominio Palazzo Ca. deve essere accolto e deve, pertanto, ordinarsi al comune di Reggio Calabria di esibire i risultati delle analisi e gli altri atti richiesti dall'interessato
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.08.2018).
---------------
MASSIMA
Con atto notificato il 10.04.2018 e depositato il successivo giorno 19 il Condominio Palazzo Ca. sito al ... n. 154 di Reggio Calabria, premesso di aver richiesto con pec del 09.02.2018 indirizzata al Comune di Reggio Calabria ed all’ASP - Servizio SIAN, senza ottenere risposta alcuna,
   a) registro dei controlli interni obbligatori previsti dall’art. 62 del vigente Regolamento SII e dall’art. 7 del D.Lgs. 31/2001, di ruotine e di verifica, per gli anni 2010/2017 contenente i dati afferenti la periodica verifica ed i risultati della qualità dell’acqua destinata al consumo umano nella zona “Reggio centro” e, comunque, a servizio del Condominio Ca.;
   b) con riferimento alla zona “Reggio centro” e per il periodo 2010/2017 le eventuali comunicazioni inviate e ricevute dall’ASP (SIAN) di Reggio Calabria, nonché gli atti e documenti relativi alle indagini analitiche compiute dall’ASP come controllo esterno (art. 8 D.Lgs. 31/2001), adiva il Tribunale per ottenere l’ostensione della documentazione richiesta.
Nessuno si costituiva per l’ente intimato ed alla camera di consiglio dell’11.07.2018 la causa è stata chiamata e posta in decisione.
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Ad avviso del Collegio (vd. già sentenze 14.01.2009 n. 19, 26.01.2009 n. 48, 29.01.2009 n. 68, 20.05.2009, n. 344)
il ricorso è fondato (anche) ai sensi dell’art. 3, co. 1, D.lgs. 19.08.2005, n. 195, il quale precisa che l'autorità pubblica deve rendere disponibile, l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse, nella specie, peraltro, manifestato e sussistente nel fatto di aver stipulato contratto di somministrazione di acqua potabile con il Comune e di avere in corso un contenzioso.
Al riguardo va anche precisato che
l’art. 2 (“Definizioni”) del medesimo D.l.vo n. 195 cit. chiarisce che per “informazione ambientale” si intende “qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente: 1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria, l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio … 3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente di cui ai numeri 1) e 2)”.
Orbene,
i controlli che il Comune deve effettuare ai sensi del D.lgs. 02.02.2001, n. 31, e più esattamente degli artt. 7 ed 8 invocati dalla parte, possono annoverarsi tra le misure amministrative che incidono sullo stato dell’acqua e sono, quindi, accessibili.
Ne consegue che il presente ricorso deve essere accolto e deve, pertanto, ordinarsi al Comune di Reggio Calabria di esibire i risultati delle analisi e gli altri atti richiesti dall’interessato entro e non oltre il termine di giorni trenta dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.
Va ulteriormente precisato che poiché il giudizio è stato promosso solo nei confronti del Comune, mentre nell’istanza di accesso vi era specificato che nei confronti dell’ASP, cui pure l’istanza era inoltrata, il diritto di accesso viene limitato agli atti come sopra indicati sub b), il Comune provvederà all’ostensione di quanto indicato sub a) ed eventualmente, per quanto concerne gli atti menzionati sub b), nei limiti di quanto in suo possesso.

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di pertinenza urbanistica non coincide con il concetto di pertinenza civile: ai fini edilizio-urbanistici è, infatti, pertinenza il manufatto privo di autonoma destinazione e di autonomo valore, che non incide sul carico urbanistico, che presenta ridotte dimensioni e che non altera in modo significativo l’assetto del territorio.
Tale non è sicuramente una piscina interrata, sia per gli importanti lavori di scavo che la sua realizzazione comporta (nel caso di specie, la vasca ha dimensioni di m. 14,70x7,00, è di forma semicircolare con diametro di m. 2,60 e ha profondità che va da un minimo di m. 1,50 a un massimo di m. 1,80: doc. 6 di parte resistente), sia perché non è elemento necessario ai fino del completamento di un’unità immobiliare avente destinazione residenziale.
---------------
Non si può nemmeno accedere alla tesi di parte ricorrente per cui la piscina assolverebbe anche a funzioni di tutela idraulica, operando quale vasca di contenimento: non è questa la ragione per cui la piscina è stata costruita e, comunque, per fungere da vasca di contenimento –ammesso che ne abbia le caratteristiche– dovrebbe essere tenuta sempre vuota, cosa che verosimilmente non è nelle intenzioni di chi la ha realizzata.
---------------
Configurandosi l’atto sanzionatorio di un illecito edilizio quale atto vincolato, lo stesso non può essere afflitto da eccesso di potere, e, giusta quanto dispone l’articolo 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, non può essere annullato per violazione delle garanzie partecipative, posto che in concreto non avrebbe potuto assumere un contenuto diverso.
Inoltre, presentandosi l’ordinanza qui impugnata quale atto plurimotivato, ovverosia che si regge su di una pluralità di autonome ragioni tra loro indipendenti (segnatamente, la mancanza del titolo autorizzatorio edilizio, la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica e il vincolo di inedificabilità assoluta), è sufficiente che sia fondata anche una sola delle motivazioni addotte dall’Amministrazione a sostegno della decisione assunta, perché l’ordinanza stessa sia legittima.
Ora, per quanto osservato in precedenza in ordine all’assenza del necessario titolo edilizio e della necessaria autorizzazione paesaggistica, l’ordine di demolizione è legittimo ed è stato adottato dall’Autorità (il Comune), preposto, ai sensi dell’articolo 27 D.P.R. n. 380/2001 alla repressione degli abusi edilizi.
---------------

I signori Ve.Gi. e Ve.An. impugnano, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza comunale e gli atti presupposti in epigrafe compiutamente individuati, con i quali, relativamente all’immobile, sito in Comune di Parabiago - località ..., è stato intimato agli stessi, nella rispettiva qualità di proprietario (il primo) e di responsabile dell’abuso (il secondo), la demolizione della piscina, della recinzione e delle annesse opere di finitura (segnatamente, la pavimentazione della piscina, gli impianti per il funzionamento della piscina, le opere murarie di contenimento), e il ripristino dello stato dei luoghi, previa presentazione di progetto concordato con l’Agenzia Interregionale per il Fiume Po – A.I.PO..
Il provvedimento è così motivato:
   (a) le opere sono state realizzate in assenza di titolo edilizio;
   (b) le opere sono state realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica ex D.Lgs. n. 42/2004 e L.R. Lombardia n. 12/2005, necessaria, in quanto essi insistono su area ubicato entro i 150 m. dal fiume Olona;
   (c) le opere sono state realizzate in area assoggettata a vincolo di inedificabilità, di tipo idrogeologico, in quanto ricompresa nella fascia A del PAI.
...
Viene all’esame di questo Tribunale amministrativo l’ordinanza n. 3698/2010 con la quale il Comune di Parabiago ha ordinato ai signori Ve.Gi. e Ve.An. la demolizione della piscina, della recinzione e delle annesse opere di finitura (segnatamente, la pavimentazione della piscina, gli impianti per il funzionamento della piscina, le opere murarie di contenimento), e il ripristino dello stato dei luoghi, previa presentazione di progetto concordato con l’Agenzia Interregionale per il Fiume Po – A.I.PO..
Il ricorso è infondato.
Innanzitutto, va considerato che il concetto di pertinenza urbanistica non coincide con il concetto di pertinenza civile: ai fini edilizio-urbanistici è, infatti, pertinenza il manufatto privo di autonoma destinazione e di autonomo valore, che non incide sul carico urbanistico, che presenta ridotte dimensioni e che non altera in modo significativo l’assetto del territorio (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 4887/2017).
Tale non è sicuramente una piscina interrata (cfr. TAR Campania–Napoli, Sez. VII, sentenza n. 6117/2017), sia per gli importanti lavori di scavo che la sua realizzazione comporta (nel caso di specie, la vasca ha dimensioni di m. 14,70x7,00, è di forma semicircolare con diametro di m. 2,60 e ha profondità che va da un minimo di m. 1,50 a un massimo di m. 1,80: doc. 6 di parte resistente), sia perché non è elemento necessario ai fino del completamento di un’unità immobiliare avente destinazione residenziale (cfr., TAR Puglia–Lecce, Sez. I, sentenza n. 1446/2016).
In secondo luogo, in quanto nuova costruzione, non solo la realizzazione di una piscina interrata presuppone il rilascio del permesso di costruire, ma –ove inserita in un contesto vincolato (come nel caso di specie)- essa è anche insuscettibile di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. VII, sentenza n. 1503/2017), posto che la sanatoria prevista del comma 4 dell’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004 non si applica in ipotesi di aumento del volume o delle superfici utili.
D’altro canto, non si può nemmeno accedere alla tesi di parte ricorrente per cui la piscina assolverebbe anche a funzioni di tutela idraulica, operando quale vasca di contenimento: non è questa la ragione per cui la piscina è stata costruita e, comunque, per fungere da vasca di contenimento –ammesso che ne abbia le caratteristiche– dovrebbe essere tenuta sempre vuota, cosa che verosimilmente non è nelle intenzioni di chi la ha realizzata.
Peraltro, configurandosi l’atto sanzionatorio di un illecito edilizio quale atto vincolato (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. II-quater, sentenza n. 3678/2018), lo stesso non può essere afflitto da eccesso di potere (cfr., TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 83/2017), e, giusta quanto dispone l’articolo 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, non può essere annullato per violazione delle garanzie partecipative, posto che in concreto non avrebbe potuto assumere un contenuto diverso (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. III, sentenza n. 2141/2018).
Inoltre, presentandosi l’ordinanza qui impugnata quale atto plurimotivato, ovverosia che si regge su di una pluralità di autonome ragioni tra loro indipendenti (segnatamente, la mancanza del titolo autorizzatorio edilizio, la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica e il vincolo di inedificabilità assoluta), è sufficiente che sia fondata anche una sola delle motivazioni addotte dall’Amministrazione a sostegno della decisione assunta, perché l’ordinanza stessa sia legittima (cfr., ex plurimis, TAR Lombardia–Milano, Sez. II, sentenza n. 565/2018).
Ora, per quanto osservato in precedenza in ordine all’assenza del necessario titolo edilizio e della necessaria autorizzazione paesaggistica, l’ordine di demolizione è legittimo ed è stato adottato dall’Autorità (il Comune), preposto, ai sensi dell’articolo 27 D.P.R. n. 380/2001 alla repressione degli abusi edilizi. Sicché le ulteriori censure dedotte dai ricorrenti sarebbero già di per sé improcedibili per carenza di interesse (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2960/2018).
In ogni caso, il Comune ha documentato (docc. 2 e 8 fascicolo di parte resistente) che i manufatti di cui si discute ricadono in fascia A del Piano di Assetto Idrogeologico - PAI, ovverosia in area assoggettata a vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’articolo 29 delle relative NTA (doc. 12 fascicolo di parte resistente), e dunque anche le ulteriori doglianze avanzate dai signori Vezzini non sono meritevoli di accoglimento.
In definitiva, il ricorso è infondato e per questo viene respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.08.2018 n. 1962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Procedura di mobilità di personale fra amministrazioni diverse.
Appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto la mobilità relativa al trasferimento del dipendente pubblico tra enti del medesimo comparto o tra enti di comparti diversi, configurandosi la stessa come cessione del contratto di lavoro che si verifica nel corso di un rapporto già instaurato, tale da non determinare la costituzione di un nuovo rapporto di pubblico impiego o una nuova assunzione, ma comportando solo la modificazione soggettiva del rapporto di lavoro già in atto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 03.08.2018 n. 1943 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
La controversia riguarda una procedura di mobilità per passaggio diretto di personale fra amministrazioni diverse, ex art. 30 d.lgs. n. 165/2001, che si distingue dalle procedure concorsuali per le assunzioni poiché, nel primo caso a differenza che nell’altro, non viene in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo ma una mera modificazione soggettiva del rapporto di lavoro preesistente e, quindi, una cessione del contratto.
In siffatte evenienze, giurisprudenza ormai costante ravvisa la giurisdizione del giudice ordinario
(cfr., sezioni unite della Cassazione, sentenza n. 11800 del 12.05.2017, Cons. Stato, sez. V, 10.04.2017, n. 1683; TAR Lazio, Roma, III-quater, 05.07.2018, n. 7466; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, Sent. 26.03.2018, n. 695; TAR Calabria Catanzaro Sez. II, Sent. 20.09.2017, n. 1430), avendo chiarito che appartengono a detta giurisdizione le controversie aventi ad oggetto la mobilità relativa al trasferimento del dipendente pubblico tra enti del medesimo comparto o tra enti di comparti diversi, configurandosi la stessa come cessione del contratto di lavoro che si verifica nel corso di un rapporto già instaurato, tale da non determinare la costituzione di un nuovo rapporto di pubblico impiego o una nuova assunzione, ma comportando solo la modificazione soggettiva del rapporto di lavoro già in atto.
Nel caso di specie, è indubbio che si tratti di un trasferimento e non di una assunzione, atteso quanto previsto nell’avviso pubblico, ove si fa riferimento esplicito, fra l’altro, al “nulla osta al trasferimento rilasciato dall’Azienda di appartenenza”, alla necessità di “determinare in accordo con l’Amministrazione di appartenenza, la data di decorrenza del trasferimento”, chiarendosi poi espressamente che “la mobilità non comporta novazione del rapporto di lavoro”.
Per tutte le ragioni che precedono, quindi,
il ricorso in epigrafe specificato deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito, trattandosi di controversia riservata alla cognizione del giudice ordinario, davanti al quale il processo potrà essere proseguito con le modalità e nei termini di cui all'art. 11 c.p.a..

ATTI AMMINISTRATIVI: Limiti del sindacato giurisdizionale nel caso di esercizio della discrezionalità tecnica.
Il TAR Milano ricostruisce i diversi orientamenti in merito alla tematica relativa ai limiti del sindacato giurisdizionale nel caso di esercizio della discrezionalità tecnica e aderisce alla più recente giurisprudenza amministrativa, secondo cui il controllo giurisdizionale, al di là dell'ormai sclerotizzata antinomia sindacato forte/sindacato debole, deve attestarsi sulla linea di un controllo che, senza ingerirsi nelle scelte discrezionali della Pubblica autorità, assicuri la legalità sostanziale del suo agire, per la sua intrinseca coerenza anche e soprattutto in materie connotate da un elevato tecnicismo, senza, cioè, poter far luogo a sostituzione di valutazioni in presenza di interessi la cui cura è dalla legge espressamente delegata ad un certo organo amministrativo, sicché ammettere che il giudice possa auto-attribuirseli rappresenterebbe quanto meno una violazione delle competenze, se non addirittura del principio di separazione tra i poteri dello Stato.
Questo orientamento appare idoneo a declinare il principio di effettività della tutela giurisdizionale nello specifico settore delle valutazioni tecniche, pur senza trasformare il controllo in un’indebita sovrapposizione del giudizio espresso dall’organo di verifica del corretto esercizio della legalità sostanziale a quello effettuato dal competente plesso amministrativo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.07.2018 n. 1875 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.3. Appare, altresì, infondata l’eccezione della parte resistente e della parte interveniente secondo cui i ricorsi riuniti investirebbero valutazioni di merito dell’Amministrazione.
La censura concerne, invero, la tematica relativa ai limiti del sindacato giurisdizionale nel caso di esercizio della discrezionalità tecnica sulla quale appare opportuno tracciare le coordinate generali all’interno delle quali si inserirà l’esame dei vari motivi di ricorso che investono il tema in esame.
2.3.1. Sul punto,
è noto come l’originaria impostazione che ammette un sindacato di carattere meramente estrinseco e, come tale, diretto al riscontro di elementi sintomatici di uno scorretto esercizio del potere (quali il difetto di motivazione, l’illogicità manifesta e l’errore di fatto) cede il passo (pur non senza significative eccezioni, come, ad esempio, Consiglio di Stato, A.P., 03.02.2014, n. 8, in tema di valutazione della congruità delle offerte) alla teorica che ammette un controllo di tipo intrinseco volto a consentire la verifica diretta della correttezza del criterio tecnico utilizzato e del procedimento applicativo seguito (cfr., Consiglio di Stato, sez. VI, 22.03.2008, n. 2449, Id., sez. IV 09.04.1999, n. 601).
2.3.2.
Tale teorica registra, tuttavia, una divergenza in ordine all’intensità del sindacato espresso nella dicotomia forte/debole: per un primo orientamento deve, infatti, ammettersi la sostituzione della valutazione tecnica operata in sede processuale a quella condotta dall’Amministrazione sul solo presupposto dell’opinabilità di quest’ultima; per il secondo orientamento, al contrario, il sindacato sulla discrezionalità tecnica non può sfociare nella sostituzione dell'opinione del Giudice a quella espressa dall'organo dell'Amministrazione.
Quest’ultimo orientamento ammette, quindi, oltre che un sindacato estrinseco sulla discrezionalità tecnica, attuato mediante massime di esperienza appartenenti al sapere comune e finalizzato a ripercorrere l'iter logico seguito dall'Amministrazione, un controllo intrinseco che consente al Giudice di avvalersi di regole e di conoscenze tecniche appartenenti alla stessa scienza specialistica ed ai modelli di giudizio applicati dalla P.A., finalizzato a verificare direttamente l'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza, quanto a criterio tecnico e a procedimento applicativo, potendo il Giudice utilizzare per tale controllo sia il tradizionale strumento della verificazione che la c.t.u.
(cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. IV, 31.01.2017, n. 233).
2.3.3.
Tale contrapposizione è, tuttavia, superata da una parte della più recente giurisprudenza amministrativa secondo cui il controllo giurisdizionale, “al di là dell'ormai sclerotizzata antinomia sindacato forte/sindacato debole, deve attestarsi sulla linea di un controllo che, senza ingerirsi nelle scelte discrezionali della Pubblica autorità, assicuri la legalità sostanziale del suo agire, per la sua intrinseca coerenza anche e soprattutto in materie connotate da un elevato tecnicismo (Consiglio di Stato, sez. III, 25.03.2013, n. 1645), senza, cioè, poter far luogo a sostituzione di valutazioni in presenza di interessi “la cui cura è dalla legge espressamente delegata ad un certo organo amministrativo, sicché ammettere che il giudice possa auto-attribuirseli rappresenterebbe quanto meno una violazione delle competenze, se non addirittura del principio di separazione tra i poteri dello Stato (Consiglio di Stato, sez. VI, 13.09.2012 n. 4872; cfr., inoltre, TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7746).
Quest’ultimo orientamento –a cui il Collegio ritiene di poter aderire– appare idoneo a declinare il principio di effettività della tutela giurisdizionale nello specifico settore delle valutazione tecniche, pur senza trasformare il controllo in un’indebita sovrapposizione del giudizio espresso dall’organo di verifica del corretto esercizio della legalità sostanziale a quello effettuato dal competente plesso amministrativo.
Può, pertanto, procedersi a verificare, alla luce dei principi enunciati, l’intrinseca coerenza dell’operato dell’Amministrazione e la correttezza nella specificazione del parametro di riferimento e nell’applicazione dello stesso al caso sottoposto all’attenzione del Collegio, valutando il rispetto dei canoni di ragionevolezza tecnica, di congruità scientifica e di corretto accertamento dei presupposti di fatto

APPALTI: Commistione fra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione delle offerte.
Il principio che vieta nelle gare pubbliche la commistione fra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione delle offerte deve essere sempre applicato secondo criteri di proporzionalità, ragionevolezza e adeguatezza, non potendo negarsi la legittimità di criteri di valutazione che possano premiare la caratteristiche organizzative dell’impresa in relazione all’oggetto dell’appalto, soprattutto se tali criteri non sono preponderanti nella determinazione complessiva del punteggio tecnico (TAR Lombardia-Milano, Sez. IVa, sentenza 30.07.2018 n. 1869 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1.3 Nel terzo motivo di ricorso, proposto in via subordinata rispetto al secondo, la ricorrente denuncia la presunta illegittimità del criterio di cui è causa (CAM), in quanto si tratterebbe in sostanza di un requisito soggettivo e non di un criterio valutativo, con conseguente inosservanza del noto principio delle gare pubbliche che vieta la commistione fra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione delle offerte.
Sul punto deve però evidenziarsi che il succitato principio deve essere sempre applicato secondo criteri di proporzionalità, ragionevolezza ed adeguatezza, non potendo negarsi la legittimità di criteri di valutazione che possano premiare la caratteristiche organizzative dell’impresa in relazione all’oggetto dell’appalto, soprattutto se tali criteri non sono preponderanti nella determinazione complessiva del punteggio tecnico.
Infatti, lo stesso codice, all’art. 95 comma 13, consente alle amministrazioni di indicare criteri premiali per la valutazione dell’offerta e che possono essere relativi, oltre che ad esempio al maggior “rating” di legalità dell’impresa, anche al “minor impatto sulla salute e sull’ambiente”; parimenti il comma 6 del medesimo articolo, allorché elenca gli elementi che possono costituire criteri valutativi, non esclude il richiamo a caratteristiche proprie e soggettive dell’impresa.
Anche la più recente giurisprudenza è orientata nel senso suindicato [cfr. la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 12.07.2018, n. 4283, per cui: <<
…secondo una giurisprudenza di questo Consiglio di Stato che può dirsi ormai prevalente, il principio della netta separazione tra criterî soggettivi di prequalificazione e criterî di aggiudicazione della gara debba essere interpretato cum grano salis (così, espressamente, Cons. St., sez. IV, 25.11.2008, n. 5808) nelle procedure relative ad appalti di servizi, consentendo alle stazioni appaltanti, nei casi in cui determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto direttamente riguardanti l’oggetto del contratto, possano essere valutate anche per la selezione della offerta, di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione della offerta tecnica di tipo soggettivo, concernenti la specifica attitudine del concorrente, anche sulla base di analoghe esperienze pregresse, a realizzare lo specifico progetto oggetto di gara (v., sul punto, Cons. St., sez. V, 03.10.2012, n. 5197)>>.]
Anche l’Autorità Anticorruzione (ANAC), nelle proprie linee guida sull’offerta economicamente più vantaggiosa, approvate con deliberazione n. 2/2016, ammette che la separazione fra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione è ormai divenuta meno rigida rispetto agli indirizzi interpretativi più tradizionali.
Sono quindi possibili criteri valutativi di carattere soggettivo, che consentano di apprezzare meglio l’offerta, senza l’attribuzione a tali criteri di un carattere prevalente; in particolare l’ulteriore delibera ANAC n. 1091/2017, resa nell’ambito di un parere precontenzioso, ammette la possibilità di valorizzare la certificazione ISO 14001.
Nel caso di specie, non appare certamente illogico o illegittimo premiare i processi aziendali attenti all’impatto ambientale, senza contare che il punteggio assegnato è di soli quattro punti sui settanta complessivi dell’offerta tecnica (cfr. ancora il disciplinare di gara, pagina 56 di 113), quindi una misura certamente minima.
In definitiva anche il terzo motivo deve rigettarsi.

URBANISTICA: Sovradimensionamento degli standard. 
In sede di predisposizione di un PGT, rispetto alla previsione di una rilevante superficie destinata a standard, notevolmente superiore ai parametri di legge, il Comune deve idoneamente e congruamente motivare sulle ragioni di tale rilevante necessità. Invero, la destinazione a dotazioni standard di un'area privata incide fortemente sugli interessi del proprietario.
E', pertanto, necessario che l'ente indichi sempre con precisione quali attrezzature debbano essere ivi realizzate, in modo da consentire l'apprezzamento, da un lato, della serietà della decisione e, da altro lato, della consistenza degli interessi pubblici che si intendono soddisfare a scapito dell'interesse privato.
La motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge.
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9, comma 10, della l.r. n. 12/2005, i servizi e le attrezzature private di interesse pubblico sono qualificati come servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, conseguendone, dunque, che le relative aree devono essere considerate a standard
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 30.07.2018 n. 1863 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento della deliberazione C.C. di Nerviano n. 37 del 06.04.2010 avente ad oggetto le controdeduzioni alle osservazioni e l’approvazione definitiva degli atti di PGT ai sensi della L.R. n. 12/2005 e dei relativi allegati, compresa la VAS.
...
Con il ricorso all’esame del Collegio la società istante, proprietaria di un’area di circa 19.000 mq. in ambito urbanizzato nel comune di Nerviano, ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il Comune medesimo ha approvato il piano di governo del territorio e ha controdedotto alle osservazioni presentate dagli interessati, in relazione al sito di sua proprietà, classificato come ambito per servizi privati di interesse generale, con previsione, in particolare, di strutture sportive coperte e scoperte, dunque con una limitata possibilità edificatoria.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha dedotto: la violazione dell’art. 9 della L.R. n. 12/2005 in relazione al contenuto del Piano dei Servizi, che non evidenzierebbe la necessità di ulteriori attrezzature di interesse generale, ed in specie sportive; l’eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria delle previsioni urbanistiche in relazione al sovradimensionamento rispetto agli standard minimi e all’affidamento ingenerato nella società ricorrente da precedenti indirizzi espressi dalla stessa amministrazione comunale; l’irragionevolezza e illogicità manifesta delle previsioni urbanistiche rispetto alla conformazione e alle caratteristiche morfologiche dell’area, interclusa fra aree a destinazione residenziale e produttiva; l’illegittimità della valutazione ambientale strategica (VAS) rispetto alle disposizioni normative in materia, eurounitarie ed interne (direttiva 2001/42/CE, artt. 11 e ss. del d.lgs. n. 152/2005, art. 4 L.R. n. 12/2005, DCR n. 351 del 13/3/2007, DGR n. 8/6420 del 27/12/2007, DGR 10971 del 30/12/2009); la violazione degli artt. 13, comma 8, e 20, commi 4 e 5, della L.R. n. 12/2005 e il difetto di istruttoria in relazione all’omissione del rispetto dell’obbligo di trasmettere gli atti del PGT alla Regione, perché interessati da obiettivi prioritari di interesse regionale e sovraregionale; la violazione dell’art. 9 della L.R. n. 12/2005 e dell’art. 38 della L. n. 26/2003, nonché il difetto di istruttoria, in relazione alla mancata individuazione delle infrastrutture nel sottosuolo mediante la predisposizione del PUGGS (piano urbano generale dei servizi nel sottosuolo).
...
Il Collegio ritiene fondata la censura con la quale la società ricorrente ha dedotto l’eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria delle previsioni urbanistiche impugnate in relazione al sovradimensionamento rispetto agli standard minimi previsti dalla legge.
Più specificamente, l’istante ha lamentato che il Comune resistente non avrebbe rispettato l’incisivo onere di motivazione che sussiste qualora lo strumento urbanistico effettui un sovradimensionamento delle aree destinate ad ospitare attrezzature pubbliche o di interesse pubblico o generale (cosiddette aree a standard), prevedendone in misura maggiore rispetto ai parametri minimi fissati dall’art. 3 del d.M. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005, vale a dire 18 mq./abitante.
La difesa comunale, invece, ha controdedotto premettendo, anzitutto, la generale funzione di tutela ambientale delle previsioni urbanistiche impugnate, che riguarderebbero un ambito inserito tra aree edificate residenziali e produttive e che avrebbero costituito un idoneo compromesso per attribuire comunque una limitata capacità edificatoria all’area in questione senza compromettere gli interessi generali degli abitanti del Comune. La funzione delle previsioni urbanistiche in questione sarebbe, dunque, di riequilibrio ecologico.
Sulla specifica censura, l’Amministrazione resistente assume che la disciplina regionale stabilirebbe solo in linea di massima gli standard minimi, lasciando la definizione concreta degli stessi alle previsioni degli strumenti urbanistici generali ed attuativi.
Inoltre, i servizi privati di interesse generale previsti dallo strumento urbanistico impugnato in relazione all’area della società istante non potrebbero essere qualificati come servizi pubblici e di interesse pubblico o generale, perché non regolati da atto di asservimento o da regolamento d’uso.
La tesi del Comune non convince.
Ed invero, nella fattispecie in questione la relazione al Piano dei Servizi indica una superficie complessiva di aree a standard pari a 1.043.934 mq., di cui 786.957 mq. di aree per servizi alla popolazione, corrispondenti a 39,9 mq. per abitante, e 256.977 mq. di aree a servizio del sistema economico (cfr. pag. 41 della relazione).
Rispetto alla previsione di tale rilevante superficie destinata a standard, notevolmente superiore ai parametri di legge, il Comune intimato avrebbe dovuto idoneamente e congruamente motivare sulle ragioni di tale rilevante necessità, mentre non ha fornito alcuna specifica motivazione a riguardo.
E’ stato, in proposito, osservato che: “
La destinazione a dotazioni standard di un'area privata incide fortemente sugli interessi del proprietario; è, pertanto, necessario che l'ente indichi sempre con precisione quali attrezzature debbano essere ivi realizzate, in modo da consentire l'apprezzamento, da un lato, della serietà della decisione e, da altro lato, della consistenza degli interessi pubblici che si intendono soddisfare a scapito dell'interesse privato. La motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge” (cfr. TAR Lombardia, sez. II, 15.07.2016, nn. 1429 e 1430; 30.09.2016, n. 1766).
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9, comma 10, della l.r. n. 12/2005,
i servizi e le attrezzature private di interesse pubblico sono qualificati come servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, conseguendone, dunque, che le relative aree devono essere considerate a standard (TAR Lombardia, sez. II, 21.12.2012, n. 3186).
Del resto, lo stesso PGT impugnato classifica il comparto della ricorrente quale area per l’insediamento di servizi di interesse pubblico e generale (cfr. TAV R4 del Piano delle Regole e TAV S3.1 del Piano dei Servizi).
E tale conclusione si ricava anche dall’esame dell’art. 83.4 NTA del Piano delle Regole, che al secondo comma prevede espressamente la natura di servizio pubblico delle attrezzature private in questione, ai sensi dell’art. 9 succitato.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati limitatamente alla parte concernente le aree di proprietà dell’istante, con l’obbligo del Comune resistente di rideterminarsi in ordine alle stesse.
La domanda di risarcimento del danno va, invece, respinta, atteso che solo all’esito del riesercizio della potestà pianificatoria da parte dell’Amministrazione intimata sarà possibile valutare il verificarsi di un’eventuale lesione in capo alla posizione giuridica della società istante.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra le parti delle spese di giudizio, in relazione alla soccombenza parziale.

APPALTI: Indicazione in sede di offerta dei costi della manodopera e di quelli aziendali concernenti la sicurezza sul lavoro.
Il TAR Milano, modificando il precedente orientamento (Sez. I, n. 1223 del 07.05.2018 e n. 1589 del 26.06.2018), afferma che la questione dell’onere di indicazione in sede di offerta dei costi della manodopera (così come di quelli aziendali concernenti la sicurezza sul lavoro) sia stata disciplinata e risolta dal novellato disposto normativo dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. 50/2016 e conseguentemente la mancata separata indicazione nell’offerta economica dei costi della manodopera determina un’irregolarità non sanabile mediante il ricorso al soccorso istruttorio oggi disciplinato dall’art. 83, comma 9, del d.lgs. 50 del 2016, atteso che tale istituto ammette l’esercizio della facoltà di integrazione da parte dei concorrenti solo in relazione alle carenze di elementi formali della domanda, mentre, nella specie, viene in rilievo la carenza di un elemento sostanziale, perché attinente al contenuto dell’offerta economica.
Pertanto, una volta accertato che tale obbligo di indicazione è stato chiaramente sancito dalla legge, la sua violazione determina conseguenze escludenti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.07.2018 n. 1855 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il collegio deve prendere atto dell’irrisolto contrasto giurisprudenziale risultante dalle contrapposte tesi delle parti fin qui esposte: non di meno, muovendo dall’unico dato pacifico, e cioè che l’offerta economica di Ko. non specificava il costo della manodopera, deve dare risposta alla domanda giudiziale sottopostagli, e ciò partendo dal disposto letterale normativo, anche nella sua evoluzione.
Ed invero, nella versione originale, l’art. 95, comma 10, si limitava a prevedere che “Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”. Dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (in specie, dall’art. 60), lo stesso comma 10 statuisce che: “Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)”.
A sua volta, l’art. 97, per quanto d’interesse, così dispone: “1. Gli operatori economici forniscono, su richiesta della stazione appaltante, spiegazioni sul prezzo o sui costi proposti nelle offerte se queste appaiono anormalmente basse, sulla base di un giudizio tecnico sulla congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità dell'offerta. (…)
4. Le spiegazioni di cui al comma 1 possono, in particolare, riferirsi a: a) l'economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; b) le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l'offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; c) l'originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti dall'offerente.
5. La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l'offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l'offerta è anormalmente bassa in quanto: (…) c) sono incongrui gli oneri aziendali della sicurezza di cui all'articolo 95, comma 10 rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture; d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all'articolo 23, comma 16
”.
Infine, secondo quest’ultima disposizione: “Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, il costo del lavoro è determinato annualmente, in apposite tabelle, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale (…) Nei contratti di lavori e servizi la stazione appaltante, al fine di determinare l'importo posto a base di gara, individua nei documenti posti a base di gara i costi della manodopera sulla base di quanto previsto nel presente comma. I costi della sicurezza sono scorporati dal costo dell'importo assoggettato al ribasso”.
Ebbene, dall’esame delle succitate disposizioni normative emerge, anzitutto, che il procedimento di valutazione dell’anomalia dell’offerta, regolato dall’art. 97, è stato reso dal legislatore più celere e snello rispetto a quanto risultasse dalle previsioni normative del precedente codice degli appalti (artt. 86-88 d.lgs. n. 163/2006).
Tale conclusione si ricava anche dalla mera lettura delle norme.
Ed invero, secondo le disposizioni precedenti, e, in particolare, l’art. 88 del d.lgs. n. 163/2006: “1. La stazione appaltante richiede, per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle giustificazioni. 1-bis. La stazione appaltante, ove lo ritenga opportuno, può istituire una commissione secondo i criteri stabiliti dal regolamento per esaminare le giustificazioni prodotte; ove non le ritenga sufficienti ad escludere l'incongruità dell'offerta, richiede per iscritto all'offerente le precisazioni ritenute pertinenti.
2. All'offerente è assegnato un termine non inferiore a cinque giorni per presentare, per iscritto, le precisazioni richieste.
3. La stazione appaltante, ovvero la commissione di cui al comma 1-bis, ove istituita, esamina gli elementi costitutivi dell'offerta tenendo conto delle precisazioni fornite.
4. Prima di escludere l'offerta, ritenuta eccessivamente bassa, la stazione appaltante convoca l'offerente con un anticipo non inferiore a tre giorni lavorativi e lo invita a indicare ogni elemento che ritenga utile.
5. Se l'offerente non si presenta alla data di convocazione stabilita, la stazione appaltante può prescindere dalla sua audizione
”.
Ora, se la previgente normativa imponeva una rigorosa e defatigante alternanza dialettica tra stazione appaltante e aggiudicatario, che la giurisprudenza aveva confermato, la nuova disciplina propone un modello one-shot (sebbene non vieti di svolgere ulteriori approfondimenti), dove la stazione appaltante esprime tutte insieme le sue perplessità, e l’aggiudicatario offre –senza successivi affinamenti che rendano gradualmente credibile la propria offerta– tutte insieme le proprie giustificazioni.
Dunque, ritiene il collegio che, conformemente alla medesima ratio normativa, anche il senso da dare alla modifica delle norme in tema di obbligatoria indicazione nell’offerta economica dei costi di sicurezza e di manodopera sia acceleratorio: il costo della manodopera, in particolare, che ci occupa in questa sede, deve essere sin da subito indicato dal concorrente nell’offerta economica separatamente, in modo che la stazione appaltante, che l’ha a sua volta indicato in forma specifica nei documenti posti a fondamento della gara, possa effettuare in via immediata la verifica di congruità dello stesso rispetto a quanto dalla stessa predeterminato in base a quanto risultante dalle apposite tabelle del Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali.
Nel caso in cui la stazione appaltante individui criticità in relazione al costo della manodopera indicato nell’offerta economica dal concorrente, ne chiederà subito le giustificazioni in merito, che interverranno entro 15 giorni, permettendo di concludere sollecitamente la valutazione della congruità o meno di tale voce di costo, così come di tutta l’offerta economica.
Si raggiunge, dunque, il risultato più celermente, del resto in linea con le finalità semplificatorie che sottendono alla complessiva riforma sugli appalti pubblici, mentre in precedenza la “navette” tra stazione appaltante e operatore economico influiva sul procedimento di valutazione dell’anomalia dell’offerta, allungandone la durata e talvolta favorendo alterazioni improprie dei valori iniziali, per adattarli alle esigenze della legge e della realtà economica.
Ed effettivamente, disporre sin da subito dei costi previsti per la manodopera dall’operatore, dallo stesso indicati in evidenza nell’offerta economica, rende molto più veloce e semplice l’accertamento dell’eventuale incongruità degli stessi.
Né si oppone a tale ricostruzione il disposto dell’ultima parte del comma 16 dell’art. 23 succitato, secondo il quale: “I costi della sicurezza sono scorporati dal costo dell'importo assoggettato al ribasso”, volendo, con tale disposto, il legislatore statuire semplicemente che gli oneri di manodopera sono ribassabili, a differenza di quelli di sicurezza, e, dunque, proprio per questo avvalorando la tesi per la quale la congruità degli stessi deve essere immediatamente percepibile e sottoposta al vaglio della stazione appaltante al fine del giudizio di congruità.
Né, al fine del rispetto della ratio normativa, può essere influente la previsione o meno a pena di esclusione da parte della lex specialis di gara dell’obbligatorietà dell’indicazione dei costi di manodopera nell’offerta economica, atteso che dalla lettera della legge emerge inequivocabilmente la voluntas legis dell’imperatività di tale precetto normativo (cfr., in particolare, l’art. 95, comma 10, per il quale “nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera…”), che deve, dunque, considerarsi tale in ogni situazione.
Questo giudice, in conclusione –pur nella consapevolezza dell’esistenza di giustificate conclusioni divergenti (cfr. Tar Lombardia-Milano, sez. I, 07.05.2018, n. 1223)- ritiene di concordare con la posizione giurisprudenziale fondata sull’evoluzione del disposto normativo.
Ed invero, la succitata modifica della legge è stata introdotta proprio al fine di superare l’orientamento passato che si era formato sulla mancata previsione espressa dell’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza e del costo del lavoro nell’offerta economica, e che aveva, dunque, permesso al Consiglio di Stato di affermare che: “
per le gare bandite in data anteriore all'entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e delle concessioni, nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale” (ma lo stesso era da considerarsi valido per i costi della manodopera) “l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio” (Cons. Stato, A.P., 27.07.2016, n. 19).
Tale orientamento si era affermato, inoltre, anche in relazione all’esame della questione da parte della Corte di Giustizia UE a seguito di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE, che aveva così statuito: “
il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti” (Corte di Giustizia UE sez. VI, ordinanza 10.11.2016 (causa C-162/16)).
Ritiene, dunque, il collegio -ma la conclusione si ricava anche dalla lettura della succitata sentenza resa in adunanza plenaria, che esplicita l’orientamento diverso solo “per le gare bandite in data anteriore all'entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e delle concessioni”- che la questione dell’onere di indicazione in sede di offerta dei costi della manodopera (così come di quelli aziendali concernenti la sicurezza sul lavoro) sia stata disciplinata e risolta dal novellato disposto normativo dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. 50/2016, più volte citato, chiaramente interpretabile secondo la sua lettera ed applicabile ratione temporis anche alla procedura concorsuale in questione (cfr., nello stesso senso, TAR Umbria, 17.05.2017, n. 390, riguardo alla mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali nell’ambito di un’offerta economica formulata in una procedura negoziata).
Ed invero,
la mancata separata indicazione nell’offerta economica dei costi della manodopera determina un’irregolarità non sanabile mediante il ricorso al soccorso istruttorio oggi disciplinato dall’art. 83 comma 9, del d.lgs. 50 del 2016, atteso che tale istituto ammette l’esercizio della facoltà di integrazione da parte dei concorrenti solo in relazione alle carenze di elementi formali della domanda, mentre, nella specie, viene in rilievo la carenza di un elemento sostanziale, perché attinente al contenuto dell’offerta economica (cfr. TAR Umbria, 17.05.2017, n. 390; TAR Toscana, sez. I, 10.02.2017, n. 217; TAR Molise 09.12.2016, n. 513; TAR Campania, Napoli, sez. III, 03.05.2017, n. 2358).
Per le gare indette all'indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, dunque, non vi sono più i presupposti per ricorrere al soccorso istruttorio in caso di mancata o incerta indicazione degli oneri di cui all'articolo 95, comma 10, atteso che il nuovo Codice ha definitivamente rimosso ogni possibile residua incertezza sulla sussistenza di tale assoluto obbligo.
Pertanto, una volta accertato che tale obbligo di indicazione è stato chiaramente sancito dalla legge, la sua violazione determina conseguenze escludenti.

Ed invero, come è stato di recente affermato dal Consiglio di Stato:
l’inadeguata indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. interni o aziendali” (ma lo stesso è per gli oneri di manodopera) “non lede solo interessi di ordine dichiarativo o documentale, ma si pone ex se, in contrasto con i doveri di salvaguardia dei diritti cui presiedono le previsioni di legge, che impongono di approntare misure e risorse congrue per preservare la loro sicurezza e la loro salute (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.02.2018, n. 815; nello stesso senso, 28.02.2018, n. 1228; 12.03.2018, n. 1555).
La nuova disciplina fissa, dunque, un obbligo legale inderogabile a carico dei partecipanti alla gara pubblica, restando ininfluente che gli atti della procedura non dispongano espressamente al riguardo ed operando piuttosto il meccanismo dell'eterointegrazione con l'obbligo discendente dalla norma primaria.
Neppure non può ammettersi il soccorso istruttorio previsto dall'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 per: “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica”, atteso che gli oneri di sicurezza aziendali e gli oneri di manodopera concernono l'offerta economica e, per la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale (cfr., riguardo agli oneri di sicurezza interni, TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.01.2017, n. 34 e TAR Veneto, sez. I, 21.02.2017, n. 182).
L’infondatezza del primo motivo dedotto, come è stato acclarato, determina che l’esclusione dal lotto 1 di Del Vecchio risulti pienamente legittima per tale, autonoma e vincolata, causa, rendendo superfluo l’esame delle ulteriori doglianze.
Ne deriva l’inammissibilità per carenza di legittimazione attiva delle censure proposte avverso l’aggiudicazione della gara alla controinteressata.
Ed invero: “
la situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura costituisce la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto storico della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall'accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla gara può quindi essere impedita dall'inoppugnabilità dell'atto di esclusione perché non impugnato, o perché giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall'intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l'Adunanza Plenaria (n. 4/2011), da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso
" (Cons. Stato, sez. V, 09.07.2012, n. 3994; nello stesso senso, cfr., fra le tante, Cons. di Stato, sez. IV, nn. 4180/2016, 3688/2016, 1560/2016).
Ne consegue, altresì, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse del ricorso rubricato nel RG al n. 585/2018, atteso che l’aggiudicazione del lotto 1 al Consorzio ricorrente è da ritenersi pienamente efficace.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso n. 961/2018 va in parte respinto e per il resto va dichiarato inammissibile, mentre il ricorso n. 585/2018 va dichiarato improcedibile.
Sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra tutte le parti delle spese di giudizio, atteso che è emerso un evidente contrasto giurisprudenziale sulla questione di diritto sottesa alla decisione della presente vertenza, che costituisce una grave ed eccezionale ragione per disporre la compensazione.
Ed invero, come è stato di recente affermato dalla Corte Costituzionale: “Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre quelle nominativamente indicate” (Corte Costituzionale, 19.042018, n. 77).

EDILIZIA PRIVATAL'agricoltore non può restringere la strada.
Il sindaco può ordinare la rimozione urgente degli impedimenti posizionati sulla sede stradale dal privato per evitare il passaggio dei camion e dei mezzi pesanti. Anche se la strada in questione è privata ma a uso pubblico.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con la sentenza 25.07.2018 n. 1801.
Un agricoltore esasperato dal passaggio di mezzi pesanti davanti a casa ha posizionato due grossi massi sul ciglio stradale limitando la sezione da 2,5 metri a quasi la metà. Contro questa decisione unilaterale il primo cittadino ha adottato una ordinanza urgente di ripristino che è stata impugnata dall'agricoltore davanti al Tribunale amministrativo. Ma senza successo.
A seguito di ripetuti sopralluoghi dei tecnici comunali, infatti, si è potuto accertare inequivocabilmente che la riduzione della larghezza della carreggiata è stata adottata dal privato in barba alle più elementari regole di sicurezza della circolazione.
Quindi ha fatto bene il primo cittadino a ordinare con urgenza al privato il ripristino della circolazione. E soprattutto la rimozione urgente dei grossi massi posizionati appositamente a margine della carreggiata
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.08.2018).
---------------
MASSIMA
Deve premettersi che, come risulta dalle difese comunali, l’area nell’ambito della quale insiste il fondo del ricorrente è stata interessata negli ultimi anni dal rilascio di alcuni titoli abilitativi alla costruzione di immobili.
Contestualmente, si sono verificati episodi di restringimento della carreggiata della strada che percorre la suddetta area di sedime, larga circa due metri e cinquanta, fino a restringerla notevolmente, per impedire il transito ai mezzi di trasporto dei materiali di costruzione.
Dai verbali di sopralluogo versati in atti risulta, invero, che la carreggiata è stata portata, in seguito ai suddetti episodi di ostruzione, finanche alla larghezza di soli metri 1.80.
Deve, inoltre, darsi atto dell’esecuzione dell’ordinanza di rimozione da parte del ricorrente in seguito alla reiezione dell’istanza cautelare dallo stesso proposta.
Tanto premesso, il collegio ritiene che le censure dell’istante non colgano nel segno.
Ed invero, l’ordinanza impugnata trova il suo fondamento proprio nei verbali di sopralluogo succitati, dei quali l’istante è stato posto a conoscenza, l’ultimo dei quali è stato redatto il 15.04.2009 e nell’ambito del quale viene attestato un significativo restringimento della carreggiata stradale da 2,25 metri a 1,80/1,90 metri, dunque ulteriore rispetto ai precedenti verbali redatti nell’anno 2008 e tale da non consentire più la sicura circolazione dei veicoli.
Emerge, dunque, la certa sussistenza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sindacali, costituita dall’urgenza di provvedere per ristabilire la sicura circolazione veicolare.
L’esercizio di tali poteri è stato, in ogni caso, preceduto dall’emissione dei succitati verbali di sopralluogo, posti a conoscenza dell’istante, che attestano, dunque, anche la sicura infondatezza delle censure di violazione delle garanzie procedimentali dedotte dall’interessato.
Dai suddetti accertamenti emerge, inoltre, inequivocabilmente, altresì l’infondatezza delle censure di difetto dei presupposti, di istruttoria e di motivazione, oltre di tutte le altre figure di eccesso di potere e di violazione di legge dedotte dall’istante.
L’operato dell’Amministrazione intimata risulta, dunque, improntato alla perfetta legittimità.

Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va respinto.

URBANISTICA: Violazione del principio di perequazione urbanistica.
E' degna di accoglimento la censura rivolta contro un PGT, con la quale parte ricorrente si duole della violazione del principio di perequazione urbanistica integrata con la scelta del Comune di gravare esclusivamente l’area della ricorrente del “costo” necessario per realizzare il pubblico interesse della tutela ambientale e paesaggistica.
Invero, come si evince dall’esame degli artt. 11 della L.R. n. 12/2005 e 2.1.3 della deliberazione di G.R. 29.12.2005, n. 1861, il principio della perequazione urbanistica è definito quale strumento di gestione del piano, incentrato su un’equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune.
Sebbene non sussista un obbligo di previsione di un sistema urbanistico perequativo o compensativo, la tendenza è in tal senso, in adesione a politiche urbanistiche fondate su scelte operative volte a rendere i proprietari delle aree coinvolte compartecipi delle determinazioni, oltre che basate su una sempre più equa ripartizione del peso derivante dai vincoli imposti ai privati, anche di tipo conformativo.
L’istituto della perequazione ha, dunque la finalità di eliminare le diseguaglianze che la pianificazione tradizionale produce fra proprietari di aree aventi caratteristiche simili, tendendo a realizzare un’equa distribuzione dei diritti edificatori tra tutte le proprietà ricomprese all’interno dei medesimi ambiti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 25.07.2018 n. 1800 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il Collegio ritiene, altresì, degna di accoglimento la censura con la quale la società istante si duole della violazione del principio di perequazione urbanistica integrata con la scelta del Comune di gravare esclusivamente l’area della ricorrente del “costo” necessario per realizzare il pubblico interesse della tutela ambientale e paesaggistica.
Ed invero, come si evince dall’esame degli artt. 11 della L.R. n. 12/2005 e 2.1.3 della deliberazione di G.R. 29.12.2005, n. 8/1861, il principio della perequazione urbanistica è definito quale strumento di gestione del piano, incentrato su un’equa ed uniforme distribuzione di diritti edificatori indipendentemente dalla localizzazione delle aree per attrezzature pubbliche e dei relativi obblighi nei confronti del Comune.
È stato, in proposito, affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale che: “
sebbene non sussista un obbligo di previsione di un sistema urbanistico perequativo o compensativo, la tendenza è in tal senso, in adesione a politiche urbanistiche fondate su scelte operative volte a rendere i proprietari delle aree coinvolte compartecipi delle determinazioni, oltre che basate su una sempre più equa ripartizione del peso derivante dai vincoli imposti ai privati, anche di tipo conformativo” (TAR Lombardia, sez. IV, 11.07.2014, n. 1842).
L’istituto della perequazione ha, dunque: “la finalità di eliminare le diseguaglianze che la pianificazione tradizionale produce fra proprietari di aree aventi caratteristiche simili (TAR Lombardia, sez. II, 11.06.2014, n. 1543), tendendo a realizzare un’equa distribuzione dei diritti edificatori tra tutte le proprietà ricomprese all’interno dei medesimi ambiti (TAR Toscana, sez. I, 23.02.2017, n. 288).
Nella fattispecie all’esame del Collegio emerge, invece, come il Comune resistente abbia del tutto omesso di osservare il principio di perequazione urbanistica.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati limitatamente alla parte concernente le aree di proprietà dell’istante, con l’obbligo del Comune resistente di rideterminarsi in ordine alle stesse.

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 38 DPR 380/2001 deve essere interpretato nel senso della non ammissibilità dell’effetto sanante per vizi che non sono in alcun modo riconducibili all'espressione “vizi delle procedure amministrative” alle quali si riferisce espressamente la norma, ma a vizi sostanziali non emendabili.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che è l’irrogazione della sanzione pecuniaria ad essere subordinata ad una motivata valutazione del dirigente del competente ufficio comunale, da assumere previa adeguata istruttoria, e che l’obbligo di un'espressa motivazione è pertanto circoscritto alle sole ipotesi in cui occorre giustificare il ricorso all'opzione residuale dell'irrogazione delle sanzioni pecuniarie, perché la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può essere applicata nelle sole ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la residua parte legittimamente assentita.
---------------
E' onere del privato allegare elementi utili far risultare quantomeno verosimile un’oggettiva impossibilità della riduzione in pristino.
---------------

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 38 del DPR 06.06.2001, n. 380, relativo agli atti da adottare relativamente alle costruzioni realizzate a seguito di un titolo edilizio annullato, che avrebbe dovuto trovare applicazione, secondo la prospettazione proposta, in luogo dell’ordinanza di remissione in pristino.
La norma prevede che in caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria.
La doglianza deve essere respinta, perché l’annullamento dei titoli edilizi è avvenuto non per vizi procedimentali, ma per vizi sostanziali non emendabili, ovvero perché è stato autorizzato un intervento edilizio di nuova costruzione che non poteva essere realizzato in quanto in contrasto con uno specifico divieto dello strumento urbanistico ed in violazione delle distanze.
In particolare è stato accertato che l’intervento non costituiva una ristrutturazione, ma una nuova costruzione avente una configurazione planivolumetrica diversa rispetto all’edificio demolito e successivamente ricostruito, vietata dall’art. 35 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, che non consente incrementi di volume nella zona B1.
La fattispecie rientra pertanto entro la categoria di opere che la giurisprudenza è ferma nel ritenere non sanabili, perché l’art. 38 deve essere interpretato nel senso della non ammissibilità dell’effetto sanante per vizi che non sono in alcun modo riconducibili all'espressione “vizi delle procedure amministrative” alle quali si riferisce espressamente la norma, ma a vizi sostanziali non emendabili (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.06.2016, n. 2631; Consiglio di Stato, sez. VI, 09.05.2016, n. 1861; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.10.2013, n. 5115; Tar Veneto, Sez. II, 26.01.2015, n. 69; Corte Costituzionale, 11.06.2010, n. 209).
Parimenti priva di fondamento è la censura di difetto di motivazione in merito alla mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.
Infatti la giurisprudenza ha precisato che è l’irrogazione della sanzione pecuniaria ad essere subordinata ad una motivata valutazione del dirigente del competente ufficio comunale, da assumere previa adeguata istruttoria, e che l’obbligo di un'espressa motivazione è pertanto circoscritto alle sole ipotesi in cui occorre giustificare il ricorso all'opzione residuale dell'irrogazione delle sanzioni pecuniarie (ex pluribus cfr. Tar Abruzzo, Pescara, Sez. I, 26.05.2016, n. 195; Tar Veneto, Sez. II, 21.04.2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.03.2016 n. 1397; Tar Molise, 29.01.2016 n. 39; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.04.2015 n. 2137), perché la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può essere applicata nelle sole ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la residua parte legittimamente assentita.
Pertanto nel caso di specie non era necessaria una specifica motivazione per disporre la demolizione.
Peraltro va anche osservato che dalla documentazione versata in atti non sono riscontrabili elementi idonei a dimostrare l’impossibilità di procedere alla riduzione in pristino o l’esigenza di conservazione dell’immobile tali da giustificare l’irrogazione della sanzione pecuniaria.
Premesso che è onere del privato allegare elementi utili far risultare quantomeno verosimile un’oggettiva impossibilità della riduzione in pristino (cfr. Tar Molise, 29.01.2016, n. 39; Tar Veneto, Sez. II, 21.04.2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 06.06.2014, n. 5716; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.09.2015, n. 4289), la censura circa la mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria deve pertanto essere respinta.
Quanto alla dedotta mancata valutazione dell’aspettativa ingenerata in capo alla ricorrente a seguito del rilascio dei titoli edilizi annullati, va osservato che in realtà è la ratio della disposizione di cui all’art. 38 del DPR 06.06.2001, n. 380, ad essere ispirata alla tutela di quanti vengano colpiti da un’abusività sopravvenuta che nella specifica considerazione del legislatore si traduce nella previsione di una forma di tutela -ove possibile e al ricorrere delle condizioni prestabilite- dell’affidamento riposto dall’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull’efficacia del titolo assentito.
Ciò non implica tuttavia che l’Amministrazione, in sede di applicazione della norma, debba farsi carico della tutela dell’aspettativa dell’interessato, dato che deve limitarsi ad applicare la stessa entro i confini ed i presupposti delineati dal legislatore.
Nessun rimprovero può pertanto essere mosso al Comune per non aver valutato in modo specifico l’aspettativa ingenerata dal rilascio del titolo annullato.
Il primo motivo deve pertanto essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.07.2018 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'’art. 30 del d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito in legge 09.08.2013 n. 98, nell’eliminare l'obbligo del rispetto della sagoma strutturale preesistente “non ha portata retroattiva intanto in quanto dà luogo ad una diversa composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si da ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale” e “si può poi escludere che tale norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di interpretazione autentica”, atteso che la disposizione “non ha introdotto norme di condono né di sanatoria edilizi e non è suscettibile di applicazione a fattispecie antecedenti alla sua entrata in vigore, non essendo munita di efficacia retroattiva”.
---------------

Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale la ricorrente sostiene che la nuova nozione di ristrutturazione di cui all’art. 30 del decreto legge 21.06.2013, n. 69, convertito in legge 09.08.2013, n. 98, che qualifica come ristrutturazione anche gli interventi che comportano una modifica della sagoma, deve ritenersi applicabile anche agli interventi edilizi realizzati antecedentemente alla sua entrata in vigore perché un tale principio è stato affermato dall’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35 del 12.03.2013.
In primo luogo va osservato che la questione è inconferente nel caso di specie.
Infatti l’accoglimento del ricorso straordinario è stato determinato non solo dall’impossibilità di qualificare come ristrutturazione l’intervento a causa della diversa sagoma dell’edificio realizzato a seguito della demolizione di quello precedente, ma anche per l’aumento del volume.
Poiché anche nella norma modificata, al fine di poter qualificare come ristrutturazione un intervento edilizio, permane il requisito della stessa volumetria di quello preesistente, è evidente che l’intervento realizzato che ha comportato la sopraelevazione di due piani e quindi un aumento di volume, non può essere qualificato come intervento di ristrutturazione, ma deve essere qualificato come intervento di nuova costruzione.
Il dato, chiaramente evincibile dalla documentazione versata in atti, può essere agevolmente desunto anche dalle conclusioni della seconda verificazione disposta dal Consiglio di Stato in sede di appello avverso la sentenza Tar Veneto, Sez. II, 06.02.2014, n. 150 (cfr. doc. 2 allegato alle difese dei controinteressati pagg. 13 e 14).
Inoltre per completezza va anche soggiunto che la tesi secondo cui alla nuova nozione di ristrutturazione avrebbe portata retroattiva è infondata.
Infatti la norma invocata, come condivisibilmente affermato in giurisprudenza (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, ord. 05.11.2015 n. 2342) nell’eliminare l'obbligo del rispetto della sagoma strutturale preesistente “non ha portata retroattiva in tanto in quanto dà luogo ad una diversa composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si da ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale” e “si può poi escludere che tale norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di interpretazione autentica”, atteso che la disposizione (cfr. Tar Marche, Sez. I, 09.10.2014, n. 880) “non ha introdotto norme di condono né di sanatoria edilizi e non è suscettibile di applicazione a fattispecie antecedenti alla sua entrata in vigore, non essendo munita di efficacia retroattiva”.
Inoltre, contrariamente a quanto dedotto dalla parte ricorrente, è priva di rilievo l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35 del 12.03.2013.
Con tale ordinanza la Corte si è limitata a restituire gli atti al giudice a quo perché l’oggetto del giudizio era la legittimità costituzionale o meno della legge della Regione Lombardia rispetto alla norma statale, costituente parametro interposto del giudizio di costituzionalità, che ha subito modificazioni nelle more della definizione del giudizio, ma non ha sancito la retroattività della norma.
Anzi, il giudice a quo successivamente a questa ordinanza ha sollevato nuovamente la medesima questione proprio sul presupposto della non retroattività della norma sopravvenuta e la Corte Costituzionale con sentenza 20.10.2016, n. 226, ha dichiarato l’incostituzionalità della norma regionale in ragione della non retroattività dello ius superveniens costituito dalla norma statale.
In definitiva il ricorso r.g. n. 714 del 2016 deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.07.2018 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per individuare la natura precaria di un'opera, si deve seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate con materiali facilmente amovibili.
Condivisibile giurisprudenza ha osservato che “per principio consolidato, per individuare la natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate (il che nel nostro caso non è) con materiali facilmente amovibili.
Non possono essere quindi considerati manufatti precari, destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Questa Sezione ha poi anche affermato che la “precarietà” dell'opera postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo”.
Inoltre, “tali opere debbono però essere “immediatamente” rimosse al cessare della necessità.
La normativa in questione ha, peraltro, meglio precisato che tali opere debbono “comunque” essere rimosse entro un termine non superiore a novanta giorni. Nel senso, cioè, che ove le esigenze temporanee permangano oltre tale termine, gli interessati debbono munirsi di un idoneo titolo edilizio, che potrà essere, a sua volta, anch’esso temporaneo. In sintesi, le opere dirette a soddisfare esigenze “obiettive” e “contingibili e temporanee” sono oggi legislativamente considerate come attività libere, ma debbono essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla loro realizzazione, a meno che gli interessati non chiedano, al fine di mantenerle per un tempo maggiore, un idoneo titolo edilizio.
Né, come si è detto, può ritenersi che il riferimento al termine di novanta giorni sia riconducibile al momento in cui le opere debbono essere rimosse una volta cessata la particolare necessità che ne aveva determinato la realizzazione”.
---------------
Rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e richiedono il rilascio di concessione edilizia non solo i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di ogni genere con le quali si intervenga sul suolo o nel suolo, senza che abbia rilevanza giuridica il mezzo tecnico con cui sia stata assicurata la stabilità del manufatto, che può essere infisso o anche appoggiato al suolo, in quanto la stabilità non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, ossia nell’attitudine ad una utilizzazione che non abbia il carattere della precarietà, cioè non sia temporanea e contingente.
Del resto, risulta incontestato che le opere di cui all’impugnata ordinanza di demolizione siano state mantenute dai ricorrenti ben oltre il termine di novanta giorni espressamente previsto dal citato art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. 380/2001, ciò ad ulteriore riprova del fatto che le stesse non possano assolutamente ritenersi destinate ad un uso limitato nel tempo, per soddisfare fini specifici e temporanei.

---------------

Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è infondato nel merito e va pertanto respinto.
Ed invero, è noto come che l’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. 380/2001 espressamente preveda che possano essere realizzate senza alcun titolo edilizio esclusivamente “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale”.
La norma testé richiamata, pertanto, qualifica come attività libere esclusivamente le opere dirette a soddisfare esigenze “obiettive” e “contingenti e temporanee”, purché le stesse vengano effettivamente rimosse entro novanta giorni dalla loro realizzazione.
Al riguardo, la condivisibile giurisprudenza ha al riguardo osservato che “per principio consolidato, per individuare la natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate (il che nel nostro caso non è) con materiali facilmente amovibili (fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016). Non possono essere quindi considerati manufatti precari, destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4116 del 04.09.2015). Questa Sezione ha poi anche affermato che la “precarietà” dell'opera postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016 cit.)” ( Cons. di Stato, sez. VI, n. 795/2017).
Inoltre, “tali opere debbono però essere “immediatamente” rimosse al cessare della necessità.
La normativa in questione ha, peraltro, meglio precisato che tali opere debbono “comunque” essere rimosse entro un termine non superiore a novanta giorni. Nel senso, cioè, che ove le esigenze temporanee permangano oltre tale termine, gli interessati debbono munirsi di un idoneo titolo edilizio, che potrà essere, a sua volta, anch’esso temporaneo. In sintesi, le opere dirette a soddisfare esigenze “obiettive” e “contingibili e temporanee” sono oggi legislativamente considerate come attività libere, ma debbono essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla loro realizzazione, a meno che gli interessati non chiedano, al fine di mantenerle per un tempo maggiore, un idoneo titolo edilizio.
Né, come si è detto, può ritenersi che il riferimento al termine di novanta giorni sia riconducibile al momento in cui le opere debbono essere rimosse una volta cessata la particolare necessità che ne aveva determinato la realizzazione
” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 23/05/2017 n. 2438).
Ciò posto, appare evidente come nella fattispecie che occupa l’impugnato provvedimento si palesi legittimo, posto che le opere colpite dall’ingiunta demolizione, pur se destinate a servire l'esecuzione del cantiere ed a tal fine espressamente previste nella richiesta di permesso di costruire a suo tempo presentata dai ricorrenti, non possono assolutamente qualificarsi alla stregua di manufatti precari, considerato che le stesse non sono destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, come del resto comprovato anche dal fatto che nel caso di specie risulta addirittura presentata, in data 05.02.2015, “proroga” della S.C.I.A. per il completamento degli interventi di cui al rilasciato permesso di costruire n. 10 del 14.02.2011, alla cui realizzazione i manufatti in questione sarebbero funzionali; appare, pertanto, evidente come i manufatti di cui all’ingiunta demolizione sicuramente non possono considerarsi alla stregua di opere precarie destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee, e pertanto inidonei a determinare una mutazione durevole dell'assetto territoriale comunale.
Per quanto sin qui osservato, pertanto, non può fondatamente sostenersi, come fanno i ricorrenti nel primo motivo di ricorso, che le opere in questione dovrebbero comunque considerarsi come manufatti precari, atteso il loro carattere di strutture facilmente amovibili, ed in quanto tali sottratte al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, il Tribunale si limita a richiamare la condivisibile giurisprudenza che ha chiaramente affermato che “rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e richiedono il rilascio di concessione edilizia non solo i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di ogni genere con le quali si intervenga sul suolo o nel suolo, senza che abbia rilevanza giuridica il mezzo tecnico con cui sia stata assicurata la stabilità del manufatto, che può essere infisso o anche appoggiato al suolo, in quanto la stabilità non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, ossia nell’attitudine ad una utilizzazione che non abbia il carattere della precarietà, cioè non sia temporanea e contingente” (cfr. Cass. pen. sez. III, 07.06.2006).
Del resto, risulta incontestato che le opere di cui all’impugnata ordinanza di demolizione siano state mantenute dai ricorrenti ben oltre il termine di novanta giorni espressamente previsto dal citato art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. 380/2001, ciò ad ulteriore riprova del fatto che le stesse non possano assolutamente ritenersi destinate ad un uso limitato nel tempo, per soddisfare fini specifici e temporanei (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.07.2018 n. 4907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge.
Ciò comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera descrizione e rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in re ipsa, con l’interesse del privato proprietario del manufatto.

---------------

Parimenti infondato si palesa, a parere del Collegio anche il secondo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti si dolgono che l’ordinanza impugnata non contenga un’adeguata motivazione in relazione al concreto ed attuale interesse urbanistico leso, ed alla sua prevalenza rispetto all’interesse privato alla conservazione dei manufatti in questione per tutto il tempo necessario alla realizzazione dell’intervento edilizio assentito con il permesso di costruire n. 11 del 2011.

A tale ultimo riguardo, il Tribunale si limita a richiamare la prevalente e condivisibile giurisprudenza amministrativa che afferma che «il provvedimento di repressione degli abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge; ciò comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera descrizione e rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in re ipsa, con l’interesse del privato proprietario del manufatto» (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 20.07.2011, n. 4254; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 07.09.2009, n. 5229; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14.05.2007, n. 2441; Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29.05.2006, n. 3270) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 23.07.2018 n. 4907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 31, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 individua tra i destinatari dell'ingiunzione di rimozione o di demolizione di abusi edilizi, anche il proprietario; in questa determinazione va interpretata una precisa scelta del legislatore, la cui ratio va individuata nel fatto che il proprietario è il solo soggetto legittimato ad intervenire sull'immobile e ad eliminare così un abuso anche in precedenza realizzato; per questo, il proprietario non può sottrarsi a siffatto obbligo ed addossare l'esclusiva responsabilità a terzi o al precedente proprietario; d'altro canto, spetta pur sempre al proprietario il diritto di rivalersi, sul piano civilistico, nei confronti dell'effettivo autore della trasformazione abusiva.
Allo stesso modo, in modo simmetrico, l'acquirente di un immobile succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive attive e passive che facevano capo al precedente proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria sia dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartito, che precede nel tempo il contratto traslativo, in suo favore, della proprietà, senza che possano assumere rilevanza, al fine di sottrarsi all'obbligo di demolizione e di rimessa in pristino stato, le eventuali posizioni di buona fede, a nulla rilevando che l'interessato acquisti il semplice possesso o ne abbia la detenzione, posto che il bene immobile rientra nella sua disponibilità.
Nella specie pertanto va riconosciuto che il ricorrente, sia pure nella qualità di esercente la potestà nei confronti del figlio minore, nudo proprietario degli immobili abusivi, assume quindi la responsabilità, ai fini della demolizione, delle opere abusive che sono state ivi realizzate.
Peraltro, la qualifica di "responsabile dell'abuso edilizio" non riguarda solo chi ha materialmente realizzato il manufatto abusivo, ma si estende necessariamente anche a chi ha la "materiale disponibilità" dell'immobile sul quale insistono le opere abusive.
L’ordine di demolizione, infatti, non ha natura sanzionatoria, non è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio cioè ha la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che avviene attraverso la rimozione delle opere abusive.
Infatti la giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di demolizione debba essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità della opera abusiva, indipendentemente dal fatto che la abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell'ordine di demolizione.
Il presupposto del provvedimento amministrativo è la realizzazione di un'opera in assenza di concessione; opera che deve essere eliminata per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l'ordine di demolizione va rivolto a che abbia la attuale disponibilità del bene abusivo indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
---------------

1. Con ricorso iscritto al n. 11/2018 -OMISSIS- in proprio e quale genitore esercente la potestà sul minore -OMISSIS- impugnavano, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza n. 497/2017 prot. n. 48208 del 26.09.2017 notificata l’11.10.2017 avente ad oggetto ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di € 8.337,50 ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001 per la mancata demolizione della tettoia scoperta in legno, del cancello metallico e delle opere murarie relative all’accesso carrabile e pedonale di cui all’ordine di ripristino n. 272/2017 prot. n. 24850 del 23.05.2017.
...
2. Preliminarmente va respinta poiché infondata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva opposta rispetto al minore ricorrente quale destinatario del provvedimento impugnato ed estraneo all’abuso.
A ben vedere l’ordine di demolizione prot. n. 272 del 23.05.2017 dalla cui inottemperanza è scaturita la sanzione pecuniaria impugnata è stato correttamente ingiunto al minore -OMISSIS- nonché alla ricorrente anche nella qualità di genitore esercente la potestà sul minore medesimo.
Del pari irrilevante si appalesa la circostanza relativa all’estraneità all’abuso, in quanto commesso dal -OMISSIS- quale progettista e committente dei lavori, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l'amministrazione comunale ha il potere di sanzionare anche i proprietari o possessori ad altro titolo i quali, pur non essendo autori degli abusi, hanno incautamente ricevuto il bene pur in presenza di irregolarità edilizie. Per questa ragione non possono invocare l'incolpevole affidamento.
Non a caso, l'art. 31, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 individua tra i destinatari dell'ingiunzione di rimozione o di demolizione di abusi edilizi, anche il proprietario; in questa determinazione va interpretata una precisa scelta del legislatore, la cui ratio va individuata nel fatto che il proprietario è il solo soggetto legittimato ad intervenire sull'immobile e ad eliminare così un abuso anche in precedenza realizzato; per questo, il proprietario non può sottrarsi a siffatto obbligo ed addossare l'esclusiva responsabilità a terzi o al precedente proprietario; d'altro canto, spetta pur sempre al proprietario il diritto di rivalersi, sul piano civilistico, nei confronti dell'effettivo autore della trasformazione abusiva (ex multis, Tar Potenza, 22.01.2015, n. 57).
Allo stesso modo, in modo simmetrico, l'acquirente di un immobile succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive attive e passive che facevano capo al precedente proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria sia dell'ingiunzione di demolizione successivamente impartito, che precede nel tempo il contratto traslativo, in suo favore, della proprietà (Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781), senza che possano assumere rilevanza, al fine di sottrarsi all'obbligo di demolizione e di rimessa in pristino stato, le eventuali posizioni di buona fede, a nulla rilevando che l'interessato acquisti il semplice possesso o ne abbia la detenzione, posto che il bene immobile rientra nella sua disponibilità (cfr. TAR Basilicata, 24/03/2016, n. 280).
Nella specie pertanto va riconosciuto che il ricorrente, sia pure nella qualità di esercente la potestà nei confronti del figlio minore, nudo proprietario degli immobili abusivi, assume quindi la responsabilità, ai fini della demolizione, delle opere abusive che sono state ivi realizzate.
Peraltro, la qualifica di "responsabile dell'abuso edilizio" non riguarda solo chi ha materialmente realizzato il manufatto abusivo, ma si estende necessariamente anche a chi ha la "materiale disponibilità" dell'immobile sul quale insistono le opere abusive (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 01/04/2015, n. 808).
L’ordine di demolizione, infatti, non ha natura sanzionatoria, non è un provvedimento diretto a sanzionare un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è un atto di tipo ripristinatorio cioè ha la funzione di eliminare le conseguenze della violazione edilizia, attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che avviene attraverso la rimozione delle opere abusive.
Infatti la giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di demolizione debba essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità della opera abusiva, indipendentemente dal fatto che la abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non per la legittimità dell'ordine di demolizione.
Il presupposto del provvedimento amministrativo è la realizzazione di un'opera in assenza di concessione; opera che deve essere eliminata per ripristinare il corretto assetto del territorio, sicché l'ordine di demolizione va rivolto a che abbia la attuale disponibilità del bene abusivo indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
Nella specie parte ricorrente non ha dedotto la propria estraneità all’abuso non risultando proposto gravame avverso l’ordine di demolizione presupposto, né ha dimostrato di non avere la materiale disponibilità del bene.
L’eccezione sotto il duplice profilo va quindi disattesa (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.07.2018 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va esclusa ogni responsabilità a carico dei ricorrenti mancando la volontarietà dell’inottemperanza all’ordine di demolizione presupposto rispetto alla sanzione pecuniaria impugnata.
Invero, parte ricorrente dimostrato in atti che la mancata esecuzione, in parte qua, dell’ordine di demolizione è dipesa da un impedimento assoluto costituito dal decreto di sequestro preventivo dei beni oggetto dell’ordine di ripristino emesso dal G.i.p. del Tribunale, sin da data anteriore alla notifica dell’ordine di demolizione.
La giurisprudenza anche più rigorosa (sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, IV, 06.03.2012, n. 12609 secondo cui l’esistenza di un sequestro penale non costituisce impedimento di “natura assoluta” all’esecuzione di un ordine di demolizione sul presupposto che il destinatario possa comunque attivarsi sollecitando il dissequestro presso l’Autorità Giudiziaria) ammette tuttavia, quale “prova contraria”, che si dimostri di aver attivato tutti gli strumenti predisposti dall’ordinamento per sottrarre l’immobile abusivo al vincolo esistente e provvedere al ripristino dell’ordine giuridico violato.
Nella specie una siffatta prova “liberatoria” è stata allegata al giudizio dal momento che parte ricorrente ha dimostrato di aver inoltrato in data ... istanza di dissequestro dichiarando ivi di voler ottemperare all’ordine di demolizione ingiunto dal Comune riferendolo a tutti i beni oggetto di ripristino, ed il G.i.p. ha accolto solo in parte l’istanza autorizzando la sola demolizione dell’immobile principale, sotto la vigilanza della Polizia Municipale.
---------------

1. Con ricorso iscritto al n. 11/2018 -OMISSIS- in proprio e quale genitore esercente la potestà sul minore -OMISSIS- impugnavano, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza n. 497/2017 prot. n. 48208 del 26.09.2017 notificata l’11.10.2017 avente ad oggetto ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria di € 8.337,50 ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001 per la mancata demolizione della tettoia scoperta in legno, del cancello metallico e delle opere murarie relative all’accesso carrabile e pedonale di cui all’ordine di ripristino n. 272/2017 prot. n. 24850 del 23.05.2017.
...
2. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto avendo parte ricorrente dimostrato in atti che la mancata esecuzione, in parte qua, dell’ordine di demolizione è dipesa da un impedimento assoluto costituito dal decreto di sequestro preventivo dei beni oggetto dell’ordine di ripristino emesso dal G.i.p. del Tribunale di Vasto il 22.02.2017, sin da data anteriore alla notifica dell’ordine di demolizione del 05.06.2017.
La giurisprudenza anche più rigorosa (sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, IV, 06.03.2012, n. 12609 secondo cui l’esistenza di un sequestro penale non costituisce impedimento di “natura assoluta” all’esecuzione di un ordine di demolizione sul presupposto che il destinatario possa comunque attivarsi sollecitando il dissequestro presso l’Autorità Giudiziaria) ammette tuttavia, quale “prova contraria”, che dimostri di aver attivato tutti gli strumenti predisposti dall’ordinamento per sottrarre l’immobile abusivo al vincolo esistente e provvedere al ripristino dell’ordine giuridico violato.
Nella specie una siffatta prova “liberatoria” è stata allegata al giudizio dal momento che parte ricorrente ha dimostrato di aver inoltrato in data 23.06.2017 istanza di dissequestro dichiarando ivi di voler ottemperare all’ordine di demolizione ingiunto dal Comune di Vasto riferendolo a tutti i beni oggetto di ripristino, ed il G.i.p. ha accolto solo in parte l’istanza autorizzando la sola demolizione dell’immobile principale, sotto la vigilanza della Polizia Municipale di Vasto.
Di qui l’esclusione di ogni responsabilità a carico dei ricorrenti mancando la volontarietà dell’inottemperanza in parte qua all’ordine di demolizione presupposto rispetto alla sanzione pecuniaria impugnata da cui deriva l’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.07.2018 n. 248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Termine di proposizione del ricorso avverso un permesso di costruire.
In ordine ai criteri di verifica della tempestività del ricorso con particolare riguardo all'impugnazione di un permesso di costruire, va ribadito l’orientamento secondo il quale l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull'area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l'esatta dimensione, consistenza, finalità, dell'erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l'eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2018 n. 1747 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.2. Il Collegio ritiene di aderire a quanto affermato dal Consiglio di Stato in ordine ai criteri di verifica della tempestività del ricorso, onde verificarne la ricevibilità, con particolare riguardo all'ambito dell'attività edilizia (cfr., in termini, Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.03.2017, n. 998).
L’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull'area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l'esatta dimensione, consistenza, finalità, dell'erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l'eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.03.2016 n. 1135; Consiglio di Stato, Sez. IV 28.10.2015, n. 4910 e n. 4909; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all'insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici corollari).
In particolare è stato affermato che:
   a)
il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che -fatte salve le precisazioni di seguito esposte- si intende realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente; in quest'ambito assume un ruolo importante l'eventuale presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia;
   b)
l'obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad eventuali controinteressati di far valere le proprie doglianze innanzi all'autorità amministrativa (cfr., Cass. pen., Sez. III, 22.05. 2012, n. 40118).
La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e concordante ai fini della integrazione della prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del ricorrente;
   c)
la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti.
Ed infatti,
se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.

EDILIZIA PRIVATA: Risultando ancora pendente il ricorso straordinario proposto dal ricorrente avverso il provvedimento di diniego del condono edilizio, discende che fino alla definizione del predetto ricorso nessun atto sanzionatorio può essere legittimamente adottato, stante il rapporto di stretta e immediata consequenzialità tra il diniego di condono e il correlato atto di demolizione.
Invero, l’Amministrazione ha il dovere di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha l’obbligo di attendere la conclusione in senso sfavorevole al richiedente del procedimento di condono prima di adottare l’atto sanzionatorio.
---------------

... per l’annullamento dell’ordinanza n. 151 del 12.11.2007, prot. n. 41514, afferente alla pratica edilizia n. 140C/2004, con la quale il Dirigente del Settore Territorio del Comune di Brugherio ha ordinato la demolizione di una struttura seminterrata in cemento armato, coperta con solaio in predalles, costruita sull’area di proprietà del ricorrente e realizzata in ampliamento dell’adiacente unità abitativa di residenza, sita in Brugherio, Via ... n. 47, nonché di ripristinare lo stato dei luoghi, recuperando l’originaria destinazione dell’uso agricolo dell’area di cui al fg. 25, mapp. 40.
...
1. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
2. A prescindere dalla fondatezza delle censure contenute nel gravame, va evidenziato che, allo stato, risulta ancora pendente il ricorso straordinario proposto dal ricorrente avverso il provvedimento di diniego del condono del 21.01.2007, prot. 3031.
Ne discende che fino alla definizione del predetto ricorso, nessun atto sanzionatorio può essere legittimamente adottato, stante il rapporto di stretta e immediata consequenzialità tra il diniego di condono e il correlato atto di demolizione (cfr. Consiglio di Stato, VI, 29.11.2016, n. 5028).
Tale questione è stata espressamente considerata in sede di adozione dell’ordinanza n. 2263/2008, resa dalla Quarta Sezione del Consiglio di Stato con riguardo al presente giudizio, giacché a giustificazione della riforma della pronuncia cautelare di primo grado, che aveva originariamente rigettato l’istanza di sospensione, è stata posta proprio “la pendenza del ricorso avverso il diniego di condono, del quale la demolizione costituisce atto conseguente”.
Ciò appare in linea con la costante giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’Amministrazione ha il dovere di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha l’obbligo di attendere la conclusione in senso sfavorevole al richiedente del procedimento di condono prima di adottare l’atto sanzionatorio (cfr. ex multis, TAR Lazio, Roma, II-bis, 13.04.2017, n. 4582; TAR Campania, Napoli, IV, 13.03.2017, n. 1438; VII, 11.01.2017, n. 280; in argomento anche TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1487).
3. In ragione di quanto evidenziato in precedenza e assorbendo le ulteriori censure, il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento dell’ordinanza n. 151 del 12.11.2007, prot. n. 41514, afferente alla pratica edilizia n. 140C/2004 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2018 n. 1746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reperimento di aree a standard in caso di mutamento della destinazione originaria.
La realizzazione di edifici commerciali richiede il reperimento di aree a standard in misura adeguata alla nuova destinazione d’uso e, in base all’art. 51, commi 2 e 4, della L.R. n. 12/2005, è necessaria una quantità di aree pari alla sola differenza tra la destinazione originaria e quella sopravvenuta.
Le aree a standard già cedute in base a precedenti operazioni edilizie si consolidano e sono, quindi, computabili nel nuovo livello di standard richiesto, una volta che la s.l.p. insediata sia riconvertita nella nuova destinazione d’uso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.07.2018 n. 753 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Sulle aree a standard
19.
La realizzazione di edifici commerciali richiede il reperimento di aree a standard in misura adeguata alla nuova destinazione d’uso.
In proposito, occorre sottolineare che in base all’art. 51, commi 2 e 4, della LR 12/2005 è necessaria una quantità di aree pari alla sola differenza tra la destinazione originaria e quella sopravvenuta. Le aree a standard già cedute in base a precedenti operazioni edilizie si consolidano e sono quindi computabili nel nuovo livello di standard richiesto, una volta che la SLP insediata sia riconvertita nella nuova destinazione d’uso.

20. L’atto unilaterale d’obbligo allegato alla deliberazione giuntale n. 100/2016 prevede (art. 4) la cessione al Comune del mappale n. 211, per una superficie pari a 1.097,80 mq. Secondo i ricorrenti, tale area avrebbe dovuto essere ceduta ancora dal precedente proprietario, e dunque non potrebbe essere computata come nuovo standard.
21. In realtà, la cessione del mappale n. 211 non era prevista dalla lottizzazione disciplinata dalle convenzioni urbanistiche dell’08.07.1999 e del 06.06.2003 (PL8), in quanto, come risulta dalla documentazione prodotta dalla controinteressata il 18.11.2016, la superficie del suddetto mappale (che in origine era ricompresa nel più ampio mappale n. 41) era esterna a tale lottizzazione (v. cartografie doc. 18-19).
La cessione era invece prevista dalla concessione edilizia del 2001 riguardante la piscina, rilasciata al medesimo soggetto attuatore del PL8 (v. cartografia doc. 17). Più precisamente, una parte della superficie che ora forma il mappale n. 211 corrispondeva alle aree a standard (874,75 mq) destinate a parcheggi, percorsi pedonali e allargamento della sede stradale (v. cartografie doc. 20-20.a).
Tali aree non sono mai state formalmente trasferite al Comune. Dopo il fallimento del precedente proprietario, la controinteressata ha acquisito il mappale n. 211 con il vincolo di effettuarne la cessione al Comune. L’atto unilaterale d’obbligo ha quindi una doppia finalità: da un lato, il completamento della cessione del vecchio standard pari a 874,75 mq, utile anche per la nuova destinazione d’uso, dall’altro il reperimento delle ulteriori aree a standard necessarie per la nuova destinazione d’uso.
Tali aree sono state individuate nella residua superficie del mappale n. 211 (223,05 mq) e nell’asservimento a uso pubblico di un altro terreno (1.252,95 mq).
22. Il Comune nella deliberazione giuntale n. 124/2016 sembra qualificare anche il mappale n. 211 come area a standard da cedere in base alle convenzioni urbanistiche relative al PL8.
È però verosimile che la predetta deliberazione confonda le due operazioni edificatorie (PL8 e piscina), considerandole in modo unitario in quanto la controparte privata era sempre la stessa.
La distinzione è invece importante, perché lo standard della piscina si consolida a favore di On.It. srl, e deve essere sottratto alla quantità di aree a uso pubblico da reperire in seguito al cambio di destinazione d’uso.

TRIBUTILa Cassazione detta il decalogo (non esaustivo) che salva i contribuenti dalle sanzioni. Definita l’incertezza normativa. Colpa scusabile con contrasti normativi o dottrinali.
La Cassazione detta un vero e proprio decalogo per identificare l’incertezza normativa che salva il contribuente dal pagamento delle sanzioni fiscali. Fra i parametri individuati, la poca chiarezza delle norme, giurisprudenza e prassi contrastanti. Perfino posizioni eterogenee in dottrina possono fungere da esimente.

Lo ha sancito la Suprema Corte -Sez. V civile- che, con la sentenza 12.07.2018 n. 18405, ha accolto il ricorso di una società condannata a versare le maggiori Ires e Irap e relative sanzioni per un calcolo sbagliato delle rimanenze.
Non pagherà dunque l'ammenda l'impresa che aveva mal valutato tali rimanenze, falsando così il calcolo dell'imponibile delle imposte sui redditi.
Infatti per gli Ermellini, contrariamente a quanto sostenuto da Ctp e Ctr di Roma, vi era una grande incertezza normativa.
Per la prima volta il Supremo collegio individua dei concetti per lungo tempo rimasti magmatici e confusi.
In sentenza si legge infatti che l'essenza del fenomeno dell'incertezza normativa oggettiva si può rilevare attraverso una serie di fatti indice, che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo, e che sono stati individuati a titolo di esempio e, quindi, non esaustivamente in dieci regole fondamentale: la prima, la difficoltà d'individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge (è senz'altro il caso più diffuso e più facile per il contribuente da provare); la seconda, la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; la terza, la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; la quarta, la mancanza di informazioni amministrative o nella loro contraddittorietà; la quinta, la mancanza di una prassi amministrativa o nell'adozione di prassi amministrative contrastanti; la sesta, la mancanza di precedenti giurisprudenziali; la settima, la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale; l'ottava, il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; la nona, il contrasto tra opinioni dottrinali; la decima, l'adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente.
In questa motivazione la Cassazione, prima di arrivare a queste regole più chiare e definite e che tracciano una strada più sicura per chiedere l'esenzione dalle sanzioni, aveva ricordato che per «incertezza normativa oggettiva tributaria» deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell'azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall'impossibilità, esistente in sé e accertata dal giudice, d'individuare con sicurezza e univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.
In poche parole, l'incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto come emerge dal dlgs 18.12.1997, n. 472, art. 6 che distingue in modo netto le due figure dell'incertezza normativa oggettiva e dell'ignoranza (pur ricollegandovi i medesimi effetti) e perciò l'accertamento di essa è esclusivamente demandata al giudice e non può essere operato dalla amministrazione.
La Cassazione ha chiuso il capitolo sanzioni sulla vicenda esaminata. Ha infatti accolto il motivo nel merito e annullato su quel punto la cartella
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSpese legali del dipendente a carico del Comune se non c'è conflitto di interessi.
Il Comune è tenuto a risarcire le spese legali di un dipendente coinvolto in un processo penale esclusivamente se non ci sono conflitti di interessi tra le parti.

Questo il significativo principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 11.07.2018 n. 18256.
La vicenda
La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui un dipendente comunale era stato imputato per i reati di falsità commesse nella registrazione nel registro cronologico di una ordinanza contingibile e urgente nella sua qualità di addetta all'ufficio protocollo del Comune. Poiché la lavoratrice era stata assolta, i giudici di merito avevano riconosciuto il dovere da parte del Comune di risarcire le spese legali sostenute dalla dipendente. Contro queste sentenze ha proposto ricorso il Comune. E la Corte gli ha dato ragione richiamando l'articolo 28 del contratto 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle regioni e autonomie locali applicabile alla fattispecie “ratione temporis”.
La norma dispone che l'ente, anche a tutela dei propri diritti e interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e dell'adempimento dei compiti di ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento. In caso di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave l'ente ripete dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni stato e grado del giudizio.
La disposizione è strutturata in modo che l'obbligo del datore di lavoro abbia a oggetto non già il rimborso al dipendente dell'onorario corrisposto a un difensore di sua fiducia, ma l'assunzione diretta degli oneri di difesa sin dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore di comune accordo. L'obbligo, peraltro, è subordinato all'esistenza di ulteriori condizioni perché l'assunzione diretta della difesa del dipendente è imposta all'ente locale solo nei casi in cui, non essendo ipotizzabile un conflitto di interessi, attraverso la difesa del dipendente incolpato, il datore di lavoro pubblico agisca anche a tutela dei propri diritti e interessi.
La spiegazione
Quella fornita dai Supremi giudici è una spiegazione del tutto logica in quanto non si vede il motivo per il quale l'ente locale si dovrebbe far carico di spese legali inerenti un reato che il dipendente ha commesso contro il soggetto giuridico stesso per il quale lavora, evidenziando così un palese conflitto di interessi che preclude il rimborso anche se il processo dovesse concludersi con l'assoluzione del dipendente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.07.2018).

APPALTI: Commissione di gara costituita da un numero pari di commissari.
Il Consiglio di Stato dà continuità, anche nella vigenza dell’art. 77 d.lgs. n. 50 del 2016, all’orientamento maturato in relazione all’art. 84 d.lgs. n. 163 del 2006, in relazione al quale la prevalente giurisprudenza ritiene la regola alla cui stregua la Commissione di gara deve essere costituita da un numero dispari di commissari non espressione di un principio generale, immanente nell'ordinamento, tale da determinare l'illegittimità della costituzione di un collegio avente un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano (o che occasionalmente possono operare) in composizione paritaria.
----------------
La commissione giudicatrice di gare d'appalto è un collegio perfetto, che deve operare, in quanto tale, in pienezza della sua composizione e non con la maggioranza dei suoi componenti, con la conseguenza che le operazioni di gara propriamente valutative, come la fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle offerte, non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni.
Nondimeno, per evidenti esigenze di funzionalità,
il principio è temperato per cui non è indispensabile la piena collegialità quando occorra effettuare attività preparatorie, istruttorie o strumentali, destinate, come tali, a refluire nella successiva e definitiva valutazione dell’intero consesso.
In concreto,
l’attitudine meramente strumentale dell’attività delegabile o affidabile a sottocommissioni dovrà avere, in difetto di criteri identificativi o discretivi di ordine materiale o sostanziale, la duplice caratteristica (a un tempo necessaria e sufficiente):
   a) di essere, ex ante e in abstracto, suscettibile di potenziale verifica a posteriori da parte del plenum;
   b) di essere, ex post e in concreto, effettivamente acquisita alla valutazione collegiale piena, in termini di controllo, condivisione ed approvazione
.

---------------
MASSIMA
2.- Con un primo mezzo, è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 84, comma 2, d.lgs. 163 del 2006 e dell’art. 77, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, una a difetto del presupposto e contraddittorietà: avrebbe errato la sentenza nell’assumere violata la detta disposizione, nella parte in cui imporrebbe che la Commissione di gara fosse necessariamente costituita da un numero dispari di commissari.
2.1.- La censura è fondata.
In effetti, la sentenza appellata:
   a) premette che, dalla documentazione versata agli atti della causa, era dato, in punto di fatto, di ricavare che la Commissione di gara fosse, nella vicenda in esame, composta da due Consiglieri di Gestione della Fondazione (dott. Ga. ed arch. Ap.) e da due Conservatori del Museo Archeologico “Eno Bellis” e della Pinacoteca “Alberto Martini” (dott.ssa Ma. e dr.ssa Bo.), per un totale di quattro componenti;
   b) osserva che, in questo modo, sare
bbe stata violata la regola dell’art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006 (“ora riproposta dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016”), alla cui stregua la Commissione di gara avrebbe dovuto essere costituita da un numero dispari di commissari, non superiore a cinque;
   c) si mostra consapevole del (difforme) orientamento giurisprudenziale, maturato nella vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, per cui la violazione della regola non è tale da implicare l’illegittimità della costituzione di un collegio con un numero pari di componenti: nondimeno se ne discosta assumendo che il precetto –similmente presente all’art. 21, comma 5, l. n. 109 del 1994 e poi ribadito dall’art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006– sarebbe stato riaffermato “categoricamente –e senza deroghe di sorta–“ dall’art. 77, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, al quale la procedura non avrebbe, perciò, potuto sottrarsi;
   d) ribadisce che la regola risponderebbe all’obiettivo di garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le necessità di funzionamento del principio maggioritario, in coerenza con il principio in base al quale i collegi perfetti (com’è, pacificamente, una commissione di gara) sono sempre composti da un numero dispari di membri.
2.2.- Osserva il Collegio che la composizione numerica della Commissione giudicatrice è stata, in progresso di tempo, positivamente disciplinata e con continuità, nei sensi della previsione di un numero dispari di componenti, per un massimo di cinque.
Invero, la regola:
   a) era già codificata dall’art. 4 r.d. 08.02.1923, n. 422 (Emendamenti al D.L.Lgt. 06.02.1919, n. 107, recante norme per l'esecuzione delle opere pubbliche, e al R.D. 12.02.1922, n. 214) che –con esclusivo riferimento alla aggiudicazione mediante appalto concorso– prevedeva, per la “valutazione degli elementi economici e tecnici delle offerte”, la costituzione di una “Commissione di 3 o 5 membri da nominarsi di volta in volta dalla Amministrazione stessa” (sempre che non si fosse trattato di lavori, alla direzione dei quali fosse già “preposta una speciale Commissione tecnica”);
   b) veniva riproposta –con estensione all’“affidamento delle concessioni mediante licitazione privata”, sul comune presupposto della imposizione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa– dall’art. 2, commi 4 e 5, l. n. 109 del 1994 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), che prevedeva “un numero dispari di componenti non superiore a cinque”;
   c) veniva confermata –con più lata generalizzazione a tutte le ipotesi di contratti da aggiudicare mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa– dall’art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE);
   d) è stata, infine, ripetuta –con più vasto ambito di operatività, corrispondente alla dequotazione del criterio di aggiudicazione secondo il prezzo più basso– dall’art. 77, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici).
2.3.- Se –nella successione nel tempo delle varie fonti- la norma è rimasta testualmente immutata, non è conferente l’assunto dell’appellata sentenza, che valorizza un’attitudine pretesamente categorica e perentoria della sola formulazione di cui all’ultima disposizione nel tempo, per desumerne un’implicita soluzione di continuità a fronte dell’orientamento maturato vigenti le disposizioni precedenti (e, segnatamente, l’art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163/2006).
Invero, l’assunto avrebbe potuto avere plausibilità solo nel quadro di un’ipotetica discontinuità dell’ambito operativo ed applicativo della norma: per contro, la previsione è rimasta costantemente ed uniformemente operante in tutti i casi in cui –trattandosi di aggiudicare il contratto con il criterio quali-quantitativo dell’offerta economicamente più vantaggiosa– si renda necessario il ricorso a specifiche competenze tecniche per il congiunto apprezzamento dei profili tecnici ed economici delle offerte.
Nemmeno il già evidenziato recente favor legislativo per il criterio in questione (a scapito del prezzo più basso) immuta la conclusione, valendo solo ad estendere, in fatto, i casi di necessaria designazione di una Commissione.
2.4.- Ne discende che –non essendo dato rinvenire, in diritto, ragioni per articolare difforme lettura di simile disposizione–
va data continuità, anche nella vigenza dell’art. 77 d.lgs. n. 50 del 2016, all’orientamento maturato in relazione all’art. 84 d.lgs. n. 163 del 2006: in relazione al quale la prevalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ritiene la regola non “espressione di un principio generale, immanente nell'ordinamento, tale da determinare l'illegittimità della costituzione di un collegio avente un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano (o che occasionalmente possono operare) in composizione paritaria (cfr. Cons. Stato, V, 26.07.2016, n. 3372; Id., III, 03.10.2013, n. 4884; Id., III, 11.07.2013, n. 3730).
Vero è che si tratta di orientamento non unanime (implicitamente in senso difforme, tra le più recenti, Cons. Stato, V, 23.06.2016, n. 2812; Id. V, 28.07.2014, n. 4017). Nondimeno, il relativo (e potenziale) contrasto non appare, nel caso in esame, né rilevante né decisivo, posto che (in concreto) la Commissione risulta avere come che sia deciso all’unanimità dei componenti.
Invero,
quand’anche si conceda, contro le esposte premesse, che la composizione numerica dispari per sé risponda al principio di buon andamento e funzionalità dell’azione amministrativa, resterebbe fermo che la violazione del canone “p[otrebbe] essere dedotta, per il principio di conservazione degli atti giuridici, non astrattamente, ma solo [quando avesse] concretamente inciso sulle decisioni assunte dalle commissioni stesse, cioè [quando venissero] lamentati o si [fossero] verificati dissensi comportanti lesioni concrete degli interessi dei soggetti giuridici nei confronti dei quali le commissioni abbiano operato (cfr.. Cons. Stato, V, 31.10.2012, n. 5563): con il che, in buona sostanza, avuto riguardo alla concretezza e specificità dell’interesse ad agire quale effettiva condizione dell’azione, la violazione delle regole di formazione della commissione potrebbe essere dedotta solo le quante volte avesse concretamente (e non potenzialmente) inciso sugli interessi della parte che se ne assumesse pregiudicata.
Ciò che deve, per l’appunto, per definizione escludersi nei casi in cui –essendo maturata una decisione unanime– il rivendicato numero dispari dei componenti non abbia in qualche modo prefigurato un’effettiva attitudine discretiva, tale da lasciar ipotizzare un esito valutativo difforme da quello effettivamente reso (cfr., in fattispecie contermine, Cons. Stato, III, 11.07.2013, n. 3730).
3.- Sotto distinto e concorrente profilo, la sentenza appellata ha stimato che l’affidamento alle due Sottocommissioni, in cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare, rispettivamente, le offerte economiche e le offerte tecniche, integrasse violazione dei principi in tema di funzionamento dei collegi perfetti, in base ai quali gli stessi sono tenuti ad operare con l’interezza dei propri membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
3.1.- L’assunto non regge alle giuste doglianze dell’appello.
Non è, invero, in discussione il principio -che va ribadito- per cui
la commissione giudicatrice di gare d'appalto è un collegio perfetto, che deve operare, in quanto tale, in pienezza della sua composizione e non con la maggioranza dei suoi componenti, con la conseguenza che le operazioni di gara propriamente valutative, come la fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle offerte, non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni (cfr. Cons. giust. amm. sic., 21.07.2008, n. 661; Cons. Stato, V, 22.10.2007, n. 5502; Id., VI, 02.02.2004, n. 324).
Nondimeno, per evidenti esigenze di funzionalità,
il principio è temperato per cui non è indispensabile la piena collegialità quando occorra effettuare attività preparatorie, istruttorie o strumentali, destinate, come tali, a refluire nella successiva e definitiva valutazione dell’intero consesso (cfr. Cons. Stato, V, 25.01.2011, n. 513; Id., IV, 05.08.2005, n. 4196).
In concreto,
l’attitudine meramente strumentale dell’attività delegabile o affidabile a sottocommissioni dovrà avere, in difetto di criteri identificativi o discretivi di ordine materiale o sostanziale, la duplice caratteristica (a un tempo necessaria e sufficiente):
   a) di essere, ex ante e in abstracto, suscettibile di potenziale verifica a posteriori da parte del plenum;
   b) di essere, ex post e in concreto, effettivamente acquisita alla valutazione collegiale piena, in termini di controllo, condivisione ed approvazione.

Nel caso di specie, in effetti, risulta dalla documentazione in atti che la Commissione, a composizione piena, preso atto di quanto predisposto dalle due sottocommissioni e svolta, in merito, un’“approfondita discussione”, ha determinato, in adesiva conformità, i punteggi definitivi da attribuire alle imprese offerenti: con ciò mostrando di far propri, in autonomia e nell’esercizio del proprio discrezionale apprezzamento, gli esiti dell’attività preparatoria dispiegata dalle costituite sottocommissioni.
4.- Le esposte considerazioni, che assorbono ogni ulteriore profilo critico (ivi, segnatamente, inclusi i motivi rimasti assorbiti e devolutivamente reiterati in seconde cure ex art. 101 Cod. proc. amm.), inducono al complessivo accoglimento dell’appello ed alla integrale riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.07.2018 n. 4143 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti del fisco, curiosare è un reato.
Effettua il reato di accesso abusivo al sistema informatico il dipendente dell'Agenzia delle entrate, che, pur dotato delle credenziali, acceda nel sistema per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 04.07.2018 n. 30085.
In tali casi, evidenziano i giudici di legittimità, rimangono irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità, che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso del dipendente nel sistema, essendo invece dirimente l'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all'uso dello stesso.
Per quanto di interesse, il dipendente dell'Amministrazione finanziaria ricorreva in Cassazione, lamentando, tra le altre, violazione dell'art. 416 c.p., poiché i giudici d'appello non avevano dato risposta circa l'assenza di prove del delitto associativo. Il ricorrente sosteneva infatti di aver indicato più dati probatori, dai quali sarebbe emersa la mancanza di significativi rapporti con gli altri presunti associati.
Lo stesso lamentava poi anche la violazione dell'art 615-ter c.p., in particolare laddove era stato trascurato che il ricorrente era autorizzato ad accedere senza limiti, mediante la propria password, al sistema informatico dell'Ente. Secondo la Corte il ricorso era infondato. La Corte del merito aveva infatti descritto compiutamente gli elementi di prova a carico del ricorrente, con particolare riferimento a conversazioni intercettate, durante le quali gli interlocutori avevano parlato, in modo esplicito, dell'attività di accesso ai sistemi informatici, al fine di acquisire dati economici o personali dei soggetti di riferimento.
Infine, la Corte rileva l'estraneità all'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 615-ter c.p., delle ragioni che hanno spinto il soggetto agente ad accedere ed a trattenersi nel sistema protetto, essendo comunque, nel caso di specie, anche agevole constatare come l'accesso da parte dell'imputato fosse avvenuto per fini illeciti, in quanto tali, sicuramente estranei allo svolgimento delle funzioni del suo ufficio, in relazione alle quali l'ingresso al sistema informatico gli era consentito
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2018).
---------------
MASSIMA
3. In diritto, la difesa ha contestato la sussistenza del carattere abusivo dell'accesso al sistema informatico, essendo l'imputato dotato delle credenziali d'accesso, in quanto dipendente dell'agenzia delle entrate.
3.1 Al riguardo, però, occorre ribadire la consolidata posizione della giurisprudenza che, più volte nella sua più autorevole composizione, ha affermato che
integra il delitto previsto dall'art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto, per delimitarne l'accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita (Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017 Ud.  -dep. 08/09/2017- Rv. 271061).
3.2 Si deve aggiungere che,
in tali casi, rimangono, invece, irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema, essendo dirimente l'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all'uso dello stesso (Cass., sez. un., 27.10.2011, n. 4694).
Con la decisione ora menzionata, infatti,
le Sezioni Unite hanno voluto evidenziare l'estraneità all'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 615-ter c.p., delle ragioni che hanno spinto ad accedere ed a trattenersi nel sistema protetto il soggetto agente, il quale non può ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi "sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito".
3.3 Applicando tali principi al caso di specie è agevole constatare come l'accesso da parte dell'imputato sia avvenuto per fini illeciti e, in quanto tali, sicuramente estranei allo svolgimento delle funzioni del suo ufficio ed in relazione alle quali l'ingresso al sistema informatico gli era consentito.

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ovvero di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non cagiona illegittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale cede unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito della presentazione della predetta istanza; l’efficacia è destinata a riespandersi ove il Comune definisca negativamente la domanda di sanatoria respingendola, per cui in caso di rigetto –anche tacito– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia.
Secondo pacifica giurisprudenza, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ovvero di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non cagiona illegittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale cede unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito della presentazione della predetta istanza; l’efficacia è destinata a riespandersi ove il Comune definisca negativamente la domanda di sanatoria respingendola, per cui in caso di rigetto –anche tacito– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia.
Invero, “alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003” in quanto “A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985, n. 47 (attuale art. 36 del d.P.R. n. 38 del 2001) non perde efficacia l’ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio”.
Il Consiglio di Stato ha confermato tale orientamento condivisibilmente individuandone anche la ratio, consistente nell’evitare di rimettere alla volontà del privato colpito dall’ordinanza di demolizione il potere di determinare de facto, per via della propugnata elusione del provvedimento demolitorio mediante la mera presentazione dell’istanza di accertamento di conformità e la conseguente necessità che il Comune, in caso di rigetto della stessa, debba adottare un nuovo provvedimento, la paralisi del provvedimento di demolizione, equivalente a un sostanziale annullamento di essa.
Ha infatti efficacemente chiarito che l’opposto orientamento “si è formato in tema di condono ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente consente, a determinate condizioni, e per un limitato potere di tempo, la sanatoria degli abusi commessi”, ragioni per ci tali principi non possono essere estesi al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia i sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente per cui “Sostenere che…nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
Ancor più di recente il Giudice d’appello ha stabilito che “da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia, ma soltanto sospendendone temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata, decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego”.
Questa Sezione ha confermato la ricostruita esegesi, precisando che “La validità o l'efficacia dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione dell'istanza di accertamento di conformità. Tale orientamento appare più aderente alle disposizioni e alla ratio del sistema normativo in tema di repressione e sanzione degli abusi edilizi, sistema nel quale non è individuabile alcuna previsione, nemmeno implicita, dalla quale desumere che l'istanza di accertamento di conformità produca un effetto caducante sull'ordine di demolizione. Sicché l'efficacia di tale ordine rimane soltanto sospesa e quiescente fino alla conclusione del procedimento di sanatoria per conformità”.
Più di recente ha ribadito che “la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non inficia la legittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale dismette unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito della presentazione dell’istanza di conservazione, efficacia destinata a riespandersi ove il Comune riscontri negativamente la domanda di sanatoria respingendola”.
Rimarca anche il Collegio che a norma dell’art. 36, comma 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta. Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio significativo sub specie di c.d. silenzio-diniego o silenzio rigetto a cui il legislatore annette natura ed effetti di provvedimento di rigetto dell’istanza, con tutto quanto ne consegue ovverosia, in sintesi, sul piano sostanziale la cessazione dello stato di quiescenza dell’ordinanza di demolizione adottata relativamente alle opere oggetto dell’accertamento di conformità, quiescenza che perdura solo fino a quando il Comune non si sia pronunciato sull’istanza, espressamente o tacitamente.
---------------

2.1. La doglianza è infondata alla luce di pacifica giurisprudenza, poiché la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ovvero di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 6.6.2001, n. 380, non cagiona illegittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale cede unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito della presentazione della predetta istanza; l’efficacia è destinata a riespandersi ove il Comune definisca negativamente la domanda di sanatoria respingendola (TAR Campania–Napoli, Sez. II, 14.09.2009, n. 4961; Cons. di Stato, Sez. IV, 19.02.2008, n. 849 ord.; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 05.12.2012, n. 4941; ID, 17.05.2012, n. 2787), per cui in caso di rigetto –anche tacito– dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo TAR Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID, 05.12.2012, n. 4941).
Giova evidenziare che il delineato avviso è stato enunciato anche da altri Tribunali: “alla fattispecie dell’accertamento di conformità non può applicarsi la sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985, come richiamato dalle successive disposizioni di cui all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della legge n. 326 del 2003” in quanto “A seguito della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985, n. 47 (attuale art. 36 del d.P.R. n. 38 del 2001) non perde efficacia l’ingiunzione di demolizione precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una specifica previsione normativa, come quella contenuta negli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985 con riferimento alle domande di condono edilizio” (TAR Lazio–Roma, Sez. I–quater, 02.03.2012, n. 2165).
Il Consiglio di Stato ha confermato tale orientamento condivisibilmente individuandone anche la ratio, consistente nell’evitare di rimettere alla volontà del privato colpito dall’ordinanza di demolizione il potere di determinare de facto, per via della propugnata elusione del provvedimento demolitorio mediante la mera presentazione dell’istanza di accertamento di conformità e la conseguente necessità che il Comune, in caso di rigetto della stessa, debba adottare un nuovo provvedimento, la paralisi del provvedimento di demolizione, equivalente a un sostanziale annullamento di essa.
Ha infatti efficacemente chiarito che l’opposto orientamento “si è formato in tema di condono (Cons. di Stato, Sez., VI, 26.03.2010, n. 1750) ossia di richiesta che trova il suo fondamento in una norma di carattere legislativo, che, innovando alla disciplina urbanistica vigente consente, a determinate condizioni, e per un limitato potere di tempo, la sanatoria degli abusi commessi”, ragioni per ci tali principi non possono essere estesi al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia i sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente per cui “Sostenere che…nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.05.2014, n. 2307).
Ancor più di recente il Giudice d’appello, richiamando la persuasività della decisione ora riportata, ha stabilito, confermando la sentenza della Sezione n. 1211 del 26.02.2014, che “da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l’efficacia, ma soltanto sospendendone temporaneamente gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l’istanza è rigettata, decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Questa Sezione ha confermato la ricostruita esegesi, precisando che “La validità o l'efficacia dell'ordine di demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva presentazione dell'istanza di accertamento di conformità. Tale orientamento appare più aderente alle disposizioni e alla ratio del sistema normativo in tema di repressione e sanzione degli abusi edilizi, sistema nel quale non è individuabile alcuna previsione, nemmeno implicita, dalla quale desumere che l'istanza di accertamento di conformità produca un effetto caducante sull'ordine di demolizione. Sicché l'efficacia di tale ordine rimane soltanto sospesa e quiescente fino alla conclusione del procedimento di sanatoria per conformità” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 07.09.2015, n. 4392).
Più di recente ha ribadito che “la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non inficia la legittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale dismette unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito della presentazione dell’istanza di conservazione, efficacia destinata a riespandersi ove il Comune riscontri negativamente la domanda di sanatoria respingendola” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 24.10.2017 n. 4943).
2.2. Rimarca anche il Collegio che a norma dell’art. 36, comma 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di silenzio significativo sub specie di c.d. silenzio-diniego o silenzio rigetto a cui il legislatore annette natura ed effetti di provvedimento di rigetto dell’istanza (TAR Lazio-Latina, 09.10.2006 n. 1044; TAR Campania-Napoli, Sez. II, 12.07.2013 n. 3644), con tutto quanto ne consegue ovverosia, in sintesi, sul piano sostanziale la cessazione dello stato di quiescenza dell’ordinanza di demolizione adottata relativamente alle opere oggetto dell’accertamento di conformità, quiescenza che perdura solo fino a quando il Comune non si sia pronunciato sull’istanza, espressamente o tacitamente.
Nel caso di specie l’istanza del 29.04.2010 è da considerare respinta per silentium dal Comune, conseguendone l’irrilevanza della stessa (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 04.07.2018 n. 4420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza, costituendo un effetto automatico della mancata ottemperanza alla ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica, pertanto, scelte di tipo discrezionale, con la conseguenza che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non incombe all'amministrazione alcun peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura dell'acquisizione
---------------

3. Con la seconda censura si lamenta che l’intervenuta demolizione del manufatto avrebbe privato l’acquisizione del suo presupposto basilare e ulteriormente il difetto di motivazione.
Quanto alla prima doglianza va osservato che il fatto che rileva ai fini dell’acquisizione è la demolizione spontanea dell’immobile, ove intervenuta oltretutto nel termine dilatorio di novanta giorni dalla notifica dell’ordinanza.
Alcuna rilevanza può invece annettersi ad una demolizione eseguita da un terzo e nella specie alla Procura della Repubblica e oltretutto oltre il termine di novanta giorni.
Quanto alla seconda doglianza si rammenta che l’ordinanza di acquisizione come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi essendo un atto vincolato non richiede l’espressione di alcuna motivazione.
Si è in tal senso, infatti, di recente puntualizzato che “L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo, del sedime e della relativa area di pertinenza, costituendo un effetto automatico della mancata ottemperanza alla ordinanza di ingiunzione della demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica, pertanto, scelte di tipo discrezionale, con la conseguenza che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i suddetti presupposti, non incombe all'amministrazione alcun peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura dell'acquisizione” (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 11.07.2016 n. 1877).
In definitiva, alla luce di quanto osservato il ricorso si presenta infondato e va pertanto respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 04.07.2018 n. 4420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità del proprietario nell’abuso edilizio effettuato da terzi.
Anche in caso di detenzione legittimamente concessa dal proprietario a terzi, per l’esclusione del proprietario dalla responsabilità nell’abuso edilizio effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore.
Occorre cioè che il proprietario si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso, al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.06.2018 n. 1626 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
In merito ai destinatari dell’ordine di demolizione l’art. 31 del DPR 380/2001 prevede al secondo comma, che <<Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3>>.
La norma è chiara quindi nel parificare un rapporto di fatto ad uno di diritto nell’individuazione dei destinatari dell’ordine di demolizione, in considerazione del carattere reale della sanzione edilizia, da poco riconfermata dal Consiglio di Stato
(Adunanza Plenaria, sentenza 17/10/2017 n. 9).
Infatti l’Adunanza Plenaria ha chiarito che
il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
Ancora più chiaramente la giurisprudenza ha affermato che
il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e all’individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico, non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2017 n. 3789).
La giurisprudenza riconferma quindi che il destinatario della sanzione demolitoria è l’autore dell’abuso ed il titolare attuale del bene.
Dai documenti agli atti risulta che la ricorrente ha ottenuto l’affitto del fondo agricolo con annesso fabbricato rurale da Be.Gr., la cui proprietà è però contestata sia dal Comune, il quale qualifica dante causa ed avente causa quali occupanti abusivi. Anche il proprietario individuato nel provvedimento, cioè Fo.La.Tr. srl contesta la proprietà del dante causa e del possessore attuale. La società, dai documenti presentati dal Comune e non contestati dalla ricorrente, afferma di aver acquistato il bene nel 1973 ma di non aver mai avuto la materiale disponibilità del bene oltre ad essere stata destinataria di un’azione di usucapione, i cui esiti non sono noti e di essere attualmente proprietaria.
E’ chiaro quindi che la ricorrente è detentrice del bene a titolo derivativo per averlo acquisito dal precedente detentore o possessore nel 2001. A ciò si aggiunge che nel ricorso nega in sostanza di essere autrice dell’abuso, sostenendo l’anteriorità della costruzione agli obblighi di richiedere il permesso di edificare nel Comune di Trezzo e quindi anche alla sua detenzione.
Occorre quindi chiarire se la realità della sanzione edilizia comporti che l’ordine di demolizione possa essere notificato oltre che ai successori del proprietario anche ai successori dell’autore dell’abuso e quindi se, nel caso in questione, la notifica effettuata alla ricorrente possa valere a radicare la sua legittimazione a ricorrere.
La risposta non può che essere negativa perché la giurisprudenza afferma che,
anche in caso di detenzione legittimamente concessa dal proprietario a terzi, per l’esclusione del proprietario dalla responsabilità nell’abuso effettuato da terzi, prescindendo dall’effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore (“che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell’abuso: tra le tante in tal senso, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l’applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell’abuso, prevede che l’opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali (Consiglio di Stato, Sezione VI, con sentenza del 04.05.2015 n. 2211).
E’ chiaro quindi che
l’intrasmissibilità della posizione di autore dell’abuso si connette con l’obbligo del proprietario di attivarsi nei confronti del detentore a qualsiasi titolo del bene nei termini dati dall’ordinanza di demolizione al fine di fare eliminare l’abuso o di rientrare nel possesso del bene ed eliminarlo lui stesso, pena l’acquisizione del bene al patrimonio comunale.
A ciò si aggiunge che il ricorso proposto da colui che ha un diritto asseritamente dipendente da quello del proprietario, in quanto diretto alla conservazione di beni che appartengono ad altri, dev’essere notificato anche al proprietario, cose che nel caso in questione non si è verificata.
In definitiva quindi il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione ad agire e per difetto di corretta instaurazione del contraddittorio.

EDILIZIA PRIVATALe insegne senza limiti da impianto. Pubblicità.
L'insegna di esercizio posizionata parallelamente al senso di marcia dei veicoli non deve rispettare tutte le normali distanze previste dal codice stradale. Ma non potrà essere comunque troppo vistosa, ingombrante e particolare per essere autorizzata.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza 28.06.2018 n. 3974.
Un'attività produttiva si è vista revocare dall'Anas la precedente autorizzazione al posizionamento di una insegna di esercizio perché installata a una distanza inferiore ai 250 metri previsti dal codice stradale per gli incroci. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto con successo censure al collegio.
E i giudici di palazzo Spada hanno confermato le conclusioni del Tar, ovvero che la revoca non è corretta perché le distanze richiamate dall'Anas non si applicano per le insegne di esercizio posizionate parallelamente al senso di marcia dei veicoli.
Lo stabilisce l'art. 51/5° del regolamento stradale. Ma sempre che l'impianto non risulti interferente con la sicurezza e la regolarità della circolazione stradale per scelte dimensionali e di colore troppo originali e vistose, conclude il collegio
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2018).
---------------
MASSIMA
6. In via preliminare, occorre ricordare che
ai sensi dell’art. 23, comma 7, del d.lgs. n. 285 del 1992, lungo le autostrade, le strade extraurbane principali ed i relativi accessi è ammessa l’installazione (oltre che di cartelli indicatori di servizi), soltanto di insegne di esercizio, necessarie ai fini della normale attività aziendale in quanto atte a consentire alla clientela di individuare agevolmente il punto di accesso ai locali dell’impresa (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.06.2007, n. 3782).
Per insegna di esercizio va intesa l’insegna che risulti installata sulla sede dell’attività per individuare l’azienda nella sua dislocazione fisica, e che non contenga alcun elemento teso a pubblicizzare l’attività produttiva dell’impresa, limitandosi soltanto a segnalare la denominazione dell’impresa medesima, nel rispetto del dettato dell’art. 47 del d.P.R. n. 495 del 1992, quanto a dimensioni e luminosità.
Per quanto riguarda l’ubicazione lungo le strade, e relative fasce di pertinenza, secondo la disposizione recata dall’art. 51, comma 5, del più volte citato d.P.R. n. 495 del 1992 «
Le norme di cui ai commi 2 e 4, e quella di cui al comma 3, lettera c), non si applicano per le insegne di esercizio, a condizione che le stesse siano collocate parallelamente al senso di marcia dei veicoli in aderenza ai fabbricati esistenti o, fuori dai centri abitati, ad una distanza dal limite della carreggiata, non inferiore a 3 m, ed entro i centri abitati alla distanza fissata dal regolamento comunale, sempre che siano rispettate le disposizioni dell'articolo 23, comma 1, del codice».
6.1. Tenuto conto del regime di deroga di cui usufruiscono le insegne di esercizio, ed anche a non voler considerare il tenore letterale della disposizione che si è testé riportata, la tesi che l’Anas ha riproposto in appello, relativa alla necessaria complementarità tra il requisito del parallelismo e quello della distanza, non ha chiaro riscontro né sul piano logico né quello sistematico.
Sul piano logico, non è in particolare condivisibile l’affermazione secondo cui l’interpretazione letterale renderebbe inutile il requisito del parallelismo, previsto dalla prima parte della disposizione in esame, risultando idonea a regolare ogni possibile ipotesi esclusivamente la seconda parte del comma 5.
E’ infatti evidente che
le insegne di esercizio collocate parallelamente al senso di marcia, in aderenza ai fabbricati esistenti, non pongono alcun particolare problema di sicurezza (non diversamente, almeno, da quanto possano fare le facciate degli edifici cui aderiscono) in quanto la loro peculiare posizione, almeno in astratto, non interferisce con la visuale degli utenti della strada.
La prima parte del comma 5 ha quindi una evidente, autonoma e specifica applicazione.
Il requisito della distanza minima è invece richiesto per le insegne di esercizio che non presentino tali caratteristiche ed ha l’evidente fine di assicurare una fascia di rispetto idonea ad evitare intralcio o disturbo alla circolazione.
In ogni caso, la disposizione richiama anche, quale formula di chiusura, il rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 23, comma 1, del codice della strada, secondo cui compete comunque all’ente gestore della strada di valutare, in concreto, se, pur in presenza delle condizioni che in astratto consentono la deroga, le insegne di esercizio non presentino eventualmente “dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione” tali da ingenerare confusione con la segnaletica stradale, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l’attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione.
Tuttavia, nel caso di specie, il provvedimento impugnato non si fonda su una valutazione, in concreto, dell’ubicazione dell’insegna di esercizio, bensì soltanto su una interpretazione del regolamento di attuazione del codice della strada la quale, come già accennato, non ha riscontro nemmeno sul piano sistematico.
Va infatti soggiunto che propria la presenza delle altre disposizioni richiamate dall’Anas –in cui il requisito del parallelismo si aggiunge a quello della distanza– è indice del fatto che il legislatore ha consapevolmente disciplinato la specifica e distinta fattispecie qui in esame, al chiaro scopo di contemperare l’esercizio dell’attività aziendale con le esigenze della circolazione, fatta in ogni caso salva la concreta verifica dello stato dei luoghi a tutela degli utenti della strada.
7. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto.

PUBBLICO IMPIEGODi rigore il regolamento sui compensi agli avvocati.
È obbligatorio adottare il regolamento previsto dall'art. 9 del dl n. 90/2014 sulla disciplina dei compensi da corrispondere agli avvocati pubblici a seguito di sentenze favorevoli per la p.a..

Questo è quanto ha sancito il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III con la sentenza 27.06.2018 n. 1460.
La controversia ha per oggetto il ricorso promosso da due dipendenti della Regione Siciliana con qualifica di funzionario direttivo-avvocato, in servizio presso l'ufficio legislativo e legale della presidenza della regione. Con tale ricorso avevano impugnato il silenzio tenuto dalla presidenza della regione, dal Dipartimento funzione pubblica e personale e dall'ufficio legislativo e legale, sull'istanza trasmessa via Pec volta a ottenere l'adozione del regolamento previsto dall'art. 9 del dl n. 90/2014.
I ricorrenti avevano lamentato l'inerzia mantenuta dall'Amministrazione regionale e avevano chiesto l'annullamento del silenzio e la condanna all'adozione di tale atto.
Il Tar siciliano accoglie il ricorso e condanna l'amministrazione ad adottare il provvedimento approvativo del regolamento sopra citato.
Non può che essere ritenuto illegittimo, infatti, il silenzio serbato dalla regione in ordine all'istanza avanzata: con il regolamento previsto dall'art. 9 del dl n. 90/2014 sono stabilite le modalità e la misura attraverso le quali sarà possibile procedere alla corresponsione dei compensi professionali nelle ipotesi indicate dalla norma primaria; e la norma primaria «disciplina il rapporto tra regolamenti degli enti e contrattazione collettiva e la devoluzione agli stessi dei criteri di riparto fra il personale delle avvocature dei compensi professionali, nonché dei criteri di riparto degli affari consultivi o contenziosi».
Ne consegue che, secondo i giudici amministrativi, la mancata adozione del regolamento costituisce un chiaro inadempimento del precetto legislativo contenuto nell'art. 9, comma 8, sopra citato. In applicazione dell'art. 2 della legge n. 241/1990, grava quindi in capo all'Amministrazione l'obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.08.2018).
---------------
MASSIMA
A. – Con il ricorso in esame, gli odierni istanti -dipendenti della Regione Siciliana con qualifica di funzionario direttivo-avvocato, in servizio presso l'Ufficio Legislativo e Legale della Presidenza della Regione- hanno impugnato il silenzio asseritamente serbato dalla Presidenza della Regione, dal Dipartimento Funzione Pubblica e Personale e dall’Ufficio Legislativo e Legale, sull’istanza trasmessa via pec il 20.04.2017 volta ad ottenere l’adozione del regolamento previsto dall'art. 9 del d.l. n. 90/2014.
Si dolgono dell’inerzia mantenuta dall’Amministrazione regionale, chiedendo l’annullamento del silenzio e la condanna all’adozione di tale atto; chiedendo contestualmente la nomina del commissario ad acta e la condanna al pagamento delle spese di lite.
B. – Si sono costituiti in giudizio la Presidenza della Regione Siciliana e l’Assessorato regionale delle Autonomie locali e della Funzione Pubblica, depositando documentazione.
C. – Con ordinanza n. 870/2018 sono stati chiesti documentati chiarimenti alla resistente Amministrazione regionale, con particolare riguardo all’attività finora svolta dai competenti Uffici al fine di dare compiuta applicazione al citato art. 9 del d.l. n. 90/2014; con successivo deposito di documentazione da parte dell’Ufficio Legislativo e Legale della Presidenza della Regione.
Quindi, alla camera di consiglio del giorno 12.06.2018, presenti i difensori delle parti, come da verbale, il ricorso è stato posto in decisione.
D. – Il ricorso è fondato.
I due ricorrenti -dipendenti della Regione Siciliana con qualifica di funzionario direttivo-avvocato, in servizio presso l'Ufficio Legislativo e Legale della Presidenza- hanno impugnato il silenzio mantenuto dall’Amministrazione regionale sull’istanza, trasmessa il 20.04.2017, volta a ottenere l’adozione del regolamento previsto dall’art. 9 del d.l. n. 90/2014, il quale nella versione oggi vigente, stabilisce, ai commi 3, 5, 6 e 8, che “…3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme e' riversata nel bilancio dell'amministrazione.
(…) 5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo principi di parità di trattamento e di specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013. Nei giudizi di cui all'articolo 152 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18.12.1941, n. 1368, possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013.
(…) 8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. I commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 01.01.2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato
”.
Dall’esame della disciplina appena riportata emerge che, con il regolamento in interesse, sono stabilite le modalità e la misura attraverso le quali sarà possibile procedere alla corresponsione dei compensi professionali nelle ipotesi indicate dalla norma primaria; e la norma primaria “…disciplina il rapporto tra regolamenti degli enti e contrattazione collettiva e la devoluzione agli stessi dei criteri di riparto fra il personale delle avvocature dei compensi professionali, nonché dei criteri di riparto degli affari consultivi o contenziosi…” (cfr. C.G.A., Adunanza delle Sezioni riunite del 21.02.2017, parere n. 382).
Ne consegue che la mancata adozione del regolamento costituisce un chiaro inadempimento del precetto legislativo contenuto nell’art. 9, co. 8, su riportato; e che, in applicazione dell’art. 2 della l. n. 241/1990, grava in capo all’Amministrazione l’obbligo di avviare e concludere il relativo procedimento (in tal senso, v.: TAR Campania, Napoli, Sez. V, 07.07.2017, n. 3673; TAR Toscana, Sez. I, 09.03.2017, n. 355; TAR Sicilia, Sez. II, 06.06.2016, n. 1361).
Deve precisarsi, sotto tale profilo, che l’Ufficio Legislativo e Legale della Presidenza della Regione, in adempimento all’ordine istruttorio di cui all’ordinanza n. 870/2018, ha depositato documentazione dalla quale si evince un primo tentativo, nel mese di giugno 2015, di redazione del regolamento in attuazione del su riportato art. 9; nonché, a seguito della proposizione del ricorso in esame, l’istituzione di un tavolo tecnico al fine di pervenire alla predisposizione di un nuovo schema di Regolamento, auspicabilmente entro un mese dall’insediamento, previsto per il 15 aprile scorso (cfr. nota prot. n. 9355 del 7 maggio 2018 e l’allegata disposizione n. 7014 del 07.04.2018).
A tale disposizione di servizio non risulta dagli atti di causa -né l’Amministrazione lo ha documentato- che abbia fatto seguito tale attività.
Poiché non emerge, allo stato, alcun indice significativo del superamento dell’inerzia -né risulta che sia stata definita, per tale specifico oggetto, la contrattazione con le rappresentanze sindacali- deve essere dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione regionale.
Conseguentemente,
va ordinato alla Presidenza della Regione Siciliana e all’Ufficio Legislativo e Legale, ciascuno per quanto di rispettiva competenza, di provvedere all’adozione del regolamento di cui all’art. 9, co. 8, del d.l. n. 90/2014 nel termine di centoventi giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza.
Per l’ipotesi di ulteriore inerzia oltre il termine assegnato, va nominato commissario ad acta il Segretario Generale dell’Assemblea Regionale Siciliana, con facoltà di delega ad altro funzionario in servizio presso la medesima struttura dotato di adeguata competenza, il quale, su istanza di parte ricorrente, darà seguito agli adempimenti conseguenti alla presente sentenza nell’ulteriore termine di centoventi giorni; con onere per la relativa attività a carico della Presidenza della Regione.

APPALTIGara, impresa esclusa se c'è rinvio a giudizio.
È legittimo escludere da una gara un'impresa a causa del solo rinvio a giudizio dell'amministratore della società.

Lo ha affermato il TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la sentenza 26.06.2018 n. 4271, che ha stabilito che il provvedimento di rinvio a giudizio emesso nell'ambito di un procedimento penale a carico degli amministratori di un'impresa legittima l'esclusione dalla gara anche in assenza di una pronuncia definitiva.
La sentenza ha una sua rilevanza in quanto riguarda una fattispecie (oggetto di rinvio a giudizio) in cui si sarebbe configurato un tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante. Si tratta evidentemente di un reato che incide gravemente sulla integrità e affidabilità del concorrente e che ha determinato una lettura fortemente estensiva della disciplina vigente in tema di cause di esclusione per illecito professionale (articolo 80, comma 5, lettera c), del codice appalti).
In altre parole, il Tar ha ritenuto che il provvedimento di rinvio a giudizio, pur non avendo alcun carattere di definitività in merito al procedimento penale in corso, fosse di per sé sufficiente ad integrare un'ipotesi di grave illecito professionale, sia pure in assenza di una sentenza di condanna, al limite anche non definitiva.
Secondo i giudici l'esclusione per gravi illeciti professionali si può fondare anche su elementi che, anche se in via ancora presuntiva, configurano un comportamento che non compatibile con la partecipazione alla gara. Una lettura non molto dissimile da quella fornita dall'Anac con le linee guida in materia di grave illecito professionale. In concreto, poi, la valutazione della rilevanza del fatto oggetto di rinvio a giudizio viene lasciata alla discrezionalità della stazione appaltante, che ovviamente avrà il compito di fornire adeguata e congrua motivazione della scelta compiuta.
Nel caso esaminato dai giudici queste considerazioni assumono un rilevo ancora maggiore in relazione al fatto che il procedimento penale in corso e il decreto di rinvio a giudizio si riferiscono all'affidamento dello stesso servizio oggetto della gara in corso e che la stazione appaltante coinvolta nell'episodio è la stessa che ha disposto l'esclusione
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2018).
---------------
MASSIMA
6. - Parte ricorrente ritiene che il mero decreto che dispone il rinvio a giudizio non sia atto idoneo a legittimare l’esclusione dalla gara per grave illecito professionale, non potendosi desumere dallo stesso elementi idonei a minare l’affidabilità del concorrente, tanto più che mai nessun addebito è stato rivolto alla ricorrente nello svolgimento del servizio durante l’esecuzione del precedente contratto di appalto, pure prorogato, per effetto della cui scadenza è stata indetta la gara oggetto del presente giudizio.
Gli assunti di parte ricorrente non sono condivisibili.
6.1. - Ai sensi dell’art. 80, co. 5, lett. c), del d.lvo n. 50/2016 “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: … la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
6.2. - I più recenti arresti giurisprudenziali in materia, come ammesso anche dalla ricorrente, depongono nel senso che –anche al di là dei casi in cui ricorra una fattispecie tipizzata dall’art. 80, co. 5, lett. c) (illecito professionale che abbia dato luogo ad una risoluzione o ad altra sanzione giudizialmente “confermata”)–
residua in capo alla S.A. il potere di operare una valutazione discrezionale sulla gravità dell’illecito, fornendo adeguata motivazione sulla incidenza dell’inadempimento sull’affidabilità del concorrente.
In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato (in relazione a fattispecie in cui l’esclusione era stata motivata in base a “mere” negligenze poste in essere dal concorrente in ordine alle quali sussisteva “una situazione di conflittualità e di reciproche contestazioni”, ma difettavano gli effetti legali tipici escludenti previsti dall’art. 80) che ha statuito quanto segue:
   - “
l’elencazione dei gravi illeciti professionali rilevanti contenuta nella lettera c) del comma 5 dell’art. 80 è meramente esemplificativa, per come è fatto palese sia dalla possibilità della stazione appaltante di fornirne la dimostrazione <<con mezzi adeguati>>, sia dall’incipit del secondo inciso (<<Tra questi (id est, gravi illeciti professionali) rientrano: […]>>) che precede l’elencazione;
   -
quest’ultima, oltre ad individuare, a titolo esemplificativo, gravi illeciti professionali rilevanti, ha anche lo scopo di alleggerire l’onere della stazione appaltante di fornirne la dimostrazione con <<mezzi adeguati>>;
   [..omissis ..]
   -
né le linee guida né il parere citato [parere 03.11.2016, col n. 2286, n.d.r.] (e neanche il successivo, reso da questo Consiglio di Stato il 25.09.2017, n. 2042/2017) smentiscono l’interpretazione sopra enunciata, per la quale il pregresso inadempimento rileva a fini escludenti, qualora assurga al rango di <<grave illecito professionale>>, tale da rendere dubbia l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico, anche se non abbia prodotto gli effetti risolutivi, risarcitori o sanzionatori tipizzati.
Pertanto, è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione della portata di pregressi inadempimenti che non abbiano (o non abbiano ancora) prodotto questi effetti specifici; in tale eventualità, però, i correlati oneri di prova e di motivazione sono ben più rigorosi ed impegnativi rispetto alle ipotesi esemplificate nel testo di legge e nelle linee guida
(Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 1299 del 02.03.2018 e sent. 3592 dell’11.06.2018; vedasi anche TAR Lazio, sez. III, 08.03.2018 n. 2668, TAR Campania, sez. I, 11.04.2018 n. 2390, Sez. VIII, 05.06.2018, n. 3691 e, 18.06.2018, n. 4015).
6.3. -
Analogamente, le Linee Guida n. 6 dell’Anac, già nel testo precedente l’aggiornamento operato col provvedimento dell’11.10.2017, prevedevano che:
   a) «
rilevano quali cause di esclusione ai sensi dell'art. 80, comma 5, lettera c) del codice gli illeciti professionali gravi tali da rendere dubbia l'integrità del concorrente, intesa come moralità professionale, o la sua affidabilità, intesa come reale capacità tecnico professionale, nello svolgimento dell'attività oggetto di affidamento» (2.1.);
   b) «
al ricorrere dei presupposti di cui al punto 2.1, la stazione appaltante deve valutare, ai fini dell'eventuale esclusione del concorrente, i comportamenti idonei ad alterare illecitamente la par condicio tra i concorrenti oppure in qualsiasi modo finalizzati al soddisfacimento illecito di interessi personali in danno dell'amministrazione aggiudicatrice o di altri partecipanti, posti in essere, volontariamente e consapevolmente dal concorrente» (2.1.2.1.);
   c) «
rilevano, a titolo esemplificativo: 1. quanto all'ipotesi legale del «tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante, gli atti idonei diretti in modo non equivoco a influenzare le decisioni della stazione appaltante in ordine: 1.1 alla valutazione del possesso dei requisiti di partecipazione; 1.2 all'adozione di provvedimenti di esclusione; 1.3 all'attribuzione dei punteggi» (2.1.2.2.);
   d) «
nei casi più gravi, i gravi illeciti professionali posti in essere nel corso della procedura di gara possono configurare i reati di cui agli articoli 353, 353-bis e 354 del codice penale. Pertanto, al ricorrere dei presupposti previsti al punto 2.1, la stazione appaltante deve valutare, ai fini dell'eventuale esclusione del concorrente, i provvedimenti di condanna non definitivi per i reati su richiamati. I provvedimenti di condanna definitivi per detti reati configurano, invece, la causa di esclusione prevista dall'art. 80, comma 1, lettera a) del codice» (2.1.2.5.).
Dal quadro normativo si desume che
l’illecito professionale deve essere posto in essere dal concorrente e va valutato globalmente con riguardo alla posizione e agli interessi di questo (TAR Lazio, sez. III, sent. n. 2668/2018, cit.).
7. - Alla luce di queste premesse, il provvedimento di esclusione dalla gara della società cooperativa ricorrente risulta immune dalle censure articolate in ricorso.
7.1. - Nel caso in esame, come risulta dal verbale gravato, l’esclusione risulta disposta a conclusione dell’esperimento di apposita istruttoria, nel corso della quale è stata coinvolta anche l’Anac, che ha rimesso la valutazione dei fatti alla S.A., e si è svolta anche l’audizione della ricorrente.
Più specificamente, la Commissione ha ritenuto di attribuire rilevanza “al decreto di rinvio a giudizio emesso dalla Procura della Repubblica di Torre Annunziata R.G.N.R. 357/2016 e n. R.G. G.I.P. 3291/2016 per i fatti non determinati e riconducibili agli illeciti professionali gravi (ex. Art 353 c.p., Tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante Comune di Sorrento), tenuto conto che tale situazione è congiunta all’ulteriore rilevante circostanza che la gara di cui trattasi concernente l’affidamento del medesimo servizio a cui si riferisce il decreto di rinvio a giudizio, ossia il trasporto scolastico, ed è indetta dalla medesima stazione appaltante, che, in entrambi i casi, è il Comune di Sorrento”.
7.2. - Se ne desume che l’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione si appunta sui comportamenti univocamente idonei, tali da non richiedere, secondo i principi sopra esposti e ritenuti applicabili alla vicenda in esame, a monte l’accertamento mediante un provvedimento giudiziale definitivo.
Deve ritenersi ragionevole la valutazione compiuta dalla stazione appaltante in ordine all’esistenza, per la nuova gara, di un illecito professionale escludente collegato alle condotte serbate da soggetti appartenenti alle compagini sociali riferite allo svolgimento del medesimo servizio di trasporto scolastico oggetto della gara in questione.
I fatti riferiti, che coinvolgono tra gli altri l’amministratore delegato e il legale rappresentante delle cooperativa, sono stati ritenuti idonei a configurare l’ulteriore ipotesi non elencata dall’art. 80, comma 5, d.lgs. 50/2016, in quanto in grado di incidere negativamente sulla integrità e/o affidabilità del concorrente in rapporto allo specifico contratto (trasporto scolastico) da affidare proprio da parte del Comune di Sorrento.
Nell’economia funzionale della previsione e in assenza di puntuali indici normativi contrari, i comportamenti valutabili in termini di illecito professionale non possono essere ristretti soltanto a quelli posti in essere in occasione della gara de qua, ben potendo invece –come nel caso di specie– essere valutate come sintomatiche della mancanza di integrità e affidabilità anche condotte violative della trasparenza poste in essere con riguardo a identico precedente servizio svolto dalla società cooperativa ricorrente nei confronti del medesimo Comune.
7.3. - Né l’intervenuta revoca delle misure cautelari, che pure erano state adottate nei confronti del legale rappresentante e dell’amministratore della società cooperativa ricorrente, può ritenersi idonea a far ritenere viziata la disposta esclusione, considerato il procedimento penale in corso e soprattutto i fatti da cui esso è scaturito. Occorre, peraltro, tener anche conto del fatto che i tempi processuali non sono ordinariamente compatibili con la sollecita esigenza di escludere dalle procedure ad evidenza pubblica soggetti non (o non più) affidabili.
7.4. - Inconferente risulta poi il richiamo alla disposta proroga del precedente contratto d’appalto, limitato ad un circoscritto arco temporale e fondato sulla condivisibile necessità di assicurare la prosecuzione del regolare svolgimento del servizio di trasporto nell’anno scolastico in corso. La motivazione trova conferma nella nota prot- 588583 inviata ad Anac il 29.12.2017, in cui Comune evidenzia che, nonostante tutto, procederà in regime di prorogatio al fine di garantire la continuità del servizio.
8. - In definitiva, il provvedimento gravato appare sufficientemente e plausibilmente motivato, alla luce del quadro normativo di riferimento, in relazione alla sussistenza dell’illecito professionale considerato che ha reso dubbia l’integrità e l’affidabilità della società cooperativa, anche tenuto conto della stretta correlazione esistente tra i fatti oggetto del procedimento penale e l’oggetto della gara in atto, cosicché il ricorso deve essere respinto.

TRIBUTIImu soft ma con la residenza. Sentenza della CTP di Sondrio.
Le agevolazioni per l'Imu spettano a condizione che nell'abitazione principale il contribuente abbia, oltre alla dimora abituale, anche la residenza anagrafica.

Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza 26.06.2018 n. 76/2/2018 emessa dalla Sez. II della Commissione tributaria provinciale di Sondrio.
La vicenda riguarda degli avvisi di accertamento Imu per gli anni dal 2012 al 2015 notificati al contribuente; il Comune, in assenza di residenza anagrafica, non aveva ritenuto spettanti le agevolazioni Imu richieste dallo stesso contribuente e aveva notificato la maggior pretesa. Opponendo gli accertamenti, il ricorrente assumeva di aver dimostrato la residenza «di fatto» nell'immobile, condizione che lo poneva tra gli aventi diritto alle agevolazioni delle imposte locali al pari dei residenti iscritti all'anagrafe dei residenti.
La Commissione provinciale di Sondrio ha rigettato il ricorso e confermato la debenza dell'imposta. I giudici provinciali osservano come, ai fini dell'applicazione dell'Imu, il concetto di abitazione principale sia inserito nell'articolo 13, comma 2, del decreto legge n. 201/2011 (decreto Monti) il quale dispone che «per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente».
Quindi affinché un immobile possa essere considerato abitazione principale, sono necessarie tre condizioni: I) il possesso/proprietà o altro titolo reale quale ad esempio l'usufrutto o il diritto di abitazione; II) la residenza anagrafica; III) la dimora abituale intesa come elemento che sussiste continuativamente nel tempo.
Ne deriva che, l'elemento di novità, rispetto al passato, è che il concetto di «abitazione principale» sia legato all'ulteriore requisito (oltre a quello della dimora abituale) rappresentato dalla residenza anagrafica.
Il collegio aggiunge che in effetti, la congiunzione «e» della parte finale dell'articolo 13, comma 2, del dl n. 201/2011 ( ) nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente (...) non lascia spazio a una interpretazione letterale diversa da quella che, secondo la norma, i requisiti della dimora abituale e della residenza anagrafica non siano tra di loro alternativi, ma debbano sussistere entrambi. Rigettando il ricorso, la Ctp ha compensato tra le parti le spese di lite.
---------------

Il principio
Ai fini dell’agevolazione Imu oltre alla dimora abituale nell’immobile, è indispensabile la residenza anagrafica di diritto; in precedenza, l’Ici subordinava l’agevolazione alla dimora abituale, tollerando (in alcuni casi) la residenza di fatto
 (articolo ItaliaOggi del 22.08.2018).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILa revisione dei prezzi degli appalti opera solo se prevista dai documenti di gara.
La revisione dei prezzi negli appalti pubblici di servizi e forniture non è obbligatoria in base al codice dei contratti pubblici, ma è applicabile dalle stazioni appaltanti sia agli appalti nei settori ordinari che a quelli nei settori speciali.

Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 19.06.2018 n. 3768 ha analizzato le differenze tra il quadro di regolamentazione della revisione nel vecchio codice e nel nuovo, esaminando la differente portata applicativa dell'art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 e dell'art. 106 del d.lgs. n. 50/2016.
I giudici amministrativi hanno evidenziato, infatti, come la disposizione nel quadro ordinamentale previgente costituisse norma imperativa non suscettibile di essere derogata in via pattizia, ed è integratrice della volontà negoziale difforme secondo il meccanismo dell'inserzione automatica in base agli articoli 1419, comma 2, e 1339 del codice civile.
Nell'analisi viene ad essere rilevato che, invece, nel nuovo codice degli appalti, la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina, ma opera solo se prevista dai documenti di gara e questo comporta l'inapplicabilità della giurisprudenza formatasi sul vecchio art. 115, sulla natura imperativa e sull'inserimento automatico delle clausole relative alla revisione prezzi e alla loro sostituzione delle clausole contrattuali difformi.
L'art. 106, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, alla lettera a) stabilisce infatti che i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti. Tali clausole non possono peraltro apportare modifiche che avrebbero l'effetto di alterare la natura generale del contratto o dell'accordo quadro.
La formulazione della disposizione del nuovo codice dei contratti pubblici prefigura quindi in capo alle stazioni appaltanti una facoltà e non un obbligo di inserimento della clausola di revisione dei prezzi, delineando un quadro applicativo flessibilizzabile dalle amministrazioni, che possono tener conto di vari fattori (ad es. la durata limitata dell'appalto o il suo sviluppo in un settore con una dinamica di prezzi stabilizzati).
Il Consiglio di stato evidenzia come un'ulteriore differenza tra la disciplina recata tra i due codici si rilevi in ordine all'applicabilità della revisione prezzi anche ai “settori speciali”, che era esclusa nel regime recato dal d.lgs. n. 163/2006 ed è invece ora ammessa dall'art. 106 del d.lgs. n. 50/2016.
Qualora la stazione appaltante decida di prevedere la clausola di revisione prezzi, è necessario che consideri le finalità dell'istituto che da un lato è volto a salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte, dall'altro ad evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.
Peraltro, l'inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, che deve essere sviluppata con un'istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell'amministrazione (il direttore dell'esecuzione e il rup), non comporta anche il diritto all'automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l'amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti, valutando se sussistano effettivamente le condizioni per l'applicazione del meccanismo revisionale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.07.2018).
---------------
MASSIMA
9. – Ritiene il Collegio di dover svolgere alcune considerazioni preliminari.
Devono essere innanzitutto riaffermati alcuni principi, già espressi nella propria recente giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 09.01.2017 n. 25), secondo cui:
   -
l'art. 6, comma 4, della L. n. 537 del 1993, come novellato dall' art. 44 della L. n. 724 del 1994, prevede che “tutti i contratti pubblici ad esecuzione periodica o continuativa devono recare una clausola di revisione periodica del prezzo pattuito”;
   -
tale disposizione, ora recepita nell'art. 115 del codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163 del 2006) per quanto riguarda gli appalti di servizi o forniture, costituisce norma imperativa non suscettibile di essere derogata in via pattizia, ed è integratrice della volontà negoziale difforme secondo il meccanismo dell'inserzione automatica (artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c.) (Cons. Stato, Sez. V 16/06/2003 n. 3373);
   -
la finalità dell’istituto è da un lato quella di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2015 n. 2295; Consiglio di Stato, Sez. V, 20.08.2008 n. 3994), dall’altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.04.2014 n. 2052; Sez. III 04.03.2015 n. 1074; Sez. V 19.06.2009 n. 4079);
   -
nel rapporto tra la revisione dei prezzi previsti dall’art. 1664, comma 1, c.c. e quella pubblicistica prevista dall’art. 115 del D.Lgs. 163/2006 sussiste un rapporto di specialità, e pertanto, nell’ambito dei contratti pubblici non può applicarsi la normativa civilistica che ha natura dispositiva, essendo rimessa alla volontà delle parti;
   -
l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione, non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti;
   - in tal senso si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 22.12.2014, n. 6275 e 24.01.2013 n. 465), rilevando che
la posizione dell'appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante (Cass. SS.UU. 31.10.2008 n. 26298), che deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato;
   - per compiutezza espositiva è opportuno rilevare che,
nel nuovo codice degli appalti, la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina (applicabile ratione temporis alla presente controversia), ma opera solo se prevista dai documenti di gara. Ciò comporta l’inapplicabilità della giurisprudenza, già richiamata, sulla natura imperativa e sull’inserimento automatico delle clausole relative alla revisione prezzi e alla loro sostituzione delle clausole contrattuali difformi;
   -
ulteriore differenza tra la disciplina recata tra i due codici si rinviene in ordine all’applicabilità della revisione prezzi anche ai “settori speciali”, che era esclusa nel regime recato dal D.Lgs. n. 163/2006 ed è invece ora ammessa dall’art. 106 del D.Lgs. n. 50/2016.
10. - Sempre in via preliminare è opportuno richiamare la sentenza della Corte di Giustizia UE del 19.04.2018, C 152/17, che ha definito la questione pregiudiziale proposta dalla Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato richiamata dall’appellante nella propria memoria difensiva.
La Corte europea ha rilevato che:
   - da nessuna disposizione della direttiva 2004/17/CE, emerge che quest’ultima debba essere interpretata nel senso che essa osta a norme di diritto nazionale, quale il combinato disposto degli articoli 115 e 206 del d.lgs. n. 163/2006, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati dalla medesima direttiva, dal momento che quest’ultima non impone agli Stati membri alcun obbligo specifico di prevedere disposizioni che impongano all’ente aggiudicatore di concedere alla propria controparte contrattuale una revisione al rialzo del prezzo dopo l’aggiudicazione di un appalto;
   - nemmeno i principi generali sottesi alla direttiva 2004/17/CE e, segnatamente, il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza che ne deriva, sanciti dall’articolo 10 di tale direttiva, ostano a siffatte norme;
   - al contrario, non si potrebbe escludere che una revisione del prezzo dopo l’aggiudicazione dell’appalto possa entrare in conflitto con tale principio e con tale obbligo (v., per analogia, sentenza del 07.09.2016, C 549/14, Finn Frogne, punto 40);
   - come rilevato dalla Commissione nelle osservazioni scritte, il prezzo dell’appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte da parte di un ente aggiudicatore, così come nella decisione di quest’ultimo di attribuire l’appalto a un operatore; tale importanza emerge peraltro dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i criteri relativi all’aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 55, paragrafo 1, della direttiva 2004/17. In tali circostanze, le norme di diritto nazionale che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva sono piuttosto idonee a favorire il rispetto dei suddetti principi;
   - in conclusione,
la direttiva 2004/17/CE e i principi generali ad essa sottesi devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva.
10.1 - I principi espressi dalla Corte di Giustizia UE consentono di risolvere le questioni prospettate nell’atto di appello in merito alla incompatibilità della normativa nazionale, che nega la revisione dei prezzi per talune tipologie di contratti di servizi, con quella europea.

APPALTIArtificioso frazionamento. C’è abuso di ufficio. Sentenza della Cassazione.
In caso di artificioso frazionamento di un appalto il responsabile del procedimento è imputabile per il reato di abuso d'ufficio.

Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 11.06.2018 n. 26610.
Era accaduto che, frazionando artificiosamente un intervento, il responsabile unico del procedimento affidasse i lavori attraverso la procedura del cottimo fiduciario, omettendo l'applicazione della procedura di cui al comma 8 dell'art. 125 del testo allora vigente (2010) del codice dei contratti pubblici.
In particolare l'appalto, avente ad oggetto i lavori di rifacimento del lucernaio di un capannone, era stato suddiviso in cinque distinti interventi, tre dei quali dell'importo di euro 40 mila e due di importo inferiore, uno corrispondente a euro 25 mila e l'altro di euro 34 mila. Si era quindi proceduto ad affidamento dei lavori con la procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure alla consultazione di almeno altre quattro ditte.
La Cassazione ha confermato che è stato puntualmente ricostruito il rapporto di conoscenza dell'imputato con l'amministratore della società che aveva eseguito, nel medesimo capannone, lavori di ampliamento ed il procedimento di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori.
La macroscopica illegittimità della procedura, si legge nella sentenza, denota per la Suprema corte, a chiare lettere, l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito.
Questa condotta risulta inequivocabilmente orientata a procurare il vantaggio patrimoniale alla società assegnataria dei lavori, finalità rispetto alla quale non rileva la circostanza che la ditta avesse poi direttamente eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria contestazione, solo una parte mentre la parte restante era stata affidata in subappalto alla Im..
Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).
---------------
MASSIMA
3. Anche il secondo motivo di ricorso non è fondato.
Deve escludersi, sulla scorta della ricostruzione compiuta nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado che il ricorrente sia stato condannato, in violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., per un fatto diverso da quello che aveva costituito oggetto di addebito nella originaria contestazione, benché le sentenze di merito diano diffusamente atto che, durante l'istruttoria dibattimentale, era emerso, in relazione al vizio di violazione di legge che inficiava la procedura di scelta del contraente seguita per l'affidamento dei lavori, un aspetto, cioè che l'importo di tre degli ordinativi non consentiva di procedere all'affidamento diretto dei lavori.
Tale vizio, tuttavia, non aveva costituito oggetto di contestazione e, men che mai, è stato oggetto di addebito con le decisioni che avevano affermato la penale responsabilità del Pi..
3.2 Per come è dato evincere dalla sentenza impugnata, An.Pi. è stato ritenuto responsabile del reato di abuso di ufficio perché, al fine di procurare un indebito vantaggio patrimoniale alla Ed., aveva, artificiosamente frazionato, in accordo con il defunto amministratore della società che aveva inviato i corrispondenti preventivi, l'appalto avente ad oggetto i lavori di rifacimento del lucernaio di un capannone, suddividendoli in cinque distinti interventi, tre dei quali dell'importo di euro 40.000,00 e due di importo inferiore, uno corrispondente ad euro 25.000,00 e l'altro di euro 34.000, così procedendo ad affidamento dei lavori con la procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure alla consultazione di almeno altre quattro ditte.
Secondo il ricorrente, invece, dall'istruttoria dibattimentale era emerso che il vizio che inficiava la procedura di scelta del contraente era ravvisabile nella circostanza che anche per l'appalto di lavori di importo pari a 40.000,00 euro -e non solo superiori a detto importo- era d'obbligo procedere a gara, vizio, questo, che non aveva costituito oggetto di contestazione e rispetto al quale erano risultate elusive le risposte alle deduzioni difensive contenute nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado.
3.3. Ritiene il Collegio, sulla scorta dei profili di illegittimità individuati nelle sentenze di merito in relazione alla descritta procedura, che deve escludersi siano stati addebitati al ricorrente vizi della procedura diversi ed ulteriori rispetto a quelli che avevano costituito oggetto dell'originaria contestazione e che, in ogni caso, la valutazione compiuta dai giudici del merito, quanto alla configurabilità del delitto di abuso ascrittogli, è operata in conseguenza di una valutazione logica del materiale processuale e senza alcun rilevante errore di diritto circa gli elementi costitutivi essenziali del fatto, ai fini della sua sussunzione nella fattispecie incriminatrice, con la conseguenza che la Corte di Cassazione non può compiere un diverso apprezzamento dei dati fattuali venendo, altrimenti, vulnerato il principio dell'autonomia esclusiva del convincimento in fatto del giudice di merito.
4. Per mera completezza, ed in aggiunta ai rilievi testé svolti, ritiene il Collegio che può perfino dubitarsi, a livello epistemologico, che l'ulteriore aspetto di illegittimità denunciato dal ricorrente -cioè, che l'importo di tre dei cinque ordinativi rendeva obbligatorio procedere a gara- sia tale da connotare il fatto originariamente contestato in termini di fatto diverso -men che mai in termini di fatto nuovo-, non trattandosi di aspetto tale da ingenerare il dubbio che il fatto materiale ascritto all'imputato si sia svolto in tempi, in luoghi o con modalità difformi a quelle descritte nell'imputazione e tenuto conto, altresì, che la violazione dell'obbligo di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, non si verifica quando l'accusa venga precisata o integrata con le risultanze di atti acquisiti al processo, e quando la modifica, rispetto all'accusa originaria, non abbia in alcun modo menomato le possibilità di difesa (Sez. 2, n. 18868 del 10/02/2012 - dep. 17/05/2012, Osmenaj, Rv. 252822), e, in particolare, quando il fatto ritenuto in sentenza, quantunque diverso da quello contestato, sia stato prospettato dallo stesso imputato, atteso che, avendo in tal caso il medesimo imputato apprestato la necessaria difesa in relazione alla diversa prospettazione del fatto volontariamente offerta.
5. Corrisponde all'osservanza di precise regole nella valutazione delle prove, di completezza e logicità della motivazione, l'iter argomentativo posto a fondamento della sentenza impugnata con riguardo alla individuazione e sussistenza dell'ingiusto vantaggio patrimoniale che, quale diretta conseguenza della condotta abusiva, i giudici di appello hanno individuato nell'avere procurato alla Ed. una commessa alla quale l'impresa non aveva alcun diritto.
Nella sentenza (cfr. pag. 11) è stato puntualmente ricostruito il rapporto di conoscenza dell'imputato con l'amministratore della società Ed. (nel frattempo deceduto) che aveva eseguito, nel medesimo capannone, lavori di ampliamento ed il procedimento di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori -oggetto di contestazione- che veniva seguito personalmente dall'imputato, nella qualità, a partire dal sopralluogo eseguito nel mese di luglio 2009, per verificare le infiltrazioni, sopralluogo al quale aveva fatto seguito, in mancanza di una previsione di spesa dei lavori da eseguire, la presentazione, da parte della società, dei preventivi che, ritoccati nell'importo ridotto a quarantamila euro, vennero poi posti a base degli ordini di lavoro che, pur investendo un intervento sostanzialmente e funzionalmente unitario (cioè il rifacimento del tetto del capannone) risultavano, senza alcuna apparente ragione, senza alcuna ragionevole giustificazione e in contrasto con le previsioni recate dall'art. 125, comma 13, del Codice degli appalti, artificiosamente frazionati (la costruzione del ponteggio per la esecuzione dei lavori, oggetto del primo ordine; lo smontaggio dei pannelli di copertura del tetto, oggetto del secondo; la fornitura e posa in opera dei strutture, oltre alla pitturazione trasporto a discarica del materiale di risulta, il terzo, quarto e quinto ordine) allo scopo di sottoporli alla disciplina delle acquisizioni in economia, ovvero attraverso la procedura del cottimo fiduciario, così in concreto seguita.
6.
La macroscopica illegittimità della procedura seguita, secondo le corrette valutazioni dei giudici del merito, denota a chiare lettere l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito ( Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706) e risulta inequivocabilmente orientata a procurare il vantaggio patrimoniale alla società assegnataria dei lavori, finalità rispetto alla quale non rileva la circostanza che la ditta avesse poi direttamente eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria contestazione, solo una parte mentre la parte restante era stata affidata in subappalto alla Im.. Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto (Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma e altri, Rv. 272331).
7. Come noto
ai fini del perfezionamento del reato di abuso d'ufficio assume rilievo il concreto verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti a se stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi (Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
È, quindi, necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, perché connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia e nel caso comprovato dal favoritismo accordato alla Ed. assicurandole l'appalto, frazionato in cinque ordinativi, e con l'intenzione di arrecarle un vantaggio, evitando la gara.

COMPETENZE GESTIONALI - TRIBUTILiti fiscali, solo il sindaco rappresenta il comune.
Spetta solo al sindaco il potere di rappresentare il comune nel processo tributario, come ricorrente o come parte resistente. I dirigenti comunali non hanno alcun potere di agire o di resistere in giudizio in mancanza di un'espressa previsione contenuta nello statuto dell'ente locale.

Lo ha stabilito la commissione tributaria regionale di Palermo, VIII Sez., con la sentenza 11.06.2018 n. 2439.
Secondo la commissione regionale, per espressa previsione statutaria del comune di Sciacca, «spetta al sindaco la competenza e l'autorità a stare in giudizio come attore o come convenuto e quindi anche innanzi alla giurisdizione tributaria». Lo statuto comunale «non riconosce in alcun modo ai dirigenti la facoltà di agire e/o resistere in giudizio».
Pertanto, «non sussistendo in detto statuto un espresso rinvio per poter legittimamente affidare la rappresentanza a stare in giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, solo il sindaco ha l'esclusiva titolarità di detto potere di rappresentanza».
Il principio affermato non può essere condiviso e i giudici d'appello non avrebbero dovuto dichiarare inammissibile il ricorso proposto dall'amministrazione comunale. La questione della rappresentanza processuale degli enti locali ha formato in passato oggetto di dibattito, fino a che non è stata risolta per via normativa.
In effetti l'articolo 3-bis della legge 88/2005 ha modificato l'articolo 11, comma 3, del decreto legislativo 546/1992, prevedendo che la rappresentanza dell'ente locale nel processo tributario spetta anche ai dirigenti dell'ufficio tributi. Per gli enti privi di questa figura, entra in gioco il titolare di posizione organizzativa.
Quindi, l'amministrazione nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare di posizione organizzativa. Considerato che vi è un espressa previsione di legge, della quale i giudici non tengono affatto conto, non è necessario che la rappresentanza venga riconosciuta da una norma statutaria. Ai funzionari e dirigenti, poi, può essere conferito con una delega ad hoc anche il potere di assistere l'ente in giudizio.
Va ricordato che la disciplina processuale impone l'obbligo dell'assistenza tecnica solo per le parti private ricorrenti, diverse dalle amministrazioni pubbliche (agenzie fiscali, enti locali) o di chi agisce per loro conto (società concessionarie). Per i funzionari che assistono in giudizio gli enti impositori gli onorari devono essere rapportati ai compensi previsti per gli avvocati
(articolo ItaliaOggi del 14.08.2018).

PUBBLICO IMPIEGOCassazione, l’assenza breve non salva dalla condanna.
Gli assenteisti della pubblica amministrazione non possono invocare la «tenuità del fatto» per evitare la condanna quando le loro uscite ingiustificate sono poche, o brevi, o comunque non provocano un disservizio grave all’ufficio.
C’è questa motivazione alla base della sentenza 22.05.2018 n. 22972, Sez. II penale, con cui la Corte di Cassazione ha respinto i ricorsi di 26 dipendenti dell’Asl di Brindisi che avevano subito condanne fra i sette mesi e i due anni a seconda dei casi.
Fra le ragioni di difesa invocate dai dipendenti, e respinte dai giudici di legittimità, c’erano anche le caratteristiche di molte assenze, limitate secondo i diretti interessati nella durata e nella frequenza. Ma per la Cassazione non c’è nulla da fare.
Le assenze ingiustificate, si legge nelle 90 pagine con cui i ricorsi sono stati respinti, producono comunque all’amministrazione «un danno economico diretto che, per quanto minimo, non è comunque inconsistente e quindi non può far ritenere la condotta del tutto inoffensiva»; anche perché il fatto che il danno possa essere «minimo» non significa che sia anche «impercettibile», e le regole non ammettono una “soglia di tolleranza” sotto la quale le pene possano essere abbuonate.
A favore dei dipendenti non depone nemmeno il fatto che l’ufficio continuasse a operare anche in loro assenza, proprio grazie alla strategia con cui venivano organizzate le uscite con l’obiettivo di «lucrare minimi ma ripetuti benefici e facendo attenzione a non rendere evidenti (per esempio durante gli orari di laboratorio con i pazienti nei corridoi) i ritardi e gli allontanamenti».
L’ufficio può funzionare anche quando qualcuno è assente, tagliano corto i magistrati, altrimenti «per assurdo nessun lavoratore potrebbe beneficiare dei congedi ordinari e straordinari» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2018).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIGare d’appalto sopra soglia, la scelta di non reinvitare il gestore uscente è la regola.
È legittima la decisione della stazione appaltante di avviare una procedura negoziata sopra soglia, ai sensi dell’articolo 63 del Codice degli appalti, senza invitare il precedente gestore, al fine di ampliare le concrete possibilità di aggiudicazione della nuova gara da parte delle altre imprese concorrenti.
È questo il principio affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 21.05.2018 n. 5621.
Il caso
Nel 2012 il Senato della Repubblica aveva aderito alla convenzione Consip per il Facility Management per gli immobili (cosiddetta convenzione FM3) con scadenza prevista al 31.10.2016. Dopo la scadenza del contratto così affidato, nelle more dell’aggiudicazione della nuova convenzione (cosiddetta convenzione FM4), il Senato aveva riaffidato direttamente il contratto all’impresa originariamente individuata da Consip, mediante l’adozione di una serie di provvedimenti di proroga.
Ed infatti, il Consiglio di Presidenza del Senato, ritenendo opportuno proseguire l'acquisizione di beni e servizi attraverso il sistema centralizzato di gestione della spesa che la Consip assicura alle Pubbliche amministrazioni, aveva autorizzato le proprie strutture a verificare la convenienza economica dell'adesione alla nuova Convenzione Consip FM4 in corso di aggiudicazione e, nel frattempo, aveva disposto una serie di affidamenti in proroga a favore del gestore uscente.
Nel maggio 2017, tuttavia, il Senato della Repubblica, considerato che la nuova procedura indetta da Consip non si era ancora conclusa, aveva ritenuto opportuno «avviare una o più procedure ad evidenza pubblica per l’acquisizione dei servizi di facility management», ed aveva pertanto autorizzato le proprie strutture ad espletare una o più procedure ristrette da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, riservandosi di valutare la convenienza di aderire alla nuova Convenzione se aggiudicata prima del completamento delle procedure indette autonomamente.
A tali procedure non era stato tuttavia invitato il gestore uscente -originariamente individuato quale aggiudicatario della convenzione Consip- il quale aveva pertanto proposto ricorso al Tar Lazio, lamentando che la stazione appaltante non avrebbe potuto in via automatica omettere l’invito del precedente affidatario «a fronte di una normativa che pone sullo stesso piano i principi di concorrenza e di rotazione».
La decisione
Con la pronuncia in rassegna, tuttavia, il Tar Lazio rigetta il ricorso proposto dal gestore uscente, ritenendo che legittimamente, a fronte di ben quattro proroghe tecniche disposte direttamente a favore dell’impresa ricorrente, la stazione appaltante aveva optato, ricorrendone i presupposti, per l’avvio di una procedura negoziata ex articolo 63 Dlgs n. 50/2016, in coerenza con il principio di rotazione «che governa l’aggiudicazione degli appalti nell’ipotesi del ricorso alla procedura negoziata» (sul punto viene richiamato Consiglio di Stato n. 4125/2017).
In tal modo, infatti, era stata evitata la possibile cristallizzazione di relazioni esclusive tra la stazione appaltante ed il precedente gestore ed erano state ampliate le possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti (Consiglio di Stato n. 5854/2017).
Secondo la pronuncia in rassegna, in particolare, corollario del principio di rotazione è il carattere eccezionale dell’invito all’affidatario uscente, con la conseguenza che la stazione appaltante non è tenuta ad indicare una specifica motivazione per escluderlo dal novero degli operatori invitati alla nuova procedura negoziata, non trattandosi di una scelta di carattere sanzionatorio quanto piuttosto dell'esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al medesimo gestore uscente, la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento.
Secondo la pronuncia in rassegna, il principio di concorrenza e di massima partecipazione si esplica essenzialmente consentendo ad operatori economici, diversi da quelli fino a quel momento coinvolti, di accedere ad appalti di durata necessariamente limitata per il verificarsi di situazioni non prevedibili. Di tale eccezionale situazione la società ricorrente, peraltro, si era avvantaggiata per circa un anno e mezzo e non aveva pertanto titolo a dolersi di una scelta che offra analoga opportunità ad altro operatore, posto che ciò non comportava alcun giudizio in merito al servizio svolto dall’impresa uscente.
Il rispetto del principio di rotazione –conclude il Tar Lazio– non è poi previsto solo dall’articolo 36 del Dlgs n. 50/2016 per i contratti sotto soglia, ma deve trovare applicazione in ogni caso di ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando indetta ai sensi dell’articolo 63 del medesimo decreto legislativo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.05.2018).

PUBBLICO IMPIEGOLicenziabile il dirigente che non raggiunge gli obiettivi.
La Cassazione prova a spiegare meglio il confine tra responsabilità dirigenziale e disciplinare (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 31.10.2017). Il problema maggiore nasce, infatti, dal licenziamento disposto per «inosservanza delle direttive imputabili al dirigente» che potrebbe, a primo acchito, far pensare a una responsabilità di tipo prevalentemente disciplinare.
Secondo, invece, la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la sentenza 09.05.2018 n. 11161) questa inosservanza potrebbe rientrare a pieno titolo in quella dirigenziale, tutte le volte che la violazione delle direttive ricevute sia direttamente collegata al raggiungimento del risultato programmato rispetto a quello realizzato. In quest'ultimo caso il dirigente, dimostrandosi inadatto allo svolgimento delle mansioni di particolare rilevanza per l'ente, potrebbe essere revocato dal suo incarico fino, nei casi di gravità maggiore, a disporne il recesso dal rapporto di lavoro.
Il caso
A seguito di valutazioni negative sui risultati prodotti da un dirigente, l'ente ha avviato la procedura del licenziamento per responsabilità dirigenziale particolarmente grave e reiterata con successivo recesso dal rapporto di lavoro. L'impugnazione del licenziamento disciplinare secondo il dirigente è stata respinta sia dal Tribunale di primo grado che dalla Corte di Appello, i quali hanno confermato le responsabilità dirigenziali e ritenuto legittimo il recesso dal rapporto di lavoro.
Insiste, allora, in Cassazione il dirigente, contro l'errore dei giudici di appello che avrebbero qualificato le responsabilità di tipo esclusivamente dirigenziale e non disciplinare, da cui discenderebbe la violazione della procedura prevista dall'articolo 55-bis del Dlgs 165/2001 che assorbe anche le responsabilità di tipo dirigenziali.
La conferma della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità la responsabilità dirigenziale è disciplinata dall'articolo 21 del Dlgs 165/2001 che, nel suo testo originario, consentiva alla Pa di revocare l'incarico dirigenziale in presenza del mancato raggiungimento degli obiettivi, per giungere, in caso di inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente, a legittimare il recesso dal rapporto di lavoro nei casi di maggiore gravità.
Successivamente l’articolo è stato modificato, prima con la legge 145/2001, tenendo distinta la responsabilità dirigenziale da quella disciplinare, per arrivare da ultimo con le modifiche del Dlgs 150/2009 secondo cui la responsabilità dirigenziale dovrà essere accertata secondo il sistema di misurazione e valutazione adottato dall'ente, mantenendo sempre salva la responsabilità disciplinare.
Con questi interventi, secondo la Cassazione, il legislatore ha voluto tenere distinte le due responsabilità, la prima quella dirigenziale caratterizzata dalla incapacità del dirigente di raggiungere il risultato programmato, a prescinde da condotte realizzate in violazione di singoli doveri del suo ufficio; la seconda, quella disciplinare, essenzialmente indirizzata alla valutazione dei suoi comportamenti (diligenza, perizia, lealtà, correttezza e buona fede tanto nel proprio diretto agire quanto nell'esercizio dei poteri di direzione e vigilanza sul personale sottoposto).
Pertanto, in presenza di gravi e ripetute violazioni, il dirigente sarà rimosso in via definitiva sia qualora il rapporto fiduciario sia leso dalla incapacità dello stesso a conseguire i risultati dell'ente, sulla base di oggettive verifiche e misurazione dei suoi risultati, sia qualora i comportamenti tenuti siano tali da incrinare il rapporto di lealtà e di correttezza che gli sono richiesti nell'assolvimento del suo rapporto contrattuale.
Se questa è la linea di demarcazione, allora anche l'inosservanza delle direttive dell'ente imputabili al dirigente, assumerà valenza solo disciplinare nella ipotesi in cui l'amministrazione ritenga che la violazione in sé, dell'ordine e della direttiva, si collochi all'interno di un inadempimento contrattuale, viceversa dovrà, invece, essere ricondotta alla responsabilità dirigenziale qualora la violazione abbia inciso negativamente sulle prestazioni richieste al dirigente.
Per i giudici di Piazza Cavour, nel caso di specie, va confermata la responsabilità dirigenziale in quanto certificata in modo oggettivo dall'esito negativo delle verifiche effettuate sui risultati del dirigente posti in violazione delle direttive dell'ente che hanno giustificato il recesso dal rapporto di lavoro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.05.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAbuso d’ufficio al sindaco che revoca in anticipo l'incarico di posizione organizzativa.
Al di fuori delle ipotesi tipizzate dalla legge, dal contratto o dal regolamento degli uffici e dei servizi, il sindaco che dispone la revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa, del responsabile dei servizi finanziari, commette il reato di abuso d’ufficio.

Sono le conclusioni della sentenza 04.05.2018 n. 19519 della Corte di Cassazione, Sez. IV penale.
La vicenda
Il sindaco di un piccolo Comune, in prospettiva di una ristrutturazione dell'apparato organizzativo che potesse condurre a una razionalizzazione della spesa, ha proceduto alla revoca anticipata dell'incarico del responsabile del servizio finanziario assumendone ad interim le funzioni.
Il responsabile estromesso ha denunciato il sindaco per violazione delle norme legislative, contrattuali e regolamentari con una risoluzione anticipata dell'incarico in mancanza dei presupposti. Il responsabile, infatti, ha lamentato che il provvedimento ha procurato un danno ingiusto, per perdita del trattamento economico, oltre che asseritamente punitivo.
Dopo la condanna per abuso d’ufficio da parte del tribunale successivamente confermata in Corte d’appello, il sindaco ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando l'errore in cui erano incorsi i giudici per non avere adeguatamente valutato che il provvedimento di revoca avrebbe condotto a un contenimento della spesa pubblica espressamente previsto da altra norma di legge (articolo 53, comma 23, legge n. 388 del 2000) per i piccoli Comuni.
La conferma della Suprema Corte
Secondo la Cassazione, integra il reato di abuso d’ufficio non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse che collide con quello per il quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione. In tema di revoca dell'incarico dirigenziale disposto nel caso di specie dal sindaco, l'atto diviene strumento attraverso il quale si realizza il reato.
Infatti, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, la revoca era stata disposta dal sindaco prima della modifica del modello organizzativo che conferiva ai membri dell'organo esecutivo, per un possibile risparmio della spesa, la titolarità della conduzione degli uffici. In altri termini, l'atto di revoca proprio perché privo di effettiva motivazione in quanto disposto prima dell'adozione di un atto organizzativo, mostra la sua obbligatoria distanza dal paradigma legislativo e/o contrattuale.
Caduta, pertanto, la motivazione organizzativa, la revoca dell'incarico sarebbe stata legittima solo qualora fosse stata conforme all'articolo 109 del Dlgs 267/2000, dove è stabilito che la revoca prima della scadenza degli incarichi dirigenziali intervenga, tra l'altro, in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o di mancato raggiungimento, alla fine di ogni anno finanziario, degli obiettivi assegnati o per responsabilità particolarmente grave e reiterata o nei casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro.
Avendo, pertanto, agito il sindaco al di fuori delle ipotesi tipizzate e, quindi, in violazione di legge, ha avuto un comportamento che definisce l'elemento soggettivo quale dolo di abuso secondo l’articolo 323 del codice penale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2018).
---------------
MASSIMA
4. La deduzione è altresì irrilevante.
In tema di abuso d'ufficio, la violazione di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione (Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia, Rv. 254124).
Ove l'abuso di ufficio si realizzi per adozione di un atto di revoca, l'atto diviene strumento attraverso il quale si realizza il comportamento costituente reato perseguendosi per il primo l'intento di recare un danno obiettivamente ingiusto, qual è per l'appunto la revoca di incarico, a cui si accompagnano negative implicazioni economiche, funzionali e di immagine connesse, al di fuori dei casi consentiti.
L'estraneità dell'atto dallo schema legale tipico si pone in tal caso di intensità tale da sconfinare in 'comportamento' per l'assenza dei presupposti di fatto che consentono di ravvisare nel primo l'azione della Pubblica amministrazione
(Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009, Palascino, Rv. 243535; Id., n. 37172 del 11/06/2008, Gatto, Rv. 240932).
Fermi gli indicati principi, vero è che la questione della tempestività della delibera di giunta in ordine alla diversa organizzazione dell'apparato comunale, comunque non posta tempestivamente nel giudizio di merito, non viene trattata come capace di rivelare o escludere le ragioni vendicative che del decreto di revoca dell'incarico dirigenziale avrebbero sostenuto l'adozione.
La Corte di appello ragiona invero, conformando in tal modo il proprio giudizio a quello del giudice di primo grado, sulla illegittimità del decreto di revoca nella rilevata insussistenza al momento della sua adozione di un provvedimento organizzativo che, in quanto cronologicamente precedente, della revoca legittimasse l'adozione.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, l'esigenza di dotare la compagine amministrativa locale di una diversa organizzazione con attribuzione, ai fini di contenimento della spesa, ai componenti dell'organo esecutivo della responsabilità degli uffici e dei servizi e del potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale, ai sensi dell'art. 53, comma 23, d.lgs. n. 267 del 2000, vale a giustificare per l'art. 109 d.lgs. n. 267 del 2000, la revoca del dirigente ai servizi in precedenza nominato se ed in quanto la delibera di adozione del diverso modello preceda la revoca stessa.
Non può infatti diversamente valere la mera intenzione enunciata dal pubblico amministratore nel provvedimento di revoca del dirigente di dotarsi, in futuro, del nuovo modello organizzativo.
Il contenimento della spesa deve invero poter essere documentato ogni anno, con apposita delibera, in sede di approvazione del bilancio, evidenza espressiva, ai fini dello scrutinio dell'abuso di ufficio, della mancanza di una intenzione di malevolenza nell'adozione dell'atto di revoca che resta così giustificato dall'obiettivo fine del contenimento della spesa pubblica, verificabile per aperto confronto tra costi originari e risparmi conseguiti.
La necessità che la diversa scelta organizzativa preceda e non segua la revoca ex art. 109 d.lgs. cit. vale a sottrarre quest'ultima ad ogni apprezzamento di strumentalità rispetto al diverso fine emulativo delle posizioni del dirigente revocato ed ove rimasta inosservata integra quel rilevante distacco dall'atto tipico che dello stesso rivela la natura di comportamento illegittimo, estraneo all'azione della pubblica amministrazione.

Le evidenziate circostanze, chiare nella motivazione adottata dalla Corte di merito, restano quindi inammissibilmente contestate in ricorso per una pretesa adozione del diverso atto organizzativo in un'epoca che, seppure successiva, sarebbe comunque rimasta prossima al decreto di revoca in tal modo ancora sostenendo, si assume, la legittimità dell'atto nella sua necessitata esigenza di contenimento della spesa pubblica.
5. A fronte della richiamata ricostruzione della illegittimità dell'atto degradato in comportamento, in ogni caso l'elemento intenzionale del contestato reato resta pure in modo inefficace contrastato là dove in ricorso si deduce che la stessa persona offesa, escussa in sede dibattimentale in primo grado, avrebbe riferito di una propria intenzione di candidarsi nella lista avversaria rispetto a quella del sindaco Fi. nell'anno 2010 e quindi solo successivamente all'intervenuta revoca del novembre del 2009.
Si tratta invero di un parcellizzato richiamo, in ricorso, alle dichiarazioni rese in sede di esame testimoniale dall'offeso che non vale a sottrarre concludenza alla diversa e piena affermazione, contenuta nell'impugnata sentenza, dell'esistenza dell'estremo soggettivo del contestato reato per un più ampio quadro di prova in cui convergono univocamente anche le dichiarazioni del teste Ma., non attinte da critica, e per le quali il sindaco avrebbe rivelato l'intenzione di addivenire a revoca dell'incarico nella registrata frattura del rapporto di fiducia con l'Ab..
In ogni caso, rispetto a siffatta cornice, all'interno della quale in modo pregnante è definito l'elemento soggettivo, la pure dedotta vicinanza temporale tra revoca e diverso atto organizzativo non vale ad escludere il dolo di abuso ex art. 323 cod. pen. e lascia anche per tale profilo inefficacemente e quindi inammissibilimente proposto il ricorso.

PUBBLICO IMPIEGOLa Pa paga i danni biologici se, dopo l’incarico di posizione organizzativa, demansiona il lavoratore.
L’amministrazione non può escludere dai propri compiti di responsabilità il lavoratore che torni al suo posto dopo aver ricoperto una posizione organizzativa. E, se da questa circostanza deriva una sofferenza psicologica il datore di lavoro pubblico è tenuto a pagare il danno biologico.
Così la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 26.04.2018 n. 10138 ha respinto il ricorso proposto dall’Inps.
Il danno
L’Istituto sosteneva che dalla consulenza tecnica era emerso che il lavoratore aveva tendenza naturale -a prescindere dal lavoro- a cadere in una malattia psichica. Quindi il demansionamento non è stato l’origne del malessere, secondo l’Inps, che insisteva per affermare che il nesso di causalità tra comportamento datoriale e il danno patito dal lavoratore non era stato dimostrato.
Ma la tendenza naturale -spiega la Cassazione- non significa che la malattia si sarebbe sviluppata in assenza dell’illegittima posizione in cui si era venuto a trovare il lavoratore sul luogo di lavoro. E che ben poteva il giudice di merito, una volta accertato il comportamento dequalificante dell’Inps intravederci il nesso causale e concludere per la piena responsabilità datoriale secondo il principio dell’equivalenza delle concause.
La squalifica
La Cassazione dà totalmente torto all’Inps che sosteneva che, una volta revocato l’incarico di posizione organizzativa, il dipendente non avrebbe subito alcun demansionamento poiché nel suo ambito di lavoro era prassi che i dipendenti nello svolgere una pratica facessero tutti i compiti a essa attinenti, anche se inferiori al proprio inquadramento formale. Circostanza di fatto che, però, non esclude affatto la responsabilità per il singolo demansionamento e per la conseguente sofferenza psicologica del diretto interessato.
Chiarisce, infine la Cassazione che il dipendente in questione, formalmente inserito nell’area C con posizione C4, era investito dalla legge e dalle norme contrattuali di compiti di responsabilità e di autonomia a prendere decisioni in situazioni di emergenza. Quindi la variazione peggiorativa, secondo i giudici, era innegabile poiché il dipendente si era trovato di fatto spogliato del proprio ruolo di responsabile per essere stato posto alle dipendenze di altri dovendo rispondere ad altro responsabile, per di più appartenente a un’area di livello inferiore (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALINiente abuso d’ufficio per il sindaco che nomina il segretario a capo dei vigili urbani.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 20.04.2018 n. 17991, ha accolto il ricorso di un sindaco e del segretario di un Comune che non dovranno neppure risarcire le parti civili perché i fatti a loro addebitati non costituiscono reato.
La vicenda
Il caso è caratterizzato da un lungo contenzioso tra il sindaco e il segretario comunale da una parte, e una dipendente dall'altra.
In particolare tra una dipendente (parte civile) risultata vincitrice di un concorso bandito dal Comune per la copertura del posto di comandante della polizia municipale e assunta con quella qualifica con contratto a tempo indeterminato, e l’amministrazione si erano verificati dei dissapori a causa di indebite pressioni esercitate sulla stessa dipendente.
La cosa sfociò nel licenziamento della dipendente, licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice del lavoro che ordinò la reintegra nel posto di lavoro della donna, mai eseguita dal Comune. Il sindaco intanto aveva nominato un'altra persona a capo della polizia municipale. Per questo i giudici del merito hanno condannato sindaco e segretario generale per il reato di abuso d'ufficio; avverso la sentenza sfavorevole i due imputati sono ricorsi in Cassazione.
La decisione
La valutazione dei giudici di merito cade nell'equivoco, secondo i giudici di legittimità, in quanto considera violata una norma dell'ordinamento di polizia locale, dettata per l'istituzione e l’organizzazione dei corpi e dei servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
La Cassazione osserva come la normativa nazionale e regionale stabilivano, come riconosciuto dalla sentenza della Corte d’appello, che nel caso in esame non risulta istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la dipendente era nominata capo del settore, ma non responsabile del servizio di polizia municipale, rientrando questa nomina nelle competenze del sindaco a norma dell'articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000 e dell'articolo 8 del regolamento comunale: e infatti, il sindaco aveva nominato responsabile della polizia municipale il segretario comunale che dava esecuzione alle delibere di Giunta con la quale venivano individuati i responsabili dei servizi dell'ente.
Da questa ricostruzione discende la non necessaria coincidenza delle funzioni di comandante della polizia municipale e di responsabile del servizio, prevista solo per il comandante del Corpo di polizia municipale dall'articolo 7 della legge 65/1986, e l'erronea impostazione del ragionamento dei giudici di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2018).
---------------
MASSIMA
3. Nel merito i ricorsi sono fondati.
L'impostazione dei giudici di merito poggia su un equivoco di fondo ovvero sulla istituzione del Corpo di polizia municipale nel comune di Sperlonga, al quale si aggiungono la non corretta distinzione tra competenze del comandante di polizia municipale e responsabilità del servizio e l'interpretazione delle norme regolamentari, statutarie e regionali, come riconosciuto nelle sentenze prodotte dai difensori dei ricorrenti.
Va peraltro, evidenziato che la stessa persona offesa ha ammesso di non aver mai ottenuto la nomina di responsabile del servizio di polizia municipale, essendo le competenze affidate al segretario comunale, al quale spettava la gestione delle risorse finanziarie, limitandosi ella alla gestione delle spese ordinarie; ha anche ammesso di aver continuato ad esercitare sino al licenziamento le funzioni di comandante della polizia municipale.
Sia l'art. 7 della legge n. 65/1986 che l'art. 2, comma 2, della legge regionale n. 20/1990 stabilivano che "i comuni, che destinano almeno sette addetti al servizio di polizia locale, possono istituire il Corpo di polizia municipale" ed anche l'art. 12, comma 1, della legge regionale n. 1/2005 lo ribadisce, ma, come riconosciuto dalla sentenza della Corte di appello di Roma, Sezione lavoro, presso il comune di Sperlonga non risulta istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la d.ssa Ci. era nominata capo del settore, ma non responsabile del servizio di polizia municipale, rientrando tale nomina nelle competenze del sindaco a norma dell'art. 50, comma 10, d.lgs. 267/2000 e dell'art. 8 del regolamento comunale: ed infatti, il Cu. aveva nominato responsabile della polizia municipale il segretario comunale con il provvedimento del 30.01.2001 in atti, che dava esecuzione alle delibere di Giunta del 23.01.2001 con la quale venivano individuati i responsabili dei servizi dell'ente secondo le previsioni degli artt. 7 e 8 del regolamento degli uffici e dei servizi, approvato con delibera n. 41 del 20.02.1998.
Da tale ricostruzione
discende la non necessaria coincidenza delle funzioni di comandante della polizia municipale e di responsabile del servizio, prevista solo per il comandante del Corpo di polizia municipale dall'art. 7 l. 65/1986, e l'erronea impostazione del ragionamento dei giudici di merito.
Pur non potendosi negare che sino al momento in cui si verificarono le frizioni tra i vertici comunali e la persona offesa, alla stessa era stato consentito di esercitare attribuzioni, poi assunte dal responsabile del servizio, e che tale comportamento dell'amministrazione aveva creato nella Ci. un legittimo affidamento ed il convincimento di essere stata esautorata dei propri poteri, innescando una sequenza di provvedimenti ed un insanabile contrasto, sfociato nel licenziamento, ritenuto legittimo anche dai giudici di secondo grado, come già detto,
la linea di condotta tenuta dall'amministrazione non risulta in contrasto con il quadro normativo ricostruito in precedenza.
Analogamente deve escludersi l'illegittimità della delibera n. 76 del 03.05.2005 di adozione del nuovo regolamento comunale, che riorganizzava la struttura dell'ente con l'istituzione di aree, accorpando nell'Area III, Servizi al cittadino, il servizio di polizia municipale, e ne attribuiva la presponsabilità ad un funzionario di vertice, come riconosciuto dal Consiglio di stato nella sentenza n. 6065 del 2008, che ha sancito la legittimità dell'atto riorganizzativo degli uffici e dei servizi comunali, escludendone il contrasto con lo statuto comunale.
A fronte del giudicato amministrativo, già i giudici di primo grado avevano escluso, in linea con la sentenza del giudice amministrativo, la violazione dell'art. 30 dello statuto comunale ed anche dell'art. 110 TUEL, ma avevano ravvisato un profilo di illegittimità nell'attribuzione al capo area, in aggiunta ai poteri di direzione e vigilanza della stessa, della responsabilità del servizio di polizia locale con mansioni e compiti propri del comandante, in violazione dell'art. 12, lett. c), della legge regionale n. 1/2005, e tale valutazione ha trovato concordi i giudici di appello.
A differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, tale valutazione non integra la violazione del giudicato amministrativo, essendo stato individuato un profilo di illegittimità non valutato in tale sede e ciò è in linea con l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo il quale al giudice penale è preclusa la valutazione della legittimità dei provvedimenti amministrativi che costituiscono il presupposto dell'illecito penale qualora sul tema sia intervenuta una sentenza irrevocabile del giudice amministrativo, ma tale preclusione non si estende ai profili di illegittimità, fatti valere in sede penale, che non siano stati dedotti ed effettivamente decisi in quella amministrativa (Sez. 3, n. 44077 del 18/07/2014, Scotto Di Clemente, Rv. 260612).
Tuttavia, la valutazione dei giudici di merito ricade nell'equivoco indicato in precedenza, in quanto considera violata una norma dell'ordinamento di polizia locale, dettato per l'istituzione ed organizzazione dei corpi e dei servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
Il tema è diffusamente trattato nelle sentenze di primo e di secondo grado emesse dai giudici del lavoro, ai quali la persona offesa aveva chiesto di dichiarare l'illegittimità della dequalificazione e del demansionamento subiti con riassegnazione delle funzioni di comandante della polizia municipale. Muovendo dalla legittimità del regolamento, riconosciuta dal giudice amministrativo, e dall'inequivoco tenore dell'art. 42 del regolamento, che attribuisce al capo dell'area III, Servizi al cittadino, la responsabilità del servizio di polizia locale e ne individua in modo specifico le attribuzioni, tra le quali rientrano l'emanazione degli ordini di servizio e la gestione del personale mediante assegnazione alle unità operative secondo le specifiche necessità, i giudici hanno ritenuto infondata la domanda della Ci. di riassegnazione alle mansioni di responsabile del servizio di polizia municipale, ribadendo la distinzione tra le funzioni di responsabile del servizio e di comandante della polizia locale, funzioni queste che l'istante aveva continuato ad esercitare.
Alla luce della ricostruzione che precede e delle sentenze emesse dal giudice amministrativo e dai giudici dei lavoro, che la confermano,
devono ritenersi insussistenti gli elementi costitutivi degli abusi di ufficio contestati, fondati su un'erronea interpretazione delle norme e della situazione di fatto esaminata.
Ne consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché i fatti reato ascritti ai ricorrenti non sussistono e la revoca delle statuizioni civili adottate a carico degli stessi.

APPALTIIllegittima la commissione di gara costituita senza specificare i criteri di nomina.
La sentenza 19.04.2018 n. 431 del TAR Veneto, Sez. I,  fornisce alle stazioni appaltanti importanti indicazioni sulla corretta costituzione delle commissioni di gara nel periodo transitorio ovvero prima della costituzione dell'albo dei commissari (articolo 78 del nuovo codice dei contratti).
In particolare, il giudice si sofferma sulla pretesa necessità che la commissione sia composta da commissari esterni, sulla predeterminazione dei criteri di nomina e, infine, sulla presidenza dell'organo collegiale.
I criteri per la nomina dei commissari
La prima censura mossa dall'appaltatore ha riguardato la presunta violazione dell'articolo 77, commi 1 e 3, del Dlgs 50/2016, alla «luce del quale i membri delle commissioni devono essere scelti tra soggetti esperti nella materia oggetto di gara, non appartenenti alla stazione appaltante».
Questa prima doglianza viene respinta dal giudice il quale ritiene che -nelle more dell'approvazione dell'Albo nazionale obbligatorio dei membri delle commissioni giudicatrici- non trovi applicazione la disciplina dell’articolo 77, ma operi invece il regime transitorio prevista dall’articolo 216, comma 12. Per questo, la commissione di gara deve essere nominata dal soggetto competente a effettuare la scelta dell'affidatario secondo regole di competenza e trasparenza individuate da ciascuna stazione appaltante.
Il secondo aspetto di censura è che la stazione appaltante avrebbe proceduto con la nomina dei commissari «senza alcuna forma di predeterminazione dei criteri di trasparenza e competenza». In questo caso, il rilievo viene condiviso dal giudice che riscontra che una puntuale individuazione dei criteri di competenza e trasparenza adottati nella scelta dei commissari non è riscontrabile nemmeno nel corpo dello stesso provvedimento di nomina.
La determinazione di nomina, infatti, non riportava alcuna autonoma e specifica motivazione in ordine alle ragioni di scelta dei membri della commissione, ma si limita a indicare i nominativi dei soggetti individuati.
Di per sé, prosegue la sentenza, la mera allegazione dei curricula dei commissari al provvedimento non costituisce «valida e sufficiente modalità di predeterminazione dei concreti criteri di trasparenza e competenza per la nomina dei commissari, o sostituire integralmente la motivazione delle scelte operate dalla stazione appaltante, la cui ragion d’essere deve essere comunque resa palese».
La presidenza della commissione
Dirimente è anche il terzo motivo sollevato dal ricorrente focalizzato sul fatto che la commissione non risultava presieduta da un dirigente. Secondo il giudice, nel periodo di regime transitorio, fino cioè alla approvazione dell’albo nazionale dei membri delle commissioni giudicatrici secondo l’articolo 78 del Dlgs 50/2016, deve trovare applicazione -in mancanza di una specifica regolamentazione interna- la disciplina dettata dall’articolo 84 del Dlgs 163/2006. Non solo, anche in questo caso nel provvedimento di nomina la stazione appaltante ha omesso l'indicazione di ragioni oggettive in grado di giustificare la mancata nomina di un dirigente quale presidente della commissione.
La nomina di un dirigente nel ruolo di presidente della commissione di gara, secondo il giudice, costituisce diretta espressione del criterio di competenza sul quale fondare la nomina delle commissioni giudicatrici, criterio sancito espressamente dalle norme vigenti e comunque ricavabile dagli stessi principi generali di sistema, in quanto «regola volta a garantire il più adeguato svolgimento delle operazioni di valutazione delle offerte».
Effettivamente, il tratto distintivo tra l'attuale sistema transitorio di gestione delle commissioni di gara e quello fondato sull'albo dei commissari è costituito dalla circostanza che l'organo valutatore dovrà essere presieduto necessariamente da un soggetto esterno alla stazione appaltante che potrebbe essere anche un funzionario (esperto iscritto all'albo) non dirigente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.04.2018).
---------------
MASSIMA
1. In via del tutto preliminare, si deve dare atto della sussistenza dell’interesse ad agire della ricorrente, posto che -per orientamento giurisprudenziale consolidato-
i soggetti che hanno partecipato legittimamente ad una gara, oltre a far valere l’interesse finale all’aggiudicazione dell’appalto, ben possono far valere un interesse strumentale alla riedizione della procedura di gara nell’ambito della quale abbiano una ragionevole possibilità di ottenere l’utilità richiesta (Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 20.11.2015, n. 5296; Id. sez. IV, 20.04.2016, n. 1560).
Nel caso di specie, l’eventuale illegittimità della nomina della commissione giudicatrice, la mancata predeterminazione di sub-criteri di valutazione analitici ovvero la carente motivazione delle valutazioni svolte con riferimento all’offerta tecnica si ripercuoterebbero sulla legittimità della procedura di gara nel suo complesso, rendendo dunque concreto ed attuale l’interesse della ricorrente alla verifica dei sopra descritti profili di censura.
1.1. Sempre in via preliminare, inoltre, si rileva che non può costituire oggetto di esame -né assumere alcun rilievo ai fini della decisione- la presunta carenza di requisiti da parte della ricorrente per lo svolgimento di corsi di formazione che costituivano oggetto dell’appalto, denunciata dalla controinteressata Sqs, posto che tale rilievo è stato prospettato in modo del tutto irrituale nella memoria depositata in vista dell’udienza del 21.03.2018; si rivela peraltro del tutto superflua ogni più approfondita considerazione, in questa sede, circa la necessità di far valere tale doglianza tramite ricorso incidentale ovvero tramite ricorso proposto ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, D.lgs. 50/2016.
2. Nel merito il ricorso è fondato, con riferimento ad entrambi i motivi prospettati dalla ricorrente in via principale.
2.1. Con il primo motivo la ricorrente contesta l’illegittima composizione della commissione di gara, sotto i distinti profili che di seguito si prendono in esame.
   - Con riferimento al primo profilo di censura dedotto, fondato sulla presunta violazione dell’art. 77, commi 1 e 3, del D.lgs. 50/2016, alla luce del quale i membri delle commissioni devono essere scelti tra soggetti esperti nella materia oggetto di gara, non appartenenti alla stazione appaltante, il motivo non merita accoglimento.
A dire della ricorrente la norma citata dovrebbe trovare applicazione per tutte le procedure di gara indette sotto la vigenza del nuovo codice appalti, a prescindere dalla attuale inoperatività dell’istituendo Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici, di cui al successivo art. 78.
Al contrario,
deve ritenersi che -nelle more dell’approvazione dell’Albo nazionale obbligatorio dei membri delle commissioni giudicatrici di cui all’art. 78 del D.lgs. 50/2016- non trovi applicazione la disciplina di cui all’art. 77, ma operi invece il regime transitorio di cui all’art. 216, comma 12, a mente del quale “Fino alla adozione della disciplina in materia di iscrizione all’Albo di cui all’art. 78, la commissione giudicatrice continua ad essere nominata dall’organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza individuate da ciascuna stazione appaltante”.
Ad oggi, pertanto, non può dirsi ancora operante un obbligo per le stazioni appaltanti di individuare i membri delle commissioni giudicatrici tra soggetti esperti esterni alla stessa
(cfr., ex plurimis, TAR Veneto, sez. III, 15.01.2018, n. 40; TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 04.10.2017, n. 10034).
   - Con riferimento al secondo profilo di censura, con il quale il ricorrente contesta la violazione della norma contenuta nel succitato art. 216, comma 12, del D.lgs. 50/2016, invece, la censura merita accoglimento, poiché la nomina della commissione da parte di Sistemi Territoriali risulta essere avvenuta senza alcuna forma di predeterminazione dei criteri di trasparenza e competenza da parte della stazione appaltante.
Segnatamente, si deve in primo luogo escludere che -avendo la procedura di gara in esame un importo a base d’asta superiore alla soglia di rilevanza comunitaria- l’individuazione di tali criteri possa rinvenirsi nel regolamento richiamato da Si.Te., dal momento che lo stesso risulta essere stato adottato in attuazione dell’art. 36, comma 8, del D.lgs. 50/2016 e si riferisce, pertanto, esclusivamente alle procedure di gara sotto soglia.
In secondo luogo, anche laddove -in astratta ipotesi- si ritenesse di poter applicare il richiamato regolamento, la norma in esso contenuta, specificatamente volta a regolare la composizione delle commissioni di gara, in realtà nulla dice in ordine ai criteri di competenza e trasparenza che devono improntare l’azione amministrativa nella scelta dei commissari, ma ha un contenuto del tutto generico e pertanto irrilevante ai fini che qui interessano.
In terzo luogo, tale regolamento non è affatto richiamato -nemmeno in via analogica- nel provvedimento con il quale sono stati nominati i commissari e non può pertanto costituirne un presupposto.
In quarto luogo, una puntuale individuazione dei criteri di competenza e trasparenza adottati nella scelta dei commissari non è riscontrabile nemmeno nel corpo dello stesso provvedimento di nomina, poiché esso non contiene alcuna autonoma e specifica motivazione in ordine alle ragioni di scelta dei membri della commissione, ma si limita a indicare i nominativi dei soggetti individuati. Si deve escludere, peraltro, che la mera allegazione dei curricula di tali soggetti al provvedimento possa costituire di per sé valida e sufficiente modalità di predeterminazione dei concreti criteri di trasparenza e competenza per la nomina dei commissari, o sostituire integralmente la motivazione delle scelte operate dalla stazione appaltante, la cui ragion d’essere deve essere comunque resa palese.
In conclusione, con riferimento al secondo profilo di censura sollevato,
il provvedimento di nomina della commissione risulta illegittimo, in quanto adottato in assenza di qualsiasi predeterminazione dei criteri di trasparenza e competenza e del tutto privo di un proprio specifico contenuto motivazionale.
   - Risulta fondato anche il terzo profilo di censura sollevato dalla ricorrente con riferimento alla commissione giudicatrice, con il quale si lamenta la mancata nomina di un dirigente come presidente.
Infatti,
nel periodo di regime transitorio, fino cioè alla approvazione dell’albo nazionale dei membri delle commissioni giudicatrici di cui all’art. 78 del D.lgs. 50/2016, deve trovare applicazione -in mancanza di una specifica regolamentazione interna- la disciplina dettata dall’art. 84 del D.lgs. 163/2006. L’applicabilità del regime previgente in materia di nomina e composizione delle commissioni giudicatrici è del resto confermato proprio dal tenore letterale del già citato art. 216, comma 12, del D.lgs. 50/2016, secondo il quale “… la commissione giudicatrice continua ad essere nominata dall’organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto … (cfr., ex plurimis, TAR Veneto, sez. III, 15/01/2018, n. 40, TAR Liguria, sez. II, 21.12.2017, n. 970; TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 04.10.2017, n. 10034).
Come sopra dimostrato, nel caso di specie non può del resto trovare applicazione -come vorrebbe parte resistente- la generica disciplina contenuta nel già citato regolamento, adottato dalla stazione appaltante per gli appalti sotto soglia; deve al contrario ritenersi operante proprio il regime di cui all’art. 84 del D.lgs. 163/2006.
Il comma 3 dell’art. 84, segnatamente, prevede che “La commissione è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato di funzioni apicali”.
Con riferimento al caso di specie, invece, costituisce circostanza incontestata che il presidente della commissione non possiede la qualifica di dirigente; né Si.Te. ha mai contestato la presenza nel proprio organico di figure dirigenziali preposte ai settori interessati dalla procedura di gara.
Non sono quindi nemmeno state addotte dalla resistente particolari ragioni oggettive che giustifichino la mancata nomina di un dirigente quale presidente della commissione.
A ciò si aggiunga che la nomina di un dirigente nel ruolo di presidente della commissione di gara costituisce diretta espressione del più volte richiamato criterio di competenza sul quale fondare la nomina delle commissioni giudicatrici, criterio sancito espressamente dalle norme vigenti e comunque ricavabile dagli stessi principi generali di sistema, in quanto regola volta a garantire il più adeguato svolgimento delle operazioni di valutazione delle offerte.

TRIBUTIPubblicità, arredi valutati unitariamente.
Gli elementi di arredo degli esercizi commerciali soggetti all'imposta comunale sulla pubblicità possono essere considerati mezzi di una promozione veicolata unitariamente: quello che rileva è il collegamento strumentale inscindibile fra i vari elementi e l'unicità del contenuto.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione -Sez. V civile- con l'ordinanza 18.04.2018 n. 9492, esaminando il ricorso presentato da un esercente contro il metodo di calcolo del tributo su sedie, ombrelloni, tavolini e cestini, riportanti una scritta pubblicitaria.
Secondo la Suprema Corte, che ha confermato la pronuncia dei giudici di secondo grado, la superficie imponibile va determinata con una diversa valutazione «logico-spaziale» del complesso degli arredamenti.
La società ricorrente aveva impugnato l'atto impositivo emesso dal comune, ritenendo che l'ente avesse illegittimamente applicato la previsione dell'art. 7, dlgs n. 507 del 1993, che, al primo comma, prevede «l'imposta sulla pubblicità si determina in base alla superficie della minima figura piana geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario indipendentemente dal numero dei messaggi in esso contenuti», mentre al secondo comma stabilisce che «le superfici inferiori ad un metro quadrato si arrotondano per eccesso al metro quadrato e le frazioni di esso, oltre il primo, a mezzo metro quadrato; non si fa luogo ad applicazione d'imposta per superfici inferiori a trecento centimetri quadrati
Secondo il concessionario della pubblicità tutte le sedie, ombrelloni, tavolini e cestini erano dotati di un'autonoma funzionalità, stante anche la loro amovibilità, e ciascun elemento era idoneo a divulgare un messaggio pubblicitario; non ricorreva, a suo giudizio, la diversa ipotesi di cui all'art. 5, comma 7, dlgs n. 507 del 1993, secondo cui «i festoni di bandierine e simili nonché i mezzi di identico contenuto, ovvero riferibili al medesimo soggetto passivo, collocati in connessione tra loro si considerano, agli effetti del calcolo della superficie imponibile, come un unico mezzo pubblicitario».
La Corte di cassazione, invece, ha condiviso l'operato dei giudici di secondo grado che avevano considerato ciascun «gruppo di quattro sedie ed un ombrellone» come «entità autonoma», ai fini impositivi, «in quanto tutti gli ombrelloni del posto di ristoro recavano la stessa indicazione pubblicitaria».
Gli Ermellini hanno ritenuto legittimo considerare l'insieme del messaggio pubblicitario di ciascun blocco e su quest'ultima complessiva superficie calcolare le esenzioni e le imposte.
L'ordinanza è in linea con il principio, già affermato dalla Corte di cassazione, per cui, «in tema di imposta sulla pubblicità, l'art. 7, comma 5, del dlgs n. 507 del 1993, che riproduce sostanzialmente il contenuto dell'ultimo comma dell'art. 17 del dpr n. 639 del 1972, considera come un unico mezzo pubblicitario, agli effetti del calcolo della superficie imponibile, una pluralità di messaggi che presentino un collegamento strumentale inscindibile fra loro ed abbiano identico contenuto, anche se non siano tutti collocati in un unico spazio o in un'unica sequenza» (Cass. n. 23567/2009, n. 16315/2013, n. 22322/2014)
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

APPALTI: Selezione delle tipologie di prodotti da valutare dopo l’apertura delle offerte tecniche.
Il limite dell’apertura delle offerte assume nelle gare pubbliche una latitudine molto ampia, preclusiva della fissazione di inediti criteri di giudizio ovvero di modalità di valutazione delle offerte che non siano mera esplicitazione di regole procedurali già fissate: l’ampia portata del divieto è volta ad intercettare l’altrettanto esteso rischio che la regolarità del procedimento valutativo e l'oggettiva imparzialità del risultato possano essere compromessi dalla sola possibilità di conoscenza delle offerte e dalla conformazione delle modalità di valutazione ai caratteri specifici delle offerte conosciute.
La ratio della cesura temporale coincidente con l’apertura delle buste contenente le offerte tecniche è dunque quella di evitare che l’acquisita conoscenza delle offerte possa costituire elemento potenzialmente deviante dei giudizi e dell’operato della Commissione, consentendole di plasmare criteri o parametri specificativi adattandoli ai caratteri peculiari delle offerte, conosciute o conoscibili, sì da sortire un effetto potenzialmente premiante nei confronti di una o più imprese.
Una alterazione di tale tipo non può escludersi che possa realizzarsi anche attraverso una capziosa selezione delle tipologie di prodotti da valutare, poiché anche in tal caso viene in gioco una “modalità” di valutazione, ovvero una scelta che implica il restringimento o la focalizzazione del giudizio su un più selezionato ambito di elementi in gara
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
2. Anche il terzo motivo è meritevole di accoglimento.
2.1. Si tratta di censura chiaramente determinata nei suoi elementi costitutivi e ricalcata su affermazioni di principio già vagliate dalla giurisprudenza (Ad, Plen. 13/2011). Va quindi respinta l’eccezione di inammissibilità per genericità della doglianza sollevata dalla parte controinteressata con memoria del 19.3.2018.
2.2. Nel merito, dalla lettura dei verbali di gara si evince che la Commissione: nella seduta pubblica del 05.07.2015 (di cui al verbale n. 1) ha aperto la busta B (documentazione tecnica) per effettuarne un “esame volto alla elencazione della documentazione tecnica depositata” e per “constatarne la regolarità”; nella successiva seduta riservata del medesimo 5 luglio, ha convenuto sulla opportunità di valutare (sottoponendoli al “protocollo prove”) solo i prodotti corrispondenti ai nn. 3, 8, 16, 18, 19, 24, 25, 28, 29, 32, 33, 50, 51, 63, 64 e 68; infine, nella “seduta riservata” del 10.07.2017, ha deciso di “consultare le schede tecniche dei prodotti (…)”.
2.3. Da tale modus agendi, l’appellante desume la consumata violazione dei principi generali di imparzialità e trasparenza, sotto lo specifico profilo per cui la fissazione dei criteri selettivi e delle modalità di valutazione delle offerte deve sempre precedere l’apertura delle buste contenenti le offerte medesime, ovvero deve essere effettuata in una fase anteriore alla conoscenza dei contenuti tecnici di dette offerte.
2.4. La doglianza è fondata.
È pacifico, innanzitutto, che la scelta dei prodotti da valutare sia stata orientata dal duplice criterio della taglia e del livello di assorbenza: i numeri di prodotti selezionati come valutabili riflettono queste due caratteristiche.
2.5. Per vagliare la legittimità di tale operazione occorre ricordare che
il limite dell’apertura delle offerte assume nelle gare pubbliche una latitudine molto ampia, preclusiva della fissazione di inediti criteri di giudizio ovvero di modalità di valutazione delle offerte che non siano mera esplicitazione di regole procedurali già fissate: l’ampia portata del divieto è volta ad intercettare l’altrettanto esteso rischio che la regolarità del procedimento valutativo e l'oggettiva imparzialità del risultato possano essere compromessi dalla sola possibilità di conoscenza delle offerte e dalla conformazione delle modalità di valutazione ai caratteri specifici delle offerte conosciute (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 20.04.2012, n. 2343).
2.6.
La ratio della cesura temporale coincidente con l’apertura delle buste contenente le offerte tecniche è dunque quella di evitare che l’acquisita conoscenza delle offerte possa costituire elemento potenzialmente deviante dei giudizi e dell’operato della Commissione, consentendole di plasmare criteri o parametri specificativi adattandoli ai caratteri peculiari delle offerte, conosciute o conoscibili, sì da sortire un effetto potenzialmente premiante nei confronti di una o più imprese.
Una alterazione di tale tipo non può escludersi che possa realizzarsi anche attraverso una capziosa selezione delle tipologie di prodotti da valutare, poiché anche in tal caso viene in gioco una “modalità” di valutazione, ovvero una scelta che implica il restringimento o la focalizzazione del giudizio su un più selezionato ambito di elementi in gara.
2.7. Nel caso di specie, le risultanze di causa non consentono di accertare se la differenza di taglia e di livello di assorbenza possa avere privilegiato una offerta sulle altre, così da incidere sugli esiti del confronto tra prodotti: trattasi, in ogni caso, di questione irrilevante, posto che l’obiettivo del divieto in questione è proprio quello di evitare il solo potenziale e astratto pericolo di inquinamento del corretto incedere del procedimento valutativo; e questo potenziale pericolo nel caso de quo non è fugato da evidenze chiare e inequivoche circa l’effettiva invarianza delle caratteristiche tecnico-qualitative dei prodotti al variare delle taglie sottoposte a giudizio.
2.8. Non convince neppure l'ulteriore eccezione della difesa delle resistenti, volta a porre in evidenza che la valutazione delle offerte tecniche è intervenuta solo nella seduta del 10.07.2017 e che nella precedente seduta del 5 luglio la Commissione si era limitata ad accertare l’elenco della documentazione tecnica allegata dai singoli concorrenti, sicché, essendo rimasta inviolata la segretezza del contenuto delle offerte, non si potrebbe giustificare alcun sospetto sulla imparzialità dei successivi giudizi valutativi.
In dissenso da tale considerazione occorre innanzitutto osservare che, per quanto risulta dai verbali di gara, la commissione, una volta aperte le buste, ne ha compiuto un “esame”, sia pure volto alla elencazione dei documenti allegati, di cui comunque è stata presa una sommaria visione. Dunque, la traccia testuale dei documenti di gara depone a favore di una prematura acquisizione di conoscenza da parte della Commissione del contenuto delle offerte tecniche.
In ogni caso, è dirimente osservare che
l'attentato ai principi di imparzialità e trasparenza si verifica già con l'apertura delle buste, ossia con la mera possibilità di conoscenza delle offerte tecniche da parte della commissione, essendo ininfluente che quest'ultima ne abbia avuto effettiva contezza. Difatti, sulla base della già esaminata logica di preventiva anticipazione del rischio di alterazione dell’esito della gara, il mancato adempimento procedurale della preventiva fissazione delle modalità di valutazione dell'offerta è in sé idoneo ad inficiare tutti gli atti della procedura selettiva a prescindere dall'effettiva lesione patita dai concorrenti, trattandosi di regola posta a tutela di beni (la parità di trattamento tra operatori economici, ma anche l'interesse pubblico alla trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa) la cui lesione è difficilmente apprezzabile ex post a seguito dell'apertura delle buste (cfr. in tal senso Cons. Stato, Ad. Plen., 28.07.2011, n. 13).
3. Conclusivamente, risultano fondati il primo e il terzo motivo di appello.
Ne consegue che, assorbite le ulteriori censure, in riforma della sentenza impugnata, va disposto l’accoglimento del ricorso di primo grado, con il conseguente annullamento degli atti impugnati, la caducazione integrale della procedura di gara e la dichiarazione di inefficacia dell’accordo quadro nelle more stipulato con la parte aggiudicataria, sia pure limitatamente alle prestazioni ancora da eseguire.
4. L’istanza risarcitoria avanzata dalla parte appellante non può invece essere accolta, sia perché mancante della dimostrazione dell’asserito danno da ritardo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2017, n. 5197);
sia perché la caducazione degli atti di gara e la riedizione della procedura selettiva appaiono misure acconce a garantire piena soddisfazione all’interesse pretensivo dedotto in giudizio (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.04.2018 n. 2258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, il TAR apre al soccorso istruttorio oltre i termini se il problema è solo formale.
È di sicuro rilievo la sentenza 12.04.2018 n. 752 del TAR Sicilia-Catania, Sez. I,  in tema di integrazione della documentazione di gara –relativamente alla cauzione provvisoria– avvenuta oltre il termine concesso dalla stazione appaltante.
Pronuncia che si pone in senso opposto rispetto all'orientamento che ritiene il termine del soccorso istruttorio integrativo perentorio a pena di esclusione se la richiesta non viene effettuata tempestivamente.
Il caso
Il caso sottoposto al giudice siciliano riguarda l'errata prestazione della garanzia provvisoria che, invece di essere distinta/ripartita per i 5 lotti messi in gara, veniva rilasciata cumulativamente. L'integrazione da parte dell'appaltatore interessato –sollecitato attraverso il soccorso istruttorio integrativo– era avvenuta oltre i 10 giorni concessi dalla stazione appaltante. Per questo fatto il ricorrente ne ha chiesto l'estromissione e ha impugnava gli atti di gara innanzi al giudice.
La decisione
La questione posta dal ricorrente impone alla sezione un confronto con il proprio recente precedente in cui lo stesso giudice siciliano (della sezione IV, con la sentenza n. 382/2018 sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 27 febbraio) –secondo anche l'orientamento consolidato– ha affermato la perentorietà del termine assegnato per integrare le carenze documentali dell'appaltatore.
Secondo questo precedente, una volta che il responsabile unico abbia assegnato un termine per adempiere –rafforzandolo con il riferimento all’esclusione– non è più consentita una ulteriore dilazione in quanto, così facendo, verrebbe violato il principio della par condicio tra i competitori.
Il giudice non ha disconosciuto, evidentemente, il precedente ma ha evidenziato una sostanziale differenza tra il caso specifico –in cui si trattava di integrare i documenti con la produzione di una certificazione in ordine ai servizi prestati e dichiarati nella documentazione amministrativa della gara, ai fini della prova della capacità economico/finanziaria– e l'ipotesi attuale in cui il requisito di gara (la produzione delle cauzioni provvisorie) risultava ampiamente soddisfatto sia pure in modo non corretto. Infatti, l'importo delle cauzioni invece che ripartito in relazione a ciascun lotto era stato disposto cumulativamente.
In sostanza la stazione appaltante risultava ampiamente garantita e, non solo, la stessa carenza –si legge nella sentenza– è riferita da un elemento (la cauzione provvisoria) che «non può comunque di per sé determinare l'esclusione dalla gara». In questo senso la giurisprudenza ha affermato che «la cauzione provvisoria non assume la configurazione di un requisito di ammissione alla gara, che deve essere già posseduto entro il termine di presentazione delle offerte, ma costituisce una garanzia di serietà dell'offerta e di liquidazione preventiva e forfettaria del danno, in caso di mancata sottoscrizione del contratto di appalto imputabile al concorrente a titolo di dolo o colpa e/o di esclusione dalla gara per l'assenza dei requisiti di ammissione alla gara». Di estromissione si sarebbe potuto legittimamente parlare nel caso in cui la carenza avesse riguardato la cauzione definitiva.
Quindi, se pur è vero che l'aggiudicataria ha integrato oltre il termine concesso, si era in presenza di una carenza irrisoria in quanto meramente formale visto che, anche cumulativamente, la cauzione risultava prestata per i vari lotti dell'appalto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.05.2018).
---------------
MASSIMA
La questione posta all’esame del Collegio concerne la perentorietà del termine per il soccorso istruttorio e l’essenzialità della cauzione provvisoria.
Il Collegio non ignora che questo stesso Tribunale, di recente (cfr. TAR Catania, IV, 16.02.2018, n. 382), si è espresso per la perentorietà del termine di soccorso istruttorio.
La detta decisione, però, riguardava la diversa questione relativa alla richiesta di certificazione in ordine ai servizi prestati e dichiarati nella documentazione amministrativa della gara, ai fini della prova della capacità economico-finanziaria.
La parte interessata, per altro, in quel caso non aveva esitato la richiesta nei termini prescritti, sicché il seggio di gara, illegittimamente, secondo la predetta decisione, aveva concesso un ulteriore termine.
Nel caso di specie, viene in rilievo un adempimento che, per quanto sarà subito chiarito, non può comunque di per sé determinare l’esclusione dalla gara.
Invero, il motivo di estromissione di parte ricorrente consiste nella mancata indicazione, in conformità al dictum previsto nel disciplinare di gara, nella cauzione provvisoria dei singoli importi previsti per la garanzia relativa ai singoli 5 lotti alla cui assegnazione la ricorrente ha inteso partecipare, mentre risulta ivi inserito il corretto ammontare complessivo (quale somma degli stessi).
In ogni caso, la parte ricorrente si è tempestivamente attivata per esitare quanto richiesto con soccorso istruttorio attivato dal seggio di gara, incaricando il garante a regolarizzare la cauzione provvisoria nel senso sopra indicato.
Ed invero, la dichiarazione resa dal garante pur risultata errata, è stata regolarizzata, conformemente a quanto richiesto in sede di soccorso istruttorio, successivamente ai dieci giorni prescritti.
Ciò posto, va premesso (cfr. TAR Basilicata, I, 27.07.2017, n. 531) che
sia <<il previgente combinato disposto di cui agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.Lg.vo n. 163/2006, sia il vigente art. 83, comma 9, D.Lg.vo n. 50/2016 non contemplano la suddetta condizione della già avvenuta costituzione della cauzione provvisoria alla data di presentazione dell’offerta e la Giurisprudenza (cfr. Sentenza TAR Lazio Sez. III-ter n. 8143 del 10.06.2015, confermata dalla Sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 1377 del 06.04.2016) ha statuito che ... la cauzione provvisoria non assume la configurazione di un requisito di ammissione alla gara, che deve essere già posseduto entro il termine di presentazione delle offerte, ma costituisce una garanzia di serietà dell’offerta e di liquidazione preventiva e forfettaria del danno, in caso di mancata sottoscrizione del contratto di appalto imputabile al concorrente a titolo di dolo o colpa e/o di esclusione dalla gara per l’assenza dei requisiti di ammissione alla gara>>.
Del resto,
così come la previgente disciplina, l’art. 93 del codice degli appalti, mentre nulla dice in ordine alla garanzia provvisoria, al comma 8 espressamente stabilisce che <<l'offerta è altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore, anche diverso da quello che ha rilasciato la garanzia provvisoria, a rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui agli articoli 103 e 104, qualora l'offerente risultasse affidatario. Il presente comma non si applica alle microimprese, piccole e medie imprese e ai raggruppamenti temporanei o consorzi ordinari costituiti esclusivamente da microimprese, piccole e medie imprese>>.
Deriva già in linea di principio l’assoluta integrabilità dell’omissione denunziata dal seggio di gara, in quanto non relativa alla garanzia per l’esecuzione del contratto, la cui mancanza soltanto determina l'esclusione automatica.
Ciò posto,
vero è che il comma 9 dell’art. 83 del codice degli appalti sancisce la perentorietà del termine per il soccorso istruttorio, per cui è condivisibile che l’introduzione di una deroga, mediante previsione di un termine ulteriore, importi la violazione del principio della par condicio, essendosi consentito ad alcuni dei concorrenti di integrare la produzione di atti o documenti dopo la scadenza dei termini fissati (Cons. Stato, sez. V, 21.11.2017 n. 5382).
Nel caso di specie, però, non può dirsi che, a monte, non sussista la necessaria garanzia, posto che la cauzione prestata, pur non suddivisa per i singoli lotti così come richiesto dal disciplinare di gara, comunque è stata prestata per l’intero, sicché l’Amministrazione, comunque, è certamente garantita nel caso di mancata stipula di tutti i lotti.
In altri termini, la carenza da sanare appare per lo più meramente formale, essendo comunque salva la garanzia dell’Amministrazione, sicché la precisazione prevista e richiesta, più che un carattere integrativo della documentazione (comunque non prevista a pena di esclusione) assume un carattere confermativo di una produzione documentale già esistente.
La circostanza, unita alla pronta risposta della parte interessata, consente un ulteriore termine per il soccorso istruttorio, in quanto non integrativo, ma meramente confermativo di una circostanza deducibile dal documento già presente.

Consegue l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della impugnata esclusione della ricorrente.

PUBBLICO IMPIEGOLicenziamento disciplinare legittimo anche se la condanna penale non è definitiva.
Nulla osta al licenziamento disciplinare del dipendente pubblico in relazione agli stessi fatti per i quali sia intervenuta condanna penale non ancora passata in giudicato.

A stabilirlo la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 05.04.2018 n. 8410.
Il caso
Il contenzioso riguardava un impiegato dell'ispettorato del lavoro destituito dal servizio per una vicenda per cui con sentenza emessa in primo grado con il rito abbreviato, era stato riconosciuto colpevole di concussione continuata, poiché abusando dei propri poteri e della qualifica rivestita, si era fatto consegnare somme di denaro dai gestori di due esercizi commerciali prospettando loro la possibilità di evitare i controlli sulla posizione lavorativa del personale dipendente.
I giudici hanno respinto il ricorso dell'interessato che aveva chiesto la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale visto che la sentenza di condanna per concussione non era ancora passata in giudicato al momento dell'adozione del provvedimento espulsivo da parte dell'Amministrazione.
Procedimento disciplinare e procedimento penale
Il legislatore, per effetto dell'articolo 55-ter del Dlgs 165/2001 introdotto dall'articolo 69 del Dlgs 150/2009, ha modificato i rapporti tra procedimento disciplinare e penale nel pubblico impiego privatizzato, stabilendo che il procedimento disciplinare che riguarda fatti in relazione ai quali procede l'Autorità giudiziaria è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale.
Questa norma di rango primario prevale su eventuali diverse previsioni della contrattazione collettiva: lo si ricava inequivocabilmente dall’articolo 55, comma 1, dello stesso Dlgs 165/2001 dove statuisce che le disposizioni normative in tema di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti «costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile», come tali prevalenti sulla disciplina di fonte pattizia.
Ciò sta a significare che la Pa –salvi i casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente o quando all'esito del procedimento non disponga di elementi sufficienti per irrogare la sanzione disciplinare, i soli casi nei quali può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale– deve procedere e completare il procedimento disciplinare, allo scopo di pervenire in tempi rapidi a stabilire se permangano le basi del rapporto fiduciario con il dipendente e a sanzionare, anche con l'espulsione, quello risultato infedele.
In questo schema, il meccanismo finalizzato ad evitare «conflitti di giudicato» con il più garantito processo penale risulta rovesciato rispetto al passato (quando era ancora applicabile l'articolo 117 del Dpr 3/1957 che stabiliva l'opposto principio del divieto di avvio di un procedimento disciplinare in pendenza di quello penale): il procedimento disciplinare procede di regola autonomamente, senza sospensione, ma se il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce l'insussistenza del fatto, la non commissione da parte del dipendente o la liceità del fatto stesso, il procedimento disciplinare si riapre, su istanza dell'interessato, e l'atto conclusivo viene conformato all'esito del processo penale; specularmente accade in caso di archiviazione del procedimento disciplinare e di conclusione del processo penale con sentenza irrevocabile di condanna: questa volta è la stessa Pa a riaprire il procedimento penale per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del processo penale.
In questo assetto, è dunque pienamente legittimo che la Pa, di norma tenuta a instaurare e proseguire il procedimento disciplinare parallelamente al procedimento penale, possa anche far propri gli esiti, ancorché interlocutori, del processo penale, ivi comprese, come in questo caso, sentenze non definitive fondate per giunta su acquisizioni probatorie non sottoposte al vaglio critico del dibattimento (in quanto emesse in esito a giudizio abbreviato, peraltro liberamente scelto dall'interessato), potendo la parte pur sempre contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale.
La novità della riforma Madia
A conferma indiretta di questa possibilità vi è anche la recentissima modifica apportata all’articolo 55-ter del Dlgs 165/2001 con uno dei decreti della riforma Madia per cui adesso si prevede espressamente che il procedimento disciplinare che sia stato invece sospeso in pendenza di vicenda giudiziaria per mancanza di elementi sufficienti per irrogare la sanzione disciplinare possa essere riattivato dalla Pa senza attendere la conclusione del processo penale, sulla scorta anche di un provvedimento giurisdizionale non definitivo, qualora essa entri in possesso di elementi sufficienti per terminare il procedimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2018).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso è infondato.
4. Il primo motivo sostanzialmente verte su un presunto obbligo della Pubblica Amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare in attesa dell'esito definitivo di quello penale. Tale tesi non trova alcun riscontro nella disciplina che regola la fattispecie in esame.
Il procedimento disciplinare, avviato il 10.03.2011, è regolato dall'art. 55-ter D.Lgs., introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009 (c.d. riforma Brunetta); tale è la norma applicabile, che -com'è noto- ha inciso sul sistema delle fonti che regolano il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, operando la riaffermazione del primato della fonte legislativa rispetto al ruolo prima prevalente della contrattazione collettiva.
L'art. 40, co. 1, ultima parte D.Lgs. n. 165/2001 prevede infatti che "nelle materie relative alle sanzioni disciplinari,.. .la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge"; inoltre, l'art. 55, primo comma, del medesimo D.Lgs. attribuisce carattere di "norme imperative" alle "disposizioni del presente articolo 0, di quelli seguenti", con sostituzione automatica delle clausole contrattuali difformi rispetto alle previsioni legislative, in base agli artt. 1339 e 1419 cod. civ. testualmente richiamati.
4.1. Tanto premesso, l'art. 55-ter introdotto dalla riforma del 2009, nel testo allora vigente (ora oggetto del D.Lgs. n. 25.05.2017, n. 75, art. 14), dispone, al primo comma, che "Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all'articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all'articolo 55-bis, comma 1, secondo periodo, l'ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti caute/ari nei confronti del dipendente".
5.
La regola generale così introdotta è quella della autonomia dei due procedimenti (quello disciplinare e quello penale); la norma contempla la possibilità della sospensione (dunque facoltativa e non obbligatoria) come eccezione, nei casi di maggiore gravità (ossia per fatti sanzionabili con misure superiori alla sospensione fino a 10 gg.) e nei limiti in cui ricorrano casi di particolare complessità e qualora l'istruttoria disciplinare non abbia consentito di acquisire elementi sufficienti alla contestazione.
5.1. La sentenza impugnata muove, dunque, da una corretta interpretazione della normativa che regola la fattispecie, atteso che non è rinvenibile nell'art. 55-ter D.Lgs. n. 165/01, che disciplina i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, alcun obbligo di sospensione del primo in attesa della definizione del secondo.
6.
Neppure esiste una disposizione che imponga alla Pubblica Amministrazione di procedere ad un'autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare. La Pubblica Amministrazione è, infatti, libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente e ben può avvalersi dei medesimi atti, in sede d'impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti (Cass. n. 5284 del 2017, Cass. n. 19183 del 2016).

PUBBLICO IMPIEGOSì della Cassazione al licenziamento di chi abusa dei permessi «104».
Sì al licenziamento disciplinare del dipendente pubblico che abusa, illegittimamente usufruendo di assenze retribuite dal lavoro, dei permessi a lui riconosciuti in base alla legge 104.

La Corte di Cassazione -Sez. VI civile- ha così respinto -con l’ordinanza 04.04.2018 n. 8209- il ricorso di una dipendente di un’Azienda sanitaria locale.
L’inutile difesa
La lavoratrice -“infedele”, almeno secondo i giudici di merito- voleva far emergere la tenuità del fatto e la sproporzione dell’irrogazione della massima sanzione disciplinare subita e contro cui ricorreva inutilmente.
Ancora impugnando il licenziamento disciplinare in Cassazione, dopo aver avuto torto per due gradi di giudizio di merito, la dipendente pubblica voleva far emergere l’illegittima applicazione della sanzione più grave a fronte della singolarità dell’episodio e del proprio stato psicologico «precario» nel periodo dei fatti contestati.
Inoltre, metteva all’indice la sentenza di merito per nullità, in quanto priva di una anche concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione: affermava in particolare la ricorrente in Cassazione che i giudici di appello hanno sic et simpliciter affermato di applicare l’orientamento maggioritario in Cassazione sull’abuso dei diritti riconosciuti dalla legge 104/1992, ma se ne sarebbero discostati sul piano della continuità o meno della condotta, che in questa caso sarebbe stata al limite episodica.
La lavoratrice, infatti, oltre a negare il singolo episodio che le è costato il licenziamento lamentava anche la non presa in considerazione dell’attività lavorativa pregressa su cui non emergevano comportamenti scorretti.
L’orientamento drastico
La Corte di cassazione in maniera breve boccia i rilievi espressi col ricorso, rispondendo che il giudice di appello avrebbe fatto legittimamente espresso richiamo all’orientamento dei giudici di legittimità in vicende di simile tenore. Infatti, precisa la Cassazione, che si tratta di principio di diritto che ha portata generale e non presuppone la reiterazione del comportamento. E che legittimamente il giudice di merito ha dato preminenza al fatto “acclarato” dell’abuso del diritto, contro le difese espresse dalla parte, non facendo venir meno l’elemento della gravità della condotta.
Gravità che i giudici hanno fatto emergere in particolare dando prevalenza all’elemento soggettivo della condotta e non a quello quantitativo nel tempo. In effetti l’elemento soggettivo rilevante veniva individuato nella «perdurante ipotesi di dolo» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2018).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti sotto soglia: illegittima la partecipazione del gestore uscente se la deroga al principio di rotazione non è motivata.
Con la sentenza 03.04.2018 n. 2079, la Sez. V del Consiglio di Stato ha nuovamente affrontato la questione della partecipazione ad una gara per un appalto sotto soglia e sul rispetto del cosiddetto principio di rotazione, che prevede l’obbligo per le stazioni appaltanti di non invitare il gestore uscente.
La pronuncia in commento si è espressa sulla ratio e sulla portata della applicazione di tale regola nel contesto della procedura ad evidenza pubblica, con particolare attenzione alle motivazioni che l’Amministrazione procedente deve rendere per derogare al principio in esame.
L’approfondimento
Il Consiglio ha affermato che il rispetto del cosiddetto principio di rotazione ha una valenza tale da evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente, soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Questa visione -supportata da un orientamento piuttosto consolidato- costituisce la conferma dell’attenzione delle Corti al rischio del consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio.
Il caso
I fatti traggono spunto dalla indizione di una procedura negoziata per l’affidamento in regime di concessione di servizi, alla quale è stata ammessa anche la società -ora appellante- gestore uscente del servizio oggetto della gara. Il Tar adito sotto questo profilo ha annullato i provvedimenti di ammissione della società appellante. Il Consiglio di Stato è stato chiamato a pronunciarsi sulle censure mosse dall’appellante, la cui argomentazione riguarda principalmente tematiche di irricevibilità e/o inammissibilità delle domande proposte dalla società ricorrente in primo grado.
La sentenza
Il Collegio è pervenuto alla decisione che, nel caso di specie, è legittimo l’annullamento dei provvedimenti di ammissione della società appellante, in quanto la procedura ad evidenza pubblica oggetto di contestazione è tra le procedure sotto soglia comunitaria con modalità negoziata, come prevista dall’articolo 36, comma 2, lett. b), Dlgs n. 50 del 2016, che soggiace al rispetto del cosiddetto principio di rotazione.
I Giudici di Palazzo Spada hanno precisato che tale principio di rotazione -oltre ad avere una solida base normativa– ha forti radici anche nella giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato che si è più volte espresso sull’esistenza di un obbligo per le stazioni appaltanti di non invitare il gestore uscente, nelle gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cosiddetti sotto soglia, al fine di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Il Consiglio di Stato ha, quindi, ritenuto coerente con la lettera della legge l’affermazione di un obbligo per l’Amministrazione appaltante di procedere ad una valutazione sulla presenza di puntuali motivazioni per le quali non sia possibile prescindere dall’invito del gestore uscente. In caso contrario, l’ammissione del gestore uscente nell’appalto soglia soglia alla nuova procedura indetta per il medesimo servizio risulta essere illegittima e contraria al disposto dell’articolo 36, comma 2, lett. b), Dlgs n. 50 del 2016.
La quinta Sezione del Consiglio di Stato ha dunque respinto il ricorso dell’appellante, confermando le valutazioni già espresse dal primo Tribunale adito in merito alla legittimità dell’annullamento dei provvedimenti di ammissione della società appellante, in quanto tali provvedimenti sono contrari al rispetto del cosiddetto principio di rotazione.
Conclusioni
È illegittima una procedura negoziata sotto soglia indetta da una stazione appaltante alla quale abbia partecipato il gestore uscente; in tal caso infatti l’Amministrazione stessa, in applicazione del principio di rotazione, avrebbe dovuto escludere dal proseguimento della gara il gestore uscente, ovvero, in alternativa, invitarlo, motivando puntualmente le ragioni per le quali ha ritenuto di non poter prescindere dall’invito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
---------------
MASSIMA
   - Rilevato che il TAR ha annullato i provvedimenti impugnati in tale sede dall’appellata In. s.c.p.a. per violazione del principio di rotazione, caducando quindi sia l’invito che l’ammissione al prosieguo della gara di Si. e Am. s.p.a., in quanto gestore uscente;
   - Ritenuto che
la determina dirigenziale n. 463 del 22.06.2017 del Comune di Follonica prevede di dare corso ad una procedura sotto soglia comunitaria con modalità negoziata, come prevista dall’art. 36, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, che soggiace al rispetto del cd. principio di rotazione;
   - Ritenuto che
tale principio è stato già ritenuto dalla giurisprudenza di questo Consiglio in termini di obbligo per le stazioni appaltanti di non invitare il gestore uscente, nelle gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”, al fine di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125);
   - Ritenuto che
tale principio è volto a tutelare le esigenze della concorrenza in un settore, quello degli appalti “sotto soglia”, nel quale è maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio;
   - Ritenuto che nella fase di manifestazione di interesse non era possibile né era attuale e concreto alcun interesse della società appellata In. ad impugnare, con conseguente infondatezza dell’eccezione di irricevibilità e/o inammissibilità del ricorso di In. dinanzi al TAR;
   - Ritenuto che, con la pubblicazione sul profilo del Committente, in data 29.09.2017, del Verbale n. 1 delle operazioni di gara del 28.09.2017, nel rispetto dei due giorni previsti dall’art. 29, comma 1, secondo periodo d.lgs. n. 50/2016, comunicato via PEC alla ricorrente In. si è verificata la condizione prevista dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., il quale individua nella data di pubblicazione dell’atto di ammissione, ex art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, il dies a quo di proposizione del ricorso, o comunque nel giorno in cui l’atto stesso è reso in concreto disponibile, secondo la nuova formulazione dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, introdotta dall’art. 19 d.lgs. n. 56/2017;
   - Ritenuto che
le disposizioni di cui all’art. 172 d.lgs. n. 50/2016 prevedono espressamente che i concedenti debbano perseguire “l’obiettivo di assicurare la concorrenza effettiva”, in ossequio all’art. 30 del medesimo d.lgs., che richiama espressamente il principio di libera concorrenza, rispetto al quale è sicuramente funzionale il principio di rotazione di cui si controverte;
   - Ritenuto che,
in applicazione del principio di rotazione il Comune di Follonica avrebbe dovuto escludere dal proseguimento della gara il gestore uscente odierno appellante, ovvero, in alternativa, invitarlo motivando puntualmente le ragioni per le quali riteneva di non poter prescindere dall’invito, motivazione che in nessun modo è rintracciabile nel caso di specie;
   - Ritenuto, pertanto, che l’appello debba essere respinto e che le spese seguano la soccombenza;

ENTI LOCALI - VARIGiochi, chi sbaglia chiude. La multa non basta se le sale violano gli orari. Cds: i comuni possono sospendere la licenza in caso di reiterate violazioni.
I comuni sono legittimati a limitare gli orari di funzionamento degli apparecchi da gioco, ma soprattutto hanno la facoltà di revocare o sospendere l'autorizzazione delle sale che non rispettano tali limiti. La mera sanzione pecuniaria, infatti, non è uno strumento sufficientemente dissuasivo nei confronti dei gestori di sale gioco che potrebbero essere facilmente indotti ad assumersi il rischio di pagare una multa tutto sommato tenue, continuando a violare le ordinanze dei sindaci.
È quanto ha stabilito la V Sez. del Consiglio di Stato (presidente Carlo Saltelli, estensore Raffaele Prosperi) nella sentenza 28.03.2018 n. 1933, che ha respinto l'appello della società In.Ga. srl, titolare di una sala bingo a Mantova.
Alla società, il cui ricorso era già stato bocciato dal Tar Lombardia, era stato ordinato dal comune uno stop di cinque giorni al funzionamento degli apparecchi, in seguito a ripetute violazioni della disciplina comunale sugli orari di apertura delle sale da gioco.
Secondo la sentenza riportata da Agipronews, i poteri sanzionatori «pesanti» previsti dalla legge, generalmente attribuiti alle Questure, possono essere affidati anche ai comuni «in presenza di violazione delle discipline specifiche che attengono alla tutela degli interessi pubblici diversi da quello dell'ordine e della sicurezza».
Nel caso di specie la In.Ga. era stata multata quattro volte per la violazione dei limiti orari disposti per la prevenzione della ludopatia (l'attività è concessa dalle 9 alle 12 e dalle 18 alle 23) prima di essere sanzionata con la sospensione della licenza per cinque giorni. Una sanzione che palazzo Spada ha definito «significativa, adeguata, proporzionata e idonea a garantire un reale effetto di deterrenza e il carattere di afflittività, contemperando in modo non irragionevole l'interesse sanzionatorio dell'autorità sindacale e il principio della libertà di iniziativa economica».
Per il Consiglio di stato, infatti, la possibilità di fermare l'attività di una sala diventa fondamentale per garantire il rispetto dei regolamenti. «A nessuno sfugge che, se tutto si riducesse e si limitasse alla sanzione pecuniaria, sarebbe agevolata una logica strettamente economica del rapporto costi/benefici».
In questo modo, «il titolare di sala giochi o degli apparecchi con vincite in denaro sarebbe facilmente indotto ad assumere il rischio e il relativamente tenue costo per la violazione dell'ordinanza sindacale (a norma del Tuel per le violazioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 25 a 500 euro ndr), consistente nel solo pagare la sanzione amministrativa, a fronte di un più elevato guadagno derivante dall'utilizzo della sala gioco o dal funzionamento degli apparecchi da gioco».
Deve quindi essere «riconosciuta la necessità» che la ripetuta violazione dei limiti orari «sia accompagnata da una misura ulteriore e diversa dalla sanzione pecuniaria: una misura, cioè, di cura diretta dell'interesse pubblico, che prescinda dal soggetto e che guardi all'oggetto, e che vada ad incidere direttamente e immediatamente sull'attività sospendendola per un tempo ragionevole, adeguato e idoneo»
(articolo ItaliaOggi del 29.03.2018).

ENTI LOCALI - VARIZtl, discriminatorie eccezioni pro affittuari.
Il comune che consente l'accesso in deroga alla zona a traffico limitato solo ai titolari di un contratto di locazione di un immobile anche se non residenti discrimina rispetto ai proprietari non residenti. Dunque l'amministrazione locale dovrà modificare tempestivamente i criteri generali per il rilascio delle autorizzazioni assimilando i dimoranti non abituali in affitto a quelli in proprietà.

Lo ha chiarito il TAR Umbria, Sez. I, con la sentenza 28.03.2018 n. 182.
Il comune di Spoleto ha modificato i criteri di accesso alla zona a traffico limitato ammettendo alla zona tutelata del borgo oltre ai residenti anche i dimoranti non abituali muniti di un contratto di locazione di un immobile posizionato nel centro storico.
Contro questa determinazione il proprietario di un immobile situato nell'area del Duomo, ma non residente, ha proposto con successo censure al collegio.
Il proprietario non residente di un manufatto situato nella zona medievale del borgo di Don Matteo deve godere degli stessi diritti del titolare di un contratto di locazione, anche egli non residente. Entrambi i soggetti sono infatti in possesso di un diritto reale di godimento
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.04.2018).
---------------
MASSIMA
1. È materia del contendere la legittimità degli atti in forza dei quali il Comune di Spoleto ha modificato l’accesso alla zona a traffico limitato del centro storico, impedendo all’odierno ricorrente di poter accedere con la propria autovettura ad un immobile di sua proprietà sito in piazza ... n. 8, sul presupposto che gli unici legittimati sarebbero, oltre ai residenti i dimoranti non abituali.
2. Ritiene preliminarmente il Collegio di dover rilevare l’improcedibilità del gravame principale per difetto di interesse, atteso che a seguito dell’adozione dell’atto impugnato per motivi aggiunti con il quale l’amministrazione comunale ha definitivamente negato il rilascio del permesso z.t.l., il ricorrente non potrebbe ricavare alcuna utilità dall’eventuale annullamento dei precedenti atti inerenti il procedimento di revoca delle autorizzazioni z.t.l. di cui alla determina dirigenziale n. 947 del 01.10.2015, trattandosi peraltro di permessi venuti a scadere naturalmente in data 17.07.2016.
3. Ciò premesso si può passare in esame il ricorso per motivi aggiunti il quale appare fondato e va accolto relativamente alla doglianza a mezzo della quale si lamenta che il Comune di Spoleto abbia reinterpretato a proprio piacimento la stessa definizione di dimorante non abituale di cui alle ordinanze nn. 6 e 47 del 2015, intendendo tale solo colui che abbia un contratto di locazione ad uso privato su un immobile ricadente nella z.t.l. a prescindere dalla residenza.
4. Al riguardo è sufficiente rilevare che
l’odierno ricorrente, in qualità di proprietario di immobile sito nel centro storico si trovi in una situazione sostanzialmente identica a quella del titolare di contratto di locazione, essendo entrambi in possesso di un diritto reale di godimento seppur in base a titoli diversi (la proprietà il primo e la locazione il secondo).
5.
Ne consegue che una lettura costituzionalmente orientata e coerente con la natura intrinseca del diritto reale di godimento in contestazione, imponga che le ordinanze comunali nn. 6 e 47 del 2015, lungi dall’essere annullate, debbano essere correttamente reinterpretate nel senso di consentire l’accesso alla z.t.l. anche a chi sia titolare di tale diritto di godimento indipendentemente dal titolo (contratto o proprietà piena) su cui esso si fondi.
6. Le ragioni che precedono impongono dunque l’accoglimento della domanda di annullamento del diniego impugnato per motivi aggiunti previo assorbimento delle altre censure proposte.

APPALTI FORNITURE E SERVIZISe è mancata la rotazione non va provata la posizione di privilegio del pregresso affidatario.
Nel caso di violazione del principio di rotazione –per invito del pregresso affidatario del contratto-, il ricorrente non è tenuto a dimostrarne la «posizione di vantaggio» lesiva della par condicio. La posizione privilegiata del pregresso affidatario, infatti, è presunta dallo stesso Legislatore.
In questi termini si esprime la sentenza 26.03.2018 n. 354 del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,  che afferma l'applicabilità del principio di rotazione anche al procedimento di selezione di cooperative sociali di tipo B.
La vicenda
Il ricorrente ha lamentato la violazione del principio di rotazione constatato che la stazione appaltante invitava al procedimento di selezione «semplificato» anche il precedente gestore del servizio (nel caso specifico si trattava di appalto del servizio di pulizia di un Comune). Secondo le difese della stazione appaltante, la censura era da respingere in quanto il procedimento era diretto a selezionare una cooperativa di tipo B e quindi attraverso un procedimento «escluso» dall'ambito applicativo del Codice.
Il giudice respinge questa prima motivazione rilevando che pur vero che il riferimento normativo principale è costituito –nel caso di specie– dall'articolo 5 della legge 381/1991, è altresì vero che la stazione appaltante, però, utilizzando il procedimento semplificato di cui all'articolo 36 del Codice ha inteso autovincolarsi con riferimento ai vari principi (e norme) che presidiano i procedimenti contrattuali ordinari.
L'utilizzo di procedimenti aperti e la rotazione
Altra questione eccepita dalla stazione appaltante è che, in ogni caso, negli inviti a partecipare al procedimento di «gara» il Rup non aveva indicato alcuna limitazione. Pertanto, tutti i soggetti interessati potevano far richiesta di essere invitati. E, in effetti, tutte le imprese che hanno manifestato interesse sono state invitate alla procedura, ma solo quattro (tra cui la precedente affidataria) hanno presentato offerta. Operando in questo modo, secondo la stazione appaltante, il principio di rotazione non sarebbe stato violato visto che alle stesse conclusioni giunge l'Anac con la recente rimodulazione delle linee guida n. 4 (in tema di affidamento nel sotto soglia).
Anche questo ragionamento, con statuizione estremamente rilevante per gli sviluppi futuri, viene non ritenuto persuasivo da parte del giudice. La sostanza è che se anche attraverso un avviso pubblico –senza limitazione sulla partecipazione– la stazione appaltante invita «automaticamente» anche il pregresso affidatario, senza alcuna motivazione con riferimento alla situazione particolare del mercato, il principio di rotazione verrebbe praticamente vanificato creando delle indubbie posizioni di vantaggio dei precedenti gestori. Infine, e non appare questione di poco conto, il giudice puntualizza che il ricorrente non è tenuto provare la posizione di privilegio del pregresso affidatario come invece riteneva la stazione appaltante.
È evidente, si legge in sentenza, «che quest'ultima circostanza risulta essere del tutto ininfluente, in quanto il principio non tende a escludere la partecipazione di colui che abbia già ottenuto l'affidamento del contratto precedentemente, ma solo a impedire che possa essere avvantaggiato il gestore che continuerebbe nell'esecuzione del servizio senza soluzione di continuità». Come ha chiarito la giurisprudenza, prosegue il giudice lombardo, «l'applicazione del principio impone, in assenza di elementi che ne giustifichino comunque la chiamata, l'esclusione dalla sola prima gara successiva alla scadenza del contratto».
E il vantaggio, ovvero la posizione di privilegio del precedente affidatario, «è in sé e deriva dal fatto di avere piena conoscenza reale e diretta delle peculiarità del servizio e, quindi, dei costi e delle possibilità di ottenere delle economie di scale, nonché di quelle che sono le specifiche necessità della stazione appaltante che possono consentire di formulare un'offerta maggiormente soddisfacente per le esigenze della stazione appaltante e, dunque, apprezzabile sul piano tecnico».
Del resto è lo stesso Legislatore «a presumere che il gestore uscente sia portatore di una posizione privilegiata, la quale potrebbe essere superata solo attraverso una puntuale motivazione, da parte della stazione appaltante, della reiterazione del suo invito anche alla gara immediatamente successiva alla scadenza del contratto. Motivazione che, nella fattispecie, è stata integralmente omessa». Per ciò stesso gli atti di aggiudicazione sono stati annullati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.04.2018).
---------------
MASSIMA
Ravvisata l’ammissibilità del ricorso, si può, quindi, passare all’esame del merito delle questioni dedotte.
A tal fine appare opportuno chiarire che la particolarità della gara in questione è rappresentata dal fatto che essa è preordinata alla selezione della cooperativa di tipo B, con cui stipulare una convenzione ai sensi del comma 1 dell’art. 5 della legge 381/1991.
Ciò implica l’applicazione di una normativa del tutto particolare, che prevede la possibilità per gli enti pubblici, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della Pubblica Amministrazione, di stipulare convenzioni con cooperative sociali che svolgono attività di cui all’art. 1, comma 1, lett. B), della legge n. 381/1991 e s.m.i., per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato, al netto dell’I.V.A., sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all’art. 4, comma 1.
Ciò premesso, il Comune ha, però, espressamente optato per condurre la gara ai sensi dell’art. 36, comma 2 del d.lgs. 50/2016, con aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e ha precisato, nell’invito, che “L’affidamento è soggetto alle norme e condizioni previste dal d.lgs. 50/2016 (di seguito denominato anche codice) e relative norme di attuazione, ove richiamate, dal d.lgs. n. 82/2005, dalle relative regole tecniche e dai provvedimenti adottati dal DigitPA/Agenzia per l’Italia Digitale, dalle condizioni di accesso ed utilizzo del sistema di intermediazione telematica Sintel, dalle disposizioni previste dalla presente lettera d’invito-disciplinare, dal Capitolato Speciale, oltre che, per quanto non regolato dalle clausole e disposizioni suddette, dalle norme del Codice Civile e dalle altre disposizioni di legge nazionali vigenti in materia di contratti di diritto privato, nonché dalle leggi nazionali e comunitarie vigenti nella materia, espressamente richiamate.”.
La stazione appaltante si è, dunque, autovincolata alla conduzione della gara secondo le ordinarie regole di cui all’art. 36 del codice dei contratti e, conseguentemente, al rispetto dei principi di cui esse sono espressione, tra cui, in particolare, per quanto di interesse, quello di “rotazione”.
Del resto,
lo stesso art. 5 della legge 381/1991, pur ammettendo la possibilità di stipulare convenzioni in deroga alla ordinaria disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, all’ultimo comma dell’art. 5, espressamente recita “Le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.
Il principio di rotazione, sebbene non espressamente menzionato dalla legge derogataria, può, comunque, ritenersi essere precipitato ed espressione di quello di non discriminazione: il principio generale in questione non pare, dunque, poter trovare deroga per la particolarità della procedura, finalizzata a selezionare una cooperativa sociale per la stipula di una convenzione strumentale ad una prestazione di servizi, che produca anche l’effetto di favorire soggetti svantaggiati.

Al contrario,
anche la normativa speciale che regola l’utilizzo di tale particolare strumento sembra tendere a garantire la possibilità a tutti i soggetti operanti nel particolare settore, non tanto o non solo in un’ottica di tutela della concorrenza, bensì dell’estensione dei suoi benefici a quanti più soggetti possibile (sia in termini di cooperative coinvolte, che di soci lavoratori delle stesse), come risulterà più chiaro dalle conclusioni che saranno tratte nel prosieguo.
Accertato che la scelta del Comune di provvedere alla gestione esternalizzata del servizio di pulizia dei locali comunali avvalendosi di cooperative sociali che favoriscono l’inserimento nel mondo lavorativo di soggetti disabili e a rischio di emarginazione presenti nella comunità locale, non preclude, in linea di principio l’applicazione del principio di rotazione dei soggetti da invitare alla procedura di selezione, si può, quindi, passare alla verifica della legittimità della sua mancata applicazione nella fattispecie concreta.
La lettera c) del secondo comma dell’art. 36 del codice degli appalti, espressamente richiamato nell’invito, prevede che la procedura deve svolgersi: “c) per i lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, mediante procedura negoziata con consultazione di almeno quindici operatori economici, ove esistenti, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici. L'avviso sui risultati della procedura di affidamento, contiene l'indicazione anche dei soggetti invitati;”.
Secondo la tesi della ricorrente, anche laddove si volesse escludere l’effetto espulsivo automatico, la mancanza di motivazione dell’ammissione del gestore uscente inficerebbe effettivamente la legittimità del procedimento.
Secondo il Comune, ciò che, però, impedirebbe di ricondurre la fattispecie in esame all’ambito di applicazione del principio di rotazione sarebbe la circostanza per cui, nell’individuare i soggetti da invitare alla gara non sarebbe stata effettuata alcuna scelta tra gli operatori che hanno manifestato interesse alla partecipazione, tutti sollecitati alla presentazione dell’offerta.
La ratio del principio sarebbe, secondo il Comune, dunque, quella di garantire che tutti gli interessati possano partecipare.
Ciò in linea con le sentenze TAR Toscana, sez. II, 12.06.2017, n. 816, per cui
il principio di rotazione è servente e strumentale a quello di concorrenza, sicché non può disporsi l’estromissione del gestore uscente allorché ciò finisca per ridurre la concorrenza, e TAR Veneto, sez. I, 26.05.2017, n. 515, secondo cui: <<…per unanime giurisprudenza proseguita anche sotto il vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, il principio di "rotazione" degli operatori economici da invitare nelle procedure negoziate svolte in base all'art. 36 del d.lgs. n. 50/2016, pur essendo funzionale ad assicurare un certo avvicendamento delle imprese affidatarie, non ha una valenza precettiva assoluta per le stazioni appaltanti, sì che, a fronte di una normativa che pone sullo stesso piano i principi di concorrenza e di rotazione, la prevalente giurisprudenza si è ripetutamente espressa nel senso di privilegiare i valori della concorrenzialità e della massima partecipazione, per cui in linea di massima non sussistono ostacoli ad invitare anche il gestore uscente del servizio a prendere parte al nuovo confronto concorrenziale (in questi termini: Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.12.2011, n. 6906; TAR Napoli, II, 08.03.2017 n. 1336; TAR Lazio, Sez. II, 11.03.2016 n. 3119).
Pertanto, "ove il procedimento per l'individuazione del contraente si sia svolto in maniera essenzialmente e realisticamente concorrenziale, con invito a partecipare alla gara rivolto a più imprese, ivi compresa l'affidataria uscente, e risultino rispettati sia il principio di trasparenza che quello di imparzialità nella valutazione delle offerte, può dirsi sostanzialmente attuato il principio di rotazione, che non ha una valenza precettiva assoluta, per le stazioni appaltanti, nel senso di vietare, sempre e comunque, l'aggiudicazione all'affidatario del servizio uscente. Se, infatti, questa fosse stata la volontà del legislatore, sarebbe stato espresso il divieto in tal senso in modo assoluto" (TAR Napoli, II, 27.10.2016 n. 4981)
>>.
Andando a leggere la recente pronuncia del Consiglio di Stato n. 5854 del 2017, però, si evince, come, invece, il principio in esame trovi fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non sia elevato.
Quindi,
posto che il principio di rotazione è stato affermato allo scopo di evitare posizioni di privilegio in capo al gestore uscente, se esso dovesse essere inteso nel senso che quest’ultimo possa sempre e comunque essere invitato, la previsione non avrebbe alcun senso. Né sarebbe idoneo ad attribuirgli significato il mero fatto di invitare altri soggetti, oltre ad esso (il che è frutto del diverso principio per cui non può esservi l’affidamento diretto senza almeno un confronto concorrenziale), per cui l’interpretazione che potrebbe rappresentare l’equo contemperamento dei due principi (rotazione e massima concorrenza) pare essere quella che ammette l’invito anche del gestore uscente, purché ciò trovi motivazione nella presenza di particolari condizioni che debbono essere esplicitate nel provvedimento che individua le ditte da invitare.
È pur vero che, come sostenuto dal Comune, la linea guida ANAC n. 4 limita l’applicazione del principio di rotazione ai soli casi in cui la stazione appaltante eserciti limitazioni al numero di operatori da invitare: ciò che è accaduto anche nella fattispecie, a prescindere dal fatto che poi, delle ditte individuate solo quattro abbiano manifestato interesse e siano state tutte invitate. È casuale, dunque, nella fattispecie, che tutte le ditte interessate siano state invitate e non frutto della scelta di fare ricorso a una procedura aperta, il che escluderebbe la necessità dell’applicazione del principio in parola.
In sintesi,
se la ratio del principio di rotazione è quella di escludere posizioni di rendita in capo al gestore uscente, l’invito di quest’ultimo alla gara lo violerebbe comunque, a prescindere dal numero di soggetti invitati tra quelli che hanno manifestato interesse a partecipare alla procedura ristretta e non aperta.
Mutatis mutandis, anche in relazione alle cooperative potrebbe esservi un interesse meritevole di tutela, che non è tanto quello di garantire la concorrenza, quanto quello di evitare che taluni soggetti esercitino una sorta di monopolio, precludendo ad altri di poter aver accesso al mercato.
Se, dunque, lo scopo finale è quello di consentire il reinserimento lavorativo degli occupati per il tramite delle cooperative, l’escludere una sorta di riserva a favore del gestore uscente sarebbe meritevole di tutela anche alla luce del fatto che la dottrina ha chiarito che proprio al fine di favorire l’alternanza, la durata della convenzione deve essere limitata nel tempo (“La finalità del reinserimento lavorativo deve essere coniugata con la necessità che la durata delle convenzioni non superi un limite temporale ragionevole, avuto riguardo all’oggetto della convenzione medesima. Le amministrazioni, pertanto, devono definire adeguatamente la durata delle convenzioni, affinché non sia di fatto preclusa ad altre cooperative la possibilità di presentare domanda di convenzionamento, nonché verificare che gli obiettivi stabiliti siano effettivamente perseguiti ed attuati.”).
Né può essere rilevante quanto affermato dal Comune in ordine al fatto che non sarebbe stato provato alcun privilegio del gestore uscente e che anche la ricorrente ha gestito il medesimo servizio per il Comune di Viadana dal 1998 al 2010.
È evidente che quest’ultima circostanza risulta essere del tutto ininfluente, in quanto il principio non tende a escludere la partecipazione di colui che abbia già ottenuto l’affidamento del contratto precedentemente, ma solo a impedire che possa essere avvantaggiato il gestore che continuerebbe nell’esecuzione del servizio senza soluzione di continuità.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza, infatti, l’applicazione del principio impone, in assenza di elementi che ne giustifichino comunque la chiamata, l’esclusione dalla sola prima gara successiva alla scadenza del contratto.
Il vantaggio, peraltro, è in sé e deriva dal fatto di avere piena conoscenza reale e diretta delle peculiarità del servizio e, quindi, dei costi e delle possibilità di ottenere delle economie di scale, nonché di quelle che sono le specifiche necessità della stazione appaltante che possono consentire di formulare un’offerta maggiormente soddisfacente per le esigenze della stazione appaltante e, dunque, apprezzabile sul piano tecnico.
Del resto è lo stesso legislatore a presumere che il gestore uscente sia portatore di una posizione privilegiata, la quale potrebbe essere superata solo attraverso una puntuale motivazione, da parte della stazione appaltante, della reiterazione del suo invito anche alla gara immediatamente successiva alla scadenza del contratto. Motivazione che, nella fattispecie, è stata integralmente omessa.
Ne deriva l’accoglimento del ricorso, con conseguente caducazione degli atti impugnati.
Deve, invece, essere respinta la domanda risarcitoria, sia in forma specifica, che per equivalente.
Quanto alla prima richiesta, poiché non risulta essere ancora intervenuta la formale aggiudicazione della gara, la caducazione dei provvedimenti impugnati non può che comportare la modifica della graduatoria e la rinnovazione delle fasi conclusive della gara per l’individuazione dell’aggiudicatario, escludendo da esse la partecipazione del gestore uscente-odierna controinteressata.
Il diritto al risarcimento del danno per equivalente, invece, non può essere riconosciuto, in quanto il danno subito non solo non è stato provato, ma nemmeno specificamente individuato e quantificato nel corso del giudizio.

APPALTI SERVIZINon è illegittimo il bando in caso di omessa indicazione del valore della concessione.
La mancata indicazione del valore della concessione rende illegittimo il bando esclusivamente nel caso in cui tale omissione, da sola, impedisca la consapevole formulazione dell’offerta. L’obbligo di indicare il valore della concessione, prescritto dall’articolo 167 Dlgs n. 50 del 2016, è finalizzato, infatti, a garantire la concorrenzialità e il regolare svolgimento del confronto competitivo.
Ne deriva che, qualora l’Amministrazione non sia in grado di ottemperare alla predetta prescrizione, è sufficiente che fornisca tutti gli elementi conosciuti e utili affinché i concorrenti possano ricavarne il potenziale fatturato derivante dalla gestione del servizio e così formulare un’offerta seria e consapevole.

Tanto è stato stabilito dalla III Sez. del TAR Veneto con la sentenza 26.03.2018 n. 348.
Inoltre, dall’esame della pronuncia in commento si desume che il bando di gara è immediatamente impugnabile esclusivamente nel caso cui l’omessa individuazione del valore stimato della concessione impedisca la libera partecipazione alla gara ovvero la corretta e consapevole elaborazione della proposta economica.
Al contrario, se tale omissione non ostacola l’elaborazione dell’offerta, l’impugnazione autonoma del bando di gara è inammissibile per difetto di interesse.
I fatti di causa
In una gara, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la gestione dei distributori automatici e dei bar ubicati all’interno delle strutture ospedaliere, la stazione appaltante ometteva di indicare nel bando il fatturato stimato.
All’esito della procedura il secondo in graduatoria adiva il Tar Veneto lamentando l’illegittimità del bando di gara e chiedendo, per gli effetti, l’annullamento dello stesso.
Più nel dettaglio, il ricorrente denunciava la violazione dell’articolo 167, comma 1, del Dlgs n. 50 del 2016 che prescrive l’indicazione del valore stimato delle concessioni nei bandi di gara, affermando che l’omessa indicazione, provocando una situazione di «estrema incertezza» nella formulazione dell’offerta, costituisce causa di annullamento di tutti gli atti di gara.
Posizione del Tar
Con la sentenza n. 348 del 26.03.2018, il Tar Veneto, al fine di proporre la soluzione indicata con i paragrafi che precedono, traccia il seguente iter logico argomentativo.
Il Collegio, preliminarmente, ricorda che il bando va impugnato unitamente agli atti che di esso fanno applicazione, in quanto solo in quel momento diventa attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato.
È, invece, immediatamente e autonomamente impugnabile il bando quando le clausole impediscono la partecipazione alla gara di un potenziale concorrente ovvero quando ostacolano una corretta e consapevole elaborazione della proposta economica, tale da rendere impossibile le valutazioni di opportunità in ordine alla partecipazione alla gara pubblica.
Procedendo poi alla risoluzione della problematica proposta con il ricorso, posto che l’azione processuale è stata presentata a seguito dell’aggiudicazione, il Giudice amministrativo individua due possibili strade:
   a) se la mancata enucleazione, da parte dell’Amministrazione, del valore della concessione ha effettivamente impedito al ricorrente di formulare un’offerta seria e consapevole, allora il dedotto vizio sarebbe irricevibile per tardività, in quanto doveva essere denunciato immediatamente;
   b) se, invece, ha comunque consentito di proporre un’offerta consapevole, allora la censura è inammissibile per difetto di interesse.
Quest’ultima è la soluzione accolta dal Giudice adito per dirimere il caso controverso, in quanto, dall’esame degli atti di causa, è emerso che l’Amministrazione ha fornito dati sufficienti per poter valutare la convenienza economica del contratto e consentire così una partecipazione consapevole alla gara.
Conclusioni
Il Giudice veneto formula, così, un’interpretazione dell’articolo 167 e precisa che l’indicazione del valore stimato della concessione rappresenta un requisito essenziale per la legittimità della gara; tuttavia, laddove la stazione appaltante non sia in grado di ottemperare alla predetta prescrizione per motivi oggettivi (perché, per esempio, il servizio viene affidato per la prima volta), è sufficiente che fornisca gli elementi conosciuti (e cioè, per esempio, le indicazioni circa il potenziale bacino di utenza) dai quali i concorrenti, operatori del settore, possano pacificamente trarre il potenziale fatturato derivante dalla gestione del servizio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.04.2018).

APPALTIOfferta economicamente più vantaggiosa, la riparametrazione va sempre prevista nel bando.
Nella valutazione dell'offerta con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la facoltà per la stazione appaltante di procedere alla riparametrazione dei punteggi va sempre prevista nel bando di gara. Diversamente, la Pa non ha alcun obbligo di applicarla.

Il Consiglio di Stato -con la sentenza 23.03.2018 n. 1845, Sez. V- affronta e risolve in modo definitivo la questione della cosiddetta doppia riparametrazione (volta a ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti dalla griglia di valutazione indicata nel bando), smentendo allo stesso tempo che dalle diverse pronunce di Palazzo Spada fossero emersi orientamenti discordanti.
L'occasione per fare chiarezza sul punto è offerta da una sentenza del Tar Sardegna, impugnata in appello.
La controversia
La controversia è sorta dopo l'aggiudiciazione di un appalto di lavori stradali mandato in gara dalla Provincia di Sassari con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Il raggruppamento di imprese risultato perdente ha sostenuto che, in base al disciplinare di gara, «la doppia (o tripla) riparametrazione riferita ai macro-criteri fosse ontologicamente insita nel prescelto "metodo aggregativo compensatore", quale condizione indispensabile per conservare la corretta proporzione tra i criteri di valutazione e i pesi rivestiti nell'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa».
Nel ricorso, il raggruppamento ha poi sostenuto che l'applicazione anche di una sola riparametrazione avrebbe consentito l'aggiudicazione della gara; e che tale riparametrazione fosse «imposta» dalla lex specialis di gara.
I ricorrenti hanno poi sostenuto che esista un orientamento del Consiglio di Stato definito nel ricorso "prevalente" che considera la doppia riparametrazione insita nel metodo aggregativo compensatore. A sostegno di questa tesi citano la sentenza del Consiglio di Stato, Terza sezione, del 16.03.2016, n. 1048. Di conseguenza, ci sarebbero altre pronunce con orientamento diverso, rendendo necessaria una rimessione all'Adunanza Plenaria.
Il chiarimento di Palazzo Spada
Nella pronuncia i giudici della Quinta sezione chiariscono la questione «senza che sia necessaria la rimessione all'Adunanza Plenaria, auspicata dalle appellanti».
La questione di diritto, scrivono i giudici, «va risolta nel senso che per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa nessuna norma di carattere generale impone alle stazioni appaltanti di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione, la quale deve essere espressamente prevista dalla legge di gara». Nel caso in questione, nei documenti di gara non contengono «alcuna esplicita clausola» in questo senso.
I giudici ricordano anche che il principio è affermato anche dalle linee guida n. 2 dell'Anac (Offerta economicamente più vantaggiosa) là dove si prevede la mera facoltà per la stazione appaltante di procedere alla riparametrazione dei punteggi, a condizione che la stessa sia prevista nel bando di gara.
Infine, sulla questione, si esclude che in seno al Consiglio di Stato ci siano orientamenti difformi. Tanto per cominciare, la sentenza citata dai ricorrenti (n. 1048/2018) riguardava un caso «in cui la doppia parametrazione era prevista nella legge di gara».
L'orientamento, dunque è uno solo, ed è affermato -tra l'altro- da varie pronunce (V, 27.01.2016 n. 266 e id. 30.01.2017 n. 373; V 12.06.2017, n. 2811 e n. 2852; III, 20.07.2017, n. 3580) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.04.2018).

APPALTIAnche nella mini-gara il regolamento locale vincola l’azione dell’Ente.
I percorsi per l’individuazione degli operatori economici con cui procedere ad affidamento diretto entro i 40mila euro non devono essere sviluppati secondo particolari formalità. Ma quando la stazione appaltante decide di autovincolarsi, deve rispettare le regole che ha definito per la procedura selettiva.
Il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 22.03.2018 n. 353 ha chiarito la logica di semplificazione che sottende alle procedure delineate dall’articolo 36, comma 2, lettera a), del Dlgs 50/2016.
I giudici amministrativi hanno precisato che gli affidamenti diretti, anche se preceduti da una consultazione tra più operatori, sono contraddistinti da informalità e dalla possibilità per la stazione appaltante di negoziare le condizioni contrattuali intavolando con vari operatori trattative parallele.
Le operazioni svolte per individuare l’operatore economico, pertanto, possono essere realizzate con modalità molto semplici e consentono di sviluppare interazioni con più soggetti per acquisire le informazioni necessarie.
La sentenza evidenzia che negli affidamenti diretti non c’è obbligo di utilizzare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a fronte della deroga esplicita introdotta dal Dlgs 56/2017: per gli affidamenti di valore inferiore ai 40mila euro le stazioni appaltanti possono utilizzare il prezzo più basso, e se decidono di fare ricorso al criterio del rapporto qualità-prezzo non sono tenuti a rispettare le regole dell’articolo 95 (quindi possono disattendere la ripartizione dei pesi tra parte tecnica ed economica definita dal comma 10-bis).
Il caso
I giudici amministrativi hanno sviluppato l'analisi in relazione all'affidamento di un servizio di ristorazione interna di valore limitato (10.000 euro su due anni) indetto da un istituto scolastico con lettera di invito trasmessa agli operatori economici che avevano manifestato interesse sulla base di un precedente avviso pubblico.
La disciplina di gara prevedeva che il servizio sarebbe stato aggiudicato con l'offerta economicamente più vantaggiosa, con attribuzione di cinquanta punti alla parte tecnica e degli altri cinquanta alla parte economica.
La stazione appaltante non ha, tuttavia, sviluppato correttamente la mini-gara, non procedendo all'apertura in seduta pubblica delle offerte e non fornendo ai soggetti invitati alcuna informazione sull'esito del percorso selettivo.
La decisione
La sentenza ha chiarito che quando l'amministrazione si vincola all'effettuazione di una procedura selettiva per un affidamento della fascia di soglia entro i 40.000 euro deve rispettare la lex specialis che ha definito e che ha reso nota agli operatori mediante a lettera di invito. Nel caso esaminato, la disciplina di gara prevedeva esplicitamente il riferimento all'articolo 95 del codice dei contratti pubblici per la valutazione delle offerte, determinando quindi l'assoggettamento della ripartizione dei pesi tra parte tecnica e parte economica alle misure definite dal comma 10-bis della disposizione (rispettivamente settanta e trenta) e comportando conseguentemente l'illegittimità della scelta effettuata dall'amministrazione (cinquanta e cinquanta).
La sentenza del Tar Piemonte evidenzia quindi la rilevanza dell'autovincolo, che obbliga la stazione appaltante che definisce regole specifiche per gli affidamenti di valore entro i 40.000 euro ad attenersi alle stesse, senza possibilità di fruire delle semplificazioni che invece il quadro normativo del codice prefigura per gli affidamenti diretti in tale fascia di valore (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018).
---------------
MASSIMA
10. Risulta invero manifestamente fondato il primo dei motivi di ricorso, a mezzo del quale parte ricorrente censura il mancato rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza, violati per il fatto che nessuna delle operazioni di gara, e segnatamente l’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa, l’offerta tecnica e l’offerta economica, risulta essere stata effettuata nel corso di seduta pubblica.
11. Va chiarito, a miglior comprensione di quanto infra si dirà, che
il fatto che una stazione appaltante ricorra all’“affidamento diretto” non significa che essa sia esonerata dal rispetto dei principi generali di pubblicità e trasparenza, stante il chiarissimo disposto contenuto nell’art. 36 comma 1 del D. L.vo 50/2016, il quale stabilisce che “L’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30 comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese…”.
12. Come, poi, la Sezione ha già avuto modo di chiarire (sentenza n. 1324 del 07.12.2017) “
I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale, richiamati dall’art. 30 d.lgs. 50/2016, implicano che le fasi salienti debbano essere effettuate in seduta pubblica, qualsiasi sia la tipologia di procedura: la pubblicità investe tutte quelle operazioni della commissione di gara (tra cui l’apertura della documentazione e delle offerte), attraverso cui si effettuano le operazioni di “accoppiamento” tra partecipanti e offerte e controllo del contenuto della documentazione richiesta”.
13. Ciò chiarito, è evidente che
ove pure la gara per cui è causa dovesse effettivamente qualificarsi come procedura finalizzata a pervenire ad un affidamento diretto, ciò non escluderebbe la necessità di rispettare i principi di pubblicità e trasparenza, che si declinano –come dianzi ricordato– anche nella necessità di effettuare in seduta pubblica taluni adempimenti, tra i quali l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche ed economiche, ciò che nel caso di specie pacificamente non è avvenuto, nonostante l’autovincolo al rispetto dei principi di trasparenza e pubblicità enunciato nell’avviso pubblico indetto dall’Istituto scolastico.
14. La acclarata fondatezza del primo motivo di ricorso, avente portata di per sé assorbente, dovrebbe comportare l’annullamento di tutti gli atti di gara a partire dal momento di apertura delle buste; tuttavia, tenuto conto del fatto che le buste contenenti le offerte economiche sono state ormai aperte, che in ossequio a consolidato orientamento di giurisprudenza si impone la retrocessione del procedimento alla fase di presentazione delle offerte e che dunque la gara deve praticamente essere nuovamente celebrata quasi dall’inizio, reputa il Collegio che nella specie sussista l’interesse del ricorrente alla disamina del secondo motivo di ricorso, dal cui accoglimento conseguirebbe l’annullamento della lettera di invito ma anche, correlativamente, la tutela dell’interesse del ricorrente a che la gara venga reiterata nel rispetto della legislazione vigente ed emendata dai vizi denunciati.

APPALTI: Annotazioni di illeciti professionali nel Casellario Informatico.
Le annotazioni di illeciti professionali nel casellario informatico ex art. 213, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 non hanno effetto automaticamente escludente, ma sono rimesse alle valutazioni delle singole stazioni appaltanti, che ne possono stabilire la gravità con riguardo al livello di affidabilità richiesto nelle gare di rispettiva competenza (cfr. anche l’interpretazione dell’ANAC esposta nelle Linee Guida n. 6, punto 6.2).
La tecnica di redazione delle annotazioni assume notevole importanza, in quanto orienta le valutazioni delle stazioni appaltanti; sotto questo profilo, incombe alle imprese interessate l’onere di chiedere che gli episodi annotati siano cancellati o ridimensionati, in modo da prevenire contestazioni in sede di gara; tuttavia, la dimostrazione della correttezza professionale può comunque essere fornita nell’interlocuzione con le singole stazioni appaltanti, quando siano chiesti chiarimenti sugli episodi annotati
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulle cause di incompatibilità
11. Iniziando dagli ultimi due motivi di ricorso, focalizzati
sul difficile rapporto tra la ricorrente e il RUP, si ritiene che la segnalazione all’ANAC non sia equiparabile alla grave inimicizia da cui deriva l’obbligo di astensione. Nello svolgimento dei compiti riguardanti la conduzione delle procedure di gara e la gestione dei contratti di appalto è possibile che i singoli funzionari debbano assumere decisioni sfavorevoli a una determinata impresa, anche formulando valutazioni negative sul comportamento tenuto e sulla qualità del lavoro svolto.
Tuttavia, la contrapposizione dovuta alla differenza di ruoli è perfettamente normale, e necessaria in un’organizzazione pubblica ben funzionante. Sarebbe quindi poco ragionevole se ne derivasse ogni volta l’obbligo di astensione, con il rischio di arrivare dopo poco tempo al blocco dell’attività degli uffici per mancanza di funzionari non coinvolti in precedenza.
12. In questo quadro, i conflitti interpersonali sono tanto inevitabili quanto irrilevanti.
Nessun appaltatore può accettare con leggerezza dai funzionari pubblici osservazioni che mettano in dubbio la propria capacità o correttezza professionale, ma non è possibile legittimare attraverso l’enfatizzazione dello scontro polemico la creazione di cause di incompatibilità che non abbiano una base oggettiva in un reale conflitto di interessi.
L’eccesso di critica, come ogni altra forma di mancanza di correttezza, può avere rilievo tra i sintomi di sviamento del potere, ma non nella forma dell’incompatibilità e dell’obbligo di astensione.

13. Nello specifico,
il fatto che lo stesso funzionario, dopo aver segnalato all’ANAC il comportamento tenuto dalla ricorrente nello svolgimento dei lavori del centro sportivo, abbia assunto decisioni favorevoli alla stessa in ordine alla partecipazione ad altre gare e alla proroga di contratti in corso dimostra la mancanza di un animus persecutorio.
Non sarebbe però corretto dedurne che, se non vi è avversione preconcetta, subentrerebbe automaticamente una contraddizione, o un vizio di perplessità dell’azione amministrativa.
Il rilievo dei fatti segnalati, indipendentemente da chi li abbia segnalati, passa sempre per un approfondimento in concreto, che talvolta può giustificare decisioni di segno contrario rispetto ad altri appalti. Per chiarire questi profili è necessario affrontare i primi due motivi di ricorso, incentrati sulla segnalazione di un episodio specifico.

Sull’annotazione di illeciti professionali
14.
Le annotazioni di illeciti professionali nel Casellario Informatico ex art. 213, comma 10, del Dlgs. 50/2016 non hanno effetto automaticamente escludente, ma sono rimesse alle valutazioni delle singole stazioni appaltanti, che ne possono stabilire la gravità con riguardo al livello di affidabilità richiesto nelle gare di rispettiva competenza. Su questa frontiera si colloca anche l’interpretazione dell’ANAC esposta nelle Linee Guida n. 6 (punto 6.2).
15.
La tecnica di redazione delle annotazioni assume notevole importanza, in quanto orienta le valutazioni delle stazioni appaltanti. Sotto questo profilo, incombe alle imprese interessate l’onere di chiedere che gli episodi annotati siano cancellati o ridimensionati, in modo da prevenire contestazioni in sede di gara.
Tuttavia, la dimostrazione della correttezza professionale può comunque essere fornita nell’interlocuzione con le singole stazioni appaltanti, quando siano chiesti chiarimenti sugli episodi annotati.

16. Nello specifico, l’annotazione, oltre a contenere l’avvertimento circa l’assenza di automatici effetti escludenti, precisa correttamente che il recesso deciso dalla stazione appaltante dipende da una scelta autonoma, e dunque non deve essere messo in relazione con l’episodio segnalato.
Pertanto, non si è realizzata la fattispecie tipica descritta nell’art. 80, comma 5-c, del Dlgs. 50/2016 (ossia una carenza nell’esecuzione che abbia causato la risoluzione anticipata del contratto, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero all’origine di una condanna risarcitoria).
17. Rimane però la possibilità di qualificare l’episodio tra i gravi illeciti professionali sulla base di una valutazione discrezionale della stazione appaltante, che qui coincide con l’amministrazione segnalante. Il Comune dispone quindi di una perfetta conoscenza della situazione di fatto, e su questa deve basare le sue argomentazioni, senza potersi limitare a un semplice rinvio all’annotazione, che finirebbe per produrre una motivazione circolare.
Sulla rilevanza dell’episodio annotato
18. In concreto,
non sembra che l’episodio annotato possa configurare un grave illecito professionale. Indubbiamente, l’avvio anticipato dei lavori, con opere in cemento armato, quando in realtà era stato autorizzato solo l’approntamento del cantiere e non era ancora stato consegnato al RUP il progetto esecutivo, costituisce un inadempimento contrattuale.
Parimenti, non sembra giustificabile la resistenza manifestata nei confronti della sospensione dei lavori, circostanza che ha costretto il Comune a reiterare l’ordine di chiusura del cantiere. La stazione appaltante non ha però risolto il contratto in conseguenza di questi fatti, e ha anzi accettato i lavori, una volta che questi sono stati ripresi ed eseguiti.
È stata anche disposta la liquidazione del corrispettivo, con alcune riserve contabili che qui non rilevano. Lo stesso ritardo nella consegna del progetto esecutivo può essere ridimensionato, in quanto è rimasto contenuto in pochi giorni, e non vi sono poi state contestazioni sui calcoli strutturali.

19. In altri termini,
la gravità iniziale dell’inadempimento si è progressivamente stemperata, e alla fine è stata riassorbita in un’esecuzione utile del rapporto contrattuale. Pertanto, l’episodio annotato non è sufficiente da solo a sostenere un giudizio di inaffidabilità con effetti escludenti. Potrebbe invece rilevare in futuro, all’interno di una valutazione più ampia, qualora si sommasse ad altri episodi problematici nell’esecuzione di nuovi contratti.
Conclusioni
20. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento di esclusione.
21. L’effetto conformativo della pronuncia determina l’obbligo del Comune di riammettere definitivamente la ricorrente alla gara, procedendo poi ai restanti adempimenti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.03.2018 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZILa mini-gara non può premiare il radicamento territoriale dell’affidatario uscente.
Le stazioni appaltanti non possono utilizzare nelle procedure sottosoglia criteri fondati sul radicamento territoriale che favoriscano l'affidatario uscente, perché se combinati con il principio di rotazione determinano un'indebita posizione di rendita che contrasta con il principio di concorrenza.
I criteri contestati
Il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 21.03.2018 n. 320 è tornato sulle problematiche interpretative del principio definito dall'articolo 36 del Codice dei contratti pubblici, chiarendo che l'operatore economico che nell'anno precedente è risultato affidatario dello stesso servizio oggetto di una nuova mini-gara deve saltare il primo affidamento successivo, in ragione della posizione di vantaggio acquisita rispetto agli altri concorrenti.
L'interpretazione dei giudici amministrativi si configura come particolarmente rigorosa, in quanto rapportata a un caso nel quale alla deroga al principio di rotazione la stazione appaltante ha associato un criterio di valutazione delle offerte tale da valorizzare in modo rilevante i rapporti sussistenti con il territorio.
La procedure selettiva, infatti, è stata impostata prevedendo negli atti di gara un’ulteriore restrizione della platea dei concorrenti derivante dall'attribuzione all'offerta tecnica di rilevantissimi punteggi in ragione del radicamento costante degli operatori economici nel territorio della stazione appaltante, nonché dell'impiego nel servizio di personale proveniente dal contesto locale.
Restrizione illegittima
Questi criteri, fondati su preferenze legate a operatori del territorio, inficiano la gara fin dall'origine, in quanto comportano l'illegittima restrizione del principio di concorrenza, riducendo la platea dei soggetti potenzialmente interessati a un numero limitato di operatori economici. Il profilo è stato analizzato più volte dalla giurisprudenza e da interventi dell'Anac, ma nella sentenza del Tar Veneto viene evidenziato come gli aspetti discriminatori risultino potenziati dalla mancata applicazione della rotazione.
La combinazione tra la deroga all'applicazione del principio di rotazione e gli elementi di preferenza territoriale realizza infatti un'illegittima rendita anticoncorrenziale di posizione, in contrasto con i principi di libera concorrenza e di non discriminazione, e in violazione degli articoli 4, 30 e 36 del Dlgs 50/2016.
Le conseguenze operative
Le amministrazioni quindi devono evitare di introdurre nelle procedure selettive elementi di favore per l'operatore economico derivanti dalla sua relazione maturata con il territorio, che potrà essere fatta valere con criteri di valutazione finalizzati a far emergere le capacità di inserirsi in un sistema di rete (ad esempio sollecitando l'illustrazione di metodologie organizzative).
In questa prospettiva, la corretta applicazione del principio di rotazione evita che la posizione di rendita (ad es. in relazione alla disponibilità di informazioni derivante dalla gestione precedente del servizio) possa comportare un vantaggio nel confronto competitivo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.04.2018).

TRIBUTITasse, niente sanzioni per un giorno di ritardo.
La Ctr della Toscana ha stabilito che un ritardo di 24 ore non può avere intento elusivo e quindi il contribuente non deve essere punito.
Il ritardo di un solo giorno nel pagamento del tributo è sintomatico di assenza di intenzionalità e pertanto non può essere sanzionato.
Così ha stabilito la Ctr della Toscana con la sentenza 08.03.2018 n. 470/9/2018.
Evidenziano i giudici che un tale minimo ritardo non può inferirsi a una volontà elusiva, essendo determinata unicamente da mera occasionalità.
Appare dunque illogico che sia sanzionata una circostanza non sorretta dall'elemento psicologico doloso e rientrante in una mera colpa lievissima, a cui il contribuente ha posto rimedio nel più breve tempo possibile, senza concreto danno erariale. Nella specie, proposto ricorso davanti alla Ctp, questa lo rigettava, rilevando l'incontestato ritardo nel versamento. Proponeva quindi appello il contribuente, ribadendo la sua buona fede e l'irrilevanza del ritardo.
La Ctr riteneva l'appello fondato, evidenziando che il sistema tributario tiene ormai in conto il ravvedimento del contribuente, come testimoniato dalle norme che consentono di ritenere irrilevante il lieve inadempimento. Giova infatti osservare che, in presenza di errori o ritardi di «lieve» entità, l'errore scusabile è riconosciuto anche dalla stessa Agenzia, per esempio, in caso di tardivo o carente versamento della prima rata, o di quelle successive.
Tanto si desume dalla Circ. 02.08.2013, n. 27, in cui si valorizza l'istituto dell'errore scusabile in sede di acquiescenza all'avviso di accertamento e dalla circ. 19.03.2012, n. 9, in cui si legge che «Qualora le somme versate siano lievemente inferiori a quelle dovute per un errore del contribuente che, anche oltre il termine di legge, abbia successivamente sanato l'errore, l'Ufficio valuta l'opportunità di ritenere valido il pagamento Le stesse valutazioni possono essere effettuate nel caso di lieve ritardo nel versamento da parte del contribuente o di altre minime irregolarità.».
E infine bisogna tenere anche presente quanto disposto dal dlgs n. 159/2015 e dall'art. 15-ter del dpr n. 602/1973, secondo cui, in caso di «lieve inadempimento» e, specificatamente, in caso di tardivo versamento della prima rata non superiore a 7 giorni, il contribuente può evitare la decadenza della rateazione adottata e delle sanzioni ridotte al 10%
(articolo ItaliaOggi del 20.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Orbene, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà, sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico interesse.
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche, la controversia non rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero ribadito il principio affermato in giurisprudenza e condiviso secondo cui appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
---------------
Risultando indubbio il contenuto del provvedimento censurato, che non contesta alcun abuso di natura edilizia, ma rileva la difformità di quanto realizzato rispetto all’autorizzazione idraulica, il mancato rispetto delle distanze ed è stato determinato proprio da una segnalazione dell’Ufficio del Genio Civile che aveva rilevato la presenza di opere suscettibili di creare impedimenti al deflusso della acque lungo la valletta, alla stregua di tali principi il ricorso in esame, va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo affermarsi la competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, dinanzi al quale il processo potrà essere riassunto nei termini di rito.

---------------

Oggetto del ricorso in esame è il provvedimento con il quale l’amministrazione comunale di Nembro è intervenuta a sanzionare, mediante l’ordine di rimozione, una serie di opere consistenti nella realizzazione di recinzioni collocate lungo il tratto della valletta demaniale denominata Rio Lujo.
Dette opere risultano essere state realizzate in difformità rispetto a quanto prescritto dal Genio Civile di Bergamo in occasione del rilascio dell’autorizzazione, parzialmente in sanatoria, per quanto riguarda le recinzioni correnti lungo il corso della valletta in corrispondenza con i mappali di proprietà dei ricorrenti, non rispettando le distanze imposte dalla circolare adottata dal Servizio del Genio Civile in applicazione del disposto di cui all’art. 96 del R.D. 523/1904, insistendo su tale tratto della valletta così da costituire un pericolo per il normale deflusso delle acque, oltre a intercludere e occupare aree demaniali.
L’ordine di rimozione impartito dal Comune con i provvedimenti impugnati è conseguenza della espressa segnalazione effettuata dal Servizio di Vigilanza della Comunità Montana Valle Seriana che aveva rilevato la presenza di recinzioni ostruenti la valletta, nonché della comunicazione effettuata il 17.08.2000 dalla Direzione Generale del Genio Civile di Bergamo.
Ciò premesso, occorre considerare che, ai sensi dell’art. 143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche.
Orbene, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni, fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento (Cass., S.U., 12/05/2009, n. 10845; TAR Toscana, III, 06/04/2010, n. 938; TAR Campania, Napoli, VIII, 07/12/2009, n. 8602).
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma 1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà, sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico interesse (Cass., I, 11/01/2001, n. 315; Corte Costituzionale, 19/07/1996, n. 259).
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco delle acque pubbliche, la controversia non rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero, ribadito il principio affermato in giurisprudenza e condiviso dalla Sezione (cfr. Tar Piemonte, I, n. 427/2013), secondo cui appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (Cass. civ. Sez. Unite, 12.05.2009 n. 10845; Cons. Giustizia Amministrativa Sicilia 26.05.2010, n. 740; Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3781; TAR Lazio Roma, sez. II-quater 24.04.2012, n. 3740).
Risultando indubbio il contenuto del provvedimento censurato, che non contesta alcun abuso di natura edilizia, ma rileva la difformità di quanto realizzato rispetto all’autorizzazione idraulica, il mancato rispetto delle distanze ed è stato determinato proprio da una segnalazione dell’Ufficio del Genio Civile che aveva rilevato la presenza di opere suscettibili di creare impedimenti al deflusso della acque lungo la valletta, alla stregua di tali principi il ricorso in esame, va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo affermarsi la competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, dinanzi al quale il processo potrà essere riassunto nei termini di rito (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.12.2017 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASu di un’area esterna privata risultante di fatto e da sempre interessata dal pubblico passaggio consegue il formarsi, per dicatio ad patriam, di una servitù di pubblico passaggio, in quanto destinata senza soluzione di continuità alla libera circolazione pedonale da parte della comunità indifferenziata dei cittadini (uti cives).
---------------
In generale, va ricordato che l’istituto della dicatio ad patriam è notoriamente costituito dal comportamento del proprietario di un bene che mette spontaneamente e in modo univoco il bene medesimo a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 12.08.2002, n. 12167, nonché Cons. Stato, Sez. V, 24.05.2007, n. 2618 e 28.06.2004, n. 4778, tutte nel senso della necessità al riguardo dei requisiti inderogabili della volontarietà e della continuità, in assenza dei quali la giurisprudenza esclude tale modalità di costituzione della servitù di uso pubblico).
Ciò posto, va rilevato che, in assenza di atti formali costituitivi della servitù di uso pubblico, ogni altra circostanza –come ad esempio l'eventuale iscrizione di una strada nell'elenco delle vie gravate da uso pubblico o l’iscrizione, come nella specie, nell'inventario dei beni immobili del Comune- non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma pone una presunzione di pubblicità dell'uso che è superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte di coloro che sono al riguardo legittimati mediante un'azione negatoria di servitù.
Conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, quando consista nell’oggetto principale del giudizio, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che essa investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune medesimo; né diversamente accade per l'accertamento dei presupposti dell'anzidetto istituto della dicatio ad patriam, parimenti rientrante nell'ambito della giurisdizione del giudice ordinario.
Il giudice amministrativo, invece, ai sensi dell’art. 8 del Cod. proc. amm., può e deve risolvere la questione del carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché –come nella fattispecie- la sussistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada privata -eventualmente costituita anche mediante dicatio ad patriam- allorquando sia richiesto di risolverla non già come questione principale, sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via principale -e all'evidenza rientrante nella sua giurisdizione- concernente la legittimità di un provvedimento del tipo di quello qui impugnato.
---------------

2.6. Con il quarto motivo, lettera A, la ricorrente affronta la questione della natura giuridica dei luoghi in questione.
Parte ricorrente esclude l’esistenza di siffatta qualificazione pubblica dell’area, mentre Roma Capitale assume la natura pubblica dell’area esterna all’edificio vincolato, soggetta ab immemorabilia al pubblico passaggio e assoggettata alla regolamentazione comunale in materia di occupazione di suolo pubblico e Cosap. Roma capitale, inoltre, fa risalire la natura pubblica dell’area al Motu Proprio di Pio IX del 01.10.1947 e alla sua iscrizione nell’inventario dei beni demaniali.
Sul punto, il collegio non può che rinviare ai precedenti della Sezione, i quali hanno in più occasioni accertato che l’area esterna all’edificio risulta di fatto e da sempre interessata dal pubblico passaggio, contrariamente a quanto sostenuto dalla società, con conseguente formarsi, per dicatio ad patriam, di una servitù di pubblico passaggio, in quanto destinata senza soluzione di continuità alla libera circolazione pedonale da parte della comunità indifferenziata dei cittadini (uti cives).
L’area, in assenza di qualsivoglia ostacolo o chiusura volta a denotare una eventuale volontà del proprietario contraria all’utilizzo indifferenziato del bene ai fini della circolazione pedonale, consente invece da sempre il transito pedonale all’interno della stessa consistente nell’affaccio terrazzato sui resti del Foro di Traiano, come documentato dall’Amministrazione, costituente la prosecuzione del marciapiede di via del Foro di Traiano, area contigua alla sede stradale e destinata al transito pedonale, tale da determinare l’assoggettamento della stessa alla disciplina della D.C.C. n. 75 del 2010.
In generale, va ricordato che l’istituto della dicatio ad patriam è notoriamente costituito dal comportamento del proprietario di un bene che mette spontaneamente e in modo univoco il bene medesimo a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 12.08.2002, n. 12167, nonché Cons. Stato, Sez. V, 24.05.2007, n. 2618 e 28.06.2004, n. 4778, tutte nel senso della necessità al riguardo dei requisiti inderogabili della volontarietà e della continuità, in assenza dei quali la giurisprudenza esclude tale modalità di costituzione della servitù di uso pubblico).
Ciò posto, va rilevato che, in assenza di atti formali costituitivi della servitù di uso pubblico, ogni altra circostanza –come ad esempio l'eventuale iscrizione di una strada nell'elenco delle vie gravate da uso pubblico o l’iscrizione, come nella specie, nell'inventario dei beni immobili del Comune di Roma (matricola Ibu VBL 12589 del Libro A beni demaniali, come da nota prot. n. 18805 del 09.07.2009 del Dipartimento III/Politiche del Patrimonio)- non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma pone una presunzione di pubblicità dell'uso che è superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte di coloro che sono al riguardo legittimati mediante un'azione negatoria di servitù.
Conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, quando consista nell’oggetto principale del giudizio, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che essa investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune medesimo (cfr. Cass. Civ., SS.UU., 17.03.2010, n. 6406); né diversamente accade per l'accertamento dei presupposti dell'anzidetto istituto della dicatio ad patriam, parimenti rientrante nell'ambito della giurisdizione del giudice ordinario (cfr. sul punto Cass. Civ., SS.UU., 18.03.1999, n. 158).
Il giudice amministrativo, invece, ai sensi dell’art. 8 del Cod. proc. amm., può e deve risolvere la questione del carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché –come nella fattispecie- la sussistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada privata -eventualmente costituita anche mediante dicatio ad patriam- allorquando sia richiesto di risolverla non già come questione principale, sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come questione preliminare ad altra, ovvero alla questione, dedotta in via principale -e all'evidenza rientrante nella sua giurisdizione- concernente la legittimità di un provvedimento del tipo di quello qui impugnato (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 07.09.2006 n. 5209).
Orbene, dall'analisi della documentazione versata in atti non si rinvengono elementi di fatto sufficienti per escludere che sull’area de qua si sia formato il diritto di godimento (passaggio pubblico) a favore della collettività.
Gli elementi portati a supporto dei fatti affermati in ricorso dalla società -l’adiacenza dell’area allo stabile condominiale e la natura vincolata del palazzo; l’essere area priva di sbocchi e destinata alle esigenze del ristorante che, in base al Regolamento condominiale, può avere accesso solo dall’esterno e non anche dall’androne del Palazzo; il rilascio della concessione in sanatoria su alcuni abusi edilizi; lo status di negozio storico del ristorante– non sono sufficienti e idonei a comprovare il diritto del ristorante stesso ad occupare l’area ad esso prospiciente.
Assumono invece rilevanza il fatto notorio del pubblico passaggio sull’area e gli ulteriori indici di prova forniti dall’Amministrazione che dimostrano che l’area è stata di fatto messa a disposizione della collettività indifferenziata da sempre e che non ne è stato sottratto alla stessa il suo uso pubblico, comportando l'assunzione da parte del bene delle caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale, con conseguente assoggettamento alla disciplina in materia di Osp e di Cosap di cui alla regolamentazione comunale: proprio lo strumento della concessione Osp e del pagamento del canone consente di compensare la diminuzione dell’utilitas di passaggio (pur sempre consentito) subita dalla collettività per la presenza degli arredi collocati sull’area e sono atti che contemperano altresì i distinti interessi pubblici e privati convergenti nella stessa fattispecie (viabilità pedonale, tutela architettonica, libera attività imprenditoriale, esercizio del diritto di proprietà) .
Ne consegue, che l’impugnata determinazione si regge su congruenti presupposti di fatto, come accertati dalla Polizia locale, che hanno determinato la correttezza dell’adozione della stessa da parte dell’Amministrazione alla luce della normativa regolamentare in materia di occupazione di suolo pubblico e dell’art. 3, comma 16 della legge n. 94 del 2009 e delle conseguenti misure applicative, per cui deve escludersi la fondatezza dei rilievi in ordine ai rubricati vizi di eccesso di potere per difetto di istruttoria, insussistenza ed erroneità dei presupposti, contraddittorietà.
Ininfluente, inoltre, ai fini della questione della non abusività della occupazione di suolo pubblico è la circostanza che l’area in parola sia stata oggetto di domanda di concessione in sanatoria, nel 1986, con riferimento alla installazione del tendone in plastica e stoffa. Tale sanatoria infatti, che risulta in vero rilasciata ma che l’amministrazione ha dichiarato di voler annullare in via di autotutela in quanto costituente il risultato di un errore materiale, non può in alcun modo legittimare anche l’occupazione di suolo pubblico, per la quale occorre altro e specifico provvedimento.
Ugualmente, anche l’esistenza del riconoscimento di negozio storico non ha effetti sul piano della legittimazione della occupazione di suolo pubblico (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 17.03.2017 n. 3634 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI REGIONALIIl diritto di accesso di un consigliere regionale al verbale del Consiglio di amministrazione di una società controllata dalla Regione non può essere negato o condizionato, se ed in quanto la richiesta di accesso ha ad oggetto atti che possano essere d’utilità all’espletamento del mandato del consigliere, anche al fine di permettere di valutare a correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione.
Non può valere come limitazione di tale diritto la previsione, di cui all’art. 2422 Cod. civ., che attribuisce in modo esplicito ai soli soci il diritto di esaminare i libri delle deliberazioni assembleari.
---------------
Invero, il Collegio ritiene applicabili anche alla fattispecie di cui è causa i principi già elaborati dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento al diritto di accesso attribuito ai consiglieri comunali e provinciali dall’art. 43, comma 2, del T.U. Enti locali - d.lgs. n. 267/2000 (secondo cui: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla Legge”).
In particolare, la giurisprudenza ha chiarito che:
   - il diritto (soggettivo pubblico) codificato da tali disposizioni è direttamente funzionale non tanto ad un interesse personale del consigliere, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito;
   - i consiglieri hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri, pertanto, ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a chiunque sia portatore di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (cfr. gli art. 22 e ss. della l. n. 241 del 1990);
   - la finalizzazione dell’accesso all’espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l’accesso ed il fattore che ne delimita la portata; le disposizioni richiamate, infatti, collegano l’accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell’Ente;
   - a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto a motivare la richiesta, né l’Ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l’esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell’amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l’ambito del controllo sul proprio operato;
   - il diritto di avere dall’Ente tutte le informazioni che siano utili all’espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato all’osservanza del segreto;
   - gli unici limiti all’esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l’esercizio del diritto stesso avvenga in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici dell’Ente e che non si sostanzi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto di accesso dei consiglieri
---------------

1. La ricorrente, consigliere regionale della Regione Lombardia, ha presentato alla Giunta regionale istanza di accesso agli atti ai sensi dell’art. 112 del Regolamento generale del Consiglio regionale, volta ad acquisire, tra l’altro, copia del verbale della seduta del 17.03.2016 del Consiglio di Amministrazione di Arexpo S.p.A., società a partecipazione mista pubblico-privata (le cui quote di partecipazione, all’epoca dei fatti di causa, erano di proprietà della Regione Lombardia e del Comune di Milano, nell’eguale misura pari al 34,67%, nonché dell’Ente autonomo Fiera Internazionale di Milano, in misura pari al 27,66% e, per il restante 3%, della Città Metropolitana di Milano e del Comune di Rho).
L’interessata, avendo ricevuto dalla Regione soltanto copia del verbale in questione contenente “omissis” che, a suo dire, lo rendono illeggibile e incomprensibile, ha successivamente rivolto la stessa istanza –anche a seguito di indicazione in tal senso da parte della Regione- direttamente ad Arexpo S.p.A. Quest’ultima, tuttavia, ha negato l’accesso richiesto, ribadendo tale decisione pur dopo che l’interessata ha esperito ricorso, con esito favorevole, al Difensore regionale della Lombardia. Da ultimo, inoltre, Arexpo S.p.A. ha negato l’accesso anche al solo ordine del giorno del verbale di cui è causa, contenuto nella prima pagina dello stesso.
La ricorrente, quindi, con l’odierno ricorso (notificato anche alla Regione e al Difensore regionale, entrambi non costituiti) chiede:
   - che venga annullato il provvedimento di diniego e disposta l’ostensione della documentazione richiesta;
   - che sia accertato e dichiarato il diritto dell’interessata a ottenere copia integrale del verbale richiesto, comprensivo dell’ordine del giorno;
   - che sia ordinata ad Arexpo S.p.A. l’esibizione dei documenti in questione, mediante visione e/o estrazione di copia;
   - che Arexpo S.p.A. sia condannata alla rifusione delle spese del giudizio.
...
2.1.2.2. Ciò posto, risulta dirimente, ai fini della decisione, l’inequivoco tenore testuale delle disposizioni contenute nell’art. 13, comma 5, dello Statuto della Regione Lombardia e nell’art. 112, comma 1, del Regolamento generale del Consiglio regionale della Lombardia.
Il citato art. 13, comma 5, dello Statuto regionale stabilisce, infatti, che “I consiglieri, secondo le procedure stabilite dal regolamento generale, hanno diritto di esercitare l’iniziativa delle leggi e di ogni altro atto di competenza del Consiglio, di formulare interrogazioni, interpellanze e mozioni, di ottenere direttamente dagli uffici regionali, da istituzioni, enti, aziende o agenzie regionali, dalle società e fondazioni partecipate dalla Regione, informazioni e copia di atti e documenti utili all’esercizio del loro mandato sui quali sono tenuti al segreto nei casi previsti dalla legge”.
L’art. 112, comma 1, del Regolamento generale del Consiglio regionale della Lombardia, inoltre, dispone che “Ai sensi dell’art. 13, comma 5, dello Statuto i consiglieri regionali ottengono direttamente dagli uffici regionali, da istituzioni, enti, aziende o agenzie regionali, dalle società e fondazioni partecipate dalla Regione, informazioni e copia di atti e documenti utili all’esercizio del loro mandato, sui quali sono tenuti al segreto nei casi previsti dalla legge”.
Le norme richiamate, dunque, attribuiscono espressamente ai consiglieri regionali il diritto di accedere ad atti e documenti delle società partecipate dalla Regione –senza che possa attribuirsi alcun rilievo, nel silenzio della norma, all’entità di tale partecipazione– ritenuti utili all’esercizio del loro mandato.
2.1.2.3. Al riguardo, il Collegio ritiene applicabili anche alla fattispecie di cui è causa i principi già elaborati dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento al diritto di accesso attribuito ai consiglieri comunali e provinciali dall’art. 43, comma 2, del T.U. Enti locali - d.lgs. n. 267/2000 (secondo cui: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla Legge”).
In particolare, la giurisprudenza (C.d.S., Sez. V, n. 5879/2005) ha chiarito che:
   - il diritto (soggettivo pubblico) codificato da tali disposizioni è direttamente funzionale non tanto ad un interesse personale del consigliere, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito;
   - i consiglieri hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri, pertanto, ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a chiunque sia portatore di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (cfr. gli art. 22 e ss. della l. n. 241 del 1990);
   - la finalizzazione dell’accesso all’espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l’accesso ed il fattore che ne delimita la portata; le disposizioni richiamate, infatti, collegano l’accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell’Ente;
   - a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto a motivare la richiesta, né l’Ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l’esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell’amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l’ambito del controllo sul proprio operato (C.d.S., Sez. V, n. 528/1996; id., n. 940/2000, id., n. 5109/2000);
   - il diritto di avere dall’Ente tutte le informazioni che siano utili all’espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato all’osservanza del segreto (C.d.S., n. 940/2000, cit.; C.d.S., Sez. V, n. 2716/2004);
   - gli unici limiti all’esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l’esercizio del diritto stesso avvenga in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici dell’Ente e che non si sostanzi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto di accesso dei consiglieri (C.d.S., Sez. IV, n. 846/2013).
2.1.2.4. Sotto diverso profilo, non è condivisibile l’assunto di Arexpo S.p.A., secondo cui costituirebbero un limite normativo all’accesso dei consiglieri regionali le previsioni contenute nell’art. 2422 c.c. La norma in questione, infatti, si limita ad attribuire ai soci il “diritto di esaminare i libri indicati nel primo comma, numeri 1) e 3) dell’art. 2421 c.c.” (ossia il libro dei soci e il libro delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee), senza che da ciò possa desumersi un generale divieto che ad altri soggetti (nella specie i consiglieri regionali) venga attribuito da altre norme (nella specie dello Statuto regionale e del Regolamento generale del Consiglio regionale) il diritto di accedere ad altri atti societari (nella specie i verbali del consiglio di amministrazione della società).
2.1.2.5. Alla luce delle disposizioni e dei principi enunciati deve ritenersi sussistente il diritto di accesso della ricorrente all’ordine del giorno del verbale del 17.03.2016 del Consiglio di Amministrazione di Arexpo S.p.A.
2.2. Ciò considerato, il ricorso deve essere in parte dichiarato irricevibile e in parte accolto, con conseguente condanna della società Arexpo S.p.A. a rilasciare, mediante estrazione di copia, la documentazione richiesta dalla ricorrente con l’istanza in data 18 ottobre 2016 (TAR Lombardia-MIlano, Sez. I, sentenza 17.03.2017 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune.
Una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
---------------

Il ricorso è infondato e va respinto.
1. Il fabbricato di cui si discute, sito nel Comune di La Loggia tra la Strada ... n. 53 e la via ... n. 2, è stato edificato verso la fine degli anni ’80 dai ricorrenti Se.Si. e Ol.Br. su un’area a destinazione produttiva di loro proprietà, in forza della concessione edilizia n. 67/87.
La concessione edilizia, in conformità alla destinazione urbanistica dell’area, qualificata come area “PR4 Impianti Produttivi di Riordino”, aveva assentito l’edificazione di un fabbricato ad uso industriale composto, per ciò che rileva, da un ampio locale al pian terreno (primo fuori terra) da destinare ad “esposizione”, e da tre distinti locali al primo piano (secondo fuori terra) a servizio dell’attività industriale, da destinare rispettivamente ad abitazione del proprietario del fabbricato produttivo, ad abitazione del custode del fabbricato e ad ufficio dell’attività produttiva.
2. Gli accertamenti svolti dall’amministrazione comunale nel luglio del 2013 hanno rilevato -per ciò che attiene al presente giudizio– che l’appartamento al primo piano fuori terra, assentito come “uffici” del fabbricato produttivo, è stato alienato dai ricorrenti (con atto pubblico del 27.09.1991) ai signori Bu.Se. e Sa.Lo., che l’hanno acquistato come abitazione principale e dichiarando di volersi avvalere delle agevolazioni fiscali previste per la “prima casa”; la medesima destinazione è stata poi mantenuta anche in occasione del successivo atto di trasferimento, avvenuto nel 1998, dai signori Bu. e Sa. ai sig.ri Gi. e Qu., anche in tal caso senza alcun vincolo di servizio (uffici) con il fabbricato industriale; e lo stesso è avvenuto nel 2006 in occasione del terzo e ultimo trasferimento in favore degli attuali proprietari, sig. Ga.; peraltro, il cambio abusivo di destinazione d’uso da “industriale” a “residenziale indipendente” era già avvenuto in occasione del primo dei tre trasferimenti.
3. Considerato che l’immobile si colloca su un’area del territorio comunale che ha destinazione urbanistica “produttiva” e che la concessione edilizia n. 67/87 aveva assentito l’edificazione di un fabbricato interamente ed esclusivamente “ad uso industriale”, ne consegue che del tutto correttamente l’amministrazione ha ordinato il ripristino dell’originaria destinazione d’uso produttiva, qualificando l’intervento come ristrutturazione edilizia e applicando l’art. 33 del D.lgs. n. 380/2001.
4. Con i primi tre motivi, i ricorrenti sostengono che l’amministrazione non avrebbe potuto ordinare la riduzione in pristino, sul rilievo che:
   - il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie non sarebbe stato soggetto a concessione edilizia in base della disciplina vigente all’epoca delle vendite; così come non lo sarebbe attualmente, al di fuori del centro storico cittadino, in base alla disciplina del Testo Unico dell’Edilizia;
   - le opere interne accertate dall’amministrazione non costituirebbero ristrutturazione edilizia ma manutenzione ordinaria, non avendo determinato aumento di superficie e di volume, né modifica di parti strutturali;
   - non ci sarebbe stata alcuna modifica di destinazione d’uso rilevante dal punto di vista urbanistico, dal momento che la trasformazione da “uffici” a “residenziale indipendente” sarebbe avvenuta all’interno di una unità immobiliare di volumetria inferiore a 700 mc, ex art. 48 L.R. n. 56/1977, nel testo vigente nel 1991, che per tali mutamenti non richiedeva la concessione edilizia.
5. Osserva il collegio che le censure dei ricorrenti non possono essere condivise, dal momento che utilizzano argomenti non conferenti al caso di specie.
5.1. I principi richiamati dai ricorrenti si attagliano esclusivamente ad ipotesi di mutamenti funzionali di destinazione d’uso realizzati nel rispetto delle previsioni urbanistiche di zona, benché in assenza di un titolo abilitativo: sicché, in tali ipotesi, la sanzione pecuniaria punisce l’assenza del titolo, ma non legittima alcun abuso, anzi presuppone la compatibilità urbanistica anche della nuova destinazione d’uso. Nel caso di specie, invece, il fabbricato industriale assentito dall’amministrazione è stato in concreto adibito, in gran parte, ad un uso “residenziale” incompatibile con la destinazione “produttiva” dell’area urbanistica.
5.2. La tesi di parte ricorrente, portata alle sue estreme conseguenze, condurrebbe alla inaccettabile conclusione per cui chiunque, liberamente o pagando tuttalpiù una semplice sanzione pecuniaria, sarebbe legittimato a stravolgere le linee di pianificazione dettate dall’amministrazione, mutando a proprio piacimento la destinazione urbanistica di un determinato sito o di parte di esso.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I, 25.05.2012 n. 759; Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V, 28.05.2010, n. 3420; in senso analogo, anche la prima sezione di questo Tribunale nella sentenza n. 1110 del 19.10.2012).
In tale contesto, ritiene il collegio che l’intervento dell’amministrazione sia stato doveroso e conforme ai principi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.03.2017 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di riduzione in pristino costituisce misura ripristinatoria e non sanzione afflittiva, e dunque non soggiace al principio di irretroattività della legge, essendo volta essenzialmente e prioritariamente a ristabilire il preesistente assetto con l'eliminazione dell'opera abusivamente realizzata o dell’uso abusivamente modificato.
---------------
L’eventuale impossibilità giuridica o materiale di eseguire un provvedimento amministrativo attiene esclusivamente alla fase di esecuzione del provvedimento stesso, e quindi non può condurre al suo annullamento, non integrando un vizio di legittimità dell’atto.
Ma soprattutto, la notifica dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino al responsabile dell’abuso anche nel caso in cui questi abbia medio tempore perso la disponibilità giuridica e materiale del bene si giustifica alla luce di quanto previsto dall’art. 33, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, ultimo periodo secondo cui, in caso di inottemperanza dell’ordinanza di ripristino da parte dei “responsabili dell’abuso", l’ordinanza stessa “è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso”.
Ciò significa che, nel caso di specie, quand’anche i ricorrenti non dovessero riuscire ad eseguire l’ordinanza impugnata per l’opposizione degli attuali proprietari –peraltro destinatari anch’essi dello stesso provvedimento in qualità di proprietari, e in quanto tali tenuti per legge ad un obbligo di collaborazione– il provvedimento potrebbe essere eseguito direttamente dal Comune, addebitandone le spese ai ricorrenti.
---------------

6. Con il quarto motivo, i ricorrenti hanno lamentato la violazione del principio di irretroattività delle sanzioni amministrative, argomentando dal fatto che in base alla disciplina edilizia vigente alla data degli asseriti abusi, gli interventi di mera modifica funzionale della destinazione d’uso senza opere non erano sanzionabili con la demolizione, ma solo in forma pecuniaria.
Anche tale censura non può essere condivisa.
L’ordine di riduzione in pristino costituisce misura ripristinatoria e non sanzione afflittiva, e dunque non soggiace al principio di irretroattività della legge, essendo volta essenzialmente e prioritariamente a ristabilire il preesistente assetto con l'eliminazione dell'opera abusivamente realizzata o dell’uso abusivamente modificato.
In ogni caso, anche all’epoca dei contestati abusi era vigente –in quanto implicita nel sistema normativo– la sanzione ripristinatoria per il caso di mutamenti funzionali di destinazione d’uso realizzati in difformità dalla destinazione urbanistica delle aree interessate.
...
7.2. Infine, con il quinto motivo, i ricorrenti hanno lamentato l’impossibilità giuridica di adempiere al provvedimento impugnato, non avendo essi, allo stato, la disponibilità giuridica e materiale dell’alloggio in questione.
Anche quest’ultima censura non può essere condivisa.
Intanto, l’eventuale impossibilità giuridica o materiale di eseguire un provvedimento amministrativo attiene esclusivamente alla fase di esecuzione del provvedimento stesso, e quindi non può condurre al suo annullamento, non integrando un vizio di legittimità dell’atto.
Ma soprattutto, la notifica dell’ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino al responsabile dell’abuso anche nel caso in cui questi abbia medio tempore perso la disponibilità giuridica e materiale del bene si giustifica alla luce di quanto previsto dall’art. 33, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, ultimo periodo secondo cui, in caso di inottemperanza dell’ordinanza di ripristino da parte dei “responsabili dell’abuso", l’ordinanza stessa “è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso”.
Ciò significa che, nel caso di specie, quand’anche i ricorrenti non dovessero riuscire ad eseguire l’ordinanza impugnata per l’opposizione degli attuali proprietari –peraltro destinatari anch’essi dello stesso provvedimento in qualità di proprietari, e in quanto tali tenuti per legge ad un obbligo di collaborazione (TAR Toscana, sez. III, 13.02.2017, n. 234)– il provvedimento potrebbe essere eseguito direttamente dal Comune, addebitandone le spese ai ricorrenti (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.03.2017 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Non è pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi.
Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a ché il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale.
---------------
Per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del Comune è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata.
E ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
---------------

1.- Con ricorso notificato in data 20.07.2016 e depositato il 16.09.2016 Ez.Ve., Et.Ve., Ci.Ve., premesso di essere proprietari di un immobile ad uso abitativo sito in Giulianova Lido alla via ... n. 65, contraddistinto al catasto fabbricati del suddetto Comune al foglio 9, part. 513, sub 3, sub 5, sub 2, confinante, sul lato Nord, con il Parco degli Eucalipti, chiedono l’annullamento del provvedimento dirigenziale 10.03.2016, n. 9770, con il quale il Comune di Giulianova ha rilasciato a Ga.Ma. l’autorizzazione unica per la realizzazione, all’interno del Parco degli Eucalipti (Parco Franchi) di un chiosco da adibire ad attività di somministrazione di alimenti e bevande, su un’area rilasciata in concessione di mq 99,74, individuata in catasto al foglio 9, mappale 22, confinante con la proprietà dei ricorrenti.
Ad avviso dei ricorrenti il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per i seguenti motivi:
   I) violazione delle norme imperative di legge in materia di distanza tra gli edifici dal confine; eccesso di potere sotto vari profili;
   II) violazioni del regolamento comunale recante il piano chioschi;
   III) violazione della prescrizione normativa in materia di altezza massima dei chioschi;
   IV) contrasto tra l’atto di assegnazione del chiosco a Ga.Ma. del 20.05.2013, n. 667 e il successivo provvedimento di assegnazione del chiosco 20.01.2014, n. 14, con cui, in accoglimento dell’istanza dell’interessato, la localizzazione del chiosco era spostata sul limite est del parco, al confine con il lungomare;
   V) violazione di legge, violazione del p.r.g. comunale, in relazione alle prescrizioni imposte per la zona F4.
2.-Il Comune di Giulianova, costituitosi in giudizio per resistere al ricorso, ne chiede il rigetto affermando l’infondatezza del gravame nel merito.
...
6.- In via preliminare, il Comune eccepisce l’inammissibilità del ricorso, affermando che si verte in materia afferente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
L’eccezione è palesemente infondata.
Oggetto del ricorso è un provvedimento autorizzatorio, che incide sull’uso del territorio, sicché è proprio la riconducibilità della materia in questione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. f, c.p.a.) che radica e conferma la giurisdizione di questo giudice.
6.1.- Va pure confutata l’eccezione del Comune di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, sull’assunto che i ricorrenti non hanno partecipato alla procedura ad evidenza pubblica per l’assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l’installazione del chiosco nel Parco Franchi.
Per pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio. Non è pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi. Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a ché il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale (tra le tante: Consiglio di Stato sez. VI 21.03.2016 n. 1156; Consiglio di Stato sez. VI 09.05.2016 n. 1861).
7.- Passando all’esame del ricorso nel merito, con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 2.7.5, comma 4, delle N.T.A., che, per le zone F4 (aree per spazi pubblici attrezzati a parco), ove rientra il parco degli eucalipti, le destinazioni d’uso ammesse sono, tra le altre, “le attrezzature complementari e di supporto”, purché però la distanza di tali strutture dai confini sia pari almeno a 5 metri, requisito che, però, nel caso di specie non risulterebbe rispettato perché il basamento del chiosco, sporgente di un metro rispetto al limite della parete finestrata di nuova realizzazione, sarebbe posizionato ad una distanza di metri 4,18 (4,10 come risulta dalla perizia di parte dell’ing. Si.Ma.) rispetto al confine.
La parete finestrata del chiosco, invece, sarebbe collocata ad una distanza di metri 9,05 dell’edificio dei ricorrenti.
E’ inoltre dedotta la violazione dell’art. 9 del d.m. 1444/1968, riprodotto nelle N.T.A. (art. 1.6.4, comma 2) del Comune di Giulianova, che impone che gli edifici di nuova costruzione vadano costruiti ad una distanza di 10 metri.
7.1.- Il motivo è infondato.
La tesi di parte ricorrente muove dall’erroneo presupposto che la distanza minima dal confine andava calcolata con riferimento al limite esterno della pedana.
Invero, per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del Comune di Giulianova (art. 1.6.4 che a sua volta riferisce il computo della distanza alle “pareti finestrate”) è necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato sez. IV 31.03.2015 n. 1670; conferma TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014). E ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
7.1.1.- Nella specie, non potendo configurare il basamento come una “parete finestrata” il rispetto della distanza minima tra costruzioni andava quindi verificato non con riferimento alla piattaforma del chiosco, ma con riferimento alla parete del chiosco, rispetto alla quale, come si desume dallo schema grafico allegato alla stessa relazione tecnica di parte ricorrente redatta dall’ing. Si.Ma., era rispettata la distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate.
7.1.2.- Con riferimento alla violazione dell’art. 2.7.5, comma 4, delle N.T.A., che, per le zone F4 (aree per spazi pubblici attrezzati a parco), ove rientra il parco degli eucalipti secondo quanto risulta dalla relazione tecnica illustrativa del responsabile del procedimento del Comune di Giulianova redatta il 12.01.2015, le destinazioni d’uso ammesse sono, tra le altre, “le attrezzature complementari e di supporto”, purché però la distanza di tali strutture dai confini sia pari almeno a 5 metri.
Ora, dalle perizie di parte versata in atti è agevole rilevare la palese infondatezza della censura.
Sia dalla perizia di parte ricorrente redatta dall’ing. Ma., che calcola la distanza tra il chiosco e il confine in metri 5,10 sia dalla perizia dell’ing. Di.Va., depositata dal controinteressato, il quale, con l’ausilio di strumentazione satellitare, calcola la medesima distanza dal confine in metri 5,16, si desume che il chiosco è stato realizzato nel rispetto della distanza minima di 5 metri dal confine (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 23.02.2017 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine per impugnare un permesso di costruire decorre dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 cod. civ., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione.
---------------

Per costante giurisprudenza, il termine per impugnare un permesso di costruire decorre dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica (Cons. Stato, sez. IV, 05.01.2011, n. 18; Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Cons. Stato, sez. V, 18.09.1998, n. 1310; 30.03.1998 n. 381 e 14.01.1991, n. 11; sez. VI, 10.06.2003, n 3265; sez. VI, 14.03.2002, n. 1533; Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1022; TAR Napoli Campania sez. VII, 22.02.2012, n. 885; TAR Perugia Umbria sez. I, 02.02. 2012, n. 34).
In base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 cod. civ., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione (cfr. fra le tante Consiglio di Stato, sez. IV, 05/06/2013, n. 3101).
Nel caso di specie, né l’amministrazione comunale né la controinteressata hanno fornito la prova della piena conoscenza del titolo edilizio in data antecedente l’esercizio del diritto di accesso alla pratica edilizia, da parte della Im.Po. s.r.l., avvenuto in data 14.01.2013.
La data di rilascio del titolo non assume, invero, alcun rilievo; ugualmente, la mera conoscenza della circostanza che sia stata presentata una pratica edilizia non importa conoscenza del rilascio del titolo abilitativo e del suo contenuto.
Né l’amministrazione ha provato che la ricorrente abbia avuto conoscenza del permesso di costruire n. 47/2011 del 13.12.2012, per avere esercitato il diritto d’accesso in data antecedente il 14.01.2013: la sentenza di questo Tribunale n. 988 del 23.2.2012, con cui è stato accolto il ricorso proposto dalla Im.Po. s.r.l. per l’accesso alla pratica edilizia n. 47/2011, non può avere ordinato l’accesso ad un documento che la p.a. ha adottato il 13.12.2012 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.02.2014 n. 446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.08.2018

ã

Ci risiamo:
alla Consulta, nuovamente, la legge urbanistica della Lombardia!

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge della Regione Lombardia sulle aree che accolgono attrezzature religiose.
---------------
Religione – Edifici di culto – Lombardia - Apertura di alcuna attrezzatura religiosa – Art, 72, comma 1 e 2, l.reg. n. 12 del 2005 – Necessità del Piano delle attrezzature religiose – Violazione artt. 2, 3 e 19 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rimessa alla Corte costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost., la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, commi 1 e 2, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. c), l.reg. 03.02.2015, n. 2, nella parte in cui stabilisce che –in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del Piano delle attrezzature religiose– non sia consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera (1).
---------------
   (1) In particolare, il comma 1 dell’art. 72, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12 stabilisce che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'art. 70”. Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'art. 70”.
Dalla lettura di tali previsioni, ad avviso del Tar, discende che:
   - la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano comunale, costituente un atto separato facente parte del Piano dei Servizi (art. 72, comma 1), che a sua volta è l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio, deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del verde di connessione tra territorio rurale e quello edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e previste”, in base a quanto previsto dall’art. 9 della stessa l. reg. n. 12 del 2005;
   - in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è realizzabile (art. 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1), indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo l’ampia definizione di cui all’art. 71, comma 1, della legge regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter realizzare, al fine di professare collettivamente la propria religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del tutto privata.
Secondo il Tar tali previsioni sono di dubbia legittimità costituzionale in quanto preordinano una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature religiose”, in funzione delle “esigenze locali” –rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune– a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto (o anche di semplici attività culturali a connotazione religiosa).
A giudizio del Tar l’equivoco di fondo da cui muove l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente quali opere di urbanizzazione secondaria (art. 71, comma 2), da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il dimensionamento (art. 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla circostanza che tali attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a una più o meno estesa fruizione pubblica.
Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera architettura della disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune”, di cui all’art. 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’art. 72, di modo che tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa programmazione comunale.
E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero che si tratti di libere iniziative di enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.08.2018 n. 1939 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
1. L’Associazione Culturale Ma. ha impugnato la determinazione del Responsabile del Servizio lavori pubblici, territorio e ambiente del Comune di Castano Primo con la quale è stato annullato il permesso di costruire n. 17/2015, rilasciato alla stessa Associazione il 15.01.2016.
Ha, inoltre, censurato il rapporto della Polizia locale di Castano Primo del 09.11.2016, richiamato nel provvedimento di annullamento.
2. L’Associazione ricorrente è diretta, in base all’atto costitutivo e dallo statuto, a perseguire i seguenti scopi:
   “a) mantenere e valorizzare le tradizioni culturali e religiose dei Paesi d’origine dei Musulmani residenti nel territorio del Castanese, rafforzare il legame di fratellanza umana con i cittadini locali attraverso lo scambio culturale, la collaborazione sociale, la vicinanza civile all’interno di un quadro di rispetto e di integrazione, in accordo con i valori della Repubblica Italiana e nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti.
   b) far rivivere gli insegnamenti del Profeta (Sunna) e la Rivelazione Divina (Corano).
   c) promuovere una condotta morale che porti alla pratica del bene.
   d) organizzare e facilitare viaggi di studio e di pellegrinaggio (Mecca-Medina).
   e) organizzare e facilitare le procedure di sepoltura dei Musulmani anche presso il paese d’origine.
   f) organizzare corsi e manifestazioni o eventi per la promozione della cultura musulmana e le lingue e tradizioni del paese di origine degli associati
”.
Secondo quanto risulta agli atti del giudizio, con istanza depositata il 09.01.2013, l’Associazione ha chiesto al Comune di Castano Primo un “Parere preventivo all’esercizio dell’attività di culto” presso gli “immobili siti in Castano Primo, Via ... n. 1”. Nell’istanza si evidenziava, tra l’altro, che il complesso immobiliare era costituito “da n. 2 fabbricati a uso residenziale, n. 2 fabbricati a uso deposito, n. 1 fabbricato a uso autorimessa oltre ad area di pertinenza” e che tale complesso –che in caso di parere positivo sarebbe stato ristrutturato– ricadeva in zona urbanistica B 3.1 “residenziale di completamento edilizio del tessuto urbano consolidato”.
L’istanza è stata riscontrata dal Comune con la nota del 22.03.2013, con la quale è stato reso parere favorevole all’utilizzazione richiesta dall’Associazione, in considerazione della localizzazione degli immobili nella zona urbanistica B 3.1 “dove la destinazione principale è quella residenziale e le attrezzature culturali, che rientrano nella fattispecie dei “servizi alla persona” compatibili con la residenza, sono quindi ammissibili”.
Il Comune precisava, inoltre, che “Per poter utilizzare in tal senso gli immobili prescelti, è necessario pertanto inoltrare richiesta di idoneo titolo abilitativo tendente al mutamento della destinazione d’uso, adottando tutte le specifiche prescrizioni impartite dalla normativa vigente. Nella redazione dell’istanza, dovrà essere posta particolare attenzione al reperimento dei Posti Auto interni al lotto, nelle quantità previste all’art. 12 della N.T.A. del Piano delle Regole, inerenti la nuova destinazione d’uso (servizi alla persona). Dovranno essere inoltre computati e successivamente versati i contributi relativi agli Oneri di Urbanizzazione dovuti in relazione alla trasformazione dell’uso da “residenziale” a “servizi alla persona compatibili”, secondo le vigenti tariffe”.
Stante il parere preventivo favorevole del Comune, l’Associazione ha quindi dato corso, il 28.10.2013, all’acquisto del complesso immobiliare di Via ... n. 1.
L’Associazione ha poi ottenuto, il 24.07.2015, l’autorizzazione paesaggistica “per la realizzazione di ampliamento edificio esistente con cambio di destinazione d’uso da residenza a servizio alla persona”, e ha quindi domandato, il 20.08.2015, il permesso di costruire, che è stato effettivamente rilasciato il 15.01.2016.
A ciò è seguita, il 05.07.2016, la presentazione della comunicazione di inizio dei lavori.
E’ poi avvenuto che il Comune ha manifestato dubbi all’Associazione in ordine all’effettiva possibilità di destinare il complesso immobiliare di Via ... n. 1 all’esercizio del culto. Si sono, quindi, tenuti una serie di incontri con i rappresentanti dell’Associazione, la quale ha stabilito spontaneamente, in questa fase, di sospendere i lavori dal 13.10.2016, dandone comunicazione all’Amministrazione.
Gli approfondimenti svolti hanno, infine, condotto il Comune all’adozione del provvedimento del 13.03.2017, impugnato nel presente giudizio, con il quale è stato disposto l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire n. 17/2015 del 15.01.2016.
3. Le motivazioni della determinazione assunta dall’Amministrazione, illustrate nel corpo dell’atto, evidenziano, in particolare, che:
   - il Comune ha appurato che l’intervento edilizio è preordinato alla realizzazione di un’attrezzatura religiosa, ai sensi dell’articolo 71 della legge regionale 11.03.2005, n. 12, come si evince: dalle finalità dell’Associazione Culturale Ma.; dagli elementi architettonici, quali la nicchia orientata a Sud-Est (ossia in direzione della Mecca); dalla distribuzione interna dei locali, che sono formati da una sala principale al piano terra e da un blocco di servizi igienici al piano interrato, questi ultimi servizi chiaramente preordinati alle pratiche propedeutiche alle funzioni religiose del rito musulmano (si tratterebbe, in altri termini, delle vasche per le abluzioni rituali); dalle stesse dichiarazioni rese dall’Associazione nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, dalle quali risulta chiaramente la volontà di attuare la destinazione a luogo di culto;
   - la realizzazione di un tale intervento edilizio, diretto allo svolgimento non occasionale anche di attività di culto, ricade nella categoria urbanistica prevista dall’articolo 71, comma 1, lett. b) e c-bis), della legge regionale n. 12 del 2005; categoria per la cui attuazione è richiesta la preventiva approvazione del Piano delle attrezzature religiose di cui all’articolo 72, comma 1, della medesima legge regionale;
   - allo stato, il Comune di Castano Primo non è dotato di tale Piano, per cui il permesso di costruire è stato rilasciato “in assenza di un iter procedurale atto a garantire la trasparenza degli atti assunti attraverso meccanismi di partecipazione e consultazione della cittadinanza”;
   - “la situazione viabilistica dell’area di cui sopra, come emerge nel rapporto della Polizia locale del 09.11.2016, n. prot. 2269, non è idonea, né allo stato e neppure anche con le misure indicate nel rapporto stesso, a sopportare il carico di traffico e di posteggio indotto dall’affluenza di persone in relazione alla pratica del culto”;
   - l’annullamento del titolo edilizio “non risponde ad un mero ripristino della legalità formale violata, bensì ad un concreto interesse pubblico diretto ad impedire l’esercizio di un’attività di culto, per sua natura aperta ad un numero indeterminato di destinatari, in un’area inidonea per le sue ridotte dimensioni, inserita in una zona altamente residenziale, inadatta per le condizioni viabilistiche di contorno e per la carenza di parcheggio”;
   - i lavori sono stati sospesi dall’Associazione e “anche per tale ragione non può dirsi consolidato alcun affidamento in favore dell’Associazione Ma., consapevole dei profili di illegittimità del permesso di costruire esposti nel corso di incontri con i rappresentanti dell’Amministrazione comunale”.
4. Nel censurare il provvedimento comunale, la ricorrente ha allegato i seguenti motivi:
   I) violazione dell’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 e dell’articolo 11 delle disposizioni sulla legge in generale, nonché eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria e di motivazione; ciò in quanto il complesso immobiliare della ricorrente rientrerebbe tra le “attrezzature religiose esistenti” al 06.02.2015, ossia alla data in cui è entrata in vigore la legge regionale 03.02.2015, n. 2, che ha modificato la legge regionale n. 12 del 2005, introducendo il Piano delle attrezzature religiose; conseguentemente, la realizzazione dell’intervento oggetto del permesso di costruire non sarebbe subordinato all’approvazione dell’apposito Piano, ma beneficerebbe dell’esenzione dalla nuova disciplina, secondo quanto ora disposto dall’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005; in particolare, la natura di attrezzatura religiosa esistente deriverebbe dal fatto che l’Associazione Culturale Ma. sarebbe presente sul territorio di Castano Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la propria sede nel complesso di Via Friuli n. 1 dal 28.10.2013;
...
   IV) difetto di motivazione, violazione dei principi di proporzionalità e di non aggravamento, nonché contraddittorietà manifesta; ciò in quanto la legge regionale dovrebbe essere interpretata nel senso che la previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose dovrebbe essere richiesta soltanto per la realizzazione di strutture di grandi dimensioni, ma non anche per quelle di modesta entità, quale quella oggetto del permesso di costruire rilasciato in favore della ricorrente; il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, subordinando la realizzazione della destinazione richiesta al Piano delle attrezzature religiose, si porrebbe in contraddizione con le determinazioni precedentemente assunte dal Comune, con il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione e con il divieto di aggravamento del procedimento amministrativo; peraltro, la ricorrente avrebbe anche inutilmente rappresentato al Comune la propria disponibilità a incrementare le aree da destinare a parcheggio all’interno del lotto di proprietà; il provvedimento di annullamento sarebbe, perciò, immotivato, irragionevole e sproporzionato rispetto all’interesse pubblico al ripristino della legalità violata;
  
V) incostituzionalità dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005 e contrasto della disposizione regionale con la normativa europea; ciò in quanto il predetto comma 5, come sostituito dall’articolo 1 della legge regionale n. 2 del 2015, stabilirebbe la mera facoltà discrezionale dei Comuni, e non l’obbligo, di prevedere la realizzazione di edifici di culto attraverso l’apposito Piano delle attrezzature religiose; risulterebbero, quindi, violati gli articoli 2, 3, 8, 19, 20 e 117 della Costituzione, nonché con l’articolo 118, primo comma, della Costituzione; sarebbe violata anche la direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, comprendendo tra le libertà fondamentali il diritto alla libertà di associazione e il diritto all’accesso ai beni e ai servizi: in quest’ultimo ambito rientrerebbe l’edilizia religiosa, in quanto preordinata alla fornitura di un servizio;
...
5. Si è costituito il Comune di Castano Primo, insistendo per il rigetto del ricorso.
6. In esito alla camera di consiglio fissata per la trattazione cautelare della causa, la Sezione ha emesso l’ordinanza n. 780 del 20.06.2017, con la quale ha disposto la fissazione dell’udienza pubblica, ritenendo che il ricorso ponesse questioni di particolare complessità, da vagliare in sede di merito, anche in considerazione della possibilità di ravvisare profili di dubbio sulla compatibilità costituzionale delle previsioni dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, laddove dall’applicazione delle relative disposizioni deriva il divieto incondizionato di aprire nuovi luoghi di culto in assenza dell’apposito Piano delle attrezzature religiose approvato dal Comune.
7. All’udienza pubblica fissata la causa è stata, infine, trattenuta in decisione.
8.
Il Collegio anticipa sin d’ora di ritenere che tutti i motivi di ricorso siano infondati, a eccezione del quinto, la cui soluzione impone di sollevare innanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, sotto i profili e per le ragioni che si illustreranno più oltre.
9. La trattazione del ricorso richiede, peraltro, una breve premessa ricostruttiva della cornice normativa entro la quale si inquadra la presente controversia.
9.1 La legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III –composto dagli articoli 70-73 della legge– detta “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma 1, della legge regionale, “costituiscono opere di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla legge regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei Servizi –che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo del Territorio– dovesse specificamente individuare, dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono attrezzature religiose, o che sono destinate alle attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare, negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune (...), ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali, il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione di attrezzature religiose di interesse sovracomunale (articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti interessati, questa doveva essere operata “in base alla consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici generali e specificamente destinate ad attrezzature per interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni relative alle modalità di finanziamento della realizzazione di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a seguito dell’entrata in vigore della legge regionale 03.02.2015, n. 2; modifiche che –si anticipa sin d’ora– sono state in parte colpite da una dichiarazione di incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in tema di individuazione degli enti delle confessioni religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti, individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa ai sensi dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di intesa, in presenza di determinati requisiti specifici (articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta regionale, nominata con provvedimento della Giunta regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo 70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70” (articolo 72, comma 1). Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7), consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett. a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse confessioni religiose, sulla base delle distanze minime stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".”, ossia la stessa legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto:
   - l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di accedere alla possibilità di realizzare attrezzature religiose;
   - l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle questioni con le quali si prospettava la violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
   - all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale, ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la predisposizione del Piano delle attrezzature religiose, venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
   - all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato –in quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale– l’architettura del sistema prefigurato dalla legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul territorio delle attrezzature religiose e, in particolare, la necessaria subordinazione della realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro evocato –ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione– la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.
10. Premessa questa ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, può passarsi all’esame delle questioni prospettate con il ricorso.
11. Come detto, il Comune di Castano Primo ha annullato in autotutela il permesso di costruire rilasciato in favore dell’Associazione Culturale Ma., riscontrando che le opere assentite consistevano nella realizzazione di un edificio destinato al culto e che il titolo edilizio era stato emesso, tuttavia, senza procedere preventivamente all’approvazione dell’apposito Piano delle attrezzature religiose, prescritto dall’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificato dalla legge regionale n. 2 del 2015.
12. Con il primo motivo, la ricorrente ha contestato la sussistenza stessa del predetto profilo di illegittimità del permesso di costruire. In particolare, l’Associazione ha richiamato l’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle attrezzature religiose esistenti alla entrata in vigore della legge recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".”, ossia la legge n. 2 del 2015, entrata in vigore il 06.02.2015.
12.1 Secondo la ricorrente, la destinazione ad attrezzature religiose dell’edificio di Via ... n. 1 sarebbe stata attuata precedentemente all’entrata in vigore della legge ora richiamata, poiché l’Associazione sarebbe presente sul territorio di Castano Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la propria sede nel complesso di Via ...i n. 1 dal 28.10.2013. Inoltre, la destinazione dei locali a sede dell’Associazione, fin da epoca precedente all’intervento di ristrutturazione, risulterebbe anche dalle tavole allegate alla domanda di rilascio del permesso di costruire, sulle quali nulla l’Amministrazione avrebbe obiettato.
Conseguentemente, tale destinazione, in quanto preesistente, rientrerebbe tra quelle escluse dall’ambito di applicazione della legge regionale sopravvenuta.
12.2 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che,
nel fare salve le “attrezzature religiose esistenti”, l’articolo 72, comma 8, della legge regionale n. 12 del 2005 non può aver avuto riguardo se non alle strutture giuridicamente esistenti con la predetta destinazione, e non anche agli immobili destinati ad attività di culto in via di mero fatto e senza un apposito titolo.
E ciò tanto più tenuto conto che, sin da prima della novella del 2015, la legge regionale n. 12 del 2005 reca un’apposita previsione secondo la quale “I mutamenti di destinazione d'uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire” (così l’articolo 52, comma 3-bis, aggiunto dall’articolo 1, comma 1, lett. m) della legge regionale 14.07.2006, n. 12).

12.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, è incontroverso che la modifica della destinazione del complesso immobiliare di Via ... n. 1 sia avvenuta giuridicamente solo a seguito del permesso di costruire n. 17/2015 del 15.01.2016. Ne deriva che, a prescindere dall’eventuale utilizzazione di fatto dei fabbricati, tale destinazione non può essere ritenuta preesistente al 06.02.2015.
12.4 Da ciò il rigetto della censura.
...
14. Vanno quindi esaminate, per ragioni di ordine logico, le censure prospettate nella prima parte del quarto motivo di impugnazione, laddove l’Associazione ricorrente contesta ancora, sotto altro profilo, la sussistenza del vizio di legittimità del permesso di costruire riscontrato dal Comune.
14.1 La ricorrente sostiene, in particolare, che l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005 andrebbe interpretato nel senso che la previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose sarebbe richiesta solo per le strutture di grandi dimensioni, ma non anche per quelle di modesta entità, quale la sede dell’Associazione Culturale Ma..
14.2 L’interpretazione proposta dalla ricorrente non può, tuttavia, essere accolta, in quanto si pone in contrasto con il chiaro e inequivocabile tenore della legge.
L’articolo 72, infatti, si riferisce alle “attrezzature religiose”, senza alcuna specificazione ulteriore, e il comma 2 del predetto articolo afferma espressamente –come sopra detto– che l’installazione di nuove attrezzature religiose “presuppone” l’apposito Piano e che “senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzature religiosa da confessioni di cui all’articolo 70”.
La lettera della legge non lascia dubbi, perciò, in ordine alla concreta portata delle sue previsioni, le quali sono inequivocabilmente dirette a stabilire un divieto rivolto indiscriminatamente nei confronti di qualsivoglia “attrezzatura religiosa”, che si tratti di un luogo di culto destinato ad attirare grandi flussi di fedeli o di una modesta sala di preghiera.

14.3 In questo senso, le censure di violazione dei principi di proporzionalità, di non aggravamento del procedimento amministrativo e di buon andamento dell’Amministrazione non colgono nel segno, poiché il provvedimento assunto dal Comune risulta fondato sull’unica interpretazione consentita della legge regionale.
Tali considerazioni assumono invece rilievo, come meglio si dirà nel prosieguo, al fine di corroborare i dubbi che il Collegio nutre in ordine alla legittimità costituzionale delle disposizioni contenute all’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nei sensi di cui si dirà più oltre.
15. Alla luce delle censure sin qui scrutinate, il provvedimento di autotutela assunto dal Comune risulta, dunque, correttamente fondato sul presupposto dell’illegittimità del permesso di costruire n. 17/2015, poiché è effettivamente riscontrabile un contrasto del titolo edilizio con le previsioni di legge regionale più volte richiamate.
...
18. Fin qui, tutti i motivi di ricorso trattati, a giudizio del Collegio, non meritano accoglimento.
Rimane, tuttavia, da scrutinare il quinto motivo, con il quale l’Associazione ricorrente lamenta l’illegittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nonché il contrasto della stessa previsione con la direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000 (“Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”).
18.1 Al riguardo, deve anzitutto escludersi che possa ravvisarsi un profilo di incompatibilità della disciplina normativa con la direttiva ora richiamata.
In disparte ogni altra considerazione, deve infatti osservarsi che il campo di applicazione della direttiva è limitato agli ambiti indicati all’articolo 3.
Secondo la ricorrente, l’edilizia religiosa sarebbe preordinata alla fornitura di un “servizio”. Con tale affermazione, la parte implicitamente richiama la fattispecie di cui al comma 1, lett. h), del suddetto articolo 3, ove si afferma che la direttiva si applica “all'accesso a beni e servizi che sono a disposizione del pubblico e alla loro fornitura, incluso l'alloggio”.
Il riferimento, tuttavia, non è da ritenere pertinente, atteso che lo stesso articolo 3 reca disposizioni operanti “Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità”, e quindi trova applicazione con riferimento alla sola dimensione del mercato unico europeo; dimensione che non presenta alcuna attinenza con l’esercizio delle libertà religiose. In questa prospettiva, il termine “servizi”, contenuto nella locuzione sopra riportata, va perciò inteso in senso strettamente economico e non può, conseguentemente, includere l’edilizia religiosa, né comunque le condizioni per l’esercizio di un culto.
Ne deriva che non si pone neppure il problema di verificare l’effettiva compatibilità della disciplina di legge regionale con la direttiva, questione peraltro dedotta dalla ricorrente in termini del tutto generici e apodittici.
18.2 Il Collegio ritiene, invece, di dover condividere i dubbi sulla legittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nei sensi e nei limiti che si esporranno di seguito, e di dover quindi rimettere la soluzione delle relative questioni alla Corte costituzionale.
18.3 Va, conseguentemente, rinviata all’esito del giudizio della Corte anche la domanda di risarcimento del danno, pure proposta dall’Associazione ricorrente.
19.
Il Collegio dubita, in particolare, della compatibilità dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione.
20. In punto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, il Collegio evidenzia che sono stati trattati e ritenuti non meritevoli di accoglimento tutti i motivi di impugnazione proposti dalla parte, a eccezione del tema della legittimità costituzionale delle previsioni di legge regionale applicate dal Comune.
Conseguentemente, la decisione della causa dipende esclusivamente dalla soluzione della questione attinente alla legittimità costituzionale delle previsioni dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, sulla cui base è stato assunto il provvedimento di autotutela censurato nel presente giudizio.
Il suddetto motivo di censura è rilevante, atteso che le ragioni di interesse pubblico all’annullamento, che –come sopra illustrato– il Comune ha indicato nel provvedimento impugnato non sono da sole sufficienti a sorreggere l’eliminazione del permesso di costruire già rilasciato in favore della ricorrente. L’esercizio del potere di autotutela richiede, infatti, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, anzitutto l’illegittimità del provvedimento annullato. E, come detto, l’accertamento di tale profilo riposa esclusivamente nella soluzione delle questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti della legge regionale.
Da tali questioni dipende, perciò, l’esito del giudizio.
21. Sempre in punto di rilevanza, il Collegio deve prendere in considerazione la portata della legge regionale 25.01.2018, n. 5, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 –dedicato alla “Abrogazione di leggi”– la previsione secondo la quale “A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o restano abrogate: ...b) le seguenti leggi o disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale... 69) L.R. 03.02.2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge regionale n. 2 del 2015, che –come più volte ripetuto– ha novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendono rimettere alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso di costruire annullato, e anche al tempo della determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata, infatti, di mero riordino legislativo, come risulta chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del 2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento normativo, si enuncia che “La presente legge opera interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica dell'ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli effetti secondo quanto previsto dall'articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi intervenute successivamente. Trova inoltre applicazione, per le leggi di cui all'articolo 3, anche quanto previsto dall'articolo 24, comma 2, della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi enumerate –tra le quali la legge n. 2 del 2015– intese esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli” delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli” che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale al corpus legislativo regionale.
21.3 Deve, perciò, confermarsi la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si passa a esporre.
22. Come detto, il Collegio dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale n. 12 del 2015, come modificata dalla legge regionale n. 2 del 2015.
22.1 In particolare,
il comma 1 dell’articolo 72 stabilisce che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all'articolo 70”.
Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all'articolo 70”.

22.2
Dalla lettura di tali previsioni, discende che:
   - la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano comunale, costituente un atto separato facente parte del Piano dei Servizi (articolo 72, comma 1), che a sua volta è l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio, deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del verde di connessione tra territorio rurale e quello edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e previste”, in base a quanto previsto dall’articolo 9 della stessa legge regionale n. 12 del 2005;
   - in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è realizzabile (articolo 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1), indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo l’ampia definizione di cui all’articolo 71, comma 1, della legge regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter realizzare, al fine di professare collettivamente la propria religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del tutto privata.

22.3 Secondo l’avviso del Collegio,
le suddette previsioni sono di dubbia legittimità costituzionale, come meglio si dirà nel prosieguo, in quanto preordinano una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature religiose”, in funzione delle “esigenze locali” –rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune– a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto (o anche di semplici attività culturali a connotazione religiosa).
22.4 Va, invece, evidenziato che non è specificamente rilevante nel presente giudizio l’eventuale illegittimità costituzionale del comma 5 dello stesso articolo 72, ove si stabilisce che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi". Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT”.
La suddetta disposizione potrebbe apparire di dubbia legittimità costituzionale, laddove indica come meramente facoltativa l’adozione del Piano delle attrezzature religiose entro il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, stabilendo che, superato tale termine, all’approvazione del Piano si provveda soltanto in occasione della nuova pianificazione comunale.
Nella presente controversia si fa questione, tuttavia, dell’annullamento in autotutela di un permesso di costruire rilasciato prima del decorso del termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, ossia in un momento in cui il Comune di Castano Primo sarebbe stato ancora in termini per sospendere l’iter di rilascio del titolo edilizio e adottare il Piano deputato all’inserimento sul territorio di nuove attrezzature religiose. Non è perciò idonea a influire sull’esito del giudizio la specifica questione attinente all’obbligatorietà o facoltatività del suddetto piano e alle conseguenze della sua mancata adozione entro il predetto termine di diciotto mesi.
Anche laddove il Piano fosse stato obbligatorio, infatti, il Comune sarebbe stato in tempo per adottarlo e, quindi, il permesso di costruire rilasciato prima dei diciotto mesi sarebbe comunque illegittimo.
23. Così perimetrato l’ambito delle questioni rilevanti, in relazione alla portata delle disposizioni regionali che si sottopongono allo scrutinio della Corte costituzionale, deve passarsi a illustrare compiutamente le ragioni per le quali si ritengono tali questioni non manifestamente infondate.
23.1 A giudizio del Collegio, l’equivoco di fondo da cui muove l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente quali opere di urbanizzazione secondaria (articolo 71, comma 2), da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il dimensionamento (articolo 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla circostanza che tali attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a una più o meno estesa fruizione pubblica.
23.2 Che sia così, e che nessun’altra interpretazione della legge regionale sia consentita, in base alla lettera e alla ratio delle previsioni di legge, si evince chiaramente dalla circostanza che l’articolo 71, comma 1, riferendosi alle “attrezzature religiose di interesse comune”, include tra tali attrezzature tutti gli edifici aventi una determinata destinazione urbanistica –edifici di culto, abitazioni di ministri di culto, attività di formazione religiosa, sedi di associazioni culturali connotate da finalità religiose– a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere e dalla loro specifica preordinazione al fine di assicurare la richiesta dotazione di opere di urbanizzazione secondaria in favore di un dato insediamento.
E tale necessaria lettura della legge regionale è ulteriormente comprovata dalla circostanza che tale previsione si salda con quella dell’articolo 72, comma 2, laddove, nell’introdurre il nuovo Piano delle attrezzature religiose, si stabilisce che “nessuna nuova attrezzatura religiosa” possa essere installata in assenza del Piano.
Infine, l’interpretazione ora evidenziata, oltre a essere l’unica compatibile con la lettera e con la ratio della legge regionale, è anche quella accolta nella prassi amministrativa, fondata sulla circolare regionale 20.02.2017, n. 3 (“Indirizzi per l’applicazione della legge regionale 03.02.2015, n. 2 «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»”, pubblicata sul BURL, Supplemento ordinario, 22.02.2017, n. 8).
23.3 Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera architettura della disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune”, di cui all’articolo 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’articolo 72, di modo che tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa programmazione comunale. E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero che si tratti di libere iniziative di enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente.
24.
Il Collegio è dell’avviso che tale impostazione collida anzitutto con l’articolo 19 della Costituzione.
24.1 Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, “Con l'art. 19 il legislatore costituente riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, col solo e ben comprensibile, limite che il culto non si estrinsechi in riti contrari al buon costume. La formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l'apertura di templi ed oratori e la nomina dei relativi ministri.” (sentenza n. 59 del 1958).
Proprio con riferimento alla legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005, come modificata dalla legge regionale n. 2 del 2015, la Corte ha poi ribadito il proprio costante insegnamento, evidenziando che “Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione” e che “L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume.” (sentenza n. 63 del 2016).
24.2 Ciò posto, non si intende ovviamente negare –né si dubita– che la Regione, nell’esercizio della propria potestà legislativa in materia di “governo del territorio”, attribuitale dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, possa dettare una disciplina legislativa specificamente dedicata all’inserimento urbanistico delle attrezzature religiose e degli edifici di culto. Questo aspetto è stato affermato dalla Corte, tra l’altro, nella richiamata sentenza n. 63 del 2016.
La Corte ha, tuttavia, rimarcato che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto “trova la sua ragione e giustificazione –propria della materia urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993, richiamata dalla sentenza n. 63 del 2016) e che “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3 Come detto, l’articolo 72, commi 1, 2 e 5 della legge regionale n. 12 del 2005 istituiscono un sistema nel quale le attrezzature religiose di qualsivoglia natura, inclusi i luoghi di culto, devono essere necessariamente realizzati nelle aree e negli immobili stabiliti dal Comune, al quale spetta, per questa via, ogni discrezionalità in ordine all’apertura di luoghi di culto, pubblici o privati, sul proprio territorio.
Deve, inoltre, ricordarsi che, in base al comma 1 dell’articolo 72, il dimensionamento e la disciplina di tali attrezzature sono stabilite dal Comune “sulla base delle esigenze locali”. Locuzione, questa, su cui anche la Corte ha richiamato l’attenzione, nella sentenza n. 63 del 2016, pur evidenziando che la previsione del comma 1 dell’articolo 72 non era stata sottoposta al suo sindacato.
24.3.1 Ora, l’impostazione seguita dal legislatore regionale non porrebbe dubbi di compatibilità con l’articolo 19 della Costituzione, ad avviso del Collegio, se il Piano delle attrezzature religiose intervenisse al solo scopo di censire le attrezzature esistenti aperte al pubblico, verificare il fabbisogno di ulteriori attrezzature, e provvedere conseguentemente.
In questi termini, la previsione sarebbe effettivamente ragionevole e funzionale allo scopo di assicurare l’adeguata dotazione di edifici di culto a servizio degli insediamenti residenziali, che è compito propriamente rientrante tra quelli demandati al Piano dei Servizi. In questa prospettiva, sarebbe anche ragionevole il dimensionamento delle attrezzature religiose in base alle esigenze riscontrate localmente. La stessa Corte costituzionale ha, infatti, affermato che, “come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo”, nella ponderazione rimessa al Comune “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3.2 La disciplina regionale, tuttavia, si spinge oltre tale obiettivo, stabilendo che –in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del Piano delle attrezzature religiose– non sia consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera.
Per questa via, si determina un ostacolo di fatto al libero esercizio del culto, poiché la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume –garantita dalla Costituzione– viene a essere subordinata alla pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico.
Ciò, secondo l’avviso del Collegio, determina un’indebita limitazione della libertà di religione, perché:
   - è fisiologico che la programmazione comunale intervenga necessariamente con cadenze periodiche pluriennali (quelle tipiche della pianificazione); circostanza, questa, che di per sé determina un differimento nella possibilità di soddisfare le esigenze di culto della collettività;
   - come detto, il Piano dei Servizi è deputato a operare il dimensionamento delle attrezzature religiose, in base alla situazione del contesto, e non garantisce la previsione di luoghi di culto per tutti gli enti di confessioni religiose o per le singole comunità di fedeli.
Tuttavia, la libertà di esercizio collettivo del culto, assicurata dall’articolo 19 della Costituzione, non può risentire in termini così stringenti della programmazione urbanistica, né è assicurata soltanto ai culti dotati di una determinata rappresentatività in ambito locale. Al contrario, la Costituzione garantisce l’esercizio pubblico del culto, con il solo limite del rispetto del buon costume, anche una comunità composta da pochi fedeli (come nel caso oggetto del presente giudizio, ove si fa questione della sede di un’Associazione religiosa cui aderiscono circa sessanta famiglie).
25. Né potrebbe ritenersi che le limitazioni all’apertura di luoghi di culto stabilite dalla legge regionale siano sorrette adeguatamente dallo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose.
A giudizio del Collegio, le previsioni normative sopra richiamate appaiono, infatti, eccedenti rispetto allo scopo, in modo tale da far emergere anche la violazione dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione posti dall’articolo 3 della Costituzione.
25.1 Deve, infatti, tenersi presente che il comma 7 dell’articolo 72 ha stabilito quali caratteristiche costruttive debbano avere le attrezzature religiose e quali dotazioni aggiuntive di parcheggi debbano essere assicurate, in proporzione alle dimensioni della struttura (v. lett. d).
A ciò deve aggiungersi che, in linea di principio, gli edifici religiosi sono funzionali all’insediamento abitativo e, quindi, dovrebbero essere in linea di massima realizzabili negli ambiti urbani ove è previsto l’insediamento della funzione residenziale, o in ambiti prossimi, ferma restando la potestà del Comune di stabilire limitazioni, anche in funzione delle dimensioni della struttura, tenuto conto del contesto locale, nei suoi diversi aspetti (viabilità, parcheggi, e via dicendo).
Tutte le previsioni costruttive e di inserimento urbanistico delle attrezzature religiose ben possono, tuttavia –sulla base delle indicazioni contenute nella legge regionale– trovare adeguata previsione nelle ordinarie prescrizioni degli strumenti urbanistici. E ciò tenuto conto anche della circostanza che l’apertura di un edificio di culto, da un punto di vista di assetto del territorio, appare non differire sensibilmente dalla realizzazione di altri luoghi di aggregazione sociale, quali palestre, case di cura, scuole, centri culturali non aventi finalità religiose, e simili. Per tali diverse strutture non è, tuttavia, stabilita un’analoga rigida programmazione comunale.
In termini più espliciti, si evidenzia che la natura di “opere di urbanizzazione secondaria” è comune –ad esempio– alle scuole. Anche per le scuole la relativa dotazione minima deve essere prevista nel Piano dei Servizi. Ciò, tuttavia, non preclude ai privati la possibilità di aprire liberamente ulteriori scuole e istituti d’istruzione privati, nell’esercizio della libertà costituzionale di insegnamento, purché nel rispetto di tutte le previsioni di piano atte ad assicurare il corretto inserimento di tali strutture nel contesto urbanistico. Non è, invece, previsto che i privati debbano attendere, a tal fine, l’approvazione di un apposito Piano, volto a dimensionare, canalizzare e predeterminare completamente e rigidamente la localizzazione delle scuole e, per questa via, il contenuto dell’intera offerta scolastica sul territorio comunale, persino laddove si tratti dell’apertura di un corso limitato a poche decine o a qualche centinaio di iscritti.
Il differente trattamento riservato, sotto questo profilo, alle attrezzature religiose appare, perciò, del tutto ingiustificato e discriminatorio, rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, potenzialmente idonee a generare un impatto analogo, o persino maggiore, nel contesto urbanistico. E tale trattamento è tanto più sperequato, ove si consideri che la legge regionale n. 12 del 2005 è informata, in linea di massima, al principio del favor verso il libero insediamento delle destinazioni d’uso compatibili con la destinazione di zona, salve le esclusioni stabilite dallo strumento urbanistico (cfr. articoli 51 e 10, comma 3, lett. f), della legge regionale n. 12 del 2005).
25.2 In definitiva, secondo l’avviso del Collegio,
l’avocazione al Comune dell’integrale programmazione della localizzazione e del dimensionamento delle attrezzature religiose finisce per eccedere gli scopi propri della disciplina dell’assetto del territorio comunale, producendo, di fatto, effetti simili all’autorizzazione governativa all’apertura dei luoghi di culto, prevista dall'articolo 1 del regio decreto 28.02.1930, n. 289, già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 59 del 1958.
26.
La violazione degli articoli 3 e 19 della Costituzione, sotto i profili ora detti, ridonda anche nella lesione dei diritti inviolabili della persona, tutelati dall’articolo 2 della Costituzione (v. Corte cost., sentenza n. 195 del 1993), stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva.
27. Per tutte le ragioni esposte,
questo Tribunale ritiene rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sopra illustrate.
Va, conseguentemente, disposta la sospensione del giudizio e la rimessione delle predette questioni alla Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 23 della legge 11.03.1953, n. 87.
Deve essere rinviata, infine, all’esito della pronuncia della Corte anche la trattazione della domanda di risarcimento del danno, come sopra detto, nonché la decisione in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
   - respinge in parte il ricorso, limitatamente a quanto indicato in motivazione;
  
- rimette alla Corte costituzionale le questioni di legittimità costituzionale illustrate in motivazione, relative all’articolo 72, commi 1 e 2, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
   - dispone, conseguentemente, la sospensione del giudizio;
   - riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in ordine agli ulteriori profili, nonché in ordine alla regolazione delle spese del giudizio.

 

Se un fabbricato è paesaggisticamente vincolato laddove:
   ● il P.R.G./P.G.T., sostanzialmente, dispone che “non sono ammesse demolizioni con successive ricostruzioni, se non specificamente concesso” ovverosia, ai sensi della specifica normativa urbanistica stante il valore paesaggistico dell’originario edificio, non può essere interamente demolito e successivamente ricostruito, e
   ● l'immobile è ugualmente (ed abusivamente) demolito/ricostruito nell'ambito di una rilasciata concessione edilizia per lavori di ristrutturazione edilizia,
cosa succede al titolo edilizio de quo, nonché al fabbricato medesimo, in relazione ai disposti in materia edilizio-urbanistica (DPR n. 380/2001) ed anche paesaggistica (D.Lgs. n. 42/2004)?

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel contestato provvedimento comunale, il Collegio rileva che, al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di ritenere il titolo abilitativo rilasciato venuto meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che “il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe una costruzione solo apparentemente simile a quella originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione dell’edificio esistente- e la costruzione di altro manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria (identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal provvedimento in contestazione), come detto, determinano una ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha assunto una portata generale e prevalente rispetto alla pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece, come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.

---------------
L’intervento posto in essere, come detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985 né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata, sia al momento della realizzazione sia al momento della domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie inesistente, costituisce condicio sine quanon per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle vigenti al momento della definizione dell’istanza, rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da questo Collegio.

---------------
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che l’intervento realizzato ha comportato la indebita demolizione di un edificio che, per espressa previsione delle norme urbanistiche comunali non poteva essere distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e, una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente inapplicabilità della norma che consente l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
---------------
L’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
---------------

... per la riforma della sentenza 01.07.2011 n. 1113 del TAR VENETO, Sez. II.
...
Le doglianze, che affrontano le problematiche centrali dell’intera controversia, non possono essere condivise.
2.1 Con decreto ministeriale 20.12.1965, la zona in cui è compreso l’immobile in discorso, di proprietà degli appellanti, sita nel territorio del Comune di Creazzo (Vicenza), è stata dichiarata di notevole interesse pubblico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 (“
protezione delle bellezze naturali”).
L’art. 26 delle NTA al PRG del Comune di Creazzo è rubricato “Beni culturali – insediamenti urbani e rurali con caratteristiche ambientali ed architettoniche” ed al primo comma dispone che [la zona] “è costituita dalle parti del territorio interessate da insediamenti urbani e rurali, comprendenti aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di particolare pregio ambientale”.
Il secondo comma del detto art. 26 prevede che “in tali ambiti il P.R.G. si attua per intervento edilizio diretto, secondo le prescrizioni delle schede urbanistiche riferite ad ogni singolo immobile o complesso di immobili, in deroga alle norme della zona territoriale omogenea della quale fanno parte”.
Per quanto più specificamente interessa in questa sede, la parte finale del comma 4 indica che “non sono ammesse demolizioni con successive ricostruzioni, se non specificamente concesso”.
La scheda relativa all’edificio n. 114, di proprietà degli appellanti, quale tipo di intervento ammesso prevede: “demolizione dell’accessorio sul lato ovest e riduzione della sporgenza del poggiolo a cm. 50 con eliminazione dei pilastri. Ampliamento e sopraelevazione dell’edificio ad Ovest in continuità di quello ad Est”.
Di talché, non sussiste dubbio che l’edificio di proprietà dei signori Lo. e Pe., quale bene rientrante in una zona paesaggisticamente tutelata, ai sensi della specifica e non contestata normativa urbanistica, non avrebbe potuto essere interamente demolito e successivamente ricostruito.
La concessione ad eseguire l’attività edilizia rilasciata dal Comune di Creazzo in data 20.09.2001 ha avuto ad oggetto i lavori di ristrutturazione con ampliamento e sopraelevazione di un fabbricato residenziale in via Po., con esecuzione delle opere come richieste secondo gli allegati grafici di progetto che, debitamente vistati, fanno parte integrante della concessione e, comunque, nel rispetto delle leggi, dei regolamenti vigenti, delle condizioni e prescrizioni tutte contenute nel provvedimento abilitativo e negli atti allegati.
Gli stessi appellanti hanno rappresentato che la concessione prevedeva il mantenimento di due tratti delle pareti sud e nord (oltre a quella est, condivisa con un edificio attiguo e di proprietà di un soggetto terzo) ed hanno specificato che per la parti che sarebbero risultate ammalorate, era stata consentita la sostituzione mediante la tecnica c.d. del “cuci e scuci”.
Il Collegio rileva in primo luogo che la suddetta tecnica del “cuci e scuci” è una tecnica di riparazione (o consolidamento) delle lesioni di murature e consiste nella sostituzione delle parti ammalorate di muratura mediante rifacimento con materiale nuovo e, quindi, non può trarsi dalla previsione del possibile utilizzo di tale tecnica, come pure sembrano adombrare gli appellanti nei loro scritti difensivi, una facoltà di demolizione e ricostruzione, del tutto esclusa invece dalla strumentazione urbanistica così come dal provvedimento concessorio.
Pertanto, mentre la parete ovest poteva essere demolita per effettuare il richiesto ampliamento, non sussiste alcun dubbio che le pareti nord e sud (oltre la est condivisa con edificio attiguo) non potessero essere demolite e ricostruite perché ciò era vietato sia dalla concessione edilizia “a valle” sia dagli strumenti urbanistici di governo del territorio “a monte”.
Parimenti, non sussiste dubbio sul fatto che la tutela paesaggistica non riguarda solo l’elemento naturalistico della collina, ma anche, come riportato nell’art. 26 delle NTA al PRG, aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di particolare pregio ambientale.
Di talché, può ritenersi certo che un’istanza presentata dall’avente titolo volta ad ottenere la concessione per demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto –così come materialmente avvenuto, con creazione di un nuovo manufatto- non avrebbe potuto trovare accoglimento in quanto non ammessa dal piano regolatore generale per il valore paesaggistico dell’originario edificio.
L’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 dispone che, “anche in deroga ad altre leggi regionali, ai regolamenti e alle previsioni degli strumenti urbanistici, il Sindaco è autorizzato a rilasciare le concessioni o le autorizzazioni per la ricostruzione di edifici o di loro parte o comunque di opere edilizie o urbanistiche, integralmente o parzialmente distrutti a seguito di eventi eccezionali o per cause di forza maggiore”.
La norma, nel fare riferimento ad eventi eccezionali o a cause di forza maggiore, circoscrive la propria operatività ad eventi che siano al contempo imprevedibili ed inevitabili e, quindi, nemmeno in parte riconducibile alla iniziativa degli interessati. Nello stesso senso va inteso il riferimento alla fattispecie della “distruzione” dell’edificio, ossia ad un evento dovuto a cause esterne rispetto all’azione dei proprietari e come tale nettamente distinto rispetto alla demolizione effettuata dagli stessi.
La contestuale presenza della imprevedibilità e della inevitabilità, nel caso di specie, non è stata dimostrata e non è rinvenibile.
Nella memoria e consulenza tecnica redatta dall’ing. Pa.Ro., in data 22.05.2003, su incarico dei signori Lo. e Pe., è indicato, a pag. 5, che “il fabbricato in questione, così come si presenta ai giorni nostri, è stato oggetto di una ristrutturazione complessiva per la parte originaria, dove progressivamente è stata sostituita la parte povera di parametro murario senza alcun elemento di pregio … e successivamente fedelmente ricostruita, fino al completo rinnovo dell’organismo edilizio”, per cui la demolizione e ricostruzione sembra essere frutto di una scelta, sia pure originata da una valutazione tecnica, non certo di un evento al contempo imprevedibile ed inevitabile.
Inoltre, dalla perizia statica redatta dal direttore dei lavori ing. Gu. Da. Ve., incaricato dai signori Lo. e Pe., asseverata in data 17.07.2003, a pag. 5 si legge che “stante le condizioni sopra accennate, ai fini della stabilità dell’intera struttura, non risultava proponibile né realizzabile, in concreto, un intervento di recupero conservativo delle parti di muratura non previste da demolizione”.
In definitiva, deve ritenersi che, già prima dell’inizio dei lavori, fosse stata accertata –o fosse comunque accertabile- l’impossibilità o l’inopportunità di eseguire il progetto come assentito dal provvedimento abilitativo.
Tuttavia, gli interessati hanno provveduto ad effettuare la vietata demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto senza avere preventivamente avanzato istanza di variante (istanza che, come più volte detto, non avrebbe potuto trovare accoglimento in applicazione degli strumenti urbanistici in vigore), tanto che l’intervenuta demolizione e ricostruzione è stata accertata dall’Ufficio Tecnico con sopralluogo in data 05.02.2003 e l’istanza di variante è stata integrata il successivo 05.03.2013.
In conclusione, dal quadro sopra descritto, emerge con nitidezza che nessun accadimento eccezionale né alcun evento imprevedibile e inevitabile aveva imposto la vietata demolizione dell’intero manufatto e che, di conseguenza, tale decisione, sia pure supportata da considerazioni tecniche, è stata assunta dagli interessati che hanno messo l’amministrazione dinanzi al “fatto compiuto”.
D’altra parte, la sentenza del Tribunale di Vicenza, Sezione Penale, n. 850 del 2008, nell’escludere il valore scriminante delle circostanze afferenti alla salvaguardia della incolumità del cantiere e alla irreparabilità della situazione dei manufatti, che sarebbero state, secondo la prospettazione di parte, alla base della decisione di far abbattere i muri vecchi e di ricostruirne i nuovi, ha indicato che “la situazione di crollo parziale e di non recuperabilità non è dimostrata, come non è dimostrato perché non potessero essere attivate procedure di salvaguardia e di restauro, certo costoso più della demolizione, ma ben possibile come la comune esperienza del recupero dei beni storici insegna. Anche i testi … che materialmente hanno eseguito le demolizioni nulla hanno detto circa pericoli od altro; hanno riferito della condizione del muro, normale, e dell’ordine ricevuto … di demolirlo. Nessun panico, nessuna situazione drammatica che imponeva drastiche misure”.
Ne consegue la insussistenza dei presupposti per l’applicazione alla fattispecie dell’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 (norma che, comunque, riconosce al Sindaco una mera facoltà di autorizzare l’intervento, e non un obbligo).
2.2 Per quanto concerne l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel contestato provvedimento dell’amministrazione comunale del 31.10.2003, il Collegio rileva che, al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di ritenere il titolo abilitativo venuto meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che “il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe una costruzione solo apparentemente simile a quella originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione dell’edificio esistente- e la costruzione di altro manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria (identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal provvedimento in contestazione), come detto, determinano una ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha assunto una portata generale e prevalente rispetto alla pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Cons. Stato, IV, 07.04.2015, n. 1764).
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece, come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
Le considerazioni sopra esposte non solo attestano l’infondatezza delle doglianze proposte dagli appellati avverso le statuizioni con cui il giudice di primo grado ha respinto l’azione di annullamento proposta con il ricorso introduttivo del giudizio, ma sono anche alla base dell’infondatezza delle ulteriori censure proposte nella presente sede di appello.
3. I signori Lo. e Pe., con riferimento alle statuizioni con cui in primo grado è stata respinta l’azione di annullamento contenuta nel primo atto di motivi aggiunti, hanno sostenuto che l’affermazione contenuta nel provvedimento di diniego dell’istanza di sanatoria -secondo cui nessun rilievo potrebbe essere attribuito a quanto disposto dalla adottata variante al PRG giacché l’intervento sarebbe in contrasto con il PRG vigente- sarebbe viziata dalla erronea e falsa applicazione dell’art. 97 della L.R. 61/1985.
Il descritto provvedimento del 31.10.2003, impugnato con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha respinto, per violazione dell’art. 97, comma 3, L.R. Veneto n. 61 del 1985 e dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, l’istanza di variante in sanatoria alla concessione edilizia presentata in data 30.06.2003.
Con successivo provvedimento in data 13.12.2004, impugnato presso il TAR con un primo atto di motivi aggiunti, il Comune di Creazzo ha confermato il diniego di sanatoria espresso in data 31.10.2013 a seguito di istanza di riesame presentata dagli interessati in data 31.12.2003 ed integrata in data 21.04.2004 e in data 13.08.2004.
A prescindere dalla eccezione di inammissibilità della censura formulata dall’amministrazione comunale in quanto l’atto sarebbe meramente confermativo del precedente diniego, la doglianza è senz’altro infondata in quanto l’intervento posto in essere dagli appellanti, come detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985 né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata, sia al momento della realizzazione sia al momento della domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie inesistente, costituisce condicio sine quanon per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle vigenti al momento della definizione dell’istanza, rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da questo Collegio.
In ogni caso, detta tesi non è applicabile alla fattispecie in esame sia perché la variante urbanistica invocata dagli appellanti -la quale, per il provvedimento di diniego contestato, è comunque difforme dalla sanatoria richiesta- era stata adottata ma non approvata, per cui non costituiva, alla data di emanazione dell’atto, normativa vigente, sia perché, come evidenziato dall’amministrazione nella propria memoria difensiva, la variante è stata modificata in sede di approvazione (deliberazione di Giunta Regionale n. 3462 del 07.11.2016).
4. Gli appellanti hanno contestato le statuizioni della sentenza con cui sono state respinte le censure proposte avverso il diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica.
In particolare, gli interessati, evidenziando ancora una volta l’erronea impostazione iniziale del Comune che aveva dichiarato la decadenza del titolo edilizio, ritengono di avere correttamente rappresentato come l’intervento, quanto a volumi e superfici, aveva pienamente rispettato le autorizzazioni edilizia e ambientale.
Le doglianze non sono persuasive.
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che l’intervento realizzato ha comportato la indebita demolizione di un edificio che, per espressa previsione delle norme urbanistiche comunali, ormai inoppugnabili, non poteva essere distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e, una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente inapplicabilità della norma che consente l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
5. Con riferimento alle ultime doglianze, relative alle statuizioni della sentenza di primo grado che hanno respinto l’azione di annullamento, proposta con i terzi motivi aggiunti, avverso il diniego delle istanze di condono edilizio presentate dagli interessati, è sufficiente richiamare ancora una volta l’attenzione sul fatto che, a differenza di quanto prospettato dagli appellanti, l’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.07.2018 n. 4690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

Sulla sanzione pecuniaria (di importo compreso tra 2.000,00 € e 20.000,00 €) ex art. 31, comma 4-bis, DPR n. 380/2001.

EDILIZIA PRIVATA: In base all'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione pecuniaria è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati "sulle aree e sugli edifici" di cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè solo su quelle "aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità";
   2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962, n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni" (relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
   3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di "Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a "vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione";
   4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n. 1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
   5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii.;
   7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
---------------
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della entità della sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria “ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001”.

---------------

... per l'annullamento dell’ordinanza n. 292 del 17.09.2015 con cui il comune di Avellino -sportello unico per l'edilizia- ha ingiunto al ricorrente il pagamento di una sanzione amministrativa ai sensi dell'art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001.
...
1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità del provvedimento n. 292 del 17.09.2015 con cui il comune di Avellino ha rilevato la mancata ottemperanza da parte del responsabile dell’ordine di demolizione n. 43 del 2015 emesso per la rimozione di opere edilizie realizzate sine titulo ed ha ingiunto il pagamento di una sanzione amministrativa pari ad euro 20.000 ai sensi dell'art. 3, comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001.
Trattasi, nella specie, di opere realizzate senza titolo in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
...
4.2 Con la formulata censura di illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. 380 del 2001, il ricorrente deduce, sostanzialmente, che tale norma -in combinato disposto con l'art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico-, assoggettando alla sanzione pecuniaria massima di Euro 20.000,00 tutti gli abusi commessi "sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'art. 27" del D.P.R. n. 380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive dimensioni delle opere (nel caso in esame, trattasi di “baracca in lamiera di 12 mq.”)-, contrasterebbe con i principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza.
A tale proposito il Collegio intende confermare il giudizio di infondatezza della prospettata censura ribadendo quanto già espresso nella sentenza n. 103 del 16.01.2017 nella quale è stato precisato che: “In base all'art. 31, comma 4- bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione pecuniaria è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati "sulle aree e sugli edifici" di cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè solo su quelle "aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità";
   2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962, n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni" (relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
   3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di "Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a "vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione";
   4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n. 1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
   5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e ss.mm.ii.;
   7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della entità della sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, Sent., 12/07/2016, n. 1105) “ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro 20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed in quei particolari (e circoscritti) "edifici" specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380 del 2001”.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con l'art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico- si appalesa manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate
”.
5. Per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 06.07.2018 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. dispone che “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle aree e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su quegli “edifici” ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità”;
   2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare”);
   3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a “vincolo per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione”;
   4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766” (rubricata “Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia gravate da usi civici;
   5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490” (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, a seguito dell’abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii.;
   7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
---------------
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) “colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) “aree” ed in quei particolari (e circoscritti) “edifici” specificamente indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380/2001.
---------------

0. - Il ricorso è infondato nel merito e va respinto, così come manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla ricorrente, per le motivazioni di seguito riportate.
1. - Osserva la Sezione che il gravame si basa, essenzialmente, sulla censura di illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (inserito dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis del D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380/2001.
Difatti, ad avviso del Collegio, alcun eccesso di potere è imputabile, nel caso di specie, al civico Ente resistente, posto che quest’ultimo si è limitato ad irrogare (doverosamente e correttamente) la sanzione pecuniaria nella misura massima di euro 20.000,00, facendo applicazione dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm., (testualmente) “in ragione del sistema vincolistico dell’area”, atteso -come pure condivisibilmente rilevato dal Comune di Nardò- il carattere obbligatorio e vincolato della sanzione pecuniaria di cui al novellato art. 31, comma 4-bis, del T.U. Edilizia n. 380/2001 nell’ipotesi in cui ricorrano -come nella fattispecie in esame- i relativi (stringenti e tassativi) presupposti: si tratta, infatti, di abuso realizzato (come già evidenziato nella parte “Fatto”) in “zona già sottoposta a Vincolo Paesaggistico di cui al D.M. del 04.09.1975 … ovvero attualmente compresa nel P.P.T.R. adottato con D.G.R. n. 1435 del 02.08.2013” - così l’ordinanza n. 94/2015).
L’impugnazione dell’ordinanza n. 94 del 25.02.2015 è, poi, irricevibile per tardività (e, comunque, la relativa impugnazione è proposta solo in via tuzioristica -“ove occorra”-, senza prospettare alcuno specifico vizio della stessa). Peraltro, non risulta (agli atti del giudizio) che alcun gravame sia stato azionato neppure avverso il (presupposto) diniego di sanatoria edilizia ex Lege n. 47/1985.
1.1 - Ciò premesso, osserva la Sezione che la ricorrente deduce, sostanzialmente, che l’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico-, assoggettando alla sanzione pecuniaria massima di € 20.000,00 tutti gli abusi commessi “sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell’art. 27” del D.P.R. n. 380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive dimensioni delle opere (nel caso in esame, l’immobile misura “soli mq 37 per un volume pari a 111,48 mc”)-, contrasterebbe con i principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza, nonché con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della stessa Carta Fondamentale (assimilando, quoad poenam, una gamma di comportamenti che possono assumere natura ed entità estremamente variabile).
La previsione di una “pena in misura fissa” contrasterebbe, inoltre, con il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, nonché con i principi inerenti alla funzione giurisdizionale di cui agli artt. 101 e 102 della Costituzione ed alla funzione rieducativa della pena di cui al successivo art. 27, primo e terzo comma (essendo del tutto irragionevole l’automatismo “legislativo” della sanzione stessa). La sanzione nella misura fissa di euro 20.000,00, poi, risulterebbe, da un lato, eccessivamente gravosa nel caso di abusi di piccole dimensioni, dall’altro non potrebbe sortire alcuna efficacia dissuasiva rispetto ad immobili abusivi di enormi dimensioni.
1.2 - La questione di legittimità costituzionale prospettata, sia pure suggestivamente argomentata, è, ad avviso del Collegio, manifestamente infondata.
L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. dispone che “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle aree e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su quegli “edifici” ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
   1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità”;
   2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare”);
   3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a “vincolo per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione”;
   4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766” (rubricata “Conversione in legge del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia gravate da usi civici;
   5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490” (“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”, a seguito dell’abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
   6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e ss.mm.ii.;
   7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato” (pertanto, destituita di ogni fondamento appare la prospettazione operata dalla ricorrente -v. pagg. 12 e 13 del ricorso introduttivo-, a mente della quale, sostanzialmente, il richiamo all’art. 27, comma 2, di cui al citato art. 31, comma 4-bis del D.P.R. n. 380/2001, comporterebbe l’applicazione della sanzione pecuniaria massima non solo agli abusi realizzati in aree ed immobili rientranti nei prefati sistemi vincolistici, ma anche “in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”).
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante) “colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) “aree” ed in quei particolari (e circoscritti) “edifici” specificamente indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n. 380/2001.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico– si appalesa manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate.
2. - Per tutto quanto innanzi esposto, il presente ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 12.07.2016 n. 1105 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il titolo edilizio si perfeziona indipendentemente dalla corresponsione degli oneri di urbanizzazione, come si ricava anche dal tenore dell’art. 42, comma 3, della l.r. n. 12/2005 (“la quota relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune entro trenta giorni successivi alla presentazione della denuncia di inizio attività, fatta salva la facoltà di rateizzazione”).
Del resto l’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria rapportata all’entità del contributo in caso di mancato pagamento e per il suo ritardo, con la possibilità per i Comuni di tutelarsi mediante la riscossione coattiva (anche se con riferimento al permesso di costruire).
Ciò risulta avallato, oltre che dal dato normativo –art. 44, comma 13, della legge regionale n. 12 del 2005 [“L’ammontare dell’eventuale maggior somma va sempre riferito ai valori stabiliti dal comune alla data (…) di presentazione della denuncia di inizio attività”]–, altresì dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale il momento su cui appuntare l’affidamento della parte istante è quello della presentazione della denuncia, che coincide con il momento perfezionativo per consolidazione postuma e non in quello in cui la stessa acquisterebbe efficacia, trovandosi al cospetto non di un provvedimento amministrativo tacito o implicito, ma semplicemente di un atto del privato, cui va applicata la disciplina legislativa vigente al momento della presentazione della denuncia alla Pubblica Amministrazione.
---------------
Conseguenza di quanto evidenziato in precedenza è l’inapplicabilità alla denuncia di inizio attività della normativa sopravvenuta alla sua presentazione, anche in relazione agli aggiornamenti delle tariffe riguardanti gli oneri, trattandosi di una modalità abilitativa alla realizzazione dell’intervento edilizio la cui disciplina risulta impermeabile ai mutamenti normativi successivi.
---------------

2.2. Pertanto, va stabilito se il mancato tempestivo versamento degli oneri e dei contributi di urbanizzazione abbia impedito il perfezionamento del titolo edilizio e se in sede di riscossione degli oneri avrebbe dovuto essere applicata la normativa vigente in quel momento oppure quella in vigore all’atto di presentazione del titolo.
In primo luogo va evidenziato che il titolo edilizio si perfeziona indipendentemente dalla corresponsione degli oneri di urbanizzazione, come si ricava anche dal tenore dell’art. 42, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 (“la quota relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune entro trenta giorni successivi alla presentazione della denuncia di inizio attività, fatta salva la facoltà di rateizzazione”).
Del resto l’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria rapportata all’entità del contributo in caso di mancato pagamento e per il suo ritardo, con la possibilità per i Comuni di tutelarsi mediante la riscossione coattiva (anche se con riferimento al permesso di costruire, cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 14.11.2017, n. 2173).
Ciò risulta avallato, oltre che dal dato normativo –art. 44, comma 13, della legge regionale n. 12 del 2005 [“L’ammontare dell’eventuale maggior somma va sempre riferito ai valori stabiliti dal comune alla data (…) di presentazione della denuncia di inizio attività”]–, altresì dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale il momento su cui appuntare l’affidamento della parte istante è quello della presentazione della denuncia, che coincide con il momento perfezionativo per consolidazione postuma e non in quello in cui la stessa acquisterebbe efficacia, trovandosi al cospetto non di un provvedimento amministrativo tacito o implicito, ma semplicemente di un atto del privato, cui va applicata la disciplina legislativa vigente al momento della presentazione della denuncia alla Pubblica Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.05.2013, n. 2593; 04.09.2012, n. 4669; TAR Lombardia, Milano, II, 04.03.2016, n. 434; 16.06.2014, n. 1578).
Conseguenza di quanto evidenziato in precedenza è l’inapplicabilità alla denuncia di inizio attività della normativa sopravvenuta alla sua presentazione, anche in relazione agli aggiornamenti delle tariffe riguardanti gli oneri, trattandosi di una modalità abilitativa alla realizzazione dell’intervento edilizio la cui disciplina risulta impermeabile ai mutamenti normativi successivi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.052013, n. 2593).
Nella fattispecie oggetto del presente contenzioso, la d.i.a. presentata dalla ricorrente in data 03.11.2005, in quanto completa di tutti gli elementi costitutivi, risulta certamente efficace e, di conseguenza, in aderenza ai sopra citati orientamenti giurisprudenziali non può essere assoggettata al regime tariffario –più oneroso– introdotto con la sopravvenuta deliberazione consiliare n. 2 del 25.01.2006 (all. 3 del Comune).
Pertanto, ferma restando la possibilità per gli Uffici comunali di applicare nel termine prescrizionale le pertinenti sanzioni per l’omesso o ritardato pagamento di cui all’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, nessun aggiornamento tariffario, rispetto alla disciplina in vigore alla data del 03.11.2005, poteva essere imposto alla società ricorrente.
2.3. Va, da ultimo, chiarito che il precedente giurisprudenziale citato dalla difesa del Comune –TAR Lazio, Roma, II-bis, 20.12.2017, n. 12542– oltre a non essere in linea con l’orientamento, in precedenza richiamato, che appare assolutamente maggioritario, si riferisce ad una dichiarazione di inefficacia della d.i.a., mentre nella questione oggetto di scrutinio è stato chiesto soltanto il pagamento del contributo di costruzione in misura maggiore rispetto a quanto calcolato dalla parte istante, sul presupposto implicito della perdurante efficacia della d.i.a. (i cui lavori peraltro sono stati conclusi, con l’ottenimento dell’agibilità: all. 14 e 15 al ricorso), seppure a posteriori contraddittoriamente negato (cfr. nota del 13.12.2007, punto 3: all. 2 del Comune).
2.4. In conclusione, deve essere affermata la fondatezza della scrutinata censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.03.2018 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHECodice contratti pubblici: regolamento su incentivi.
Il testo del regolamento incentivi (ai sensi dell'art. 113, comma 2, del codice dei contratti pubblici) elaborato da Itaca (l'istituto per l'innovazione e la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale) è stato approvato dalla Conferenza delle Regioni e della Province autonome nella seduta del 26.07.2018.
  
ordine del giorno Conferenza delle Regioni e delle Province autonome seduta ordinaria del 26.07.2018
  
Schema di Regolamento recante "disciplina per la corresponsione degli incentivi per le funzioni tecniche previsti dall'art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016" (tratto da e link a www.regioni.it).

SICUREZZA LAVOROLA VALUTAZIONE DEL MICROCLIMA - L’esposizione al caldo e al freddo: quando è un fattore di discomfort; quando è un fattore di rischio per la salute (INAIL, luglio 2018).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Modalità di fruizione dei permessi di cui all’articolo 33 della legge n. 104/1992 e del congedo straordinario di cui all’articolo 42, comma 5, del D.lgs n. 151/2001. Chiarimenti (INPS, messaggio 07.08.2048 n. 3114 - link a www.inps.it).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Manifestazioni pubbliche: precisazioni sull'attivazione e l'impiego del volontariato di protezione civile (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile, nota 06.08.2018 n. 45427 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Nuova Circolare MIT-CSLLPP illustrativa delle NTC 2018 (Consiglio Nazionale degli Ingeneri, circolare 01.08.2018 n. 273).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: appalto illecito ed inadempienze retributive e contributive – indicazioni operative al personale di vigilanza (Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare 11.07.2018 n. 10/2018).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Da Lio, Demolizione di un edificio: solo e soltanto rifiuti? (06.08.2018 - link a www.tuttoambiente.it).

EDILIZIA PRIVATADOSSIER SEMPLIFICAZIONI - Edilizia, Procedure amministrative, Paesaggio: mappa delle semplificazioni (ANCE, 25.07.2018).

APPALTI: M. Mancini, L’ESCLUSIONE DALLE GARE PER GRAVE ILLECITO PROFESSIONALE - Le indicazioni dell’ANAC e della giurisprudenza (ANCE, 17.07.2018).

EDILIZIA PRIVATADeroghe agli standard urbanistici ed edilizi ai sensi dell'art. 2-bis del DPR 380/2001: quadro attuativo regionale (ANCE, 22.01.2018).

EDILIZIA PRIVATA: F. Cappelletti, La Grande Camera della Corte EDU deposita l’attesa sentenza in tema di confisca obbligatoria per lottizzazione abusiva. In breve, gli approdi raggiunti (28.06.2018 - link a www.giurisprudenzapenale.com),

A.N.AC.

INCARICHI PROGETTUALIProfessionisti, bandi trasparenti. Disciplinare tipo per evitare anomalie negli atti di gara. Le regole Anac per l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura oltre i 100 mila euro.
Approvato il bando-tipo Anac per l'affidamento di servizi di ingegneria e architettura oltre i 100 mila euro, con procedura aperta e aggiudicazione con l'offerta economicamente più vantaggiosa; previste indicazioni ispirate a trasparenza e concorrenza per evitare le anomalie degli atti di gara.
È questa la natura dell'articolato Bando tipo n. 3 predisposto dall'Autorità nazionale anticorruzione (delibera 31.07.2018 n. 723 del Consiglio dell'Autorità, pubblicata sul sito Anac il 3 agosto) relativo agli incarichi di servizi di ingegneria e architettura. Il provvedimento è di fatto è un vero e proprio disciplinare-tipo in considerazione del fatto che è nel disciplinare e non nel bando che si concentrano le esigenze più avvertite dalle stazioni appaltanti di orientamento e standardizzazione; entrerà in vigore 15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Il disciplinare prende in considerazione la sola procedura aperta di cui all'art. 60 del codice dei contratti pubblici, con applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità prezzo, di cui all'art. 95, comma 2, del Codice.
Sarà applicabile alle procedure di affidamento bandite dalle amministrazioni che operano nei settori ordinari e nel settore dei beni culturali, mentre nei settori speciali, alla luce di quanto previsto dagli articoli 8 e 114, commi 1 e 2, il disciplinare-tipo non è vincolante per gli enti aggiudicatori ma è obbligatorio per le amministrazioni aggiudicatrici quando affidano servizi e forniture non connesse con le attività di cui agli articoli da 115 a 121 del Codice (acqua, energia e trasporti).
L'Anac precisa anche che «in caso di gara telematica le stazioni appaltanti apporteranno le opportune modifiche al testo».
Il disciplinare è corredato di due allegati, volti a declinare e suggerire alle stazioni appaltanti possibili criteri qualitativi per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa (all. 1), nonché a fornire un corrispondente schema di presentazione per l'offerta tecnica (all. 2), nonché di una nota illustrativa e infine da una relazione Air che motiva le scelte effettuate rispetto alle osservazioni degli stakeholders che hanno partecipato alla consultazione pubblica. Il Bando tipo n. 3 «sarà oggetto di una ulteriore verifica di impatto della regolazione, a dodici mesi dalla pubblicazione in G.U.».
Per il calcolo dei corrispettivi (utile anche a stabilire se l'affidamento è oltre i 100 mila euro) le stazioni appaltanti devono compilare una tabella fornendo il dettaglio degli elementi utilizzati per il calcolo, in relazione al tipo di incarico.
La nota illustrativa al disciplinare precisa poi che nel caso in cui le stazioni appaltanti, dopo avere stimato l'importo dei lavori sulla base del progetto di fattibilità realizzato all'interno, si trovino nella condizione di dover rivedere il costo dell'opera nel corso dell'esecuzione dell'incarico di progettazione, possono ricorrere alla clausola di cui all'art. 106, comma 1, lett. a) che disciplina le modifiche contrattuali in sede di esecuzione del contratto, ma a condizione che nel disciplinare siano regolate portata, natura e condizioni delle modifiche.
Non sono invece applicabili istituti, quali il rinnovo del contratto e quello della proroga tecnica. Fra gli elementi di interesse l'introduzione di un limite, non previsto nel codice, per il massimale della polizza Rc professionale (sostitutiva del requisito del fatturato): non si potrà chiedere un importo superiore al 10% del valore dell'opera; non ammesse le polizze ad hoc
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

INCARICHI PROGETTUALIBando-tipo n. 3 - Disciplinare di gara per l’affidamento con procedura aperta di servizi di architettura e ingegneria di importo pari o superiore a € 100.000 con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo (delibera 31.07.2018 n. 723 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIOggetto: modalità di avvio dei procedimenti di verifica del possesso dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 50/2016 e s.m.i. (Comunicato del Presidente 31.07.2018 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Pubblicato il Comunicato del Presidente con il quale si forniscono modalità di avvio dei procedimenti di verifica del possesso dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house (art. 192 del d.lgs. n. 50/2016 e s.m.i.).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIRegolamento sull’esercizio del potere dell’Autorità di richiedere il riesame dei provvedimenti di revoca o di misure discriminatorie adottati nei confronti del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) per attività svolte in materia di prevenzione della corruzione (delibera 18.07.2018 n. 657 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIIllegittimo obbligare il sopralluogo ante gara. L'Anticorruzione risponde a diverse segnalazioni ricevute.
Nelle procedure negoziate è illegittima la clausola che impone obbligatoriamente il sopralluogo prima della fase di gara e quindi della presentazione delle offerte.

Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato del presidente 18.07.2018, Raffaele Cantone, con cui risponde a diverse segnalazioni trasmesse all'Anac.
Le segnalazioni riguardavano, in particolare, casi in cui nelle procedure negoziate le stazioni appaltanti avevano previsto, a carico degli operatori economici, l'effettuazione del sopralluogo come tassativa condizione da soddisfare già nella preliminare fase della manifestazione di interesse (ad esempio a seguito di avviso di indagine di mercato), ai fini dell'eventuale invito alla procedura di gara.
Per l'Anac, in termini generali, il sopralluogo obbligatorio è ammissibile laddove l'oggetto del contratto abbia una stretta e diretta relazione con le strutture edilizie (in tale senso anche il disciplinare-tipo n. 1-2017, al paragrafo 14 della nota illustrativa). Infatti l'articolo 79, comma 2, del codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016) prevede che i termini di ricezione delle offerte tengano conto dell'eventualità che le stesse possano essere presentate soltanto previa visita dei luoghi di pertinenza per l'esecuzione dell'appalto.
Ciò premesso, l'Anac chiarisce che la scelta di prevedere il sopralluogo obbligatorio preliminare, ossia in un momento antecedente alla fase di gara (e quindi alla formulazione delle offerte) non risulta legittima. In primo luogo perché «fuoriesce dal perimetro applicativo della disposizione recata dal predetto articolo 79, comma 2, che collega il sopralluogo alla formulazione delle offerte».
In secondo luogo perché «determina, in violazione dei principi di proporzionalità e libera concorrenza, un significativo ostacolo per gli operatori economici, sotto il profilo organizzativo e finanziario, alla competizione per l'affidamento degli appalti pubblici, considerata peraltro la possibilità che gli operatori economici non ricevano l'invito o decidano comunque di non presentare offerta».

Quindi il sopralluogo deve essere strettamente funzionale alla presentazione delle offerte e solo in questi casi può essere richiesto secondo le modalità indicate nel disciplinare-tipo (o «bando-tipo») 1-2017. In particolare l'Anac ha specificato che il sopralluogo potrà essere effettuato da un rappresentante legale, procuratore o da un direttore tecnico del concorrente o da soggetto diverso munito di delega e che il delegato non debba essere necessariamente un dipendente dell'operatore economico.
Per le modalità di svolgimento del sopralluogo, nel bando-tipo si evidenzia che rientra nella discrezionalità della stazione appaltante fissare la calendarizzazione del sopralluogo, nel rispetto della par condicio e dell'anonimato dei partecipanti (vietato il sopralluogo collettivo).
L'Anac sottolinea poi che occorre garantire la massima partecipazione alla gara e quindi: evitare di fissare date di sopralluogo troppo vicine alla data di pubblicazione del bando e garantire un lasso di tempo, dopo lo svolgimento del sopralluogo, congruo per la formulazione dell'offerta, evitando di fissare date troppo vicine al termine finale per la presentazione dell'offerta
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

APPALTI: Commissari esterni, albo al via. Obbligatori per lavori sopra 1 mln e servizi oltre 221.000. Le istruzioni operative dell’Anac. Iscrizioni dal 10 settembre con quota da 160 euro.
Da metà gennaio 2019 (termine di scadenza delle offerte) gli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv) dovranno essere aggiudicati da commissari esterni alla stazione appaltante. Per i commissari, l'iscrizione all'albo gestito dall'Anac scatterà dal 10.09.2018. Ammonta a 160 euro la somma da versare per l'iscrizione all'albo. L'obbligo di commissari esterni varrà per gli appalti di lavori oltre un milione di euro e di servizi e forniture oltre i 221 mila euro della soglia Ue, oltre che per gli appalti «particolarmente complessi». Sono queste le indicazioni che ha fornito l'Anac con il comunicato del presidente Raffaele Cantone recante le istruzioni operative per l'iscrizione all'Albo nazionale obbligatorio dei commissari di gara e per l'estrazione dei commissari.
È quindi al via uno dei pilastri attorno al quale è stato impostato il codice degli appalti pubblici e che rappresenta una delle importanti scommesse anche sotto il profilo della trasparenza degli affidamenti, tema toccato questa settimana dal ministro delle infrastrutture, Danilo Toninelli, intervenuto al senato e alla camera sulle linee programmatiche del suo dicastero.
Le istruzioni operative per l'iscrizione all'Albo nazionale obbligatorio dei commissari di gara e per l'estrazione dei commissari attraverso l'applicativo predisposto per la gestione dei relativi processi, seguono quanto previsto disposto dagli articoli 77 e 78 del Codice dei contratti pubblici, nonché dalle Linee guida n. 5, in esito alla delibera n. 648 adottata dal Consiglio dell'Autorità il 18.07.2018.
L'Anac (Istruzioni operative per l’iscrizione all’Albo nazionale obbligatorio dei commissari di gara e per l’estrazione dei commissari (Comunicato del Presidente 18.07.2018) rende quindi noto di avere messo a punto un applicativo, reso disponibile nella sezione servizi del portale www.anticorruzione.it per gestire l'iscrizione all'Albo (possibile in ogni momento dell'anno, pagando 160 di quota di iscrizione), il procedimento di estrazione e la gestione dell'Albo.
Nel comunicato si invitano quindi i candidati in possesso dei requisiti di esperienza, di professionalità e di onorabilità previsti dalle Linee guida n. 5 a iscriversi all'Albo, a partire dal 10 settembre, utilizzando l'applicativo, autocertificando, ai sensi del decreto del presidente della repubblica 28.12.2000 n. 445, il possesso dei requisiti.
Sarà però necessario avere un dispositivo per la firma digitale, un indirizzo Pec e credenziali username e password rilasciate dal sistema dell'Autorità. Ogni anno, entro il 31 gennaio, ai fini del mantenimento dell'iscrizione, oltre al pagamento della tariffa di iscrizione se dovuta, l'esperto dovrà confermare tramite l'applicativo la permanenza dei requisiti dichiarati (o l'intenzione di cancellarsi. Sarà poi la stazione appaltante a richiedere sempre tramite l'applicativo, la lista di esperti tra cui sorteggiare, ai sensi del dell'articolo 77, comma 3, del codice dei contratti pubblici, i componenti esterni della commissione.
L'Anac, tramite l'applicativo, previa verifica delle informazioni inserite, fornirà alla stazione appaltante richiedente la lista degli esperti estratti, seguendo alcuni criteri indicati nelle istruzioni (esperienza, numero di incarichi ricevuti) assicurando casualità di estrazione con un «servizio esterno di randomizzazione».
L'Albo sarà quindi operativo, per le gare i cui bandi prevedano termini di scadenza della presentazione delle offerte a partire dal 15.01.2019. Da tale data, l'Anac intende superato il periodo transitorio di cui all'articolo 216, comma 12, primo periodo, del Codice dei contratti pubblici
 (articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

APPALTIIncarichi, ribasso senza limiti. Finirebbero per ridurre la concorrenza sul prezzo. Una delibera dell’Anac in materia di affidamento di attività di architettura e ingegneria.
Il limite al ribasso nell'aggiudicazione di incarichi per lo svolgimento di attività di ingegneria e architettura è illegittimo in quanto limita la concorrenza sull'elemento prezzo e di fatto orienta a priori l'entità del ribasso stesso.
È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il Parere di Precontenzioso 27.06.2018 n. 610 - rif. PREC 250/17/S per una istanza di parere relativa ad una procedura negoziata per l'affidamento di un incarico professionale emesso da una centrale unica di committenza per un affidamento del valore di 82 mila euro avente ad oggetto la prestazione di servizi tecnici di architettura e ingegneria consistenti nella redazione del progetto definitivo-esecutivo e nella direzione dei lavori, da affidarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv) ma con un ribasso massimo fissato al 50% dell'importo a base di gara.
La ragione addotta dalla centrale di committenza per difendere la scelta di fissare un limite alle offerte economiche pari al 50% del valore stimato dell'appalto era attinente alla necessità di salvaguardare la corretta applicazione dei Ccnl.
L'Anac censura la scelta dell'amministrazione richiamando una pronuncia del Consiglio di stato (la n. 2912 del 28.06.2016 della quinta sezione) che aveva già affermato l'illegittimità del limite di ribasso che «introduce un'inammissibile limite alla libertà degli operatori economici di formulare la proposta economica sulla base delle proprie capacità organizzative e imprenditoriali, pregiudicando, sino di fatto ad annullarlo, il confronto concorrenziale sull'elemento prezzo».
In quel caso il limite era fissato al 12% e la motivazione era stata la stessa del bando oggetto della delibera ma i giudici avevano specificato che le stessa salvaguardia poteva essere realizzata attraverso lo strumento dell'esclusione delle offerte anormalmente basse.
Ma il Consiglio di stato aveva anche espresso considerazioni negative sulla norma dell'allora vigente regolamento del codice appalti (l'art. 266, comma 1, lettera c), che prevedeva l'obbligo per le stazioni appaltanti di indicare nei bandi di gara un limite ai ribassi sul prezzo): «detta disposizione», diceva il Consiglio di stato, «presenta profili di dubbia legittimità, connessi alla violazione dei ricordati principi in materia di tutela della concorrenza e della libertà di iniziativa economica
». In realtà già con le linee guida 1-2016 sull'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura l'Anac aveva eliminato l'obbligo di indicazione del limite di ribasso, in precedenza già ritenuto contrario ai principi del Trattato in tema di libera concorrenza.
Nella delibera di giugno l'Autorità chiarisce di nuovo il concetto: «di fatto viene annullato il confronto concorrenziale sul prezzo, in contraddizione con il criterio di aggiudicazione prescelto, ovvero quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, il cui scopo è invece quello di ottenere da ogni singolo concorrente un'offerta che contemperi la qualità massima delle prestazioni con il prezzo più basso possibile in relazione alle proprie capacità aziendali, organizzative e imprenditoriali».
Entrando poi nel merito, l'Anac specifica anche che «fissando una percentuale massima di ribasso ammesso, la Stazione appaltante «suggerisce» già a priori quale ritiene essere il prezzo migliore e così spinge tutti i concorrenti a formulare un'offerta economica ridotta del 50% rispetto alla base d'asta o, quantomeno, ad approssimarsi quanto più possibile. E infatti 8 concorrenti su 17 (ma due sono stati esclusi) avevano offerto proprio il ribasso del 50%, uno il ribasso del 49,5%, e tutti gli altri ribassi comunque molto elevati, ovvero compresi tra il 27,54 e il 41%»
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’Autorità: le piccole dimensioni del comune non giustificano un’applicazione soft delle norme.
Mini enti nel mirino dell’Anac. Non possono sottrarsi ad adottare misure anticorruzione.

L'Anac mette nel mirino i piccoli comuni, imponendo loro l'adozione di misure di prevenzione della corruzione anche alternative alla rotazione del personale.
Con la recente delibera 13.06.2018 n. 555, l'Authority guidata da Raffaele Cantone opera una stretta sui mini-enti, a partire della stessa delimitazione della categoria. Secondo l'Anac, «la costante osservazione delle realtà locali ha fatto rilevare come moltissime amministrazioni adducono, a giustificazione dei propri inadeguati comportamenti, le piccole dimensioni del Comune. Tale definizione costituisce, spesso, la linea di confine tra un'applicazione piena del piano nazionale anticorruzione e un'applicazione soft ovvero tra un comportamento virtuoso ed uno omissivo».
Per ostacolare questa prassi, la delibera ridefinisce la nozione stessa di «piccolo comune», che in base al Pna del 2016 includeva tutti gli enti con meno di 15.000 abitanti, abbassando l'asticella a 5.000. Ciò sulla base di quanto previsto dalla l. 158/2017 recante «misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni» che, all'art. 1, comma 2, definisce come tali quelli con popolazione residente fino a 5.000 abitanti.
In considerazione di ciò, conclude Anac, non si ritiene possa considerarsi piccolo un comune di poco meno di 15.000 abitanti (14.352), adeguatamente strutturato ed organizzato, che conta circa 30 dipendenti e 9 posizioni organizzative.
In tali casi, quindi, è necessario adottare apposite misure alternative, così indicate a titolo esemplificativo:
   - per le istruttorie più delicate nelle aree a rischio, promuovere meccanismi di condivisione delle fasi procedimentali prevedendo di affiancare al funzionario istruttore un altro funzionario, in modo che, ferma restando l'unitarietà della responsabilità del procedimento, più soggetti condividano le valutazioni degli elementi rilevanti per la decisione finale dell'istruttoria;
   - utilizzare il criterio della cosiddetta «segregazione delle funzioni», che consiste nell'affidamento delle varie fasi di procedimento appartenente a un'area a rischio a più persone, avendo cura di assegnare la responsabilità del procedimento ad un soggetto diverso dal dirigente cui compete l'adozione del provvedimento finale.
A tal fine, dovrebbero attribuirsi a soggetti diversi compiti relativi a: a) svolgimento d'istruttorie e accertamenti; b) adozione di decisioni; c) attuazione delle decisioni prese; d) effettuazione delle verifiche.
L'amministrazione deve, inoltre, dare luogo alla fondamentale misura della formazione dei dipendenti per garantire che sia acquisita da parte degli stessi la qualità delle competenze professionali e trasversali necessarie per dare alla rotazione in senso stretto
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2018).

APPALTIGare telematiche, offerte da inviare con anticipo. Il malfunzionamento del sistema determina la sospensione.
In una gara telematica il rischio di rete e il rischio tecnologico impongono al concorrente di attivarsi per tempo per l'invio dell'offerta; il malfunzionamento del sistema imputabile al gestore determinano la necessaria sospensione e la proroga dei termini. Lo ha affermato l'Anac nel Parere di Precontenzioso 06.06.2018 n. 537 - rif. PREC 101/18/F.
Era accaduto che un concorrente non fosse riuscito a partecipare alla procedura telematica di affidamento di un contratto pubblico a causa dell'impossibilità di trasmettere nei termini l'offerta, per via delle dimensioni dei file da caricare sulla piattaforma, superiori ai limiti massimi consentiti dal sistema.
Il concorrente, che ha formulato istanza di precontenzioso più di un anno fa, aveva sostenuto che del vincolo tecnico non fosse stata data evidenza nei documenti messi a disposizione del fornitore, né sul portale Mepa «Acquisti in rete», né da parte della stazione appaltante. Soltanto contattando il call center dedicato il fornitore aveva invece potuto apprendere che le dimensioni dei file che costituiscono l'offerta non possono superare complessivamente i 13 mb. Tali circostanze, ad avviso del concorrente, avrebbero dovuto imporre alla stazione appaltante la necessità di annullare la procedura o, in alternativa, di riaprire il termine per la presentazione delle offerte.
Al riguardo veniva risposto che la segnalazione del concorrente era stata comunque tardiva (effettuata il giorno successivo alla scadenza fissata per la presentazione delle offerte) e che non si era proceduto alla segnalazione tecnica al gestore del sistema e alla proroga del termine di presentazione delle offerte al fine di non ledere la par condicio tra i concorrenti.
L'Anac dirime la questione partendo da quanto affermato dalla giurisprudenza che ha affermato che a fronte degli indiscutibili vantaggi, le gare telematiche scontino tuttavia un rischio di rete, dovuto alla presenza di sovraccarichi o di cali di performance della rete, ed un rischio tecnologico dovuto alle caratteristiche dei sistemi operativi utilizzati dagli operatori.
Risponde, quindi, al principio di autoresponsabilità l'onere di colui che intende prendere parte alla gara di attivarsi in tempo utile per prevenire eventuali inconvenienti che, nei minuti immediatamente antecedenti alla scadenza del termine, gli impediscano la tempestiva proposizione dell'offerta (come avvenuto: scadenza alle ore 12, tentativo di risposta alla richiesta di offerta alle 11,30 e caricamento alle 11,45, non riuscito).
Rimangono salvi, ha detto l'Autorità, i malfunzionamenti del sistema imputabili al gestore della piattaforma (ad esempio fermi del sistema o mancato rispetto dei livelli di servizio): in questi casi scatta la responsabilità di quest'ultimo e la necessità di riconoscere una sospensione o proroga del termine per la presentazione delle offerte, come peraltro ora espressamente previsto dall'art. 79, comma 5-bis, del dlgs. 50/2016.
Nel caso esaminato, ha rilevato l'Anac, l'istante aveva iniziato le operazioni di invio dell'offerta in un momento eccessivamente a ridosso della scadenza e se si fossero riaperti i termini si sarebbe violata la par condicio
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

LAVORI PUBBLICIAffidamento concessioni, in gara progetto definitivo.
La concessione di lavori pubblici è affidabile ponendo a base di gara il progetto di fattibilità tecnico-economica o il progetto definitivo.

È quanto ha affermato l'Anac con la delibera 09.05.2018 n. 437 con la quale si fornisce risposta a diverse richieste di chiarimento in ordine al livello di progettazione necessario per l'affidamento di una concessione. L'intervento giunge in un momento in cui non è stato ancora emanato (è in corso l'iter dei pareri) il decreto che deve definire i contenuti dei tre livelli di progettazione.
La delibera parte dall'analisi del contenuto della concessione di lavori che può avere per oggetto: «L'esecuzione di lavori ovvero la progettazione esecutiva e l'esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l'esecuzione di lavori a uno o più operatori economici riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire le opere oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere». Da ciò la conseguenza che l'amministrazione concedente avrebbe due scelte: porre a base di gara un progetto di fattibilità tecnico-economica (l'ex preliminare) o un progetto definitivo.
Il codice, rispetto al principio generale dell'affidamento dei lavori sulla base del progetto esecutivo, ha previsto una eccezione per l'appalto integrato (ammesso, dopo il decreto 56/2017, sulla base del progetto definitivo in casi di netta prevalenza di elementi tecnologici o innovativi), ma non ha ben chiarito su quale livello progettuale si debbano affidare i lavori in caso di concessione.
Le specifiche sul livello progettuale da porre a base di gara sono state invece previste per le altre forme derogatorie del principio generale (affidamento sull'esecutivo): è il progetto di fattibilità tecnico-economica per la locazione finanziaria, per il Ppp, per le opere di urbanizzazione, mentre è il progetto definitivo per il contraente generale e infine è sulla base del solo capitolato prestazionale che si affida il contratto di disponibilità di cui all'articolo 188 del codice.
L'Autorità ha risolto in via interpretativa la questione con la necessità di dover fare riferimento alla definizione di concessione di lavori e quindi: «La mancata specificazione, a differenza di quanto fatto al comma 1-bis dell'art. 59 ove si parla espressamente di progettazione esecutiva, lascia presupporre che il legislatore abbia inteso far riferimento alla possibilità di affidare, congiuntamente all'esecuzione, non solo la progettazione esecutiva ma anche la progettazione definitiva».
Inoltre, per l'Anac la possibilità di affidare la concessione di lavori ponendo a base di gara il progetto di fattibilità tecnica ed economica e demandando la redazione del progetto definitivo al concessionario, è rilevabile anche da ulteriori disposizioni normative come l'articolo 165 ove si afferma che la sottoscrizione del contratto di concessione è possibile solo a seguito dell'approvazione del progetto definitivo (comma 3) e che in alcuni casi di risoluzione del contratto le spese relative alla progettazione definiva non sono oggetto di rimborso
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

APPALTIAvvalimento permanente, valido. Ammissione a termine, fino a nuove regole di qualificazione.
L'avvalimento permanente è ammesso fino a quando non saranno varate le nuove regole sulla qualificazione delle imprese.
È questo forse il più rilevante chiarimento contenuto nella guida di 23 pagine sulla disciplina dell'avvalimento e del soccorso istruttorio messa a punto dall'Anac che ha riunito le massime di precontenzioso emesse nel 2017 (aprile 2018) su richiesta di operatori economici e amministrazioni. Molti i temi sviscerati e raccolti organicamente dall'Anac.
Si prende le mosse dalla natura del contratto di avvalimento e dal profilo della determinatezza o determinabilità dell'oggetto del contratto di avvalimento ai sensi di quanto previsto dall'art. 89, comma 1, del codice dei contratti. Su questo punto, premessa l'insufficienza di una semplice dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria che «non può in alcun modo essere considerata come una forma atipica di contratto di avvalimento», legittimando quindi l'esclusione del concorrente, l'Autorità ha anche affermato che seppure occorre che il contratto sia determinato e determinabile, si possono ritenere presenti questi elementi «se l'oggetto del contratto, pur non essendo puntualmente determinato, sia tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento».
Bocciata dall'Anac anche ogni forma di limitazione contrattuale della responsabilità riferita ai «soli requisiti di cui è carente l'impresa ausiliata», in violazione del principio di piena responsabilità solidale tra concorrente e ausiliaria nei confronti della stazione appaltante in relazione a tutte le prestazioni contrattuali. Altro capitolo toccato dall'Anac è quello dei requisiti di carattere generale, fra cui la regolarità contributiva che, se mancante nell'impresa ausiliaria, legittima l'esclusione nelle fattispecie avvalimento permanente in quanto mina la garanzia della pubblica amministrazione sulla solidità e solvibilità finanziaria del contraente.
E proprio sull'avvalimento permanente, adesso escluso dal correttivo del decreto 50, l'Anac ha precisato che fino all'emissione delle nuove regole sul sistema di qualificazione delle imprese, potrà essere ancora utilizzato.
Sui requisiti di carattere speciale, con riferimento all'idoneità professionale, l'Anac ha confermato che l'iscrizione in registri deve intendersi strettamente collegato alla capacità soggettiva dell'operatore economico e pertanto non può formare oggetto di avvalimento.
Per la certificazione di qualità l'Anac ha ricordato che dopo un orientamento restrittivo (non cedibile la certificazione di qualità) si è spostata su una linea più flessibile che ammette l'avvalimento ma «a condizione che l'ausiliaria metta a disposizione dell'ausiliata l'intera organizzazione aziendale, comprensiva di tutti i fattori della produzione e di tutte le risorse che le hanno consentito di acquisire la certificazione».
Sul cosiddetto avvalimento di garanzia (prestito del requisiti di fatturato) l'Anac ha ricordato che «è necessario che dal contratto di avvalimento emerga, in modo determinato o determinabile e non quale semplice forma di stile, l'impegno dell'avvalsa sia a diventare un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario sia a vincolarsi finanziariamente nei confronti della stazione appaltante».
Nella parte relativa al soccorso istruttorio sono stati invece trattati profili riguardanti l'applicazione dell'istituto alle seguenti fattispecie: cause tassative di esclusione, sanzione pecuniaria, irregolarità dell'offerta tecnica ed economica (integrazione del contenuto dell'offerta, mancata sottoscrizione dell'offerta, oneri di sicurezza aziendali), dichiarazione del possesso dei requisiti di carattere generale, dichiarazione del possesso dei requisiti di carattere speciale, avvalimento, soccorso istruttorio successivo all'aggiudicazione, cauzione provvisoria e contributo integrativo all'Autorità
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

APPALTIResponsabile unico, anche per l’Anac la decisione sulle incompatibilità spetta alla stazione appaltante.
La questione della presidenza della commissione di gara da parte del responsabile unico del procedimento, non riesce a trovare –nel nostro ordinamento– un definitivo e univoco inquadramento. Ora, secondo il parere  con il Parere di Precontenzioso 01.03.2018 n. 193 - rif. PREC 36/18/S espresso dall'Anac, è compito della stazione appaltante valutare se il Rup si trovi o meno in situazioni di incompatibilità non potendolo qualificare automaticamente come incompatibile.
La vicenda
Nell'istanza di precontenzioso, un appaltatore aveva censurato –ritenendo gli atti illegittimi– la composizione della commissione di gara in ragione del fatto che il Rup «svolgeva le funzioni di Presidente in violazione dell'articolo 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016».
La stazione appaltante (una centrale di committenza) ha replicato che la posizione del responsabile unico del procedimento quale presidente dell'organo collegiale non crea in automatico nessuna incompatibilità considerato che «tra le funzioni di Rup e quelle di componente di commissione, (…) la prima non attiene a compiti di controllo ma soltanto a compiti di verifica interna della correttezza del procedimento».
Il parere
Una importante novità emerge dal parere dell'Anac considerato che, ora, l'autorità anticorruzione introduce una nuova considerazione rispetto al problema dell'incompatibilità. Come noto, fin dalle linee guida n. 3/2016, la posizione dell'Anac risultava abbastanza radicale nel ritenere il responsabile unico assolutamente incompatibile e «vietando» la possibilità per lo stesso di assumere il ruolo di presidente della commissione di gara (come anche nelle recenti modifiche delle linee guida).
Questo rigore è venuto stemperandosi in seguito alle prese di posizione del Consiglio di Stato (con il parere n. 1903/2016) e, soprattutto, con le modifiche introdotte dal decreto legislativo correttivo n. 56/2017 che –modificando il comma 4 dell'articolo 77 del codice dei contratti- ammette la possibilità che il responsabile unico possa far parte della commissione di gara secondo le determinazioni autonome della stazione appaltante. La nuova disposizione non può trovare applicazione al caso in esame e la vicenda dell'incompatibilità può essere decisa solo in base a una attenta analisi della stazione appaltante.
La novità della posizione, pertanto, è che la soluzione proposta si pone come posizione intermedia nel senso che l'Anac ammette che l'incompatibilità non è automatica ma, d'altra parte, non può neppure escludersi. Quindi, la stazione appaltante è chiamata a fare una valutazione in concreto sulla reale capacità del Rup di condizionare l'esito della gara.
Quale elemento istruttorio, in ausilio a questa valutazione, l'Anac però puntualizza il fatto che, nel caso di specie, il Rup «ha indetto la procedura di gara, ha approvato la documentazione ed ha adottato la determinazione di nomina della commissione, assumendone la presidenza». Fornendo, quindi, preziose indicazioni circa il ruolo «decisorio» avuto dal responsabile unico del procedimento nella procedura contrattuale. Ruolo decisorio che, secondo la giurisprudenza –ma anche secondo la stessa Anac- dovrebbe determinare l'incompatibilità di funzioni del Rup anche presidente della commissione di gara (Tar Emilia Romagna–Bologna, sezione II, sentenza n. 675/2015).
Il parere, pertanto, si conclude senza una presa di posizione netta ritenendo l'Anac che «spetti alla stazione appaltante valutare la sussistenza di un'incompatibilità in concreto a carico del RUP relativamente allo svolgimento della funzione di Presidente della commissione di gara, verificando la capacità di incidere sul processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l'esito» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2018).

APPALTIAffidamenti in autocertificazione. Metodi contro la turbativa d’asta per valutare l’anomalia. Chiarimento dell’Anac alle stazioni appaltanti: ammessa per importi inferiori a 5 mila euro.
Documento di gara unico europeo (Dgue) applicabile sempre per affidamenti diretti fino a 20 mila euro ma sotto 5mila euro è ammessa anche l'autocertificazione; principio di rotazione da applicare complessivamente a tutti gli affidamenti della stazione appaltante, ancorché organizzata in più articolazioni; ribassi identici da considerare unici ai fini dell'anomalia solo in determinati casi.
Sono questi alcuni dei principali chiarimenti forniti dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) su alcuni punti delle linee guida n. 4 relative alle procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria aggiornate con la delibera 01.03.2018 n. 206.
Un primo elemento considerato riguarda come devono essere trattate le offerte con identico ribasso ai fini della soglia di anomalia (un'unica offerta che si applica a tutte le offerte, o solo a quelle comprese nelle «ali»?).
Per l'Anac, in ossequio alla giurisprudenza, la regola del trattamento unitario delle offerte con identico ribasso, secondo la prevalente giurisprudenza si applica alle offerte poste a cavallo o all'interno delle «ali».
La regola poi si applica sia quando sia stato sorteggiato uno dei metodi (cosiddetto antiurbativa) di cui alle lettere a), b), e) dell'articolo 97, comma 2, del codice dei contratti pubblici, mentre in tutte le restanti ipotesi (metodo di cui alle lettere c) o d) dell'articolo 97, comma 2, del codice dei contratti pubblici (ovvero offerte residue a seguito del taglio delle ali), le offerte con identico ribasso vanno mantenute distinte ai fini della soglia di anomalia.
Sull'applicazione del principio di rotazione nelle stazioni appaltanti dotate di una pluralità di articolazioni organizzative, l'Autorità ha precisato che «deve tendenzialmente essere applicata in modo unitario, avendo cioè a riguardo gli affidamenti complessivamente attivati e da attivare nell'ambito della stazione appaltante». Così facendo, ha sostenuto l'Autorità, si rispetta il dettato dell'articolo 36 del codice «che non distingue in relazione alla presenza di articolazioni interne» ed è «più aderente all'impronta centralizzante ed efficace presidio nei confronti del divieto di artificioso frazionamento delle commesse».
Soltanto dove vi sia una stazione appaltante (ad esempio ministero, ente pubblico nazionale) che presenti, in ragione della complessità organizzativa, articolazioni, stabilmente collocate per l'amministrazione di determinate porzioni territoriali (ad esempio, Direzione regionale-centrale) ovvero per la gestione di una peculiare attività, strategica per l'ente, dotate di autonomia in base all'ordinamento interno, si potrà derogare alla regola generale.
Con riguardo agli affidamenti diretti e all'applicazione documento di gara unico europeo (Dgue) viene chiarito che per importo fino a 5mila euro le stazioni possono acquisire, indifferentemente, il Dgue oppure un'autocertificazione ordinaria. Per gli affidamenti diretti di importo fino a 20mila euro è invece necessario acquisire il Dgue. Queste regole si applicano, ha detto l'Anac, «a tutti gli affidamenti sopra considerati, a prescindere da una soglia minima di spesa». Il Dgue può essere riutilizzato per successive procedure di affidamento, a condizione che gli operatori economici confermino la perdurante validità delle precedenti attestazioni, includendo l'indicazione del nuovo cig (codice identificativo gara).
Infine, nei casi di applicazione dell'articolo 103, comma 11, primo periodo del codice dei contratti pubblici, se la stazione appaltante opta per esonerare l'affidatario dall'obbligo di presentare la garanzia definitiva, è necessario prevedere un miglioramento del prezzo di aggiudicazione ma occorre darne adeguata motivazione
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

APPALTISul principio di rotazione l’Anac affida la decisione alle stazioni appaltanti.
Con la delibera 01.03.2018 n. 206, l'Anac ha formalmente approvato le nuove linee guida n. 4 in tema di acquisizione di appalti di lavori, servizi e forniture nell'ambito sottosoglia comunitario con affinamento della disciplina sulla alternanza (la rotazione) tra imprese.
L'aspetto, probabilmente, di maggior rilievo operativo attiene alla conferma –rispetto a quanto già declinato nella proposta approvata nel mese di dicembre e trasmessa per il parere al Consiglio di Stato (parere n. 361/2018)– di una disciplina interna della stazione appaltante che regolamenti, tra gli altri, l'applicazione del principio di rotazione.
Un regolamento interno
Le linee guida confermano il divieto «di norma» di re-invito del vecchio affidatario o degli appaltatori già invitati al precedente appalto «semplificato» nei casi –e questa è una novità rispetto alla bozza di dicembre (che si esprimeva in termini di commessa analoga o uguale)- «in cui i due affidamenti, quello precedente e quello attuale, abbiano ad oggetto una commessa rientrante nello stesso settore merceologico, ovvero nella stessa categoria di opere, ovvero ancora nello stesso settore di servizi».
La stazione appaltante, però, può disciplinare l'applicazione del principio di rotazione, escludendola, sia nel caso in cui «apra» alla partecipazione al mercato senza limiti sia nel caso in cui, con un regolamento, introduca il sistema delle fasce di importo. In particolare, secondo l'Anac il regolamento potrebbe essere o quello di contabilità oppure un documento specifico che disciplini le procedure di affidamento di appalti di forniture, servizi e lavori. Da un punto di vista pratico, l'ultima soluzione pare quella più congeniale, considerato che gli aspetti da disciplinare, per dare omogeneità all'azione amministrativa contrattuale, sono in realtà diversi e l'esigenza di un atto regolamentare appare davvero fondata per evitare comportamenti eterogenei dei vari Rup.
La rotazione, pertanto verrebbe applicata «solo in caso di affidamenti rientranti nella stessa fascia» di importo relativamente allo stesso settore merceologico interessato.
L'Anac precisa l'esigenza che risulti effettiva una «differenziazione tra forniture, servizi e lavori» con adeguata motivazione «in ordine alla scelta dei valori di riferimento delle fasce».
Per i lavori, i valori possono tenere conto delle soglie previste dal sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori.
Sono vietati naturalmente comportamenti arbitrari «con riferimento agli affidamenti operati negli ultimi tre anni solari» quali «arbitrari frazionamenti delle commesse o delle fasce; ingiustificate aggregazioni o strumentali determinazioni del calcolo del valore stimato dell'appalto; alternanza sequenziale di affidamenti diretti o di inviti agli stessi operatori economici; affidamenti o inviti disposti, senza adeguata giustificazione, ad operatori economici riconducibili a quelli per i quali opera il divieto di invito o affidamento, ad esempio per la sussistenza dei presupposti di cui all'articolo 80, comma 5, lettera m del Codice dei contratti pubblici». Ovvero nel caso di collegamento riscontrato –finalizzato a condizionare l'affidamento– tra imprese.
Altri aspetti da regolamentare
Nello stesso regolamento, la stazione appaltante avrà cura di indicare «una quota significativa minima di controlli a campione da effettuarsi in ciascun anno solare (…) nonché le modalità di assoggettamento al controllo e di effettuazione dello stesso». Previsione collegata alla nuova semplificazione dei controlli sui requisiti negli affidamenti entro i 20mila euro.
Nello stesso documento una disciplina ad hoc deve essere dedicata ai microacquisti, soprattutto rispetto all'affidamento diretto, che può essere sinteticamente motivato nell'ambito di acquisti entro mille euro proprio con richiamo al regolamento. Un po' come accadeva con il vecchio regolamento delle acquisizioni in economia che esigeva l'indicazione dei beni/servizi/lavori e i limiti d’importo.
Nello stesso regolamento, per evitare l'adozione di una moltitudine di atti, le stazioni appaltanti possono disciplinare anche le dinamiche da adottare nell'avvio e svolgimento delle indagini di mercato «eventualmente distinte per fasce di importo, anche in considerazione della necessità di applicare il principio di rotazione», le modalità di costituzione e revisione dell'elenco degli operatori economici, distinti per categoria e fascia di importo e i i criteri di scelta dei soggetti da invitare «a presentare offerta a seguito di indagine di mercato o attingendo dall'elenco degli operatori economici propri o da quelli presenti nel Mercato» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2018).

APPALTIPiù concorrenza negli appalti. L'affidamento diretto, o il reinvito, dovrà essere motivato. Le linee guida Anac raccomandano il rispetto del principio di rotazione degli incarichi.
Maggiore rotazione degli incarichi per appalti pubblici di rilevanza nazionale; verifiche anche per gli affidamenti diretti sotto i 20.000; rispetto dei principi Ue per gli affidamenti nei settori «speciali».
Sono questi alcuni dei punti toccati dalle linee guida Anac n. 4 sulle procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, aggiornate con la delibera 01.03.2018 n. 206, che entreranno in vigore 15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L'aggiornamento è dovuto alle disposizioni introdotte dal primo decreto correttivo (dlgs 56/2017) del codice dei contratti pubblici.
Nelle linee guida si precisa innanzitutto che si applicano agli affidamenti di lavori, servizi e forniture posti in essere dalle stazioni appaltanti operanti nei settori ordinari e che le imprese pubbliche e i soggetti titolari di diritti speciali ed esclusivi per gli appalti di lavori, forniture e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria, rientranti nell'ambito definito dei settori speciali (acqua, energia e trasporti) «applicano la disciplina stabilita nei rispettivi regolamenti, la quale, comunque, deve essere conforme ai principi dettati dal Trattato Ue».
Restano fermi, dice l'Anac, gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa nonché la normativa sulla qualificazione delle stazioni appaltanti e sulla centralizzazione e aggregazione della committenza.
Le stazioni appaltanti potranno sempre, discrezionalmente, ricorrere alle procedure ordinarie anziché a quelle dell'articolo 36 codice appalti.
Per gli affidamenti «di interesse transfrontaliero certo» le stazioni appaltanti adottano le procedure di gara adeguate e utilizzano mezzi di pubblicità atti a garantire in maniera effettiva ed efficace l'apertura del mercato alle imprese estere.
Al fine di evitare il frazionamento artificioso degli appalti le amministrazioni dovranno sempre applicare le disposizioni sul calcolo dell'importo a base di gara di cui all'articolo 35 del codice dei contratti pubblici. Lo stesso meccanismo di calcolo si dovrà applicare anche per le opere da realizzarsi a scomputo degli oneri di urbanizzazione di cui all'articolo 36, comma 3 e 4 del codice dei contratti pubblici, indipendentemente se si tratta di lavori di urbanizzazione primaria o secondaria, fatto salvo quanto previsto dal decreto del presidente della repubblica n. 380/2001.
Per quel che riguarda il principio di rotazione degli affidamenti e degli inviti l'Anac chiarisce che andrà applicato alle procedure rientranti nel medesimo settore merceologico, categorie di opere e settore di servizi di quelle precedenti, nelle quali la stazione appaltante opera limitazioni al numero di operatori economici selezionati.
I regolamenti interni potranno prevedere fasce, suddivise per valore, sulle quali applicare la rotazione degli operatori economici.
Il rispetto del principio di rotazione espressamente fa sì che l'affidamento o il reinvito al contraente uscente abbiano carattere eccezionale e richiedano un onere motivazionale più stringente. L'affidamento diretto o il reinvito all'operatore economico invitato in occasione del precedente affidamento, e non affidatario, dovrà essere sempre motivato.
In merito alla verifica dei requisiti degli affidatari le linee guida prevedono, per gli affidamenti diretti di importo fino a 20.000,00 euro, procedure con notevoli semplificazioni ma se si accerta l'inesistenza dei requisiti dichiarati la stazione appaltante è legittimata ad incamerare la cauzione
(articolo ItaliaOggi del 16.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIIncarichi, prezzo più pesante. Passa da 20 a 30 punti il valore dell'elemento economico. Le novità delle Linee guida Anac sugli affidamenti dei servizi di ingegneria e architettura.
Limite massimo di 30 punti per il prezzo negli affidamenti di servizi di ingegneria e architettura; più concorrenza per gli incarichi di verifica dei progetti; requisito sul personale riferito soltanto ai «Full time equivalent» (Fte); limite a 10 anni per i tre progetti che il concorrente espone come prova della sua professionalità.
Sono queste alcune delle novità contenute nell'aggiornamento delle linee guida n. 1/2016 dell'Autorità nazionale anticorruzione (non vincolanti) che il Consiglio ha varato con la delibera 21.02.2018, n. 138, depositata in questi giorni.
Il provvedimento dell'Autorità presieduta da Raffaele Cantone non è ancora in vigore perché occorrerà attendere 15 giorni dopo la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale. La delibera adegua le linee guida che le stazioni appaltanti operanti nei settori ordinari generalmente applicano per affidare incarichi di progettazione, direzione lavori, altri servizi tecnici, compresi quelli inerenti le verifiche dei progetti e che sono in vigore da ottobre 2016.
La nuove versione contiene in particolare diverse modifiche dettate dal decreto 56/2017 (il primo decreto correttivo del codice appalti) recepisce i contenuti del Comunicato del presidente Anac del 14.12.2016 (che ha inserito anche i servizi di supporto fra le referenze utilizzabili) e di altre linee guida (ad esempio le n. 4 sugli affidamenti sotto la soglia Ue dei 211.000 euro).
Una delle modifiche del decreto 56/2017 che impatta sulle linee guida è quella inerente il punteggio massimo che può essere attribuito al prezzo: si passa da 20 a 30 così previsto dall'articolo 95, comma 10-bis del codice. A seguito di questa modifica è stato ridotto di 5 punti (da 30 a 25) il punteggio minimo attribuibile all'elemento «professionalità» e alla parte metodologica dell'offerta (con il massimo sempre fisso a 50). Importanti novità anche per i tre progetti che i concorrenti possono presentare in gara per dimostrare (nell'offerta tecnica) la loro «professionalità», con una limitazione significativa agli ultimi 10 anni.
Tutto da verificare l'impatto di questa novità soprattutto in alcuni settori dove si è intervenuti raramente (per esempio le dighe). Di rilievo anche la modifica introdotta per i servizi di verifica dei progetti per i quali la richiesta del requisito del fatturato globale non riguarda più le sole verifiche ma anche la progettazione o la direzione lavori; sempre per le verifiche, poi, si amplia l'arco temporale delle referenze dei servizi analoghi (di verifica ma anche di progettazione e direzione lavori), da 5 a 10 anni.
In ordine ai requisiti per il personale, le nuove linee guida dispongono di fare riferimento alle «risorse a tempo pieno (Full time equivalent, Fte)» e, per le unità minime di tecnici che devono essere richieste a professionisti singoli o associati si prevede che si possano comprendere in tali unità i dipendenti, consulenti a partita Iva (sempre espressi come risorse a tempo pieno) che fanno capo al professionista o allo studio associato. Viene resa più agevole la dimostrazione della presenza del geologo nella compagine dell'offerente, facendo riferimento anche ai dipendenti e ai consulenti con partita Iva che fatturino più del 50% a favore del concorrente.
Per gli affidamenti diretti (fino a 20.000 euro) occorrerà una determina a contrarre che «in forma semplificata» riporti l'oggetto dell'incarico, il calcolo analitico dell'importo «ove possibile», il nominativo dell'affidatario e le motivazioni dell'affidamento e l'accertamento dei requisiti «ove richiesti»
(articolo ItaliaOggi del 14.03.2018).

APPALTILegittimo dividere i lotti per favorire il mercato. Delibera Anac sulle procedure di affidamento di un appalto
È legittimo che una stazione appaltante, per una procedura di affidamento articolata in più lotti, vincoli i concorrenti a presentare offerte a un numero limitato di lotti e sempre nella stessa forma giuridica (individuale o associata); la previsione ha la finalità di tutelare la concorrenza
Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione con il Parere di Precontenzioso 07.02.2018 n. 96 - rif. PREC 4/18/S (Oggetto: Istanza presentata dalla SO.GE.SI. S.p.A. – Gara comunitaria centralizzata a procedura aperta finalizzata all’acquisizione del servizio di lavanolo occorrente alle Aziende Sanitarie della Regione Lazio – 8 lotti - Importo a base di gara: 133.762.389,05.000 euro - S.A.: Regione Lazio) che affronta il tema della partecipazione ad una procedura di affidamento di un appalto suddiviso in più lotti. Nel caso affrontato la stazione appaltante aveva proceduto alla suddivisione dell'appalto in più lotti distinti ponendo un limite alla partecipazione a un numero massimo di lotti.
In particolare la stazione appaltante, nel rispondere all'Anac, aveva precisato che gli atti di gara stabilivano un limite massimo di tre lotti aggiudicabili ad un medesimo concorrente e che la clausola prevedeva anche l'obbligo per il concorrente di presentarsi sempre nella stessa forma individuale o associata e nella medesima composizione.
Con particolare riferimento a questa seconda precisazione sempre la stazione appaltante aveva chiarito che la finalità era stata quella di «consentire l'effettivo rispetto del limite, precludendo la possibilità ai singoli operatori di eludere il richiamato limite di lotti aggiudicabili, presentandosi quale concorrenti in forme giuridiche diversificate ovvero in differenti composizioni, a salvaguardia della concorrenza».
Nella delibera l'Autorità fa presente che nella Nota illustrativa al bando tipo n. 2/2017 («Schema di disciplinare di gara, Procedura aperta per l'affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture nei settori ordinari sopra soglia comunitaria con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo»), è precisato che nel caso di una suddivisione dell'appalto in lotti distinti in cui la stazione appaltante ponga limiti alla partecipazione a un numero massimo di lotti, la stessa, «per evitare l'elusione del limite di partecipazione, potrà prevedere la partecipazione nella medesima o in diversa forma ai concorrenti per tutti i lotti in gara, a condizione che sia rispettato il limite di partecipazione previsto».
Già nel bando-tipo veniva quindi prevista la possibilità di vincolare i concorrenti a partecipare nella stessa forma giuridica il che, dice l'Anac, consente di «evitare l'ipotesi in cui, per esempio, previsto il limite di partecipazione a massimo due lotti, il raggruppamento temporaneo di imprese partecipi, a due di quattro lotti banditi e la singola impresa facente parte del Rti presenti offerta per un terzo lotto dei quattro messi in gara». Se ciò fosse ammesso, nota l'Anac, si consentirebbe una coincidenza, seppure parziale, tra i soggetti aggiudicatari dei due lotti contendibili come limite massimo e un terzo lotto, di fatto aggirando, in tal modo, il limite alla partecipazione.
Da qui la conclusione che è legittimo stabilire in un bando non soltanto un limite massimo alla partecipazione ai lotti, ma anche vincolare i concorrenti a partecipare alla gara in una determinata e non modificabile forma giuridica (individuale o associata)
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se statuto e regolamento non li vietano. La materia è affidata all’autonomia organizzativa dei consigli.
Un consigliere fuoriuscito da altro gruppo preesistente può costituire un gruppo unipersonale, nel caso in cui l'ente non abbia disciplinato la fattispecie con specifiche norme regolamentari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
Nel caso di specie, lo statuto del comune si limita a stabilire che i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare, specificando, altresì, che anche nel caso in cui nella lista sia eletto un solo consigliere, questi costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ribadisce il contenuto dello statuto in materia di costituzione dei gruppi, ma non disciplina l'eventuale formazione di nuovi gruppi scaturenti da movimenti successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari prevedono che il consiglio comunale prenda atto, nella prima seduta utile, «della costituzione, designazione ed ogni successiva variazione dei gruppi consiliari», ammettendo, così, implicitamente, la possibilità di modifiche nei gruppi come discendenti dall'esito delle elezioni, senza però declinarne le modalità.
Considerato che la materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli riconosciuta dal citato art. 38 del Testo unico sugli enti locali (dlgs n. 267/2000), la soluzione alle relative problematiche dovrebbe essere trovata dallo stesso consiglio, anche valutando l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari.
Appare, comunque, corretta nella fattispecie in esame, la posizione dell'amministrazione locale che la ritiene invece possibile, a seguito dell'esercizio dell'attività di interpretazione delle proprie norme nell'ambito dell'autonomia che le viene riconosciuta dall'ordinamento, non sussistendo una esplicita disposizione statutaria o regolamentare che impedisca la formazione di nuovi gruppi
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, prefetti in campo. Se il presidente non convoca l’assemblea. Anche la trattazione di semplici questioni attiene ai poteri dell’organo
Ai sensi dell'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, in quali casi viene attivato il potere sostitutivo del prefetto?

Nella fattispecie in esame, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno depositato presso il comune una mozione e una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione del consiglio, ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e, a causa del mancato riscontro della richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente devono essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione.
Inoltre, la medesima fonte normativa stabilisce che la convocazione richiesta ex art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Il sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari, sostiene che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri non possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione».
Ciò stante, l'orientamento che vede riconosciuto e definito dal legislatore «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo» come «diritto» è ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124). Peraltro, il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo l'indirizzo prevalente, al presidente del consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta e il prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti, da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996 ).
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004, n. 124).
Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro 30 giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non fosse diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale.
Con specifico riferimento al caso in esame, l'ente potrebbe valutare l'opportunità di modificare la normativa regolamentare dal momento che la stessa, limitando all'esame delle «deliberazioni» la possibilità di accedere all'istituto previsto dall'art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

APPALTI: Avviso pubblico per indagine mercato o per procedura negoziata semplificata.
Domanda
L’ufficio deve avviare una procedura negoziata (ai sensi dell’art. 36 del codice dei contratti, comma 2, lett. b), per l’aggiudicazione di un servizio. Il RUP vorrebbe procedere con la predisposizione di un avviso pubblico destinato a conoscere le condizioni (e gli appaltatori) che il mercato può esprimere.
Si stava valutando, però, la possibilità di pubblicare un avviso che consenta agli interessati di presentare direttamente la domanda di partecipazione alla gara.
A tal proposito sarebbe possibile avere un chiarimento sulla differenza sostanziale tra avviso per indagine di mercato e avviso a manifestare interesse (ad esempio anche sui contenuti essenziali)?
Risposta
Il RUP, secondo la propria discrezionalità e conoscenza tecnica –salvo specifiche direttive de responsabile del servizio o declinate in atti interni della stazione appaltante (ad esempio un regolamento interno che regola l’attività contrattuale nel sotto soglia nel rispetto di quanto indicato dall’ANAC e nell’articolo 36 del codice dei contratti)– prima della predisposizione degli atti del procedimento contrattuale vero e proprio (e l’avviso a manifestare interesse a partecipare ad una competizione è uno di questi e, come si dirà, in qualche modo vincola già la stazione appaltante a differenza di una semplice “indagine” di mercato) può gestire il procedimento nel modo che ritenga maggiormente opportuno (sotto il profilo tecnico).
Pertanto, in fase propedeutica potrebbe valutare di effettuare o una indagine di mercato o anche delle consultazioni preventive. Sia la prima, e soprattutto la seconda (per le implicazioni su eventuali/possibili conflitti di interessi), può avvenire tramite avviso pubblico.
L’avviso pubblico, diretto a sondare il mercato per conoscere la realtà pratica e le potenziali condizioni contrattuali, pur essendo radicalmente diverso da un avviso a manifestare interesse (o a richiedere già la presentazione di offerte per partecipare ad una competizione) deve avere dei requisiti minimi già indicato dall’ANAC con le linee guida n. 4 recentemente adeguate con la deliberazione n. 206/2018.
Come sottolinea l’ANAC, l’avviso per l’indagine di mercato deve essere pubblicato sul profilo di committente, nella sezione “amministrazione trasparente” sotto la sezione “bandi e contratti”, o ricorre ad altre forme di pubblicità.
La durata della pubblicazione è stabilita in ragione della rilevanza del contratto, per un periodo minimo identificabile in quindici giorni, salva la riduzione del suddetto termine per motivate ragioni di urgenza a non meno di cinque giorni.
L’avviso di avvio dell’indagine di mercato deve indicare almeno:
   1 .il valore dell’affidamento,
   2. gli elementi essenziali del contratto,
   3. i requisiti di idoneità professionale,
   4. i requisiti minimi di capacità economica/finanziaria e le capacità tecniche e professionali richieste ai fini della partecipazione,
   5. il numero minimo ed eventualmente massimo di operatori che saranno invitati alla procedura,
   6. i criteri di selezione degli operatori economici,
   7. le modalità per comunicare con la stazione appaltante.
L’ipotesi appena riportata è quella relativa ad una formalizzazione corretta dell’indagine di mercato ma è chiaro che la stessa può avere –purché corretta ed oggettiva– anche un grado di maggior semplificazione. Si pensi alla attività di indagine svolta sui mercati elettronici soprattutto per affidamenti infra i 40mila euro.
Nel momento in cui il RUP avvia l’indagine di mercato, dovrà chiaramente esplicitare che tale attività è finalizzata ad una verifica sulle potenzialità presenti nel mercato senza alcune vincolo per la stazione appaltante. Nel senso che questa potrebbe anche decidere di non procedere con la procedura negoziata o procedere con la redazione di un procedimento ad evidenza pubblica. Oppure, considerata la moltitudine di realtà produttive sul mercato anche determinarsi a fissare dei criteri di estrazione piuttosto che procedere con un invito massivo.
Nel caso di avviso/bando in cui il RUP intenda “superare” la prima fase di indagine e far partecipare al procedimento tutti i soggetti –in possesso dei requisiti– interessati (che vengono, pertanto, invitati, a presentare direttamente la domanda di partecipazione con la produzione di una vera e propri proposta), è chiaro che l’avviso avrà il contenuto di un bando vero e proprio con riferimenti alla base d’asta ed alle ipotesi di esclusione/soccorso istruttorio integrativo e via discorrendo.
La necessità di chiarire distintamente le due fasi procedurali ovvero la “semplice” indagine di mercato (che non vincola la stazione appaltante) da un momento “negoziale” e proprio come una avviso a presentare direttamente le offerte o anche alla richiesta di presentazione delle offerte con una lettera di invito (che normalmente segue all’avviso di indagine di mercato) –che invece vincola la stazione appaltante obbligandola a concludere il procedimento– ha un rilevanza sostanziale.
Questa differenza, in particolare, emerge da una recente sentenza del Tar Campania, Napoli, sez. V, n. 4611/2018.
La stazione appaltante procedeva con la pubblicazione, sul proprio portale di “un avviso di indagine di mercato”, manifestando chiaramente l’intenzione di esperire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione di bando di gara, ai sensi dell’art. 63, comma 2, lettera b), del DLgs n. 50/2016, per l’affidamento della fornitura di materiale medico/sanitario.
In realtà poi, discrezionalmente, decideva di non procedere nonostante le richieste di presentare offerta con delle specifiche lettere di invito.
In sentenza si è precisato che la stazione appaltante non può discrezionalmente declassare/derubricare la propria attività amministrativa e, come nel caso di specie, qualificare una procedura negoziata vera e propria –a cui ha fatto seguito anche la lettera di invito a presentare offerta– come una semplice escussione/verifica delle condizioni di mercato.
Nella stessa lettera d’invito, rileva il giudice, “si precisava che il plico avrebbe dovuto contenere due distinte “Buste”, siglate e firmate sui lembi di chiusura, delle quali una contenente la “documentazione amministrativa” e l’altra “l’offerta economica”, e che la ditta avrebbe dovuto indicare anche il tempo massimo di validità dell’offerta (non inferiore a 180 giorni) nonché i tempi di consegna della fornitura”.
Ne consegue che “l’Amministrazione avrebbe dovuto concludere il procedimento avviato con un provvedimento espresso che desse conto delle eventuali ragioni ostative al mancato perfezionamento della procedura ovvero del mancato affidamento della fornitura in favore della ricorrente”.
Per come strutturato, il procedimento, caratterizzato da una prima fase esplorativa –con richiesta di manifestazione di interesse a partecipare alla successiva competizione– e da una lettera di invito a presentare offerta in plico sigillato, non v’è dubbio che in questo modo si sia dato inizio ad una gara, con conseguente necessità di definizione/conclusione “con un provvedimento finale espresso, in base ai principi generali stabiliti dall’art. 2 della L. n. 241 del 1990”.
Pertanto, la stazione appaltante viene intimata –oltre alla condanna al pagamento delle spese di giudizio– a riavviare il procedimento giungendo anche all’adozione di un provvedimento espresso e quindi, a concludere la procedura avviata nel rispetto dei canoni di buona fede e lealtà amministrativa (01.08.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Termine dilatorio per la stipulazione del contratto e sospensione feriale dei termini processuali.
Stante l’assenza di un’espressa disposizione, il termine dilatorio previsto dall’art. 32, c. 9, del D.Lgs. 50/2016 non subisce alcuna proroga o sospensione per effetto della sospensione feriale dei termini processuali contemplata dall’art. 54, c. 2, del D.Lgs. 104/2010, la quale, peraltro, non inibisce la proposizione dei ricorsi dinanzi al tribunale amministrativo regionale durante il periodo considerato.
Il Comune, considerando che l’art. 32, comma 9, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, dispone che il contratto non può essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione
[1] e rilevando che detto termine è stato coordinato con il termine per il ricorso giurisdizionale di trenta giorni al fine di evitare la stipulazione del contratto in pendenza di giudizio, chiede di conoscere se il suddetto termine di trentacinque giorni rimanga sospeso dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si fornisce risposta negativa.
Occorre, infatti, rilevare che, stante l’assenza di un’espressa disposizione al riguardo, il termine dilatorio (cd. stand still) previsto dall’art. 32, comma 9, del D.Lgs. 50/2016 non subisce alcuna proroga o sospensione per effetto della sospensione feriale dei termini processuali contemplata dall’art. 54, comma 2
[2], del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104, la quale, peraltro, non inibisce la proposizione dei ricorsi dinanzi al tribunale amministrativo regionale durante il periodo considerato. [3]
---------------
[1] Si rammenta che ai sensi del comma 10 del medesimo art. 32 il termine dilatorio di cui trattasi non si applica, tra gli altri, agli affidamenti di lavori di importo inferiore a 150.000 euro, nonché agli affidamenti di forniture e servizi sottosoglia.
[2] «I termini processuali sono sospesi dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno.».
[3] Cfr. parere ANCI del 22.08.2011, reperibile sul sito www.ancirisponde.ancitel.it
(27.07.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Per verifiche e controlli sull'attività di governo. La presidenza deve essere attribuita a un consigliere di opposizione.
È legittima la convocazione della Commissione garanzia e controllo comunale, richiesta da un comitato di cittadini, per verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale?

La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, per esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come le commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle previsioni statutarie e regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto comunale stabilisce solo che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione; inoltre prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata delle stesse.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta e dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuino verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente a un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere, in particolare, sulla competenza di tali organismi, poiché l'attività della commissione garanzia e controllo dovrà limitarsi alle verifiche sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Regole per il referendum. Se previsto nello Statuto va regolamentato. I cittadini devono sensibilizzare il comune affinché provveda.
Può essere dichiarato ammissibile il referendum comunale proposto da un cittadino, in assenza di specifica disciplina regolamentare di dettaglio, specificamente prevista dallo Statuto comunale? Potrebbe sanare tale mancanza l'eventuale approvazione del regolamento da parte del consiglio comunale, con la previsione di norme transitorie per lo svolgimento della citata consultazione referendaria, ferma restando la verifica dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un organismo che sostituisca l'abrogato difensore civico?

Il nostro ordinamento favorisce la partecipazione diretta del cittadino nella vita delle istituzioni locali.
L'Italia ha, invero, fatto propri i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino trovano una loro concretizzazione nel dlgs n. 267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non meramente facoltativo dello statuto.
Un rinvio allo statuto è previsto dall'art. 8, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267/2000, circa la previsione di forme di consultazione della popolazione, nonché delle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che (comma 4) devono comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di partecipazione, il referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve, però, essere compiutamente disciplinato dal regolamento.
Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito regolamento comunale la disciplina delle modalità operative del referendum, fornendo peraltro una serie di indicazioni di dettaglio che dovrebbero essere recepite dal medesimo regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di stato, sez. I, 08.07.1998, n. 464, reso, su richiesta dell'amministrazione dell'Interno, in relazione a una fattispecie analoga e il cui orientamento è stato successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato, sez. IV, con la sentenza n. 3769/2008, si prospetta, infatti, in funzione complementare e integrativa rispetto alle previsioni statutarie, tanto da rendere inapplicabile l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello stesso.
La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia ritiene, infatti, che debba essere la fonte regolamentare a «prevedere le varie fasi nelle quali si articola la consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei risultati», inclusi i sistemi con cui sindacare l'ammissibilità della consultazione.
Pertanto, i cittadini interessati all'approvazione del regolamento dovranno sensibilizzare l'ente affinché proceda al riguardo, poiché le previsioni dello statuto non consentono alcun margine discrezionale da parte dell'amministrazione.
Ferma restando l'ammissibilità dell'adozione di un regolamento attuativo per consentire (con specifiche norme transitorie) anche il regolare espletamento della procedura già avviata, deve essere comunque garantito ai promotori l'effettivo esercizio entro i termini previsti dallo statuto.
Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le norme transitorie, in assenza delle modifiche statutarie, devono comunque essere coerenti con le disposizioni di tale ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a), della legge 23.12.2009, n. 191, pur avendo soppresso la figura del difensore civico comunale, ha stabilito che le relative funzioni possono essere attribuite, mediante convenzione, al difensore civico della provincia
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Par condicio in comune. Uguali opportunità per entrambi i sessi. Il principio vale anche per i municipi con meno di 3.000 abitanti.
In tema di parità di genere, quale disciplina deve essere applicata, nella composizione della giunta comunale, ad un ente locale con popolazione inferiore a 3.000 abitanti?

Affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere, la legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha previsto, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti, il quorum del 40%. Per i comuni al di sotto di tale soglia demografica resta vigente, invece, l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale disposizione prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Nella specie, la legge n. 215 del 2012 ha modificato la norma citata sostituendo il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi» (art. 1, comma 1); l'art. 1, comma 2, di tale legge, inoltre, ha previsto l'obbligo, per gli enti locali, di adeguare i propri statuti e regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del Tuoel. entro sei mesi dall'entrata in vigore della stessa legge.
Peraltro, l'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi». Tale normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella sopraindicata fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. Se il regolamento è in contrasto va disapplicato. Cosa fare quando le due fonti normative dicono cose diverse.
Affinché possa essere considerata valida una seduta del consiglio comunale, convocata in seconda convocazione, come deve essere determinato il quorum strutturale?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14 consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), prevalendo la norma statutaria, la disposizione regolamentare deve essere disapplicata.
Al fine di comporre l'evidenziata discrasia, deve considerarsi, pertanto, opportuno un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle citate fonti di autonomia locale
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri senza gruppo. Chi si autoesclude resta fuori dalle commissioni.
È corretta la sostituzione, all'interno di una commissione consiliare consultiva, di una consigliera comunale che ha dichiarato la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, disposta con atto del presidente del consiglio comunale?

Nel caso di specie la consigliera comunale, dichiarando la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è sostanzialmente avvalsa della facoltà, prevista dallo statuto comunale, che consente di «non appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente, i gruppi autonomi, invece, possono essere costituiti, solo se formati da almeno tre consiglieri.
Inoltre lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio proporzionale, e il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di designare i propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti; per di più stabilisce che i consiglieri possono fare parte di più di una commissione e prevede che le sostituzioni siano demandate al singolo capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto. Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia (con l'eccezione della sentenza contraria del Tar Puglia Lecce n. 516/2013) stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo, anche se formato da un solo consigliere, presente in consiglio (si veda Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796; Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal consiglio di stato il quale con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi, il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella commissione interessata».
Premesso che teoricamente la consigliera, qualora facente parte di un gruppo unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare a tutte le commissioni, dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso complessivo.
Tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in ordine alla facoltà concessa dallo statuto comunale di escludersi da ogni gruppo, il concreto esercizio del diritto di autoesclusione da parte del consigliere comunale impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di essere designato all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di designare rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato esclusivamente ai capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei consiglieri facenti parte di un gruppo.
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri, condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie esaminata
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2018).

NEWS

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATAVolontari con le mani legate. Negli eventi non possono fermare mezzi e persone. Circolare della Protezione civile sull’impiego di personale nelle manifestazioni di paese.
Nelle manifestazioni di paese è frequente l'impiego di soggetti volontari riconoscibili da pettorine, divise e mezzi attrezzati. Ma se si tratta di volontari della protezione civile d'ora in poi sarà più difficile vedere soggetti in divisa impegnati nel controllo del traffico e di vigilanza fisica delle aree dove si svolgono gli eventi. Queste attività infatti ora sono specificamente vietate per tutte le organizzazioni di volontariato di protezione civile.
Lo ha evidenziato il Dipartimento della protezione civile con la nota 06.08.2018 n. 45427 di prot..
L'impiego di personale volontario per la realizzazione di manifestazioni pubbliche è ormai divenuta un'attività ordinaria, specialmente alla luce delle severe recenti prescrizioni in tema di safety e security. Ma per il personale che presta servizio di protezione civile il riferimento normativo nazionale è rappresentato dal decreto legislativo n. 1/2018 che sulla materia delle attività da svolgere è molto selettivo.
Specifica infatti questo provvedimento che il personale che svolge servizio di protezione civile in occasione di eventi programmati e programmabili può assicurare solo un supporto marginale limitatamente ad aspetti di natura organizzativa e di supporto alla popolazione. Senza mai interferire con i servizi che attengono alle forze di polizia. L'intervento dei volontari della protezione civile nelle pubbliche manifestazioni a parere del Dipartimento si può espletare anche in ambiti non riconducibili a scenari tipici di protezione civile.
In questo caso il volontario può legittimamente svolgere le funzioni richieste dall'organizzatore dell'evento contemplate dall'oggetto associativo. L'organizzazione di volontariato in tale ipotesi non interviene in qualità di struttura operativa del servizio nazionale di protezione civile dunque è libera di inviare il proprio personale se lo consente lo statuto. Ma senza impiego di loghi e stemmi di protezione civile per non confondere gli osservatori. L'intervento tipico dei volontari di protezione civile però è rappresentato dagli eventi dove l'organizzazione partecipa in qualità di struttura operativa del servizio nazionale. Si tratta degli eventi a rilevante impatto locale, attivati con il necessario supporto della regione.
Il volontario in questo caso, specificamente formato e dotato di idonei dispositivi di protezione, potrà fornire assistenza e informazione alla popolazione. Con tutti i limiti previsti dalla legge in relazione alla sua qualifica. Resta infatti totalmente precluso al volontariato anche in questo caso svolgere servizi di viabilità e regolazione del traffico veicolare. E i volontari della protezione civile non possono neppure occuparsi delle altre attività di controllo del territorio come il servizio di controllo accessi, i servizi di vigilanza ed osservazione, la protezione delle aree interessate dall'evento e l'adozione di impedimenti fisici al transito dei veicoli con interdizione dei percorsi di accesso
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2018).

APPALTIUn Codice appalti concertato. Limiti ai ribassi, compensi, soft law, linee guida Anac.
Limite ai ribassi sul prezzo, compensi dei commissari di gara, possibili deroghe al principio dell'affidamento dei lavori sulla base del progetto esecutivo, riflessione sulla soft law e sulle linee guida Anac. E ancora, affidamenti in house, qualificazione delle stazioni appaltanti e delle imprese di costruzioni, rivisitazione delle attività incentivabili per i tecnici delle pubbliche amministrazioni.

Sono alcuni dei temi più caldi che saranno al centro, fino al 10 settembre, della consultazione on-line (http://consultazioni.mit.gov.it) lanciata dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti Danilo Toninelli per «un futuro intervento di riforma del Codice dei Contratti pubblici» che, peraltro il premier Conte in conferenza stampa mercoledì scorso ha confermato sarà pronta per il mese di settembre.
La consultazione è centrata su 29 «primi temi di riflessione», separatamente proposti col riferimento ad argomenti indicati sinteticamente, preceduti dalla puntuale indicazione del riferimento normativo all'interno del Codice. Si tratta di argomenti che costituiscono altrettanti punti di emersione di criticità più urgenti rilevate durante la costante opera di monitoraggio effettuata dal ministero nei primi due anni di vigenza del Codice, ovvero segnalate nel tempo al ministero da un'ampia platea di stakeholders.
Sostanzialmente già la scelta dei temi offre indicazioni importanti su come si concretizzerà il «primo intervento» sul decreto 50/2016, in attesa di una riforma più ampia. Buona parte degli argomenti sono stati approfonditamente discussi ed esaminati già all'epoca della legge delega, primo fra tutti quello della cosiddetta «soft law».
Assai delicato è il tema del cosiddetto «appalto integrato» (affidamento all'impresa della progettazione esecutiva e della realizzazione dell'opera) oggi possibile nei settori speciali (acqua, energia e trasporti) e in limitati casi (complessità tecnologica o innovativa dei lavori). Il ministero intende verificare se siano «possibili deroghe all'obbligo di appaltare sempre i lavori sulla base di un progetto esecutivo».
Altrettanto delicato è il tema del cosiddetto in house orizzontale (una società pubblica controllata da un ente pubblico affida attività a un'altra società controllata dallo stesso ente) argomento sul quale si ipotizza una «disciplina più ristrettiva» rispetto alla normativa europea e alla giurisprudenza della Corte di giustizia che richiedono solo la sussistenza del controllo analogo e non anche l'attività prevalente del soggetto controllato.
Per quanto riguarda il Rup (responsabile del procedimento) si punta a riconsiderare la disciplina della nomina e dei requisiti «anche con riferimento al livello professionale del medesimo». Rimanendo nel settore della pubblica amministrazione, sotto osservazione sembra essere anche il tema della qualificazione delle stazioni appaltanti con il conseguente obbligo dell'iscrizione in un apposito elenco «senza distinzione dei relativi ambiti di pertinenza e, indifferentemente, per tutte le fasi relative al procedimento (programmazione, affidamento ed esecuzione)».
Sotto osservazione anche la norma che fissa al 30% il ribasso massimo sul prezzo, criticata in passato dall'Antitrust come contraria alle norme Ue e la disciplina sull'incentivo ai tecnici delle pubbliche amministrazioni (2% del valore dell'opera) in merito alle «attività incentivabili».
Sul tema della qualificazione delle imprese l'attenzione si appunta sull'esperienza maturata negli anni precedenti per i lavori eseguiti e soprattutto sull'arco temporale di riferimento che da più parti si chiede di ampliare in ragione della crisi del settore delle costruzioni. Una riflessione viene chiesta anche sull'eventuale sistema «alternativo» di qualificazione delle imprese, oggi basato sulle Soa e un capitolo specifico, con diversi punti da discutere, viene riservato anche al subappalto.
Sotto esame anche la disciplina dei commissari di gara, sia per le modalità di nomina, sia per i compensi (il dm Mit è stato peraltro sospeso dal Tar Lazio).
Un altro tema delicato è quello dell'obbligo di ricorso all'avvalimento per i consorzi stabili che intendono utilizzare i requisiti di consorziate che non eseguono le prestazioni, aspetto spesso criticato in passato
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONon va adottato alcun atto di recepimento del nuovo Ccnl.
Non va adottato alcun atto di recepimento del Ccnl 21.05.2018, immediatamente vincolante e da attuare al più presto.

Molte amministrazioni locali stanno subordinando l'applicazione delle disposizioni del Ccnl Funzioni locali a deliberazioni di giunta, il cui oggetto è il recepimento oppure il dare mandato agli uffici di attuare le previsioni contrattuali. Si tratta, però, di atti da un lato inutili, dall'altro illegittimi.
Sul piano strettamente amministrativo, il recepimento è un atto normativo che esprime la volontà di far entrare, in un certo ordinamento, disposizioni di una normativa di un ordinamento diverso dal proprio, con o senza modifiche ed adattamenti. Naturalmente, occorre disporre di un potere di regolazione interna autonoma molto forte ed ampio. Non a caso, propriamente sono le Nazioni aderenti alla Ue a recepire le direttive di quest'ultima, nei casi regolati dal Trattato. Gli enti locali non dispongono di un ordinamento proprio, indipendente e, quindi, non hanno nulla da recepire.
In particolare, la cosa vale per il contratto collettivo nazionale di lavoro, che va solo attuato, adempiendo ad obbligazioni immediatamente vincolanti. Sul punto, l'articolo 2 del Ccnl 21/05/2018 è chiarissimo: al comma 2 dispone che «gli effetti decorrono dal giorno successivo alla data di stipulazione, salvo diversa prescrizione del presente contratto. L'avvenuta stipulazione viene portata a conoscenza delle amministrazioni mediante la pubblicazione nel sito web dell'Aran e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana». E il successivo comma 3 aggiunge che «gli istituti a contenuto economico e normativo con carattere vincolato ed automatico sono applicati dalle amministrazioni entro trenta giorni dalla data di stipulazione di cui al comma 2».
Come si nota, il Ccnl enuncia esplicitamente la propria forza auto esecutiva. L'efficacia delle disposizioni non è condizionata a nessun atto provvedimentale di nessun genere. L'Aran ha stipulato con le parti sociali in diretta ed immediata rappresentanza delle amministrazioni locali, sicché non occorre nessuna deliberazione di nessun organo politico come atto di recepimento o di espresso mandato all'apparato tecnico di attuare le previsioni contrattuali. Per altro, all'inutilità di questi atti si può aggiungere anche, come rilevato sopra, un'illegittimità anche pericolosa.
Infatti, subordinare l'applicazione del contratto a iniziative regolative interne per un verso vìola il principio di non aggravamento del procedimento amministrativo posto dalla legge 241/1990. Ma, a meglio vedere, nemmeno si verte in tema di procedimento amministrativo, perché si tratta di rapporti di lavoro contrattualizzati. Rinviare l'attuazione del Ccnl a inutili e illegittimi atti di recepimento determina immediatamente e semplicemente inadempimento alle obbligazioni contrattuali, che a sua volta potrebbe scatenare iniziative di risarcimento o di riconoscimento di comportamenti anti sindacali.
Le amministrazioni locali debbono, dunque, correre ad applicare senza indugio alcuno le previsioni del Ccnl, che sono sostanzialmente tutte auto esecutive, con la sola eccezione della disciplina speciale demandata alla contrattazione decentrata (
articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa programmazione dei fabbisogni vale solo dal triennio 2019-2021.
Nessun divieto di assunzione scatterà nel 2018 per le amministrazioni che abbiano adottato i piani di fabbisogno del personale prima della pubblicazione delle linee di indirizzo della Funzione Pubblica.
Sulla Gazzetta Ufficiale 173 del 27.07.2018 è stato pubblicato il decreto del ministero della funzione pubblica 08.05.2018, che approva le «Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle amministrazioni pubbliche», previste dagli articoli 6 e 6-ter, del dlgs 165/2001.
Presso molte amministrazioni è scattato l'allarme: infatti, ai sensi dell'articolo 22, comma 1, del dlgs 75/2017 si verifica la condizione perché si applichi il divieto di assunzione incombente su chi non abbia adottato la programmazione dei fabbisogni secondo quanto stabilito le linee di indirizzo. Trascorsi 60 giorni dalla pubblicazione in G.U. il divieto risulterà operativo.
Molte amministrazioni, quindi, si stanno precipitando a definire il nuovo sistema della programmazione, anche in assenza di schemi e moduli operativi, per evitare di incappare nel blocco derivante dalla mancata attuazione dell'obbligo imposto dalla legge. Tuttavia, si tratta di un allarme a vuoto, almeno per quegli enti che abbiano già adottato la programmazione dei fabbisogni per il 2018 con provvedimenti antecedenti al 27 luglio.
Il nuovo sistema della programmazione dei fabbisogni introdotto lo scorso anno dalla riforma Madia, infatti, vale solo per il futuro e, quindi, per la programmazione del triennio 2019-2021, attualmente oggetto degli atti di pianificazione generali, consistenti, per gli enti locali, nell'adozione del Documento unico di programmazione (Dup), nel quale far confluire tale programmazione. A meno di situazioni patologiche, gli enti hanno già programmato le assunzioni connesse al 2018 e hanno provveduto quando le linee di indirizzo non erano vigenti.
Applicando il principio tempus regit actum, quindi, gli atti di programmazione «vecchia maniera» non possono considerarsi adottati in violazione di linee di indirizzo non efficaci. Quindi, le assunzioni effettuate nel 2018 attuando le programmazioni già adottate non sono nulle e non sono soggette al divieto previsto dall'articolo 6, comma 6, del dlgs 165/2001, che scatterà, invece, solo per le assunzioni previste per il 2019.
Del resto, sul punto sono molto chiare le stesse linee di indirizzo: nel paragrafo 2.3 «sanzioni», infatti, precisano che il divieto di assumere «scatta sia per il mancato rispetto dei vincoli finanziari e la non corretta applicazione delle disposizioni che dettano la disciplina delle assunzioni, sia per l'omessa adozione del Piano triennale dei fabbisogni e degli adempimenti previsti dagli articoli 6 e 6-ter, comma 5, del decreto legislativo n. 165 del 2001», per poi sottolineare che se «in sede di prima applicazione il divieto di cui all'articolo 6, comma 6, del dlgs 165/2001 decorre dal sessantesimo giorno dalla pubblicazione delle presenti linee di indirizzo» occorre tenere presente comunque che «sono fatti salvi, in ogni caso, i piani di fabbisogno già adottati»
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

LAVORI PUBBLICIValutazione ex post per le grandi opere. Vanno giudicati obiettivi e funzionalità degli interventi.
Valutazione ex post sulle grandi opere già prevista dal 2017, anche su quelle in corso di esecuzione; valutabili il conseguimento degli obiettivi, la funzionalità dell'intervento e il servizio offerto alla collettività, la comparazione di impatti diretti e indiretti.
Saranno questi i parametri per effettuare la valutazione costi-benefici sulle grandi opere di cui dovranno tenere conto il nuovo capo della Struttura tecnica di missione, Alberto Chiovelli e gli altri consulenti nominati dal ministro Danilo Toninelli (primo fra tutti il professore Marco Ponti) alla luce delle linee guida ministeriali del 2017 predisposte dall'allora capo della struttura Ennio Cascetta e varate dall'ex ministro Delrio.
Le linee guida Mit affrontano il problema «a monte», a partire dalla definizione del Dpp (Documento di programmazione pluriennale), ma prevedono anche che i ministeri siano «obbligati a procedere sistematicamente all'attività di valutazione ex-post, con l'obiettivo di misurare l'impatto delle opere realizzate e di verificare l'eventuale scostamento dagli obiettivi e dagli indicatori previsti nella fase di programmazione e progettazione».
Quindi, per le opere in corso, il Dpp può essere soggetto ad aggiornamenti annuali debitamente motivati. Questo per le opere nuove, ma come è noto il ministro Toninelli ha annunciato in questi giorni che la valutazione sarà effettuata anche per le opere in corso di realizzazione, quelle con le cosiddette «obbligazioni giuridiche vincolanti».
In questo caso può essere utile ricordare che le linee guida approvate da Delrio precisano espressamente che «è prevista la possibilità di effettuare una valutazione anche di opere in via di realizzazione o non entrate ancora in funzione. In tal caso, l'attività valutativa da svolgere assumerà più i connotati di valutazione in itinere e sarà focalizzata prevalentemente sull'avanzamento dei lavori, secondo i dati di monitoraggio».
In generale le linee guida prevedono che le attività di valutazione ex post devono riguardare «singole opere pubbliche, ovvero, qualora utile e pertinente, raggruppamenti di opere accomunate da legami funzionali, settoriali e territoriali» e sono finalizzate a «misurare i risultati e l'impatto di opere pubbliche collaudate funzionanti, nonché l'economicità della loro realizzazione e l'efficienza della loro implementazione».
Dal punto di vista metodologico, il tipo di valutazione dipende dal momento in cui interviene (ad es. se l'opera è stata o meno realizzata) e dipende della tipologia di opera in esame. Sono possibili i seguenti livelli di analisi:
   - verifica della realizzazione (l'oggetto dell'analisi è il grado di conseguimento degli obiettivi di realizzazione fisica, finanziaria e procedurale); verifica dei risultati (si guarda all'effettiva funzionalità dell'intervento e il livello di servizio effettivamente fornito alla collettività);
   - valutazione degli impatti attraverso la comparazione tra gli impatti diretti e indiretti (riconducibili all'opera realizzata) previsti in fase di valutazione ex ante e gli stessi impatti stimati al momento dell'analisi;
   - infine ripetizione della valutazione ex ante: una nuova analisi e la verifica dell'appropriatezza dei processi di analisi, quella che potrebbe portare al blocco di qualche grande opera
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi mensili di festa e di notte
Permessi mensili anche nei festivi e di notte. I tre giorni di congedo mensili, a disposizione dei lavoratori che prestano assistenza a familiari disabili (art. 33, legge 104/1992), infatti, possono essere fruiti anche di domenica e di notte, se rientranti in turni di lavoro. Inoltre, se il turno è notturno e la prestazione si svolge a cavallo di due giorni, il permesso è comunque considerato per un giorno solo.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 07.08.2018 n. 3114.
Lavoro a turno e notturno. Le precisazioni arrivano in seguito a richiesta di chiarimenti relative, appunto, alle modalità di calcolo dei permessi ex legge n. 104/1992 nei casi in cui l'orario di lavoro sia organizzato in turni. Per lavoro a turni, ricorda l'Inps, s'intende ogni forma di orario di lavoro diverso dal normale (che è giornaliero), potendo comprendere anche il lavoro notturno e quello festivo (come le domeniche). Poiché l'art. 33 della legge n. 104/1992 prevede la fruizione di permessi mensili «a giornata», indipendentemente dall'orario di lavoro, l'Inps precisa che:
   a) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di turni con giornata di lavoro di domenica;
   b) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di turni con orario di lavoro notturno;
   c) in caso di lavoro notturno svolto a cavallo di due giorni solari, la prestazione resta riferita a un unico turno di lavoro e anche il permesso è considerato per un solo giorno.
Nuova formula per il part-time. Nei rapporti di lavoro a part-time i permessi vanno riproporzionati in ragione dell'orario di lavoro ridotto. Semplice è il caso relativo al part-time orizzontale, perché i permessi spettano con riferimento agli effettivi giorni (ridotti) di lavoro; più articolato, invece, è il caso del part-time di tipo verticale o quello di tipo misto, per i quali l'Inps fornisce la formula di calcolo ai fini del riproporzionamento dei tre giorni di permesso mensili, quando l'attività lavorativa è limitata ad alcuni giorni del mese. La formula è data dal prodotto di 3 (i giorni di permesso mensili) e il rapporto tra:
   • «orario medio settimanale teoricamente eseguibile dal lavoratore part-time» e
   • «orario medio settimanale teoricamente eseguibile a tempo pieno».
Un esempio; applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario medio settimanale di 18 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro medio settimanale a tempo pieno pari a 38 ore, si ottiene: (18/38) x 3 = 1,42 che arrotondato all'unità inferiore, in quanto frazione inferiore allo 0,50, dà diritto a 1 giorno di permesso mensile. Altro esempio; applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario medio settimanale di 22 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro medio settimanale a tempo pieno di 40 ore, si ottiene: (22/40) x 3 = 1,65 che arrotondato all'unità superiore, in quanto frazione superiore allo 0,50, dà diritto a 2 giorni di permesso mensili.
Cumulo permessi con congedo straordinario. Ribadendo che è possibile cumulare, nello stesso mese purché in giornate diverse, i periodi di congedo straordinario e i giorni di permessi mensili, l'Inps precisa che il cumulo può esserci anche senza soluzione di continuità dell'astensione del lavoro, senza necessità cioè che ci sia una ripresa del lavoro tra la fruizione dei due tipi di permessi.
Cumulo altri permessi 104. Invece l'Inps precisa che la fruizione dei tre giorni di permesso mensili, del prolungamento del congedo parentale e delle ore di riposo (cosiddetto allattamento) alternative al prolungamento del congedo parentale deve intendersi alternativa e non cumulativa nell'arco del mese
(articolo ItaliaOggi dell'08.08.2018).

EDILIZIA PRIVATADetrazioni on-line. Da settembre sito Enea operativo. RISTRUTTURAZIONI/ Comunicazioni per il 50%.
Sarà on-line a settembre il sito Enea dedicato alla trasmissione dei dati degli interventi di ristrutturazione edilizia ammessi alle detrazioni fiscali del 50%. La sperimentazione della piattaforma informatica per la comunicazione all'Enea dei lavori ordinari di ristrutturazione sta per terminare. Per gli interventi già finiti ci saranno, tre mesi di tempo per fare la comunicazione. Il termine dei 90 giorni decorrerà dalla data di messa on-line della piattaforma.
Questo è quanto si legge nella nota Enea dei giorni scorsi sulla definizione delle specifiche tecniche del sito e la sua messa on-line per la presentazione delle domande per usufruire delle detrazioni fiscali del 50%.
Questo adempimento -ricorda l'Enea- ha la finalità di monitorare e quantificare il risparmio energetico annuo conseguito e consuntivarlo in ambito Europeo. Ricordiamo che con la legge 27/12/2017 n. 205 (legge bilancio 2018) è stato introdotto l'obbligo di inviare all'Enea una comunicazione per ottenere la detrazione del 50% sugli interventi di ristrutturazione edilizia che consentono anche di conseguire un risparmio energetico.
Fino all'anno passato, all'Enea andava inviata soltanto la documentazione necessaria per ottenere l'ecobonus sugli interventi di riqualificazione energetica degli edifici. La legge del 27.12.2017 n. 205 (legge di bilancio 2018), ha prorogato le detrazioni fiscali per gli interventi di efficientamento energetico nella misura del 65% fino al 31.12.2018 e per gli interventi realizzati su parti comuni di edifici condominiali (nella misura del 65, 70,75, 80 e 85%), sino al 31.12.2021.
La detrazione deve essere ripartita in dieci rate annuali rispettando i seguenti step:
   • il pagamento deve essere effettuato con bonifico bancario o postale (a meno che l'intervento non sia realizzato nell'ambito dell'attività d'impresa);
   • per la riqualificazione di edifici esistenti è necessario acquisire la certificazione energetica dell'immobile, qualora introdotta dalla Regione o dall'ente locale, ovvero, negli altri casi, di un «attestato di qualificazione energetica», predisposto da un professionista abilitato;
   • bisogna trasmettere all'Enea, entro 90 giorni dal termine dei lavori e con modalità telematiche, la scheda informativa degli interventi realizzati e copia dell'attestato di qualificazione energetica. Non vanno inviate all'Enea asseverazione, relazioni tecniche, fatture, copia di bonifici, piantine, documentazione varia;
   • è necessaria l'asseverazione di un tecnico abilitato o la dichiarazione resa dal direttore dei lavori. È sufficiente, invece, l'attestazione di partecipazione ad un apposito corso di formazione in caso di autocostruzione dei pannelli solari
(articolo ItaliaOggi del 04.08.2018).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVICondanne cancellate dalla fedina penale dopo cento anni. I PROVVEDIMENTI IN MATERIA DI CASELLARIO, ORDINAMENTO PENITENZIARIO E SPESE DI GIUSTIZIA.
Certificati del casellario selettivi a disposizione della pubblica amministrazione: conterranno le informazioni pertinenti al singolo procedimento. Passa a cento anni il termine cancellare le condanne dalla fedina penale, mentre i carichi sono eliminati alla morte dell'interessato.

È quanto prevede uno schema di decreto legislativo approvato ieri dal consiglio dei ministri in via preliminare, che unifica in un unico modello (certificato «del casellario») i tre tipi di certificati attualmente previsti (generale, penale e civile).
Il provvedimento attua la legge delega 103/2017 e dispone la revisione della disciplina del casellario giudiziale.
Il provvedimento interviene su diverse materie e il filo rosso è quello della minimizzazione delle informazioni relative a episodi negativi sul conto delle persone.
Ci sono interessi confliggenti: quello alla conoscenza delle notizie su gravi fatti di allarme sociale e quello alla possibilità di rifarsi una vita.
Lo schema di decreto legislativo stabilisce nuovi equilibri.
A favore della rieducazione e del reinserimento si pongono alcune disposizioni sulla eliminazione sul non inserimento di alcuni provvedimenti giudiziali che hanno un connotato fortemente clemenziale.
L'altro aspetto, che si pone in questa scia, è la scelta di fare certificati ad hoc in relazione alle verifiche che la pubblica amministrazione è chiamata a fare, di volta in volta, sulla onorabilità delle persone: qui si limita la circolarità delle notizie a quelle rilevanti per accertare un particolare spettro di moralità in relazione alle esigenze di un particolare procedimento.
Vediamo più analiticamente le disposizioni del provvedimento approvato in prima lettura dal governo.
TEMPO LIMITE. Si interviene sui tempi di conservazione massima dei dati. Quelli relativi ai carichi pendenti vengono tenuti fino alla morte della persona.
I dati relativi alle condanne, invece, sono conservati per cento anni dalla nascita. Non è una diminuzione, anzi è una dilatazione dei tempi (attestati oggi agli ottanta anni di età dell'interessato), che, però è stato scelto in quanto. Così facendo, ci si allinea agli altri ordinamenti europei.
CERTIFICATI SELETTIVI. Si distinguono in casi in cui la pubblica amministrazione ha necessità del casellario generale: questo capita quando non è possibile individuare a priori le iscrizioni rilevanti e pertinenti rispetto a un determinato procedimento amministrativo. In tale caso la pubblica amministrazione procedente continuerà ad acquisire il certificato generale.
Negli altri casi, invece, le pubbliche amministrazioni possono ottenere solo il certificato elettivo, che riporta le sole iscrizioni pertinenti alle singole finalità perseguite nello specifico procedimento.
L'accertamento della moralità selettiva implica una diminuzione dell'effetto negativo delle iscrizioni al casellario e costringerà anche a verificare, caso per caso, quali siano le informazioni rilevanti.
Le innovazioni previste sono anche di carattere organizzativo, in quanto si prevede che le pubbliche amministrazioni potranno avere accesso diretto e gratuito previa stipulazione di una convenzione con il ministero della giustizia.
ELIMINAZIONI. Si eliminano dal casellario giudiziale i provvedimenti di minor disvalore e cioè quelli applicativi della non punibilità per tenuità del fatto.
Nel caso specifico il fatto particolarmente tenue merita una clemenza giudiziale, che viene estesa anche alle conseguenti iscrizioni negative nel casellario.
Lo schema di decreto legislativo esclude dalla iscrizione nel casellario anche i provvedimenti relativi alla messa in prova dell'imputato. Esclusa l'iscrizione anche in caso di rescissione del giudicato.
CERTIFICATO UNICO. Si individua un unico tipo di certificato che unifica i tre tipi attualmente previsti: generale, penale e civile. Il certificato unico si chiamerà semplicemente «certificato del casellario».
AVVERTENZA UE. Nel certificato va inserita un'avvertenza per indicare se esistano condanne in ambito europeo. Questo per la completezza delle certificazioni.
ALTRI PROVVEDIMENTI. Il Consiglio dei ministri ha approvato in via preliminare anche lo schema di decreto legislativo in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario (legge delega 103/2017); lo schema di decreto legislativo in materia di armonizzazione della disciplina delle spese di giustizia, con riferimento alle spese per le prestazioni obbligatorie e funzionali alle operazioni di intercettazione (sempre in attuazione della legge 103/2017)
 (articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

ATTI AMMINISTRATIVILicenze a due vie per le notifiche. Ai corrieri privati permessi nazionali, regionali o cumulativi. Il decreto dello Sviluppo economico che liberalizza i servizi postali su multe e atti giudiziari.
Stop al monopolio di Poste italiane. I privati potranno ambire a licenze individuali speciali per notificare atti giudiziari e multe stradali. O anche per la mera notifica dei verbali. Mentre non viene richiesta alcuna licenza speciale a chi effettuerà la mera attività di trasporto. Le licenze potranno essere nazionali o regionali, a seconda dei limiti territoriali entro cui il titolare di permesso sarà abilitato e erogare il servizio. Gli aspiranti corrieri, però, dovranno soddisfare una selva di requisiti di onorabilità, professionalità e affidabilità per incassare la licenza. Oltre che sottostare a obblighi, sia nei confronti del personale dipendente, sia in relazione alla qualità del servizio offerto. Vincoli in violazione dei quali, scatteranno diffide, sospensioni e revoche della licenza speciale.

A disciplinare gli step della liberalizzazione è un decreto del ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, in corso di registrazione alla Corte dei Conti (si veda ItaliaOggi del 21/07/2018). Provvedimento che segue alla delibera Consob n. 77/18 sulla liberalizzazione dei servizi postali. C'è di più. Il decreto Mise prevede sanzioni di tipo pecuniario, secondo il regime disegnato dal dlgs 261/1999 (attuativo della direttiva 97/67/CE), per due genere di violazioni:
   - chi eserciterà l'attività di notifica postale di atti giudiziari e verbali senza licenza rischierà una stangata da 5 mila e 150 mila euro;
   - invece, l'operatore che violerà gli obblighi dettati ai titolari di licenza dal nuovo decreto, rischierà una multa tra 5 mila e 100 mila euro.
Andiamo con ordine, partendo dal dicastero, titolare al rilascio delle licenze. Le domande per il titolo abilitativo dovranno essere inoltrate al ministero dello Sviluppo economico, su moduli predefiniti da un disciplinare Consob. Via Veneto, in base ai dettami del medesimo disciplinare, rilascerà o meno le licenze. A richiedere il permesso speciale, però, potrà essere anche un operatore capogruppo di un'aggregazione di più operatori postali titolari di licenza speciale. Questo collettore sarà a tutti gli effetti responsabile unico della fornitura del servizio di notifica in base alla licenza
Affidabilità. Per il rilascio della licenza, il decreto Mise chiede ai privati di produrre una fideiussione da 100 mila euro per le attività di notifica su tutto il territorio nazionale, e da 20 mila euro per la licenza regionale. Qualora, però, sia richiesto il rilascio di più licenze regionali, la fideiussione richiesta non potrà superare quota 100 mila euro. In più, i candidati dovranno esibire bilanci depositati al registro imprese, con un fatturato globale negli ultimi due esercizi da minimo un mln di euro per la licenza nazionale. E da minimo 200 mila euro per la richiesta di licenza regionale.
Professionalità. Su questo fronte, il decreto Mise chiede esperienza. Da dimostrare su quanto maturato in fatto di notifiche nell'ultimo biennio. Come? Attraverso i bilanci. Da essi dovrà emergere che: l'attività svolta nel settore postale in fatto di invii certificati e registrati non sia inferiore al 10% del fatturato totale. E che almeno il 10% dei ricavi provenga da attività svolte mediante messi notificatori, per conto della p.a.
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

EDILIZIA PRIVATASagre senza vincoli ma aumentano le responsabilità del primo cittadino. Semplificazione delle misure di sicurezza per le sagre e le manifestazioni pubbliche con vincoli meno stringenti rispetto a quelli introdotti un anno fa.
Semplificazione delle misure di sicurezza per le sagre e le manifestazioni pubbliche con vincoli meno stringenti rispetto a quelli introdotti un anno fa. Ora la palla passa ai sindaci che avranno più libertà di manovra nel valutare se una manifestazione presenta caratteristiche di rischio o meno. Saltano le valutazioni tabellari per l'analisi del rischio ma risulterà obbligatorio contare il numero esatto degli spettatori anche negli eventi rischiosi anche se a titolo gratuito.

Lo prevede la nota 18.07.2018 n. 11001/1/110/(10) di prot. del Ministero dell'interno, contenente le nuove linee guida sul contenimento del rischio in manifestazioni con peculiari condizioni di criticità.
La precedente circolare del 28.07.2017 aveva introdotto una serie di prescrizioni molto complesse a tutela della sicurezza degli eventi in luoghi pubblici, a partire da una valutazione standardizzata dei rischi con la compilazione di una tabella con parametri molto rigidi e con prescrizioni severe in materia di antincendio e gestione dell'emergenza.
Le nuove linee guida contenute nella circolare del 18.07.2018 hanno l'obiettivo di introdurre una sensibile semplificazione procedurale per le manifestazioni pubbliche. La classificazione dei rischi correlati a un evento non deve più essere fatta mediante una valutazione tabellare, ma verificando le criticità connesse alla tipologia della manifestazione, alla conformazione del luogo e al numero e alle caratteristiche dei partecipanti.
Ed è esclusivamente agli eventi che presentano condizioni di particolare criticità che si applicano le nuove linee guida ministeriali, che abbandona la classificazione in base al livello di rischio (basso/medio/alto). Se, per motivi diversi dal safety, si rende necessario istituire percorsi separati di accesso all'area e di deflusso del pubblico, occorre che i varchi utilizzati come ingressi abbiano caratteristiche idonee ai fini dell'esodo in caso di emergenza oppure che il sistema di esodo sia completamente indipendente dai varchi d'ingresso.
La densità massima di affollamento è fissata pari a 2 persone al metro quadro, con un deflusso di 250 persone/modulo. I varchi di allontanamento non devono essere inferiore a tre e vanno collocati in posizione contrapposta. La larghezza minima dei varchi e delle vie di allontanamento non deve essere inferiore a 2,40 m. Cambiano le regole per la suddivisione della zona in settori. Sale a 10 mila persone la quota fino alla quale non è richiesta la separazione.
I settori devono essere distinti i tra di loro mediante l'interposizione di spazi liberi in cui è vietato lo stazionamento di pubblico ed automezzi non in emergenza aventi larghezza non inferiore a 5 metri e devono essere previsti attraversamenti presidiati in ragione di uno ogni 10 m. Non è più richiesto il posizionamento di un estintore ogni 200 mq.: le nuove linee guida prevedono soltanto un congruo numero di estintori portatili, di adeguata capacità estinguente, in posizioni controllate, mentre nell'area del palco possono essere aggiunti estintori carrellati. Soltanto per le manifestazioni dinamiche in spazi limitati è imposta la disponibilità di un estintore ogni 100 mq.
Il servizio di vigilanza antincendio è imposta solo nel caso in cui l'affluenza prevista sia di oltre 20 mila persone. Per la gestione delle emergenze deve essere contemplato un congruo numero di postazioni per le comunicazioni di emergenza. Inoltre si dovrà prevedere, in loco, un centro di coordinamento per la gestione della sicurezza che consenta, altresì, le comunicazioni tra gli enti presenti e tra questi ultimi e l'organizzazione.
Per l'assistenza all'esodo, l'instradamento e il monitoraggio dell'evento, l'organizzatore della manifestazione deve avvalersi di operatori di sicurezza, che possono essere soggetti iscritti ad associazioni di protezione civile riconosciute oppure il personale in quiescenza già appartenente alle forze dell'ordine, alle forze armate, ai vigili urbani, ai vigili del fuoco, al servizio sanitario, per i quali sia stata attestata l'idoneità psicofisica, ovvero altri operatori in possesso di adeguata formazione in materia.
Per la lotta all'incendio, vanno impiegati addetti, formati con corsi di livello C (rischio alto) ai sensi del dm 10.03.1998 e abilitati ai sensi dell'art. 3 della legge n. 609/1996
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2018).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICIPiù semplice raccordare bilanci e appalti.
L'ottavo decreto correttivo della nuova contabilità (dlgs 118/2011) punta rendere più semplice il raccordo fra il bilancio e gli appalti di lavori pubblici.
Il testo, licenziato mercoledì scorso dalla Commissione Arconet e in attesa di pubblicazione, introduce numerose novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della realizzazione delle opere.
In primo luogo, viene disciplinata la registrazione del livello minimo di progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale e nell'elenco annuale. Parliamo, quindi, di opere di taglio pari o superiore a 100 mila euro: in tali casi, le spese di progettazione devono essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup) individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
In ogni caso, la progettazione «esterna» deve essere spesata al titolo II, mentre quella interna a Titolo I o al Titolo II a seconda della natura economica della spesa: ad esempio, gli stipendi al personale sono classificati tra le spese di personale (Titolo I), mentre l'acquisto di macchinari necessari è classificato tra gli «Impianti e Macchinari» (Titolo II).
A seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto dall'art. 21 del dlgs. 50/2016, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo II del bilancio di previsione nel rispetto del principio della competenza finanziaria potenziata. In particolare, nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate esigibili nel medesimo esercizio in cui sono esigibili le spese correlate, nel bilancio di previsione gli stanziamenti di entrata e di spesa sono iscritti distintamente con imputazione ai singoli esercizi di esigibilità.
Nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate esigibili anticipatamente rispetto all'esigibilità delle spese correlate, nel bilancio di previsione è iscritto il fondo pluriennale vincolato di spesa. Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito dell'avvio del procedimento di spesa, e sono via via impegnati a seguito della stipula dei contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la realizzazione dell'intervento. Anche gli impegni sono imputati contabilmente nel rispetto del principio della competenza finanziaria potenziata. Non rileva più, quindi, il momento dell'aggiudicazione dei lavori (tranne che nei casi di esecuzione anticipata), ma quella della stipula dei diversi contratti.
Per gli interventi di valore stimato inferiore a 100 mila euro, invece, la spesa può essere stanziata in bilancio senza dover attendere l'inserimento degli interventi nel programma triennale dei lavori pubblici. La spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a quello minimo richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è registrata nel titolo secondo della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna.
Gli incentivi per funzioni tecniche ex art. 113 del dlgs. 50/2016 sono registrati nel medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori ai sensi del comma 5-bis e come confermato dalla si delibera Corte dei conti n. 6/Sezaut/2018/Qmig del 10.04.2018
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2018).

APPALTIIl programma lavori nel Dup. Assieme a quello sulle forniture va predisposto entro il 31/7. Il Documento approvato dal consiglio entro fi ne anno sarà considerato il testo definitivo.
Con il decreto del Mit n. 14/2018 sono state approvate le procedure per la redazione e pubblicazione dei programmi pluriennali dei lavori e servizi pubblici e dei relativi elenchi e aggiornamenti annuali.
Fino all'esercizio in corso erano previsti termini per la redazione dello schema di programma (30/9), per la sua adozione (15/10) e la sua approvazione (con il bilancio), previa pubblicazione dello schema per almeno sessanta giorni per acquisire eventuali osservazioni; le disposizioni relative sono però venute meno per effetto delle abrogazioni disposte sia dal codice dei contratti che dal successivo «correttivo», così come non è più in vigore il dm 24.10.2014, espressamente abrogato dal dm n. 14/2018.
Per la redazione ed approvazione del programma triennale delle opere pubbliche e del programma delle forniture si deve oggi fare riferimento al secondo periodo del comma 1 dell'art. 21 del codice dei contratti, il quale espressamente dispone che detti programmi sono approvati, per gli enti locali, in base alle norme che disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti.
La programmazione degli enti locali. Ne consegue che le modalità attuative stabilite con il nuovo dm n. 14/2018 debbono essere lette ed applicate in coerenza con l'ordinamento degli enti locali, che ne individua come segue gli strumenti e le scadenze: a) il Documento unico di programmazione (Dup), da presentare al Consiglio entro il 31 luglio di ciascun anno; b) l'eventuale nota di aggiornamento del Dup, da presentare al Consiglio entro il 15 novembre di ogni anno; c) lo schema di bilancio di previsione finanziario, da presentare al Consiglio entro il 15 novembre di ogni anno, e che deve essere da quest'ultimo approvato entro il 31 dicembre.
I programmi settoriali nel Dup. Il recente decreto del Mef del 18.05.2018 ha disposto che i documenti di programmazione settoriale, tra i quali i programmi dei lavori pubblici e delle forniture, si considerano approvati senza necessità di ulteriori deliberazioni, in quanto contenuti nel Dup.
Può pertanto concludersi che: 1) la elaborazione di detti programmi deve rispettare la tempistica scansionata per il Dup, e quindi gli stessi vanno predisposti entro il 31 luglio; 2) i programmi vanno inseriti nel Dup, e di tale documento seguono i tempi e la natura: conseguentemente il documento predisposto dalla giunta entro il 31 luglio è da considerare quale schema adottato (del Dup, del programma dei lavori e del programma delle forniture), mentre il documento che il consiglio andrà ad approvare definitivamente entro il 31 dicembre sarà il testo definitivo di tali documenti.
La pubblicazione e la consultazione. In sostituzione delle forme di pubblicazione precedentemente previste, il codice dispone che i programmi dei lavori e delle forniture siano pubblicati, oltre che nel sito informatico del Mit e dell'Osservatorio dei contratti pubblici, nel sito informatico dell'ente e segnatamente nella sezione «Amministrazione trasparente»; la presentazione di eventuali osservazioni da parte di cittadini e soggetti terzi non è più obbligatoriamente prevista, essendo stata ridotta ad una facoltà che ogni singola amministrazione potrebbe consentire (art. 5, comma 5, del dm 14/2018)
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., disabili senza concorso. In caso di inerzia l’avviamento al lavoro fatto dai Cpi. Circolare con i chiarimenti sul collocamento obbligatorio nelle pubbliche amministrazioni.
L'assunzione di disabili nelle pubbliche amministrazioni può avvenire anche senza concorso. In caso d'inerzia delle p.a., infatti, l'avvio al lavoro verrà fatto dal centro per l'impiego, attingendo alle graduatorie del collocamento.

Lo spiega la circolare n. 7571/2018 a firma congiunta di ministero del lavoro, Anpal e funzione pubblica, che illustra le nuove norme sul collocamento obbligatorio nelle p.a. (legge n. 68/999) dopo la riforma del dlgs n. 75/2017. Come le aziende, anche le p.a. devono inviare un prospetto informativo annuale (quello del 2017 entro il 15 settembre) e, in caso di scopertura della quota di riserva, hanno 60 giorni per comunicare tempi e modalità (concorsi, etc.) di assunzione a copertura della riserva. In caso di mancata osservanza di tali norme, sarà il centro per l'impiego ad arruolare i disabili.
La riforma. Le p.a., al pari delle aziende, sono tenute ad assumere disabili nella c.d. quota di riserva fissata per legge nelle seguenti misure:
   • 1 lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti;
   • 2 lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
   • 7% dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti.
Il dlgs n. 75/2017 ha introdotto l'art. 39-quater al dlgs n. 165/2001, per dettare nuove regole sul collocamento obbligatorio, che prevedono due adempimenti a carico delle p.a.: a) l'invio del prospetto informativo; b) l'invio della comunicazione di copertura.
Il prospetto informativo. Il primo obbligo consiste nell'invio di un prospetto annuale, entro il 31 gennaio di ogni anno, con riferimento alla situazione occupazionale al 31 dicembre precedente. Mentre le aziende non devono inviare il prospetto se, nell'anno precedente, non ci sono stati mutamenti di occupazione, le p.a. invece devono sempre e comunque inviare il prospetto a prescindere, cioè, dalla modifica della situazione occupazionale. Poiché il termine per l'invio del prospetto del 2017 è scaduto (il 28 febbraio, perché prorogato), la circolare fissa la nuova scadenza al 15 settembre.
La comunicazione di copertura. Il secondo adempimento consiste dell'invio della comunicazione con tempi e modalità per la copertura dell'eventuale quota di riserva. A tanto sono tenute solo le p.a. che hanno inviato il prospetto informativo (primo adempimento) dal quale è risultata una scopertura della quota di riserva. La comunicazione va fatta entro 60 giorni (quindi entro il 1° marzo di ogni anno), on-line, tramite una nuova procedura disponibile dal 23 luglio. Le p.a. che hanno scoperture per il 2017 devono fare la comunicazione entro il 15 settembre.
Assunzione automatica. La nuova disciplina, infine, prevede che, in caso di mancata osservanza delle nuove norme o di mancato rispetto dei tempi da parte delle p.a., i centri per l'impiego avviino numericamente i lavoratori disabili attingendo dalle graduatoria vigenti con profilo professionale generico. Ciò avverrà, in particolare, nelle p.a. che:
   • non hanno inviato il prospetto informativo;
   • hanno inviato il prospetto informativo con scopertura delle quote di riserva ma non hanno inviato la successiva comunicazione;
   • hanno inviato prospetto informativo e comunicazione, ma non hanno rispettato i tempi per la copertura della quota di riserva.
In tutti i casi, prima di procedere all'automatica assunzione, il centro per l'impiego inviterà la p.a. ad adempiere, dando tempo 30 giorni
 (articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATALavori stradali, recupero doc. Requisiti chiari per riabilitare a bene il fresato d'asfalto. A mettere nero su bianco le regole end of waste è il ministero dell’ambiente con decreto.
Nuove e più semplici regole, in vigore dal 03.07.2018, per riabilitare allo stato di veri e propri beni i rifiuti costituiti dai residui d'asfalto derivanti dalla fresatura della pavimentazione stradale. Con l'entrata in vigore del nuovo decreto ministeriale sulla «cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso» a sancire l'uscita dei residui dalla stringente normativa è il rispetto di precisi criteri tecnici di recupero attestati dal gestore dell'impianto di trattamento attraverso una propria certificazione.
Il contesto normativo. Le nuove regole sul cosiddetto «end of waste» arrivano con il decreto del Minambiente 28.03.2018 n. 69 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18.06.2018 n. 139) attuativo dell'articolo 184-ter del dlgs 152/2006 ai sensi del quale un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un'operazione di recupero e soddisfi i criteri specifici, da adottarsi (mediante regolamenti del ministero dell'ambiente, nel caso di assenza di regole comunitarie) nel rispetto delle seguenti condizioni:
   - la sostanza o l'oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
   - esiste un mercato o una domanda;
   - la sostanza o l'oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti sui prodotti;
   - il loro utilizzo non porterà a impatti complessivi negativi su ambiente o salute.
Ai sensi dello stesso articolo 184-ter del dlgs 152/2006 i decreti che stabiliscono criteri end of waste per specifiche tipologie di rifiuto si sostituiscono, mandandole in soffitta, alle relative vecchie norme sulle materie prime seconda previste dagli storici regolamenti.
L'end of waste del fresato d'asfalto. Pedissequamente alle regole Ue per altre tipologie di rifiuti, le nuove norme nazionali ex dm 69/2018 stabiliscono:
   - le caratteristiche che devono avere i rifiuti candidabili alla riabilitazione (ossia l'input del processo di trattamento);
   - le caratteristiche che deve avere il materiale che esce da tale processo (ossia l'output del trattamento);
   - i riutilizzi ammissibili;
   - il momento del passaggio dallo status di rifiuto a quello di end of waste;
   - la documentazione che formalizza tale passaggio;
   - gli altri adempimenti a carico di produttori dell'end of waste (ossia, i titolari degli impianti di recupero autorizzati a processare gli specifici rifiuti).
In particolare, l'input deve essere costituito da conglomerato bituminoso, ossia dal rifiuto costituito dalla miscela di inerti e leganti bituminosi identificata con il codice Eer 17.03.02 proveniente da:
   - operazioni di fresatura a freddo degli strati di pavimentazione realizzate in conglomerato bituminoso;
   - demolizione di pavimentazioni realizzate in conglomerato bituminoso.
L'assenza di materiale diverso dal rifiuto citato deve essere «verificata» dall'impianto di produzione dell'output, a tal fine dotato di procedura di accettazione dei residui anche tramite controllo visivo, umano o non, per effettuare controlli su ogni lotto in entrata (3mila metri cubi). L'output del processo di trattamento deve invece essere costituito da «granulato di conglomerato bituminoso» (ossia il conglomerato bituminoso che ha cessato di essere rifiuto ex 184-ter del Codice ambientale e dm in parola), rispettoso dei limiti massimi di concentrazione di determinate sostanze chimiche in elenco (da accertarsi tramite test e analisi conformi al dettato del dm) e rispondente a determinate caratteristiche prestazionali.
Il conglomerato cessa di essere rifiuto ed è qualificato «granulato» nel momento in cui rispetta tutti i seguenti criteri (e, dunque, rispetto alla disciplina uscente, prima di essere effettivamente riutilizzato): è conforme alle citate specifiche di input ed output; risponde agli standard Uni En 13108-8 (serie da 1-7) o Uni En 13242 in funzione degli scopi specifici (previsti dal dm) cui è destinato.
Gli scopi specifici cui il granulato è destinabile sono esclusivamente i seguenti:
   - per miscele bituminose prodotte con sistema di miscelazione a caldo nel rispetto della norma Uni En 13108 (serie da 1-7);
   - per miscele bituminose prodotte con sistema di miscelazione a freddo;
   - per produzione di aggregati per materiali non legati con leganti idraulici per l'impiego nella costruzione di strade, in conformità a Uni En 13242 ad esclusione dei recuperi ambientali.
Il rispetto di tutti i suddetti criteri deve essere attestato da una «dichiarazione di conformità» redatta ex dpr 445/2000, dal produttore dell'eow al termine del processo produttivo di ciascun lotto, notificata alle Autorità competenti, conservata presso la sede dell'impianto.
Ad eccezione delle imprese che adottano un sistema di gestione ambientale Emas o Iso, gli stessi produttori sono altresì obbligati a conservare per cinque anni presso la sede un campione di granulato di ogni lotto ai fini della verifica di conformità ai citati criteri.
Dall'entrata in vigore del dm (ossia dal 03.07.2018) i produttori di granulato di conglomerato bituminoso (evidentemente coincidenti con i gestori degli impianti già autorizzati alla loro produzione in base all'uscente regime) possono continuare la loro attività senza soluzione di continuità a condizione che entro 120 giorni (ossia entro il 31.10.2018) provvedano ad aggiornare, alla luce della nuova disciplina, la comunicazione alla Provincia ex articolo 216 dlgs 152/2006 per le attività di recupero rifiuti, oppure ove spetti ad avanzare istanza di aggiornamento dell'Aia ex Parte II del dlgs 152/2006 o dell'autorizzazione alla gestione rifiuti ex Parte IV dlgs 152/2006. Nelle more di tale adeguamento il granulato prodotto può essere utilizzato se ha le caratteristiche previste dal nuovo decreto come attestate mediante la descritta «dichiarazione di conformità».
Le esclusioni. Precisa il nuovo dm 69/2018 che resta escluso dalla sua disciplina «il conglomerato bituminoso qualificato come sottoprodotto» ex articolo 184-bis del dlgs 152/2006.
In base alla distinzione concettuale ex articolo del Codice ambientale citato è infatti «un sottoprodotto e non un rifiuto» (e dunque non ha bisogno di essere sottoposto a operazioni di recupero per tornare ad essere giuridicamente un ordinario bene) qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni (che a differenza dei criteri generali end of waste non hanno bisogno per essere operative di essere declinati da specifici atti normativi):
   - è originato da un processo di produzione (dunque, non di demolizione) di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
   - è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
   - la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
   - l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
---------------
All'orizzonte prescrizioni più stringenti.
Le nuove regole nazionali sulla cessazione della qualifica di rifiuto del conglomerato bituminoso potrebbero però ben presto essere già oggetto di revisione alla luce delle ultime novità normative del Legislatore comunitario.
Il dm 69/2018 che le reca è infatti, come ricordato, fondato sui criteri generali ex articolo 184-ter del dlgs 152/2006, il quale a sua volta costituisce attuazione pedissequa delle regole end of waste ex articolo 6 della direttiva 2008/98/Ce.
Dal 04.07.2018 il tenore dei criteri end of waste ex direttiva 2008/98/Ce è però cambiato in virtù delle modifiche apportate dalla nuova direttiva 2018/851/Ue, uno dei quatto atti del cosiddetto «Pacchetto economia circolare», pubblicati sulla Guue del 14.06.2018 e da attuarsi entro il 05.07.2020.
Tra le novità alle quali dovrà plausibilmente essere adeguata la disciplina nazionale vi sono più stringenti prescrizioni per gli operatori dell'end of waste, laddove viene introdotto l'obbligo di assicurare che il materiale recuperato rispetti fin dall'inizio la normativa applicabile in materia di sostanze chimiche e prodotti collegati
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.07.2018).

EDILIZIA PRIVATAMolti enti in panne sull'installazione di chioschi e dehor.
Molti enti in panne sull'installazione di chioschi e dehor Molti comuni ancora in panne sui regolamenti per l'installazione di dehor, chioschi e gazebo a servizio di pubblici esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti bevande o di attività commerciali con consumo sul posto.
L'assenza di regolamento, proprio nel periodo dell'anno in cui si registra un picco nella presentazione delle istanze di installazione da parte degli operatori del settore interessati, mette a rischio la possibilità di ottenere l'autorizzazione, creando in questo modo danni all'economia del comparto. Un regolamento comunale ad hoc rappresenta la soluzione più opportuna e doverosa, come peraltro segnalato da una circolare Mibac del 03.03.2014, per contemperare i diversi interessi in gioco, da un lato la libertà di iniziativa economica degli imprenditori e dall'altro la razionale e oculata gestione delle aree pubbliche.
Nel regolamento, allora, dovranno in primo luogo essere disciplinati tutti gli endoprocedimenti necessari per l'acquisizione dei pareri facenti capo agli enti o uffici a vario titolo interessati, prodromici al rilascio del provvedimento unico autorizzativo per l'installazione del gazebo di competenza dello sportello unico attività produttive del comune. E cioè: concessione di suolo pubblico con pagamento del relativo canone di occupazione; permesso di costruire ex dpr 380/2001; autorizzazione paesaggistica semplificata ex dpr 31/2017 - punto B 26), nei casi previsti, ovvero parere ex art. 21 dlgs 42/2004, nei casi previsti Scia sanitaria presso il Sian dell'Asl per l'ampliamento della superficie di vendita; autorizzazione sismica ex artt. 93 e 94, dpr 380/2001; parere del settore polizia locale in ordine alla viabilità; parere del settore patrimonio del comune.
In secondo luogo, saranno individuati i soggetti legittimati all'installazione e cioè: pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande; esercizi di vicinato del settore alimentare (macellerie, pescherie, salumerie, gastronomie), purché il comune non abbia contingentato in base al dl 201/2011 zone e aree del territorio in cui limitare il numero massimo di autorizzazioni rilasciabili per l'apertura di bar e ristoranti; panifici; imprenditori agricoli.
E ancora il regolamento dovrà prevedere: dimensioni di ingombro della struttura; i materiali e i colori utilizzabili; il periodo massimo di installazione; il canone di occupazione di suolo pubblico; gli oneri incombenti ai titolari per es. in materia di tutela monumentale; allegati scritto-grafici alla domanda di installazione; modelli di strutture distinti per zone della città (per es. centro storico e periferia); sanzioni in caso di violazioni.
Saranno invece esentati dalla necessità di conseguire titolo edilizio espresso e autorizzazione paesaggistica (e dunque godranno di un regime semplificato) strutture meramente ornamentali o con funzione di riparo dal sole come tende, pergotende, ombrelloni, pedane, sedie e tavolini
(articolo ItaliaOggi del 06.07.2018).

ENTI LOCALIControllate, assunzioni libere. Scaduto il 30 giugno l'obbligo di attingere agli esuberi. Lo ricorda l'Associazione nazionale comuni italiani con una nota sulla riforma Madia.
Assunzioni più libere nelle società a controllo pubblico. Il 30 giugno scorso, infatti, è scaduto il termine che imponeva a tali soggetti di attingere dall'elenco del personale in esubero per effetto della riforma «Madia».
Lo ricorda l'Anci, con una nota che segnala che le controllate pubbliche possono nuovamente reclutare nuovo personale a tempo indeterminato previa procedura di selezione ad evidenza pubblica.
L'art. 25, comma 1, del dlgs 175/2016 ha stabilito che, entro il 30.09.2017, le società a controllo pubblico dovessero effettuare una ricognizione del personale in servizio, al fine di individuare eventuali eccedenze, anche in relazione alle scelte effettuate dalle amministrazioni pubbliche controllanti ai sensi dell'art. 24 (mantenimento della partecipazione, cessione, ovvero scioglimento e messa in liquidazione della società).
Per agevolare il ricollocamento del personale eccedentario, fino al 30.06.2018 era imposto di effettuare nuove assunzioni a tempo indeterminato solo attingendo i nominativi dall'elenco del personale in esubero gestito dalla regione di competenza. La violazione di questa disposizione avrebbe comportato la nullità dei rapporti di lavoro instaurati e costituito una grave irregolarità ai sensi dell'art. 2409 del codice civile.
Solo nel caso in cui le società avessero necessità di individuare profili infungibili inerenti a specifiche competenze non disponibili nell'elenco regionale, le stesse potevano essere autorizzate dalla regione di competenza e, successivamente, dall'Anpal, a effettuare procedure di assunzione proprie. La scadenza del 30 giugno è stata ribadita anche dall'art. 4 del decreto 09.11.2017, attuativo delle succitate disposizioni.
Ora tali vincoli sono venuti meno, ma rimangono vigenti, ricorda la nota Anci, le altre norme in materia di assunzioni di personale, fra cui l'art. 19 del dlgs 175, che prevede, fra l'altro, l'obbligo per le società pubbliche di definire criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPausa pranzo più lunga. Nuovo contratto/non mancano polemiche.
Pausa pranzo più lunga per i dipendenti di regioni ed enti locali, ma non tutti festeggiano. Fra gli scontenti, vi sono sia coloro che accorciavano i tempi per uscire prima la sera, sia gli amministratori preoccupati per i maggiori oneri da sostenere per i buoni pasto.
L'art. 26 del Ccnl firmato lo scorso 21 maggio dispone, al comma 1, che «Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto». In precedenza, molti enti consentivano un break più breve, di 10 minuti, in applicazione dell'art. 8, comma 2 del dlgs 66/2003.
La materia è molto delicata, perché coinvolge diritti dei lavoratori, che però spesso sono i primi a chiedere un intervallo più breve, che consenta loro di anticipare l'uscita serale. Da qui, i primi tentativi di aggirare la nuova clausola.
Come riporta il sito della Delfino&Partners, vi è chi sostiene che l'obbligo di fruire della pausa sarebbe strettamente connesso alla durata dell'ordinario orario di lavoro che il dipendente è tenuto a osservare in ciascuna giornata, escludendo perciò dal computo eventuali prestazioni di lavoro straordinario. Ma ciò pare in contrasto con il tenore della previsione contrattuale, che impone la mezz'ora ogniqualvolta «la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore», senza distinzione alcuna, quindi, tra lavoro ordinario e lavoro straordinario.
Altri, invece, pensano che il diritto a fruire della pausa sia un diritto disponibile, un diritto, cioè, di cui il dipendente può liberamente disporre (accorciandone la durata o rinunciandovi addirittura). Ma ciò non è corretto: come chiarito diverse volte dall'Aran, l'interruzione dell'attività lavorativa costituisce un diritto indisponibile per il lavoratore, così come per esempio il diritto alle ferie o al riposo settimanale, poiché essa assolve alla necessità di sicurezza e igiene della collettività e non solo del lavoratore stesso Per tale motivo non è consentita la rinuncia né in forma espressa né in forma tacita attraverso il non esercizio del diritto che non è disponibile da parte del lavoratore, perciò irrinunciabile.
Per quanto concerne, invece, la questione del buono pasto, bisogna evidenziare che spetta al singolo ente, in relazione al proprio assetto organizzativo e alle risorse disponibili, oltre che la decisione se attivare o meno il servizio mensa o il buono pasto sostitutivo, definire autonomamente la disciplina di dettaglio sulle modalità di erogazione del ticket, tenendo conto ovviamente delle implicazioni finanziarie delle diverse scelte.
Sussiste, pertanto, un autonomo spazio decisionale che ogni amministrazione può utilizzare in relazione alla particolare natura di talune prestazioni di lavoro, stabilendo regole e condizioni per la fruizione del buono pasto, ivi compresa l'entità delle prestazioni minime antimeridiane e pomeridiane a tal fine richieste al personale
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIANuova carta d'identità ai Raee. Dai citofoni alle prolunghe: più prodotti con regole doc. Dal ministero dell’ambiente le indicazioni sul passaggio al catalogo aperto dei tecnorifiuti.
Sono rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, e quindi da gestire secondo le peculiari norme: citofoni, monopattini elettrici, prolunghe e avvolgicavo a fine vita. Non sono invece Raee, ma comunque rifiuti da amministrare secondo le generali regole: cucine a gas con accensione elettrica, fusibili, automatismi per cancelli, ascensori e carrelli elevatori elettrici di cui i detentori si disfano.
A fare chiarezza sul confine tra tecno-rifiuti e altri residui è il Minambiente, che con una Guida dello scorso maggio 2018 illustra la logica sottesa alla normativa di settore in vista del 15.08.2018, data di entrata in vigore del cd. catalogo aperto dei Raee che comporterà un allargamento delle apparecchiature che gli operatori della filiera dovranno gestire secondo le regole ex dlgs 49/2014.
Il contesto normativo. Con le «indicazioni operative per la definizione dell'ambito di applicazione ''aperto'' del dlgs 49/2014» datate 08.05.2018 il dicastero illustra le conseguenze dell'allargamento della disciplina Raee («open scope») previsto dagli articoli 2 e 3 del decreto in parola, in virtù dei quali le regole per la gestione dei tecno-rifiuti si applicano dal 15.08.2018 a tutte le apparecchiature elettriche ed elettroniche a fine vita che non sono espressamente escluse.
Due i parametri per accertare se un bene a fine vita debba o meno essere gestito come Raee: punto di partenza è la verifica della sua compatibilità o meno con la definizione di (rifiuto di) apparecchiatura elettrica ed elettronica ex articolo 4 del dlgs 49/2014; in caso positivo, la tappa successiva è la verifica della sua presenza o meno tra le tipologie di apparecchiature che l'articolo 3 dello stesso decreto espressamente esclude dal campo di applicazione delle norme sui tecno-rifiuti.
Quali prodotti diventano Raee. In base all'articolo 4 del dlgs 49/2014 sono Raee: «le apparecchiature elettriche o elettroniche che sono rifiuti ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, inclusi tutti i componenti, sottoinsiemi e materiali di consumo che sono parte integrante del prodotto al momento in cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo disfarsene».
Le indicazioni del Minambiente fanno innanzitutto luce sulla nozione di apparecchiature elettriche o elettroniche, che ai sensi di altro punto dello stesso articolo 4 sono «le apparecchiature che dipendono, per un corretto funzionamento, da correnti elettriche o da campi elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, trasferimento e misurazione di queste correnti e campi e progettate per essere usate con una tensione non superiore a 1.000 volt per la corrente alternata e a 1.500 volt per la corrente continua».
Al riguardo il Minambiente precisa che sono tali i dispositivi che necessitano di elettricità per svolgere le funzioni base per le quali sono stati costruiti e che, dunque, in caso di interruzione di correnti/campi non possono più eseguirle.
Dunque, se l'assenza/interruzione di elettricità inibisce solo funzioni di supporto, l'apparecchiatura non è una Aee, dunque non diventa a fine vita un Raee (pur dovendo essere gestita come rifiuto secondo altre regole).
Tra le apparecchiature che, in base a tale ratio, non sono Aee la Guida Minambiente indica quelle che hanno bisogno di scintilla elettrica solo in fase di avvio, come falciatrici a benzina, cucine a gas con accensione elettronica, caldaie a gas con supporto di controllo elettrico.
In merito alle specifiche tre categorie di Aee di cui alla citata definizione il documento ministeriale chiarisce che trattasi di apparecchiature di generazione di segnali di tensione, trasferimento di segnali elettrici, rilevazione ed analisi dei segnali, nei parametri indicati.
Preziosi i chiarimenti sulle componenti delle Aee. Al riguardo il dicastero illustra come le componenti parti integranti dell'Aee nel momento in cui diventa rifiuto sono anch'esse Raee pur se aggiunte (assemblate) all'Aee successivamente alla fabbricazione e provenienti da altri produttori (come gli hard disk alloggiati ex post nel computer); ragione per cui vanno di conseguenza gestite unitamente al Raee principale e secondo le proprie caratteristiche.
Le componenti che, invece, non sono parti integranti della Aee nel momento in cui questa diventa rifiuto: se sono beni che possono volgere una loro funzione propria, autonoma e indipendente dell'Aee di riferimento sono essere stesse delle Aee (è il caso degli hard disk dotati di «case» che li mettono in grado di svolgere le loro funzioni anche fuori dal pc; prolunghe, avvolgicavo; apparecchi inverter autonomi); se, invece, sono prodotti che non possono svolgere una funzione autonoma senza essere assemblati ad una Aee, una volta a fine vita non costituiscono Raee, fermo restando che devono sempre essere correttamente gestiti come rifiuti (tra questi rientrano cavi elettrici privi di connettori per il cablaggio, fusibili, automatismi per cancelli, schede inverter per monitor).
E quali restano fuori dalla speciale disciplina. Come accennato, non soggiacciono alla disciplina ex dlgs 49/2014 sui Raee sia i beni che non soddisfano la definizione di Raee più sopra esposta, sia quelli che (pur rispondendo a tale nozione) sono espressamente esclusi dal campo di applicazione della particolare disciplina dall'articolo 4 del dlgs 49/2014.
La Guida del ministero dell'ambiente fornisce indicazioni sia sulle apparecchiare già espressamente escluse dalla citata disciplina Raee sin dal suo esordio sia quelle che lo saranno a partire dal 15.08.2018.
Tra le prime, il ministero illustra la portata della deroga a favore delle apparecchiature progettate e installate specificamente come parte di dispositivi che non sono Aee, purché possano svolgere la propria funzione solo in quanto parti di tale apparecchiatura. A titolo di esempio il dicastero chiarisce in merito che rientrano nella norma (e quindi godono dell'esclusione dal regime Raee) i navigatori satellitari parti integrati nelle auto, mentre non vi rientrano (e quindi diventano Raee) i navigatori satellitari che possono essere utilizzati anche senza vettura così come i citofoni che possono essere smontati da un impianto e rimontati in un altro per funzionare.
In relazione, invece, alle nuove categorie di apparecchiature espressamente escluse dal regime Raee a partire dal 15.08.2018, la Guida ministeriale chiarisce che: gli «utensili industriali fissi di grandi dimensioni» coincidono con quelli di peso maggiore di 2 tonnellate e volume uguale o superiore a 15625 metri cubi; tra le installazioni fisse di grandi dimensioni rientrano ascensori e impianti di risalita; tra le macchine mobili non stradali destinate ad uso professionale (oggetto di deroga) rientrano carrelli elevatori elettrici, spazzatrici stradali, tagliaerba professionali.
Non godono invece della deroga al regime Raee riservata ai «mezzi di trasporto di persone o di merci, esclusi i veicoli elettrici a due ruote non omologati» gli hoverboards, i segways, i monopattini elettrici e, in quanto mezzo di svago e non di trasporto, le automobili per bambini.
Gli obblighi per la filiera. L'incremento delle Aee che a fine vita dovranno essere gestite come Raee impegnerà ulteriormente ogni soggetto della filiera. Tra questi, lo ricordiamo, i produttori di Aee, chiamati dal dlgs 49/2014 al conseguimento obiettivi minimi di recupero e riciclaggio dei relativi rifiuti; finanziamento dei sistemi di gestione Raee (e iscrizione al relativo Registro nazionale dei soggetti obbligati al) con sostentamento economico di meccanismi di raccolta, trasporto e trattamento dei rifiuti; denuncia annuale Mud delle Aee immesse sul mercato; informazione soggetti interessati su corretta gestione Aee a fine vita e relativa funzionale etichettatura.
Ai distributori Aee (produttori o meno delle stesse) competono invece: ritiro gratuito «uno contro uno» e «uno contro zero», ricorrendone presupposti, di Raee domestici o «dual use»; connessi oneri tecnici per deposito; organizzazione del relativo trasporto presso centri di raccolta o impianti di trattamento (se svolto in proprio, con obbligo d'iscrizione Albo gestori, seppur in via semplificata); tracciamento dei rifiuti (con tenuta documentazione ad hoc per carico/scarico e trasporto).
Per i produttori di Raee gli obblighi coincidono invece con corretto deposito e conferimento in via differenziata dei tecno-rifiuti; sui gestori di impianti di trattamento Raee gravano invece (oltre ad oneri autorizzativi generali): tracciamento analitico dei rifiuti in entrata destinati al recupero e dei materiali generati in uscita; adeguamento alle migliori tecniche di trattamento; comunicazione annuale dei dati quali/quantitativi dei Raee gestiti (tramite Mud)
(articolo ItaliaOggi Sette del 02.07.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl nuovo contratto complica le tabelle di equiparazione.
Il nuovo contratto per le funzioni locali, firmato lo scorso 21 maggio con efficacia dal giorno successivo, interviene con due distinte norme (articolo 12 e 64) sul sistema di classificazione professionale del personale.
Si tratta di un intervento che, a ben vedere, va a complicare l'applicazione delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale disciplinati d al Dpcm 26.06.2015.
Il mantenimento delle quattro categorie
L'articolo 12, comma 2, del contratto 21.05.2018 prevede che il sistema di classificazione del personale del comparto funzioni locali resti articolato in quattro categorie, denominate rispettivamente A, B, C e B. L’accesso a queste categorie è unico e corrisponde alla posizione economica iniziale di ciascuna categoria, fatta eccezione per la categoria B, le cui posizioni di accesso restano B.1 e B.3.
La disposizione contrattuale, forse per pressioni da parte sindacale, si discosta dall'atto di indirizzo del comitato di settore del 05.10.2017 il quale, al paragrafo 2.2 prevedeva che, al fine di favorire la flessibilità organizzativa e rimuovere impedimenti ai processi di mobilità di personale sia interna che esterna, una riduzione da quattro a sole tre categorie.
La compressione delle categorie di inquadramento del personale dipendente del comparto funzioni locali avrebbe sicuramente consentito un allineamento con gli altri comparti di contrattazione che già da tempo hanno un suddivisione su tre aree funzionali, come nel caso del comparto funzioni centrali.
Le nuove progressioni economiche orizzontali
L'articolo 64, comma 3, del contratto 21.05.2018 ha previsto l'istituzione di nuove quattro nuove figure apicali in corrispondenza delle categorie A, B, C e D (A.6, B.8, C.6 e D.7), a cui si accede mediante progressione economica a carico delle risorse stabili del Fondo.
Come rileva la Corte dei conti, a sezioni riunite in sede di controllo, nella delibera n. 6/SSRRCO/CCN/18 con la quale ha certificato positivamente il contratto, «l'istituzione delle nuove figure apicali finisce, inoltre, per generare elementi di discriminazione fra i comparti, in quanto non prevista per il comparto delle Funzioni Centrali ed attribuita in modo circoscritto (solo per le aree “funzionali”) nel comparto Istruzione e ricerca. Ne consegue il rischio di alimentare eventuale contenzioso di tipo contrattuale».
Conclusioni
Nel contesto delineato, il nuovo contratto del comparto funzioni locali più che eliminare alcune criticità che sono sorte nell'applicazione delle tabelle di equiparazione ne ha generate altre, come ha evidenziato la Corte dei conti.
Lo stesso Dpcm 26.06.2015 è oggetto di aggiornamento in caso di rinnovo dei contratti nazionali di lavoro della pubblica amministrazione.
A questo punto non ci resta che attendere gli sviluppi. Nel frattempo, nel caso di inquadramento del dipendente a seguito di mobilità intercompartimentale, appare più corretto attenersi scrupolosamente ai criteri definiti nell'articolo 2 del Dpcm 26.06.2015, utilizzando le tabelle allegate quale strumento di supporto in alcuni casi non vincolante (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.05.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCon le nuove regole lavoro aggiuntivo anche nel part-time verticale.
L'articolo 12 del Dlgs 80/2015, pur precisando che le disposizioni sul lavoro a tempo parziale si applicano anche alla Pa, ha tuttavia stabilito alcune eccezioni, quelle riferite alla disciplina del lavoro supplementare in assenza del contratto collettivo (articolo 6, comma 2); la regola delle clausole elastiche collegate alla modifica della collocazione temporale e all'aumento delle ore (articolo 6, comma 6) e, infine, l'apparato sanzionatorio (articolo 10).
Il nuovo contratto, all'articolo 55, disciplina ora, per le funzioni locali, il lavoro supplementare mutuando le indicazioni essenzialmente previste dal Dlgs 81/2015.
Lavoro aggiuntivo o supplementare
Va evidenziato che il lavoro supplementare, inserito all'articolo 55 del contratto, corrisponde al lavoro aggiuntivo previsto dall'articolo 6 del contratto del 14.09.2000, con differenze sia qualitative sia quantitative.
Mentre il lavoro aggiuntivo del precedente contratto poteva essere svolto solo dal personale con part-time orizzontale, nel nuovo articolo 55 il lavoro supplementare è esteso anche al part-time verticale.
Il lavoro supplementare estende la percentuale ammissibile, prima prevista nel limite del 10% dell'orario a tempo parziale (calcolato su base mensile con utilizzazione per più di una settimana), al 25% ma con un tetto massimo di 36 ore settimanali, lasciando identica la maggiorazione della paga oraria globale pari al 15%.
Cambia anche la penalizzazione da parte del datore di lavoro che utilizzi il lavoro aggiuntivo o supplementare in eccedenza del limite: nel precedente contratto la maggiorazione oraria subiva un’impennata del 50%, con le nuove disposizioni la maggiorazione è limitata al 25%. Nel precedente contratto, inoltre, era lasciata la possibilità di autorizzare lo straordinario restando ferme le stesse maggiorazioni orarie previste per il part-time orizzontale.
La spesa sostenuta per le maggiorazioni corrisposte ai dipendenti a tempo parziale resta contabilizzata nei limiti della capienza dello stanziamento del lavoro straordinario.
I periodi di utilizzazione
Sui periodo di utilizzo, mentre l'articolo 6 del contratto 14.09.2000 ne limita la durata a non più di un mese -prevedendo in presenza di un abuso prolungato al comma 7 quanto segue: «Il consolidamento nell'orario di lavoro, su richiesta del lavoratore, del lavoro aggiuntivo o straordinario, svolto in via non meramente occasionale, avviene previa verifica sull'utilizzo del lavoro aggiuntivo e straordinario per più di sei mesi effettuato dal lavoratore stesso»- il nuovo articolo 55 nulla stabilisce sul possibile consolidamento dell'orario, lasciando intendere che non vi è alcuna possibilità da parte del dipendente di chiedere in via definitiva la stabilizzazione dell'orario espletato anche in caso di periodi prolungati di utilizzazione.
In considerazione del necessario accordo tra le parti, resta intatta la possibilità, da parte del lavoratore, di rifiutare lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare per comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale.
Anche al di fuori del lavoro supplementare, trova ancora applicazione la possibilità di svolgere lavoro straordinario, tutte le volte che siano richieste per motivate esigenze di servizio, ore aggiuntive sia rispetto all'orario a tempo parziale sia in caso di superamento delle 36 ore settimanali in caso di accordo sul lavoro supplementare (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2018).

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGODagli incentivi tecnici ai risparmi da razionalizzazione, le voci fuori dal tetto del fondo accessorio.
Non tutte le voci che costituiscono il fondo delle risorse decentrate sono rilevanti ai fini dell’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone di contenere il trattamento accessorio complessivo nel tetto di quello dell'anno 2016.
La giurisprudenza della Corte dei conti e le interpretazioni della Ragioneria generale dello Stato hanno chiarito nel tempo quali somme sono da neutralizzare per effettuare un omogeneo calcolo di verifica.
Incentivi per funzioni tecniche
La deliberazione n. 6/2018 della Sezione Autonomie, che ha finalmente escluso dal limite gli incentivi per funzioni tecniche (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 30 aprile), permette quindi di tirare le fila e avere un quadro completo per bene operare anche alla luce dell'obbligo di revisione della costituzione del fondo che seguirà al nuovo contratto delle funzioni locali.
Economie da razionalizzazione
Tra le principali voci escluse dal limite troviamo le economie derivanti dai piani di razionalizzazione eventualmente adottati dagli enti in base al Dl 98/2011: fino il 50% di questi risparmi possono essere «girati» al fondo. Attenzione, però: per la Sezione Autonomie della Corte dei conti si possono escludere dal limite solo se i dipendenti hanno avuto un ruolo determinate per impegno e dedizione nel raggiungimento degli obiettivi di risparmio (deliberazione n. 34/2016).
A pagina 167 della circolare n. 19/2017, la Ragioneria generale dello Stato esclude le «risorse conto terzi individuale e collettivo» ottenute con l'applicazione dell'articolo 43, comma 3, della legge 449/1997 – articolo 15, comma 1, lettera d). La stessa RgS, ma con la circolare n. 16/2012, aveva escluso dai tetti dell'allora articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010 i compensi per Istat rimborsati agli enti per le attività di censimento.
Finanziamenti europei
Come sempre, quando si parla di limiti alla spesa di personale, vengono esclusi gli incrementi del fondo a carico di finanziamenti europei. È ormai orientamento consolidato, sia da parte della Corte dei conti sia della RgS, la neutralizzazione, ai fini del confronto del trattamento accessorio con l'anno 2016, sia dei risparmi dei fondi degli anni precedenti sia dei risparmi derivanti da minori spese sul fondo del lavoro straordinario.
Compensi dell'avvocatura interna
L'elenco delle esclusioni prosegue con i compensi dell'avvocatura interna. Per la RgS non si conteggiano i compensi professionali legali in relazione a sentenze favorevoli all'Amministrazione con rimborso delle spese legali dalla parte soccombente; la Corte dei conti sembra, invece, più favorevole a un esclusione totale di queste somme.
Somme per progettazioni interne
Rimanendo nel campo delle specifiche disposizioni di legge, solo dal 2018, ovvero da quanto è entrata in vigore la modifica all'articolo 113 del Dlgs 50/2016, si possono escludere dal limite i trattamenti correlati agli incentivi per funzioni tecniche; da «sempre», invece, sono escluse le somme per progettazioni interne secondo il Dlgs 163/2006.
Nuovo contratto
Ed eccoci al nuovo contratto. Dal 2019 è previsto l'incremento della parte stabile del fondo delle risorse decentrate per una somma di 83,20 euro per ciascun dipendente presente al 31.12.2015. L'importo, comporterà, appunto, un aumento del budget a disposizione per la contrattazione integrativa, ma la dichiarazione congiunta proposta in sede di «errata-corrige» al contratto ne conferma, invece, l'esclusione dai tetti di spesa previsti dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.05.2018).

EDILIZIA PRIVATAGiochi, scale e pergolati liberi. Dai pannelli solari ai barbecue: i 58 interventi possibili.
Dodici categorie e 58 tipi di interventi: sono i numeri dell'edilizia libera e leggera, slegata da un titolo edilizio, ma vincolata alla conformità ai piani regolatori. L'elenco è sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 07.04.2018, in allegato al decreto 02.03.2018.
L'elenco del decreto del 03.03.2018 sviluppa le categorie di intervento previste dall'articolo 6 del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001). Tra le voci dell'elenco, i primi 25 casi di attività edilizia libera riguardano le manutenzioni straordinarie.
Stanno alla libertà del proprietario la pavimentazione interna ed esterna, la messa a norma dell'impianto elettrico e degli altri impianti (gas, igienico e idro-sanitario), l'installazione di un impianto di climatizzazione.
Altrettanto per la realizzazione di intercapedini, locali tombati, vasche di raccolta acque.
Per l'importanza che hanno per il risparmio energetico, stanno nella casella dell'edilizia libera le opere relative a pannelli solari, fotovoltaici e generatori microeolici.
Arredo da giardino (dai barbecue alle fontane), gazebi non infissi al suolo, giochi per i bambini, pergolati, ripostigli per attrezzi, sbarre, manufatti per lo stallo di biciclette, tende ed elementi divisori riempiono la categoria delle aree ludiche. Anche roulotte, camper, case mobili e imbarcazioni rientrano nell'attività edilizia libera, in quanto manufatti leggeri in strutture ricreative.
Stesso risultato, ma sotto etichetta diversa (opere contingenti temporanee) si evidenzia per gazebo, stand fieristici, servizi igienici mobili, tensostrutture e assimilabili, elementi espositivi e aree di parcheggio provvisorio (per tutti questi casi, il glossario in commento sottolinea la necessità della comunicazione di inizio lavori per le opere di installazione).
Un'altra categoria di attività edilizia libera è dedicata alla eliminazione delle barriere architettoniche: dalla installazione di ascensori e montacarichi, rampe, apparecchi sanitari e impianti igienici e idro-sanitari e dispositivi sensoriali.
La stessa appartenenza alle attività edilizia libera è registrata per i movimenti terra, come la manutenzione e gestione di terreni agricoli, vegetazione spontanea, e impianti di irrigazione e drenaggio finalizzati alla regimazione e uso dell'acqua in agricoltura.
Attività contigua (sempre libera) è quella della installazione di serre
 (articolo ItaliaOggi Sette del 16.04.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGli incentivi ai vigili non evitano i tetti di spesa.
Le entrate da multe possono finanziare i «premi» per la Polizia locale, ma senza superare i limiti generali per gli stipendi integrativi dei dipendenti pubblici.
I fondi che finanziano le voci aggiuntive delle busta paga, come spiega la riforma Madia della Pa, non possono superare il livello raggiunto nel 2016 fino a quando non sarà completata la futuribile «riorganizzazione» delle architetture salariali dei lavoratori della Pubblica amministrazione.
Il nuovo contratto dei dipendenti degli enti territoriali, che al momento è solo una bozza perché attende il via libera della Corte dei conti prima del passaggio finale in consiglio dei ministri, risolve una questione dibattuta da anni. Questione che spesso anima polemiche locali sugli incentivi per i vigili urbani finanziati dai verbali che gli automobilisti si trovano sul parabrezza o nella cassetta postale. Per capire la questione, come capita spesso quando si affrontano le regole del pubblico impiego, bisogna addentrarsi in un dotto sistema di rimandi fra articoli e commi.
Le regole
Il punto di partenza è il Codice della strada, a quell'articolo 208 che da anni prevede anche un obbligo per i Comuni di spiegare in dettaglio quanti degli incassi che vengono raccolti dalle multe finiscono in manutenzione e in interventi di miglioramento della sicurezza stradale. Questo passaggio è rimasto inattuato per l'eterna assenza del decreto del ministero delle Infrastrutture che avrebbe dovuto indicare le modalità di rendicontazione, ma lo stesso articolo del Codice fa rientrare fra i progetti di potenziamento della sicurezza stradale anche gli incentivi alla Polizia locale.
Il nuovo contratto (articolo 67, comma 3, lettera i. per i diretti interessati) conferma la previsione, ma aggiunge che gli obiettivi legati alla distribuzione dei premi devono essere contenuti nel piano della performance di ogni ente locale. In pratica, quindi, il meccanismo rientra a pieno titolo fra i «progetti speciali» che nei Comuni possono determinare incentivi in busta paga fin dal contratto del 1999, e non nei bonus previsti da «specifiche disposizioni di legge».
Le conseguenze
Una distinzione dall'aspetto bizantino, ma dalle importanti conseguenze pratiche. Perché gli incentivi per i progetti speciali rientrano nel limite generale che impedisce ai fondi integrativi di superare i livelli raggiunti nel 2016, limite dal quale sono invece esclusi solo i premi regolati dalle «specifiche disposizioni».
Sul punto, anche le indicazioni arrivate dalla Corte dei conti sono chiare, e non permettono di puntare su deroghe dettate da interpretazioni più o meno “alternative”. Anche perché il principio che guida la magistratura contabile è quello di premiare sempre le letture più restrittive quando si tratta di fissare i confini delle eccezioni alle regole che limitano la spesa pubblica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, i «funzionari» complicano la contrattazione.
La questione del finanziamento delle posizioni organizzative con imputazione al bilancio anziché al fondo delle risorse decentrate sta assumendo connotati surreali.
Quella che avrebbe dovuto essere una manovra per favorire le relazioni sindacali rischia di creare maggiori contrasti in sede di contrattazione decentrata. L’idea non sarebbe sbagliata, ma purtroppo l’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone di non superare l’importo del trattamento accessorio del 2016 complica non poco le cose.
Il finanziamento
Ad oggi, negli enti con la dirigenza le posizioni organizzative sono finanziate dal fondo del salario accessorio. Con l’entrata in vigore del contratto nazionale delle Funzioni Locali, il nuovo fondo verrà costituito al netto di queste risorse; il che significa che i valori della retribuzione di posizione e di risultato verranno finanziati direttamente dal bilancio come accade, da sempre, negli enti senza la dirigenza. Di fatto, in sede di prima applicazione, si verrà a costituire un budget delle posizioni organizzative pari a quello che gli enti hanno destinato alla stessa finalità nell’anno 2017.
Il problema è che gli enti dovranno considerare entrambi gli aggregati all’interno del tetto del salario accessorio del 2016 e le disposizioni contrattuali non prevedono automatismi sul passaggio delle risorse da un budget all’altro.
Le possibili situazioni
In concreto potrebbero verificarsi tre situazioni diverse. All’interno dell’ente si mantengono le stesse quote del punto di partenza. Ipotizziamo che il limite del 2016 sia pari a 150 e che l’ente abbia destinato nel 2017 un importo pari a 50 per le posizioni organizzative. Nel 2018 si dovrà costituire un fondo di 100 e un “fondo” per le posizioni organizzative di 50. Se nel tempo questo equilibrio non cambia, non ci sono più relazioni sindacali da porre in essere sul tema.
Un secondo caso accade quando l’amministrazione intende ridurre stabilmente il numero delle posizioni organizzative, per esempio per una riorganizzazione. A questo punto, ipotizziamo che il valore da destinare a questa finalità riduca il “fondo” delle posizioni organizzative a 40. Con il limite fissato a 150 si crea, quindi, la possibilità di aumentare il fondo del salario accessorio di 10 fino a poter giungere a 110. Non sembra però esserci alcun automatismo in quanto l’articolo 5 dell’ipotesi di contratto nazionale afferma che questa movimentazione dovrà avvenire previo confronto tra le parti sindacali anche per individuare le facoltà di incremento del fondo dei dipendenti.
Potrebbe infine esserci la necessità di procedere in modo contrario, aumentando il numero delle posizioni organizzative. In questo caso un maggior costo ipotizzato di 5 porterebbe il fondo delle posizioni organizzative a 55 con l’obbligo, per rispettare il limite di euro 150 di andare a ridurre il fondo dei dipendenti. Questa azione diventa però piuttosto complicata in quanto l’articolo 7 del contratto nazionale in arrivo prevede che venga contrattata con i sindacati.
Com’è possibile vedere, in definitiva, sia in un caso sia nell’altro sarà sempre necessario condividere le scelte anche al tavolo delle relazioni sindacali, per tutta la durata del vincolo previsto all’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, i «funzionari» complicano la contrattazione.
La questione del finanziamento delle posizioni organizzative con imputazione al bilancio anziché al fondo delle risorse decentrate sta assumendo connotati surreali.
Quella che avrebbe dovuto essere una manovra per favorire le relazioni sindacali rischia di creare maggiori contrasti in sede di contrattazione decentrata. L’idea non sarebbe sbagliata, ma purtroppo l’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone di non superare l’importo del trattamento accessorio del 2016 complica non poco le cose.
Il finanziamento
Ad oggi, negli enti con la dirigenza le posizioni organizzative sono finanziate dal fondo del salario accessorio. Con l’entrata in vigore del contratto nazionale delle Funzioni Locali, il nuovo fondo verrà costituito al netto di queste risorse; il che significa che i valori della retribuzione di posizione e di risultato verranno finanziati direttamente dal bilancio come accade, da sempre, negli enti senza la dirigenza. Di fatto, in sede di prima applicazione, si verrà a costituire un budget delle posizioni organizzative pari a quello che gli enti hanno destinato alla stessa finalità nell’anno 2017.
Il problema è che gli enti dovranno considerare entrambi gli aggregati all’interno del tetto del salario accessorio del 2016 e le disposizioni contrattuali non prevedono automatismi sul passaggio delle risorse da un budget all’altro.
Le possibili situazioni
In concreto potrebbero verificarsi tre situazioni diverse. All’interno dell’ente si mantengono le stesse quote del punto di partenza. Ipotizziamo che il limite del 2016 sia pari a 150 e che l’ente abbia destinato nel 2017 un importo pari a 50 per le posizioni organizzative. Nel 2018 si dovrà costituire un fondo di 100 e un “fondo” per le posizioni organizzative di 50. Se nel tempo questo equilibrio non cambia, non ci sono più relazioni sindacali da porre in essere sul tema.
Un secondo caso accade quando l’amministrazione intende ridurre stabilmente il numero delle posizioni organizzative, per esempio per una riorganizzazione. A questo punto, ipotizziamo che il valore da destinare a questa finalità riduca il “fondo” delle posizioni organizzative a 40. Con il limite fissato a 150 si crea, quindi, la possibilità di aumentare il fondo del salario accessorio di 10 fino a poter giungere a 110. Non sembra però esserci alcun automatismo in quanto l’articolo 5 dell’ipotesi di contratto nazionale afferma che questa movimentazione dovrà avvenire previo confronto tra le parti sindacali anche per individuare le facoltà di incremento del fondo dei dipendenti.
Potrebbe infine esserci la necessità di procedere in modo contrario, aumentando il numero delle posizioni organizzative. In questo caso un maggior costo ipotizzato di 5 porterebbe il fondo delle posizioni organizzative a 55 con l’obbligo, per rispettare il limite di euro 150 di andare a ridurre il fondo dei dipendenti. Questa azione diventa però piuttosto complicata in quanto l’articolo 7 del contratto nazionale in arrivo prevede che venga contrattata con i sindacati.
Com’è possibile vedere, in definitiva, sia in un caso sia nell’altro sarà sempre necessario condividere le scelte anche al tavolo delle relazioni sindacali, per tutta la durata del vincolo previsto all’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, il nuovo contratto cambia il «risultato».
L'articolo 15 del nuovo contratto delle funzioni locali innova, e non poco, il regime della retribuzione di risultato degli incaricati di posizioni organizzativa, rispetto ai quali sono congiuntamente rideterminati i limiti massimi e minimi (da 5.000 a 16.000).
Questa evoluzione implica l'introduzione di alcune opportunità nella progettazione del sistema di valutazione della performance da strutturare concretamente con la definizione e la selezione dei criteri per la determinazione e per l'erogazione annuale proprio della retribuzione di risultato.
Quest'ultima, infatti, se prima era parametrizzata (tra il 10% e il 25%, a livello potenziale) alla retribuzione di posizione spettante, ora è correlata alle risorse complessivamente destinate all'erogazione della retribuzione di posizione e di risultato, di cui deve rappresentare una quota non inferiore al 20%.
La diversa impostazione prescelta consente agli enti locali di strutturare in modo più discrezionale (e quindi coerente con lo specifico contesto organizzativo) le modalità e gli strumenti con cui attivare la correlazione tra la performance individuale conseguita e il trattamento retributivo di risultato potenzialmente ed effettivamente attribuito.
Va sottolineato, in proposito, che l'approccio ora introdotto per le posizioni organizzative riprende il modello, legato alla consistenza complessiva del fondo, tradizionalmente vigente per la dirigenza, che non aveva una quota di risultato puntualmente determinata in funzione della «posizione» spettante.
La misurazione della performance individuale annuale, naturalmente, dovrà avvenire sempre sulla base delle indicazioni dell'articolo 9 del Dlgs 150/2009, mentre potrà essere variamente modulata la correlazione intercorrente tra (appunto) la performance realizzata e l'indennità di risultato riconosciuta.
La logica della premialità
La scelta del contratto, infatti, mira a favorire l'attuazione di logiche maggiormente incentivanti, dal momento che l'incidenza del risultato (rispetto alla posizione), a maggior ragione che ora è determinata in funzione dell'ammontare complessivo delle risorse, dovrebbe ampliare la quota orientata alla premialità, prima potenzialmente quantificabile anche in corrispondenza della soglia più contenuta, pari al 10% della retribuzione di posizione.
Inoltre, il minore legame esistente rispetto alla retribuzione di posizione spettante a ogni incaricato può favorire una distribuzione, anche a livello potenziale, maggiormente coerente con il peso e la rilevanza degli obiettivi specificamente assegnati a ciascuno, tenuto conto dei criteri di ponderazione adottati nell'ambito del sistema di misurazione della performance.
In altri termini, il peso ponderale assegnato a ogni obiettivo potrebbe essere utilizzato (in modo più spinto e incentivante ovvero in modo più limitato) per differenziare il valore potenziale della retribuzione di risultato assegnato a ciascuna posizione organizzativa, ferma restando –ovviamente– la determinazione del risultato effettivamente attribuito.
Naturalmente, compete al sistema di misurazione e di valutazione della performance stabilire concretamente le modalità, gli strumenti e le soluzioni tecniche per realizzare i meccanismi di differenziazione della premialità, alla luce delle specificità del contesto.
Il problema degli interim
In ordine al «risultato», peraltro, è anche importante sottolineare come il nuovo contratto (pure in questo caso riprendendo una soluzione vigente per la dirigenza) utilizzi lo strumento pure per risolvere l'annosa problematica della remunerazione degli interim.
Infatti, l'accordo stabilisce ora che al lavoratore, già titolare di incarico, a cui viene conferito un interim relativo ad altra posizione organizzativa è attribuito un importo la cui misura può variare dal 15 al 25% del valore economico della retribuzione di posizione prevista per l'incarico aggiuntivo.
La scelta puntuale della remunerazione da riconoscere, entro il range predefinito, non è discrezionale ma discende da alcuni elementi individuati dal contratto, correlati alla complessità delle attività e del livello di responsabilità nonché al livello di conseguimento degli obiettivi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2018).

LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGOPer il collaudo tecnico non serve iscriversi all'albo.
Collaudi tecnico-amministrativi per le opere pubbliche senza iscrizione all'albo per i dipendenti pubblici; obbligo di iscrizione per il collaudo statico.

È quanto ha previsto il Consiglio superiore dei lavori pubblici che nei giorni scorsi ha approvato lo schema di decreto del ministero delle infrastrutture sul collaudo delle opere pubbliche, che attua l'articolo 102, comma 8, del codice dei contratti pubblici. Si vedrà adesso se il testo sarà siglato dal ministro Delrio.
La norma del codice dei contratti prevede che con decreto ministeriale, su proposta del Consiglio superiore dei lavori pubblici, sentita l'Autorità nazionale anticorruzione, siano disciplinate e definite le modalità tecniche di svolgimento del collaudo, nonché i casi in cui il certificato di collaudo dei lavori e il certificato di verifica di conformità possono essere sostituiti dal certificato di regolare esecuzione.
La stessa disposizione del codice consente fino alla data di entrata in vigore del decreto, consente di applicare l'articolo 216, comma 16, anche con riferimento al certificato di regolare esecuzione. Nel stesso decreto ministeriale dovranno essere disciplinate le modalità e le procedure di predisposizione degli albi dei collaudatori, di livello nazionale e regionale, nonché i criteri di iscrizione secondo requisiti di moralità, competenza e professionalità.
Gli incarichi di collaudo, dal punto di vista procedurale, quando affidati all'esterno della pubblica amministrazione, vengono trattati come i servizi di ingegneria e architettura ma dal punto di vista dei requisiti per lo svolgimento dell'incarico (quando svolti all'interno della pubblica amministrazione) l'iscrizione all'albo dei collaudatori rappresenta, per il funzionario pubblico, il requisito abilitante allo svolgimento dell'incarico. Poi emergono delle differenze fra collaudo statico e collaudo tecnico-amministrativo
Per l'articolo 7 della legge 05.11.1971, n. 1086 «il collaudo deve essere eseguito da un ingegnere o da un architetto, iscritto all'albo da almeno 10 anni, che non sia intervenuto in alcun modo nella progettazione, direzione ed esecuzione dell'opera»; analogamente l'articolo 67, comma 2, del dpr n. 380/2006 precisa che
Per il collaudo tecnico-amministrativo era invece il dpr 207/2010 a stabilire che «è necessaria l'abilitazione all'esercizio della professione nonché, ad esclusione dei dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici, l'iscrizione da almeno cinque anni nel rispettivo albo professionale».
Nello schema approvato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici sarebbe previsto per il collaudo statico la necessità del possesso di una laurea in ingegneria o architettura, secondo i limiti di competenza stabiliti dai rispettivi ordinamenti professionali, e l'iscrizione all'albo professionale da almeno dieci anni. Viceversa, per il collaudo tecnico-amministrativo, se svolto all'interno degli uffici tecnici della pubblica amministrazione, si richiede il possesso di un diploma di laurea ma non l'iscrizione all'Albo.
Per il dipendente pubblico basta quindi essere laureati per essere iscritti all'albo dei collaudatori. Un trattamento differenziato rispetto ai soggetti esterni, nonostante si tratti dello svolgimento delle stesse attività
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIAStretta sulla gestione dei Raee. Adempimenti ambientali moltiplicati per gli operatori.
Dal 15.08.2018 saranno sottoposte alle speciali norme sui tecno-rifiuti (c.d. «Raee») tutte le apparecchiature elettriche ed elettroniche («Aee») non espressamente escluse dal legislatore. Con lo scattare dei termini previsti dal dlgs 49/2014 in attuazione della disciplina Ue si passerà infatti dal numero chiuso delle Aee soggette alle particolari eco-regole a un elenco aperto, secondo la logica di allargamento nota a livello comunitario come «open scope».
L'estensione del campo di applicazione delle norme sui Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) si tradurrà in un ampliamento degli oneri a carico di tutti gli operatori della filiera: fabbricanti e distributori di nuove apparecchiature, produttori dei relativi rifiuti e gestori degli stessi.
L'ampliamento delle regole sui Raee. Le regole interessano i beni che a monte soddisfano la definizione di Aee recata dal dlgs 49/2014, il provvedimento attuativo della direttiva 2012/19/Ue sulla gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. In base all'art. 4 del suddetto dlgs 49/2014 sono Aee le apparecchiature che dipendono per il corretto funzionamento dalla corrente elettrica o da campi elettromagnetici nonché gli strumenti di generazione, trasferimento e misurazione di questi con tensione entro i 1.000/1.500 volt (in base al tipo di corrente).
A modulare il novero delle Aee soggette alle regole su prevenzione e gestione dei relativi rifiuti sono gli artt. 2 e 3 del dlgs 49/2014, recanti rispettivamente l'ambito di applicazione delle norme in parola e le apparecchiature dalle stesse escluse. In particolare, l'art. 2 del dlgs 49/2014 stabilisce che: fino al 14.08.2018 le regole sui Raee si applicano alle sole apparecchiature rientranti nelle (dieci) categorie dell'allegato I al decreto ed elencate a (mero) titolo esemplificativo nel successivo allegato II; dal 15.08.2018, invece, le regole si applicano a tutte le apparecchiature, come classificate nelle (sei) categorie dell'allegato III e (analogamente all'uscente regime) elencate a titolo esemplificativo nel connesso allegato IV.
L'allargamento del campo di applicazione delle regole Raee è insito nel passaggio dall'allegato I all'allegato III, poiché da elenco classificatorio esaustivo delle categorie delle Aee si passa a un elenco in cui la classificazione ha solo valore sistematico. Il passaggio dall'una all'altra classificazione reca novità anche nella forma, poiché le precedenti dieci categorie di Aee vengono tradotte in sei più vasti insiemi, coincidenti con: apparecchi per scambio temperatura; schermi, monitor e apparecchiature con schermi superiori a 100 cm cubici; lampade; apparecchiature di grandi dimensioni (tra cui elettrodomestici, computer, distributori, generatori di corrente); apparecchiature di piccole dimensioni (con misura esterna massima non superiore a 50 cm); piccole apparecchiature informatiche e per le telecomunicazione (con nessuna dimensione esterna superiore ai 50 cm).
Sul descritto campo di applicazione il successivo art. 3 del dlgs 49/2014 modella le eccezioni, stabilendo che: fino al 14.08.2018 la disciplina sui Raee non si applica alle apparecchiature per la sicurezza nazionale, a quelle che fanno funzionalmente parte di altre Aee escluse, alle lampade a incandescenza; dal 15.08.2018 alle suddette esclusioni si aggiungeranno altre sette categorie, quali le Aee destinate a essere inviate nello spazio, gli utensili industriali e le installazioni fisse di grandi dimensioni (tranne le apparecchiature non progettate per esserne parte), i mezzi di trasporto di persone e merci (tranne quelli elettrici a due ruote non omologati), le macchine mobili non stradali professionali, le Aee per ricerca e sviluppo interaziendali, alcuni dispositivi medici.
In estrema sintesi, dal suddetto quadro normativo deriva dunque come dal 15.08.2018 le speciali eco-regole sui tecno-rifiuti recate dal dlgs 49/2014 si applicheranno a tutte le Aee dallo stesso provvedimento non espressamente escluse, con un bilancio (tra inclusioni ed esclusioni) che vede al netto un allargamento dei tecno-rifiuti sottoposti a «regime speciale».
E in base alle rilevazioni effettuate per i singoli comparti merceologici e alle relative informazioni veicolate dagli operatori del settore tra apparecchiature che dal prossimo agosto 2018 saranno soggette al regime dei Raee appaio esserci stufe a pellet e caldaie, pompe e compressori, generatori e alimentatori di energia elettrica, antenne, interruttori e fusibili, motori e quadri elettrici, cavi elettrici, prolunghe, adattatori, fusibili.
Conseguenze per gli operatori. L'allargamento del novero delle Aee sottoposte alla disciplina dei tecno-rifiuti comporta innanzitutto conseguenze per i relativi produttori di apparecchiature. Ai sensi del dlgs 49/2914 tali sono, lo ricordiamo, le persone fisiche o giuridiche: stabilite sul territorio nazionale o sullo stesso rappresentate da altro soggetto che commercializzano con proprio nome o marchio di fabbrica delle Aee (proprie o fabbricate da terzi); che immettono professionalmente sul mercato nazionale delle Aee provenienti da Stati Ue o extra Ue; stabilite in qualsiasi altro Stato che vendono sul mercato nazionale italiano Aee tramite tecniche di comunicazione a distanza.
I suddetti produttori delle «debuttanti» Aee soggiaceranno a tutti gli obblighi previsti dal suddetto dlgs 49/2914 e provvedimento connessi quali, a titolo generale: conseguimento degli obiettivi minimi di recupero e riciclaggio dei relativi rifiuti; iscrizione nel Registro nazionale dei soggetti obbligati al finanziamento dei sistemi di gestione Raee ed effettivo sostentamento economico di meccanismi di raccolta, trasporto e trattamento; denuncia annuale Mud delle Aee immesse sul mercato; informazione dei soggetti interessati sulla corretta gestione delle Aee una volta a fine vita e relativa funzionale etichettatura delle stesse.
Ancora. L'allargamento degli oneri coinvolgerà anche i distributori di Aee, quali le persone iscritte al Registro delle imprese ex lege 580/1993 che (produttori o meno delle stesse) rendono disponibili sul mercato (anche mediante sistemi di vendita a distanza) le suddette apparecchiature elettriche ed elettroniche. Per tali soggetti scatteranno infatti (ricorrendone le condizioni generali previste dal dlgs 49/2014) gli obblighi di ritiro gratuito «uno contro uno» e «uno contro zero» dei relativi Raee domestici o «dual use» e il relativo trasporto presso centri di raccolta o impianti di trattamento.
Produttori di Raee vedranno invece espandersi gli obblighi di corretto deposito e conferimento in via differenziata dei rifiuti generati. Per i gestori degli impianti di trattamento Raee si allargheranno gli obblighi di tracciamento analitico dei rifiuti in entrata destinati al recupero e materiali generati in output, di adeguamento alle migliori tecniche per il processo dei residui, di comunicazione annuale dei dati quali/quantitativi dei Raee gestiti
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOÈ illegittima la loro presenza nelle delegazioni trattanti. Contratti locali, fuori i politici.
Illegittima la presenza di politici nelle delegazioni trattanti di parte pubblica chiamate alle trattative per i contratti collettivi decentrati di lavoro.
La partecipazione degli organi politici (sindaco o assessori al personale) alle trattative continua a costituire una chiara ed evidente violazione di legge, anche se la preintesa del Ccnl delle funzioni locali non riproduce i contenuti dell'articolo 10 del Ccnl 01.04.1999.
Tale norma stabiliva che «ai fini della contrattazione collettiva decentrata integrativa, fatto salvo quanto previsto dall'art. 6, ciascun ente individua i dirigenti (o, nel caso enti privi di dirigenza, i funzionari) che fanno parte della delegazione trattante di parte pubblica». Una previsione posta a chiarire, anche per via contrattuale, la corretta composizione delle delegazioni, dando atto dell'esclusione della compagine politica.
Secondo alcuni primi interpreti, l'assenza di simile disposizione nel nuovo Ccnl potrebbe riaprire le porte delle trattative anche a sindaci ed assessori.
Si tratta di un dubbio, tuttavia, del tutto infondato. C'è, intanto, da precisare che l'assenza dei politici dalle delegazioni non significa privare gli organi di governo di poteri, necessari, di incidenza nel processo della contrattazione. È, infatti, la giunta comunale competente a dare le direttive alla delegazione trattante per la contrattazione e, soprattutto, ad autorizzare la sottoscrizione della preintesa. Giocare il ruolo sia di soggetto che programma e controlla, sia di soggetto che contratta, costituisce un'evidente confusione di ruoli e compiti.
In ogni caso, ai fini della corretta costituzione della delegazione trattante priva di organi politici non occorre per nulla un'esplicita previsione contrattuale. Infatti, non può e non deve spettare alla contrattazione, né nazionale, né decentrata, determinare la composizione delle delegazioni trattanti di parte pubblica.
Lo si comprende agevolmente leggendo la previsione dell'articolo 40, comma 1, del dlgs 165/2001, novellato dalla riforma Madia, ai sensi del quale «sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie [ ] afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17».
L'articolo 5, comma 2, per un verso attribuisce in via esclusiva (cioè ad esclusione dei politici) a dirigenti (e negli enti che ne sono privi, ai responsabili di servizio) la funzione di gestione dei rapporti di lavoro. Ma, ancora più chiara è la previsione dell'articolo 16, comma 1, lettera h), ai sensi del quale i dirigenti «svolgono le attività [ ] di gestione dei rapporti sindacali».
Dunque, la previsione dell'articolo 10 del Ccnl 01.04.1999 non è stata riproposta semplicemente perché non si tratta di materia sulla quale i contratti possono esprimersi, mentre la normativa è estremamente chiara nell'assegnare solo ed esclusivamente alla dirigenza il compito di gestire i rapporti sindacali, tra i quali rientrano senza il minimo dubbio le trattative per i contratti decentrati
(articolo ItaliaOggi del 23.03.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSe nevica è lo Stato a pagare. Nella p.a., in caso di assenza, stipendio senza perdere ferie. La proposta della Corte conti all’Aran accentua le differenze tra lavoro pubblico e privato.
Paghi lo Stato se nevica e i dipendenti pubblici non possono raggiungere il posto di lavoro.
Così la segreteria generale della Corte dei conti (cioè la direzione amministrativa, non i giudici) ritiene corretto regolare un evento come la recente nevicata del 26 febbraio scorso, che paralizzò Roma, chiedendo all'Aran di condividere la tesi con la richiesta di parere 2179 dello scorso 5 marzo. Tesi che, se accolta, porterebbe all'ennesima fortissima divaricazione tra mondo del lavoro privato e pubblico.
La nevicata del 26 febbraio scorso impedì a molti dipendenti della Corte dei conti di raggiungere gli uffici. Secondo la segreteria generale della Corte, la mancata resa della prestazione lavorativa non dovrebbe incidere negativamente sulla sfera giuridica dei lavoratori, ma va considerata imputabile al «rischio di impresa» dell'amministrazione pubblica, prendendo atto che l'evento atmosferico crea un danno erariale non imputabile ai lavoratori. In sostanza, dunque, nei confronti dei lavoratori che non sono riusciti a raggiungere il posto di lavoro, secondo la richiesta di parere, non si dovrebbe disporre d'ufficio una riduzione delle ore di permesso personale o dei giorni di ferie; di conseguenza, per ragioni di equità, ai dipendenti che invece hanno comunque preso servizio andrebbe riconosciuto un turno di riposo compensativo.
Secondo la segreteria generale della Corte dei conti non si potrebbero estendere al lavoro pubblico le modalità di regolazione del rapporto proprie del privato. In questo ambito, come del resto evidenziato dal ministero del Lavoro nel parere 7 giugno 2012, n. 37/0010676 reso proprio in merito alle conseguenze del mancato svolgimento della prestazione lavorativa a causa di una nevicata. Nel caso del rapporto di lavoro privatistico, rileva il Ministero «l'impossibilità sopravvenuta liberi entrambi i contraenti: il lavoratore dall'obbligo di effettuare la prestazione e il datore dall'obbligo di erogare la corrispondente retribuzione. Restano ferme, tuttavia, le disposizioni dei contratti collettivi di lavoro che, generalmente, contemplano la possibilità per il lavoratore di fruire di titoli di assenza retribuiti connessi al verificarsi di eventi eccezionali».
Nel caso del lavoro pubblico e, specificamente per il comparto ministeri, qualora intervenga un «factum principis», come un'ordinanza di chiusura degli uffici pubblici, questo «impedisce modo oggettivo ed assoluto l'adempimento della prestazione, ossia l'espletamento dell'attività lavorativa, fermo restando l'obbligo datoriale di corrispondere la retribuzione nelle giornate indicate».
Nel caso della nevicata del 26 febbraio, tuttavia, non vi sono stati provvedimenti autoritativi di chiusura degli uffici. Mancherebbe, quindi, una «forza maggiore» che abbia impedito in modo oggettivo ed assoluto la prestazione lavorativa. Tuttavia, secondo la richiesta di parere, tale causa di forza maggiore potrebbe essere ravvisata nella carenza, da parte della p.a. nel suo complesso «di un dispositivo organizzativo idoneo a fronteggiare gli stessi gravi eventi atmosferici, per consentire la percorribilità delle strade pubbliche (a chi si reca al lavoro con i propri mezzi di trasporto) ovvero la fruizione dei mezzi di trasporto pubblico)».
Insomma, poiché la p.a. non ha potuto garantire la percorribilità delle strade o la fruizione completa di mezzi di trasporto, si assisterebbe ad un'ipotesi di «danno che resta a carico del pubblico erario». Lo Stato e le altre amministrazioni, in conseguenza della carenza di rimedi all'evento climatico, in sostanza, dovrebbero accollarsi il costo da un lato del riconoscimento delle assenze dei dipendenti senza ridurre loro ferie o permessi e con diritto alla retribuzione; dall'altro il costo di un turno (remunerato) di riposo (ovviamente in giornata lavorativa) per i dipendenti presenti in servizio.
Secondo il parere sarebbe da «ritenere equo» che le difficoltà a fronteggiare l'emergenza dovuta alla nevicata, tali da rendere estremamente difficoltosa, se non impossibile, la puntuale prestazione lavorativa, producano a carico del datore di lavoro pubblico il danno erariale, non attribuibile alla responsabilità da inadempimento del lavoratore.
Nell'attesa che l'Aran si esprima sulla richiesta di parere, vi è da osservare che l'assenza di misure organizzative utili per consentire il regolare transito nelle strade con mezzi privati o pubblici colpisce in maniera del tutto identica lavoratori pubblici e privati. L'eventuale accoglimento della tesi della segreteria generale della Corte dei conti pone un non irrilevante problema di equità nei confronti del sistema privato, colpito anch'esso dalle conseguenze delle medesime disfunzioni
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPortale reclutamento, chance per la p.a. Via libera in unificata alla direttiva sui concorsi.
Il portale del reclutamento è l'elemento di maggiore novità delle Linee guida sulle procedure concorsuali, elaborate dalla Funzione pubblica, che hanno ricevuto ieri il via libera dalla Conferenza unificata (nulla di fatto, invece sulla direttiva in materia di piani dei fabbisogni per la quale Anci e regioni hanno chiesto un supplemento di indagine ndr).
A patto di non limitarsi a essere il luogo virtuale nel quale censire le procedure concorsuali, e quindi trasformarsi nell'ennesima baca di dati da caricare da parte delle varie p.a., il portale potrebbe risultare estremamente interessante come punto di contatto per l'incontro domanda/offerta nel lavoro pubblico.
L'elemento strategico sta nella previsione di sviluppare il portale anche per gestire le procedure concorsuali, creando utenze per ogni amministrazione pubblica e per i candidati, conservando le informazioni relative ai candidati, con il loro consenso, per riutilizzarle in più procedure concorsuali, o per standardizzare moduli di domande di partecipazione ai concorsi e presentare telematicamente le istanze. Per il resto, le Linee guida rappresentano un riassunto di «buone pratiche» da molto tempo già adottate. Da anni ormai, infatti, le pubbliche amministrazioni adottano procedure concorsuali «modulari» (soli esami, soli titoli, titoli ed esami, corso-concorso, selezione con prove di accertamento della professionalità), a seconda del livello di professionalità da acquisire.
Anche la preselezione da lungo tempo è divenuta una costante, specie quando a gestire le procedure concorsuali sono amministrazioni particolarmente ambite, per il prestigio o la collocazione territoriale.
Le Linee guida tracciano indicazioni comuni tanto per le preselezioni quanto per le vere e proprie prove selettive: non puntare tanto sulla verifica della conoscenza mnemonica, quanto sulla capacità di applicare le competenze possedute a casi concreti, sul presupposto che i candidati con maggiori doti mnemoniche non necessariamente coincidono con i più capaci sul piano professionale.
Per questo le prove concorsuali è opportuno siano finalizzate a verificare appunto la capacità di applicare le conoscenze possedute. Le Linee guida, quindi, suggeriscono di non limitare le prove a «temi», ma estenderle alla soluzione di casi concreti, come redazione di atti amministrativi o relazioni, o calcoli di progettazione. Ma, anche questi suggerimenti si inseriscono nel solco di prassi largamente consolidate e collaudate, poiché da molto tempo è invalsa la consapevolezza della necessità di valutare i concorrenti cercando di verificare il saper fare ed il saper essere, oltre al solo sapere.
L'altro elemento di concreto interesse delle Linee guida è la spinta verso l'accentramento delle procedure concorsuali, in analogia col medesimo fenomeno accentratore già avviato nell'ambito degli appalti pubblici (si veda ItaliaOggi di ieri). Così come del resto previsto dalla riforma Madia, della quale le Linee guida sono attuative, la reale ambizione è fare sì che le procedure concorsuali autonome, cioè gestite da singole amministrazioni, restino solo un'ipotesi residuale.
Del resto, le amministrazioni centrali saranno obbligate ad utilizzare i concorsi unici, allo scopo di ottenere economie di scala e razionalizzazioni procedurali.
Le Linee guida auspicano che il processo di accentramento venga adottato anche dalle amministrazioni autonome, come regioni, enti locali e sistema sanitario, proprio per garantire i vantaggi organizzativi. Si suggerisce, quindi, una via di mezzo tra il concorsone unico nazionale e la procedura autonoma: convenzioni tra gruppi di amministrazioni che creino uffici comuni dedicati a procedure di reclutamento attraverso le quali le p.a. aderenti attingano a graduatorie uniche
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Rinnovabili alla riforma delle autorizzazioni.
Semplificazione su tutto il territorio nazionale delle procedure autorizzative degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e dei dispositivi per l'efficienza energetica. In particolare, lo snellimento procedurale riguarderà l'installazione di pompe di calore, generatori di calore, impianti solari termici e generatori ibridi compatti.

Questo è l'obiettivo dello schema di decreto interministeriale (MiSe, Ambiente, Beni culturali e infrastrutture) del 21.02.2018 che, in attuazione del dlgs n. 102/2014, prova a semplificare e armonizzare gli adempimenti per l'installazione di impianti e dispositivi tecnologici per l'efficienza energetica e per lo sfruttamento delle fonti rinnovabili in ambito residenziale e terziario.
Il provvedimento ha ricevuto il via libera ieri dalla Conferenza unificata e proseguirà il suo iter verso la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Entro 120 giorni dall'entrata in vigore, le regioni e gli enti locali dovranno adeguare la propria normativa. Decorso tale termine, le disposizioni contenute nelle linee guida troveranno diretta applicazione. Le linee guida indicano anche i prezzi massimi che gli enti locali possono applicare per le procedure autorizzative degli interventi:
   - 10 euro per la comunicazione inizio lavori (Cil),
   - 30 euro per la procedura abilitativa semplificata (Pas),
   - 50 euro per l'autorizzazione paesaggistica semplificata e ordinaria.
Entro 120 giorni dall'entrata in vigore della norma, gli enti locali dovranno pubblicare tali costi sui propri siti web. Le norme si applicano ai casi di nuova installazione e/o sostituzione di impianti tecnologici destinati ai servizi di climatizzazione invernale e/o estiva e/o produzione di acqua calda sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico utilizzato, in funzione anche delle tipologie di lavori individuate dal decreto ministeriale 26.06.2015.
Infine, il provvedimento introduce la figura del certificatore energetico. Lo scopo è quello di favorire l'omogeneità nell'applicazione della disciplina e di eliminare situazioni di possibile alterazione della concorrenza fra le diverse aree del Paese
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAParametri antisismici più stringenti. Ponti, prove doc. Una stretta sulle costruzioni.
Stretta sulle costruzioni. Parametri più stringenti di sicurezza sismica per l'adeguamento degli edifici esistenti; introdotti coefficienti minimi di sicurezza per i miglioramenti statici; previste prove di carico per ponti e strutture prefabbricate; attuazione differenziata in base all'avanzamento della progettazione.

Sono queste alcune delle principali novità contenute nelle nuove norme tecniche sulle costruzioni entrate in vigore ieri, trenta giorni dopo l'avvenuta pubblicazione del decreto del ministero delle infrastrutture 17.01.2018 (in G.U. n. 42 del 20/02/2018, s.o. n. 8).
Le nuove norme tecniche per le costruzioni (Ntc, le ultime risalivano a dieci anni fa - dm 14.01.2008) hanno lo scopo di definire i principi da applicare nella progettazione, esecuzione e collaudo delle costruzioni e di individuare gli elementi prestazionali degli edifici sotto il profilo della resistenza meccanica e della loro stabilità.
Rispetto al 2008 il testo è stato semplificato e chiarito, anche a seguito dell'impatto determinato dall'applicazione concreta delle norme tecniche nei diversi contesti operativi. Per gli edifici esistenti è stato confermato il principio per cui il progetto e la valutazione della sicurezza devono «dimostrare che gli interventi non comportino una riduzione dei livelli di sicurezza preesistenti».
In una logica di diffusa riduzione del rischio sismico le Ntc aggiornate intervengono confermando per i nuovi edifici gli standard precedenti. Vengono però introdotti dei coefficienti minimi di sicurezza per miglioramenti statici che in precedenza non esistevano (coefficiente di sicurezza 0,6, rispetto a 1 dei nuovi edifici, per edifici scolastici di classe III e IV e per le altre costruzioni di classe inferiore alla III, 0,1). In caso di mutamento di destinazione d'uso e di modifiche di classe d'uso che conducano a costruzioni di classe III ad uso scolastico o di classe IV il livello di sicurezza della costruzione viene stabilito in 0,80.
Per la progettazione in presenza di azioni sismiche viene introdotta una parte ad hoc con la finalità di permettere alle strutture una migliore risposta alle azioni sismiche. Per quel che riguarda i materiali e i prodotti per uso strutturale le nuove norme tecniche considerano anche nuovi materiali quali i cosiddetti «calcestruzzi fibrorinforzati». Le nuove Ntc introducono. Per quanto riguarda i collaudi statici, anche delle specifiche sulle prove di carico, con particolare attenzione alle prove di carico su strutture prefabbricate e ponti. Vengono anche adeguate alle procedure del servizio tecnico centrale le regole di qualificazione, certificazione ed accettazione dei materiali e prodotti per uso strutturale.
Il decreto prevede una fase transitoria che gradua l'entrata in vigore delle specifiche tecniche in funzione dello stato del progetto. In particolare per le opere pubbliche o di pubblica utilità in corso di esecuzione, per i contratti pubblici di lavori già affidati, nonché per i progetti definitivi o esecutivi già affidati prima del 22 marzo, è previsto che si potranno continuare ad applicare le norme tecniche del 2008 fino all'ultimazione dei lavori ed al collaudo statico degli stessi.
In riferimento poi ai contratti pubblici di lavori già affidati e ai progetti definitivi o esecutivi già affidati tale facoltà è comunque esercitabile solo nel caso in cui la consegna dei lavori avvenga entro cinque anni dalla data di entrata in vigore delle norme tecniche per le costruzioni. Per le opere private le cui opere strutturali siano in corso di esecuzione o per le quali sia già stato depositato il progetto esecutivo presso i competenti uffici prima della data di entrata in vigore delle Norme tecniche per le costruzioni (22 marzo), è ammessa l'applicazione delle previgenti Ntc fino all'ultimazione dei lavori e al collaudo statico degli stessi.
Il Consiglio superiore dei lavori pubblici intanto ha reso noto che sta lavorando ad una circolare riportante le istruzioni applicative delle Ntc, ma ha tenuto a precisare che nel frattempo «si potranno seguire le indicazioni riportate nella precedente circolare, per quanto non in contrasto con quanto riportato nel nuovo dm 17/01/2018». Questo mentre il servizio tecnico centrale dello stesso Consiglio ha emesso una nota che adegua alle nuove Ntc le procedure autorizzative di propria competenza
(articolo ItaliaOggi del 23.03.2018).

EDILIZIA PRIVATABonus ristrutturazioni elastico. Detrazione anche se a pagare è una società finanziaria. La guida dell’Agenzia delle entrate si sofferma sulle caratteristiche del bonifico.
Per il bonus ristrutturazione è necessario, in linea di principio, il pagamento con bonifico bancario e/o postale anche online. Ma se gli interventi sono stati pagati da una società finanziaria, il contribuente che è in possesso della ricevuta di bonifico della società finanziatrice, completo di tutti i dati richiesti dalla legge, potrà fruire della detrazione.
Come emerge chiaramente dalla specifica guida (febbraio 2018) dell'Agenzia delle entrate, i contribuenti possono fruire della detrazione incrementata del 50% su un limite massimo di 96 mila euro per unità abitativa, da spalmare in dieci rate annuali di pari importo, a condizione che gli interventi siano effettuati a mezzo bonifico «tracciabile», bancario e/o postale, anche on-line, dal quale risulti la causale del versamento (si deve far riferimento all'art. 16-bis, dpr 917/1986), il codice fiscale del beneficiario del bonus e del codice fiscale (o partita Iva) del prestatore d'opera, quale beneficiario del pagamento; anche le versioni on-line presentano già impostata la specifica causale appena indicata.
Tutte le spese che, al contrario, non è possibile effettuare con la detta modalità potranno essere assolte con le modalità ordinarie; si tratta, in particolare, e per esempio, degli oneri di urbanizzazione, delle concessioni, delle autorizzazioni e/o denunce, nonché delle imposte di bollo e delle ritenute fiscali applicate agli onorari professionali, anche se tale ultimo caso riguarda più il risparmio energetico.
Con riferimento agli interventi eseguiti sulle parti a comune degli edifici, oltre al codice fiscale del condominio è necessaria la presenza di quello dell'amministratore o di altro condomino che esegue il relativo pagamento.
Una particolare attenzione deve essere posta quanto vi sono più contribuenti che sostengono la spesa per gli interventi agevolati, nel qual caso per fruire del bonus è necessaria l'indicazione del codice fiscale di tutti i fruitori, mentre se il bonifico viene eseguito da soggetto diverso, rispetto a quello indicato nella disposizione di pagamento, è quest'ultimo che può usufruire della detrazione (circ. 17/E/2015).
La guida evidenzia che sono validi, ai fini della fruizione della detrazione, anche i bonifici eseguiti tramite conti accesi presso istituti di pagamento ovvero imprese, non qualificate come istituti di credito, ma autorizzate alla prestazione di detti servizi dalla Banca d'Italia; naturalmente, in tale caso, più unico che raro, l'impresa deve garantire di assolvere tutti gli adempimenti imposti alle banche, come il versamento della ritenuta d'acconto, la certificazione di quest'ultima e la trasmissione del modello sostituti.
È, infatti, per tale motivo che, per usufruire del bonus, il contribuente, fatti salvi casi particolari, è obbligato a eseguire un bonifico tracciabile, giacché al momento del pagamento (anche a mezzo accredito sul c/c del beneficiario-prestatore), gli istituti di credito e le Poste Italiane spa devono operare la ritenuta dell'8% a titolo di acconto Irpef; si ricorda che, con apposito documento di prassi, le Entrate hanno fornito le necessarie istruzioni (circ. 40/E/2010) e che restano indenni da ritenuta i pagamenti delle spese e/o dei tributi versate ai comuni (oneri di urbanizzazione, Tosap e altro), sempreché nella causale sia specificata puntualmente la relativa motivazione (pagamento a ente comunale).
L'Agenzia delle entrate (circ. 43/E/2016) ha precisato, inoltre, che la detrazione per gli interventi di recupero edilizio e quella per la riqualificazione energetica spettano anche se il bonifico è incompleto e non sia stato possibile operare la ritenuta.
In tal caso, però, è necessario che il beneficiario (l'impresa che ha eseguito i lavori di ristrutturazione) attesti, nella dichiarazione sostitutiva di atto notorio, di aver ricevuto le somme e di averle incluse nella contabilità dell'impresa ai fini della loro concorrenza alla corretta determinazione del suo reddito.
In caso di esecuzione dell'intervento mediante contratti di leasing non sussiste l'obbligo di documentare il pagamento mediante bonifico bancario o postale, anche se l'intervento è in capo ad un soggetto «non» titolare di reddito d'impresa (circ. 21/E/2010).
Infine, ulteriori eccezioni alla regola del bonifico riguardano le spese pagate tramite finanziamento di società finanziaria, poiché il contribuente può fruire della detrazione a condizione che la società che concede il finanziamento paghi l'impresa che ha eseguito gli interventi con bonifico tracciabile e che il contribuente stesso si procuri la ricevuta del pagamento eseguito dalla società a fronte della prestazione, e quelle relative all'acquisto del box auto, in presenza di dichiarazione delle somme nell'atto notarile e di attestazione, da parte dell'impresa cedente, che i corrispettivi sono stati regolarmente contabilizzati (circ. 43/E/2016)
(articolo ItaliaOggi del 21.03.2018).

PUBBLICO IMPIEGOConcorso unico nella p.a.. Obbligatorio per le amministrazioni centrali. Direttiva Madia oggi in Unificata. Arriva il Portale del reclutamento.
Il concorso unico sarà la via maestra di reclutamento per gli statali. Obbligatorie per le amministrazioni centrali dello stato, le procedure di selezione «in forma centralizzata e aggregata» saranno «fortemente consigliate» anche per tutte le restanti amministrazioni in quanto consentono «un'adeguata partecipazione ed economicità dello svolgimento della procedura concorsuale e l'applicazione di criteri di valutazione oggettivi e uniformi, tali da assicurare omogeneità qualitativa e professionale in tutto il territorio nazionale per funzioni equivalenti». Per i dirigenti e per il reclutamento di figure professionali comuni il concorso unico sarà la regola. La possibilità di ricorrere a selezioni autogestite sarà dunque «residuale». E dovrà essere motivata, soprattutto per le piccole amministrazioni da «condizioni particolari» di urgenza ed eccezionalità». Mentre per le amministrazioni dello stato (anche ad ordinamento autonomo), le agenzie e gli enti pubblici non economici, l'autonomia nell'organizzare concorsi pubblici per dirigenti e personale non dirigenziale sarà limitata all'esigenza di acquisire specifiche professionalità.
A riscrivere le regole dei concorsi pubblici è la direttiva del ministro Marianna Madia che andrà oggi sul tavolo della Conferenza unificata per la prescritta intesa.
La direttiva, prevista, dal decreto attuativo (dlgs n. 75/2017) della riforma Madia che ha operato il restyling del T.U. sul pubblico impiego, punta a realizzare un obiettivo ambizioso: fare in modo che nei ruoli della pubblica amministrazione entrino solo i candidati migliori.
I requisiti per partecipare ai concorsi pubblici potranno essere elevati (soprattutto per la scelta di elevate professionalità riconducibili a posizioni apicali) fino al punto di prevedere il dottorato di ricerca e la conoscenza delle lingue dimostrato attraverso esami o certificazioni riconosciute a livello internazionale. Tra le materie di concorso potrà trovare spazio anche la conoscenza dell'uso delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche più diffuse.
E per monitorare i concorsi pubblici arriva il «Portale del reclutamento», un data base pronto ad essere lanciato dalla Funzione pubblica che censirà i concorsi, le fasi di svolgimento e tutte le informazioni rilevanti relative alle selezioni. L'obiettivo e' permettere «la consultazione in un unico sito» delle varie selezioni. Vi «confluiranno anche le graduatorie finali» e nel caso dei concorsi unici il sito potrà essere utilizzato per la presentazione delle domande e il pagamento delle tasse di partecipazione.
Il concorso pubblico unico sarà organizzato dal dipartimento della Funzione pubblica, previa ricognizione dei fabbisogni, da effettuarsi sempre ai sensi del dlgs 75/2017 il quale chiede alle p.a. di individuare le figure professionali effettivamente utili alle amministrazioni. Qualora le posizioni vacanti siano tutte collocate nella medesima regione, il concorso unico potrà essere svolto in ambito regionale
(articolo ItaliaOggi del 21.03.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl nuovo contratto riscrive daccapo le regole sulle progressioni orizzontali.
L'articolo 16 dell'ipotesi di contratto delle funzioni locali riscrive totalmente l'istituto delle progressioni orizzontali. Troppi pareri e interpretazioni degli ultimi anni hanno creato non poche difficoltà nell' applicazione dei passaggi di posizioni economiche. Il contratto, pur lasciando comunque qualche dubbio, azzera le puntate precedenti e ne prevede una nuova disciplina.
L’evoluzione delle regole e della prassi
Il primo cambiamento di rotta rispetto agli orientamenti consolidati lo si è avuto con l'articolo 23 del Dlgs 150/2009 il quale, in poche righe, aveva previsto che le progressioni economiche fossero attribuite in modo selettivo, a una quota limitata di dipendenti, in relazione allo sviluppo delle competenze professionali e ai risultati individuali e collettivi rilevati dal sistema di valutazione.
Subito dopo, però, il Dl 78/2010 ha fermato tutto e quindi reso impossibile qualsiasi passaggio fino al 31.12.2014. È solo dagli ultimi tre anni che le progressioni hanno ripreso il via, ma nel frattempo alcune rigide interpretazioni della Ragioneria generale dello Stato e del Dipartimento della Funzione pubblica ne hanno ulteriormente limitato l'applicazione. C'era, quindi, bisogno di una revisione contrattuale dell'istituto.
Decorrenza e classifica selettiva
Il primo elemento da chiarire è certamente la decorrenza ovvero la data di inquadramento dei dipendenti nel nuovo livello economico. L'ipotesi di contratto indica come massima retroattività il 1° gennaio dell'anno in cui si raggiunge l'accordo e quindi si stipula il contratto integrativo in cui sono previste le risorse. Questa data non rappresenta un obbligo quanto piuttosto uno sbarramento oltre al quale non è possibile retrocedere.
Un altro elemento chiave di tutto il meccanismo riguarda l'individuazione dei criteri con i quali i dipendenti vengono collocati nell'apposita «classifica selettiva». Il punto di partenza è rappresentato, come dice l'articolo 16 al comma 3, dalle risultanze della valutazione della performance individuale del triennio che precede l'anno in cui è adottata la decisione di attivare l'istituto.
Se da una parte è evidente che in caso di mobilità si potranno parametrare le valutazioni percepite in altre amministrazioni, non è chiaro se il contratto abbia invece voluto creare un esclusione per i dipendenti che sono stati assunti più di recente e che non hanno ancora i 3 anni di valutazione. Oltre ai punteggi delle pagelle si potrà eventualmente tener conto anche dell'esperienza maturata negli ambiti professionali di riferimento, nonché delle competenze acquisite e certificate a seguito di processi formativi.
Numeri e scorrimento
A completamento della procedura viene ricordato che l'esito della selezione ha una vigenza limitata solo per l'anno in cui è stata prevista l'attribuzione della progressione economica senza, quindi, alcuna possibilità di scorrimento in esercizi futuri. Da ultimo ecco le indicazioni per quanto riguarda l'aspetto numerico dei dipendenti che potranno partecipare alle procedure.
La riforma Brunetta ne aveva indicato una quota limitata e il contratto conferma che, in ogni caso, il dipendente potrà accedere alle progressioni orizzontali solamente se in possesso di un periodo di permanenza minimo nella posizione economica in godimento di ventiquattro mesi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.03.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa contrattazione integrativa si arricchisce di materie negoziali.
Il progressivo percorso di osmosi tra sistema pubblico e sistema privato, che attiene agli schemi di contrattazione di secondo livello, la cui attualità dell’articolazione bistratica (su due livelli) è stata recentemente ribadita anche dalle istanze sindacali confederali, è provato dall’affrancamento, nel contesto normativo che riguarda la preintesa delle funzioni locali sottoscritta il 21 febbraio u.s., dalla qualificazione di “decentrato” che tale modello relazionale oggi presenta, risultando, pertanto, più propriamente definito esclusivamente attraverso la nozione propria di “integrativo”; qualificazione che, a ben vedere, evoca certamente un paradigma tipicamente privatistico e, per taluni aspetti, proprio in funzione di tale caratterizzazione, maggiormente autonomo nelle proprie scelte strategiche, quanto meno sotto il profilo di una maggiore estensione dell’area contrattuale di secondo livello rispetto ad una sorta di dipendenza da quella nazionale che il modello decentrato, giustappunto in relazione alla logica sua propria ed alla natura dello strumento, adduceva in termini di significativa ristrettezza dell’ambito di intervento e di ridotta autonomia determinativa, ove la caratterizzazione decentrata lo relegava ad una vera e propria di appendice locale di scelte altrove assunte.
In tale percorso di avvicinamento, fatalmente, l’area negoziale integrativa non sarebbe potuta risultare ancora confinata nel ristretto perimetro cui l’assetto decentrato l’aveva relegata, di talché il nuovo contratto collettivo nazionale, nello schema della richiamata intesa preliminare, si preoccupa di allargare l’orizzonte dello strumento tipico dell’autonomia negoziale delle parti sociali, provvedendo, in armonia con la natura e con la qualificazione del meccanismo pattizio, ad un significativo ampliamento delle materie oggetto di contrattazione integrativa, assecondando, in tal modo, lo spirito dello strumento, oltre che il fondamento normativo elettivo del contratto integrativo.
Tale allargamento è ben riscontrabile nell’azione di regolazione delle materie rimesse allo strumento integrativo, che possono così riassumersi, senza pretesa di esaustività, ma con un’evidente dilatazione degli spazi consegnati all’incontro di volontà delle parti rispetto all’attuale assetto convenzionale.
L’ambito della contrattazione integrativa
La clausola contrattuale, infatti, che si cura di assemblare le diverse materie rassegnate al grado della contrattazione di base è rinvenibile nell’articolo 7 del ridetto accordo preventivo, che così individua il confine della negoziazione integrativa:
   - i criteri di ripartizione delle risorse disponibili per la contrattazione integrativa tra le diverse modalità di utilizzo;
   - i criteri per l'attribuzione dei premi correlati alla performance;
   - i criteri per la definizione delle procedure per le progressioni economiche;
   - l’individuazione delle misure dell’indennità correlata alle condizioni di lavoro entro i valori minimi e massimi e nel rispetto dei criteri ivi previsti, nonché la definizione dei criteri generali per la sua attribuzione;
   - l’individuazione delle misure dell’indennità di servizio esterno entro i valori minimi e massimi e nel rispetto dei criteri previsti ivi previsti, nonché la definizione dei criteri generali per la sua attribuzione;
   - i criteri generali per l'attribuzione dell’indennità per specifiche responsabilità;
   - i criteri generali per l'attribuzione di trattamenti accessori per i quali specifiche leggi operino un rinvio alla contrattazione collettiva;
   - i criteri generali per l'attivazione di piani di welfare integrativo;
   - l’elevazione della misura dell’indennità di reperibilità;
   - la correlazione tra i compensi previsti da specifiche disposizioni di legge e la retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa;
   - l’elevazione dei limiti di collocamento in reperibilità per il numero dei turni previsti nel mese, anche attraverso modalità che consentano la determinazione di tali limiti con riferimento ad un arco temporale plurimensile;
   - l’elevazione dei limiti connessi all’arco temporale preso in considerazione per l’equilibrata distribuzione dei turni, nonché ai turni notturni effettuabili nel mese;
   - le misure concernenti la salute e la sicurezza sul lavoro;
   - l’elevazione del contingente dei rapporti di lavoro a tempo parziale ordinariamente ammessi;
   - il limite individuale annuo delle ore che possono confluire nella banca delle ore;
   - i criteri per l’individuazione di fasce temporali di flessibilità oraria in entrata e in uscita, al fine di conseguire una maggiore conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare;
   - l’elevazione del periodo di 13 settimane di maggiore e minore concentrazione dell’orario multiperiodale;
   - l’individuazione delle ragioni che permettono di elevare, fino ad ulteriori sei mesi, l’arco temporale su cui è calcolato il limite delle 48 ore settimanali medie;
   - l’elevazione del limite massimo individuale di lavoro straordinario di 180 ore annue;
   - i riflessi sulla qualità del lavoro e sulla professionalità delle innovazioni tecnologiche inerenti l’organizzazione di servizi;
   - l’incremento delle risorse attualmente destinate alla corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative ove implicante, ai fini dell’osservanza dei limiti prescritti all’entità dei fondi, una riduzione delle risorse del fondo risorse decentrate;
   - i criteri generali per la determinazione della retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa;
   - il valore dell’indennità di funzione per il personale della polizia locale, nonché i criteri per la sua erogazione, nel rispetto dei limiti di valore previsti.
Come si vede dalla nutrita messe di materie che vengono consegnate alla contrattazione integrativa presso le amministrazioni del comparto, il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro valorizza inequivocabilmente il ruolo della componente sindacale al tavolo della negoziazione, tavolo che l’era Brunetta aveva significativamente contratto a favore di una maggiore autonomia degli enti.
Alla luce di tale ampliamento, quindi, si potrà, in prospettiva, misurare la capacità degli enti non solo di sostenere i compiti più complessi e le responsabilità più elevate che una contrattazione integrativa così allargata fatalmente imporrà, ma anche di presidiare la legittimità delle scelte che a quel tavolo dovranno essere necessariamente assunte, in presenza, dunque, di un ruolo sindacale certamente più rafforzato, ma di una corrispondente tutela pubblica che ne esce inevitabilmente indebolita.
Da questo modello di contrattazione, pertanto, si potrà chiaramente desumere l’effettiva maturazione delle amministrazioni nell’esperienza negoziale di secondo livello ad oggi condotta, sperando che gli errori del passato possano aver insegnato qualcosa e consapevoli che uno spostamento così consistente di ambiti negoziali a favore dello stretto confronto contrattuale obbligherà gli enti del comparto ad una maggiore qualificazione non solo della parte pubblica, ma, ancor più, degli organi di governo degli enti stessi, non di rado il vero ventre molle del sistema.
Una cosa, comunque, è certa: l’impegno che attende le amministrazioni nel corrente anno 2018 per la predisposizione delle piattaforme integrative attuative delle nuove disposizioni contrattuali nazionali costituirà, indubbiamente, un onere assai rilevante, che giunge, peraltro, in un momento in cui le risorse umane degli enti sono esangui da anni di limitazioni e di blocchi assunzionali, in disparte, poi, ogni profilo connesso alle limitazioni degli strumenti formativi sino ad oggi inibenti, così importanti in momenti di passaggio strumentale e di investimento culturale talmente rilevanti come quello che dovremo affrontare (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIGarante Privacy, no all’accesso civico integrale ai provvedimenti di condanna «fiscale».
Nel provvedimento 25.01.2018 n. 42 del Garante della privacy, che condanna la parte soccombente a risarcire un Comune, oggetto d’accesso civico è la copia di tutti i provvedimenti emessi negli ultimi 5 anni dall’ente.
Il Garante premette che trattasi di documentazione che -contrariamente a quanto sostenuto dall’istante- contiene dati personali e coinvolge controinteressati. Al riguardo, non condivide quanto afferma l’istante secondo cui, su una richiesta di accesso civico a copia di sentenza, i pubblici uffici non possono opporre tutela di dati personali, trattandosi di atto pubblico.
Il Garante evidenzia che la modalità di rilascio degli atti giudiziali da parte di cancellieri e depositari di pubblici registri è soggetta a precise regole (per esempio il pagamento di diritti), contenute in disposizioni processuali non derogate affatto dalla disciplina sull’accesso civico. La fattispecie concreta risalta poiché la richiesta non è stata presentata all’ufficio addetto alla relativa conservazione, ma al Comune, mera parte del procedimento giudiziario.
Il Garante, inoltre, rammenta che i documenti che si ricevono a seguito di istanza di accesso civico divengono pubblici, sebbene il loro ulteriore trattamento vada comunque effettuato tutelando i dati personali (articolo 3, comma 1, Dlgs 33/2013). È quindi, proprio alla luce di tale ampio regime di pubblicità che devesi valutare se concedere accesso civico integrale.
Il Garante sulle sentenze della Cassazione
Il Garante è già intervenuto sulla questione della pubblicazione integrale (sul web) delle sentenze (della Cassazione), chiarendo che la natura pubblica della sentenza non implica che siano conoscibili da chiunque, generalità e vicende personali altrui.
Dagli atti dell’istruttoria del caso in esame emerge che nei provvedimenti sono contenute informazioni personali, come qualità di debitore, impossibilità di restituire somme a causa di Isee basso, esistenza di pignoramento o di decreto ingiuntivo, rateizzazione di pagamento, esistenza di vertenze di lavoro, accordi transattivi.
Il Garante, nondimeno, precisa che la disciplina sull’accesso civico prevede che se le tutele riguardano solo parti del documento, può essere consentito accesso parziale (articolo 5-bis, comma 4, Dlgs 33/2013; Delibera Anac 1309/2016). Ritiene possibile, quindi, in generale, considerando che la diffusione dei provvedimenti giurisdizionali costituisce fonte d'accrescimento di cultura giuridica e strumento di controllo sociale (Linee guida Garante Privacy del 02/12/2010) concedere accesso civico a sentenze civili, oscurando tuttavia dati personali, laddove possa derivarvi pregiudizio, sentito il controinteressato.
Il caso
Dagli atti è emerso che il Comune ha concesso accesso civico parziale, trasmettendo al richiedente una scheda riassuntiva e anonima, contenente gli elementi oggetto dell'interesse pubblico alla trasparenza: numero provvedimento, autorità giudiziaria, oggetto di lite, stato dell'azione esecutiva, eventuale riscossione.
Ciò in quanto l'ente ha ritenuto che la richiesta fosse «massiva» e «paralizzante» per l'attività amministrativa, in considerazione dell'onerosa attivazione della procedura di comunicazione a tutti i controinteressati. Sul punto, il Garante ricorda che nella delibera Anac 1309/2016 è precisato che in attuazione dei principi di necessità, proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, il soggetto destinatario dell'istanza, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, deve scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell'interessato, privilegiando l'ostensione di documenti con l'omissione di «dati personali» presenti, soddisfacendo così anche finalità di celerità, in quanto si può accogliere l'istanza senza coinvolgere controinteressati.
Quando la richiesta di accesso riguarda documenti contenenti dati personali, non necessari al raggiungimento dello scopo di controllo sociale-diffuso, l'ente può dunque accordare accesso parziale ai documenti, oscurando dati personali. Nel caso in esame, il Garante della privacy ha ritenuto che il Comune che ha accolto parzialmente l’istanza, ha riscontrato la richiesta di accesso civico in modalità conforme alla disciplina a tutela dei dati personali.
Va precisato che i provvedimenti del Garante della privacy sono circoscritti a profili di tutela dei dati personali, con esclusione di qualsiasi ultronea possibile valutazione sulla legittima concessione d’accesso civico (per esempio la richiesta massiva o meno), appannaggio della Pa (Delibera Anac n. 1309/2016 e allegata guida all'accesso generalizzato; Tar Lombardia, sentenza 1951/2017; Circolare del ministro per la Semplificazione e la Pa n. 2/2017) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2018).

APPALTIRibassi d'asta in due esercizi. Solo per gli enti in regola col pareggio.
Di recente è stato modificato il punto 5.4 dell'allegato 4/2 del dlgs n. 118/2011 nella parte che riguarda i ribassi d'asta a seguito dell'aggiudicazione della gara.
Tale modifica, prevista dall'art. 6-ter del dl n. 91/2017, convertito nella legge n. 123/2017, permette agli enti di utilizzare, nei due esercizi successivi, i ribassi d'asta, i quali costituiranno economie di bilancio e confluiranno nella quota vincolata del risultato di amministrazione, solo se non saranno utilizzati entro il secondo esercizio successivo all'aggiudicazione.
Prima di tale modifica, era possibile utilizzare i ribassi d'asta solo entro il 31 dicembre dell'anno di aggiudicazione della gara e non era possibile rinviarli nel successivo esercizio tramite il Fondo pluriennale vincolato. Pertanto, se non utilizzati entro quella data, confluivano nella quota vincolata del risultato di amministrazione.
La novella in parola rappresenta una facoltà e non un obbligo che, ai sensi della parte finale della disposizione normativa sopra citata, è utilizzabile solo dagli enti che rispettano il pareggio di bilancio e non comporta conseguenze negative sul vincolo di finanza pubblica, salvo il caso che l'opera sia finanziata con l'indebitamento.
Tuttavia, se i ribassi d'asta confluiti nel Fpv non vengono utilizzati, in tutto o in parte, nei due esercizi successivi, ai fini del pareggio di bilancio, occorre ridurre il medesimo fondo in misura pari alle economie confluite nel risultato di amministrazione, in quanto non rileva la quota dello stesso che finanza gli impegni cancellati.
Se l'ente, nell'anno successivo a quello di aggiudicazione, non raggiunge un saldo obiettivo positivo del pareggio di bilancio, allora non gli è consentito usufruire dei ribassi d'asta non ancora utilizzati.
Tutto ciò impone una maggiore attenzione nella gestione contabile delle fasi di gara, di aggiudicazione e di gestione in generale della procedura
(articolo ItaliaOggi del 16.03.2018).

LAVORI PUBBLICILavori, la priorità è ricostruire. Oltre che completare le opere pubbliche incompiute. In G.U. il decreto, in vigore dal 24 marzo, con le istruzioni per il Programma triennale.
Priorità massima alla ricostruzione conseguente a calamità naturali e al completamento delle opere pubbliche incompiute.
È questo l'indirizzo dato alle amministrazioni che dovranno predisporre la programmazione triennale dei lavori pubblici in base al decreto del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti 16.01.2018, n. 14 contenente il «Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l'acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali», pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 57 del 09.03.2018 che entrerà in vigore il 24.03.2018.
Il provvedimento, composto da due allegati, è uno dei 64 che attuano il codice dei contratti pubblici (in particolare si attua l'articolo 21, comma 8, del codice dei contratti pubblici) e costituirà il modello di riferimento per le amministrazioni che, a decorrere dal 24.03.2018, data di entrata in vigore del testo, dovranno procedere alla adozione del programma triennale dei lavori pubblici e degli altri atti programmatori da esso disciplinati.
Le schede dei modelli da seguire per la programmazione triennale dei lavori (a decorrere dal periodo 2019-2021) sono costituite da sei parti:
   - quadro delle risorse necessarie alla realizzazione dei lavori previsti dal programma, articolate per annualità e fonte di finanziamento;
   - elenco delle opere pubbliche incompiute;
   - elenco degli immobili disponibili di cui agli articoli 21, comma 5, e 191 del codice dei contratti pubblici, ivi compresi quelli resi disponibili per insussistenza dell'interesse pubblico al completamento di un'opera pubblica incompiuta e con l'indicazione dei lavori ritenuti «complessi»;
   - elenco dei lavori del programma con indicazione degli elementi essenziali per la loro individuazione;
   - lavori che compongono l'elenco annuale, con indicazione degli elementi essenziali per la loro individuazione;
   - elenco dei lavori presenti nel precedente elenco annuale.
Nel programma triennale dei lavori pubblici, che deve comunque indicare le priorità, può essere inserito un lavoro anche limitatamente ad uno o più lotti funzionali, purché con riferimento all'intero lavoro sia stato approvato il documento di fattibilità delle alternative progettuali, ovvero, secondo le previsioni del decreto di cui all'articolo 23, comma 3, del codice appalti, il progetto di fattibilità tecnica ed economica, quantificando le risorse finanziarie necessarie alla realizzazione dell'intero lavoro.
Importante notare che devono avere la priorità i lavori di ricostruzione, riparazione e ripristino conseguenti a calamità naturali, di completamento delle opere incompiute, di manutenzione, di recupero del patrimonio esistente, i progetti definitivi o esecutivi già approvati, i lavori per i quali ricorra la possibilità di finanziamento con capitale privato maggioritario.
Il programma triennale è redatto ogni anno, scorrendo l'annualità pregressa e aggiornando i programmi precedentemente approvati (escludendo i lavori con procedura di affidamento già in corso); i programmi saranno anche modificabili nel corso dell'anno in caso di cancellazione di lavori già previsti nell'elenco annuale (o aggiunta di lavori o anticipazione della realizzazione di lavori).
Per forniture e servizi andrà invece compilato Per la programmazione 2019-2020) il programma biennale degli acquisti di forniture e servizi nonché i relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali sulla base degli schemi tipo allegati al decreto.
Il decreto n. 14 abroga il provvedimento del 24.10.2014 che rimarrà in vigore fino al 24.03.2018
(articolo ItaliaOggi del 13.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVINuove regole Ue sulla privacy, rischio sovrapposizione con le norme italiane.
Tutto cambia per la «privacy» in Europa: a maggio vedrà la prima applicazione il nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati (Rgpd, in inglese Gdpr, General Data Protection Regulation) che è la normativa (nello specifico Regolamento Ue 2016/679) grazie alla quale la Commissione europea ha inteso uniformare la protezione dei dati personali di cittadini dell'Unione europea (ma anche dei semplici residenti nella Ue), sia all'interno che all'esterno dei propri confini.
Il testo, pubblicato su Gazzetta Ufficiale Europea il 04.05.2016 ed entrato in vigore il 25 maggio dello stesso anno, inizierà ad avere efficacia il 25.05.2018 in quanto, quale regolamento, non richiede alcuna normativa di ricevimento da parte degli stati membri. In sintesi, gli effetti saranno rilevanti per tutti gli operatori in quanto la nuova normativa introdurrà, a livello comunitario, strumenti importanti quali, tra gli altri, un nuovo glossario (i dati si classificheranno in personali, genetici, biometrici e sulla salute), il diritto alla portabilità dei propri dati ed il diritto all'oblio che diventa diritto alla cancellazione.
Ma ancor più innovativo sarà il riferimento alle authority, in quanto ci sarà un coordinamento europeo per cui un cittadino leso nella privacy dall'attività di un'azienda di un altro stato comunitario potrà agire a propria tutela semplicemente rivolgendosi al garante della privacy del proprio paese.
E innovativo, per severità, sarà anche il nuovo sistema sanzionatorio: potranno essere inflitti da una semplice ammonizione scritta (nei casi di una prima mancata osservanza non intenzionale) fino a multe pari a 20 milioni di euro o fino al 4% del volume d'affari nei casi più gravi (oltre a pene detentive), passando anche per formule diverse come l'assoggettamento ad accertamenti regolari e periodici sulla protezione dei dati in azienda.
Il dilemma, a livello italiano, sarà un tema tipico del nostro paese: la nuova normativa si accavallerà alla preesistente normativa nazionale senza abrogarla, con tutte le ambiguità conseguenti ed i dubbi per gli operatori in merito a quali adempimenti reputare permanenti piuttosto che superati. In attesa degli agognati, sempre tardivi, chiarimenti
(articolo ItaliaOggi del 13.03.2018).

EDILIZIA PRIVATACondhotel, ora il mix è servito. Al via la formula a metà tra condomini e alberghi. Definite le condizioni per esercitare la struttura ricettiva. La parola passa alle regioni.
Dal 21 marzo prossimo in arrivo una nuova formula ricettiva: il «condhotel». Ossia, un esercizio alberghiero aperto al pubblico, a gestione unitaria, composto da una o più unità immobiliari nello stesso comune, che forniscono alloggio, servizi accessori ed eventualmente vitto, in camere destinate alla ricettività e, in forma integrata e complementare, in unità abitative a destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina.
Il condhotel potrà nascere sia dalla trasformazione in appartamenti di una porzione di un albergo già esistente (non più del 40% della superficie totale) sia dal raggruppamento a un hotel di un certo numero di appartamenti situati nelle immediate vicinanze (200 metri lineari). La formula permetterà, da un lato, la riqualificazione del settore alberghiero, che conta al 31.12.2017 oltre 31 mila imprese iscritte nel registro delle imprese, e, dall'altro, agevolerà la bonifica del mercato delle locazioni brevi.
Quest'ultimo vede oltre 23 mila imprese iscritte nel registro camerale. Queste novità sono state ufficializzate con il Dpcm del 22.01.2018 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 06.03.2018 n. 54) che dà attuazione alle regole sui condhotel introdotte dal decreto «Sblocca Italia (legge n. 164/2014). Ma per la piena operatività occorre attendere che ciascuna regione, con proprio provvedimento, disciplini le modalità per l'avvio e l'esercizio dei condhotel. Le regioni a statuto ordinario avranno un anno di tempo per adeguare i loro ordinamenti al Dpcm.
Le caratteristiche. I condhotel devono avere i seguenti requisiti:
   - presenza di almeno sette camere, al netto delle unità abitative a uso residenziale, all'esito dell'intervento di riqualificazione edilizia. Ubicati in una o più unità immobiliari inserite in un contesto unitario, collocate nel medesimo comune, e aventi una distanza non superiore a 200 metri lineari dall'edi?cio alberghiero sede del ricevimento;
   - rispetto della percentuale massima della superficie netta delle unità abitative a uso residenziale pari al 40% del totale della superficie netta destinata alle camere;
   - presenza di una portineria unica per tutti coloro che usufruiscono del condhotel, sia in qualità di ospiti dell'esercizio alberghiero che di proprietari delle unità abitative a uso residenziale. Con la possibilità di prevedere un ingresso speci?co e separato a uso esclusivo di dipendenti e fornitori;
   - gestione unitaria e integrata dei servizi del condhotel e delle camere, delle suite e delle unità abitative arredate destinate alla ricettività e delle unità abitative e uso residenziale, per la durata specificata nel contratto di trasferimento delle unità abitative a uso residenziale e comunque non inferiore a dieci anni dall'avvio dell'esercizio del condhotel;
   - rispetto della normativa vigente in materia di agibilità per le unità abitative a uso residenziale (articolo 24 del dpr 06.06.2001, n. 380).
Il condhotel di norma si realizza dopo un intervento di riqualificazione di un albergo esistente. La cui realizzazione comporta per l'esercizio turistico l'acquisizione di requisiti per una classificazione superiore a quella precedentemente attribuita di almeno una stella. All'esito dell'intervento di riqualificazione che comporta il cambiamento di destinazione d'uso di alcune camere, diventando residenziali, l'edificio alberghiero deve classificarsi con almeno tre stelle.
Redazione dei contratti di compravendita. Nei contratti di compravendita delle unità immobiliari residenziali dei condhotel bisogna indicare in modo dettagliato l'ubicazione dell'immobile, le condizioni di godimento dei servizi comuni e la ripartizione dei costi per le spese gestionali. I contratti di trasferimento della proprietà delle unità abitative a uso residenziale poste all'interno dei condhotel regolano altresì le modalità di utilizzo delle singole unità abitative, qualora venga meno per qualunque causa l'attività del gestore unico. Il gestore unico si impegna a garantire ai proprietari delle unità abitative a uso residenziale, oltre alla prestazione di tutti i servizi previsti dalla normativa vigente, ivi inclusi quelli di cui alle rispettive leggi regionali.
L'atto di compravendita o di trasferimento della proprietà, a titolo oneroso o gratuito, dell'unità abitativa di tipo residenziale ubicata nel condhotel, deve essere trascritto nei registri immobiliari.
Il fenomeno delle imprese alberghiere. Al 31.12.2017, le imprese alberghiere iscritte al registro sono 31.028. Quattro le regioni in testa per numero di imprese alberghiere risultanti iscritte al registro camerale: Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana. Approfondendo l'analisi delle imprese albeghiere per forma giuridica, il 42,5% (13.198) è costituito da società di capitale. Oltre il 36% ha scelto la forma delle società di persone (11.227) e infine il 20% (6.270) svolge l'attività sotto forma di imprese individuale.
Sul fronte del capitale sociale utilizzato per esercitare l'attività imprenditoriale si rileva dai dati di Infocamere che oltre il 60% è una pmi ovvero con un capitale sociale dai 10 mila 50 mila euro. Il 23% rientra nella definizione di micro impresa (con un capitale non superiore ai 500 mila euro milioni di euro) e il 3% ha un capitale sociale oltre 1 milioni di euro. Questo è quanto emerge dal report elaborato da Infocamere sul fenomeno delle imprese alberghiere iscritte al registro delle imprese competente per territorio.
I numeri sono trasparenti: nella regione Trentino-Alto Adige le imprese turistico alberghiere ammontano a 4.122. La regione Emilia-Romagna è la seconda per numero di imprese alberghiere iscritte al registro camerale ammontano a 4.006. Nella regione Lombardia in totale sono state iscritte nel registro delle imprese 2.713 aziende del settore alberghiero. In Toscana sono 2.683 le imprese iscritte al registro delle imprese come alberghiere. Le due regioni fanalino di coda per l'esercizio di attività alberghiera sono rappresentate dalla Basilicata (253 unità) e dalla Valle d'Aosta con solo 335 unità
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.03.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici ancora al buio. La preintesa sul Ccnl prova a dribblare la Corte conti. Ancora dubbi sul finanziamento dei progettisti, nonostante l'intervento della legge di Bilancio.
Incentivi per le funzioni tecniche ancora nel guado. La preintesa del Ccnl delle funzioni locali, con la dichiarazione congiunta numero 1, prova ad intervenire nel cortocircuito creatosi tra Parlamento e parte della magistratura contabile, a proposito del finanziamento dei premi per le funzioni connesse agli appalti, disciplinati dall'articolo 113 del codice dei contratti.
Come è noto, la sezione autonomie della Corte dei conti ha ritenuto che gli incentivi per le funzioni tecniche, pur essendo finanziate dai quadri economici degli appalti, debbono confluire come spesa corrente nel fondo per le risorse decentrate, ma non possono accrescerle, in forza del tetto alla consistenza massima delle risorse decentrate imposto dall'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017.
In sostanza, dunque, gli incentivi per le funzioni tecniche invece di aggiungersi al fondo, congelato al 2016, finiscono per consumarne parte. Questa chiave di lettura ha reso molto difficili le contrattazioni decentrate integrative, poiché le organizzazioni sindacali non gradiscono l'erosione delle risorse disponibili da destinare ai dipendenti. Il Parlamento è intervenuto sulla materia con la legge 205/2017, che ha introdotto il nuovo comma 5-bis dell'articolo 113 del codice dei contratti, ai sensi del quale «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Immediatamente, la Corte dei conti si è spaccata tra interpretazioni di alcune sezioni regionali di controllo secondo le quali la norma, pur non particolarmente esplicita, esclude di porre gli incentivi a carico dei fondi della contrattazione decentrata, e altre interpretazioni che proprio a partire della laconicità del testo hanno sottoposto alla sezione autonomie una nuova interpretazione della questione. Un conflitto tra Parlamento e magistratura contabile molto evidente, al quale Aran e organizzazioni sindacali stipulanti la preintesa cercano di porre rimedio.
La dichiarazione congiunta numero 1 auspica «il consolidamento dell'interpretazione in base alla quale le suddette risorse devono ritenersi escluse dal limite di legge», aderendo alla lettura secondo la quale il nuovo comma 5-bis dell'articolo 113 è di per sé sufficiente a chiarire che gli incentivi per le funzioni tecniche sono da considerare neutri ai fini del computo del fondo delle risorse decentrate.
Le parti stipulanti, infatti, ritengono che la novella all'articolo 113 «è finalizzata a considerare unitariamente la spesa complessiva destinata alla realizzazione di lavori, servizi o forniture, includendovi anche le risorse finanziarie per incentivi tecnici e che, conseguentemente, tali incentivi non rientrano nei capitoli della spesa del personale, ma sono ricompresi nel costo complessivo dell'opera». In mancanza di un Parlamento in grado di disporre, in tempi ragionevolmente brevi, un'interpretazione autentica, insomma le parti stipulanti vestono l'innovativo ruolo di ispiratore dell'interpretazione giuridica che dovrebbe fornire la Corte dei conti.
Il cortocircuito interpretativo pare in tutto confermato proprio da questa dichiarazione congiunta, resa dalle parti, comunque, per la consapevolezza delle influenze estremamente negative sulla contrattazione decentrata che la posizione rigorosa assunta dalla magistratura contabile ha già causato e che potrebbe vanificare in parte l'utilità dello sblocco dei contratti
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORisorse variabili, aumenti legati agli obiettivi.
Possibili, ma solo in teoria, incrementi ai fondi della contrattazione decentrata collegati agli obiettivi dei vari enti.

La preintesa del Ccnl delle funzioni centrali conferma, con alcune importanti modifiche, l'assetto delle disposizioni contenute nell'articolo 15, comma 5, del Ccnl 01/04/1999, che consente di incrementare i fondi in presenza di due circostanze.
In primo luogo, permette un incremento stabile nel caso in cui nuove incombenze comportino una crescita altrettanto stabile delle dotazioni organiche (ipotesi praticamente di scuola). In secondo luogo, l'articolo 15, comma 5, permette l'incremento delle risorse di parte variabile «in caso di attivazione di nuovi servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati a un accrescimento di quelli esistenti, ai quali sia correlato un aumento delle prestazioni del personale in servizio cui non possa farsi fronte attraverso la razionalizzazione delle strutture e/o delle risorse finanziarie disponibili».
La prima tipologia di incremento sopra descritta viene riconfigurata dalla preintesa all'articolo 67, comma 5, lettera a), che consente di apportare incrementi «alla componente stabile di cui al comma 2, in caso di incremento delle dotazioni organiche, al fine di sostenere gli oneri dei maggiori trattamenti economici del personale».
La seconda tipologia di incremento, connessa alle risorse variabili, è regolata dall'articolo 67, comma 5, lettera b), della preintesa, che consente incrementi «alla componente variabile di cui al comma 3, per il conseguimento di obiettivi dell'ente, anche di mantenimento, definiti nel piano della performance o in altri analoghi strumenti di programmazione della gestione, al fine di sostenere i correlati oneri dei trattamenti accessori del personale; in tale ambito sono ricomprese anche le risorse di cui all'art. 56-quater, comma 1, lett. c)».
Rispetto all'articolo 15, comma 5, le disposizioni della preintesa sono più chiare. Infatti, è definito con maggiore precisione il collegamento tra incrementi del fondo di parte stabili ed incremento della dotazione organica. Mentre gli incrementi alla parte variabile sono in modo più semplice connessi a obiettivi previsti dal piano della performance (la preintesa fa sua la tesi, dunque, secondo la quale tale piano diviene obbligatorio anche per gli enti locali), senza entrare, come fa l'articolo 15, comma 5, del Ccnl 01/04/1999, nel merito degli obiettivi ed alla loro necessaria correlazione ad incrementi di produttività: correlazione di difficile valutazione e causa di un contenzioso infinito tra enti e servizi ispettivi del Mef.
La preintesa si limita a connettere gli incrementi agli obiettivi del piano della performance ammettendo espressamente per la prima volta la finanzi abilità di obiettivi non necessariamente di incremento della produttività, ma anche di semplice «mantenimento» di risultati acquisiti in precedenza.
Se da un lato la preintesa razionalizza gli incrementi facoltativi, per altro verso occorre tenere presente che gli strumenti visti prima restano fortemente depotenziati a causa dell'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017 che fino all'armonizzazione dei trattamenti economici dei vari comparti, impone ai fondi il tetto massimo della spesa del 2016: dunque nessun incremento secondo gli strumenti ammessi dalla contrattazione collettiva sarà possibile se dovesse portare a sforare quel tetto.
La preintesa conferma anche le previsioni dell'articolo 15, comma 2, del Ccnl 01/04/1999: infatti, all'articolo 67, comma 4, prevede che «in sede di contrattazione integrativa, ove nel bilancio dell'ente sussista la relativa capacità di spesa, le parti verificano l'eventualità dell'integrazione, della componente variabile di cui al comma 3, sino a un importo massimo corrispondente all'1,2% su base annua, del monte salari dell'anno 1997, esclusa la quota relativa alla dirigenza»
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Deve essere dichiarata dal concorrente in gara anche la condanna penale se il reato è estinto ma non riscontrato con pronuncia del giudice penale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per condanna penale – Obbligo del concorrente di dichiarare la condanna - Estinzione del reato – Rileva solo se riscontrata in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale.
Ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, l’estinzione del reato, che consente di non dichiarare l’emanazione del relativo provvedimento di condanna, sotto il profilo giuridico, non è affatto automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere riscontrata in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale (art. 676 c.p.p.), sola figura a cui l’ordinamento attribuisce la potestà di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria (1).
---------------
   (1) Da tale premessa il Tar ha fatto conseguire che, fino a quando non intervenga il provvedimento giurisdizionale del giudice dell’esecuzione penale, che va di norma richiesto con istanza di parte, non può legittimamente parlarsi di reato estinto e il concorrente non è esonerato dalla dichiarazione, da rendersi in sede di gara pubblica, circa la sussistenza dell’intervenuta condanna (Cons. St., sez. III, 29.05.2017, n. 2548; id. 05.10.2016, n. 4118; id., sez. V, 28.08.2017, n. 4077; id. 15.03.2017, n. 1172; contra: id., sez. VI, 07.05.2018 n. 2704).
Ha aggiunto il Tar la considerazione per la quale, il dato testuale, ricavabile dal codice dei contratti pubblici, è nel senso secondo cui possono non essere auto-dichiarate, nei documenti di gara, le condanne che siano state, per l’appunto, “dichiarate estinte”, ossia acclarate tali, evidentemente, dall’organo giudiziario competente, su istanza di parte, posto che il codice di procedura penale vigente richiede, per l’appunto, l’iniziativa della parte interessata diligente, al fine della pronuncia della declaratoria di estinzione (art. 666, co. 1, c.p.p.), diversamente dal previgente codice Rocco del 1930, laddove –come ben rammentato dalla ordinanza del Consiglio di Stato, sez. III, 26.01.2018, n. 374– era, invece, prevista (art. 578 c.p.p. abrogato) la declaratoria, anche d’ufficio in camera di consiglio dell’estinzione del reato e della pena (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 07.08.2018 n. 1189 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Il ricorso va respinto.
1.-
Il punto centrale della controversia verte sulla corretta interpretazione da darsi in ordine alla disposizione di cui all’art. 38 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163, all’epoca della procedura di gara applicabile, con riferimento all’obbligo di dichiarare, ai fini della verifica dei requisiti di ordine generale e morale, i c.d. precedenti penali.
Per incidens, va specificato che l’art. 86 del decreto legislativo 18.04.2016 n. 50 s.m.i. (costituente il nuovo codice degli appalti pubblici), ferme restando le implementazioni informatiche, ha invece ora previsto, come regola speciale, che le stazioni appaltanti accettino, quale prova sufficiente della insussistenza di una causa di esclusione per c.d. inidoneità morale (id est: mancanza di talune condanne penali et similia), il certificato del casellario giudiziale, tanto in deroga alla regola generale del divieto di produzione alle pubbliche amministrazioni di certificati, stabilito dall’art. 40 del d.p.r. 28.12.2000 n. 445.
L’art. 38, comma 1, lett. c), del citato decreto legislativo n. 163 esclude dalla partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica di affidamento di appalti gli operatori economici, per i quali con riferimento a taluni soggetti qualificati (ad es.: amministratore con rappresentanza, nel caso delle società di capitali) sia stata pronunciata una sentenza di condanna passata in giudicato o siano stati emesso un decreto penale di condanna divenuto irrevocabile oppure una sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. -OMISSIS- c.p.p., per gravi reati in danno dello Stato o della U.E., che incidono sulla “moralità professionale”, tra i quali è annoverata la -OMISSIS-.
Per tale motivo, l’art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 163 impone ai candidati alla procedura di gara l’obbligo di dichiarare il possesso dei requisiti, mediante dichiarazione sostitutiva, in conformità alle previsioni del t.u. sulla documentazione amministrativa di cui al d.p.r. 28.12.2000 n. 445, nella quale vanno indicate tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali si sia beneficiato della c.d. “non menzione”.
2.- Tanto premesso, l’art. 38 del decreto legislativo n. 163 cit., con riferimento ai casi di esclusione enumerati al comma 1, precisa, alla lett. c), in fine della disposizione, che l’esclusione e il divieto, in ogni caso, non operano quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando sia intervenuta la riabilitazione, ovvero ancora “quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna”, ovvero infine in caso di revoca della condanna medesima.
Per tale motivo, con finalità di semplificazione degli oneri documentali, il comma 2 dello stesso art. 38 ha previsto che il concorrente ad una procedura di gara, ai fini dell’art. 38 (Requisiti di ordine generale), comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 163, non sia tenuto ad indicare, nella dichiarazione, le condanne per reati depenalizzati, ovvero “dichiarati estinti dopo la condanna stessa”, né le condanne revocate, né quelle per le quali sia intervenuta la riabilitazione.
3.- Orbene, dalle surriferite disposizioni normative, concernenti la legislazione in materia di appalti pubblici,
è chiaro che, per ciò che attiene ai requisiti di ordine generale e morale di ammissibilità alla procedura di evidenza pubblica e per quanto riguarda l’assolvimento degli oneri formali di documentazione utili alla partecipazione alla gara, rileva la “dichiarazione di estinzione del reato dopo la condanna”, che, nella legislazione penale e penal-processualistica, può essere resa, su istanza di parte, solo dal giudice dell’esecuzione, ai sensi degli artt. 665-666 c.p.p., la cui precipua funzione è quella di dichiarare l’estinzione del reato, esclusivamente nelle ipotesi in cui tale causa estintiva sopravvenga al passaggio in giudicato della condanna (ad es.: art. 167 c.p. e art. 445, co. 2, c.p.p., cfr. Cass., sez. III pen., 22.06.1995, n. 2414).
È invero solo il giudice dell’esecuzione che può verificare la realizzazione di tutti i presupposti e le condizioni, di varia portata, a seconda del contenuto della condanna intervenuta, che determinano la estinzione del reato, che –per quanto rileva in questa sede– non è affatto detto maturi ex se, con il semplice decorrere del tempo, successivamente alla condanna penale a pena sospesa (artt. 163 e ss. c.p.), o alla pronuncia di -OMISSIS- (artt. -OMISSIS- e 445, comma 2, c.p.p.).
Infatti, l’art. 167 c.p. e l’art. 445, comma 2, c.p.p. sanciscono l’estinzione del reato (rectius: la non esecuzione delle pene) se, nei termini stabiliti, il condannato non commetta un altro reato della stessa indole e abbia adempiuto agli obblighi impostigli con la pronuncia di condanna.
4.-
Pur tuttavia, in merito alla necessità di una declaratoria o meno di estinzione del reato, a seguito di sospensione condizionale della pena e/o di cd. pena patteggiata, si è registrato un contrasto giurisprudenziale, che vede la tesi prevalente della necessità di una pronuncia espressa in merito alla intervenuta estinzione (ex multis: TAR Lazio, sez. II, 24.05.2018 n. 5755; Cons. St., sez. V, 28.08.2017 n. 4077; Cons. St., sez. V, 15.03.2017 n. 1172; Cons. St, sez. V, 28.12.2016 n. 5478; Cons. St., sez. V, 05.09.2014 n. 4528; Cons. St., sez. VI, 03.10.2014 n. 4937), contraddetta da una tesi minoritaria, affiorata anche nella giurisprudenza recente (Cons. St., sez. VI, 07.05.2018 n. 2704), che invece reputa sufficiente la constatazione della circostanza del mero decorso del tempo successiva alla sentenza di condanna a pena sospesa o patteggiata, onde poter ricavare il maturato effetto estintivo del reato, che esima il partecipante alla procedura di evidenza pubblica dal palesare in sede di gara il precedente penale subito.
5.-
Sul versante della giurisprudenza penale, invece, la talora asserita mancanza di necessità di una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione in tema di avvenuta estinzione del reato, a seguito di pena sospesa o di pena patteggiata (Cass., sez. III pen., 21.09.2016 n. 19954), attiene alle sole finalità intra-sistematiche del diritto penale, volte ad assicurare il favor rei nell’applicazione degli istituti penalistici c.d. premiali o comunque di favore nella valutazione della colpevolezza del reo con riferimento alla fattispecie penale concreta rilevante nel caso di specie e non può, invece, spiegare alcun altro effetto per le diverse finalità extra-sistematiche di collegamento con altri rami dell’ordinamento, come per la materia degli appalti pubblici, laddove assumono una maggiore preminenza le esigenze di certezza pubblica.
Difatti,
per l’ordinamento generale, il casellario giudiziale documenta –quale particolare registro tenuto da un ufficio pubblico, ai fini di certezza– i precedenti penali, come disposto dal d.p.r. 14.11.2002, n. 313; ciò pone al partecipante alla procedura ad evidenza pubblica l’onere di premunirsi da eventuali contestazioni di precedenti sfavorevoli, anche non dichiarati alla stazione appaltante, facendovi ivi constatare la propria situazione aggiornata, comprendente le intervenute cause di estinzione del reato e/o della pena, agli effetti del rilascio dei relativi certificati (cfr. artt. 24-25-25-bis d.p.r. n. 313 cit.), onde poter dimostrare la piena capacità a contrarre.
Ergo,
la stazione appaltante non può che ricavare da quanto risulti presso il casellario giudiziale le informazioni utili a riscontrare le situazioni soggettive, in cui versano i soggetti qualificati ex lege dell’operatore economico, che partecipino ad una procedura di gara pubblica, risultando le relative certificazioni rilasciate quanto basta per riscontrare le auto-dichiarazioni degli offerenti, con conseguente onere da parte di questi ultimi di attivarsi, per tempo, nel far constatare la propria situazione aggiornata, in virtù delle declaratorie di estinzione di reati o di pene inflitte, o ancora per la concessa riabilitazione.
In definitiva,
senza l’accertamento costitutivo del giudice dell’esecuzione penale non può ritenersi sussistere, almeno per l’affidamento dei terzi, qual segnatamente è anche la stazione appaltante, l’avvenuta estinzione del reato, per via della maturazione di tutti i requisiti e le condizioni di legge.
6.- In conclusione, deve rimarcarsi che, come già anticipato in sede cautelare,
ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, l’estinzione del reato, che consente di non dichiarare l’emanazione del relativo provvedimento di condanna, sotto il profilo giuridico, non è affatto automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere riscontrata in una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale (art. 676 c.p.p.), sola figura a cui l’ordinamento attribuisce la potestà di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga quel provvedimento giurisdizionale, che va di norma richiesto con istanza di parte, non può legittimamente parlarsi di reato estinto e il concorrente non è esonerato dalla dichiarazione, da rendersi in sede di gara pubblica, circa la sussistenza dell’intervenuta condanna (in questo senso: Cons. Stato, Sez. III, 29.05.2017, n. 2548; Sez. III, 05.10.2016, n. 4118; Sez. V, 28.08.2017, n. 4077; Sez. V, 15.03.2017, n. 1172; contra: Sez. VI, 07.05.2018 n. 2704).
A ciò si aggiunge la considerazione per la quale,
il dato testuale, ricavabile dal codice dei contratti pubblici, è nel senso secondo cui possono non essere auto-dichiarate, nei documenti di gara, le condanne che siano state, per l’appunto, “dichiarate estinte”, ossia acclarate tali, evidentemente, dall’organo giudiziario competente, su istanza di parte, posto che il codice di procedura penale vigente richiede, per l’appunto, l’iniziativa della parte interessata diligente, al fine della pronuncia della declaratoria di estinzione (art. 666, co. 1, c.p.p.), diversamente dal previgente codice Rocco del 1930, laddove –come ben rammentato dalla citata ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. III, 26.01.2018 n. 374– era, invece, prevista (art. 578 c.p.p. abrogato) la declaratoria, anche d’ufficio in camera di consiglio dell’estinzione del reato e della pena.

APPALTI: Le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti ovvero, ancora, salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte.
---------------

16.1 - Deve aggiungersi che dalla lettura delle motivazioni della Commissione emerge chiaramente l’iter logico-giuridico seguito per la formulazione del punteggio contestato e che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di discrezionalità tecnica e come tali sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti –circostanza non ricorrente nel caso di specie- (Cons. Stato Sez. V, 28.10.2015, n. 4942; Cons. St., sez. V, 30.04.2015, n. 2198; 23.02.2015, n. 882; 26.03.2014, n. 1468; sez. III, 13.03.2012, n. 1409) ovvero, ancora, salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (Cons. St., sez. III, 24.09.2013, n. 4711), non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte (Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2615) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.08.2018 n. 4833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'illegittima composizione della commissione di gara possono qui richiamarsi i seguenti principi:
   - la nomina di una commissione di gara contenente un commissario incompatibile non solo inficia le decisioni e le determinazioni a valle, assunte dalla commissione stessa in quanto manifestazioni di volontà complessa imputabili a tale organo, ma preclude anche la nomina di tutti i medesimi commissari (e non solo di quello dichiarato incompatibile), a tutela dei principi di trasparenza e di imparzialità delle operazioni di gara;
   - non esiste un principio assoluto di unicità o immodificabilità delle commissioni giudicatrici, poiché tale principio è destinato ad incontrare deroghe ogni volta vi sia un caso di indisponibilità da parte di uno dei componenti della commissione a svolgere le proprie funzioni;
   - è ammessa la sostituzione avvenuta per indisponibilità di un componente in un momento in cui la commissione non aveva ancora cominciato le operazioni valutative;
   - ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei, anche soltanto sotto il profilo potenziale, a compromettere tale delicato e cruciale ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni affidato alle commissioni di gara, la semplice sostituzione di un componente rispetto al quale sia imputabile la causa di illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile, né consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la commissione abbia già operato;
   - il rischio che il ruolo e l’attività di uno dei commissari, dichiarato incompatibile, possano avere inciso nei confronti anche degli altri commissari durante le operazioni di gara, influenzandoli verso un determinato esito valutativo, impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri commissari;
   - la sostituzione totale di tutti i commissari (in luogo del solo commissario designato in modo illegittimo) garantisce maggiormente il rispetto del principio di trasparenza nello svolgimento delle attività di gara;
   - non è possibile estendere gli effetti dell’invalidità derivante dalla nomina di una commissione illegittima, ai sensi degli artt. 84, commi 4 e 10, del Codice dei contratti pubblici, anche a tutti gli altri atti anteriori, disponendo la caducazione radicale dell’intera gara, atteso che la stessa pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 07.05.2013, n. 13, ha stabilito inequivocabilmente e perentoriamente che “secondo i principi generali, la caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere stata effettuata in violazione delle regole di cui all'art. 84, comma 4 e 10, comporterà in modo caducante il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero procedimento”;
   - vengono travolti per illegittimità derivata tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio, ma non certo gli atti anteriori, anche in ossequio al principio generale per il quale l’invalidità ha effetti nei confronti degli atti a valle, non certo degli atti a monte;
   - non si vede perché la rinnovazione delle operazioni di gara dovrebbe essere tanto radicale da incidere su tutti gli atti a monte, compreso il bando di gara, il disciplinare e tutti gli atti in base ai quali è stata indetta la gara, atteso che il vizio riscontrato riguarda esclusivamente la composizione della commissione, il che non incide affatto, né in senso logico né giuridico, sui predetti atti a monte del procedimento, non inficiandoli in alcun modo;
   - la rinnovazione radicale finirebbe per pregiudicare gli interessi pubblici sottesi alla gara d’appalto, anche sotto il profilo dei costi amministrativi aggiuntivi, senza in alcun modo tutelare detti interessi pubblici, ma esclusivamente, ed in modo sbilanciato, l’interesse privato dell’appellante a poter formulare una nuova offerta competitiva;
   - l’espressione “rinnovazione della gara”, cui fa menzione l’art. 122 c.p.a., evocato dall’anzidetta pronuncia dell’Adunanza Plenaria 07.05.2013, n. 13, è compatibile con la sola rinnovazione delle valutazioni discrezionali.
---------------

12. - Le doglianze che, per la loro stretta connessione possono essere esaminate congiuntamente, sono infondate.
12.1 - Possono qui richiamarsi i principi espressi da questo Consiglio di Stato nella decisione della Quinta Sezione n. 5732/2014, richiamata anche dalla difesa di SO.RE.SA., secondo cui:
   - la nomina di una commissione di gara contenente un commissario incompatibile non solo inficia le decisioni e le determinazioni a valle, assunte dalla commissione stessa in quanto manifestazioni di volontà complessa imputabili a tale organo, ma preclude anche la nomina di tutti i medesimi commissari (e non solo di quello dichiarato incompatibile), a tutela dei principi di trasparenza e di imparzialità delle operazioni di gara;
   - non esiste un principio assoluto di unicità o immodificabilità delle commissioni giudicatrici, poiché tale principio è destinato ad incontrare deroghe ogni volta vi sia un caso di indisponibilità da parte di uno dei componenti della commissione a svolgere le proprie funzioni;
   - è ammessa la sostituzione avvenuta per indisponibilità di un componente in un momento in cui la commissione non aveva ancora cominciato le operazioni valutative (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 25.02.2013, n. 1169);
   - ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei, anche soltanto sotto il profilo potenziale, a compromettere tale delicato e cruciale ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni affidato alle commissioni di gara, la semplice sostituzione di un componente rispetto al quale sia imputabile la causa di illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile, né consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la commissione abbia già operato;
   - il rischio che il ruolo e l’attività di uno dei commissari, dichiarato incompatibile, possano avere inciso nei confronti anche degli altri commissari durante le operazioni di gara, influenzandoli verso un determinato esito valutativo, impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri commissari;
   - la sostituzione totale di tutti i commissari (in luogo del solo commissario designato in modo illegittimo) garantisce maggiormente il rispetto del principio di trasparenza nello svolgimento delle attività di gara;
   - non è possibile estendere gli effetti dell’invalidità derivante dalla nomina di una commissione illegittima, ai sensi degli artt. 84, commi 4 e 10, del Codice dei contratti pubblici, anche a tutti gli altri atti anteriori, disponendo la caducazione radicale dell’intera gara, atteso che la stessa pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 07.05.2013, n. 13, ha stabilito inequivocabilmente e perentoriamente che “secondo i principi generali, la caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere stata effettuata in violazione delle regole di cui all'art. 84, comma 4 e 10, comporterà in modo caducante il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero procedimento”;
   - vengono travolti per illegittimità derivata tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio, ma non certo gli atti anteriori, anche in ossequio al principio generale per il quale l’invalidità ha effetti nei confronti degli atti a valle, non certo degli atti a monte;
   - non si vede perché la rinnovazione delle operazioni di gara dovrebbe essere tanto radicale da incidere su tutti gli atti a monte, compreso il bando di gara, il disciplinare e tutti gli atti in base ai quali è stata indetta la gara, atteso che il vizio riscontrato riguarda esclusivamente la composizione della commissione, il che non incide affatto, né in senso logico né giuridico, sui predetti atti a monte del procedimento, non inficiandoli in alcun modo;
   - la rinnovazione radicale finirebbe per pregiudicare gli interessi pubblici sottesi alla gara d’appalto, anche sotto il profilo dei costi amministrativi aggiuntivi, senza in alcun modo tutelare detti interessi pubblici, ma esclusivamente, ed in modo sbilanciato, l’interesse privato dell’appellante a poter formulare una nuova offerta competitiva;
   - l’espressione “rinnovazione della gara”, cui fa menzione l’art. 122 c.p.a., evocato dall’anzidetta pronuncia dell’Adunanza Plenaria 07.05.2013, n. 13, è compatibile con la sola rinnovazione delle valutazioni discrezionali (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.08.2018 n. 4830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: a) nelle gare pubbliche il giudizio di verifica dell’anomalia dell’offerta -finalizzato alla verifica dell’attendibilità e serietà della stessa ovvero all’accertamento dell’effettiva possibilità dell’impresa di eseguire correttamente l’appalto alle condizioni proposte- ha natura globale e sintetica e deve risultare da un’analisi di carattere tecnico delle singole componenti di cui l’offerta si compone, al fine di valutare se l’anomalia delle diverse componenti si traduca in un’offerta complessivamente inaffidabile;
   b) detto giudizio costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica amministrazione ed insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che nelle ipotesi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato della Commissione di gara, che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
   c) dal suo canto il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della Pubblica amministrazione;
   d) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica amministrazione.
---------------

10. Il secondo e il terzo motivo impingono nel merito della valutazione discrezionale, laddove contestano la ritenuta non anomalia dell’offerta e i punteggi ottenuti in sede di valutazione dell’offerta tecnica.
A tal riguardo, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato,V, 03.04.2018, n. 2051) che ha più volte chiarito che:
   a) nelle gare pubbliche il giudizio di verifica dell’anomalia dell’offerta -finalizzato alla verifica dell’attendibilità e serietà della stessa ovvero all’accertamento dell’effettiva possibilità dell’impresa di eseguire correttamente l’appalto alle condizioni proposte- ha natura globale e sintetica e deve risultare da un’analisi di carattere tecnico delle singole componenti di cui l’offerta si compone, al fine di valutare se l’anomalia delle diverse componenti si traduca in un’offerta complessivamente inaffidabile;
   b) detto giudizio costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica amministrazione ed insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che nelle ipotesi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato della Commissione di gara, che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
   c) dal suo canto il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della Pubblica amministrazione;
   d) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.08.2018 n. 4820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara di concorrente per incompatibilità.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per incompatibilità componente gruppo lavoro del concorrente che è anche dirigente della stazione appaltante – Esclusione - Fattispecie.
Nella gara volta all’affidamento dell’appalto di fornitura ad una Azienda sanitaria è illegittima l’esclusione della concorrente, per incompatibilità, che ha inserito nel gruppo di lavoro preposto allo svolgimento delle prestazioni oggetto della gara un medico dipendente a tempo indeterminato della stessa A.S.L. appaltante, dirigente dell’Unità di valutazione di appropriatezza di ricovero e prestazioni, preposto all’attività di ispezione per la verifica dell’appropriatezza dei ricoveri presso le case di cura e gli ospedali della A.S.L. (1).
---------------
   (1) Ha chiarito il Tar che la presenza del dirigente nel gruppo di lavoro della concorrente non provoca un effetto ipso jure espulsivo dalla competizione, dovendo essere puntualmente accertato se essa abbia determinato un’indebita posizione di vantaggio, suscettibile di alterare la par condicio dei partecipanti alla selezione;
Il Tar ha quindi richiamato i passaggi significativi della sentenza del Tribunale di I grado UE, sez. II – 13.10.2015, n. 403/12:
75. La nozione di conflitto di interessi ha carattere oggettivo e per definirla occorre prescindere dalle intenzioni degli interessati, e in particolare dalla loro buona fede (v. sentenza del 20.03.2013, Nexans France/Impresa comune Fusion for Energy, T-415/10, Racc., EU:T:2013:141, punto 115 e giurisprudenza ivi citata).
76. Alle autorità aggiudicatrici non incombe un obbligo assoluto di escludere sistematicamente gli offerenti in situazione di conflitto di interessi, dato che siffatta esclusione non sarebbe giustificata nei casi in cui si potesse dimostrare che tale situazione non ha avuto alcuna incidenza sul loro comportamento nella procedura di gara, e non determina alcun rischio reale di pratiche atte a falsare la concorrenza tra gli offerenti. Viceversa, l'esclusione di un offerente in situazione di conflitto di interessi è indispensabile qualora non esista un rimedio più adeguato per evitare una qualsiasi violazione dei principi di parità di trattamento tra gli offerenti e di trasparenza (sentenza Nexans France/Impresa comune Fusion for Energy, punto 75 supra, EU:T:2013:141, punti 116 e 117).
77. Infatti, secondo una costante giurisprudenza, l'amministrazione aggiudicatrice è tenuta a vegliare sul rispetto, in ogni fase della procedura di gara d'appalto, del principio di parità di trattamento e, di conseguenza, delle pari opportunità di tutti gli offerenti (v. sentenza del 12.07.2007, EvropaIki Dynamiki/Commissione, T-250/05, EU:T:2007:225, punto 45 e giurisprudenza ivi citata).
78. Più precisamente, il principio delle pari opportunità impone, secondo la giurisprudenza, che tutti gli offerenti dispongano delle stesse opportunità nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica dunque che queste ultime siano soggette alle stesse condizioni per tutti tali offerenti. Il principio di trasparenza, che ne rappresenta un corollario, ha fondamentalmente lo scopo di eliminare i rischi di favoritismo e arbitrarietà da parte dell'autorità aggiudicatrice. Esso implica che tutte le condizioni e modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca, nel bando di gara o nel capitolato d'oneri (sentenza del 09.09.2009, Brink's Security Luxembourg/Commissione, T-437/05, Racc., EU:T:2009:318, punti 114 e 115).
Il principio di trasparenza implica, inoltre, che tutte le informazioni tecniche pertinenti per la buona comprensione del bando di gara o del capitolato d'oneri siano messe, appena possibile, a disposizione di tutte le imprese che partecipano ad un appalto pubblico, in modo da consentire, da un lato, a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l'esatta portata e di interpretarle allo stesso modo e, dall'altro, all'amministrazione aggiudicatrice di verificare se effettivamente le offerte presentate dagli offerenti rispondano ai criteri che disciplinano l'appalto in questione (v. sentenza del 29.01.2014, European Dynamics Belgium e a./EMA, T-158/12, EU:T:2014:36, punto 60 e giurisprudenza ivi citata).
79. Dalla giurisprudenza citata ai precedenti punti da 74 a 78 emerge che il ragionamento in termini di rischio di conflitto di interessi impone una valutazione concreta, da un lato, dell'offerta e, dall'altro, della situazione dell'offerente interessato, e che l'esclusione di tale offerente è un rimedio volto a garantire il rispetto dei principi di trasparenza e di parità di trattamento tra gli offerenti
” (Tar Brescia, sez. II, 04.04.2016, n. 485, confermata dal Consiglio di Stato, Sez. V, 18.01.2017, n. 189) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 04.08.2018 n. 1176 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Legali, niente incarichi fiduciari. Per la difesa in giudizio della pubblica amministrazione. Il Consiglio di stato concorda con l’Anac nell’escluderli dall’applicazione del Codice.
La pubblica amministrazione non può affidare ad avvocati esterni incarichi per la difesa in giudizio per via fiduciaria.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, espressasi con parere 03.08.2018 n. 2017 sullo schema di Linee guida dell'Anac per l'affidamento dei servizi legali (si veda ItaliaOggi del 07/08/2018) elimina definitivamente ogni possibile dubbio sulla permanenza della legittima possibilità delle amministrazioni di scegliere l'avvocato fiduciariamente, anche quando il tipo di contratto che si stipula non è un vero e proprio appalto, ma una prestazione d'opera intellettuale.
Palazzo Spada concorda con quanto evidenzia l'Anac in merito alla circostanza che i servizi legali previsti dall'articolo 17, comma 1, lettera d), del dlgs 50/2016 siano da considerare come contratti esclusi dal campo di applicazione del codice, ma non estranei.
Dunque, tali affidamenti debbono rispettare i principi posti dall'articolo 4 del dlgs 50/2016. Il che, osserva la Commissione, impone «la procedimentalizzazione nella scelta del professionista al quale affidare l'incarico di rappresentanza in giudizio (o in vista di un giudizio) dell'amministrazione, evitando scelte fiduciarie oppure motivate dalla “chiara fama” (spesso non dimostrata) del professionista».
Dunque, occorre sempre e comunque una procedura selettiva, per quanto non soggetta alle regole stringenti del codice, per individuare il legale.
Secondo il Consiglio di stato è opportuno che le amministrazioni selezionino i professionisti preventivamente inseriti in uno specifico albo, utilizzando almeno tre parametri: esperienza e competenza tecnica, pregressa e proficua collaborazione con la stessa stazione appaltante per la stessa questione; e anche il costo del servizio, smentendo i molti che ritengono non corretto o impossibile considerare questo elemento.
Le amministrazioni non possono fare a meno di confrontare una short list di avvocati sulla base di parametri che consentano una scelta che deve comunque essere discrezionale, purché sorretta da una solida motivazione che appunto i parametri selettivi consentono di elaborare in modo compiuto.
Secondo Palazzo Spada non deve mai essere consentita la scelta per estrazione a sorte. Allo stesso modo, l'affidamento diretto per casi di urgenza dovrebbe essere un'ipotesi solo astratta. Infatti, l'urgenza potrebbe essere scongiurata se le amministrazioni dessero vita ad appalti di servizio veri e propri, per una durata pluriennale (almeno 3 anni) a studi professionali interdisciplinari: infatti, in questo caso l'appalto potrebbe considerarsi «al bisogno» e quindi lo studio potrebbe essere attivato immediatamente.
L'urgenza non può giustificare affidamenti diretti, senza quel minimo di procedura necessaria ai sensi dell'articolo 4 del codice, a meno che non si tratti di vertenze del tutto particolari, come per esempio quelle attinenti a questioni sulle quali ancora non vi siano pronunce giurisprudenziali.
Il parere appare, però, poco persuasivo quando distingue la difesa in giudizio in due tipologie contrattuali. Quella appunto della prestazione d'opera intellettuale, che coincide con la previsione dell'articolo 17, comma 1, lettera d); e quella dell'appalto vero e proprio, che comprende lo svolgimento di una serie indefinita di difese in giudizio, oltre che consulenze ed altri servizi indicati nell'allegato IX, per un tempo definito, assegnandoli a società o comunque studi organizzati.
Oggettivamente, Palazzo Spada pare ancora incorrere nell'errore di ritenere rilevanti nella disciplina degli appalti pubblici le differenze ricavabili dal codice civile tra prestazione resa personalmente senza prevalenza di mezzi e organizzazione (prestazione d'opera intellettuale) e appalto di servizi, con organizzazione di impresa ed assunzione del rischio. La difesa in giudizio, sia che venga resa personalmente, sia che sia organizzata da uno studio, non ha visibilmente alcuna predisposizione di mezzi ed assunzione dei rischi imprenditoriali propri dell'appalto come definito dal codice civile.
Ma, questo, ai fini del codice dei contratti e delle direttive europee, è totalmente irrilevante, visto che espressamente l'articolo 3, comma 1, lettera p), del codice considera come «operatore economico» anche una persona fisica alla sola condizione che, come qualsiasi avvocato, offra sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).

INCARICHI PROFESSIONALIServizi legali con appalto se la prestazione è seriale. Parere del Consiglio di stato sulle linee guida dell’Anac.
Servizi legali affidabili dalle amministrazioni con appalto di servizi quando relativi ad attività non quantificabili nella loro consistenza, ma riferibili a prestazioni continuative e «seriali». Ricorso ai contratti d'opera professionali, ma con scelta da elenchi aperti e pubblici, con criteri di selezione per l'iscrizione; limitato il ricorso all'affidamento diretto dell'incarico professionale.
Sono queste alcune delle indicazioni fornite dal Consiglio di Stato nel parere 03.08.2018 n. 2017, positivo con osservazioni, sulle linee guida per l'affidamento dei servizi legali predisposte dall'Anac.
Le linee guida, non vincolanti, emesse a seguito di una consultazione afferiscono alla disciplina del codice dei contratti e in particolare agli articoli artt. 4 e 17 e all'Allegato IX del codice dei contratti pubblici . Esaminata questa disciplina il Consiglio di Stato distingue fra i servizi legali cui si riferisce l'Allegato IX, relativi ad attività (anche rese da avvocati iscritti all'albo ai sensi dell'art. 2, comma 6, l. 247 del 2012) che sono, però, connotate dallo svolgimento in forma organizzata, continuativa» peraltro «non esattamente quantificabili nella loro consistenza al momento dell'assunzione dell'incarico».
Per queste attività si ricorre all'appalto di servizi con procedure semplificate e criteri di selezione «non eccessivamente restrittivi per evitare di escludere gli studi associati di più recente formazione (e nei quali, dunque, siano presenti professionisti più giovani)». In sede di scelta si dovranno favorire gli «studi che trattano più materie, così da garantire all'amministrazione il ragionevole affidamento di trovare nei professionisti incaricati competenze idonee per qualsiasi tipo di contenzioso dovesse insorgere nel periodo di vigenza dell'affidamento». Si dovrà utilizzare il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo, anche in relazione ai contratti di valore inferiore ai 40.000 euro.
Per il Consiglio di stato le amministrazioni che decidono di ricorrere al contratto di appalto dei servizi legali devono procedere «all'affidamento dell'intero contenzioso di loro interesse per una durata predeterminata (che potrebbe essere, ad esempio, triennale) a professionisti che, nelle forme attualmente consentite dall'ordinamento, siano in grado di assicurare, per le plurime competenze di cui dispongono, una complessiva attività di consulenza legale».
Viceversa se si è in presenza di una prestazione di un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente espletata secondo un incarico non continuativo o periodico, ma puntuale ed episodico, destinato a soddisfare un singolo bisogno manifestatosi (la difesa e rappresentanza in una singola causa per esempio) si «rientra a pieno titolo nella qualificazione di cui all'art. 2222 c.c.».
In questi casi il rispetto dei principi generali impone però la procedimentalizzazione nella scelta del professionista «evitando scelte fiduciarie ovvero motivate dalla chiara fama (spesso non dimostrata) del professionista». Occorre quindi predisporre un elenco ristretto di professionisti o studi legali perché «sarebbe oneroso e complesso da gestire per l'amministrazione in contrasto con i principi di efficacia e economicità dell'azione amministrativa».
L'elenco, pubblicato sul sito istituzionale, deve essere sempre aperto e suscettibile di integrazione e modificazione, nonché accompagnato da brevi schede che riassumano la storia professionale dell'aspirante affidatario
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: In base all’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’annullamento del provvedimento amministrativo richiede, oltre all’illegittimità dell’atto, anche la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione.
Tale interesse deve, poi, trovare adeguata evidenziazione, mediante un’idonea motivazione, che dia conto della ponderazione degli interessi in gioco, inclusi quelli dei destinatari dell’atto e dei controinteressati, anche alla luce del tempo trascorso dall’adozione del provvedimento; l’annullamento deve, inoltre, intervenire entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi

Invero,
la potestà di autotutela deve “(...) considerare la legittimità del provvedimento che ne è oggetto in base al principio “tempus regit actum” e –una volta accertata l’effettiva sussistenza di vizi, rapportabili all’emanazione dell’atto– è poi chiamata a valutare discrezionalmente la sussistenza degli ulteriori presupposti per intervenire, previo bilanciamento degli interessi sia pubblici che privati”.

---------------
In ogni ipotesi nella quale un’amministrazione annulla in autotutela un proprio atto, essa necessariamente “contraddice” il proprio precedente operato, rimuovendone gli esiti. Ciò, tuttavia, non toglie che l’autotutela sia un istituto espressamente contemplato dalla legge, il quale trova il proprio fondamento nel principio di inesauribilità del potere amministrativo (salvi i limiti temporali introdotti dal legislatore).
Né potrebbe ritenersi che, nel caso oggetto del presente giudizio, un profilo specifico di contraddittorietà dell’agire amministrativo sia ravvisabile nella precedente emissione di un parere preventivo favorevole.
Deve premettersi che
i titoli edilizi sono rilasciati in presenza delle condizioni stabilite dalla legge, senza alcun margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione. Conseguentemente, la circostanza che –eventualmente in modo errato– il Comune renda un parere favorevole alla successiva emissione del permesso di costruire non può in ogni caso vincolare l’Ente, in contrasto con la legge, a considerare quel titolo legittimo.

---------------

16. Può, quindi, passarsi all’esame delle censure prospettate dalla ricorrente con il terzo, il sesto, il settimo e l’ottavo motivo, nonché di quelle articolate nella seconda parte del quarto motivo.
Tutte queste censure, che possono essere complessivamente scrutinate, mirano infatti a contestare sostanzialmente le ragioni di interesse pubblico addotte dal Comune a sostegno del provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire, e quindi a contestare la sussistenza dei presupposti –ulteriori rispetto alla mera illegittimità del provvedimento eliminato– cui la legge subordina l’esercizio del potere di autotutela.
16.1 Occorre ricordare anzitutto che, in base all’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’annullamento del provvedimento amministrativo richiede, oltre all’illegittimità dell’atto, anche la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione. Tale interesse deve, poi, trovare adeguata evidenziazione, mediante un’idonea motivazione, che dia conto della ponderazione degli interessi in gioco, inclusi quelli dei destinatari dell’atto e dei controinteressati, anche alla luce del tempo trascorso dall’adozione del provvedimento; l’annullamento deve, inoltre, intervenire entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2123, ove si evidenzia che la potestà di autotutela deve “(...) considerare la legittimità del provvedimento che ne è oggetto in base al principio “tempus regit actum” e –una volta accertata l’effettiva sussistenza di vizi, rapportabili all’emanazione dell’atto– è poi chiamata a valutare discrezionalmente la sussistenza degli ulteriori presupposti per intervenire, previo bilanciamento degli interessi sia pubblici che privati”).
Nel caso oggetto del presente giudizio, deve ritenersi che –contrariamente a quanto allegato dalla ricorrente– il provvedimento di autotutela non sia stato diretto a ripristinare meramente la legalità violata, ma abbia svolto una valutazione in concreto, ponderando l’interesse pubblico alla luce del contrapposto interesse del privato, e pervenendo alla determinazione conclusiva entro un termine ragionevole in rapporto alle circostanze.
16.2 Dalla motivazione dell’atto emerge, anzitutto, che le ragioni di interesse pubblico ritenute prevalenti dal Comune attengono all’impatto dell’opera sul contesto urbano. A questo proposito, l’Amministrazione ha acquisito un rapporto della Polizia locale, diffusamente richiamato nella determinazione di autotutela, ove sono state illustrate le ritenute criticità derivanti dalla realizzazione del nuovo luogo di culto.
Più in dettaglio, l’Amministrazione ha evidenziato le ricadute dell’opera sulla situazione viabilistica dell’area e sul fabbisogno di parcheggi, nei termini già sopra riportati.
La ricorrente ha diffusamente contestato le ragioni addotte dall’Amministrazione. Tali contestazioni, tuttavia, non colgono nel segno.
Non sono rilevanti, anzitutto, le deduzioni che l’Associazione svolge assumendo che la dotazione di parcheggi sia adeguata rispetto alla destinazione “servizi alla persona”. Come detto, infatti, il complesso è stato adibito ad “attrezzature religiose”, ossia a una destinazione distinta e non sovrapponibile a quella di “servizi alla persona”, in virtù di una precisa scelta del legislatore regionale.
Neppure colgono nel segno le ulteriori affermazioni della parte, la quale sostiene, producendo anche alcune immagini fotografiche, che nel contesto urbano vi sarebbe addirittura un esubero di parcheggi, e che quanto esposto nel provvedimento non troverebbe riscontro nello stato effettivo dei luoghi. Si tratta, infatti, di mere allegazioni, prive di riscontri probatori adeguati, come tali inidonee a scalfire l’attendibilità della valutazione tecnica svolta dalla Polizia locale in ordine alla situazione viabilistica dell’area.
16.3 Nel provvedimento impugnato il Comune ha, inoltre, affermato che la mancata previa approvazione del Piano delle attrezzature religiose comporta che il permesso di costruire sia stato rilasciato “in assenza di un iter procedurale atto a garantire la trasparenza degli atti assunti attraverso i meccanismi di partecipazione e consultazione della cittadinanza”.
In proposito, la ricorrente allega che tale affermazione sarebbe un fuor d’opera, tenuto conto del fatto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, nella parte in cui  al primo periodo del comma 4– prevedeva che nel corso del procedimento di formazione del Piano delle attrezzature religiose venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”.
Occorre osservare, tuttavia, che l’eliminazione di tale periodo non toglie che il Piano delle attrezzature religiose sia un “atto separato facente parte del piano dei servizi” (ai sensi dell’articolo 72, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005) e che tale atto sia, conseguentemente, “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3). Deve, perciò, concordarsi con la difesa comunale, la quale ha evidenziato che, con la frase sopra riportata, l’Amministrazione ha inteso fare riferimento unicamente al mancato svolgimento dell’iter di formazione degli atti facenti parte del Piano di Governo del Territorio.
In questa prospettiva, il Comune ha ritenuto di riscontrare un’ulteriore ragione a sostegno dell’annullamento del titolo edilizio nella circostanza che, mancando il Piano, non sarebbero state assicurate la trasparenza delle scelte operate dall’Amministrazione e la partecipazione della collettività, garantite dal procedimento di formazione dello strumento urbanistico.
16.4 L’Associazione sottolinea, poi, che il Comune, annullando in autotutela il permesso di costruire, avrebbe contraddetto il proprio precedente operato, tenuto conto della circostanza che il titolo edilizio era stato chiesto e ottenuto solo dopo che la stessa Amministrazione aveva emesso un parere preventivo favorevole.
Inoltre, nell’esercizio dell’autotutela non si sarebbe tenuto conto adeguatamente dell’affidamento ingenerato nella ricorrente dal comportamento del Comune.
16.4.1 Deve tuttavia osservarsi che, in ogni ipotesi nella quale un’amministrazione annulla in autotutela un proprio atto, essa necessariamente “contraddice” il proprio precedente operato, rimuovendone gli esiti. Ciò, tuttavia, non toglie che l’autotutela sia un istituto espressamente contemplato dalla legge, il quale trova il proprio fondamento nel principio di inesauribilità del potere amministrativo (salvi i limiti temporali introdotti dal legislatore).
Né potrebbe ritenersi che, nel caso oggetto del presente giudizio, un profilo specifico di contraddittorietà dell’agire amministrativo sia ravvisabile nella precedente emissione di un parere preventivo favorevole.
Deve premettersi che i titoli edilizi sono rilasciati in presenza delle condizioni stabilite dalla legge, senza alcun margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione. Conseguentemente, la circostanza che –eventualmente in modo errato– il Comune renda un parere favorevole alla successiva emissione del permesso di costruire non può in ogni caso vincolare l’Ente, in contrasto con la legge, a considerare quel titolo legittimo.
Occorre poi tenere presente che il parere preventivo aveva una valenza necessariamente limitata al permanere della situazione di fatto e di diritto presa in esame dall’Amministrazione. E, sotto questo profilo, rileva la circostanza che tale parere risale al 22.03.2013, e quindi è stato emesso sulla base del contesto normativo precedente l’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015. Inoltre, il permesso di costruire risulta essere stato richiesto molto tempo dopo rispetto al parere, atteso che la relativa istanza risale soltanto all’agosto del 2015.
Per tutte queste ragioni, non può ipotizzarsi un profilo di contraddittorietà nell’operato del Comune, tale da far emergere l’illegittimità della determinazione di autotutela.
16.4.2 D’altro canto, il provvedimento impugnato risulta aver preso specificamente in considerazione la posizione dell’Associazione. Il Comune ha, tuttavia, ritenuto motivatamente –per le ragioni sopra riportate– che l’interesse della parte privata fosse recessivo rispetto all’interesse pubblico in concreto all’eliminazione del titolo illegittimo. L’Amministrazione ha valorizzato, tra l’altro, il fatto che, poco dopo l’avvio, i lavori siano stati spontaneamente sospesi dalla stessa Associazione.
Anche sotto questo profilo, il provvedimento risulta sorretto da una motivazione sufficiente, e come tale insindacabile nel merito dal giudice amministrativo.
16.5 Infine, il provvedimento di autotutela è da ritenere tempestivamente assunto, in rapporto alle circostanze di fatto.
Come detto, il titolo edilizio è stato rilasciato il 15.01.2016, mentre la determinazione di annullamento è stata adottata il 13.03.2017. Conseguentemente, emerge anzitutto il rispetto del termine massimo di diciotto mesi prescritto dall’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
L’annullamento risulta inoltre intervenuto in un tempo non irragionevole, in rapporto alle circostanze, tenuto conto del fatto che:
   - i lavori erano stati avviati soltanto nel luglio del 2016 e poi sospesi spontaneamente già nel mese di ottobre;
   - dallo stesso mese di ottobre il Comune aveva rappresentato all’Associazione i profili di illegittimità del permesso di costruire, avviando un confronto con la parte in ordine alle sorti del titolo edilizio.
Non può, invece, accedersi alla tesi della ricorrente, secondo la quale la ragionevolezza del termine per l’esercizio dell’autotutela andrebbe valutata tenendo conto del decorso di oltre diciotto mesi dal rilascio del parere preventivo del Comune.
La legge collega, infatti, il predetto termine massimo solo all’adozione del provvedimento, e non alle pregresse vicende amministrative. Tali vicende non possono perciò rilevare neppure ai fini della valutazione della ragionevolezza del tempo intercorso prima di assumere la determinazione di annullamento. Peraltro, come già ricordato, il parere preventivo risale al 22.03.2013, e quindi è stato emesso molto tempo prima rispetto all’istanza stessa di rilascio del permesso di costruire, oltre che sulla base del contesto normativo allora vigente.
Ne consegue il rigetto anche di questa censura.
16.6 In definitiva, tutti i motivi fin qui congiuntamente scrutinati vanno respinti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.08.2018 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICommissari, vince Asmel. TAR LAZIO SOSPENDE IL DECRETO MIT.
Tutto da rifare sulle tariffe minime dei commissari di gara.

Con ordinanza 02.08.2018 n. 4710, il TAR Lazio-Roma, Sez. I, ha dato ragione all'Asmel, l'Associazione per la modernizzazione e la sussidiarietà degli enti locali che aveva impugnato dinanzi ai giudici amministrativi (si veda ItaliaOggi del 25/05/2018) il dm, attuativo del Codice appalti, che ha fissato il compenso minimo per le commissioni di gara in 9.150 euro, oltre alle spese di trasferta, con costi che per le procedure di acquisto oltre i 40 mila euro avrebbero comportato oneri aggiuntivi di 11 mila euro.
Un costo che, secondo l'Asmel, avrebbe reso di fatto impossibile bandire gare nella fascia tra 40 e 500 mila euro, ossia la stragrande maggioranza (75%) del totale delle gare pubblicate dai comuni. Il Tar ha accolto la richiesta di sospensiva, riconoscendo il «fumus boni iuris» del ricorso Asmel che ha puntato il dito contro il decreto ministeriale ritenendolo viziato da eccesso di delega in quanto il Codice appalti richiedeva al legislatore la fissazione di un compenso massimo e non un intervento sulle tariffe minime.
Una tesi accolta dal Tar secondo cui «il decreto impugnato ha fissato anche il compenso minimo per fasce di valore degli appalti in totale mancanza di copertura legislativa per il conferimento di poteri normativi in materia di compensi minimi». Il Tar ha riconosciuto la fondatezza delle difficoltà rappresentate dai piccoli comuni «che non hanno nella pianta organica figure professionali in numero sufficiente a ricoprire i ruoli di commissari». Di qui i presupposti per la concessione della misura cautelare e la conseguente sospensione del dm impugnato limitatamente alla fissazione di tariffe minime.
Una sospensione che crea uno stato di incertezza destinato a protrarsi come minimo fino al 22.05.2019, giorno dell'udienza di merito. Tutto questo dopo che Anac ha fissato nel prossimo 10 settembre la data di avvio per l'iscrizione all'Albo e nel 15.01.2019 la data di operatività dello stesso. Sta ad Anac ora decidere se prorogare questi termini, oppure, come auspica Asmel in una nota, «ritenere non necessario il compenso minimo, aderendo alla legge e all'ordinanza del Tar».
Secondo Asmel i commissari di gara dovrebbero essere di norma dipendenti pubblici, salvo eccezioni da documentare adeguatamente in caso di accertata carenza di organico
(articolo ItaliaOggi del 07.08.2018).

APPALTIGiudici di gara, il Tar Lazio frena il nuovo albo Anac.
Mare agitato per le commissioni di gara per appalti pubblici di opere, servizi e forniture: il TAR Lazio-Roma ha sospeso (Sez. I, ordinanza 02.08.2018 n. 4710) il decreto del ministero delle Infrastrutture del 12.02.2018, con il quale sono stati stabiliti i compensi minimi per i commissari di gara.
Il provvedimento sopravviene in un momento delicato perché è imminente (dal 10.09.2018, secondo il comunicato Anac del 18 luglio) l’apertura dei termini per l’iscrizione degli esperti nell’albo gestito dall’Autorità. Era quindi tutto pronto per estrarre i nominativi dei commissari di gara dall’albo, a partire da bandi o avvisi con offerte che scadranno dal 15.01.2019 in poi.
La sospensione del Tar è anomala, perché riguarda solo i minimi tariffari, senza intaccare il meccanismo di iscrizione degli esperti o la loro procedura di estrazione a sorte. Il Tar interviene su ricorso di una centrale di committenza che, nell’organizzare le procedure di gara dei propri aderenti (enti locali appaltatori), si è posta il problema dell’incapienza delle risorse necessarie per retribuire i commissari di gara.
Ogni opera, servizio o fornitura ha infatti un «quadro economico» in cui, tra le varie voci, vi è quella delle «somme a disposizione», che è utilizzata per pagare i commissari di gara (articolo 77, comma 10, Dlgs 50/2016). Finché i commissari sono interni all’amministrazione, non vi è un problema di retribuzione, essendo gratuita la loro attività a favore dell’ente di appartenenza: ma se occorre attingere dall’albo Anac, diventa necessario applicare le tariffe del ministero, che prevede minimi inderogabili.
Ad esempio, come osserva il Tar, per le gare di minore calibro (per opere fino a 20 milioni di euro, servizi fino a un milione di euro ed ingegneria fino a 200mila euro) sono previste retribuzioni di 3mila euro per ogni commissario. Per soddisfare questi minimi, occorrerebbe modificare il quadro economico degli interventi (singoli appalti, servizi o forniture), oppure (come sembra ipotizzare il Tar) ridiscutere la logica dell’equo compenso e dei minimi inderogabili.
È quindi vero ciò che afferma il Tar nella motivazione dell’ordinanza, che cioè il Dlgs 50/2016 (Codice appalti) non prevede minimi tariffari per i commissari di gara, e che quindi il ministero non poteva inserirli autonomamente; ma è anche vero che il problema dei minimi è vitale per le libere professioni, come prova la vivacità del dibattito sulle prestazioni professionali gratuite (Consiglio di Stato 4614/2017 sul piano urbanistico di Catanzaro).
A seguito dell’ordinanza Tar, allora, i commissari potranno essere remunerati dalle stazioni appaltanti senza l’obbligo di rispettare i minimi di 3mila euro, lasciando tuttavia trasparire dubbi di correttezza ed imparzialità per lavori sotto remunerati. Ed è possibile che questa sospensione costringa, addirittura, a rivedere parti importanti del nuovo meccanismo. Una via di uscita, ipotizzata tempo fa, potrebbe essere la previsione di un contributo a carico dei partecipanti alla gara, ma la giurisprudenza dello stesso Tar si è espressa in termini sfavorevoli su tale tassa di partecipazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.08.2018).

APPALTINiente collegamenti tra imprese concorrenti. Tar Lombardia.
In una gara di appalto pubblico è ravvisabile un «centro decisionale unitario» laddove tra imprese concorrenti vi sia intreccio parentale tra organi rappresentativi o tra soci o direttori tecnici, contiguità di sede, utenze in comune (indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, identiche modalità formali di redazione delle offerte, strette relazioni temporali e locali nelle modalità di spedizione dei plichi, nonché significative vicinanze cronologiche tra gli attestati Soa o tra le polizze assicurative a garanzia delle offerte.

È quanto afferma il TAT Lombardia-Milano, Sez. I, con la sentenza 01.08.2018 n. 1918.
Per i giudici è quindi legittima l'esclusione dei concorrenti quando vi sia ricorrenza di questi indici «in numero sufficiente e legati da nesso oggettivo di gravità, precisione e concordanza tale da giustificare la correttezza dello strumento presuntivo». Il semplice collegamento fra due concorrenti può quindi dar luogo all'esclusione da una gara d'appalto solo dopo puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto.
In particolare l'accertamento deve essere mirato ad accertare se la situazione rappresenti anche solo un pericolo che le condizioni di gara vengano alterate. Se quindi si verifica la sussistenza di un unico centro decisionale, questo elemento «costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l'esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell'ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale».
Per il Tar ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall'esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti. Il collegio giudicante concorda nel ritenere che è questa «l'unica via percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti»
(articolo ItaliaOggi del 10.08.2018).
----------------
MASSIMA
Invero, come chiarito dalla giurisprudenza,
l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale.
Ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e concordanti
(C.d.S., Sez. V, n. 1265/2010).
A giudizio del Collegio,
si tratta dell’unica via percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero irrimediabilmente violati qualora si aderisse alla tesi di controparte, demandando, quindi, l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte (TAR Lombardia, I sezione, n. 2248/2016).
È ravvisabile un centro decisionale unitario laddove tra imprese concorrenti vi sia intreccio parentale tra organi rappresentativi o tra soci o direttori tecnici, vi sia contiguità di sede, vi siano utenze in comune (indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, vi siano identiche modalità formali di redazione delle offerte, vi siano strette relazioni temporali e locali nelle modalità di spedizione dei plichi, vi siano significative vicinanze cronologiche tra gli attestati SOA o tra le polizze assicurative a garanzia delle offerte.
La ricorrenza di questi indici, in numero sufficiente e legati da nesso oggettivo di gravità, precisione e concordanza tale da giustificare la correttezza dello strumento presuntivo, è sufficiente a giustificare l’esclusione dalla gara dei concorrenti che si trovino in questa situazione.
Il semplice collegamento può quindi dar luogo all’esclusione da una gara d’appalto solo all’esito di puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto da parte dell’Amministrazione che deve accertare se la situazione rappresenta anche solo un pericolo che le condizioni di gara vengano alterate
(TAR Sardegna, n. 163/2018).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla costruzione di insediamenti per servizi logistici e di supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la possibilità di insediamento può essere tratta dalla specificazione degli insediamenti installabili in zona D7 riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci, mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto, aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”), in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
---------------
Circa l'impugnato diniego
sull’istanza di rilascio del permesso di costruire per mutamento di destinazione, con preceduto dalla comunicazione degli elementi ostativi ex art. 10-bis l. 241/1990 può, farsi applicazione di quanto disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della medesima legge poiché trattasi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso, risulta che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
---------------

Parte ricorrente ha impugnato il provvedimento n. 13031 del 18/06/2013 del Comune di Marcianise, di diniego sull’istanza di rilascio del permesso di costruire per mutamento di destinazione, senza opere edili strutturali, dell'unità immobiliare sita in località S. Ippolito, in catasto al f. 17, p.lla 5326, nonché ogni altro atto presupposto, connesso o conseguente.
In particolare, la medesima parte ricorrente è proprietaria di un immobile insistente in una zona omogenea classificata D7 dallo strumento urbanistico, riservata a insediamenti per servizi logistici e di supporto alle attività industriali. Ha presentato un’istanza al Comune per il rilascio del permesso di costruire finalizzato al cambio di destinazione d’uso, dall’attuale destinazione commerciale dell’immobile, a “locale per pubblico spettacolo”.
...
1) Il ricorso si palesa infondato.
Il cambio destinazione d'uso richiesto da parte ricorrente non era assentibile, in quanto la destinazione desiderata è contraria alle prescrizioni dello strumento urbanistico comunale e, in particolare, alla destinazione di zona.
Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla costruzione di insediamenti per servizi logistici e di supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la possibilità di insediamento può essere tratta dalla specificazione degli insediamenti installabili in zona D7 riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci, mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto, aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”), in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
Né in senso contrario può far concludere la circostanza che l'immobile di proprietà di parte ricorrente, del quale si è chiesto il cambio di destinazione, abbia attualmente destinazione commerciale.
Il fatto che un locale abbia, per qualsiasi motivazione, una destinazione difforme a quella di zona non autorizza il proprietario ad adibirlo ad altre destinazioni che, seppure sono affini a quella posseduta, non sono consentite dallo strumento urbanistico vigente.
Allo stesso modo non ha rilievo la deduzione che il PRG avrebbe perso rilevanza nella zona in questione perché vi sarebbero di fatto ubicate attività (commerciali) diverse da quelle consentite dalla destinazione di zona omogenea D7.
In primo luogo, infatti, tale circostanza appare indimostrata e, in secondo luogo, l’eventuale violazione di fatto delle prescrizioni del PRG inerenti alla destinazione di zona, non ha alcun effetto ai fini di legittimare l’installazione di ulteriori attività non consentite, con la conseguenza di compromettere ulteriormente la pianificazione urbanistica.
Quanto alla doglianza inerente alla non necessarietà del permesso di costruire, l’istanza di permesso di costruire è stata presentata dalla stessa parte ricorrente, e, in ogni caso, vale anche qui la considerazione che in ogni caso la destinazione desiderata è incompatibile con quella di zona.
2) Da rigettare è anche la censura relativa alla violazione dell’art. 10-bis legge n. 241/1990, per omissione del preavviso di rigetto.
Ritiene al riguardo il Collegio che, per i motivi indicati nel punto che precede, possa farsi applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, trattandosi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso, risultando che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, considerata l’applicabilità di quest’ultima norma anche alle violazioni dell’art. dall’art. 10-bis legge n. 241/1990 (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 23.03.2011, n. 541; Consiglio Stato, sez. VI, 18.03.2011, n. 1673; TAR Puglia Lecce, sez. II, 12.09.2006, n. 4412; TAR Piemonte, sez. I, 14.06.2006 , n. 2487; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 06.11.2006 , n. 2875).
In tal senso si rivela, infatti, corretta l’indicazione contenuta nello stesso provvedimento gravato secondo cui la previa comunicazione di avvio del procedimento era stata omessa in considerazione dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.07.2018 n. 5126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche il commento:
  
M. Tomaello e C. Perin, Mutamento di destinazione d’uso di un immobile in contrasto con le previsioni di zona (09.08.2018 - link a regione.veneto.it/web/ambiente-e-territorio/news-urbjus).

APPALTI: L'omessa indicazione separata del costo della manodopera comporta l'esclusione dalla gara.
L'indicazione separata del costo della manodopera, ex art. 95, c. 10, del d.lgs. n. 50/2016 (codice dei contratti pubblici), è necessaria non solo ai fini della successiva verifica dell'anomalia ma, prima ancora, in sede di predisposizione dell'offerta economica, al fine di formulare un'offerta consapevole e completa.
Ne consegue che l'indicazione si configura come prescrizione di legge da rispettare a pena di esclusione (art. 83, c. 8, penultimo periodo, del d.lgs. n. 50/2016).
Altresì, è inammissibile il soccorso istruttorio, che il codice dei contratti vigente non ammette in tutte le ipotesi di incompletezze e irregolarità relative all'offerta economica, in quanto l'indicazione dei costi della manodopera costituisce un elemento dell'offerta economica come precisato espressamente dall'art. 95, c. 10, cit.
(TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 27.07.2018 n. 689 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTINiente sopralluogo per i concessionari. SERVIZI PUBBLICI LOCALI.
Illegittimo prevedere l'obbligo di sopralluogo anche per il gestore uscente di una concessione di servizi pubblici locali.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 26.07.2018 n. 4597.
La stazione appaltante aveva deciso di anticipare l'adempimento dell'obbligo del sopralluogo dalla fase della gara a quella precedente della selezione dei concorrenti da invitare espletata attraverso l'avviso di indagine di mercato. Si poneva quindi la questione se fosse o meno legittimo che l'adempimento è richiesto anche al gestore uscente del servizio.
La norma vigente (art. 79, comma 2, del codice appalti) prevede che «quando le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara e relativi allegati, i termini per la ricezione delle offerte, comunque superiori ai termini minimi stabiliti negli articoli 60, 61, 62, 64 e 65, sono stabiliti in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte».
Quindi in astratto la previsione indeterminata di sopralluogo non avrebbe ragione di essere dichiarata illegittima. Rilevano però i giudici che il sopralluogo ha carattere di adempimento strumentale a una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi e poi alla miglior valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la migliore offerta.
Da ciò la sentenza fa discendere che «un simile obbligo è da considerarsi superfluo e sproporzionato allorché sia imposto a un concorrente che sia gestore uscente del servizio, il quale per la sua stessa peculiare condizione si trova già nelle condizioni soggettive ideali per conoscere in modo pieno le caratteristiche dei luoghi in cui svolgere la prestazione oggetto della procedura di gara».
La clausola del bando di gara (che imponeva anche la gestore uscente il sopralluogo) viene quindi considerata effettivamente illegittima sia in quanto non rispettosa dei principi di proporzionalità, adeguatezza, ragionevolezza, economicità e del divieto di aggravio del procedimento
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

APPALTI: Non è necessaria la previa comunicazione di avvio del procedimento per la revoca, come pure per il ritiro o l'annullamento dell'aggiudicazione provvisoria.
La revoca, come pure il ritiro o l'annullamento dell'aggiudicazione provvisoria, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto endoprocedimentale che si inserisce nell'ambito del procedimento di scelta del contraente come momento necessario, ma non decisivo; solamente l'aggiudicazione definitiva attribuisce, in modo stabile, il bene della vita ed è pertanto idonea ad ingenerare un legittimo affidamento in capo all'aggiudicatario, sì da imporre l'instaurazione del contraddittorio procedimentale (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 26.07.2018 n. 1220 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza ha chiarito che la possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto che imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento.
Il presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è, quindi, la necessità di intervenire urgentemente con misure eccezionali di carattere “provvisorio” e a condizione della “temporaneità dei loro effetti”.
---------------

8. Ciò premesso, sono fondati e assorbenti il secondo e il terzo motivo di ricorso, nei sensi e nei limiti qui di seguito precisati.
8.1. Il provvedimento impugnato è stato adottato dal Sindaco di Trana in espressa applicazione dell’art. 50, comma 5, del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali) il quale attribuisce al Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale".
8.2. Sulla scorta di tale disposizione, la giurisprudenza ha chiarito che la possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto che imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento.
Il presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte ordinanze sindacali è, quindi, la necessità di intervenire urgentemente con misure eccezionali di carattere “provvisorio” e a condizione della “temporaneità dei loro effetti”.
8.3. Nel caso di specie, ritiene il collegio che il provvedimento impugnato sia stato adottato in assenza dei presupposti di contingibilità ed urgenza, atteso che:
   - quanto alla sussistenza di un pericolo concreto, attuale e imminente, connesso ad una emergenza sanitaria: nel provvedimento impugnato tale pericolo è menzionato in termini del tutto generici ed ipotetici, come conseguenza del tutto eventuale della circostanza, accertata sull’intero territorio comunale a seguito di non meglio precisati “accertamenti e sopralluoghi”, che gli scarichi civili di diversi fabbricati abitativi non risulterebbero allacciati alla fognatura pubblica, pur essendo a distanza inferiore a 100 metri da quest’ultima (tenuto conto che ai sensi della L.R. 13/1990 tutti gli scarichi civili devono essere collegati alla pubblica fognatura se canalizzabili in meno di 100 metri dall’apposito punto di allacciamento), con conseguente pericolo di inquinamento dei corpi idrici superficiali; si tratta, tuttavia, osserva il collegio, di un pericolo meramente ipotizzato, privo dei necessari caratteri di attualità e di concretezza, e per di più contestato nei suoi presupposti tecnici dalla parte ricorrente con l’ausilio di una perizia redatta da un proprio consulente tecnico, nella quale si afferma che il fabbricato in questione non ha scarichi diretti in corsi d’acqua superficiali, essendo dotato di un pozzo a tenuta stagna e a svuotamento periodico; circostanza, quest’ultima, non oggetto di specifica contestazione da parte dell’amministrazione resistente, e che pertanto può ritenersi acquisita in giudizio ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 64, comma 2 c.p.a.
   - quanto alla sussistenza di una situazione di natura eccezionale e imprevedibile: anche sotto questo profilo, può ritenersi pacifico tra le parti –in mancanza di specifica contestazione da parte dell’amministrazione resistente– quanto riferito dalla parte ricorrente in ordine al fatto che l’edificio di sua proprietà è dotato dello scarico autonomo in fossa sin dalla data della sua costruzione, risalente agli anni ’80, e che a far data quanto meno dal 1993, data dell’acquisto dell’immobile da parte della ricorrente, non si sono mai verificati problemi di dispersione dei liquami e di inquinamento della falda superficiale; sicché, alla data del provvedimento impugnato, non si era verificato alcun evento eccezionale e imprevedibile che potesse giustificare l’utilizzo dello strumento contingibile e urgente;
   - quanto al carattere provvisorio della misura adottata: anche sotto tale profilo colgono nel segno le censure di parte ricorrente, dal momento che la misura imposta dal Sindaco con l’atto impugnato, e cioè l’allacciamento dell’impianto fognario dell’abitazione al collettore fognario comunale, ha carattere tendenzialmente definitivo, e non meramente contingente;
   - così come colgono nel segno le censure di parte ricorrente in ordine all’inesistenza di una situazione non fronteggiabile con misure ordinarie, tenuto conto che la valutazione circa la necessità di allacciamento degli scarichi privati alla fognatura pubblica rientra tra gli ordinari poteri di amministrazione attiva affidati alle strutture comunali e di competenza dell’organo dirigenziale
   - infine, nel caso di specie, sembra essere mancata anche una approfondita istruttoria riferita specificamente al fabbricato di proprietà della ricorrente; l’atto impugnato si limita a richiamare genericamente l’esito di “accertamenti e sopralluoghi (eseguiti) sul territorio comunale”, ma non sembra che l’amministrazione abbia condotto alcuna specifica attività di accertamento in relazione al fabbricato di proprietà della ricorrente, il che invece costituisce presupposto essenziale per l’adozione dello strumento contingibile e urgente, tanto più alla luce delle peculiarità dello specifico contesto abitativo evidenziate dalla ricorrente nella perizia tecnica prodotta in giudizio.
8.4. Alla luce di tali considerazioni, ritiene il collegio che il ricorso sia fondato e debba essere accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
8.5. Tale annullamento, peraltro, non vincola la futura attività dell’amministrazione comunale e, in particolare, non pregiudica la facoltà dell’amministrazione di riesaminare la questione oggetto del presente giudizio né quella di imporre eventualmente alla ricorrente, all’esito di tale riesame, un nuovo obbligo di allacciamento dello scarico privato alla fognatura pubblica; tuttavia, alla stregua di quanto sopra esposto, ciò potrà avvenire solo con un provvedimento del funzionario o del dirigente dell’ufficio competente, a seguito di approfondita istruttoria riferita specificamente al fabbricato di proprietà della ricorrente, e previo avvio del relativo procedimento, consentendo in tal modo all’interessata di prospettare in sede procedimentale le ragioni tecniche e giuridiche a suo dire ostative alla realizzazione dell’allaccio, che andranno puntualmente esaminate dall’amministrazione procedente in contraddittorio con l’interessata (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.07.2018 n. 903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTfr pignorabile anche nella Pa.
Il trattamento di fine rapporto può essere pignorato tanto ad un dipendente privato che ad uno pubblico, stante «la totale equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del Tfr».

A stabilirlo la Corte di Cassazione, VI Sez. civile, con l'ordinanza 25.07.2018 n. 19708.
La Cassazione ha ribaltato il giudizio espresso dalla Corte di appello di Bari, che aveva dichiarato l'inefficacia del pignoramento, affermando «la non assoggettabilità a pignoramento di somme non ancora esigibili».
Secondo i giudici del Palazzaccio: «Il Tfr costituisce, a tutti gli effetti, un credito che il lavoratore matura già in costanza di rapporto di lavoro... Poiché i presupposti per l'assoggettabilità di un credito a pignoramento sono solamente la certezza del credito e la sua liquidità, ma non la sua esigibilità, nulla osta alla pignorabilità» della somma. Sulla base di queste affermazioni, l'ordinanza afferma che «in relazione ai lavoratori dipendenti del settore privato, la questione non si pone in termini diversi per i dipendenti pubblici».
Infatti «l'originario regime di impignorabilità del trattemento di fine servizio è stato dichiarato costituzionalmente legittimo» da precedenti sentenze della stessa Corte.
Quindi «le quote accantonate del Tfr, tanto che siano trattenute presso l'azienda quanto che siano versate al fondo di tesoreria dell'Inps o conferite in un fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili
».
«Tale principio», continua l'ordinanza, «valevole per i lavoratori subordinati del settore privato, si estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento di fine rapporto o di fine servizio».
Spiegato ciò, la Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte di appello di Bari
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
Questa Corte ha già chiarito che
le quote accantonate del trattamento di fine rapporto sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell'art. 547 cod. proc. civ. (Sez. L, Sentenza n. 1049 del 03/02/1998, Rv. 512156).
Tale principio va tenuto fermo pur dopo la modifica della disciplina del trattamento di fine rapporto, che prevede, per le aziende con almeno 50 dipendenti, il versamento degli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto sul Fondo Tesoreria dello Stato costituito presso l'I.N.P.S. Infatti, pur nel nuovo e più composito panorama normativo (che prevede altresì la possibilità per il lavoratore di optare per un sistema di previdenza complementare), resta fermo il fatto che il trattamento di fine rapporto costituisce, a tutti gli effetti, un credito che il lavoratore matura già in costanza di rapporto di lavoro, sebbene la sua esigibilità sia subordinata al momento della cessazione del rapporto stesso.
Poiché, come attestato anche dall'art. 553, commi primo e secondo, cod. proc. civ., i presupposti per l'assoggettabilità di un credito a pignoramento sono solamente la certezza del credito e la sua liquidità (o liquidabilità in base a parametri oggettivi), ma non la sua esigibilità, nulla osta alla pignorabilità del trattamento di fine rapporto, fermo restando che l'ordinanza di assegnazione non potrà essere eseguita prima che maturino le condizioni per il pagamento.
Infatti, poiché il terzo pignorato viene giudizialmente ceduto al creditore procedente, egli potrà opporre a quest'ultimo tutte le eccezioni che poteva opporre al proprio creditore originario (ossia al debitore esecutato), ivi inclusa la non esigibilità delle somme.
Il problema della pignorabilità del t.f.r., dunque, si colloca semmai sul piano soggettivo, poiché il soggetto che erogherà il trattamento potrebbe essere diverso dal datore di lavoro.
Tanto chiarito, in relazione ai lavoratori dipendenti del settore privato, la questione non si pone in termini diversi per i dipendenti pubblici. Infatti, l'originario regime di impignorabilità del trattamento di fine servizio è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con le sentenze della Corte costituzionale n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997.
In particolare, risulta inappropriato il richiamo contenuto nella sentenza impugnata all'art. 21 del d.P.R. 29.12.1973, n. 1032 (Testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti dello Stato).
La Corte d'appello afferma che le somme dovute alla Ca. a titolo di trattamento di fine rapporto non sarebbero pignorabili, in forza del disposto del citato art. 21, che ne limita la sequestrabilità e pignorabilità al solo caso di risarcimento del danno eventualmente causato dal dipendente all'amministrazione.
In realtà, il dettato normativo deve ritenersi superato per effetto della già menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 99 del 1993, che, intervenendo sull'art. 2 del d.P.R. 05.01.1950, n. 180 (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni), ha esteso, anche con riferimento al trattamento di fine rapporto, ai dipendenti pubblici il regime di pignorabilità -meno favorevole- previsto per i lavoratori privati dall'art. 545 cod. proc. civ.
Successivamente, il Giudice delle leggi è tornato sul tema con la sentenza n. 225 del 1997, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 21 del d.P.R n. 1032/1973 nella parte in cui prevedeva, per i dipendenti dello Stato, la sequestrabilità o la pignorabilità delle indennità di fine rapporto di lavoro, anche per i crediti da danno erariale, senza osservare i limiti stabiliti dall'art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile.
Con tale pronuncia, la Corte costituzionale ha inteso dichiaratamente completare, anche in relazione ai crediti da danno erariale, il percorso di totale equiparazione del regime di pignorabilità (e sequestrabilità) degli emolumenti (compreso il t.f.r.) dei dipendenti pubblici e privati. Nella sentenza si legge: «Occupandosi del regime giuridico dell'indennità di fine rapporto erogata ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (d.P.R. n. 180 del 1950), questa Corte è intervenuta, con la sentenza n. 99 del 1993, sul trattamento loro riservato, e ha esteso la sequestrabilità o pignorabilità per ogni credito, negli stessi limiti stabiliti dall'art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile. Ciò per l'ingiustificata disparità fra i dipendenti pubblici, fino ad allora privilegiati, e quelli del comparto privato che erano sottoposti alla soggezione, sebbene limitata, del potere legalmente esercitato dai creditori ordinari. Disparità non più tollerabile, secondo tale pronuncia, per la progressiva eliminazione delle differenze in materia, quale sviluppo della tendenza a omogeneizzare i due settori».
Dunque, alla luce dell'interpretazione fornita dalla stessa Corte costituzionale, non residua alcun dubbio sul fatto che la sentenza n. 99 del 1993, pur intervenendo sull'art. 2 del d.P.R. n. 180/1950, ha implicitamente dichiarato costituzionalmente illegittimo anche l'art. 21 del d.P.R n. 1032/1973, il cui dettato era perfettamente compreso nell'ambito applicativo dell'altra disposizione, la cui fattispecie si distingue per una maggiore ampiezza oggettiva (in quanto comprensiva non solo del t.f.r., ma anche degli stipendi e delle pensioni) e soggettiva (giacché si riferisce ai dipendenti non solo dallo Stato, bensì da tutte le pubbliche amministrazioni).
Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: "
Anche dopo la riforma del settore disposta con il decreto legislativo n. 252 del 2005, le quote accantonate del trattamento di fine rapporto, tanto che siano trattenute presso l'azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria dello Stato presso l'I.N.P.S. ovvero conferite in un fondo di previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell'art. 547 cod. proc. civ. Tale principio, valevole per i lavoratori subordinati del settore privato, si estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento di fine rapporto o di fine servizio susseguente alle sentenze della Corte costituzionale n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997".

EDILIZIA PRIVATAIl comune può vietare le tende.
Il comune può vietare ad una gelateria di installare una tenda solare retrattile troppo ingombrante. Specialmente se l'esercizio commerciale è posizionato in prossimità di un incrocio stretto e molto trafficato.

Lo ha chiarito il TAR Toscana, Sez. II, con la sentenza 25.07.2018 n. 1074.
Un esercente ha richiesto al comune l'autorizzazione per l'occupazione di suolo pubblico con una tenda solare retrattile da posizionare sulla vetrina della gelateria. Contro il conseguente diniego l'interessato ha proposto censure al collegio ma senza successo.
Il sopralluogo della polizia municipale ha evidenziato che la proiezione della tenda andrebbe ad interferire con l'incrocio stradale creando pericolo per i pedoni e gli utenti stradali. In pratica già lo spazio per la circolazione è molto ridotto in prossimità dell'esercizio commerciale. Con il posizionamento della tenda solare avremmo ulteriori criticità rappresentati anche dai clienti indotti a stazionare in prossimità dell'incrocio, degustando il gelato.
Quindi ha fatto bene il comune a negare l'autorizzazione
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
4 – Rileva in via preliminare il Collegio che si è nella specie in presenza di un atto di diniego alla “occupazione di suolo pubblico con ripari esterni” dotato di plurimi supporti motivazionali, con l’effetto che è sufficiente la legittimità di uno dei richiamati profili motivazionali per giustificare l’adozione dell’atto, anche prescindendo dalla correttezza delle ulteriori giustificazioni.
5 – Il primo profilo motivazionale del gravato provvedimento è correlato al parere negativo espresso dalla Polizia Municipale, in esito a sopralluogo dell’area; si legge che “si esprime diniego rilevato che la proiezione della tenda andrebbe ad occupare un’area di intersezione di una strada a doppio senso di circolazione (via Ruga di Fuori) con via di Gracciano nel Corso dove è già presente una piazzola di scarico e carico, riducendo in modo considerevole lo spazio disponibile al transito dei veicoli, causando pericolo per la viabilità stradale e pedonale”.
Il suddetto profilo motivazionale è contestato con il primo motivo di gravame, che non appare invero convincente in alcuna delle sue articolazioni.
5.1 – In primo luogo non convince la censura di eccesso di potere per contraddittorietà, fondata sull’assunto che problemi di ingombro della sede stradale avrebbero semmai dovuto essere posti con riferimento all’istanza di installazione di fioriere piuttosto che in relazione alla richiesta di installazione di tenda retrattile che non incide sulla circolazione.
In relazione a tale profilo di censura il Collegio osserva che la illegittimità dell’atto qui gravato non può trarsi dal confronto con il diverso assenso a suo tempo concesso alla installazione di vasi di fiori, stante il diverso oggetto delle due procedure e quindi la non sovrapponibilità tra le due valutazioni compiute dall’Amministrazione.
L’atto qui gravato deve essere rapportato alla sua funzionalità all’interesse pubblico perseguito (sicurezza stradale), da cui trae la sua legittimità, che non può venir meno per contrasto con eventuale diversa valutazione in diverso procedimento (avente oggetto non comparabile).
Con specifico riferimento alla installazione della tenda retrattile che, ove aperta, incide con la sua proiezione sulla libera fruibilità della via pubblica in considerazione, le valutazioni compiute dall’Amministrazione non appaiono illogiche e quindi non risultano sindacabili in sede giurisdizionale, con valutazioni sostitutive della scelta tecnico-discrezionale compiuta dai competenti organi comunali.
Nella relazione della Polizia Municipale del 18.05.2018 si esplicita più diffusamente il contenuto del parere negativo, evidenziando la possibile “riduzione della visibilità in una intersezione che è strettissima”, potendone scaturire “situazioni di pericolo per pedoni e veicoli”, anche in relazione alla circostanza che la installazione della tenda “induce spontaneamente i pedoni e gli stessi clienti a stazionare davanti all’esercizio” (si consideri che l’esercizio stesso non ha concessione per occupazione dell’area pubblica dinanzi alla gelateria e che la tenda serve solo per evitare la rifrazione solare all’interno del negozio).
La censura di eccesso di potere risulta quindi infondata.

EDILIZIA PRIVATAIl dissuasore fai-da-te non può restare sulla strada.
Il comune deve ordinare la rimozione urgente degli eventuali impedimenti posizionati dal privato per limitare la circolazione davanti a casa. In particolare se si tratta di tubolari di ferro sporgenti qualche centimetro sulla sede stradale.

Lo ha chiarito il TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la sentenza 24.07.2018 n. 4930.
Un cittadino esasperato per il pericolo causato dal transito dei veicoli davanti alla sua abitazione posizionata in prossimità di una strettoia ha deciso di posizionare dei dissuasori artigianali, ovvero dei tubolari di ferro sporgenti qualche centimetro dal muro di casa. Contro questa misura singolare e creativa il comune ha reagito con una ordinanza urgente di rimozione.
E il privato ha presentato censure al collegio ma senza successo. È evidente che la regolazione del traffico veicolare compete al comune, specifica il tribunale amministrativo. Anche se il comune ha rilasciato un generico parere sulle difficoltà che derivano dalla circolazione in una sede stradale molto stretta non compete certo al privato installare dei dissuasori. E in particolare strumenti pericolosi come posso essere dei tubolari di ferro
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2018).
---------------
1. - Mi.Ru., proprietaria dell’immobile sito in via ..., n. 23/A del Comune di Massa Lubrense, ha impugnato l’ordinanza n. 77 prot. 11454 del 03.05.2016, con cui l’ente locale ha disposto la rimozione, ad horas e comunque entro due giorni, dei tubolari in ferro, in funzione di dissuasori, collocati sul muro di confine dalla sede stradale.
Ha premesso che i n. 6 tubolari, di 6/7 cm di sporgenza verso la sede stradale e posti ad altezza media di cm 35, sono stati collocati previa acquisizione del parere favorevole del comandante della Polizia Municipale prot. 6459 del 09.03.2016 e prot. n. 865 del 09.03.2016, assoggettato alla condizione di assicurare il transito in sicurezza dei veicoli di larghezza massima di mt. 1,30.
...
5. - Il provvedimento gravato si inserisce nell’ambito di una vicenda caratterizzata dall’emissione da parte della civica amministrazione di una precedente ordinanza, n. 241 del 31.12.2015, volta anch’essa alla rimozione di n. 6 tubolari installati sul muro di confine dell’immobile di proprietà della ricorrente, eseguita dalla sig.ra Ru..
5.1. - L’ordinanza n. 77/2016, impugnata con il ricorso in esame, si fonda sulla comunicazione prot. 11117 del 22.04.2016 del Comando della Polizia Municipale che, in seguito a sopralluogo, ha riscontrato nuovamente la presenza dei tubolari in ferro, identici per numero e dimensioni a quelli rimossi.
5.2. - La ricorrente si duole dell’omesso riferimento, in quest’ultimo provvedimento, ad un elemento sopravvenuto ritenuto dirimente: il parere del comandante della Polizia Municipale prot. 6459, PM. 865, del 09.03.2016.
Nel suddetto atto si esprime parere favorevole all’installazione dei dissuasori sulla proprietà della sig.ra Ru., a condizione che venga rispettata la possibilità di transito in sicurezza per i veicoli di larghezza massima di mt. 1,30.
5.3. - Dalla perizia di parte depositata dalla ricorrente si desume che:
   - in data 07.05.2016 il personale del Comune ha provveduto alla rimozione forzata dei tubolari contestati;
   - nella via in questione è presente apposita segnaletica stradale volta ad interdire il passaggio ai veicoli con larghezza superiore ai mt. 1,30;
   - nel tratto interessato dall’apposizione dei tubolari, la strada presenta una larghezza media di mt. 1,48/1,55.
5.4. - Il Comune nel provvedimento impugnato ha espressamente affermato che “le esigue dimensioni in larghezza della strada in questione non permettono alcun tipo di ulteriore restringimento, senza pregiudizio della già limitata e difficile percorribilità e fruibilità veicolare e pedonale della strada stessa”.
6. – Dalla ricostruzione della vicenda si desume che la ricorrente non ha ottenuto alcun titolo abilitativo per poter procedere alla nuova apposizione dei dissuasori e che l’amministrazione, nella valutazione dell’interferenza dei tubolari con la fruibilità della via pubblica, ha tenuto conto sia della circolazione veicolare che di quella pedonale, ritenendo l’interesse all’apposizione dei suddetti manufatti recessivo rispetto all’esigenza di tutela della pubblica incolumità e della sicurezza del relativo transito.
Su tali profili nulla rileva la nota del Comando di Polizia Municipale che, peraltro, è indirizzata solo alla ricorrente ed è antecedente al sopralluogo effettuato in data 22.04.2016 dal medesimo Comando.
In essa si fa unicamente riferimento alla necessità di assicurare il transito in sicurezza dei veicoli di larghezza di mt. 1,30, mentre nulla si rileva circa le misure idonee a garantire le esigenze di sicurezza della circolazione veicolare e pedonale. Non si rinviene alcun riferimento alle caratteristiche dei tubolari e alle relative modalità di interferenza di questi ultimi con le condizioni di circolazione nel relativo tratto viario che, come risulta anche dai rilievi fotografici in atti risulta particolarmente stretto, attesa la presenza di muri di confine su entrambi i lati.
Tale nota, inoltre, risulta conforme a quanto già segnalato sulla pubblica via circa il divieto di transito per veicoli di larghezza superiore a mt. 1,30.
In proposito giova rilevare che attiene ad un diverso profilo l’obbligo di rispetto di quest’ultimo divieto, da assicurare attraverso le modalità ritenute più utili e opportune da parte della pubblica amministrazione, ivi compresa l’adozione di sanzioni sul piano amministrativo avverso le condotte contrarie al Codice della strada, al fine di tutelare, oltre la pubblica incolumità e la circolazione sicura, anche la proprietà privata della ricorrente.
7. - Deve, pertanto, ritenersi che l’operato dell’amministrazione risulta esente dai dedotti vizi e che il provvedimento gravato si configuri come atto dovuto, adottato nell’esercizio delle competenze proprie del Comune, tanto che anche le violazioni procedimentali (sulla cui sussistenza è lecito dubitare essendo la vicenda caratterizzata dall’adozione di plurimi atti pregressi, noti alla ricorrente) come quelle di cui agli articoli 7 della legge n. 241/1990, in conformità al modello legale di cui all’articolo 21-octies della legge n. 241/1990, dequotano a mere irregolarità non invalidanti.
8. - Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere respinto, risultando irrilevante ogni approfondimento sul Regolamento per la tassa di occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui alla D.G.C. n. 64 del 15.07.1994.

APPALTIGare, la sanzione non è automatica. Se l'impresa omette la condanna.
L'iscrizione nel casellario informatico da parte dell'Anac a seguito della segnalazione di una stazione appaltante per omessa dichiarazione di una sentenza rilevante sotto il profilo della moralità professionale, non è mai automatica, ma presuppone una autonoma attività valutativa.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.07.2018 n. 4427 per una vicenda riguardante una procedura di appalto in cui era stata disposta l'esclusione di un concorrente per l'omessa denuncia di una sentenza penale rilevante sotto il profilo della moralità professionale.
L'esclusione (disposta in vigenza del codice dei 2006) era scattata per lo stesso motivo oggi previsto dall'articolo 80 del decreto 50/2016, era quindi derivata dalle omissioni dichiarative che, a loro volta, avevano avuto per conseguenza la segnalazione all'Anac da parte della stazione appaltante.
L'Anac aveva dato luogo al procedimento sanzionatorio e all'iscrizione sul casellario informatico dell'impresa esclusa. I giudici hanno precisato che la legge non prevede un automatismo nell'esercizio dei poteri dell'Anac, tale per cui questa, «ricevuta la segnalazione, debba sempre e comunque procedere all'irrogazione di sanzioni, soprattutto se di natura reale ovverosia inibitorie dell'attività di impresa».
Viceversa, ha detto il consiglio di stato «come del resto nello stato di diritto è proprio di ogni procedimento autoritativo-restrittivo, occorre un'autonoma e motivata attività valutativa, di ordine tecnico-discrezionale che, sulla base delle caratteristiche del fatto come accertato in sede penale in rapporto alla mancata sua esternazione in sede di gara, stimi se ciò debba comportare verso ogni pubblica amministrazione appaltante l'inaffidabilità morale dell'impresa».
Su questa stima l'Anac dovrà poi stabilire la misura della sanzione e l'iscrizione sul casellario, in considerazione della gravità e della rilevanza dei fatti che hanno distinto la falsa dichiarazione. L'Autorità non può quindi limitarsi a adottare le misure comunque in tutti i casi di omissioni, quasi in via automatica e indipendentemente da un apprezzamento in concreto in riferimento a quelle finalità
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura strettamente vincolata, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
E’, quindi, legittima l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva che non sia stata preceduta da siffatta comunicazione “atteso che, da un lato, l’obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e che, dall’altro, ai sensi dell’art. 21–octies, comma 2, L. n. 241/1990, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
---------------

Quanto alla dedotta violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, si deve ribadire che gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura strettamente vincolata, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
E’, quindi, legittima l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva che non sia stata preceduta da siffatta comunicazione “atteso che, da un lato, l’obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e che, dall’altro, ai sensi dell’art. 21–octies, comma 2, L. n. 241/1990, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non comporta conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 01.02.2018, n. 708; nello stesso senso, ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 23.01.2018, n. 437; id., 16.02.2017, n. 694; TAR Umbria, 02.01.2017, n. 3; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 07.04.2016, n. 913; TAR Calabria, Reggio Calabria, 13 gennaio 2016, n. 6).
In conclusione il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 23.07.2018 n. 756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO - VARI: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Prelievo di acqua pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale (fontana pubblica) - Configurabilità del furto aggravato o dell'illecito amministrativo - Legge Galli n. 36/1994 - Art. 17 R.D. n. 1775/1933 - Art. 23 D.lgs. n. 152/1999 - Art. 96, c. 4, D.lgs. n. 152/2006.
In tema di tutela delle acque, se la condotta del soggetto agente si sostanzia nell'impossessamento di acque destinate alla pubblica fruizione in misura eccessiva e con modalità diverse da quelle stabilite dall'ente gestore (senza che ciò comporti un mutamento della destinazione impressa al bene e la realizzazione di una vera e propria utenza abusiva), essa può integrare, per principio di specialità, gli estremi dell'illecito amministrativo e non quelli del delitto di furto.
Ne consegue che:
   a) ove si tratti di acque sotterranee o superficiali, cui vanno assimilate, ex art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238 del 1999 le acque "raccolte in invasi o cisterne", l'acqua è da qualificarsi pubblica, in quanto appartenente al demanio, sicché l'attingimento abusivo integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 17 R.D. n. 1775 del 1933;
   b) ove si tratti, invece, di acque convogliate in acquedotti, l'attingimento abusivo integra il delitto di furto.
Mentre, l'art. 17 del T.U. sulle acque dispone che, ad eccezione delle acque piovane e dei casi previsti dall'art. 93 (prelievo per uso domestico), è vietato derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorità competente. La violazione di tale divieto comporta l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 3.000 a 30.000 euro.
Ne consegue che tale disposizione e quella di cui all'art. 624 cod. pen., che incrimina il furto, realizzano un'ipotesi di concorso apparente di norme: invero le due fattispecie astratte sono tra loro in rapporto di omogeneità e non già di eterogeneità in quanto regolano la stessa materia (ossia, l'impossessamento e la sottrazione dì un bene altrui per proprio vantaggio), essendo quella in tema di acque specifica rispetto a quella codicistica, specialità rappresentata dall'oggetto dell'azione (l'acqua pubblica) e dal dolo specifico (dovendosi individuare il profitto perseguito nella finalità industriale) (Sez. 5, n. 26877 del 05/05/2004, Modaffari).
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali - Giurisprudenza - C. Cost., sentenza n. 273/2010.
L'impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne, integri esclusivamente l'illecito amministrativo di cui all'art. 23 del d.lgs. 11.05.1999, n. 152, e non anche il delitto di furto (Sez. 2, n. 17580 del 10/04/2013, Caramazza; Sez. 4, n. 20404 del 03/03/2009, Dolce; Sez. 5, n. 25548 del 07/03/2007, Lancìaru), atteso che, per espressa previsione dell'art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238/1999 (Regolamento recante norme per l'attuazione di talune disposizioni della L. 05.01.1994, n. 36, in materia di risorse idriche), tali beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico.
La corretta esegesi della normativa in materia di acque rende palese che le "acque pubbliche", a cui si riferisce l'art. 17 del R.D. 1755 del 1933, come modificato dal d.lgs. n. 152/1999, sono quelle sotterranee e superficiali, messe a disposizione dalla natura, a cui gli enti pubblici abilitati non abbiano ancora conferito - sulla base dei poteri ad essi conferiti dalla normativa vigente una destinazione particolare (Sez. 5, 53984 del 26/10/2017, Amoroso).
La scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è manifestamente irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell'accesso ad un bene che appartiene in principio alla collettività.
Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme che non sono poste soltanto a presidio della proprietà pubblica del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con l'entità delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso.
Se tutti hanno diritto di accedere all'acqua, l'aspetto dominicale della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla primaria esigenza di programmare e vigilare sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a danno di altri o dell'intera collettività (C. cost., sentenza n. 273 del 22.07.2010) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 20.07.2018 n. 34455 - link a
www.ambientediritto.it).

APPALTICodice appalti, dubbi di costituzionalità. L’immediata impugnazione non piace al Tar Puglia.
La richiesta di impugnare immediatamente l'ammissione degli altri concorrenti ad una gara di appalto pubblico pone un problema di costituzionalità del codice appalti.

Lo afferma il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con l'ordinanza 20.07.2018 n. 1097.
I giudici ritengono non manifestamente infondata la questione di legittimità, investendone la Corte costituzionale, dell'art. 120, comma 2-bis, primo e secondo periodo del codice di procedura amministrativa. Si tratta del comma, aggiunto dall'art. 204, comma 1, lett. b), dlgs 18.04.2018, n. 50 (il codice dei contratti pubblici), limitatamente all'onere di immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione.
La censura del tribunale pugliese riguarda la parte della disposizione che costringe l'impresa partecipante alla gara ad impugnare immediatamente le ammissioni delle altre imprese partecipanti alla stessa gara, pena altrimenti l'incorrere nella preclusione di cui al secondo periodo della disposizione. In particolare il dettato normativo stabilisce che «l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale».
In sostanza si prevede che da ciò derivi la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto avverso l'aggiudicazione definitiva da parte di chi ha omesso di impugnare tempestivamente l'ammissione dell'aggiudicataria. E a tale riguardo i giudici ritengono che la disposizione del codice appalti si ponga in contrasto con gli artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, 103, comma 1, 111, commi 1 e 2, 113, commi 1 e 2, e 117, comma 1, della Costituzione e 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Dovendo impugnare (a prescindere da ogni concreta utilità) le ammissioni di altri soggetti partecipanti, di fatto, dicono i giudici, l'impugnazione potrebbe rivelarsi inutile nel momento in cui la stessa impresa ricorrente dovesse venire a conoscenza in una fase successiva dell'aggiudicazione definitiva della gara in proprio favore ovvero, all'opposto, della propria collocazione in graduatoria in posizione talmente deteriore da non ritenere più utile alcuna contestazione.
I giudici rilevano che «è evidente che al momento della ammissione delle ditte in gara la posizione delle concorrenti è neutra o meglio indifferenziata in quanto solo potenzialmente lesiva».
Invece ciò cui aspira la concorrente in gara è l'aggiudicazione dell'appalto e quindi il suo interesse a contestare l'ammissione (pur illegittima) delle altre concorrenti si concretizza solo alla fine della procedura allorquando la posizione in graduatoria cristallizzata dal provvedimento di aggiudicazione definitiva determina quel grado di differenziazione idoneo a radicare l'interesse al ricorso
(articolo ItaliaOggi del 24.07.2018).

APPALTI: Accesso civico non per tutti. Tar Emilia.
Con la
sentenza 18.07.2018 n. 197, il TAR Emilia Romagna, Sez. di Parma si è occupato dell'interpretazione dell'art. 53 del dlgs n. 50/2016 quale possibile caso di esclusione della disciplina dell'accesso civico.
Secondo il collegio
il dlgs n. 33/2013 è cristallino nello stabilire che il diritto di accesso civico generalizzato «è escluso» nei casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. Invero, l'art. 53 del dlgs n. 50 del 2016 detta una disciplina sull'accesso in parte derogatoria rispetto alle ordinarie regole.
In tale disciplina speciale deve essere ricompresa anche la premessa, secondo cui il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è regolamentato dagli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990. Vi è dunque una precisa norma di legge che rimanda espressamente, derogandola parzialmente, alla disciplina dell'accesso «ordinario». Gli atti di tali procedure sono formati all'interno di una disciplina speciale e a sé stante: un complesso normativo, espressione di precise direttive europee, volto alla massima tutela di concorrenza e trasparenza negli affidamenti pubblici.
È dunque giustificata la scelta di vietare la possibilità indiscriminata di accesso alla documentazione di gara e post-gara da parte di soggetti non qualificati. Invero, il legislatore avrebbe potuto compiere una opzione differente, volta cioè ad estendere la possibilità di controllo generalizzato anche su documenti «spia» di una deviazione dai fini istituzionali, ma tale scelta, proprio per la forte conflittualità degli interessi coinvolti e per la specialità del campo in cui opera, avrebbe dovuto essere ineluttabilmente espressa, precisa ed inequivocabile.
Residua dunque nell'attuale sistema dei contratti pubblici una norma (l'art. 53, comma 1, del dlgs n. 50 del 2016) che restringe il campo di applicazione del diritto di accesso agli atti richiesti dal ricorrente, alle norme sul diritto di accesso ordinario di cui alla legge n. 241/1990
(articolo ItaliaOggi del 03.08.2018).

APPALTI: Riparto dei requisiti per partecipare a procedura di gara tra imprese facenti parte di raggruppamento.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – requisiti di qualificazione – In capo all’intero raggruppamento – Sufficienza – Soccorso istruttorio – Applicabilità.
Con il nuovo Codice dei contratti nel caso di concorrenti che partecipano alla gara in raggruppamento temporaneo di imprese si privilegia il dato sostanziale costituito dall’effettivo possesso dei requisiti di qualificazione da parte dell’intero raggruppamento, fermo restando che l’esecuzione dovrà poi essere ripartita tra le imprese raggruppate nei limiti della qualificazione posseduta da ciascuna di esse; tale esigenza ben può essere soddisfatta con l’applicazione del soccorso istruttorio (1).
---------------
   (1) Ha chiarito il Tar che non può essere pronunciata l’esclusione laddove la qualificazione necessaria all’esecuzione del lavoro (come del servizio o della fornitura) sia posseduta dall’intero raggruppamento ma erroneamente ripartita tra le imprese raggruppate: in tal caso la stazione appaltante deve assegnare un termine al concorrente per correggere la dichiarazione circa la suddivisione delle quote di esecuzione al fine di riportarla nei limiti posseduti da ciascuna impresa raggruppata.
La Sezione ha ricordato che sussistono oscillazioni giurisprudenziali in tema di estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio e, in particolare, circa la sua applicabilità al caso che rileva nella presente sede. Si ritiene tuttavia che non vi siano elementi in contrario che possano essere desunti dalla trama ordinamentale.
Non osta a tale conclusione la disposizione di cui all’art. 48, comma 4, d.lgs. 50 del 2016 che, nel testo risultante dopo la novellazione ad opera dell'articolo 32, comma 1, lettera b), d.lgs. 19.04.2017, n. 56, statuisce che “nel caso di lavori, forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le categorie di lavori o le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati” ma non vieta l’applicazione del soccorso istruttorio a tale tipologia di dichiarazione. Il comma 6 della stessa disposizione afferma che “nel caso di lavori, per i raggruppamenti temporanei di tipo verticale, i requisiti di cui all'art.84, sempre che siano frazionabili, devono essere posseduti dal mandatario per i lavori della categoria prevalente e per il relativo importo; per i lavori scorporati ciascun mandante deve possedere i requisiti previsti per l'importo della categoria dei lavori che intende assumere e nella misura indicata per il concorrente singolo” e con ciò statuisce il principio secondo il quale ogni impresa raggruppata deve essere qualificata per la quota di lavori che assume.
Questo principio non è in contestazione; si afferma solo che è venuto meno il principio della necessaria corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione quale requisito di ammissione alla procedura, permanendo solo quello (incontestabile) della necessaria qualificazione sulle parte di lavorazioni (o servizi o forniture) che l’impresa raggruppata assume (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.07.2018 n. 1040 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Con primo motivo il consorzio ricorrente contesta la mancata corrispondenza tra quote di partecipazione al r.t.i. e riparto delle quote di esecuzione tra le imprese raggruppate, con riferimento a entrambi i raggruppamenti primo e secondo classificato nella graduatoria finale della procedura.
Il motivo è infondato.
E’ pacifica e incontestata la circostanza che i raggruppamenti controinteressati, ciascuno complessivamente considerato, possiedono i requisiti per eseguire l’intero importo dei lavori; l’oggetto del contendere riguarda la ripartizione di questi tra le imprese raggruppate in misura asseritamente incoerente con la qualificazione posseduta da alcune di esse.
Con riferimento, in particolare, alla posizione del raggruppamento secondo classificato, dalla lettura della dichiarazione di impegno a costituire un’associazione temporanea di imprese presentata alla stazione appaltante si rileva che la mandante Co. avrebbe avuto una percentuale di partecipazione, nella categoria OS34, pari a € 3.098.400,00. Tale importo corrisponde alla sua qualificazione di € 2.582.000,00 in tale categoria, aumentata legittimamente di un quinto ai sensi dell’art. 61, comma 2, d.P.R. n. 207/2010, normativa ancora applicabile alla fattispecie in esame.
È vero che nella stessa dichiarazione è stata indicata una percentuale di partecipazione del 26,96% che corrisponde ad un importo superiore a quello dichiarato ma l’errore, come deduce la resistente in memoria, può ritenersi cagionato dall’arrotondamento dei decimali: l’incidenza percentuale della partecipazione dell’impresa di cui si tratta è infatti pari al 26,9591% e questa cifra, nella compilazione della dichiarazione, può facilmente essere divenuta 26,96%.
Ebbene nel contrasto tra i dati di un medesimo documento questo, in base al principio di conservazione degli atti, deve essere interpretato nel senso che porti ad una sua salvezza; tale interpretazione risulta preferibile anche alla luce del principio di buona fede in quanto la spiegazione della discrasia tra importo e percentuale di partecipazione al raggruppamento dichiarati che è stata fornita dalla resistente appare plausibile.
Più in generale, e con riferimento anche alla posizione del primo classificato, deve rilevarsi che
il principio di necessaria corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione ai raggruppamenti di imprese nelle gare per l’affidamento di contratti pubblici è già venuto meno, per gli appalti di forniture e servizi, con le modifiche all' art. 37, comma 13, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, apportate dal d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito in l. 07.08.2012, n. 135. Successivamente è stato interamente abrogato il comma 13 del medesimo articolo 37, d.lgs. n. 163/2006, ad opera del d.l. n. 28.03.2014, n. 47 convertito in l. 23.05.2014, n. 80, determinandosi così la caduta di tale requisito anche per gli appalti di lavori.
Tale principio non è stato reintrodotto nel nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, né per gli appalti di servizi e forniture né per quelli di lavori, e tale omissione non può che essere valutata come indice della sua volontà legislativa di privilegiare il dato sostanziale costituito dall’effettivo possesso dei requisiti di qualificazione da parte dell’intero raggruppamento.

La qualificazione delle imprese che partecipano alle gare per l’affidamento di contratti pubblici è necessaria per garantire la stazione appaltante in ordine alla corretta ed integrale esecuzione del contratto affidato. Tale garanzia, nel caso di concorrenti che partecipano alla gara in raggruppamento temporaneo di imprese, può essere ritenuta operante anche laddove la qualificazione sia posseduta dall’intero raggruppamento, fermo restando che l’esecuzione dovrà poi essere ripartita tra le imprese raggruppate nei limiti della qualificazione posseduta da ciascuna di esse. Tale esigenza ben può essere soddisfatta con l’applicazione del soccorso istruttorio.
Non può quindi essere pronunciata l’esclusione laddove la qualificazione necessaria all’esecuzione del lavoro (come del servizio o della fornitura) sia posseduta dall’intero raggruppamento ma erroneamente ripartita tra le imprese raggruppate: in tal caso la stazione appaltante deve assegnare un termine al concorrente per correggere la dichiarazione circa la suddivisione delle quote di esecuzione al fine di riportarla nei limiti posseduti da ciascuna impresa raggruppata.
Nel caso di specie poi, secondo quanto dichiarato in udienza dal procuratore di Autostrade per l'Italia s.p.a., il raggruppamento tra le imprese vincitrici della gara è stato regolarmente costituito ripartendo correttamente le quote di lavori sulla base della qualificazione posseduta da ciascuna di esse.
Il Collegio è conscio delle oscillazioni giurisprudenziali in tema di estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio e, in particolare, circa la sua applicabilità al caso che rileva nella presente sede. Si ritiene tuttavia che non vi siano elementi in contrario che possano essere desunti dalla trama ordinamentale.
Non osta alla conclusione sopra riportata la disposizione di cui all’art. 48, comma 4, d.lgs. 50/2016 ripetutamente invocata dal ricorrente. Questa, nel testo risultante dopo la novellazione ad opera dell'articolo 32, comma 1, lettera b), d.lgs. 19.04.2017, n. 56, statuisce che “nel caso di lavori, forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le categorie di lavori o le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati” ma non vieta l’applicazione del soccorso istruttorio a tale tipologia di dichiarazione.
Il comma 6 della stessa disposizione afferma che “nel caso di lavori, per i raggruppamenti temporanei di tipo verticale, i requisiti di cui all'articolo 84, sempre che siano frazionabili, devono essere posseduti dal mandatario per i lavori della categoria prevalente e per il relativo importo; per i lavori scorporati ciascun mandante deve possedere i requisiti previsti per l'importo della categoria dei lavori che intende assumere e nella misura indicata per il concorrente singolo” e con ciò statuisce il principio secondo il quale ogni impresa raggruppata deve essere qualificata per la quota di lavori che assume.
Questo principio non è in contestazione; si afferma solo che è venuto meno il principio della necessaria corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione quale requisito di ammissione alla procedura, permanendo solo quello (incontestabile) della necessaria qualificazione sulle parte di lavorazioni (o servizi o forniture) che l’impresa raggruppata assume.

Non sembra che elementi contrari alla tesi de qua possano poi essere desunti dal disposto di cui all’articolo 83, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 che esclude l’applicazione del soccorso istruttorio ai casi di mancanza, incompletezza ed altre irregolarità essenziali “afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica” poiché la sua operatività nel caso di specie non comporta la modifica di alcuno degli elementi in base ai quali la stazione appaltante ha assegnato i punteggi ai concorrenti, e quindi non sussiste lesione del principio di parità di trattamento.
Per contro, la stazione appaltante è egualmente garantita circa la corretta esecuzione del contratto affidato mentre viene tutelato il principio di massima partecipazione alle gare, che impronta l’intera legislazione in materia di affidamento dei contratti pubblici ed impone di non comminare l’esclusione agli operatori economici che incorrono in errori formali.
Secondo una visione sostanzialistica, che innerva l’intera normativa sull’evidenza pubblica, appare sproporzionato disporre l’esclusione di un intero raggruppamento che sia in possesso dei requisiti per eseguire l’intero contratto, a causa di una errata ripartizione delle prestazioni da eseguire all’interno del raggruppamento medesimo come risultante dalla dichiarazione presentata alla stazione appaltante ai fini della partecipazione. Se pure tale dichiarazione, con la quale viene reso noto il riparto delle prestazioni tra le imprese raggruppate, non costituisce una dichiarazione di scienza bensì una dichiarazione negoziale, tuttavia la sua modificazione e riconduzione a norma non viola la parità di trattamento tra i concorrenti.
Nella ricerca di un punto di equilibrio tra quest’ultimo principio e quello di massima partecipazione alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici, sembra legittimo ammettere che il raggruppamento che sia in possesso dei requisiti di qualificazione per eseguire l’intero appalto possa correggere il riparto delle quote di esecuzione tra le imprese raggruppate come dichiarato alla stazione appaltante, la quale per contro è egualmente garantita circa la corretta esecuzione del contratto affidato.

Così come la par condicio non viene violata laddove il concorrente sia ammesso a produrre, correggere od integrare alcuna delle dichiarazioni (di scienza) necessarie per l’ammissione alla gara, egualmente non viene incisa laddove il raggruppamento sia ammesso a correggere la dichiarazione (negoziale) di riparto delle quote di esecuzione tra le imprese raggruppate a condizione, beninteso, che il raggruppamento medesimo complessivamente considerato possieda i requisiti per eseguire l’intero contratto affidato. Né nell’uno né nell’altro caso vengono alterati gli elementi dai quali la stazione appaltante desume la convenienza economica e la qualità delle offerte presentate in gara, elementi i quali rappresentano il “nocciolo duro” della par condicio e che giammai potranno essere oggetto di soccorso istruttorio.
E’ stato stabilito in proposito che la disciplina della procedura di gara non deve essere concepita come una sorta di corsa ad ostacoli fra adempimenti formali imposti agli operatori economici e all'amministrazione aggiudicatrice, ma deve mirare ad appurare, in modo efficiente, quale sia l'offerta migliore, nel rispetto delle regole di concorrenza, verificando la sussistenza dei requisiti tecnici, economici, morali e professionali dell'aggiudicatario.
L’istituto del soccorso istruttorio tende dunque ad evitare che irregolarità e inadempimenti meramente estrinseci possano pregiudicare gli operatori economici più meritevoli, anche nell'interesse del seggio di gara, che potrebbe perdere l'opportunità di selezionare il concorrente migliore, per vizi procedimentali facilmente emendabili
(C.d.S. V, 10.04.2018 n. 2180). Ne è invece esclusa l’applicazione alle mancanze, incompletezze e altre irregolarità essenziali afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica come l'indicazione di ogni singolo prezzo unitario che rappresenta un elemento non accessorio, ma essenziale dell’offerta economica per poter risolvere eventuali discordanze tra prezzo complessivo e somma dei prezzi unitari (TAR Lazio Roma I, 09.03.2018 n. 2718), né con il soccorso istruttorio la stazione appaltante può consentire di modificare o integrare il contenuto dell'offerta tecnica di gara (C.d.S. V, 03.04.2018 n. 2069).
Dalla prima giurisprudenza formatasi dopo le citate modifiche normative si ricava dunque il principio che il limite all’operatività dell’istituto sono gli elementi necessari per garantire il processo di concorrenza con l’attribuzione dei punteggi alle offerte secondo la loro meritevolezza. Questa sembra essere l’interpretazione più aderente alla ratio normativa del citato disposto di cui all’articolo 83, comma 9, d.lgs. n. 50/2016 che esclude l’applicazione del soccorso istruttorio agli elementi relativi all'offerta economica e all'offerta tecnica.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 05.07.2012, n. 26, citata dal ricorrente a sostegno delle proprie deduzioni, non è pertinente sia perché intervenuta in un caso cui non era applicabile la citata normativa (successivamente emanata) che ha modificato le disposizioni dell’evidenza pubblica con riguardo al tema che viene in rilievo in questa sede, sia perché il soggetto ricorrente, in quel caso, non era un raggruppamento di imprese bensì un consorzio.
Il primo motivo del ricorso principale deve quindi essere respinto.

APPALTI: In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta presentata nelle gare per l’affidamento dei contratti pubblici la giurisprudenza insegna che occorre tenere conto dell'attendibilità della proposta contrattuale nel suo complesso e non è necessaria una verifica puntuale, voce per voce, della stessa.
La valutazione di anomalia deve invece essere compiuta in modo globale e sintetico, riferendola all'intera offerta e non alle singole voci di costo ritenute incongrue, in modo avulso dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme.
Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in proposito dalla stazione appaltante va circoscritto ai casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni che sono riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento.
---------------
Nel caso di specie, la positiva relazione del Responsabile Unico del Procedimento appare correttamente motivata, per relationem, alle giustificazioni offerte dal vincitore le quali appaiono analiticamente formulate con riguardo ai materiali e al costo della manodopera.
Non era necessario che la relazione del Responsabile Unico del Procedimento prendesse in esame ciascun elemento dell’offerta valutata; l’accoglimento delle giustificazioni ben può essere motivato in relazione ai documenti forniti dall’aggiudicatario; è il rifiuto delle giustificazioni che deve invece essere analiticamente motivato dalla stazione appaltante.
Spetta poi al ricorrente che voglia contestare l’accettazione delle giustificazioni il compito di evidenziare e dimostrare quegli elementi di irragionevolezza ed illogicità della valutazione operata dalla stazione appaltante che la rendono poco plausibile.
---------------
2.2 Si passa ora all’esame del ricorso per motivi aggiunti, con il quale si contesta in primo luogo la valutazione positiva di congruità dell’offerta del concorrente vincitore, sottoposta a verifica in quanto risultata anomala.
In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta presentata nelle gare per l’affidamento dei contratti pubblici la giurisprudenza insegna che occorre tenere conto dell'attendibilità della proposta contrattuale nel suo complesso e non è necessaria una verifica puntuale, voce per voce, della stessa. La valutazione di anomalia deve invece essere compiuta in modo globale e sintetico, riferendola all'intera offerta e non alle singole voci di costo ritenute incongrue, in modo avulso dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme (C.d.S. III, 01.032018 n. 1278; TAR Lazio Roma I, 03.04.2018 n. 3631; Sez. III, 26.04.2018 n. 4627).
Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in proposito dalla stazione appaltante va circoscritto ai casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni che sono riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento (C.d.S. III, 10.05.2013 n. 2533).
Nel caso di specie, la positiva relazione del Responsabile Unico del Procedimento appare correttamente motivata, per relationem, alle giustificazioni offerte dal vincitore le quali appaiono analiticamente formulate con riguardo ai materiali e al costo della manodopera. Le cifre e gli elementi offerti a giustificazione dall’aggiudicatario devono ritenersi comprensivi delle migliorie offerte, con riguardo anche agli elementi dedotti nel motivo in esame quali indici della non giustificabilità dell’offerta e in particolare le strutture prefabbricate; l’impiego di tre attenuatori d’urto; la segnaletica e il costo di una squadra di tre operai con autocarro disponibile nell’intero arco giornaliero.
In riferimento, in particolare, a quest’ultimo elemento appare corretta la lettura fornita dalla stazione appaltante nelle proprie difese, secondo cui l’impegno assunto dall’aggiudicatario è quello di intervenire per la posa in opera della segnaletica di emergenza con una squadra di tre persone, senza tenerle ferme e a disposizione per l’intera durata del contratto poiché un siffatto impegno appare poco plausibile sotto un mero profilo di ragionevolezza, in base a valutazioni di comune esperienza.
Non era necessario che la relazione del Responsabile Unico del Procedimento prendesse in esame ciascun elemento dell’offerta valutata; l’accoglimento delle giustificazioni ben può essere motivato in relazione ai documenti forniti dall’aggiudicatario; è il rifiuto delle giustificazioni che deve invece essere analiticamente motivato dalla stazione appaltante (TAR Campania Napoli III, 10.02.2017 n. 831; TAR Sicilia Catania III, 15.03.2011 n. 645).
Spetta poi al ricorrente che voglia contestare l’accettazione delle giustificazioni il compito di evidenziare e dimostrare quegli elementi di irragionevolezza ed illogicità della valutazione operata dalla stazione appaltante che la rendono poco plausibile. Nel caso di specie le asserzioni del ricorrente appaiono indimostrate: è infatti plausibile che l’esame delle giustificazioni abbia ricompreso i costi derivanti dalle migliorie fornite e che la squadra dei tre operai non sia a disposizione ogni giorno di esecuzione del contratto, ma intervenga solo in caso di emergenza per la posa in opera della necessaria segnaletica.
La prima censura contenuta nel ricorso per motivi aggiunti deve quindi essere respinta con conseguente consolidamento della posizione dell’aggiudicatario, e a tanto consegue l’improcedibilità delle ulteriori censure rivolte avverso il concorrente secondo classificato in gara poiché il loro accoglimento non apporterebbe alcuna utilità al ricorrente che non diverrebbe aggiudicatario del contratto de quo.
Anche il ricorso per motivi aggiunti deve dunque essere respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.07.2018 n. 1040 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATar Sicilia: per la tettoia serve il permesso a costruire.
È necessario il permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia e non la semplice comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila). Chi si ritiene danneggiato da un'attività iniziata o realizzata per mezzo di una Cila non può promuovere un'azione di annullamento. Ma solo sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione.

È con la sentenza 16.07.2018 n. 1497 che il TAR Sicilia-Catania (Sez. I) analizza la difficile questione circa i titoli abilitativi per gli elementi di arredo degli spazi outdoor.
Il fatto in sintesi: il proprietario di un immobile aveva realizzato una tettoia nel suo cortile. Il manufatto in sé era smontabile in legno lamellare, ma prima della sua installazione era stato realizzato un basamento di cemento armato. La parte confinante, sentitasi danneggiata dall'opera, si era rivolta al comune, scoprendo che per la realizzazione della tettoia era stata depositata una Cila.
I giudici del Tar Sicilia sostengono nella sentenza in commento che, data la non precarietà della tettoia e l'invasività delle opere idriche, il proprietario avrebbe dovuto richiedere il permesso di costruire. Dal momento che l'opera sorgeva nel centro storico, la Soprintendenza avrebbe dovuto inoltre valutare la compatibilità dell'intervento con il contesto artistico circostante.
La Cila affermano i giudici, è senza dubbio un atto del privato privo di natura provvedimentale, anche tacita, come tale non immediatamente impugnabile innanzi al Tar. Nel regime di edilizia libera e di edilizia libera certificata, si legge nella sentenza, non è previsto un controllo successivo sistematico che, come accade con la Scia, si conclude con un provvedimento di carattere inibitorio.
La Cila deve essere «soltanto» conosciuta dall'amministrazione affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio. Gli interventi che rientrano nella sfera di «libertà» definita dalla predetta norma non sono, infatti, soggetti ad alcun titolo edilizio tacito o espresso
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Tettoia abusiva - Sequestro - Proprietario e custode del manufatto abusivo - Violazione dei sigilli e prosecuzione delle opere abusive - Effetti - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Controllo della motivazione - Evidente interesse al compimento delle opere abusive - Unico complessivo corpo argomentativo - Giurisprudenza.
In tema di controllo della motivazione, è validamente argomentato il giudizio di responsabilità per violazione di sigilli e connessi reati contravvenzionali edilizi a carico dell'imputato, comproprietario dell'immobile e nominato custode all'atto del sequestro, fondato sull'evidente interesse al compimento delle opere abusive, dovendosi escludere la possibilità per la Corte di cassazione di ricostruire alternativamente la vicenda (Sez. 3, n. 8570 del 14/01/2003 - dep. 21/02/2003, Privitera).
Pertanto, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013, Argentieri; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 - dep. 12/04/2012, Valerio) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.07.2018 n. 32181 - link a
www.ambientediritto.it).

TRIBUTIAree vincolate con Imu e Tasi. Le limitazioni pubbliche non incidono sull’edificabilità. Pronunce ancora contrastanti in Cassazione sull’assoggettamento alle imposte locali
Non trova pace la vexata questio della tassabilità delle aree soggette a vincoli pubblici. Le aree destinate a verde pubblico o soggette a vincoli idrogeologici non sono esonerate dal pagamento di Ici, Imu e Tasi. Questi vincoli non incidono sull'edificabilità delle aree interessate, ma solo sul loro valore di mercato, che deve essere ridotto.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 12.07.2018 n. 18429.
Continuano a permanere incertezze e dubbi interpretativi sull'assoggettamento a imposizione dei terreni qualificati edificabili dagli strumenti urbanistici, ma sottoposti a vincoli pubblici di varia natura. L'orientamento ondivago della Cassazione certamente non aiuta gli operatori, funzionari pubblici e contribuenti, a prendere una posizione univoca e, soprattutto, fa lievitare il contenzioso.
Per i giudici di legittimità, «la Ctr ha errato nel ritenere che i vincoli idrogeologici o di verde pubblico avessero “in concreto” posto nel nulla il regime di edificabilità di cui allo strumento urbanistico generale».
Nel caso in esame, secondo la Cassazione, «la edificabilità delle aree (terreni), inserite come tali nello strumento urbanistico, è rimasta (a fini tributari) anche in presenza dei vincoli pubblicistici, fatta salva la rilevanza di questi vincoli (nella specie geologici) non sull'edificabilità in sé ma sul minor valore di mercato delle aree vincolate».
Del resto se si accede alla tesi della tassabilità delle aree vincolate, che si ritiene del tutto condivisibile, è scontato che i limiti fissati per la loro edificabilità non possono non incidere sul loro valore di mercato.
I contrasti recenti all'interno della Corte. Sarebbe opportuno che della questione venissero investite le sezioni unite della Corte, per porre fine a questo balletto di pronunce tra loro contrastanti
Solo qualche mese fa la Cassazione (ordinanza 10231/2018) ha affermato un principio diverso rispetto a quello contenuto nell'ordinanza 18429. Nello specifico, ha sostenuto che le aree destinate a spazi pubblici per parchi, giochi e sport, hanno un vincolo di destinazione che impedisce ai privati di potere edificare e, pertanto, non possono essere assoggettate al pagamento delle imposte locali.
Con l'ordinanza 10231 ha testualmente precisato che deve «negarsi la natura edificabile delle aree, come quella del caso di specie, comprese in zona destinata dal Prg ad “Aree per spazi pubblici a parco, gioco e lo sport a livello comunale” in quanto tale destinazione preclude ai privati forme di trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione».
Pertanto, «ove la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico; attrezzature pubbliche ecc.), la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione».
Mentre con l'ordinanza 7849/2018 si è espressa in senso opposto, dichiarando che le aree edificabili d'interesse pubblico o destinate dal piano regolatore generale a servizi pubblici sono soggette al pagamento dell'Ici, ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, perché vanno tenuti distinti i casi in cui l'immobile è soggetto a vincoli di destinazione, da quelli in cui l'inedificabilità è assoluta. Tuttavia, in presenza di vincoli che gravano sull'area il contribuente è tenuto a pagare le imposte locali su un valore dell'immobile notevolmente ridotto.
Secondo la Cassazione, «i vincoli d'inedificabilità assoluta, stabiliti in via generale e preventiva nel piano regolatore generale, vanno tenuti distinti dai vincoli di destinazione che non fanno venire meno l'originaria natura edificabile».
Però, i vincoli hanno un'incidenza «nella determinazione del valore venale dell'immobile, da valutare in base alla maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie». Dunque, la presenza di vincoli nei piani regolatori comunali non fa venir meno il regime fiscale dei suoli edificabili, ma non si può non tenerne conto nella determinazione del loro valore venale.
Ne consegue che le imposte locali sono dovute, anche se in misura ridotta. L'edificabilità di un'area, dunque, non può essere esclusa dalla presenza di vincoli o di particolari destinazioni urbanistiche (Cassazione, sentenza 5161/2014). Questa pronuncia è in linea con l'interpretazione contenuta nell'ordinanza 18429 in commento.
Il disorientamento giurisprudenziale. Le divergenti opinioni all'interno della Corte durano da tempo, da più di un decennio. Con la sentenza 25672/2008 aveva affermato che se il piano regolatore generale del comune prevede che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di poter edificare.
L'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta dallo strumento urbanistico. Invece, con la sentenza 19131/2007 aveva stabilito che l'Ici fosse dovuta su un'area edificabile sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano precisato che l'Ici non ricollega il presupposto dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla sua attitudine a incrementare il proprio valore. Il valore dell'immobile assume rilievo solo per determinare la misura dell'imposta. L'area deve essere considerata edificabile anche se qualificata «standard» e vincolata a esproprio.
Sempre la Cassazione (ordinanza 15729/2014) ha chiarito che i vincoli urbanistici o paesaggistici non escludono che un'area possa essere qualificata edificabile. Ma l'amministrazione comunale deve verificare se i vincoli posti dal piano regionale impediscono l'edificabilità dell'area o se le limitazioni ne riducono il valore di mercato.
L'orientamento non è uniforme neppure nella giurisprudenza di merito. Per esempio, secondo la commissione tributaria regionale di Milano (sentenza 71/2013) un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici. Il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene. Ma al riguardo vi sono altre pronunce di segno contrario.
---------------
Rettificabili i valori deliberati dal comune.
La Cassazione con l'ordinanza 18429/2018 ha chiarito che per le aree vincolate i valori devono essere ridotti. Per quanto concerne i valori delle aree edificabili, va ricordato che con l'ordinanza 4969/2018 ha anche stabilito che i comuni hanno il potere di accertarli in misura superiore a quelli fissati dallo stesso ente, con delibera del consiglio comunale o della giunta, se gli stessi risultino inferiori a quelli indicati in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a conoscenza.
La ratio della norma di legge che consente ai comuni di fissare dei valori predeterminati ha la finalità di ridurre il contenzioso con i contribuenti, ma non può impedire la rettifica dei valori dichiarati che non siano in linea con quelli di mercato degli immobili
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2018).

APPALTI: Colui che partecipa ad una gara per l'assegnazione di un appalto pubblico deve segnalare qualunque fatto anche solo ipoteticamente rilevante rispetto al giudizio di affidabilità che compete alla stazione appaltante.
L'obbligo di dichiarare, da parte del partecipante ad una gara, fatti che la commissione di gara e la stazione appaltante devono valutare per stabilire o meno se si debba procedere ad esclusione ex art. 80, c. 5, lett. c), D.lgs. 50/2016 è previsto dall'art. 85 che descrive i contenuti del Documento di gara unico europeo tra i quali la dichiarazione che l'operatore economico non si trova in una delle situazioni di cui all'art. 80.
Le Linee guida nr. 6/2016 nell'ultima versione aggiornata prevedono che: "Gli operatori economici, ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento, sono tenuti a dichiarare, mediante utilizzo del modello DGUE, tutte le notizie astrattamente idonee a porre in dubbio la loro integrità o affidabilità".
E' evidente, pertanto, che colui che partecipa ad una gara per l'assegnazione di un appalto pubblico deve segnalare qualunque fatto anche solo ipoteticamente rilevante rispetto al giudizio di affidabilità che compete alla stazione appaltante e che per questo deve discriminare i fatti segnalati rilevanti da quelli che non lo, solo dovendo motivare in caso di presenza di elementi critici sia l'ammissione che l'esclusione del concorrente
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 12.07.2018 n. 575 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Il modello in house costituisce un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali.
Il modello in house costituisce un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali, alternativo rispetto all'affidamento mediante selezione pubblica; il quinto considerando della direttiva U.E. 24/2014 sugli appalti pubblici, stabilisce, infatti, sul punto che "… nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva".
Ciò è stato confermato anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha affermato che l'affidamento in house ha natura ordinaria e non eccezionale, e che la relativa decisione dell'amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l'ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.07.2018 n. 269 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIRottamazione, ok a gara. L'adesione alla sanatoria vale per l'appalto. Il Tar del Friuli Venezia Giulia lo valuta come requisito idoneo.
La rottamazione delle cartelle salva l'aggiudicazione dell'appalto. Confermata la vittoria nella gara per l'azienda che ha chiesto prima della scadenza del bando la definizione agevolata dei debiti tributari pendenti: nel momento in cui si decide l'affidamento dei lavori, infatti, l'impresa partecipante alla selezione risulta in pieno possesso dei requisiti di regolarità fiscale richiesti dal codice dei contratti pubblici per diventare partner economici delle amministrazioni. Il tutto grazie alla manovra correttiva 2017 che cita in modo esplicito la rottamazione delle cartelle come strumento per ottenere il certificato di regolarità. Anche l'eventuale procedimento penale in corso per reati tributari risulta irrilevante.

È quanto emerge dalla
sentenza 11.07.2018 n. 246, pubblicata dalla I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia.
Affidabilità finanziaria
Niente da fare per il competitor rimasto a bocca asciutta: legittima l'attribuzione all'azienda concorrente del servizio di vigilanza negli uffici giudiziari della città.
E ciò anche se la società vincitrice ha un debito col fisco di oltre 13 mila euro per ritenute d'imposte non versate che risalgono al 2013, più sanzioni, interessi e compensi del concessionario della riscossione: una somma, dunque, senz'altro superiore al tetto di 10 mila euro applicabile (l'importo di 5 mila euro è stato stabilito soltanto ad aggiudicazione avvenuta dall'articolo 1, comma 986, della legge di bilancio 2018).
Ciò che conta è la ricevuta ottenuta via Pec dall'aggiudicataria con cui l'Agenzia delle Entrate riscontra la richiesta di ottenere la definizione agevolata dei carichi tributati pendenti, benché il beneficio fiscale possa comunque venire meno se la società vincitrice non paga una delle cinque rate previste (per un totale di 1.500 euro). Va infatti verificato soltanto alla scadenza del bando il requisito dell'affidabilità finanziaria delle imprese partecipanti alla gara d'appalto.
E se la società viene estromessa dalla rottamazione la decorrenza è dalla data di esclusione dalla procedura. Nel momento in cui l'azienda presenta l'offerta poi premiata dalla commissione aggiudicatrice, dunque, non ha l'obbligo di dichiarare le posizioni debitorie sanate dalla definizione agevolata.
Punto di equilibrio
Non trova ingresso l'ulteriore censura proposta dall'azienda che ha perso la gara, secondo cui sarebbe in corso un procedimento penale per omesso versamento Iva a carico di un soggetto riconducibile alla società aggiudicataria del servizio: solo la condanna passata in giudicato può infatti influenzare la valutazione della stazione appaltante sui requisiti di affidabilità finanziaria dell'impresa.
E in ogni caso la circostanza non incide sugli obblighi dichiarativi a carico della società che partecipa alla procedura pubblica. Disattesa infine l'eccezione di legittimità costituzionale delle norme perché la disposizione consente di arrivare a un punto di equilibrio più che plausibile fra l'esigenza di incassare il gettito dei tributi da una parte e la necessità di garantire l'esercizio della libera impresa dell'altra
(articolo ItaliaOggi del 26.07.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Opere edilizie soggette a permesso di costruire - Piattaforma in cemento armato con struttura intelaiata - Trasformazione urbanistica - Permesso di costruire - Necessità - Artt. 3 e 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 - Giurisprudenza.
Sono soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U.E., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo in edificato.
Sicché, la realizzazione di una piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato (in specie di circa 60 mq) costituisce senza dubbio un'opera di trasformazione urbanistica che, in quanto tale, necessita del permesso di costruire, nella fattispecie mai conseguito (Cass. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017) Palma; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep.2015), Agostin) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2018 n. 31399 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato: occorre il permesso di costruire. Una recente sentenza della Cassazione penale chiarisce quali sono le opere di trasformazione urbanistica.
“Appare di tutta evidenza che la realizzazione di una piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato (di circa 60 mq) costituisce senza dubbio un'opera di trasformazione urbanistica che, in quanto tale, necessita del permesso di costruire”.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. III penale, nella sentenza 10.07.2018 n. 30844 (link a www.lexambiente.it).
La suprema Corte ha ricordato che “l’art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/01 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall’articolo 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al T.U..
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi del comma terzo del menzionato articolo 3 e che pertanto, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sono pertanto soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato
” (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
2. L’art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall’articolo 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al T.U.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi del comma terzo del menzionato articolo 3 e che pertanto, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sono pertanto soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep.2017), Palma, Rv. 268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741; Sez. 3, n. 6930 del 27/01/2004, Iaccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del 21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del 30/09/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf.).
3. Ciò posto,
appare di tutta evidenza che la realizzazione di di una piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato (di circa 60 mq) costituisce senza dubbio un'opera di trasformazione urbanistica che, in quanto tale, necessita del permesso di costruire, nella fattispecie mai conseguito.

APPALTI SERVIZIAppalti sotto soglia, inviti a rotazione. Per garantire PMI e micro imprese.
Per gli appalti di servizi al di sotto dei 221mila euro si applicano soltanto i principi generali e non le altre e più dettagliate disposizioni previste per le gare sopra soglia Ue.

E' quanto ha affermato il TAR Puglia-Lecce, Sez. I, con la sentenza 05.07.2018 n. 1104 in merito all'affidamento di appalti di servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo europea.
La disciplina della materia è contenuta nell'articolo 36, comma 5 del decreto 50/2016 che per questo tipo di appalti (servizi) di valore inferiore a 221mila euro prescrive «il rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese».
Il richiamo è alla necessità di assicurare «la qualità delle prestazioni», lo svolgimento delle attività nel «rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza» e l'affidamento dei contratti perseguendo «i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice».
Per il Tar, fra le altre cose, quando si parla di economicità si deve fare riferimento all'uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero nell'esecuzione del contratto; per efficacia, si deve intendere la congruità dei propri atti rispetto al conseguimento dello scopo e dell'interesse pubblico cui sono preordinati; la tempestività, significa non dilatare la durata del procedimento di selezione del contraente in assenza di obiettive ragioni; per correttezza si guarda ad una condotta leale ed improntata a buona fede in ogni fase.
Per quanto riguarda la libera concorrenza rileva l'effettiva contendibilità degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati, mentre la non discriminazione e parità di trattamento degli operatori economici si realizza con una valutazione equa ed imparziale dei concorrenti e con l'eliminazione di ostacoli o restrizioni nella predisposizione delle offerte e nella loro valutazione
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso non può essere accolto.
Giova premettere il quadro normativo che regola la fattispecie in esame.
L’art. 36, comma 1, del D.Lgs. 50/2016 prescrive che “L'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese. Le stazioni appaltanti possono, altresì, applicare le disposizioni di cui all'articolo 50”.
In forza dell’art. 30, comma 1, del medesimo decreto legislativo, “l'affidamento e l'esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni, ai sensi del presente codice garantisce la qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza. Nell'affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”.
Ancora, ai sensi dell’art. 4 del predetto testo normativo: “L'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”.
Da dette disposizioni normative consegue che
negli appalti di servizi sotto soglia sono applicabili soltanto i principi stabiliti agli artt. 30, comma 1, 34 e 42 —oltre al principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti— del nuovo codice dei contratti pubblici.
Si tratta, in particolare, dei seguenti principi, come enucleati anche dall'ANAC nelle sue linee guida sul punto:
   a) economicità, ossia l'uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero nell'esecuzione del contratto;
   b) efficacia, cioè la congruità dei propri atti rispetto al conseguimento dello scopo e dell'interesse pubblico cui sono preordinati;
   c) tempestività, ovvero l'esigenza di non dilatare la durata del procedimento di selezione del contraente in assenza di obiettive ragioni;
   d) correttezza, consistente in una condotta leale ed improntata a buona fede, sia nella fase di affidamento sia in quella di esecuzione;
   e) libera concorrenza, che si sostanzia nell'effettiva contendibilità degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati;
   f) non discriminazione e parità di trattamento degli operatori economici, con conseguente valutazione equa ed imparziale dei concorrenti e l'eliminazione di ostacoli o restrizioni nella predisposizione delle offerte e nella loro valutazione;
   g) trasparenza e pubblicità, che riguarda la conoscibilità delle procedure di gara, nonché l'uso di strumenti che consentano un accesso rapido e agevole alle informazioni relative alle procedure;
   h) proporzionalità, ossia l'adeguatezza e idoneità dell'azione rispetto alle finalità e all'importo dell'affidamento;
   i) sostenibilità energetica ed ambientale, che attiene alla previsione nei bandi di gara clausole e specifiche tecniche che contribuiscano al conseguimento degli obiettivi ambientali ed energetici
(ex multis: TAR Milano n. 2232/2017).
Nella fattispecie in esame, gli articoli 48 ed 83 Codice Contratti che parte ricorrente asserisce essere stati violati, non possono essere applicati, se non nei limiti in cui espressamente richiamati dalla lex specialis.
In particolare, si rileva che l’art. 48 non risulta mai menzionato né nel bando di gara né nella lettera di invito, e l’art. 83 limitatamente ai commi 4, 6 e 9.
Ancora, dalla documentazione versata in atti risulta provato che tutte le imprese costituenti il RTI aggiudicatario possedevano requisiti di fatturato ben più alti di quelli richiesti dalla Stazione appaltante; che la mandataria si è impegnata ad eseguire la prestazione in misura maggioritaria; che i requisiti di professionalità richiesti ricorrevano in capo a tutti gli operatori economici dell’ATI.
Ritiene pertanto il Collegio che siano stati rispettati i principi di cui agli articoli 4, 30, 36 del Codice Appalti, oltre alle Linee Guida Anac.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, tutti i motivi di diritto articolati dal Consorzio Navalmeccanico Tarantino sono infondati; consegue la reiezione del ricorso.

EDILIZIA PRIVATARimosso il gazebo fai-da-te.
La concessione per l'occupazione di suolo pubblico decade automaticamente se l'esercente non rispetta i limiti dimensionali e le distanze previste dal codice per il posizionamento di un manufatto sulla sede stradale. Anche se si tratta di un gazebo realizzato in gran parte a regola d'arte e nel rispetto delle indicazioni dell'ufficio tecnico comunale.

Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 04.07.2018 n. 4101.
Un comune pugliese ha disposto la decadenza dell'autorizzazione per l'occupazione permanente di suolo pubblico a causa della difformità del manufatto realizzato in tema di distanze, altezze, con scavo abusivo della sede stradale. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto censure fino ai giudici di palazzo Spada, ma senza successo.
Il comune che ha accertato la difformità del gazebo rispetto alle previsioni del codice stradale e del regolamento locale ha esercitato un potere vincolato. In buona sostanza si tratta di una ipotesi alla quale consegue automaticamente la decadenza dell'autorizzazione
(articolo ItaliaOggi del 20.07.2018).
---------------
1. Fr.Ra., titolare di autorizzazione all’occupazione di suolo pubblico per la realizzazione di un dehors a servizio del Bar ... in Bisceglie, ha impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della Puglia il provvedimento di decadenza di tale occupazione adottato dal Comune con provvedimento n. 139 del 31.08.2016.
...
6. L’appello è infondato nel merito, il che esime la Sezione dall’esame della preliminare eccezione di improcedibilità sollevata dal Comune appellato.
6.1. In primo luogo le censure addotte dall’appellante per la mancata acquisizione di una c.t.u. da parte del giudice di primo grado e per l’asserito acritico suo appiattimento sugli accertamenti svolti dagli comunali non sono favorevolmente apprezzabili, poiché dall’ampia documentazione versata in atti emerge che gli spazi di rispetto per l’area data in concessione risultavano pacificamente superati e tra l’altro anche in difformità delle prescrizioni di cui all’art. 20 d.lgs. n. 285 del 1992 (codice della strada): in particolare lo spazio di due metri richiesto dal titolo non sussisteva con tutta evidenza e specificamente riguardo all’ansa nel pubblico marciapiede, ansa funzionale alla posa dei cassonetti per i rifiuti.
Sul punto l’assunto secondo il quale i cassonetti non erano presenti ed erano stati rimossi, per cui il Comune sarebbe stato obbligato a ricostituire il marciapiede secondo le misure ordinarie, è privo di qualsiasi fondamento giuridico, né d’altra parte è stata fornita alcuna indicazione in tal senso: non è dato neppure sapere se la rimozione fosse o meno temporanea, non essendo decisivo il richiamo al mero avvio della raccolta “porta a porta”, tanto più che quello spazio avrebbe potuto essere destinato a diverse funzioni di pubblico interesse, senza poi sottacere che lo “slargo” era preesistente alla concessione in questione.
D’altra parte è anche innegabile che l’altezza del dehors abbia superato quanto previsto dal titolo: il fatto è ammesso dall’appellante, ma la giustificazione che la struttura avesse un’altezza “difforme” perché sollevata dal suolo da una sorta di bordo per l’illuminazione, non solo non è di per sé convincente, per quanto, non essendo stato, per esempio, fornita alcuna prova inconfutabile della indispensabilità di quel bordo e quindi dell’impossibilità di rispettare altrimenti l’altezza consentita, non può costituire idonea ragione per vanificare i limiti imposti dal titolo.
6.2. In secondo luogo l’appellante si duole del fatto che il tribunale avrebbe ignorato che il Comune aveva attivato altri due procedimenti di rimozione dell’autorizzazione, l’uno di revoca per difformità per la realizzazione di una serie di pannelli di vetro facilmente amovibili e poi rimossi e l’altro di decadenza per aver deciso una diversa destinazione dell’area solo pochi mesi dopo il rilascio dell’autorizzazione, rendendo così abnorme il comportamento complessivo della P.A.
Anche tale censura deve essere respinta.
In disparte ogni considerazione sulla sua autonoma rilevanza ed anche a voler ammettere che l’amministrazione abbia posto in essere vari procedimenti per reimpossessarsi dell’area in questione (attività che di per sé non può essere considerata in astratto illegittima, in carenza di puntuali e specifici riscontri di fatto), è sufficiente rilevare che i presupposti e le ragioni che giustificano il provvedimento di decadenza impugnato con il ricorso introduttivo, come in precedenza già evidenziato, legittimano in ogni caso il comportamento della P.A. ed il provvedimento impugnato.
6.3. In terzo luogo l’appellante sostiene che i pannelli contrari alle previsioni del titolo erano stati rimossi e non riposizionati, come assunto dal Comune, mentre quanto alle altre difformità, esse erano irrilevanti e tutte facilmente rimovibili e comunque non avrebbero giustificato di per sé un provvedimento di decadenza o revoca del titolo concessorio.
Anche questo motivo è infondato.
Fermo quanto già rilevato in ordine alle difformità che hanno giustificato il provvedimento impugnato, si rileva quanto ai pannelli di vetro (che sarebbero stati rimossi a seguito delle primi contestazioni) che la struttura era autorizzata al posizionamento di pannelli in vetro per l’intero perimetro con un’altezza massima di un metro, laddove nel sopralluogo di cui alla nota della polizia municipale dell’11.05.2016 gli stessi risultavano sul lato della via Sonnino “a tutta altezza”, quindi pari all’intero manufatto e nella parete pari a m. 2,45.
Tali rilievi sono stati confermati con ampio corredo fotografico e le censure in senso contrario contenute nell’atto di appello costituiscono mere asserzioni prive di qualsiasi supporto probatorio valido a contrastare gli assunti comunali.
6.4. In quarto luogo l’appellante ha reiterato censure non prese in considerazione nel primo grado di giudizio e concernenti la non comprensibilità della normativa applicata e l’oscurità sui presupposti di fatto del provvedimento, come ad esempio le difformità dell’opera.
Anche a voler prescindere da quanto fin qui rilevato, si deve osservare che la dichiarazione di decadenza dall’occupazione di suolo pubblico risulta estremamente dettagliata nell’elencare pedissequamente le difformità del manufatto rispetto a quanto concesso, difformità reiterate -ad esempio quanto ai pannelli in vetro- che giustificavano il provvedimento di decadenza anche in relazione alle previsioni del regolamento regolamento T.o.s.a.p., più volte richiamato, riproduttivo a sua volta di norma statali, la cui mancata citazione non è decisiva ai fini della pretesa illegittimità del provvedimento impugnato, risultando pleonastica e meramente formale.
7. Per le suesposte considerazioni l’appello deve dunque essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell’ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest’ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari.
---------------

2.2) È infondato anche il motivo di ricorso di cui al punto 1b).
Ancora di recente, nella sentenza n. 1337 del 12.12.2017, questa Sezione ha affermato: “L'individuazione della superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza dell’ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest’ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri immobiliari (TAR Torino, sez. I, 28.04.2016 n. 573; TAR Torino, sez. II, 10.07.2015 n. 1218)”; cfr. anche TAR Piemonte, sez. II, 21.05.2018 n. 629 (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 04.07.2018 n. 820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Rup è la figura centrale della gara d’appalto.
Il Responsabile unico del procedimento (Rup) è la figura centrale nella gestione della gara ed esso esercita tutte le competenze che non siano espressamente attribuite ad altro soggetto.
Il TAR Veneto, Sez. II, con la sentenza 27.06.2018 n. 695 chiarisce la portata applicativa dell'art. 31 del codice dei contratti pubblici e, soprattutto, delle previsioni contenute nelle linee-guida Anac n. 3, nella parte (paragrafo 5.2.) relativa all'effettuazione delle operazioni di verifica della documentazione amministrativa, con conseguente adozione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione.
Il caso preso in esame riguardava proprio un provvedimento di esclusione adottato da un dirigente della stazione appaltante che aveva indetto la gara, diverso dal Rup della stessa, ma per il quale il bando e il disciplinare non prevedevano esplicitamente tale competenza, pur riservando alla figura dirigenziale le attività di verifica della documentazione amministrativa: l'amministrazione aveva optato per tale soluzione, sfruttando la possibilità di attribuire lo svolgimento di tali attività a soggetti diversi dal Rup dettata dalle linee-guida Anac n. 3 e dal bando-tipo n. 1/2017.
Tuttavia la declinazione delle competenze non può essere generale, bensì deve individuare chiaramente i compiti svolti dai soggetti diversi dal Rup. I giudici amministrativi fanno infatti rilevare che l'art. 31, comma 3, del dlgs. n. 50/2016 stabilisce che il Rup svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti.
La giurisprudenza, nell'interpretare tale disposizione, ha stabilito che essa delinea la competenza del Rup in termini residuali, estendendola anche all'adozione dei provvedimenti di esclusione delle partecipanti alla gara, secondo un orientamento consolidato: il Tar Veneto la condivide ed evidenzia come la disposizione identifichi nel responsabile unico del procedimento il dominus della procedura di gara. Nell'analizzare il caso, i giudici amministrativi rilevano che gli atti di gara non esplicitavano in nessuna parte la competenza del dirigente ad adottare i provvedimenti di ammissione ed esclusione in luogo del Rup.
Nella sentenza essi evidenziano che l'utilizzo dell'avverbio «specificatamente» nell'art. 31, comma 3, del dlgs n. 50/2016 impone che tale attribuzione avvenga in modo specifico, dettagliato, distintamente, affinché si possa riconoscere che un compito possa e debba essere svolto da un soggetto diverso dal Rup.
Le stazioni appaltanti, pertanto, possono, sulla base delle linee-guida Anac n. 3, attribuire la gestione delle operazioni della fase di ammissione a soggetti diversi dal Rup, ma sono tenute a dettagliare le competenze in modo puntuale, comprendendo nell'elencazione l'adozione dei provvedimenti di ammissione o di esclusione dei concorrenti
(articolo ItaliaOggi del 13.07.2018).
---------------
MASSIMA
1.1. Il motivo è fondato nei termini appresso specificati.
1.2. L’art. 31, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 stabilisce che <<il RUP, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti>> (il successivo comma 4 declina in modo puntuale, poi, una serie di compiti del RUP “oltre” a quelli specificatamente previsti da altre disposizioni del codice).
1.3.
La giurisprudenza amministrativa, nell’interpretare il citato art. 31, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (il quale, peraltro, amplia la dizione normativa del previgente art. 10, comma 2, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163), ha stabilito che la disposizione richiamata delinea la competenza del responsabile unico del procedimento (RUP) in termini residuali (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.10.2017, n. 4884), competenza che si estende anche all’adozione dei provvedimenti di esclusione delle partecipanti alla gara, secondo un orientamento che il Consiglio di Stato ha definito “pacifico (cfr. Cons. Stato, sez. III, 19.06.2017, n. 2983 e giurisprudenza ivi richiamata).
Il Collegio ritiene che tali esiti giurisprudenziali -che si condividono e ai quali si intende dare continuità- ben colgano la volontà del legislatore (racchiusa nella richiamata disposizione) di identificare nel responsabile unico del procedimento il dominus della procedura di gara, in quanto titolare di tutti i compiti prescritti, salve specifiche competenze affidate ad altri soggetti. Come affermato da Cons. Stato, Comm. spec., 25.09.2017, n. 2040, anche dopo l’intervento correttivo recato dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 resta confermata <<l’assoluta centralità del ruolo del RUP nell’ambito dell’intero ciclo dell’appalto, nonché le cruciali funzioni di garanzia, di trasparenza e di efficacia dell’azione amministrativa che ne ispirano la disciplina codicistica>>.
1.4. Tali conclusioni non sono scalfite dalle previsioni della lex specialis nella vicenda contenziosa in esame.
Ed invero, il punto H – Procedura di Gara (pag. 17) del disciplinare di gara stabiliva, testualmente, che <<Il giorno 14.02.2018 alle ore 9.00 e seguenti, in seduta pubblica, presso il Settore Contratti, Appalti e Provveditorato in Via N. Tommaseo n. 60 - Padova, si procederà all’apertura della busta “A- Documentazione amministrativa”. La seduta sarà presieduta da un dirigente del Settore Contratti, Appalti e Provveditorato o suo delegato. La valutazione sostanziale sulla completezza e regolarità della documentazione amministrativa potrà svolgersi in seduta riservata>>.
Ognun vede che in nessun punto della prescrizione riportata è stata attribuita o riconosciuta al Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato la competenza ad adottare il provvedimento di esclusione dei concorrenti (e, dunque, dell’odierno ricorrente nel caso in esame), essendosi limitata la lex specialis di gara, nella parte di interesse, a stabilire tempi, modalità e luogo di apertura della busta “A- Documentazione amministrativa”, ad individuare il soggetto chiamato a “presiedere” la seduta e a precisare che la valutazione sostanziale sulla completezza e regolarità della documentazione amministrativa avrebbe potuto svolgersi in seduta riservata.
Si vuol evidenziare, in particolare, che l’utilizzo dell’avverbio “specificatamente” nell’art. 31, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 impone –affinché si possa riconoscere che un compito possa e debba essere svolto da un soggetto diverso dal RUP- che detta attribuzione avvenga “in modo specifico, dettagliato, distintamente” (e questo ragionamento è valevole anche per le previsioni racchiuse nel Regolamento di organizzazione e ordinamento della dirigenza del Comune di Padova, richiamate dalla parte resistente a sostegno delle proprie argomentazioni).
Nel caso in esame, dunque, difetta in via radicale una specifica attribuzione al Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato della competenza a determinare (le ammissioni e) le esclusioni dei partecipanti dalla gara, e tale esito ermeneutico è imposto dal canone letterale, che in relazione all’interpretazione degli atti amministrativi (ivi compresa la lex specialis di gara) è il mezzo “preminente” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.02.2018, n. 817; TAR Campania, Napoli, sez. III, 08.06.2018, n. 3884; TAR Umbria, sez. I, 15.02.2018, n. 108), essendo consentito di discostarsi dall'interpretazione letterale del testo della lex specialis solo in presenza di una sua obiettiva incertezza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 18.06.2018, n. 3715), nella fattispecie assente.
In conclusione, la dovuta prevalenza da attribuire alle espressioni letterali, se chiare (come nel caso in esame), esclude ogni ulteriore procedimento ermeneutico per rintracciare pretesi significati ulteriori e preclude ogni estensione analogica intesa ad evidenziare significati inespressi e impliciti.
Alla luce di quanto sopra detto non coglie nel segno l’eccezione frapposta tanto da parte resistente quanto dalla controinteressata secondo cui la doglianza formulata da parte ricorrente è inammissibile per omessa impugnazione della predetta disposizione della lex specialis di gara, in quanto la disposizione in questione -proprio perché il suo contenuto precettivo non implicava l’attribuzione ovvero il riconoscimento della competenza ad adottare i provvedimenti di ammissione e di esclusione in favore del Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato- non doveva essere impugnata.
Infine, sul punto, non può trovare applicazione la disciplina dettata dal regolamento per la disciplina dei contratti del Comune di Padova (i cui artt. 6, lett. d), e 12 non consentirebbero, comunque, di enucleare la competenza del Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato o suo delegato in ordine alla adozione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione in relazione alle procedure ad evidenza pubblica), atteso che, come correttamente argomentato dalla parte resistente (pag. 6 della memoria in data 13.04.2018), detto regolamento non è richiamato in alcuna parte della lex specialis.
1.5. Le conclusioni raggiunte supra, già di per sé sufficienti a ritenere fondata la censura di incompetenza, sono corroborate dalle Linee Guida n. 3, di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni» dell’ANAC (approvate dal Consiglio dell’Autorità con deliberazione n. 1096 del 26.10.2016 e aggiornate al d.lgs. 56 del 19/04/2017 con deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017), secondo le quali (punto 5.2., verifica della documentazione amministrativa da parte del RUP, richiamato dal successivo punto 8, in relazione ai compiti del RUP per gli appalti di servizi, forniture e concessioni di servizi) <<Il controllo della documentazione amministrativa è svolto dal RUP, da un seggio di gara istituito ad hoc oppure, se presente nell’organico della stazione appaltante, da un apposito ufficio/servizio a ciò deputato, sulla base delle disposizioni organizzative proprie della stazione appaltante. In ogni caso il RUP esercita una funzione di coordinamento e controllo, finalizzata ad assicurare il corretto svolgimento delle procedure e adotta le decisioni conseguenti alle valutazioni effettuate>>.
A giudizio del Collegio, le citate Linee Guida n. 3, nella parte richiamata hanno riservato alla discrezionale valutazione organizzativa delle singole stazioni appaltanti la scelta se demandare il <<controllo>> della documentazione amministrativa al RUP, ad un seggio di gara istituito ad hoc oppure, se presente nell’organico, ad un apposito ufficio/servizio a ciò deputato; tuttavia, contestualmente, le stesse Linee Guida hanno stabilito che <<in ogni caso>> (e, quindi, sia quando il controllo della documentazione amministrativa è svolto dal RUP sia quando è svolto da un seggio di gara istituito ad hoc oppure da un apposito ufficio/servizio a ciò deputato) il RUP è chiamato ad esercitare una funzione di <<coordinamento e controllo, finalizzata ad assicurare il corretto svolgimento delle procedure>> e ad adottare <<le decisioni conseguenti alle valutazioni effettuate>>.
Né appaiono persuasive, sul punto, le argomentazioni difensive sviluppate dalla parte resistente (e avallate dalla parte controinteressata) in ordine alle indicazioni provenienti dal Bando tipo ANAC n. 1/2017 del 22.12.2017, che al punto 19 (pag. 42) avrebbe valenza interpretativa autentica della clausola di cui al punto 5.2 delle Linee guida n. 3 ANAC (espressamente richiamata), da cui emergerebbe come ben possa attribuirsi la competenza ad emettere i provvedimenti di esclusione in alternativa al RUP o al seggio di gara istituito ad hoc o “all'apposito ufficio della stazione appaltante”, quest'ultimo, pertanto, pienamente competente non solo per quanto riguarda il controllo e la verifica della documentazione amministrativa, ma anche per quanto riguarda l'adozione dei conseguenti provvedimenti di esclusione o ammissione alla gara.
La tesi, si ribadisce, non è persuasiva per due ragioni: in primo luogo perché, come lealmente viene dato atto dalla stessa parte resistente, il Bando tipo ANAC n. 1/2017 è inapplicabile ratione temporis alla procedura di gara de qua; in secondo luogo, ed in via tranchant, il Collegio ritiene che l’affermata “interpretazione autentica” delle Linee guida 3 (che, è bene ricordarlo, in parte qua contengono “disposizioni integrative della fonte primaria, in materia […] di competenze di un organo amministrativo": cfr. Cons. Stato, Comm. Spec., 02.08.2016, n. 1767) non possa essere recata da un bando tipo (nella fattispecie il n. 1/2017), considerando, peraltro, che mentre il bando tipo è (motivatamente) derogabile (cfr. art. 71, ultimo periodo, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), le Linee guida vincolanti non lasciano <<poteri valutativi nella fase di attuazione alle amministrazioni e agli enti aggiudicatori, che sono obbligati a darvi concreta attuazione>> (cfr. cit. Cons. Stato, Comm. Spec., 02.08.2016, n. 1767).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 individua i soggetti destinatari dell’obbligo di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’autore della violazione in solido con il titolare del diritto di proprietà, al quale la vicenda sia ascrivibile a titolo di dolo o di colpa, nei limiti dell’esigibilità.
L’art. 192 predetto esclude dunque l’imputazione oggettiva della responsabilità, ribadendo che sia accertata quantomeno la colpa, fermo restando che le autorità amministrative hanno l’onere di ricercare ed individuare il responsabile dell’inquinamento (artt. 242 e 244 D.L. vo n. 152/2006).
Alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale prevalente, gli artt. 244, 245 e 253 del D.Lgs. 152/2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di ottenere dal soggetto responsabile interventi di riparazione, la pubblica Amministrazione competente non può imporre al proprietario non responsabile (che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica) l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica.
La giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni che, in caso di rinvenimento di rifiuti lasciati sul fondo altrui da ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo della responsabilità.
Ne consegue quale corollario:
   • l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall'abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell'elemento psicologico;
   • la necessità dell'accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo;
E', pertanto, censurabile l'operato dell'amministrazione ogni qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e/o in assenza di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari per imporre l'obbligo di rimozione dei rifiuti;
Nella stessa ottica, si è anche osservato che l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto, ma solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
---------------

  Evidenziato:
   - che il coinvolgimento del ricorrente durante il sopralluogo –compiuto dai Carabinieri del NOE e da personale del Comune di Brescia l’01/02/2018 ai fini dell’accertamento dei fatti– induce a ritenere proficuamente avviato il contraddittorio procedimentale;
   - che la dedotta contraddittorietà non pare sussistere, in quanto l’ordinanza n. 6 è rivolta al ricorrente e al conduttore (essendo stato esibito un contratto di locazione), mentre la n. 7 è indirizzata al solo Sig. -OMISSIS-, che non ha dimostrato la disponibilità del fondo in capo a soggetti terzi;
Atteso:
   - che l’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 individua i soggetti destinatari dell’obbligo di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’autore della violazione in solido con il titolare del diritto di proprietà, al quale la vicenda sia ascrivibile a titolo di dolo o di colpa, nei limiti dell’esigibilità (TAR Lombardia Milano, sez. III – 08/03/2018 n. 352);
   - che l’art. 192 predetto esclude dunque l’imputazione oggettiva della responsabilità, ribadendo che sia accertata quantomeno la colpa, fermo restando che le autorità amministrative hanno l’onere di ricercare ed individuare il responsabile dell’inquinamento (artt. 242 e 244 D.L. vo n. 152/2006);
   - che, alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale prevalente, gli artt. 244, 245 e 253 del D.Lgs. 152/2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di ottenere dal soggetto responsabile interventi di riparazione, la pubblica Amministrazione competente non può imporre al proprietario non responsabile (che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica) l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica (cfr. TAR Puglia Lecce, sez. III – 05/03/2018 n. 370, che richiama il proprio precedente 22/02/2017 n. 325 e la pronuncia del Consiglio di Stato, adunanza plenaria – 25/09/2013 n. 21);
   - che, come sottolineato da TAR Campania Napoli, sez. V – 23/05/2018 n. 3369, “la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni (cfr., ex multis, TAR Campania, Sez. I, 19.03.2004, n. 3042; Sez. V, 06.10.2008, n. 13004, 10.04.2012, n. 6438, 09.12.2014, n. 1706, 03.02.2015, n. 692, 07.06.2017, n. 3081, 06.02.2018, n. 752; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.01.2003, n. 168; Sez. V, 26.01.2012, n. 333, 28.09.2015, n. 4504) che, in caso di rinvenimento di rifiuti lasciati sul fondo altrui da ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo della responsabilità”;
Considerato:
   - che ne consegue quale corollario (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 09/05/2018 n. 2786):
      • l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall'abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell'elemento psicologico;
      • la necessità dell'accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo;
   - che i suddetti principi sono stati recepiti nella sentenza di questa Sezione 09/08/2017 n. 1011;
   - che è, pertanto, censurabile l'operato dell'amministrazione ogni qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e/o in assenza di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari per imporre l'obbligo di rimozione dei rifiuti;
   - che, nella stessa ottica, si è anche osservato che l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto, ma solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 15/12/2017 n. 5911);
Rilevato:
   - che, con riguardo ai rifiuti rinvenuti sul suolo (in particolare, veicoli, pneumatici, bi-bags con materiale plastico) l’amministrazione non ha effettuato un accertamento della condotta colposa del ricorrente, limitandosi ad addebitare al medesimo –del tutto genericamente– l’omessa vigilanza sugli edifici e sui terreni di appartenenza;
   - che il Comune non ha addotto né illustrato gli elementi concreti –anche di tipo presuntivo– che inducono ad affermare una responsabilità di tipo omissivo;
   - che, in senso contrario, il Sig. -OMISSIS- ha prodotto il verbale della querela presentata ai Carabinieri di Gambara il 07/10/2016, nella quale ha denunciato il suo conduttore -OMISSIS- in quanto autore dell’occupazione arbitraria di edifici e pertinenze non contemplate dal contratto di locazione (nella specie, una porzione di capannone, il cortile e un ulteriore fabbricato, per 250 mq.);
   - che, nella querela, il ricorrente ha dato conto dell’indebito utilizzo del fondo come deposito di materiali (vecchi macchinari) e rifiuti di vario genere;
   - che, pertanto, l’esponente si era fatto parte diligente nell’avvertire le autorità della condotta illecita assunta dal proprio conduttore, oltre ad aver agito in sede giurisdizionale a causa del mancato pagamento dei canoni di locazione periodici;
Ritenuto:
   - che, in definitiva, il ricorso è fondato sotto il profilo del deficit istruttorio e motivazionale sull’elemento soggettivo dell’illecito (dolo o colpa imputabili al proprietario), limitatamente ai rifiuti speciali e tossico-nocivi depositati sull’area;
   - che, viceversa, il ricorrente (in qualità di proprietario) resta obbligato ad attivarsi per la messa in sicurezza e/o rimozione attraverso ditta specializzata della copertura in eternit del fabbricato di proprietà (in precarie condizioni), a prescindere dalla concorrente disponibilità di un terzo;
   - che non interferisce su tale obbligo, al riguardo, l’invocato Piano regionale Amianto sul censimento e sulla mappatura dei siti coinvolti;
   - che egli, altresì, è tenuto a dare attuazione alla prescrizione che condiziona l’utilizzo dei capannoni ex allevamento avicolo previo compimento degli indispensabili interventi volti ad assicurare l’agibilità;
   - che, in proposito, è stata emanata un’ordinanza di demolizione (n. 25 del 07/09/2012) la quale è produttiva di effetti in quanto impugnata con ricorso straordinario al Capo dello Stato senza istanza di sospensiva (la causa non è ancora stata definita);
   - che, al momento, l’esecuzione del provvedimento non incontra ostacolo alcuno;
Evidenziato:
   - che, in conclusione, il gravame è parzialmente fondato e merita accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.06.2018 n. 620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare, un utile esiguo non significa offerta anomala.
In sede di gara pubblica, un utile esiguo di per sé solo non equivale a determinare una anomalia dell'offerta, sebbene costituisca un indice sintomatico e debba quindi indurre l'amministrazione procedente ad una verifica accurata dell'equilibrio complessivo dell'offerta.

Così il C.G.A.R.S. con la sentenza 25.06.2018 n. 368.
La società aggiudicataria impugnava la sentenza del Tar Catania che aveva deciso di annullare, per via di alcune censure relative ai costi indicati nell'offerta, l'aggiudicazione di un appalto pubblico avente ad oggetto una molteplicità di servizi di supporto ad una amministrazione comunale. Il Cga incaricava l'ispettorato regionale del lavoro di accertare se, tenuto conto di ribasso d'asta, oggetto dell'appalto e prestazioni richieste, l'offerta fosse adeguata e sufficiente riguardo al costo del lavoro e al rispetto dei minimi salariali.
Sulla scorta della verificazione effettuata, e condividendone le valutazioni il collegio riteneva inopportuna l'applicazione indiscriminata da parte dell'aggiudicataria del Ccnl multiservizi anche ai servizi cimiteriali e di autista per il trasporto pubblico locale, poiché relativi al compimento di attività diverse e più complesse rispetto alle altre oggetto di appalto. E infatti, nonostante la scelta del contratto collettivo da applicare rientri nelle prerogative dell'imprenditore, precisa la sentenza, detto potere non può travalicare il limite della coerenza del contratto collettivo scelto rispetto all'oggetto dell'appalto.
L'applicazione di un Ccnl coerente con l'oggetto dell'appalto, però, comportando l'applicazione di tariffe maggiori per tipologie lavorative più specialistiche, si ripercuote anche sul costo complessivo annuo della manodopera, con un aumento che, per quanto non elevato in termini assoluti, deve tener conto di un quadro complessivo caratterizzato da un utile d'impresa indicato in offerta nell'ordine di poche migliaia di euro, implicando perciò una rivalutazione sulla sostenibilità dell'offerta risultata vincitrice della gara.
Sebbene un utile esiguo costituisca solo un indice sintomatico dell'anomalia dell'offerta inidoneo a determinare alcun automatismo nella relativa valutazione, infatti, ciò non toglie che il valore di tale utile sia destinato pur sempre a pesare anche a fronte di successive rideterminazioni dell'offerta, come quella (che sarebbe) imposta dall'accertamento del verificatore in ordine al costo della manodopera, divenuto più elevato a seguito dell'applicazione di un contratto collettivo ritenuto più coerente, imponendo una verifica accurata dell'equilibrio complessivo dell'offerta che, come nel caso di specie, può portare all'annullamento dell'aggiudicazione
(articolo ItaliaOggi dell'11.08.2018).

INCARICHI PROFESSIONALICompensi, negligenza neutra. Il comportamento del legale non preclude la parcella. La Corte di cassazione è intervenuta con ordinanza su un risarcimento del danno.
Diritto al compenso del professionista e responsabilità: la negligenza non può essere causa di mancato compenso.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nell'ordinanza 21.06.2018 n. 16342, intervenendo sul ricorso di tre eredi, i quali avevano convenuto in giudizio il legale che aveva precedentemente difeso il proprio padre, poi deceduto, in una causa di risarcimento danni derivanti da sinistro stradale, per chiederne la condanna.
In particolare, affidandosi a tre motivi di censura, i ricorrenti lamentavano la negligenza nello svolgimento della prestazione non avendo l'avvocato provveduto a riassumere il giudizio di risarcimento danni nei termini indicati dal giudice.
Secondo i giudici della III sezione civile, però, il ricorso appariva inammissibile non cogliendo «la ratio sottostante alla decisione impugnata» che, viceversa, appariva «del tutto congrua e completa»: «il fatto che il diritto a ulteriori somme si sia prescritto per inattività processuale determinatasi a causa dell'inerzia del professionista, non significa che l'azione intentata per farlo valere fosse fondata in tutti i suoi presupposti».
L'accertamento della responsabilità del legale per avere fatto maturare il termine di prescrizione spiegano sul punto presuppone che venga individuata non solo la condotta che si assume essere stata negligente, «ma anche il danno che ne è derivato come conseguenza della condotta, in quanto nell'azione civile di risarcimento del danno l'affermazione della responsabilità non può essere disgiunta dall'accertamento della determinazione di un effettivo danno».
Ora, la prestazione di un avvocato, continuano, si configura come obbligazione di mezzi: il che significa che il cliente che recede dal contratto d'opera è comunque tenuto al compenso per l'opera svolta, «indipendentemente dall'utilità che ne sia derivata», salvo espressa deroga da parte dei contraenti. Nel caso di specie, tuttavia, non poteva ravvisarsi «un'automatica perdita del diritto al compenso» non essendo stata dimostrata la sussistenza di una condotta negligente causativa di un effettivo danno.
Così argomentando gli ermellini hanno condannato i ricorrenti anche al pagamento delle spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.07.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Da eliminare il manufatto che disturba la viabilità.
Spetta al sindaco ordinare la rimozione di un cancello posizionato da un privato a margine della sua proprietà ma interferente con l'uso pubblico della strada comunale. E non importa se nel frattempo l'interessato abbia avviato anche un'azione di carattere civilistico per dimostrare l'avvenuta sdemanializzazione di quel tratto di strada.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 18.06.2018 n. 3725.
Il sindaco di un piccolo borgo della Calabria ha ordinato ad un cittadino di rimuovere un cancello di ferro che limitava la circolazione sulla strada comunale. Contro questa ordinanza l'interessato ha proposto censure ai giudici amministrativi ma senza successo. E contemporaneamente ha avviato anche una causa di carattere civile per ottenere il riconoscimento dell'avvenuta sdemanializzazione della strada in oggetto.
A parere dei giudici di palazzo Spada questa azione civile non interferisce con la conclusione del giudicato amministrativo. Siccome la strada appartiene al demanio pubblico il sindaco ha giustamente attivato un'azione di tutela finalizzata ad evitare che le condotte del privato possano limitare l'uso pubblico della strada
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.07.2018).
---------------
MASSIMA
6. Nel merito, come accennato in precedenza, nel proprio appello il sig. Cl. reitera gli assunti a base del ricorso di primo grado, e cioè che il tratto di strada su cui ha apposto il cancello oggetto dell’ordine di rimozione impugnato è ormai da molti anni sottratto all’uso pubblico.
A questo riguardo l’appellante sottolinea che il tratto di strada in questione è un vicolo cieco, privo di illuminazione e segnaletica, di cui egli solo ha curato la manutenzione negli ultimi decenni e che tutto ciò si evince dalla circostanza che l’apposizione del cancello risale agli anni ’70.
7. Tanto premesso queste deduzioni in fatto, se in ipotesi possono determinare l’accoglimento dell’azione civilistica, non sono invece in grado di condurre all’annullamento dell’ordinanza impugnata. Quest’ultima risulta infatti legittimamente fondata sulla circostanza, che il sig. Cl. non contesta nemmeno nel presente appello, e che anzi è presupposta nella domanda di sdemanializzazione dallo stesso proposta, che la strada è pubblica.
8. Sulla base di questa circostanza, come già statuito dal giudice di primo grado,
il potere di autotutela demaniale, ai sensi dell’art. 378 l. 20.03.1865, n. 2248, allegato F, deve ritenersi tuttora permanente e dunque legittimamente esercitato nel caso di specie.
La giurisprudenza amministrativa formatasi con riguardo alla disposizione di legge da ultimo menzionata è infatti costante nell’affermare che
il potere in questione non è riducibile all’azione possessoria privatistica (artt. 1168 e ss. cod. civ.) e che a base di esso vi è la finalità di ripristinare la disponibilità del bene pubblico in favore della collettività, quest’ultima non sia stata esercitata in via di fatto e quali ne siano le cause (di recente: Cons. Stato, V, 30.04.2015 n. 2196; VI, 26.04.2018, nn. 2519 e 2520).
L’autotutela demaniale si correla pertanto al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l’esigenza di “reagire” rispetto a condotte appropriative di carattere privato.
9. Per le ragioni ora esposte l’appello deve quindi essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Appaltatori, responsabilità circoscritta.
“Per i difetti della costruzione derivanti da vizi ed inidoneità del suolo, anche quando gli stessi siano eventualmente ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal committente, l'appaltatore risponde anche solo per difetto dell'ordinaria diligenza”.

Così la Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella sentenza 12.06.2018, n. 15321.
Nell'ipotesi di specie la ditta appaltatrice cui era stata commissionata la costruzione di un immobile era stata ritenuta corresponsabile per i danni da questo riportati in seguito alla mancata previsione dell'innalzamento della falda acquifera sottostante l'edificio al tempo dell'esecuzione del fabbricato.
La Cassazione precisa che all'appaltatore è richiesto l'impiego delle conoscenze e dei mezzi idonei per l'esecuzione della propria obbligazione consistente nella realizzazione dell'opera esente da vizi e difformità.
Secondo i giudici di legittimità la presunzione di responsabilità stabilita dal legislatore in capo all'appaltatore per la rovina e i difetti degli immobili deve essere superata dimostrando che la causa dei difetti sia riconducibile ad un fatto fortuito non prevedibile dall'appaltatore.
La sentenza in esame mette in evidenza che rispondono, assieme all'appaltatore, anche i soggetti (progettista, direttore dei lavori), che partecipando a vario titolo all'esecuzione della costruzione, abbiano concorso a determinare i difetti dell'opera.
La Cassazione ritiene che l'indagine relativa alle caratteristiche geologiche del terreno su cui deve sorgere la costruzione rientri tra i compiti dell'appaltatore, in quanto l'esecuzione a regola d'arte di una costruzione richiede necessariamente che il progetto sia compatibile con la natura e la consistenza del suolo edificatorio.
Secondo la sentenza nelle ipotesi di difetti delle costruzioni che dipendono dalla inidoneità del suolo l'appaltatore “può andare esente da responsabilità solamente laddove nel caso concreto le condizioni geologiche non risultino accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze e procedure “normali” avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata”.
La sentenza ritiene, inoltre, che “l'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di aver manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera senza poter invocare l'eventuale concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.08.2018).
---------------
MASSIMA
11. Cominciando l'esame delle complessive censure dalla prima formulata nell'interesse del ricorrente principale, rileva il collegio che essa è infondata e deve, perciò, essere rigettata.
In effetti, dalla motivazione della sentenza di appello, si evince che il Gh.Pi., quale appaltatore (così come il Po. quale progettista), non aveva assolto sufficientemente all'onere probatorio incombentegli per superare la presunzione di cui all'art. 1669 c.c., non avendo dedotto e riscontrato alcun evento concreto ed idoneo tale da poter far ricondurre la causa dei vizi e difetti lamentati dalla Ca. in un fatto fortuito, del tutto fuori dal controllo e dalla prevedibilità dell'appaltatore stesso, non potendosi qualificare in tal senso la mancata previsione della risalita di falda per effetto delle valorizzate ed univoche risultanze istruttorie, emergenti anche alla stregua della disposta c.t.u..
In altri termini, la Corte bresciana, a mezzo della conferente valutazione delle complessive risultanze probatorie acquisite, oltre ad accertare la gravità degli inconvenienti subìti dall'edificio della committente (oltretutto non contestati nella loro oggettività), ha desunto concreti e concordanti elementi che avrebbero dovuto indurre l'appaltatore (ma anche il direttore dei lavori ed il progettista, donde l'affermabilità della loro responsabilità in concorso, su cui infra: v., ad es., Cass. n. 14650/2012 e Cass. n. 17874/2013) a considerare l'effettiva prevedibilità dei fenomeno idrogeologico, peraltro noto nella zona, consistito, nella fattispecie, nella risalita della falda acquifera (cfr. Cass. n. 19868/2009).
Pertanto, la Corte territoriale, lungi dal procedere ad una indebita inversione dell'onere della prova (come, invece, dedotto nell'interesse del Gh.), ha, in conformità all'uniforme indirizzo della giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis, Cass. n. 3756/1999; Cass. n. 1154/2002 e Cass. n. 1026/2013), legittimamente sostenuto che
la presunzione stabilita dal citato art. 1669 c.c. deve essere superata mediante la specifica ed univoca dimostrazione della carenza di responsabilità in capo all'appaltatore, la quale va supportata attraverso l'allegazione ed il riscontro di fatti positivi, precisi e concordanti, i quali, invero, non sono stati, nella fattispecie, comprovati dal ricorrente appaltatore, essendo, al contrario, emersa la prova inversa della corresponsabilità dello stesso alla luce delle complessive risultanze istruttorie acquisite e compiutamente valutate dal giudice di secondo grado, che non sono sindacabili nella presente sede di legittimità.
Deve, perciò, trovare conferma, in questa sede, il principio già affermato da questa Corte secondo cui,
in ordine alla costruzione di opere edilizie, l'indagine sulla natura e consistenza del suolo edificatorio rientra, in mancanza di diversa previsione contrattuale, tra i compiti dell'appaltatore, trattandosi di indagine -implicante attività conoscitiva da svolgersi con l'uso di particolari mezzi tecnici- che al medesimo, quale soggetto obbligato a mantenere il comportamento diligente dovuto per la realizzazione dell'opera commessagli con conseguente obbligo di adottare tutte le misure e le cautele necessarie ed idonee per l'esecuzione della prestazione secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso concreto utile a soddisfare l'interesse creditorio, spetta assolvere mettendo a disposizione la propria organizzazione, atteso che lo specifico settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'opera, sicché è onere del medesimo predisporre un'organizzazione della propria impresa che assicuri la presenza di tali competenze per poter adempiere l'obbligazione di eseguire l'opera immune da vizi e difformità.
In altri termini,
poiché l'esecuzione a regola d'arte di una costruzione dipende dall'adeguatezza del progetto alle caratteristiche geologiche del terreno su cui devono essere poste le relative fondazioni e la validità di un progetto di una costruzione edilizia è condizionata dalla sua rispondenza alle caratteristiche geologiche del suolo su cui essa deve sorgere, il controllo da parte dell'appaltatore va esteso anche in ordine alla natura e consistenza del suolo edificatorio.
Ne consegue che
per i difetti della costruzione derivanti da vizi ed inidoneità del suolo -anche quando gli stessi siano eventualmente ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal committente- l'appaltatore risponde (in tal caso prospettandosi l'ipotesi della responsabilità solidale con il progettista, a sua volta responsabile nei confronti del committente per inadempimento del contratto d'opera professionale ex art. 2235 c.c.) anche solo per difetto dell'ordinaria diligenza, potendo andare esente da responsabilità (che si presume ai sensi dell'art. 1669 c.c.) solamente laddove nel caso concreto le condizioni geologiche non risultino accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze e procedure "normali" avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata (circostanza, questa, della prevedibilità di tale rischio, rimasta esclusa nel caso di specie sulla base delle congrue valutazioni compiute dalla Corte di appello fondate sulle univoche risultanze della c.t.u.).
12. Anche il secondo motivo formulato dal ricorrente principale è privo di fondamento giuridico e va respinto.
La Corte di appello di Brescia -sempre ponendo riferimento ai riscontri adeguatamente scaturiti dall'espletata c.t.u.- ha accertato, in modo conferente, che la carenza dei requisiti termoigrometrici -riconducibile ad uno scarso isolamento termico, per le pareti realizzate con termo-laterizio tipo "Poroton"- non potesse essere giustificata dalla circostanza che tale pratica costruttiva fosse diffusa, in quanto, nella specie, per come emergente sulla base della relazione dello stesso c.t.u., le caratteristiche di coibentazione del materiale non avrebbero potuto reggere nel tempo; in altre parole, la scelta dei laterizi avrebbe dovuto considerare anche i fattori concomitanti e, in ogni caso, il luogo di ubicazione del costruendo edificio.
Del resto,
l'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale "nudus minister", per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo.
Pertanto,
in mancanza di tale prova (che difetta nel caso in esame), l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera (riconducibili, nella concreta fattispecie, in via principale alla prevedibile dannosità della risalita della falda acquifera, da correlare ad una negligente indagine della natura e della consistenza del suolo edificatorio, imputabile anche allo stesso appaltatore) senza poter invocare l'eventuale concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (cfr., ad es., Cass. n. 8016/2012 e Cass. n. 23594/2017, ord.).

CONSIGLIERI COMUNALIConsiglieri, accessi on-line. LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA.
Il diritto all'accesso e all'informazione del consigliere comunale può spingersi fino al possesso delle credenziali informatiche del protocollo dell'Ente e del programma di contabilità, per una accessibilità persino da postazioni non interne (e certificate) alla casa comunale?
Segnatamente, ai sensi dell'art. 43, co. 2, Tuel, i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
A tal fine, ai sensi dell'art. 2, co. 1, del Codice della amministrazione digitale, le amministrazioni devono assicurare la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in digitale e si organizzano e agiscono utilizzando le modalità più appropriate e adeguate al soddisfacimento degli interessi degli utenti, mediante le tecnologie dell'informazione e della comunicazione.

A giudizio del Consiglio di Stato -Sez. V- sentenza 08.06.2018 n. 3486, da tali presupposti normativi deriva che la fruibilità dei dati e delle informazioni in digitale deve essere garantita con procedure appropriate alla specifica finalità informativa e consone alla tecnologia disponibile. Grava sull'amministrazione l'approntamento e la valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
Nella medesima ottica interpretativa, a giudizio del TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 31.05.2018 n. 531, la richiesta del consigliere comunale di accedere al protocollo informatico, mediante il possesso delle chiavi di accesso telematico, rappresenta condizione per l'esercizio consapevole del diritto di accesso, in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione.
Per poter operare in tal senso la possibilità di accedere non direttamente al contenuto della documentazione, ma ai dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo è appropriata e proporzionata e, per ciò stesso, legittima
(articolo ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
1.- L’appello è fondato e merita di essere accolto.
2.- Il Comune di Castellabate, con delibera di giunta comunale n. 99 del 04.06.2015, ha disciplinato le modalità di accesso ai documenti amministrativi ed al sistema informatico di contabilità comunale da parte dei consiglieri comunali, segnatamente prevedendo –al dichiarato fine di massimizzare la facilità dell’accesso secondo modalità tecniche compatibili con le risorse dell’ente– l’istituzione, all’interno della casa comunale, di una postazione telematica certificata per l’accesso ai dati contabili, come tale agevolmente consultabile da tutti i consiglieri.
3.- L’appellante assume, peraltro, l’insufficienza delle ridette modalità organizzative, rivendicando la concessione della facoltà di accesso anche da autonome postazioni remote, mediante rilascio di apposite credenziali (user id e password) e, per tal via, senza la limitazione riconnessa al necessario ricorso alla postazione fisica predisposta nei locali comunali.
A fondamento della pretesa (che –con ogni evidenza– non concerne l’an, ma esclusivamente il quomodo della ostensione) valorizza la direttiva emergente dalla complessiva digitalizzazione dei dati amministrativi (ex d.lgs. n. 82/2005) e la correlativa logica della massima semplificazione ed agevolazione delle modalità del relativo accesso, alla luce della miglior tecnologia disponibile.
4.- Per parte sua, l’Amministrazione premette, in fatto, di non disporre, allo stato, di un sistema in grado di garantire l’accesso da remoto (ciò che sarebbe confermato da apposita dichiarazione resa dalla società incaricata della gestione dei propri software) e ritiene, in ogni caso, adeguata, sufficiente e proporzionata, in diritto, la messa a disposizione in loco di postazioni dedicate.
5.- Ciò posto, in via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità, proposta ed argomentata dal Comune appellato, correlata alla mancata impugnazione della delibera di Giunta Comunale n. 99 del 04.06.2015, con cui era stato disciplinato e regolamentato il diritto di accesso agli atti.
Sul punto, giova puntualizzare che,
per comune intendimento, il giudizio in materia di accesso, anche se si atteggia come impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto contro l'atto di diniego o avverso il silenzio-diniego formatosi sulla relativa istanza ed il ricorso è da esperire nel termine perentorio di trenta giorni, è sostanzialmente rivolto all’accertamento la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'amministrazione per giustificarne il diniego (cfr., ex permultis, Cons. Stato, V, 07.11.2008, n. 5573).
Se ne desume che la mancata impugnazione delle disposizioni regolamentari (per giunta, suscettibili, in quanto tali di disapplicazione: cfr. Cons. Stato, IV, 23.02.2009, n. 1074), non costituisce per definizione ragione di inammissibilità del ricorso.
6.- Tanto premesso, osserva il Collegio che,
ai sensi dell’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 (recante il Testo unico degli enti locali), “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato”.
A tal fine, le amministrazioni “assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell'informazione e della comunicazione” (cfr. art. 2, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, recante il c.d. Codice dell’amministrazione digitale).
La direttiva emergente dalle richiamate disposizioni è senz’altro nel senso:
   a) che la fruibilità dei dati e delle informazioni in modalità digitale debba essere garantita con modalità adeguate (alla precipua finalità informativa) ed appropriate (alla tecnologia disponibile);
   b) che –secondo un corrispondente e sotteso canone di proporzionalità– grava sull’amministrazione l’approntamento e la valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che –senza gravare eccessivamente sulle risorse pubbliche– appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.

In siffatta prospettiva, l’Amministrazione non ha dimostrato, neanche nella presente sede, che il costo della predisposizione di un software adeguato a consentire (mediante il rilascio di credenziali certificate e personalizzate) l’accesso da postazioni remote sia concretamente sproporzionato (a fronte dei costi comunque necessari all’approntamento ed alla conservazione di una postazione fisica dedicata, all’interno dei locali dell’ente) ed economicamente esorbitante rispetto alla rivendicata finalità informativa.
All’incontro, dovrà considerarsi che –nel complessivo quadro delle risorse finanziarie destinate ai mezzi informatici– il costo imputabile alla acquisizione ed alla implementazione di idoneo software si palesa, notoriamente, non irragionevolmente superiore ai costi delle dotazioni informatiche.
Deve, per tal via, opinarsi, in difformità della valutazione sul punto espressa dai primi giudici, che la emergente e duplice direttiva del doveroso approntamento e del costante adeguamento delle tecnologie disponibili, ai fini di un migliore, efficace e funzionale accesso ai dati, milita per il riconoscimento del carattere indebitamente compressivo della limitazione di fatto frapposta alla pretesa ostensiva della ricorrente.
In riforma della impugnata statuizione, il ricorso merita, in definitiva, di essere accolto, con consequenziale ordine alla intimata Amministrazione di apprestare, entro il termine ragionevole di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della presente statuizione, le modalità organizzative per il rilascio di password per l’accesso da remoto al sistema informatico (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2018 n. 3486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Si compensa solo per 3 motivi. Soccombenza reciproca, lite inedita, giurisprudenza. CASSAZIONE/ La sesta sezione civile della Suprema corte fissa una serie di paletti.
Si compensa solo per 3 motivi La compensazione tra le parti delle spese di lite può avvenire solo per tre motivi: per soccombenza reciproca, motivi di lite inediti e mutamento della giurisprudenza.

Lo chiariscono i giudici della VI Sez. civile della Corte suprema di Cassazione, nell'ordinanza 06.06.2018 n. 14624, che ha esaminato una lite sul piano della legittimità circa le spese di lite da attribuire a una, o all'altra parte, se non a entrambe.
Tutto nasce da una contestazione lamentata davanti a un giudice di pace: un uomo opponeva resistenza per una multa rilasciata per divieto di sosta avendo parcheggiato la propria automobile su una banchina, giustificando però la mancanza di adeguate linee di demarcazione a terra.
A quel punto il giudice di pace accolse le sue motivazioni, decidendo però di compensare le spese tra le parti chiamate in causa, l'uomo e il comune di Lucca, che però chiese la totalità di esenzione delle spese di giudizio presso le porte del Palazzaccio di Roma.
I giudici, radunati in consiglio, accolsero il ricorso dell'uomo relativamente alla compensazione «anomale» delle spese di lite. «Il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero», spiegano i porporati di piazza Cavour, «soltanto se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».
Questo perché sul piano logico-giuridico la normativa «è stata esplicitamente volta a introdurre regole più rigide in ordine al potere di compensazione delle spese di lite, in modo da disincentivare l'abuso del processo. Questa scelta politica è stata perseguita pervenendo a una tassativa tipizzazione delle ipotesi che consentono la legittima compensazione delle spese, ipotesi ormai limitate, oltre che alla situazione di soccombenza reciproca, a quella di «assoluta novità della questione trattata» (ovvero di assenza di precedenti giurisprudenziali in argomento) e di «mutamento della giurisprudenza nelle questioni dirimenti» (ovvero di novità della interpretazione prescelta dal giudice rispetto a un pregresso consolidato orientamento)».
Da qui l'accoglimento del ricorso, con spese di lite cassate
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.07.2018).
---------------
MASSIMA
Il primo motivo di ricorso è fondato, e il suo accoglimento assorbe l'esame dei restanti due motivi di censura.
Trattandosi di procedimento introdotto il 06.06.2015, trova applicazione l'art. 92, comma 2, c.p.c., come sostituito dall'art. 13, d.l. 12.09.2014, n. 132, modificato in sede di conversione dalla l. 10.11.2014, n. 162 (testo invero operante per i procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della citata legge di conversione).
In forza di tale norma, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, soltanto se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Come veniva affermato pure nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. 12.09.2014, n. 132,
tale ennesimo intervento normativo in materia di spese processuali è stato esplicitamente volto ad introdurre regole più rigide in ordine al potere di compensazione delle spese di lite, in modo da disincentivare l'abuso del processo.
Questa scelta politica è stata perseguita pervenendo ad una tassativa tipizzazione delle ipotesi che consentono la legittima compensazione delle spese, ipotesi ormai limitate, oltre che alla situazione di soccombenza reciproca, a quella di "assoluta novità della questione trattata" (ovvero di assenza di precedenti giurisprudenziali in argomento) e di "mutamento della giurisprudenza nelle questioni dirimenti" (ovvero di novità della interpretazione prescelta dal giudice rispetto ad un pregresso consolidato orientamento).
Ne discende che, a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale di Lucca,
l'art. 92, comma 2, c.p.c., come sostituito dall'art. 13, d.l. n. 132 del 2014, modificato dalla l. n. 162 del 2014, legittima la compensazione delle spese, ove non sussista reciproca soccombenza, soltanto in caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, ipotesi non ravvisabili nel sol fatto che sia stato prospettato dal giudice un dubbio sulla sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa di un contestato illecito amministrativo, potendo tale dubbio incidere sulla valutazione preventiva di fondatezza, o meno, della spiegata opposizione, e non invece rilevare in sede di regolazione delle spese processuali.

APPALTI: No al subentro se al concorrente sono venuti a mancare i requisiti. GARE/ Il Tribunale amministrativo di Reggio Calabria respinge il ricorso.
In tema di gare ad evidenza pubblica, è legittimo il diniego di subentro per l'affidamento del completamento dei lavori ai sensi dell'art. 140 dlgs n. 163/2006, qualora il concorrente interpellato con scorrimento della graduatoria non sia più in possesso dei requisiti di ammissione e partecipazione alla gara.

Così si è pronunciato il TAR Calabria-Reggio Calabria con la sentenza 05.06.2018 n. 318, rigettando il ricorso proposto dall'impresa interpellata a seguito dell'impossibilità di aggiudicare l'appalto al primo classificato, nel contempo chiarendo come non sia nemmeno possibile sopperire alla sopravvenuta carenza dei citati requisiti mediante il ricorso all'avvalimento, pena la violazione del generale principio della par condicio dei concorrenti.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, una società concorrente impugnava il provvedimento con il quale, in ragione della sopravvenuta carenza dei requisiti di ammissione e partecipazione alla gara, era stato negato il subentro ai sensi dell'art. 140 dlgs n. 163/2006 nell'appalto di progettazione e costruzione di un edificio scolastico, e ciò nonostante l'impresa avesse comunicato alla stazione appaltante di voler sopperire alla riscontrata carenza attraverso l'istituto dell'avvalimento.
Il Tar, chiamato a risolvere la controversia, ha chiarito come la fase procedimentale dell'interpello costituisca un segmento dell'unica procedura di affidamento avviata con la pubblicazione del bando, con la conseguenza che i requisiti di partecipazione, attesa l'unicità e l'inscindibilità del procedimento selettivo, devono essere ininterrottamente posseduti dal suo avvio fino alla sua conclusione, o quanto meno, al fine di privilegiare la massima partecipazione alle procedure di gara, al momento della presentazione dell'offerta originaria e all'atto della conferma di quest'ultima nella fase di interpello ex art. 140 del più volte citato dlgs. n. 163/2006. Ciò a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell'impresa di presentare un'offerta credibile.
Per quanto concerne la possibilità di integrare i requisiti di ammissione e partecipazione alla gara, prosegue la sentenza, il ricorso all'avvalimento configurerebbe una modificazione dell'offerta idonea a procurare un vantaggio competitivo al partecipante, il quale potrebbe tentare di ottimizzare la sua offerta per meglio far fronte a quella dei suoi concorrenti nella procedura di aggiudicazione dell'appalto. Siffatta integrazione, inoltre, costituirebbe una violazione al principio di parità di trattamento, che impone che tutti i concorrenti dispongano delle medesime possibilità nella formulazione dei termini delle offerte e che queste siano soggette alle medesime condizioni per tutti i concorrenti. Senza tralasciare, infine, la distorsione che si arrecherebbe alla sana ed effettiva concorrenza tra le imprese che partecipano ad un appalto pubblico.
In definitiva, nella fase di interpello ex art. 140 dlgs. n. 163/2006, costituente appendice dell'originaria procedura di gara, non possono essere effettuate modificazioni dell'offerta né in senso oggettivo né in senso soggettivo, con la conseguenza che l'introduzione dell'avvalimento in tale ambito, nonostante l'ampia portata dell'istituto e la sua finalizzazione a consentire la massima partecipazione alle procedure di affidamento dei pubblici appalti, si porrebbe in contrasto con il principio generale di parità di trattamento
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.07.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIAbuso di dati personali, il dato è in re ipsa.
È in re ipsa il danno derivante dal trattamento illecito dei dati personali del dipendente da parte del datore di lavoro, a meno che quest'ultimo non dimostri che la lesione arrecata sia irrilevante e che abbia adottato tutte le cautele per prevenire la loro conoscibilità e diffusione: lo ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. I civile, nell'ordinanza 04.06.2018 n. 14242.
Intervenuta sul ricorso di un'agenzia dello Stato, condannata in primo grado al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto da un suo dipendente a seguito della diffusione di notizie riguardanti la propria sfera personale, la Corte ha avuto modo di chiarire che «i danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali in base all'art. 15 del dlgs 30.06.2003, n. 196, sono assoggettati alla disciplina di cui all'art. 2050 cod. civ., con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno».
Si tratta, quindi, di un danno, sia esso patrimoniale che non patrimoniale, da considerare in re ipsa, salvo il fatto che il danneggiante dimostri che sia un danno irrilevante o bagattellare, ovvero che il danneggiato abbia tratto vantaggio dalla pubblicazione dei dati.
Gli interessi lesi attraverso un trattamento illecito dei dati personali, spiegano ancora i giudici della I sezione civile, «rappresentano diritti-interessi inviolabili del danneggiato», i quali assumono un rilievo talmente evidente da comportare l'inversione dell'onere della prova: il non aver adottato tutte le misure idonee ad evitare una simile dispersione «si rivela in sostanza come una violazione delle regole di correttezza e di liceità le quali sono finalizzate a bilanciare la libertà di chi tratta i dati con la preservazione della sfera del danneggiato». Ovviamente, concludono, spetterà sempre al giudice valutare se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti «la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato».
Così argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso e condannato l'agenzia al pagamento delle spese processuali
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.07.2018).
---------------
MASSIMA
2. Con il secondo motivo di ricorso (violazione degli artt. 2050, 2697, 2729 c.c. e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) il ricorrente censura la decisione di merito che ha accolto la domanda pur non essendo stata fornita la prova del danno non patrimoniale nonché del nesso causale tra la violazione ed il danno lamentato.
2.2. Il motivo è infondato.
Con tale motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto il diritto al risarcimento del danno senza aver svolto alcun accertamento dell'esistenza di tale danno nonché del nesso di causalità tra il trattamento dei dati personali ed il danno patito.
A riguardo va premesso che
la sola circostanza che i dati siano stati utilizzati dal titolare o da chiunque in modo illecito o scorretto non idonea di per sé a legittimare l'interessato a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale.
Ed invero "
Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30.06.2003, n. 196 (cosiddetto codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno" (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva" (Cass., n. 16133/2014).
Ed inoltre "
I danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali in base all'art. 15 del d.lgs. 30.06.2003, n. 196, sono assoggettati alla disciplina di cui all' art. 2050 cod. civ., con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno" (Cass., n. 18812/2014).
La fattispecie delineata dai due commi dell'art. 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 pone quindi due presunzioni: quella secondo la quale il danno è da addebitare a chi ha trattato i dati personali o a chi si è avvalso di un altrui trattamento a meno che egli non dimostri di avere adottato tutte le misure idonee per evitarlo ai sensi dell'art. 2050 c.c. e quella secondo la quale le conseguenze non patrimoniali di tale danno —sia esso di natura contrattuale che extracontrattuale— sono da considerare in re ipsa a meno che il danneggiante non dimostri che esse non vi sono state ovvero che si tratta di un danno irrilevante o bagatellare ovvero ancora che il danneggiato abbia tratto vantaggio dalla pubblicazione dei dati.
Presunzioni, queste, che varranno sia nel caso in cui il danneggiante sia il titolare del trattamento che nel caso in cui egli sia un "chiunque", dato che gli interessi lesi di volta in volta attraverso un trattamento illecito, rappresentando diritti-interessi inviolabili del danneggiato, assumono un rilievo talmente evidente da comportare l'inversione dell'onere della prova; non a caso tale presunzione sull'an del danno non patrimoniale legata alla violazione delle regole di liceità correttezza è rafforzata proprio dal richiamo da parte del legislatore al concetto di attività pericolosa.
Ed infatti il danno maggiormente connaturato all'illecito trattamento è proprio quello non patrimoniale sicché il non avere adottato le misure idonee ad evitarlo si rivela in sostanza come una violazione delle regole di correttezza e di liceità le quali sono finalizzate a bilanciare la libertà di chi tratta i dati con la preservazione della sfera del danneggiato.

Ovviamente, spetterà pur sempre al giudice dunque valutare, sulla base vuoi delle allegazioni del danneggiato, vuoi di semplici presunzioni, e tenendo conto dell'eventuale prova contraria fornita dal danneggiante, se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato.
Una volta ritenuto pertanto che il bene violato faccia parte di quei valori fondamentali ovvero dei diritti inviolabili della persona, il giudice dovrà disporre che il danno debba essere risarcito, quanto meno in via equitativa, salvo la prova contraria addotta dal danneggiante.
Ciò premesso, dalla lettura della sentenza impugnata, sia pure in forma sintetica, si evince chiaramente come una volta ritenuta l'illecita lesione del diritto alla riservatezza del ricorrente mediante la diffusione di dati giudiziari inerenti alla sua persona, il giudicante ha ritenuto ricorrendo a presunzioni semplici ("è presumibile, senza alcun dubbio") che tale condotta abbia provocato nel ricorrente "un senso di forte turbamento e vergogna".
Una volta ritenuto provato il danno lo stesso è stato poi liquidato in via equitativa.
Orbene la sentenza impugnata, in linea con i principi enunciati, una volta accertata l'illegittimità della condotta posta in essere dall'Agenzia delle Dogane, ha ritenuto provato il danno parimenti dando atto che l'Agenzia delle Dogane non ha allegato né provato alcunché circa l'adozione di cautele volte a prevenire la conoscibilità dei dati.
Il conclusione il ricorso va rigettato.

EDILIZIA PRIVATAUsi civici, regioni fuori gioco. Inalienabili i beni su cui gravano. Come quelli demaniali.
Il regime degli usi civici rientra nella materia dell'ordinamento civile, di competenza esclusiva dello stato. Le regioni non possono dunque invadere tale competenza esclusiva, nonostante il dpr 616/1977 abbia trasferito agli enti territoriali le funzioni amministrative in materia. Ne consegue che un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di alienazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge.

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza 31.05.2018 n. 113, depositata ieri in cancelleria (redattore Aldo Carosi) che ha ritenuto illegittima la normativa della regione Lazio (legge n. 1/1986 come modificata dalla legge n. 6/2005) che consentiva l'alienazione dei terreni di proprietà collettiva di uso civico. Una facoltà di cui si era avvalsa un'associazione agraria per promettere in vendita a una società privata un terreno di proprietà collettiva di uso civico divenuto edificabile a seguito del rilascio di un permesso di costruire in sanatoria da parte del comune di Valmontone.
A sollevare la questione di legittimità costituzionale è stato il commissario per la liquidazione degli usi civici per le regioni Lazio, Umbria e Toscana. E nelle more del giudizio, il comune aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria, determinando, secondo quanto previsto dalla norma impugnata, la classificazione e la conseguente alienabilità dell'area.
Nel ritenere fondata la questione di legittimità per violazione dell'art. 117 Cost., la Corte ha ricordato che «l'ordinamento civile si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull'esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l'uniformità della disciplina dettata per i rapporti interprivati».
Secondo la Consulta «la disposizione censurata, nel disporre la descritta alienabilità, introduce una limitazione ai diritti degli utenti non prevista dalla normativa statale in materia
». «La norma regionale censurata», ha proseguito la Corte, «opera, dunque, nell'ambito della materia dell'«ordinamento civile» di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e ne va di conseguenza dichiarata l'illegittimità costituzionale».
I giudici delle leggi hanno chiarito che l'art. 66 del dpr n. 616 del 1977, che ha trasferito alle regioni soltanto le funzioni amministrative in materia di usi civici, «non ha mai consentito alla regione» e non consente oggi, nel mutato contesto della riforma del Titolo V, «di invadere, con norma legislativa, la disciplina dei diritti, estinguendoli, modificandoli o alienandoli».
«Un bene gravato da uso civico», ha concluso la Corte, «non può essere, infatti, oggetto di alienazione al di fuori delle ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto. L'incommerciabilità derivante da tale regime comporta che la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell'uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione»
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

APPALTIGare, presidente libero. Compatibile la direzione di unità operativa. Il Tar Napoli aderisce all’interpretazione data dall’Anac nel 2017.
Non sussiste alcun profilo di incompatibilità relativamente al presidente della commissione di gara che durante il corso della procedura sia stato nominato direttore della Uoc acquisizione beni e servizi, unità operativa avente funzioni di amministrazione attiva sul contratto oggetto di gara, qualora lo stesso non abbia partecipato alla stesura del bando.

Così si è pronunciato il TAR Campania-Napoli, V Sez., con la sentenza 30.05.2018 n. 3587, chiarendo come la dedotta incompatibilità del presidente della commissione giudicatrice non fosse assistita da elementi di fondatezza, atteso che il presidente non aveva partecipato alla stesura della lex specialis, né sussistevano elementi concreti circa la violazione dell'imparzialità della gara e la limitazione della libertà nella formulazione delle offerte.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, una società impugnava la delibera di aggiudicazione della procedura di gara per l'affidamento del servizio di vigilanza armata e sorveglianza non armata di una struttura pubblica, deducendo la violazione delle regole in tema di autonomia, indipendenza e terzietà della commissione di gara di cui l'art. 77, c. 4, dlgs 18.04.2016, n. 50.
Il suddetto motivo di ricorso si basava sulla presunta incompatibilità del presidente della commissione di gara, nominato durante il corso della procedura direttore della Uoc acquisizione beni e servizi, unità operativa avente funzioni di amministrazione attiva (stipula dei contratti, controllo della esecuzione del servizio, richiesta dei servizi, pagamento dei corrispettivi) su tutti i contratti di fornitura di beni e servizi della stazione appaltante e, dunque, anche sul contratto oggetto di ricorso.
Il Tar ha evidenziato, infatti, come l'art. 77, c. 4, dlgs 18.04.2016, n. 50 abbia esclusivamente lo scopo di garantire la libertà di elaborazione delle offerte e, in seconda istanza, l'imparzialità della valutazione delle stesse, a tutela tanto dei concorrenti quanto della stazione appaltante, impedendo che i medesimi soggetti possano influire sul contenuto del servizio da aggiudicare e sul risultato della procedura di gara.
Il principio di imparzialità dei componenti del seggio di gara, prosegue il Collegio, va pertanto declinato nel senso di garantire loro la cosiddetta virgin mind, ossia la totale mancanza di un pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa che, nell'ipotesi di specie, non appare messa in discussione, dal momento che il presidente della commissione, solo successivamente nominato direttore della Uoc acquisizione beni e servizi, non aveva partecipato alla predisposizione del bando di gara.
Il Tar, in definitiva, ha aderito all'interpretazione del disposto dell'art. 77, c. 4, dlgs n. 50 del 2016 fatta propria dall'Anac con delibera n. 436 del 27.04.2017, secondo cui occorre comunque tenere presente, al fine di evitare forme di automatica incompatibilità a carico del responsabile unico del procedimento, quell'approccio interpretativo di minor rigore della norma fornito nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa.
L'eventuale situazione di incompatibilità con riferimento alla funzione di commissario di gara e presidente della commissione giudicatrice deve essere valutata in concreto, verificando la capacità di incidere sul processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l'esito
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.07.2018).

VARIIl cittadino ha facoltà di arrestare il delinquente.
Un cittadino ha la piena facoltà di poter arrestare un delinquente.

Lo chiarisce la II Sez. penale della Suprema corte di Cassazione nella sentenza 28.05.2018 n. 23901, che ha esaminato un particolare ricorso da parte del procuratore della repubblica del tribunale di Savona.
Questo perché il giudice monocratico, nel 31 gennaio di quest'anno, non aveva convalidato l'arresto di un uomo perché operato da un cittadino durante un tentativo di rapina. Da qui la querelle che si è protratta sino alle porte del Palazzaccio di Roma, dove i porporati di piazza Cavour hanno esaminato il ricorso accogliendo i motivi di doglianza del procuratore generale della Repubblica, redigendo il tutto in forma semplificata considerando la peculiarità della lite.
Pertanto gli ermellini hanno chiosato che «il ricorso è fondato», perché «va escluso, secondo quanto testualmente riportato nel verbale di arresto, che ci si trovi dinanzi a un'ipotesi in cui il privato non abbia proceduto all'arresto ma si sia limitato a invitare il presunto reo ad attendere l'arrivo degli organi di polizia», proseguono i giudici, «in quanto si fa espresso riferimento a un intervento con cui si adoperava per far cessare la presunta rapina». Quindi l'operato del cittadino è stato intenzionale per bloccare il tentativo di rapina, procedendo a un arresto autonomo e provvidenziale, «mentre altri si assicuravano che l'aggressore rimanesse sul posto sino all'arrivo della polizia».
Soprattutto perché «sussistevano ex ante gli elementi fattuali da cui poteva ragionevolmente desumersi la commissione, ai danni della vittima, del delitto di rapina e, dunque, legittimarsi, ai sensi dell'articolo 383 del codice di procedura penale, l'arresto facoltativo del privato», spiegano i magistrati supremi in punto di diritto, «in quanto l'esclusione del fine di profitto non poteva ricavarsi in quel momento né dal movente riferito».
Avendo argomentato su tutta la linea, la Corte suprema di cassazione ha infine sciolto il dubbio sul piano della legittimità, confermando la sentenza «annullata senza rinvio l'ordinanza di non convalida impugnata, dichiarandosi legittimo l'arresto operato dai privati e la successiva consegna alla polizia»
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.07.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze, chiarimenti sulla deroga per le costruzioni erette a confine con piazze e vie pubbliche.
Le norme relative alle distanze non si applicano alle costruzioni erette a confine con le piazze e le vie pubbliche: in tal caso si devono osservare le leggi e i regolamenti per esse specificamente dettati.
Ai sensi dell’art. 879, comma 2, del Codice civile, le norme relative alle distanze non si applicano alle costruzioni erette a confine con le piazze e le vie pubbliche, dovendosi in tal caso osservare le leggi e i regolamenti per esse specificamente dettati.
Lo ha precisato la IV Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 24.05.2018 n. 3098, nella quale Palazzo Spada ricorda che “secondo la Cassazione civile (cfr., ex plurimis, Cass. civ. Sez. II, 12.02.2016, n. 2863), la norma, esplicitamente riferita al caso di due fondi privati separati da via pubblica, è a fortiori applicabile quando la costruzione (nella specie un’edicola realizzata sul marciapiede) è edificata su suolo pubblico”.
Nel medesimo senso, il Consiglio di Stato “ha fatto osservare che la deroga prevista dall’art. 879, comma 2, c.c., discende dalla considerazione che in presenza di una strada pubblica non emerge tanto l'esigenza di tutelare un diritto soggettivo privato, quanto quella di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico, che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e nei regolamenti urbanistico edilizi (Sez. IV, 14.12.2016, n. 5264)”.
In definitiva, conclude Palazzo Spada, “poiché l’edicola è stata realizzata su suolo pubblico ed è accorpata ad un’opera funzionale all’esercizio di un servizio pubblico, ricorre obiettivamente una delle ipotesi per cui, sia in base alle disposizioni codicistiche che a quelle regolamentari vigenti nel Comune di Barga, era possibile derogare alle disposizioni relative alle distanze dai confini da osservarsi nelle nuove costruzioni” (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
3. L’appello è fondato.
3.1. Va anzitutto premesso che,
ai sensi dell’art. 879, comma 2, c.c., le norme relative alle distanze non si applicano alle costruzioni erette a confine con le piazze e le vie pubbliche, dovendosi in tal caso osservare le leggi e i regolamenti per esse specificamente dettati.
Secondo la Cassazione civile (cfr., ex plurimis, Cass. civ. Sez. II, 12.02.2016, n. 2863),
la norma, esplicitamente riferita al caso di due fondi privati separati da via pubblica, è a fortiori applicabile quando la costruzione (nella specie un’edicola realizzata sul marciapiede) è edificata su suolo pubblico.
Nello stesso senso, questo Consiglio ha fatto osservare che
la deroga prevista dall’art. 879, comma 2, c.c., discende dalla considerazione che in presenza di una strada pubblica non emerge tanto l'esigenza di tutelare un diritto soggettivo privato, quanto quella di perseguire il preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico, che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e nei regolamenti urbanistico edilizi (Sez. IV, 14.12.2016, n. 5264).
3.2. Nel caso di specie, risultano poi dirimenti le delibere di Giunta n. 130/2002 e n. 182/2002, nonché il tenore (e la finalità) dell’art. 9.10 del Regolamento edilizio all’epoca vigente nel Comune di Barga.,
Dalla delibera di Giunta n. 130 del 28.05.2002 risulta che “il totale rifacimento della piazza sui cui insiste l’edicola ha consigliato l’Amministrazione a richiedere al concessionario la sostituzione del manufatto per adeguarlo, sotto l’aspetto estetico, al nuovo circostante arredo urbano” e che “in tale contesto la stessa amministrazione comunale ha richiesto al concessionario di gestire gli adiacenti gabinetti pubblici da anni inutilizzati proprio per carenza di manutenzione, pulizia e gestione”.
Inoltre “il concessionario ha aderito alla richiesta dell’Amministrazione comunale, indicando nuove condizioni in relazione all’alto costo dell’intervento facendosi carico anche della ristrutturazione dei servizi igienici pubblici che andranno a formare una unica struttura con l’edicola”.
La Giunta ha quindi ritenuto di “dover attuare nelle forme sopraindicate l’opera pubblica ricomprendendovi anche l’edicola per la connessione con i servizi igienici di cui sopra”.
Contestualmente, risulta essere stata rilasciato un nuovo atto di concessione di suolo pubblico, “redatto in conseguenza della nuova superficie concessa e necessaria alla posa in opera di un manufatto che esteticamente si adegui alla nuova piazza”.
La delibera si conclude con l’autorizzazione dell’originaria concessionaria a presentare il progetto relativo al nuovo manufatto e dà atto che l’intervento costituisce “per una parte opera pubblica e per la parte residuale opera di pubblica utilità”.
Il progetto risulta essere stato approvato, sempre dalla Giunta, con la successiva delibera n. 182 del 26.07.2002.
Tale sequenza procedimentale rende evidente:
   - che il rifacimento dell’edicola è stato sollecitato dal Comune nel quadro della risistemazione della piazza IV Novembre;
   - che è stato deliberato anche il rifacimento dei servizi igienici pubblici, accorpandoli con l’edicola;
   - che il titolare dell’edicola (nonché concessionario del suolo pubblico) si è contestualmente impegnato a garantire la gestione dei servizi igienici pubblici.
E’ quindi vero che l’edicola, come fatto osservare dal primo giudice, non è un manufatto precario e che ospita un attività commerciale.
Egli ha tuttavia non adeguatamente valutato che, insistendo il manufatto sul suolo pubblico ed essendo stato fisicamente accorpato ad un’opera incontestabilmente pubblica, ricorrevano tutti i presupposti per applicare l’art. 9.10 del Regolamento edilizio, secondo cui “il Sindaco, previa deliberazione del Consiglio comunale, ha facoltà di derogare dalle disposizioni del presente Regolamento e da quelle dei vigenti strumenti urbanistici limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblico o di interesse pubblico”, con la precisazione che (ultimo capoverso, punto 2): “per edifici ed impianti di interesse pubblico debbono intendersi quelli che, indipendentemente dalla qualità dei soggetti che li realizzano, enti pubblici o privati, siano destinati a finalità di carattere generale”.
Non è poi un caso che, nella fattispecie, gli elaborati progettuali siano stati approvati dalla stessa Giunta che aveva programmato la ristrutturazione dell’edicola e dei servizi igienici pubblici quali opere funzionali alla nuova sistemazione della piazza laddove, ove si fosse trattato di rilasciare un normale permesso di costruire, sarebbe stato sufficiente l’intervento del dirigente competente.
In definitiva,
poiché l’edicola è stata realizzata su suolo pubblico ed è accorpata ad un’opera funzionale all’esercizio di un servizio pubblico, ricorre obiettivamente una delle ipotesi per cui, sia in base alle disposizioni codicistiche che a quelle regolamentari vigenti nel Comune di Barga, era possibile derogare alle disposizioni relative alle distanze dai confini da osservarsi nelle nuove costruzioni.
4. Per quanto appena argomentato, l’appello deve essere accolto, con il conseguente rigetto, in riforma della sentenza gravata, del ricorso di primo grado.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla questione se il diniego del permesso di costruire in parziale sanatoria e l’ordine di demolizione delle opere abusive sarebbero viziati per difetto di legittimazione del destinatario poiché erroneamente indirizzati al sig. ... in proprio e non, invece, nella qualità di amministratore unico e legale rappresentante della .... s.a.s..
Il sig. Sa. è amministratore unico e socio accomandatario della società proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che “L'attività svolta della società in accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al ricorrente, socio accomandatario e suo legale rappresentante, non rilevando pertanto la mancata indicazione della qualità per cui la sanzione è stata direttamente notificata al ricorrente, in ragione della confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente responsabile e la società medesima”.
Inoltre, in una tale situazione, deve ragionevolmente ritenersi che il destinatario sia in grado di apprezzare la lesività del provvedimento, sia come persona fisica, che come socio della società.
Nel condividere integralmente e fare propri tali indirizzi, il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto del presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a produrre effetti anche nei confronti della società è dimostrata non solo –sul piano astratto– dai profili di confusione patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza richiamata, ma anche dalla circostanza che -in concreto– è stato proprio il sig. Sa. a determinare la commistione tra l’attività svolta per sé e quella esercitata per Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di costruire in parziale sanatoria, benché presentata dal sig. Sa. in nome proprio, è stata infatti avanzata per conto e a beneficio della società. E’ perciò del tutto incongruo ritenere che la stessa società, che ben avrebbe potuto beneficiare dell’esito favorevole dell’istanza, non sia invece tenuta a sopportare le conseguenze della conclusione negativa dell’iter.

---------------
10. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono di seguito.
11. Con il primo motivo i ricorrenti allegano che il provvedimento impugnato, recante il diniego del permesso di costruire in parziale sanatoria e l’ordine di demolizione delle opere abusive, sarebbe viziato per difetto di legittimazione del destinatario. Ciò in quanto la nota comunale sarebbe erroneamente indirizzata al sig. Cr.Sa. in proprio, e non invece nella qualità di amministratore unico e legale rappresentante di Im.Qu.Og. s.a.s.
11.1 Al riguardo, occorre anzitutto rilevare che il sig. Sa. aveva presentato in nome proprio la domanda di permesso di costruire in parziale sanatoria, qualificandosi come proprietario.
11.2 Ciò posto, nessuna illegittimità è ravvisabile nel provvedimento impugnato.
Deve tenersi presente, infatti, che il sig. Sa. è amministratore unico e socio accomandatario della società proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che “L'attività svolta della società in accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al ricorrente, socio accomandatario e suo legale rappresentante, non rilevando pertanto la mancata indicazione della qualità per cui la sanzione è stata direttamente notificata al ricorrente, in ragione della confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente responsabile e la società medesima (cfr. TAR Campania, Napoli, n. 927/2015)” (così TAR Abruzzo, L'Aquila, 09.08.2016, n. 482).
Inoltre, in una tale situazione, deve ragionevolmente ritenersi che il destinatario sia in grado di apprezzare la lesività del provvedimento, sia come persona fisica, che come socio della società (Cons. Stato, Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426).
11.3 Nel condividere integralmente e fare propri tali indirizzi, il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto del presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a produrre effetti anche nei confronti della società è dimostrata non solo –sul piano astratto– dai profili di confusione patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza richiamata, ma anche dalla circostanza che -in concreto– è stato proprio il sig. Sa. a determinare la commistione tra l’attività svolta per sé e quella esercitata per Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di costruire in parziale sanatoria, benché presentata dal sig. Sa. in nome proprio, è stata infatti avanzata per conto e a beneficio della società. E’ perciò del tutto incongruo ritenere che la stessa società, che ben avrebbe potuto beneficiare dell’esito favorevole dell’istanza, non sia invece tenuta a sopportare le conseguenze della conclusione negativa dell’iter.
11.4 Il motivo va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il locale studio e il locale w.c. abusivamente realizzati non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato, ma consistono ampliamenti al di fuori della sagoma originaria.
Tali opere non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti meramente accessori e serventi all’edificio, privi di incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani aggiunti all’originario edificio, con corrispondente incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al fabbricato preesistente.
A ben vedere, infatti, i ricorrenti distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto successivamente a un edificio, purché di dimensioni contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende proprio dal fatto che esso viene a costituire parte integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le quali non possono consistere in porzioni costitutive del medesimo immobile cui dovrebbero servire.
---------------
Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”, trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R. n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
---------------
E' stata presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente, perciò, ad aver qualificato le opere come un unico intervento edilizio abusivo.
L’istanza non può, pertanto, essere valutata in modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è consentito al Comune prendere in considerazione singole porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di “manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato.
---------------

12. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale si sostiene, sotto diversi profili, che le opere abusive non sarebbero soggette alla sanzione demolitoria.
12.1 I ricorrenti affermano, anzitutto, che il locale studio e il locale w.c. costituirebbero mere pertinenze, contenute entro il limite del venti per cento del fabbricato principale, per le quali non sarebbe richiesto il rilascio del permesso di costruire.
Conseguentemente, si tratterebbe di abusi non soggetti alla sanzione della demolizione, ma soltanto a quella pecuniaria prevista dall’articolo 37 del d.P.R. n. 380 del 2011 per le opere realizzate in assenza di denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.1.1 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che le opere in esame non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato, ma consistono in ampliamenti al di fuori della sagoma originaria, come correttamente allegato dalla difesa comunale e come chiaramente risulta dagli elaborati progettuali depositati agli atti del giudizio. Tali opere non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti meramente accessori e serventi all’edificio, privi di incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani aggiunti all’originario edificio, con corrispondente incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al fabbricato preesistente. A ben vedere, infatti, i ricorrenti distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto successivamente a un edificio, purché di dimensioni contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende proprio dal fatto che esso viene a costituire parte integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le quali non possono consistere in porzioni costitutive del medesimo immobile cui dovrebbero servire.
12.1.2 Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”, trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R. n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.2 Non merita accoglimento neppure la seconda censura articolata nel secondo motivo, con la quale i ricorrenti lamentano che il Comune non avrebbe potuto ordinare la demolizione delle opere di divisione interne, in quanto qualificabili come mero intervento di manutenzione straordinaria e, come tali, ammesse dalla disciplina urbanistica dettata dal PRG per gli edifici incompatibili con la destinazione della zona “M”, quale è il fabbricato residenziale sul quale le opere sono state eseguite.
12.2.1 Al riguardo, deve infatti osservarsi che –come correttamente evidenziato dalla difesa comunale– è stata presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente, perciò, ad aver qualificato le opere come un unico intervento edilizio abusivo.
L’istanza non avrebbe potuto, pertanto, essere valutata in modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è consentito al Comune prendere in considerazione singole porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di “manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato. E, d’altro canto, l’adozione di un’ordinanza di demolizione riferita all’abuso nella sua interezza, per come dichiarato dal privato, costituisce una mera conseguenza del diniego dell’accertamento di conformità.
12.2.2 Tale esito, peraltro, non preclude la presentazione di una nuova istanza, al fine di regolarizzare la sola parte dell’intervento che si ritenga eventualmente conforme alla disciplina urbanistica, eseguendo, per il resto, l’ordinanza di demolizione.
12.3 Da ciò il rigetto di tutte le censure articolate con il secondo motivo di impugnazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione”.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
---------------

14. Non può, poi, darsi rilievo all’allegata conformità delle opere rispetto al vigente PGT, dedotta con il quarto motivo di ricorso.
14.1 Al riguardo, deve anzitutto rilevarsi che il PGT è entrato in vigore in un momento successivo non solo alla realizzazione dell’abuso, ma anche della presentazione della domanda di sanatoria.
14.2 Ciò posto, deve escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico
” (così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione” (Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
14.3 Anche il quarto motivo di ricorso va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza presentata al Comune ha ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire a parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è finalizzata alla sanatoria di opere abusive.
---------------
L'arti. 36 dpr 380/2001 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito.
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza.
In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non viziante”.
---------------

15. Con il quinto motivo di impugnazione, i ricorrenti deducono la violazione del termine per provvedere, richiamando la disciplina del rilascio del permesso di costruire di cui all’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005.
15.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che, nel caso oggetto del presente giudizio, il superamento del termine per provvedere è ontologicamente inconfigurabile.
L’istanza presentata al Comune, e che ha condotto all’emanazione del provvedimento impugnato, aveva, infatti, ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire a parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost. n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2681).
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla nuova determinazione negativa assunta espressamente dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
15.2 In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non viziante” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012, n. 1084).
15.3 Anche il quinto e ultimo motivo di impugnazione va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone, logicamente, che un ritardo sia configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
D’altro canto, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli interessati di procrastinare la demolizione dell’opera abusiva e di continuare a trarne profitto.

---------------

16. I ricorrenti hanno domandato anche la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno derivante dal ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo.
16.1 Al riguardo, il Collegio ritiene di poter prescindere dall’eccezione di tardività sollevata dalla difesa comunale, stante l’infondatezza nel merito della domanda.
16.2 La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone, infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
D’altro canto, come correttamente rimarcato dalla difesa comunale, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli interessati di procrastinare la demolizione dell’opera abusiva e di continuare a trarne profitto.
16.3 Da ciò il rigetto della domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl regolamento non può impedire l'accesso ai pareri legali richiamati nel procedimento disciplinare
Il Consiglio di Stato - Sez. III, con la sentenza 15.05.2018 n. 2890, ha dichiarato illegittimo il mancato accesso al parere legale reso all'ufficio che ha adottato il procedimento disciplinare; il diritto di difesa del dipendente non può ammettere restrizioni neppure se richiamate da norme interne o regolamentari.
Il caso
L'ufficio dei procedimenti disciplinari, per evitare errori con potenziali conseguenze in caso di contenzioso, ha chiesto un parere legale, poi richiamato all'interno del procedimento disciplinare che ha disposto la sospensione dal servizio di un dipendente pubblico. Il dipendente sanzionato ha quindi richiesto formalmente copia del parere.
A causa del «diniego all'ostensione», il dipendente si è rivolto al giudice amministrativo, considerando il mancato accesso all’atto limitativo del suo diritto alla difesa davanti al giudice del lavoro.
In particolare, il procedimento disciplinare era stato emesso e sospeso, in pendenza di un procedimento penale che lo vedeva coinvolto, mentre restava efficace la sospensione cautelare, verso la quale il dipendente ha fatto ricorso al giudice del lavoro. Il Tar ha rigettato la richiesta di accesso al parere legale in quanto lo ha considerato non essenziale nella determinazione finale assunta dall’ufficio dei procedimenti disciplinari.
La posizione del Consiglio di Stato
Secondo i giudici di Palazzo Spada, nel procedimento amministrativo i pareri legali sono ostensibili tutte le volte che, pur facendo parte di atti interni, rientrino nel provvedimento amministrativo finale anche solo in termini sostanziali, quindi anche in assenza di un loro richiamo formale. Non sono invece ostensibili se sono collegati a una strategia difensiva della Pa una volta insorto un contenzioso.
Nel caso di specie, anche se il provvedimento che ha disposto la sospensione dal servizio del dipendente era collegato ad atto di diritto privato, quindi assunto con i poteri del privato datore di lavoro, il parere legale era richiamato in modo diretto, tanto da precisare che era stato richiesto a «miglior inquadramento dell'intero procedimento». In altri termini, il richiamo ha fatto sì che il parere legale entrasse a pieno titolo nel procedimento di sospensione cautelare del dipendente, tanto da risultare essenziale nel provvedimento finale adottato dalla Pa.
Il Consiglio di Stato ha quindi considerato la richiesta di acquisizione del parere legale necessaria alla tutela della difesa del dipendente. Né l'ente può scalfire una norma di rango primario e costituzionalmente orientata, secondo cui il diritto di difesa del dipendente deve essere in ogni caso garantita. D'altra parte, continua la sentenza, una norma regolamentare che dovesse negare il diritto di accesso si porrebbe in diretto contrasto con i principi dettati dall'articolo 24 della legge n. 241/1990, che limitano l'accesso ai soli documenti che riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche.
Il diniego si pone quindi in contrasto con la norma la quale dispone in modo espresso che «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2018).
---------------
MASSIMA
1. Come esposto in narrativa il dott. Co. ha impugnato dinanzi al Tar Marche il diniego di ostensione del parere legale -richiesto dall’Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche al Dirigente del proprio Servizio Legale designato quale consulente dell'Ufficio procedimenti disciplinari– in occasione del procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti e conclusosi con atto del 02.08.2016, che ha disposto la sospensione cautelare dal servizio e la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di un provvedimento penale a suo carico.
L’adito Tar Marche ha respinto il ricorso sul rilievo che, dalla motivazione della sospensione dal servizio, è dato evincere che l’acquisito parere non ha concorso alla determinazione assunta, che trova il presupposto nei fatti contestati al dirigente.
L’appello proposto avverso detta sentenza è fondato.
La giurisprudenza costante del giudice amministrativo, con riferimento alla richiesta di accesso dei pareri legali, ne riconosce l’ostensione in accoglimento dell’istanza d’accesso quando tale parere ha una funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale ad esso (Cons. St., ord., sez. VI, 24.08.2011, n. 4798); nega invece l’accesso quando il parere viene espresso al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio (Cons. St., sez. V, 05.05.2016, n. 1761; id., sez. VI, 13.10.2003, n. 6200).
Ed invero, nel preambolo del provvedimento di sospensione si dà atto: a) di chiedere al consulente avv. Ma.Ba. di formulare un parere scritto a miglior inquadramento dell’intero procedimento (pag. 1); b) di aver acquisito “il parere legale del consulente avv. Ma.Ba. protocollato al numero 88196/AV3 di pari data e si decideva per l’adozione del presente provvedimento” (pag. 2).
L’assunto del giudice di primo grado, dunque, non trova alcuna conferma nel tenore letterale della sospensione nella quale, anzi, si precisa di aver acquisito il parere “a miglior inquadramento dell’intero procedimento” e senza per nulla chiarire che lo stesso non sarebbe stato utilizzato al fine del decidere, con la conseguenza che, proprio in quanto richiamato, non può che ritenersi, in mancanza di una evidente prova fattuale contraria, che lo stesso non sia entrato nel procedimento.
A tale rilievo, di per sé assorbente dell’ostensibilità del parere richiesto, si aggiunge che il dott. Co. ha motivato l’istanza di accesso con la necessità di una più completa difesa delle proprie ragioni nel giudizio proposto avverso la sospensione dal servizio, pendente dinanzi al giudice del lavoro.
Sotto tale profilo
è nota la particolare attenzione alle ragioni dell’accesso, che deve essere riconosciuta quando il rilascio di documentazione è richiesto in funzione difensiva.
Si deve, infatti, ricordare che il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall’art. 24, comma 7, l. 07.08.1990, n. 241 che, nel rispetto dell’art. 24 Cost., prevede, con una formula di portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”. Fermo restando che, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile.
Entro i predetti limiti deve essere, quindi, garantito l’accesso agli atti, a fini difensionali, quando un soggetto è coinvolto in un procedimento giurisdizionale da cui può scaturire una decisione pregiudizievole a suo carico.

Facendo applicazione di tali principi non può certo negarsi il diritto del dott. Co. a estrarre copia del parere legale richiamato nel provvedimento che ha disposto la sua sospensione dal servizio.
2. L’accoglimento dell’appello non trova certo ostacolo nella disciplina regolamentare adottata dall’Azienda Sanitaria Unica Regionale – ASUR Marche.
Non nel punto 10 del regolamento, atteso che l’Amministrazione non ha affermato né tanto meno provato che il parere in questione –che, come si è detto, è stato acquisito nel corso del procedimento sfociato nella sospensione dal servizio e non in occasione di un contenzioso in atto– possa “compromettere l'esito del giudizio o la cui diffusione potrebbe concretizzare violazione dell'obbligo del segreto"; non nel punto 19, atteso che il riferimento nello stesso contenuto, al fine di individuare i parerei esclusi dall’accesso, non può che riferirsi a quelli espressi al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio; diversamente, infatti, si porrebbe in contrasto con i principi dettati dall’art. 24, l. 07.08.1990, n. 241 che - pur contemplando la possibilità di prevedere, mediante regolamento, “casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi (…) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono” - dispone che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Una lettura diversa delle disposizioni regolamentari porterebbe dunque a concludere per la loro illegittimità.
3. In conclusione, l’appello va accolto e l’impugnata sentenza del Tar Marche n. 902 del 04.12.2017 va annullata.
Per l’effetto, va ordinato all’Azienda Sanitaria Unica Regionale di esibire alla parte appellante il parere richiesto, entro 30 giorni dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero dalla notificazione, se anteriormente effettuata, della presente sentenza.

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata.
Le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”.
Dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso.
L’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”.
Va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al documento sia unicamente e necessariamente funzionale all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante.
La “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnazione, e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo.
In definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i documenti sono suscettibili di interferire con la sfera giuridica del soggetto istante.
---------------
In via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di riservatezza di soggetti terzi.
Deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto di difesa è garantito a livello costituzionale.
La L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si assumano lese;
L’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma.
---------------
Come ha statuito Consiglio di Stato, ferma, in linea di principio, l’esclusione del diritto di accesso nei procedimenti tributari sancita dalla legge [art. 24, co. 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241], vale comunque il comma 7, primo periodo, del medesimo art. 24, secondo il quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
La pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto occasione di rilevare la Sezione, svolgendo considerazioni dalle quali non vi è motivo per discostarsi in questa sede, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 24 conduce alle seguenti conclusioni:
   I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario è temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che sono inaccessibili i documenti relativi all’attività investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed operative);
   II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei limiti di legge, garantisce l’accesso a quei documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici e pone come unico limite il fatto che i documenti contengano dati sensibili o giudiziari;
   III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell’interessato>>.
Invero, si registra un orientamento giurisprudenziale oramai costante ad avviso del quale “l'art. 24 della legge n. 241/1990, nella parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari –per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano– va interpretato nel senso che l'inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera "pendenza" del procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali, che conducono alla quantificazione del tributo”.
---------------
L'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza a quei giudizi.
Peraltro, questo TAR ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere neppure subordinato all’avvio di una controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc.
Non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via giurisdizionale e attivando la controversia di merito (in definitiva con uno scopo esplorativo).
La sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del documento da parte dell’amministrazione detentrice, una volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116 cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte del giudice.
---------------
Rilevato:
   - che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto, costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati in apposito elenco;
   - che non si profila, dunque, un controllo generalizzato sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle medesime;
   - che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel trattamento;
   - che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell'interessato;
   - che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati sensibili e super-sensibili;
   - che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art. 4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se effettivamente un documento contenesse un’informazione di natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella specifica informazione;
   - che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto di accesso risulta comunque prevalente una volta che si accerti la necessità di disporre della documentazione per la difesa in giudizio;
   - che, su una tematica affine, questa Sezione ha affermato che “I modelli 770 sono in effetti dichiarazioni di soggetti privati, o di amministrazioni che agiscono come datori di lavoro, tuttavia diventano documenti amministrativi nel momento in cui sono acquisiti alla banca dati fiscale. L’acquisizione determina il passaggio di tali documenti dalla sfera privata del rapporto di lavoro alla sfera pubblica del controllo sull’adempimento delle obbligazioni tributarie …. Una volta entrate nella sfera pubblica, le informazioni contenute nelle dichiarazioni inviate all’Agenzia delle Entrate sono trattate per finalità pubblicistiche di natura tributaria, e dunque non sono più nella disponibilità dei soggetti tra cui è intercorso il rapporto di lavoro. Ne consegue che i documenti contenenti i dati fiscali possono essere oggetto di accesso da parte di terzi, quando questi ultimi dimostrino di avere un interesse prevalente rispetto al diritto alla riservatezza delle parti del sottostante rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di accesso l’unico contraddittore è l’amministrazione tributaria, e non sussistono controinteressati da coinvolgere necessariamente nella procedura”;
   - che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti.
---------------

Evidenziato:
   - che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
   - che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
   - che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso;
   - che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che debbono considerarsi "interessati", “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”;
   - che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al documento sia unicamente e necessariamente funzionale all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 01/08/2017 n. 3831);
   - che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto all’interesse all’impugnazione, e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o interesse legittimo (Consiglio di Stato, sez. VI – 30/03/2017 n. 1453);
   - che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i documenti sono suscettibili di interferire con la sfera giuridica del soggetto istante;
Atteso:
   - che la Società Agricola ricorrente, che svolge attività di allevamento di bovini e produzione di latte negli immobili di proprietà in località “Cascina Valle” riferisce di aver instaurato numerosi contenziosi tributari con il Comune di Caravaggio, sugli avvisi di accertamento relativi alla tassa rifiuti (TARSU – TARES - TARI);
   - che espone di avere da ultimo notificato, in data 04/01/2018 e innanzi alla Commissione Tributaria competente, un ulteriore ricorso avverso l’avviso di accertamento TARI relativo all’annualità 2016;
   - che, con nota del 22/12/2017, la ricorrente ha chiesto al Comune intimato “copia delle denunce/autocertificazioni ai fini TARSU/TARES/TARI, verbali di sopralluogo e verifiche, Docfa, avvisi di pagamento e/o accertamento TARSU/TARES/TARI quanto meno per il periodo 2012/2017 e relativi alle imprese che svolgono nel Comune di Caravaggio attività analoga a quella della mia assistita”;
   - che l’istanza è stata accompagnata dall’indicazione di 37 Società che si troverebbero in condizioni analoghe a quelle in cui versa la Società esponente, la quale ha addotto la necessità di espletare attività difensiva in ambito tributario;
   - che il Comune di Caravaggio, nella risposta del 22/01/2018 (doc. 1) ha accolto solo parzialmente la pretesa ostensiva, mettendo a disposizione i documenti di interesse con cancellazione dei dati identificativi delle Società ossia denominazione, ubicazione, riferimenti catastali (doc. 5);
   - che la difesa comunale ha precisato come, nello specifico, sia stata fornita copia di tutta la documentazione richiesta –ossia importi, denunce e accertamenti TARES/TARI con eccezione dei DOCFA (non detenuti dall’Ente locale)– oscurando i dati relativi alla ragione sociale delle Società agricole interessate dagli avvisi, nonché i dati catastali delle stesse;
   - che ha puntualizzato come la maggior parte delle Società agricole oggetto della richiesta, ritualmente sollecitate dal Comune, abbiano comunicato il proprio dissenso all’accesso;
   - che l’esponente lamenta che la documentazione fornita, non permettendo di risalire all’intestatario degli avvisi e all’ubicazione delle Società agricole indicate nell’istanza, impedirebbe di verificare il corretto operato dell’amministrazione comunale e l’insussistenza di eventuali disparità di trattamento tra operatori attivi nel medesimo settore economico;
   - che non sarebbe possibile il raffronto con la realtà fattuale, per cui verrebbe precluso il sindacato di legittimità dell’azione amministrativa;
   - che l’ulteriore tentativo di interlocuzione non ha avuto esito;
Considerato:
   - che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad. plenaria – 04/02/1997 n. 5);
   - che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art. 24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto di difesa è garantito a livello costituzionale;
   - che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si assumano lese;
   - che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma (Consiglio di Stato, sez. VI – 09/04/2018 n. 2158);
Dato atto:
   - che la difesa del Comune ha affermato che i documenti richiesti sarebbero del tutto irrilevanti per l’avvio dell’azione giudiziaria;
   - che gli stessi non sarebbero direttamente lesivi delle posizioni giuridiche della ricorrente, non sarebbero idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti e non rivestirebbero influenza alcuna nel contenzioso tributario pendente (per l’inconfigurabilità della denunciata disparità di trattamento);
   - che l’istanza si porrebbe altresì in contrasto con il disposto dell'art. 24, comma 3, della L. 241/1990, integrando un controllo generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione;
   - che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
   - che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del documento richiesto (cfr. in proposito TAR Campania Napoli, sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
   - che, infatti, la divulgazione degli atti identificativi delle Aziende agricole del territorio soddisfa una concreta aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare dell’interesse a prenderne cognizione al fine di raffrontare le situazioni di fatto e orientare le proprie scelte successive, anche in sede giurisdizionale;
Rilevato:
   - che, come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 06/11/2017 n. 5128, ferma, in linea di principio, l’esclusione del diritto di accesso nei procedimenti tributari sancita dalla legge [art. 24, co. 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241], vale comunque il comma 7, primo periodo, del medesimo art. 24, secondo il quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”;
   - che la pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto occasione di rilevare la Sezione (11.02.2011, n. 925; 26.09.2013, n. 4821; 13.03.2014, n. 1211), svolgendo considerazioni dalle quali non vi è motivo per discostarsi in questa sede, una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 24 conduce alle seguenti conclusioni:
   I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario è temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che sono inaccessibili i documenti relativi all’attività investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed operative: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2002, n. 1977);
   II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei limiti di legge, garantisce l’accesso a quei documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici e pone come unico limite il fatto che i documenti contengano dati sensibili o giudiziari;
   III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 55; sez. V, sez. IV, 29.01.2014, n. 461; sez. V, 23.03.2015, n. 1545)
>>;
      - che si registra un orientamento giurisprudenziale oramai costante, al quale aderisce TAR Puglia Lecce, sez. II – 22/12/2017 n. 2021, che ha richiamato TAR Lombardia Brescia, sez. II – 02/05/2017 n. 573 ad avviso del quale “l'art. 24 della legge n. 241/1990, nella parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari –per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano– va interpretato nel senso che l'inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera "pendenza" del procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali, che conducono alla quantificazione del tributo (TAR Lazio, II-ter, 3260/2017, TAR Catanzaro, sez. II, 08/03/2016, n. 469; TAR Napoli, sez. VI, 14/01/2016, n. 171; Consiglio di Stato, sez. IV, 13/11/2014, n. 5588)” (si veda anche TAR Sicilia Catania, sez. III – 31/07/2017 n. 1983);
Evidenziato:
   - che, nel caso che occupa il Collegio, la ricorrente sostiene che dall’istanza di accesso emerge la prova della consistenza dell’interesse ad utilizzare nel procedimento tributario i documenti richiesti, e che è stato rappresentato l’intento di verificare un’eventuale disparità di trattamento ai fini TARSU, TARI e TASI tra imprese agricole operanti nella stessa zona;
   - che i plurimi ricorsi tributari proposti attestano la sussistenza di un effettivo legame “tra la finalità dichiarata ed il documento richiesto” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 05/02/2014 n. 556);
   - che l'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza a quei giudizi;
   - che, peraltro, questo TAR (cfr. sentenza sez. I – 20/05/2014 n. 535) ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere neppure subordinato all’avvio di una controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
   - che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via giurisdizionale e attivando la controversia di merito (in definitiva con uno scopo esplorativo);
   - che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del documento da parte dell’amministrazione detentrice, una volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116 cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte del giudice.
Rilevato:
   - che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto, costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati in apposito elenco;
   - che non si profila, dunque, un controllo generalizzato sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle medesime;
   - che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel trattamento;
   - che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell'interessato;
   - che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati sensibili e super-sensibili;
   - che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art. 4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se effettivamente un documento contenesse un’informazione di natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella specifica informazione;
   - che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto di accesso risulta comunque prevalente una volta che si accerti la necessità di disporre della documentazione per la difesa in giudizio;
   - che, su una tematica affine, questa Sezione (cfr. sentenza 20/05/2014 n. 535) ha affermato che “I modelli 770 sono in effetti dichiarazioni di soggetti privati, o di amministrazioni che agiscono come datori di lavoro, tuttavia diventano documenti amministrativi nel momento in cui sono acquisiti alla banca dati fiscale. L’acquisizione determina il passaggio di tali documenti dalla sfera privata del rapporto di lavoro alla sfera pubblica del controllo sull’adempimento delle obbligazioni tributarie …. Una volta entrate nella sfera pubblica, le informazioni contenute nelle dichiarazioni inviate all’Agenzia delle Entrate sono trattate per finalità pubblicistiche di natura tributaria, e dunque non sono più nella disponibilità dei soggetti tra cui è intercorso il rapporto di lavoro. Ne consegue che i documenti contenenti i dati fiscali possono essere oggetto di accesso da parte di terzi, quando questi ultimi dimostrino di avere un interesse prevalente rispetto al diritto alla riservatezza delle parti del sottostante rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di accesso l’unico contraddittore è l’amministrazione tributaria, e non sussistono controinteressati da coinvolgere necessariamente nella procedura”;
   - che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti (Consiglio di Stato, sez. III – 05/06/2015 n. 2768) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2018 n. 479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISubappaltare poco premia l'impresa.
Legittimo attribuire un punteggio premiale all'impresa che utilizza poco il subappalto.

Lo ha affermato il Tar Piemonte con la sentenza 11.05.2018 n. 578 rispetto ad una procedura per l'affidamento di lavori con il criterio di aggiudicazione della offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo.
Gli atti di gara prevedevano in particolare l'attribuzione di 55 punti agli elementi qualitativi e di 45 punti all'offerta economica, secondo i criteri stabiliti dal disciplinare di gara e fra questi ultimi si prevedeva l'assegnazione di un massimo di dieci punti per i «concorrenti che intendessero avvalersi della facoltà di subappaltare parte del servizio in quota inferiore al massimo consentito».
Nel ricorso presentato di fronte al Tar piemontese, fra le altre cose, si eccepiva anche che la clausola che valorizza il minor ricorso al subappalto sarebbe stata discriminatoria e limitativa della concorrenza in quanto di fatto avrebbe impedito a numerosi operatori, non in possesso dei requisiti oggetto di gara o che comunque ritenessero di non poter eseguire direttamente tutto l'appalto, di partecipare alla gara.
Il Tar ha precisato in primo luogo che qualunque impresa avrebbe potuto concorrere in raggruppamento temporaneo con altre imprese ovvero ricorrere all'avvalimento, istituti, questi, che garantiscono entrambi la più ampia partecipazione alla gara.
Inoltre, la clausola della lex specialis che premia con un punteggio aggiuntivo l'offerta dell'operatore che subappalta la minor quota dell'appalto non viene ritenuta dai giudici discriminatoria né ingiustificatamente limitativa della libertà di stabilimento e della libera concorrenza perché ha lo «scopo non di precludere bensì semplicemente di scoraggiare il ricorso ad una modalità di esecuzione dell'appalto, il subappalto, che per natura è idoneo a creare problemi che si riflettono sulla corretta esecuzione dell'appalto e sul rispetto di alcune norme a carattere imperativo (rispetto degli obblighi previdenziali per i dipendenti del subappaltatore; rispetto di norme a tutela dell'ambiente)»
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

TRIBUTIAree di atterraggio non confermate esenti.
La potenzialità edificatoria di un'area che abbia perso l'edificabilità può essere trasferita su altre aree individuate dall'amministrazione o su altre possedute dallo stesso proprietario (così dette aree di atterraggio); tuttavia, per poter esercitare una pretesa impositiva il diritto di trasferimento della capacità edificatoria dovrà essere contrattualmente concluso tra le parti.

Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza 27.04.2018 n. 2745/1/2018 emessa dalla Sez. I della Commissione tributaria regionale del Lazio.
La ricorrente aveva impugnato un accertamento relativo a Ici per l'anno d'imposta 2008; l'accertamento riguardava una maggiore imposta per un'area situata nel comune di Roma e ricadente nel comprensorio di Tor Marancia. La ricorrente aveva riferito che le volumetrie erano state individuate in un comprensorio destinato a parco pubblico e quindi non suscettibile di utilizzo edificatorio; il comune di Roma aveva replicato che l'area riguardante il comprensorio di Tor Marancia, originariamente individuata come edificabile, era stata dichiarata di interesse archeologico, con conseguente cancellazione della stessa dalle zone a destinazione urbanistica.
Tuttavia, era stato avviato un procedimento di perequazione urbanistica con il trasferimento della capacità edificatoria su determinate aree di atterraggio. Si trattava, quindi, di stabilire se a seguito di detta perequazione, nel senso del trasferimento della potenzialità edificatoria su di un'area diversa da quella originariamente individuata (cosiddetta di atterraggio), fosse dovuta l'Ici relativa a questa area, in base alla capacità edificatoria trasferita.
La Ctp di Roma ha accolto il ricorso. La Commissione regionale del Lazio ha confermato la decisione annullando l'accertamento del comune capitolino. I giudici regionali hanno infatti rilevato come, nella fattispecie in esame, non veniva portato a termine il procedimento in base al quale l'area in questione cosiddetta di atterraggio sarebbe dunque risultata effettivamente edificabile e attribuita alla ricorrente.
Il collegio ha rilevato come in mancanza della sottoscrizione di un'apposita convenzione tra il comune e la società ricorrente, potesse configurarsi soltanto un'aspettativa di edificabilità da imputare a un'altra area, detta appunto di «atterraggio». Il collegio regionale ha concluso ritenendo che la particolarità della situazione dedotta ammetteva la compensazione delle spese di lite.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) La ricorrente ne aveva eccepita l'illegittimità, sostenendo che le aree di proprietà non erano più edificabili e che le volumetrie erano state individuate nel comprensorio di Tor Marancia che non risulta area edificabile nel Piano regolatore, a seguito del divieto assoluto di edificabilità nel frattempo imposto, per destinazione a parco pubblico.
Con la sentenza impugnata, la Ctp ha accolto il ricorso, rilevando la fondatezza dei motivi di gravame, in quanto ( ) presupposti per l'Ici sono: il possesso di un'area edificabile, l'individualità e l'identificabilità dell'area posseduta, la sua utilizzabilità a scopo edificatorio, il collegamento dell'imposta con un diritto reale; ( ) Eccepisce l'appellante comune l'illegittimità della sentenza impugnata, sostenendo: 1) l'illegittimità della decisione in merito alla ritenuta inedificabilità dell'area (comprensorio Tor Marancia) e della mancata assegnazione del sito di atterraggio. L'appello proposto dal Comune di Roma Capitale è da ritenersi infondato e va quindi respinto per i motivi di seguito esposti. ( )
Pur non essendo del tutto priva di pregio, la prospettazione dell'ente locale non appare condivisibile, perché difetta di concretezza, valorizzando la situazione soprattutto sotto l'aspetto teorico, quanto meno in parte disconnesso dalla realtà effettiva, nella quale i tempi di realizzazione della compensazione urbanistica si sono dilatati in maniera indiscutibile, a causa della lentezza della complessa procedura amministrativa in materia, che se si fosse conclusa in termini più tempestivi, avrebbe probabilmente evitato l'insorgere dell'attuale controversia.
Appare decisiva la circostanza, evidenziata dalla Società ( ) che, ai fini che qui interessano, la procedura di compensazione può dirsi essersi conclusa, tuttalpiù (essendo in pratica ancora incompiuta), al momento dell'adozione della delibera consiliare del comune n. 18 del 12.02.2008 e quindi in epoca successiva all'annualità di imposta contestata. Poiché tale fatto è pacifico in atti, va ritenuto che al momento del pagamento dell'imposta 2007 non sussisteva il presupposto per considerare la società in possesso di un'area edificatoria ( )
In altri termini, il sorgere del diritto del proprietario, da un lato, e la correlata pretesa impositiva dell'ente locale, dall'altro, devono coincidere nello stesso momento. Rebus sic stantibus, invece, la singolare situazione di limbo del diritto di edificazione, in cui si versava ancora nell'annualità di imposta considerata, non giustifica la pretesa impositiva, nei termini in cui è stata contestata, rendendo non corretta la richiesta integrazione.
P.Q.M.
Rigetta l'appello. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.07.2018).

TRIBUTITributi locali, per l'accertamento fa fede il timbro di spedizione.
L'avviso di accertamento Ici è legittimo se notificato entro il termine di decadenza di 5 anni certificato dal timbro postale di spedizione, anche se ricevuto dal destinatario oltre il termine di legge.

È quanto ha affermato la ctr di Roma, III Sez., con la sentenza 24.04.2018 n. 2657/3/2018. La stessa regola vale anche per gli altri tributi locali.
Si tratta di una questione che forma spesso oggetto di contenzioso, nonostante la Corte costituzionale (sentenza 477/2002) abbia già da tempo chiarito che i termini operano in maniera diversa per il notificante e il destinatario. Mentre per il primo conta la data di spedizione dell'atto impositivo, per il contribuente i termini per l'impugnazione decorrono dalla ricezione.
Per il giudice d'appello, infatti, «al fine del perfezionarsi della notifica per il soggetto notificante, ciò che fa fede è il termine entro cui l'avviso di accertamento viene consegnato all'ufficio di posta». In questo senso si è espressa la Consulta, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell'articolo 149 del codice di procedura civile e dell'articolo 4, comma 3, della legge 890/1982, nella parte in cui prevedevano che la notificazione si perfezionasse per il notificante alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario. Secondo la Commissione regionale, il principio generale affermato dalla Corte costituzionale è «riferibile ad ogni tipo di notificazione ed in particolare a quella eseguita a mezzo del servizio postale».
Va ricordato che la Finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha fissato in modo chiaro i termini per l'accertamento dei tributi locali e per il recupero delle somme non versate o versate in ritardo, rispetto a quanto stabilito dalla precedente disciplina. Anche per la riscossione coattiva è stato imposto un termine, a pena di decadenza, per la notifica del titolo esecutivo.
Gli enti locali, in base all'articolo unico, comma 161 della legge 296/2006, possono accertare la mancata presentazione delle dichiarazioni e gli omessi versamenti entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui i relativi obblighi avrebbero dovuto essere assolti dal contribuente. Entro lo stesso termine possono, inoltre, rettificare le dichiarazioni incomplete o infedeli e irrogare le relative sanzioni.
Per la riscossione coattiva, a mezzo cartella o ingiunzione, l'articolo 1, comma 163, della suddetta legge ha previsto che debba essere effettuata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l'accertamento sia divenuto definitivo
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Il criterio della vicinitas che abilita l’imprenditore commerciale concorrente all’impugnazione di titoli edilizi e autorizzativi con riferimento alla nozione di unicità o identità del bacino d’utenza postula la rigorosa dimostrazione di “…un reale pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il provvedimento impugnato incida la posizione sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale” e ciò anche “anche in considerazione dei principi di liberalizzazione che presidiano il settore”.
Non è quindi sufficiente il richiamo, contenuto nella sentenza gravata, al criterio della vicinitas in combinazione con quello dell’identità del bacino d’utenza, quando sia mancata, come nel caso di specie, l’allegazione puntuale di un concreto pregiudizio, che non può essere affidata al generico rilievo contenuto nel ricorso introduttivo di una paventata “significativa perdita di quote di mercato”.
---------------

5.3) E’ altresì fondata l’ulteriore eccezione pregiudiziale relativa alla carenza di interesse all’annullamento del diniego di autotutela (e a monte del permesso di costruire) in capo alla Sc.Ca. S.r.l. in funzione della mera allegazione della propria posizione di competitor, quale esercente attività di distribuzione carburanti per autotrazione, e in specie come chiarito meglio nella memoria di costituzione nel giudizio di appello di “…un impianto di distribuzione di carburanti che è stato posizionato, in conformità al piano carburanti comunale, in un'area posta a monte, ad una distanza di poche centinaia di metri, rispetto a quella su cui dovrebbe sorgere il distributore della ditta Mu.” (trattasi verosimilmente dell’impianto collocato alla via San Brunone da Colonia).
Come chiarito ancora da ultimo da questa Sezione (cfr. Sez. IV, 19.07.2017, n. 3563) il criterio della vicinitas che abilita l’imprenditore commerciale concorrente all’impugnazione di titoli edilizi e autorizzativi con riferimento alla nozione di unicità o identità del bacino d’utenza postula la rigorosa dimostrazione di “…un reale pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il provvedimento impugnato incida la posizione sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale” e ciò anche “anche in considerazione dei principi di liberalizzazione che presidiano il settore” (nello stesso senso dell’esigenza della prova di un effettivo, concreto e attuale pregiudizio vedi Sez. IV, 25.01.2013, n. 489, nonché Sez. V, 30.11.2012, n. 6113, e più in generale Sez. IV, 07.05.2015, n. 2324).
Non è quindi sufficiente il richiamo, contenuto nella sentenza gravata, al criterio della vicinitas in combinazione con quello dell’identità del bacino d’utenza, quando sia mancata, come nel caso di specie, l’allegazione puntuale di un concreto pregiudizio, che non può essere affidata al generico rilievo contenuto nel ricorso introduttivo di una paventata “significativa perdita di quote di mercato”.
Al riguardo avrebbe dovuto essere quantomeno evidenziato, con pertinenti riferimenti alla consistenza del nuovo impianto, alla domanda “storica” di carburante per autotrazione nell’ambito del bacino d’utenza, alla potenziale incidenza dei volumi stimabili di erogazione del nuovo impianto su quella domanda, come e in che misura esso potrebbe incidere in modo significativo sul fatturato della società Sc.Ca. S.a.s.
Né potrebbe valere a fondare il riconoscimento di un interesse qualificato all’annullamento degli atti gravati la proposizione di esposti o denunce all’Autorità giudiziaria o la stessa presentazione di un’istanza di annullamento in autotutela, dovendosi l’interesse valutare e verificare su un piano oggettivo e non potendo essere precostituito da atti della parte.
5.4) In conclusione, in accoglimento dell’appello, e in riforma della sentenza gravata, deve dichiararsi in parte irricevibile e in parte inammissibile il ricorso proposto in primo grado e i relativi motivi aggiunti (peraltro indirizzati nei confronti di atti endoprocedimentali privi di autonoma lesività), restando ovviamente salvi i poteri delle Autorità amministrative, comunale e regionale, in ordine a ogni profilo di legittimità del titolo edilizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.04.2018 n. 2458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziato l'ufficiale che non rispetta il capo supremo.
Il comandante della polizia locale che non ottempera agli ordini di servizio del dirigente rischia il posto di lavoro. Anche se si tratta di indicazioni illegittime.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza 19.04.2018 n. 9736.
Tutte le problematiche della polizia locale qui vengono al pettine. Prima di tutto la possibilità, ripetutamente messa in discussione, di posizionare un dirigente sopra al comandante. E poi l'applicazione di un contratto privatistico a operatori di polizia.
Nel caso esaminato dal collegio il comandante è venuto ai ferri corti con il dirigente generale del comune. Alla serie di ordini e contrordini di servizio hanno fatto seguito azioni disciplinari con licenziamento dell'apicale. Contro questa misura estrema l'interessato ha proposto ricorso ma i giudici del Palazzaccio hanno confermato il licenziamento.
Anche se gli ordini erano illegittimi l'ufficiale doveva rispettarli. Salvo disposizioni costituenti reato o contrarie al dovere di fedeltà e diligenza il dipendente privatizzato non può che adeguarsi. E siccome il comandante non si è conformato a parere degli ermellini è giusto licenziarlo
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.07.2018).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIIl leone paga dazio.
Il leone paga dazio. Il comune non può ordinare la rimozione degli impianti pubblicitari abusivi ritenendo tali anche gli elementi decorativi posizionati all'ingresso di un hotel come due leoni seduti o una incisione storica nel centro di Venezia.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 18.04.2018 n. 414.
Il gestore di un tradizionale hotel posizionato in prossimità di piazza S. Marco ha impugnato l'ordine del comune di rimuovere una vecchia insegna di esercizio, il tappeto e alcuni elementi decorativi posizionati all'ingresso della struttura. E il collegio ha accolto le censure annullando la disposizione comunale.
La maggior parte delle installazioni considerate abusive, specifica la sentenza, come ampiamente documentato alla stessa amministrazione comunale risalgono infatti all'inizio del secolo scorso quando nessuna norma regolava l'installazione di una insegna o di una decorazione pubblicitaria.
A distanza di quasi un secolo dalla loro installazione risulta difficile per un comune ordinare la rimozione delle installazioni senza motivare in maniera approfondita la disposizione. E certamente due leoni non possono essere classificati come impianti pubblicitari
(articolo ItaliaOggi Sette del 30.07.2018).
---------------
MASSIMA
La società ricorrente, titolare di un’attività alberghiera esercitata nell’immobile sito in Venezia, San Marco .../a, ha impugnato gli atti in epigrafe indicati, con i quali il Comune di Venezia le ha ordinato l’immediata copertura e rimozione di alcuni mezzi pubblicitari (quali un’incisione con dicitura “Hotel Fl.” su pensilina, due sculture raffiguranti un leone seduto posti all’esterno dell’entrata, un tappeto con dicitura “Hotel Fl.”, una insegna bifacciale con illuminazione interna e dicitura “Hotel Fl.”), che si assumono installati in assenza della necessaria autorizzazione, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere.
...
Il provvedimento impugnato, con cui il Comune di Venezia ha ordinato alla ricorrente di procedere all’immediata copertura e rimozione dei mezzi pubblicitari ivi indicati, è illegittimo poiché viziato da eccesso di potere, sotto i profili del difetto d‘istruttoria e di motivazione, per le ragioni di seguito sinteticamente esposte.
Secondo quanto dedotto dalla ricorrente e non specificamente contestato dal Comune,
alcuni degli elementi pubblicitari e/o decorativi che formano oggetto del gravato provvedimento di rimozione (in particolare, la pensilina realizzata in ferro battuto e vetri piombati policromi e le due sculture raffiguranti un leone seduto) risalgono ai primi del Novecento; altri elementi pubblicitari erano già presenti negli anni ‘60 del secolo scorso, ben prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 446/1997 e del Regolamento Comunale CIMP del 1999, asseritamente violati; tutti gli elementi pubblicitari od ornamentali sono, inoltre, perfettamente integrati nella città storica.
Il Comune, pur a fronte del materiale fotografico inviato dall’interessata all’organo accertatore e delle deduzioni svolte dalla ricorrente in ordine alla compatibilità degli elementi pubblicitari con la disciplina legislativa e regolamentare vigente al momento della loro installazione, non ha indicato la normativa che, all’epoca, richiedeva il possesso di uno specifico titolo abilitativo per l’installazione di detti mezzi pubblicitari e/o decorativi né risulta aver in alcun modo valutato il carattere storico di detti elementi e la loro integrazione nel tessuto urbano, omettendo ogni considerazione al riguardo.
Il Comune, oltre a muovere dal presupposto non dimostrato circa il carattere abusivo degli elementi pubblicitari installati presso l’Hotel Fl., ha, altresì, assimilato ai mezzi pubblicitari tradizionali (es. insegna, tappeto con la dicitura aziendale) anche elementi, quali le due sculture raffiguranti un leone seduto poste all’ingresso dell’albergo, che obiettivamente non possiedono tali caratteristiche, rivestendo un mero carattere ornamentale.
Alla luce dei suesposti rilievi,
ritenuto che, nel particolarissimo caso di specie, il provvedimento repressivo dovesse essere sorretto da un’adeguata istruttoria e da una più approfondita motivazione, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento del provvedimento prot. 298118 del 15.07.2011, salvi gli ulteriori provvedimenti della P.A..

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale, poiché la norma sancita dall'art. 10-bis l. 241/1990 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento impugnato e di non annullarlo se le violazioni sono solo di carattere formale e non hanno inciso quindi sulla sua legittimità sostanziale, con il risultato che è irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
---------------

2. I ricorrenti affidano il ricorso a diverse censure di illegittimità dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive.
2.1 Sulla prima doglianza giova ricordare che, per costante giurisprudenza di questo Consiglio, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l'illegittimità del provvedimento finale, poiché la norma sancita dall'art. 10-bis l. 241/1990 va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento impugnato e di non annullarlo se le violazioni sono solo di carattere formale e non hanno inciso quindi sulla sua legittimità sostanziale, con il risultato che è irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 16.06.2017 n. 2953).
Nel caso che ci occupa, il Comune ha respinto le istanze di sanatoria del 18.12.2006 col provvedimento del 19.09.2007 “considerato che la costruzione delle opere denominata legnaia e serra sono in contrasto con le NTA di zona”. In seguito al diniego di permesso in sanatoria l’Amministrazione era tenuta ad adottare l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e trattandosi quindi di attività vincolata, la comunicazione sarebbe stata del tutto inutile; pertanto il motivo è infondato (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 11.04.2018 n. 944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza sia del giudice amministrativo che penale, la serra necessita di titolo abilitativo quando il manufatto presenta tutte le caratteristiche per essere qualificato come serra con copertura stabile, con attitudine a permanere nel tempo, priva del carattere di amovibilità.
Analogo ragionamento deve essere fatto per la legnaia, a causa dell’uso permanente della stessa, in quanto in materia edilizia rileva l’idoneità delle strutture ad incidere sullo stato dei luoghi, in un rapporto di stabile connessione con il suolo.

---------------

2.4. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono che il provvedimento impugnato non indicherebbe i motivi del diniego di sanatoria, risultando viziato per eccesso di potere e difetto di motivazione.
Per costante giurisprudenza sia del giudice amministrativo che penale, la serra necessita di titolo abilitativo quando il manufatto presenta tutte le caratteristiche per essere qualificato come serra con copertura stabile, con attitudine a permanere nel tempo, priva del carattere di amovibilità (ex multis Consiglio di Stato sez. IV 28.02.2017 n. 915, Cassazione penale sez. III 10.04.2013 n. 37139).
Analogo ragionamento deve essere fatto per la legnaia, a causa dell’uso permanente della stessa, in quanto in materia edilizia rileva l’idoneità delle strutture ad incidere sullo stato dei luoghi, in un rapporto di stabile connessione con il suolo.
Le opere realizzate dai ricorrenti, che sono descritte dettagliatamente nella prima ordinanza di demolizione del 2006, e in particolare la serra e la legnaia oggetto della seconda ordinanza del 2008 qui impugnata, presentano le caratteristiche individuate dalla giurisprudenza e come rilevato dall’Ente, ancorché sinteticamente, “risultano in contrasto con le N.T.A. del PRG vigente”.
Pertanto anche tale motivo è infondato (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 11.04.2018 n. 944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARILettera anonima in cassetta non molesta.
Inserire delle lettere anonime nella cassetta della posta non è un reato di molestia.

Un caso curioso è stato affrontato dalla Corte di Cassazione, Sez. I penale, nella sentenza 06.04.2018 n. 15523.
Tre anni fa il tribunale di Rimini condannò una donna a una multa di 400 euro per aver inserito delle lettere anonime nella una cassetta della posta di una persona nell'arco di un anno. La condanna è stata pronunciata ai sensi degli articoli 81 c.p. e 660 c.p. Da qui il ricorso, sebbene il procuratore generale sancì l'annullamento senza rinvio della sentenza perché il fatto, invero, non esisteva affatto.
La presunta molestatrice di lettere anonime, quindi, chiese ai porporati di piazza Cavour se, sul piano della legittimità, il percorso tra corridoi e tribunali effettuato negli anni fosse coerente con la pena irrogata dai magistrati.
Nello specifico si interrogavano gli ermellini perché, secondo i giudici territoriali, «la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi costitutivi del reato contestato», si legge nel dispositivo, «rilevanti sia sotto il profilo dell'elemento oggettivo sia sotto il profilo dell'elemento soggettivo, e del trattamento sanzionatorio irrogato, censurato per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, escluse nonostante l'assenza di pregiudizi penali dell'imputata».
I giudici di piazza Cavour hanno ponderato la sentenza con i reati riconosciuti, accogliendone il ricorso. Questo perché per innescare il reato di molestie l'azione deve nascere «in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo», quindi i supremi giudici hanno chiarito «che l'azione perturbatrice non si concretizzava in un luogo pubblico o aperto al pubblico, né veniva arrecata mediante l'uso del telefono, con la conseguenza di rendere privi di rilievo penale i comportamenti emulativi dell'imputata», spiegano gli ermellini, «e insussistente la fattispecie oggetto di contestazione».
Concludendo, i magistrati hanno ritenuto che «queste considerazioni rendono superfluo l'esame della residua doglianza afferente al trattamento sanzionatorio irrogato»
 (articolo ItaliaOggi Sette del 16.07.2018).

VARITelefonate mute plurioffensive. Offese alla quiete privata ma anche all'ordine pubblico. La Corte di cassazione ha ritenuto sussistere il reato nella particolare fattispecie
Inquietare con telefonate mute a tutte le ore è un reato plurioffensivo.

Lo spiega la Corte di Cassazione -Sez. I penale- nella sentenza 03.04.2018 n. 14782, che ha chiarito la sussistenza di reato su una particolare forma di molestia: le telefonate mute. Un uomo, nel 2016, è stato assolto dal tribunale di Parma dall'accusa di molestie (in base all'articolo 660 del codice penale) per aver disturbato il vicino «con reiterate telefonate mute a tutte le ore».
Il giudice ha ritenuto la sussistenza dell'esimente della provocazione, «considerando quale causa di non punibilità la situazione che si concretizza in una reazione nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso». In sostanza l'uomo avrebbe reagito al comportamento del vicino, «mediante rumori di tacchi, porte sbattute, tapparelle alzate e abbassate a tutte le ore», il che consente l'applicabilità della norma al di là dei delitti di ingiuria e diffamazione. Le parti civili però si sono presentate presso il Palazzaccio perché, a loro intesa, «il legislatore non avrebbe codificato la scriminante di condotte siffatte mentre, nel caso di specie, solo il comportamento dell'imputato sarebbe qualificabile come molestia».
I porporati di piazza Cavour hanno accolto il motivo di ricorso perché la reazione della vittima di tale condotta ha la rilevanza esimente voluta dalla norma solo quando integri i reati testualmente indicati. Non è ammissibile l'estensione analogica della scriminante, specificano i giudici, come è stato ritenuto nella sentenza impugnata, in modo da comprendere pure il reato di molestia o di disturbo alle persone.
Interpretando la ratio della norma gli ermellini affermano che: «Il legislatore, attraverso la previsione nell'art. 660 cod. pen., di un fatto recante molestia alla quiete di un privato, ha inteso tutelare anche la tranquillità pubblica per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta possibilità di reazione delle persone offese, pertanto, rispetto a detta contravvenzione viene in considerazione l'ordine pubblico, pur trattandosi di offesa alla quiete privata, infatti il reato è perseguibile d'ufficio».
Quindi questo tipo di reato, concludono, si configura come «plurioffensivo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.07.2018).

APPALTIL'informativa antimafia non produce danno.
Il ritardo nella stipula di un contratto aggiudicato dovuto ad esigenze antimafia non integra responsabilità precontrattuale e diritto al risarcimento del danno.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 26.03.2018 n. 1882.
Il caso riguardava un appalto di lavori di costruzione per il quale la stazione appaltante non aveva proceduto alla sottoscrizione perché, nel mese di marzo, aveva richiesto alla Prefettura il rilascio dell'informazione ex art. 10 del dpr n. 252/1998 (informativa antimafia), sebbene non fosse a ciò tenuto, in considerazione dell'importo dell'appalto e di alcune notizie apparse sulla stampa.
Ovviamente l'acquisizione dell'informativa antimafia ha comportato un ritardo nella stipulazione del contratto, tenuto conto dei termini necessari per lo svolgimento della complessa istruttoria da parte del prefetto ma, si legge nella sentenza, la responsabilità precontrattuale ricorre nel caso in cui prima della stipulazione contrattuale il presunto danneggiante, violando il principio di correttezza e buona fede, leda il legittimo affidamento maturato da controparte nella conclusione del contratto.
Se da un lato la previsione di un termine per la stipulazione del contratto assolve alla funzione di tutelare anche l'aggiudicatario, il quale non può restare vincolato per un termine indeterminato alle determinazioni della stazione appaltante, dall'altro lato il mancato rispetto del termine (sollecitatorio) di sessanta giorni risulta pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, e dunque non può integrare gli estremi di una condotta illecita. Occorre poi considerare che la norma dell'art. 11, comma 9, del dlgs 163/2006 non lascia l'impresa aggiudicataria «in balia» della stazione appaltante, ma le consente di recedere dal vincolo derivante dall'aggiudicazione ottenendo anche il rimborso delle spese sostenute.
È infatti lo stesso legislatore a disciplinare il bilanciamento degli opposti interessi consentendo all'impresa di evitare l'immobilizzazione dell'intera organizzazione aziendale nell'attesa della stipulazione del contratto, ricorrendo al recesso in modo da poter utilizzare le proprie risorse per ulteriori commesse
 (articolo ItaliaOggi del 30.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale non sussiste, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione del procedimento per il rilascio del titolo edilizio i soggetti viciniori dell’istante i quali, pur essendo legittimati all’impugnazione, non rivestono nemmeno la qualifica di controinteressati in senso tecnico.
Invero, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
E’ stato altresì puntualizzato che i vicini non sono annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione ex art. 7 della L. 241/1990, pur quando si tratti di soggetti che si siano in precedenza opposti all’attività edilizia del proprietario confinante, giacché l’estensione ad essi della predetta informativa comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell’attività amministrativa.
---------------
Certamente, il principio generale appena illustrato può subire eccezioni per la specificità e peculiarità della vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo– che il Comune avrebbe dovuto demolire.
Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare un pregiudizio dallo stesso provvedimento.

---------------

1. Il primo motivo non è suscettibile di positivo apprezzamento.
1.1 In linea generale non sussiste, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione del procedimento per il rilascio del titolo edilizio i soggetti viciniori dell’istante i quali, pur essendo legittimati all’impugnazione, non rivestono nemmeno la qualifica di controinteressati in senso tecnico (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/07/2017 n. 3573, che richiama sez. VI – 10/04/2014 n. 1718, con la quale aveva precisato che, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento; si veda nello stesso senso T.A.R. Piemonte – sez. II – 26/2/2016 n. 230).
E’ stato altresì puntualizzato che i vicini non sono annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione ex art. 7 della L. 241/1990, pur quando si tratti di soggetti che si siano in precedenza opposti all’attività edilizia del proprietario confinante, giacché l’estensione ad essi della predetta informativa comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell’attività amministrativa (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 21/03/2017 n. 497; TAR Emilia Romagna Parma – 04/04/2017 n. 127; TAR Lombardia Milano, sez. II – 14/06/2017 n. 1348; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. I – 02/11/2017 n. 722).
1.2 Certamente, il principio generale appena illustrato può subire eccezioni per la specificità e peculiarità della vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo– che il Comune avrebbe dovuto demolire (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/08/2015 n. 3891).
1.3 Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare un pregiudizio dallo stesso provvedimento.
Questo Collegio non ritiene che, nel caso di specie, dalle note depositate dalla ricorrente il 29/08/2014 e il 13/02/2015 potessero evincersi chiaramente e univocamente gli effetti dannosi provocati dalle opere nei suoi confronti: in occasione delle due segnalazioni/istanze di accesso, -OMISSIS- non ha fornito sufficienti indicazioni sul punto, avendo fatto riferimento ai lavori in corso (sui quali non aveva dato la necessaria autorizzazione in quanto comproprietaria della copertura), al pericolo di caduta di materiale e alla necessità di verificare il rispetto delle NTA su distanze, altezze e sicurezza.
Appare insufficiente la generica deduzione di una violazione afferente a interessi pur rilevanti, che non dà conto della rilevante incisione su beni giuridici di appartenenza (e l’effettività e la concretezza dei pregiudizi sono state adeguatamente rappresentate soltanto con la proposizione del ricorso) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie.
La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste, per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o all'aria del sottostante appartamento.
---------------
La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma incide sulle condizioni per il rilascio del titolo abilitativo.
In proposito, la giurisprudenza ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza, costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli stessi.
---------------

2. Anche la seconda censura non è passibile di positivo scrutinio.
2.1 Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e servizio (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 14/12/2017 n. 30046 che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile – 12/11/1998 n. 11407): come hanno sottolineato i controinteressati, nel caso di specie sussistono tutti i presupposti sostanziali per definire “condominio” il complesso composto dall’edificio le cui unità immobiliari appartengono ad -OMISSIS- S.r.l. e ai Sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS-, nonché ad altri soggetti. Infatti, anche se il compendio contempla gli appartamenti in blocchi separati e autonomi tra loro, nell’atto notarile 30/12/2010 (doc. 3 ricorrente - pagina 1) si dà atto della comproprietà delle corti comuni (sub. 5, 18 e 19 del mappale 58).
2.2 Sotto altro versante, appare acclarato in base alle deduzioni delle parti e agli atti di causa che l’assemblea è stata convocata e che la ricorrente non vi ha partecipato, dopo aver ricevuto l’avviso oltre il termine minimo (pari a 5 giorni) normativamente previsto. In ogni caso, è pacifico che -OMISSIS- non ha manifestato alcun consenso alla realizzazione dell’intervento. Sul punto, a prescindere dalla perdurante impugnabilità della deliberazione assembleare, si tratta di chiarire se è necessario il consenso unanime dei condomini o comunque l’approvazione del soggetto che può ricevere un incisivo pregiudizio (come il ricorrente, immediato confinante che occupa i piani immediatamente inferiori dell’edificio oggetto di sopraelevazione).
Il Collegio ritiene di dare al quesito risposta negativa.
2.3 In tema di condominio, l’art. 1127 comma 1 del c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”. I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie. La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste (Tribunale di Trento – 11/07/2017), per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o all'aria del sottostante appartamento (Consiglio di Stato, sez. IV – 09/05/2017 n. 2118).
2.4 La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma incide sulle condizioni per il rilascio del titolo abilitativo. In proposito, TAR Calabria Catanzaro, sez. I – 19/11/2015 n. 1749 ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza, costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli stessi (TAR Liguria, sez. I – 09/07/2015 n. 651, che richiama TAR Sardegna, sez. II – 14/03/2013 n. 224).
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene dell’edificio. Ulteriori riflessioni su tali aspetti saranno sviluppate con l’esame dell’ultimo motivo di ricorso. Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del diritto a sopraelevare.
2.5 La mancata indicazione, nell’accordo del 16/02/2015 (doc. 1-L ricorrente), del diritto di proprietà esclusiva di -OMISSIS- sulla striscia contigua al muro perimetrale in lato sud-ovest interessato dal sopralzo (e della comproprietà della corte comune) integra indubbiamente una lacuna, le cui conseguenze saranno esaminate in raccordo con le successive doglianze. Per il momento, non affiora un dolo evidente nella rappresentazione dello stato dei luoghi, che possa ex se insinuare un vizio nel titolo edilizio rilasciato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’asservimento consiste, in termini generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai quali un’area viene destinata a servire al computo dell'edificabilità di un altro fondo.
Come statuito dai giudici d’appello <<L'asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di alienazione del fondo asservito, discende dalla natura oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario.
E' stato poi puntualizzato che l’istituto del c.d. asservimento del terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura) rientra nello schema del contratto atipico con effetti obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo in conseguenza dell’emanazione del provvedimento amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria tra i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di cubatura fra le parti e nei confronti dei terzi è determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato che, a seguito della rinuncia all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo dall’ente pubblico”.
Come ha statuito Consiglio di Stato, <<Occorre precisare che, in casi quale quello di specie, non occorre che vi sia stato un formale “atto di asservimento” di un suolo (della sua estensione e della sua potenzialità edificatoria) ai fini della realizzazione di un manufatto da realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece sufficiente che il primo sia stato considerato al fine di assentire la volumetria realizzanda (di cui all’istanza di concessione edilizia), e poi concretamente realizzata. Da tale considerazione discende, innanzi tutto, che non assume alcun rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione della medesima superficie per il rilascio di altro e successivo titolo edilizio:
   - né che vi sia stata trascrizione o altra forma di pubblicità dell’atto di asservimento ….;
   - né che eventuali certificati di destinazione urbanistica indichino detto suolo come edificabile, secondo le previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico, poiché deve tenersi del tutto distinta la formale ed astratta destinazione urbanistica di un’area dalla concreta, intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque, l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità edilizie della medesima)>>.
Nella stessa prospettiva il Consiglio di Stato ha chiarito che “il concetto di asservimento urbanistico per esaurimento della capacità edificatoria opera obiettivamente ed è opponibile anche al terzo acquirente pur in assenza di trascrizione del vincolo nei registri immobiliari; esso consegue di diritto per il solo effetto del rilascio di legittime concessioni edilizie che determina l'esaurimento della capacità edificatoria stabilita dallo strumento urbanistico. Si tratta di un asservimento giuridico oggettivo tipico del regime conformativo dei suoli, sicché la mancata indicazione di tale effetto nella concessione edilizia o della relativa trascrizione della stessa come di un atto di cessione (pur aventi la valenza giuridica di determinare e pubblicizzare l'asservimento) non possono contrastare l'asservimento urbanistico che si determina in ragione dell'esaurimento della volumetria disponibile, ignorato dalla concessione o dall'atto di cessione”.

---------------

3. Passando all’esame del motivo di cui alla lettera c) dell’esposizione in fatto, la ricorrente deduce in via generale un difetto di istruttoria, ma al riguardo occorre rilevare che la pratica è stata istruita con l’acquisizione di elementi rilevanti (parere della Commissione per il paesaggio, verbale di assemblea condominiale, consenso dei confinanti, altro materiale documentale).
Il Collegio può a questo punto affrontare le censure puntuali.
3.1 Sulla cubatura, i controinteressati evocano la relazione allegata alla DIA in variante del 2013 (cfr. doc. 5.B ricorrente – pagina 3) dalla quale risulta che, per la realizzazione del corpo accessorio tra il balcone e la copertura (cd. “bussola”) –che contemplava un volume in ampliamento di mc. 30,12– i sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- si sono avvalsi della capacità edificatoria del mappale di loro proprietà esclusiva “confinante ad Ovest con il lotto in questione identificato al fg. 9 mappale 314 del comune di -OMISSIS-. La superficie identificata come edificabile corrisponde a mq. 200; con una capacità edificatoria pari a 1,5 mc/mq. il lotto quindi dispone di una volumetria pari a mc 300,00 …”.
Ultimato quell’intervento, essi disponevano di un volume residuo di mc. 269,88, sufficiente a compiere l’opera controversa in questa sede. Nello specifico, i controinteressati sostengono di aver posto in essere una “cessione di cubatura” da un fondo all’altro, allo specifico fine di accrescere la potenzialità edilizia del secondo tramite l’utilizzo della volumetria del primo (coincidente con la particella limitrofa).
Detto ordine di idee merita condivisione.
3.2 Come ha chiarito il Consiglio di Stato, sez. VI – 09/02/2016 n. 547, l’asservimento consiste, in termini generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai quali un’area viene destinata a servire al computo dell'edificabilità di un altro fondo.
Come statuito nella citata pronuncia n. 547/2016 dei giudici d’appello <<L'asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di alienazione del fondo asservito, discende dalla natura oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario (Consiglio di Stato, sez. IV – 05/05/2017 n. 2064).
Ha poi puntualizzato TAR Campania Salerno, sez. I – 07/04/2016 n. 916 che l’istituto del c.d. asservimento del terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura) rientra nello schema del contratto atipico con effetti obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo in conseguenza dell’emanazione del provvedimento amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria tra i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di cubatura fra le parti e nei confronti dei terzi è determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato che, a seguito della rinuncia all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo dall’ente pubblico”.
Come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 29/02/2016 n. 816, <<Occorre precisare che, in casi quale quello di specie, non occorre che vi sia stato un formale “atto di asservimento” di un suolo (della sua estensione e della sua potenzialità edificatoria) ai fini della realizzazione di un manufatto da realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece sufficiente che il primo sia stato considerato al fine di assentire la volumetria realizzanda (di cui all’istanza di concessione edilizia), e poi concretamente realizzata. Da tale considerazione discende, innanzi tutto, che non assume alcun rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione della medesima superficie per il rilascio di altro e successivo titolo edilizio:
   - né che vi sia stata trascrizione o altra forma di pubblicità dell’atto di asservimento ….;
   - né che eventuali certificati di destinazione urbanistica indichino detto suolo come edificabile, secondo le previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico, poiché deve tenersi del tutto distinta la formale ed astratta destinazione urbanistica di un’area dalla concreta, intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque, l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità edilizie della medesima)
>>.
Nella stessa prospettiva il Consiglio di Stato, sez. IV – 05/02/2015 n. 562 ha chiarito che “il concetto di asservimento urbanistico per esaurimento della capacità edificatoria opera obiettivamente ed è opponibile anche al terzo acquirente pur in assenza di trascrizione del vincolo nei registri immobiliari (v. Cons. di Stato, sez. V, n. 387/1998); esso consegue di diritto per il solo effetto del rilascio di legittime concessioni edilizie che determina l'esaurimento della capacità edificatoria stabilita dallo strumento urbanistico. Si tratta di un asservimento giuridico oggettivo tipico del regime conformativo dei suoli, sicché la mancata indicazione di tale effetto nella concessione edilizia o della relativa trascrizione della stessa come di un atto di cessione (pur aventi la valenza giuridica di determinare e pubblicizzare l'asservimento) non possono contrastare l'asservimento urbanistico che si determina in ragione dell'esaurimento della volumetria disponibile, ignorato dalla concessione o dall'atto di cessione”.
3.3 Alla luce dei principi illustrati non era necessaria, ai fini del trasferimento della cubatura disponibile, né una specifica previsione della normativa di piano né la trascrizione dell’atto di disposizione, e la fonte dell’effetto obbligatorio si rinviene nella relazione tecnica che assume valore di atto unilaterale d’obbligo; al contempo, la coincidenza della figura dei proprietari dei terreni coinvolti nella cessione semplifica ulteriormente la vicenda.
Da ultimo, si segnala che l’obbligo di trascrizione sancito dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis del c.c. –introdotto dall’art. 5 n. 3) del D.L. 13/05/2011 n. 70 convertito, con modificazioni, nella L. 12/07/2011 n. 106– non si riflette sulla validità dell’atto ma rileva unicamente ai fini dell’opponibilità ai terzi e della soluzione del conflitto tra più aventi causa dallo stesso autore, ai sensi dell'art. 2644 del c.c. (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La Corte di Cassazione –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto, affermato anche con la propria sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
---------------
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
---------------

3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA. Il limite –che lo strumento urbanistico riferisce all’altezza “media” quando il solaio di copertura non sia orizzontale e quando il terreno o la strada siano in pendenza– risulta infatti rispettato dall’intervento dei controinteressati, come si evince dai disegni e dalle tavole esibite.
Emerge chiaramente che l’altezza media dell’edificio –pari a 10,31 metri– rispetta la previsione di cui all’art. 5 del Piano delle Regole di -OMISSIS- (cfr. allegati n. 4 e n. 5 controinteressati). Non è sufficiente, al riguardo, lamentare una mancata “verifica in loco” da parte dei tecnici del Comune, visto che il meccanismo di calcolo non è stato contestato dalla parte ricorrente attraverso la produzione di una perizia ovvero l’elaborazione di cifre differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi altezza media ponderale non superiore a 1,80 metri sono esclusi dal computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per ritenere inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati effettuati interventi pregressi, non affiorando il complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di area di proprietà della Società ricorrente, che corre in adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n. 47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto, affermato anche con la propria sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/06/2013 n. 14652, ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni (Corte di cassazione, sez. II civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. VIII – 14/03/2017 n. 1465 e la giurisprudenza civile ivi menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al principio dell'inoperatività, nel condominio, della normativa sulle distanze legali, dal momento che tale principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive. Si concorda dunque con quanto affermato dalla parte ricorrente nella memoria di replica per cui, nel caso specifico, le unità immobiliari delle parti in causa sono perfettamente autonome e ciò che risulta violata è la distanza del sopralzo –qualificabile come “nuova costruzione”– rispetto alla porzione esclusiva di area scoperta di proprietà della ricorrente (e non rispetto ad una porzione di area condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1 metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno efficacemente affermato (senza contestazione sul punto della parte avversaria) che il balcone costruito sul lato sud-ovest non crea alcun affaccio sulla striscia di proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento che i poggioli del piano secondo ne impediscono la vista. Con gli altri proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno sottoscritto la scrittura privata del 16/02/2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl comune risponde dell'inerzia ma si rivale sul lavoratore. Molestie, pagano l'ente e l'autore.
Molestie, pagano l'ente e l'autore Il comune che è stato condannato per mobbing su una dipendente si rifà sul lavoratore che ha molestato la collega, obbligando il primo a rispondere ai sensi dell'articolo 2087 del codice civile. La rivalsa scatta a titolo contrattuale perché il prestatore d'opera viene meno a doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro come gli obblighi di diligenza e fedeltà e i principi generali di correttezza e buona fede. E la manleva del molestatore va quantificata nella sua percentuale di responsabilità nella condanna per mobbing riportata dall'ente locale.

È quanto emerge dalla sentenza 22.03.2018 n. 7097 dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione che ha confermato la decisione della Corte d'appello di Genova che aveva condannato il comune di Carrara a pagare i danni per 15mila euro a una dipendente, nonché' l'autista del sindaco a rifondere al comune il 60% della somma stabilita come risarcimento.
Condotte vessatorie
Bocciato il ricorso del lavoratore chiamato in manleva, nel caso di specie l'autista del sindaco. Diventa definitiva la condanna a rifondere all'ente locale il 60% della somma che l'amministrazione ha dovuto pagare alla dipendente come risarcimento del danno da mobbing. Gli Ermellini hanno infatti riconosciuto che la lavoratrice ha subìto una serie di condotte vessatorie ad opera di colleghi e superiori. E in questo quadro di sopraffazione s'inserisce la molestia sessuale della donna ad opera dell'autista. La vittima ha sporto denuncia ma il comune non ha aperto un procedimento disciplinare.
Secondo la Cassazione, tuttavia, l'amministrazione ha fatto bene a chiamare in manleva l'autista a titolo di responsabilità contrattuale: il molestatore con la sua condotta dà luogo al risarcimento ex articolo 2087 cod. civ. a carico dell'ente locale, che risponde perché non è intervenuto a rimuovere il fatto lesivo a carico della dipendente.
La manleva, dunque, scatta perché l'autista ha violato i canoni fondamentali del rapporto di lavoro indicati dagli articoli 1175, 1375, 2104 e 2105 del codice civile.
Secondo la Cassazione, infatti, nel pubblico impiego il rapporto di lavoro è legato al principio costituzionale del buon andamento dell'amministrazione. Il dipendente è tenuto a rispettarlo anche nei rapporti con i colleghi e l'utenza oltre che nello svolgimento delle proprie mansioni, mentre diversamente può dar luogo alla responsabilità ex articolo 2087 Cc dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 23.03.2018).
---------------
MASSIMA
7. Il motivo non è fondato.
Correttamente la Corte d'Appello ha accolto la domanda proposta dal Comune di Carrara nei confronti del La., di cui nel primo grado di giudizio aveva chiesto la chiamata in causa per essere manlevato, tuttavia deve procedere alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.
Occorre, infatti, precisare che il Comune ha agito nei confronti del La., quale dipendente, a titolo contrattuale per aver quest'ultimo dato luogo a responsabilità, in parte qua, di esso datore di lavoro in ragione della violazione degli obblighi contrattuali nascenti a carico del lavoratore dal rapporto di impiego.
Né il La. ha censurato l'accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro con il Comune di Carrara effettuato dalla Corte d'Appello nell'indicarlo come autista del Sindaco e possibile destinatario di procedimento disciplinare in quanto dipendente dell'Amministrazione.
7.1. Pertanto, la manleva è stata correttamente riconosciuta non in ragione di una responsabilità del lavoratore ex art. 2087 cod. civ., ma perché lo stesso, con la propria condotta (molesta sessuale nei confronti di altra dipendente) è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., letti anche in riferimento al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, la cui osservanza riguarda non solo lo svolgimento della propria attività lavorativa, ma, tra l'altro, i rapporti con l'utenza e con gli altri lavoratori sul luogo di lavoro, così concorrendo a dare luogo ad una situazione che ha determinato la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. del Comune.
7.2. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: "
Nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, qualora un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva (nella specie molestia sessuale) nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. nei confronti del lavoratore oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo; ciò in quanto il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., letti anche in riferimento al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, che devono conformare non solo lo svolgimento dell'attività lavorativa, ma anche i rapporti tra i dipendenti pubblici sul luogo di lavoro".

VARICol paziente il medico deve spiegarsi per bene. Il medico non può spiegarsi in medichese con il paziente.
Lo spiega la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 19.03.2018 n. 6688.
Tutto nasce da una situazione delicatissima divenuta poi tragedia: una donna, che presentava dei noduli al seno sinistro, fu consigliata da un medico di effettuare un «completamento diagnostico con mammografia e successiva consulenza senologica», poi in una seconda visita di una «valutazione chirurgica ed eventuale prosecuzione diagnostica».
Quindi la paziente si recò da un radiologo che però «non ha dato il giusto valore al riscontro di adenopatie ascellari che rappresentano un elemento fortemente suggestivo di neoplasia maligna nella mammella omolaterale», spiegano i giudici, «e che quindi imponeva la prescrizione di un immediato proponimento diagnostico».
Il radiologo inoltre «aveva tranquillizzato» la paziente consigliandole un controllo dopo sei mesi, per di più non potendosi qualificare il caso come «un caso clinico di particolare difficoltà».
Invero, la donna morì di cancro al seno nel giro di quei sei mesi. Da qui il ricorso dei famigliari. E in sede di giudizio le Ctu disposte evidenziarono la superficialità del medico e «l'erroneità del suo “suggerimento attendista” di un controllo ecografico e mammografico a sei mesi di distanza».
Questo perché «una mammografia effettuata quando la malattia mammaria era verosimilmente in una fase iniziale, avrebbe con elevata probabilità logica e scientifica permesso una diagnosi precoce e avrebbe offerto reali possibilità di guarigione o di lungo-sopravvivenza». Ma i porporati del Palazzaccio aggiungono e richiamano un elemento fondamentale: la corretta comunicazione nei confronti del paziente.
«Il referto scritto non esaurisce il dovere del medico, in quanto rientra negli obblighi di ciascun medico, come statuito nel codice deontologico, il fornire al paziente tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute», chiosano i porporati, «tenendo peraltro conto anche delle capacità di comprensione dell'interlocutore», per cui sia per il radiologo che per qualsiasi medico, «il suo lavoro di comunicazione non può e non deve esaurirsi solo tramite quel referto, strumento comunicativo in linguaggio tecnico»
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 27 del DPR 380/2001 attribuisce il potere di ordinare la demolizione anche quando si accerti l’esistenza di opere già realizzate senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, al vincolo di inedificabilità.
---------------

Con il primo motivo di gravame, l’appellante critica la sentenza nella parte in cui non ha accolto il motivo di censura, secondo il quale il provvedimento di demolizione postulerebbe un intervento di urgenza da parte del responsabile dell’ufficio competente senza alcun preventivo avviso quando venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo. Nel caso in questione, però, si tratterebbe di opere realizzate anni addietro; infatti, i verbalizzanti non avrebbero trovato alcun lavoro in corso, ma avrebbero soltanto constatato la presenza di manufatti completi ed ultimati.
Il motivo d’appello è infondato.
Sul punto, infatti, va osservato che l’art. 27 del DPR 380/2001 attribuisce il potere di ordinare la demolizione anche quando si accerti l’esistenza di opere già realizzate senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, al vincolo di inedificabilità (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La natura precaria dell’opera, come tale non assoggettata ad alcun titolo abilitativo, va apprezzata non con riferimento alla sua astratta rimovibilità, ma alla concreta idoneità della stessa ad arrecare un’utilità prolungata e perdurante nel tempo.
---------------

Con il secondo articolato motivo di gravame, l’appellante deduce che:
   a) Il Comune ed il primo giudice avrebbero trascurato che le opere di cui ai punti n. 1) e n. 5) risalgono agli inizi degli anni 90, il rigetto del ricorso sarebbe fondato esclusivamente sull’ordinanza del Comune di Bacoli, senza alcun accertamento tecnico ed alcuna reale e concreta istruttoria.
Il motivo d’appello non merita accoglimento.
Sul punto va rilevato, infatti, che la sola esistenza dei manufatti dagli inizi degli anni novanta del secolo scorso nulla dice sulla legittima preesistenza dei medesimi, per cui non era necessario che al riguardo venissero compiuti particolari accertamenti tecnici o attività di istruttoria.
   b) Le opere di cui ai punti n. 2) e n. 3) risulterebbero mobili e quindi di facile rimozione, compatibili con gli strumenti urbanistici vigenti, che non incidono sui parametri urbanistici, né sarebbero soggette a permesso di costruire ai sensi del DPR 380/01. Il T.A.R. escluderebbe erroneamente la natura precaria delle opere, affermando la concreta idoneità delle stesse ad arrecare un’utilità prolungata e perdurante nel tempo che, nel caso di specie, individua erroneamente “nella permanenza delle medesime, quantomeno, dal momento dell’accertamento delle violazioni”, avvenuta in data 11.01.2006, “alla redazione della perizia”, effettuata il 14.03.2006.
Il motivo d’appello è infondato.
Sul punto va osservato che, come giustamente osservato dal primo giudice, la natura precaria dell’opera, come tale non assoggettata ad alcun titolo abilitativo, va apprezzata non con riferimento alla sua astratta rimovibilità, ma alla concreta idoneità della stessa ad arrecare un’utilità prolungata e perdurante nel tempo, nel caso di specie confermata dal fatto che non risulta essere rappresentata la pronta rimozione dei manufatti nemmeno dopo l’accertamento dell’illecito, anzi le opere in questione sono ancora esistite mesi dopo, quando è stata redatta la perizia di parte versata in atti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Nell'ordinamento statale, infatti, vi è il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" e, a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo manufatto su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come anche una tettoia, che ne alteri la sagoma.
---------------

c) In relazione all’opera di cui al punto n. 4), l’appellante afferma che si tratterebbe di una pertinenza, non infissa nel suolo e di facile rimozione, non valutabile in termini di volumetria.
Il motivo d’appello non merita accoglimento.
Sul punto va osservato, in primo luogo, che secondo la giurisprudenza anche di questa Sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2348; 16.02.2017, n. 694) la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica; nell'ordinamento statale, infatti, vi è il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" e, a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo manufatto su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come anche una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Ebbene, nella specie, non si dispone di alcun elemento idoneo al fine di affermare che il manufatto possegga le caratteristiche della pertinenza appena illustrate. Inoltre, le notevoli dimensioni dell’opera (30 mq x mt. 2,60) impediscono di ritenere che questa sia astrattamente di facile rimozione e, in ogni modo, va tenuto presente che l’affermata precarietà della tettoia sarebbe semmai data, se la stessa non fosse destinata ad arrecare un’utilità prolungata e perdurante nel tempo, circostanza che non risulta desumibile in alcun atto dagli atti processuali (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
---------------
Secondo consolidata giurisprudenza, per l'ordinanza di demolizione non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, in quanto, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario.
In particolare, il procedimento repressivo degli abusi edilizi, in quanto integralmente disciplinato dalla legge speciale e da questa rigidamente vincolato, non richiede la previa comunicazione di avvio ai destinatari dell'atto finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, L. 241/1990 non costituisce vizio dell'ordinanza di demolizione.
---------------

e) Sostiene, inoltre, l’appellante, che il provvedimento sanzionatorio oggetto di causa non sarebbe supportato da una congrua motivazione, in ordine sia ai presupposti fattuali e giuridici che comportano l’applicazione dell’atto repressivo, sia all’interesse pubblico al ripristino, e il medesimo dovrebbe comunque valutare se esistono particolari motivi che possono consigliare l’adozione di misure sanzionatorie di minore gravità della demolizione.
Il motivo d’appello non merita accoglimento.
Sul punto va rilevato che, recentemente, la giurisprudenza di questo Consiglio si è orientata nel senso che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” (in questo senso, Ad. Plen., sent. n. 9/2017).
Va poi rilevato, altresì che, a prescindere dalle loro caratteristiche costruttive, nella specie, le opere realizzate in assenza di valido titolo abilitativo si trovano in zona assoggettata a vincolo ambientale, il che ne comporta comunque la demolizione, ai sensi dell’art. 167, comma 5, del codice n. 42/2004, che non ne consente la sanatoria.
f) Infine, l’appellante afferma la necessità della comunicazione d’avvio del procedimento, anche per gli atti repressivi in materia di edilizia.
Il motivo d’appello è infondato.
Secondo consolidata giurisprudenza (Cons. Stato sez. V, 09.09.2013, n. 4470; id., sez. IV, 12.09.2007, n. 4827), infatti, per l'ordinanza di demolizione non è dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, in quanto, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario. In particolare, il procedimento repressivo degli abusi edilizi, in quanto integralmente disciplinato dalla legge speciale e da questa rigidamente vincolato, non richiede la previa comunicazione di avvio ai destinatari dell'atto finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, L. 241/1990 non costituisce vizio dell'ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAssenze per malattia, curarsi è obbligatorio per il lavoratore. Violare il riposo prescritto può portare anche al licenziamento.
Il lavoratore assente per malattia ha l'obbligo di riguardarsi per evitare che la malattia si prolunghi oltre la prognosi. Pertanto, non solo deve astenersi da altra attività lavorativa, ma deve anche evitare di partecipare ad attività ludiche, di intrattenimento o di formazione che possano pregiudicare o ritardare la guarigione.

È questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con una sentenza 13.03.2018 n. 6047.
La pronuncia riguarda un lavoratore del settore privato, ma il caso esaminato e i principi affermati dalla Suprema corte valgono per tutti i lavoratori, compresi gli operatori scolastici. Ecco il fatto.
Il lavoratore, assente dal lavoro per una lombo-sciatalgia, con prognosi di 4 giorni, durate l'assenza dal lavoro aveva partecipato ad un evento musicale suonando per due ore la fisarmonica. Dell'evento era stato dato ampio risalto sulla stampa e il lavoratore aveva anche pubblicato su un social network delle sue foto, che lo ritraevano mentre suonava in piedi durante l'evento.
Dopo di che era rientrato regolarmente al lavoro. Ma il datore di lavoro lo aveva licenziato, adducendo la giusta causa. E il licenziamento era stato confermato anche dal giudice di I grado all'esito dell'impugnativa. La Corte d'appello, però, era stata di diverso avviso e aveva annullato il licenziamento. Di qui il ricorso per Cassazione da parte del datore di lavoro, che si concludeva con la cancellazione della sentenza di appello e il rinvio al collegio di II grado in diversa composizione.
I giudici di piazza Cavour hanno spiegato che Il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un'attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona. Ma la stessa non solo deve essere compatibile con lo stato di malattia, ma deve essere anche conforme all'obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia, con conseguente recupero dell'idoneità al lavoro.
Secondo la Suprema corte, però, i giudici di secondo grado avevano omesso di verificare se il lavoratore si fosse comportato secondo correttezza e buona quando era andato a suonare invece di riguardarsi. E tale omissione ha determinato la illegittimità della sentenza di appello perché il medico, all'atto della emissione della diagnosi, aveva prescritto come cura proprio il riposo.
Riposo che non era stato osservato dal lavoratore. Va detto subito, però, che il compito della Suprema corte non è quello di accertare i fatti, ma di verificare se i giudici di merito, all'atto della emissione delle pronunce sottoposte al vaglio della Cassazione, abbiano applicato correttamente la legge e i principi giuridici che a questa sottendono. Pertanto, la Corte con rinvio di una sentenza di II grado non comporta automaticamente la vittoria della controparte, ma semplicemente la riedizione del processo e la relativa applicazione del principio enunciato dalla Cassazione al caso in esame.
E quindi, se il lavoratore dovesse riuscire a dimostrare di avere agito con cautela e secondo i principi di correttezza e buona fede, potrebbe comunque vincere la causa ed ottenere di essere reintegrato nel posto di lavoro.
Non di meno, l'insegnamento della Suprema corte può essere comunque utile a prevenire l'insorgenza della responsabilità disciplinare. Che potrebbe verificarsi, per esempio, nel caso di frequenza a corsi di formazione o universitari odi partecipazione a manifestazioni culturali durante i periodi di assenza per malattia
(articolo ItaliaOggi del 27.03.2018).
---------------
MASSIMA
6.1. I suddetti due motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente, in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.
Come questa Corte ha affermato (cfr., ex multis, Cass., n. 17625 del 2014),
lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, ferma restando la necessità che, nella contestazione dell'addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore.
Diversamente, si rimetterebbe al giudice un compito che, lungi dal costituire esercizio istituzionale dei poteri di interpretazione della volontà negoziale, si tradurrebbe in una inammissibile integrazione, o correzione, della medesima.
Correttamente, pertanto, la Corte d'Appello, proprio facendo applicazione del principio della specificità della contestazione, posto a garanzia della tutela del diritto di difesa del lavoratore cui è preordinata, altresì, l'immutabilità dei fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, ha ritenuto che la contestazione, per come formulata, riguardava l'adozione di una condotta che poteva ritardare la guarigione, dal momento che la circostanza di fatto richiamata nella contestazione medesima è lo svolgimento, venendone precisati luogo data e periodo della giornata, dell'attività di concertista durante la malattia, e non l'inesistenza in sé della malattia - come comunicata dal lavoratore e attestata dalle relative certificazioni mediche.
7. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata la violazione e/o falsa applicazione ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2105 cod. civ., in riferimento a quanto previsto dall' art. 18 della legge n. 300 del 1970, dall'art. 3 della legge n. 604 del 1966, e dall'art. 2110 cod. civ.. Ricorda il ricorrente come
il lavoratore, durante la malattia si deve adoperare affinché non venga ritardata la guarigione. Ciò comporta che debba astenersi da ogni attività, che possa compromettere la guarigione, non rilevando che ciò poi non sia accaduto.
Nella specie, il comportamento del lavoratore (viaggio in macchina su strada tortuosa, attesa sul luogo del concerto con una temperatura non confacente alla malattia, esibizione per due ore, in piedi e sostenendo il peso della fisarmonica), in presenza della supposta lombosciatalgia, aveva violato tale obbligo e le previsioni di cui agli artt. 2110, 2104, 1175 e 1375 cod. civ.
...
11. I motivi dal terzo al sesto devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi sono fondati nei limiti di seguito esposti.
11.1. Nella specie i principi che informano la materia sono consolidati:
lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (v., ex plurimis, Cass. n. 17625 del 2014, Cass., n. 24812 del 2016, Cass., n. 21667 del 2017).
Inoltre,
l'espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento deriva un'effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa è solo messa in pericolo dalla condotta imprudente (v. Cass., n. 16465 del 2015), con una valutazione di idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata al momento in cui il comportamento viene realizzato (citata Cass., n. 21667 del 2017, n. 10416 del 2017, n. 24812 del 2016, n. 17625 del 2014).

ATTI AMMINISTRATIVI: Rilevato:
   - che la fattispecie di cui si controverte è regolata dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013, per cui “Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis”;
   - che il ricorrente ha dato impulso al procedimento di accesso civico “generalizzato” per esercitare un diritto a titolarità diffusa, azionabile da “chiunque” (senza essere sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva) a prescindere dalla motivazione sottesa, che non deve essere esplicitata;
   - che lo strumento dell’accesso civico “generalizzato” si aggiunge, nel nostro ordinamento, a quello connesso agli obblighi di pubblicazione (articoli 12 e ss. del D.Lgs. 33/2013) e alla più risalente disciplina di cui agli articoli 22 e ss. della L. 241/1990 in tema di accesso ai documenti;
   - che si traduce, in estrema sintesi, in un diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti ed avente ad oggetto tutti i dati, i documenti e le informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è stabilito un obbligo di pubblicazione (cfr. linee guida ANAC 28/12/2016, par. 2.1);
   - che il nuovo istituto è teso a massimizzare la trasparenza amministrativa, secondo i principi costituzionali di trasparenza e buon andamento, per far comprendere dall’esterno le decisioni assunte nel perseguimento dell’interesse pubblico;
   - che detta modalità di accesso agli atti ha un oggetto molto esteso, in quanto tutta la documentazione detenuta dalla pubblica amministrazione è accessibile, qualora non ricorrano le tassative circostanze di cui all’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013;
   - che, in altri termini, l’ampio diritto all’informazione e alla trasparenza dell’attività delle amministrazioni resta temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di riservatezza, di segretezza e di tutela di determinati interessi pubblici e privati (come elencati all’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione alla regola, alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal sistema FOIA, acronimo derivante dal Freedom of Information Act, e cioè la legge sulla libertà di informazione adottata negli Stati Uniti il 04/07/1966;
Dato atto:
   - che la novella legislativa “svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5-bis, e in tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente”;
   - che, per rifiutare l’accesso civico “generalizzato” ai sensi dei citati commi 1 e 2 dell’art. 5-bis (tutela di interessi pubblici o privati di rilievo ordinamentale), l’amministrazione procedente deve indicare quale sia il “concreto pregiudizio” che corrono tali interessi e non può più opporre tali limiti quando termina il periodo temporale “nel quale la protezione è giustificata in relazione alla natura del dato”, ai sensi del comma 5 dell’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013;
   - che nelle linee guida ANAC del 28/12/2016, adottate d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, si afferma che il “bilanciamento degli opposti interessi” è ben diverso nel caso dell’accesso ai sensi della L. 241/1990 –dove la tutela può consentire un accesso più in profondità ai dati pertinenti– rispetto al caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni;
Tenuto conto:
   - che va anzitutto escluso che l'amministrazione possa legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego di accesso la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa, lungi dal rendere questi ultimi arbitri assoluti delle richieste che li riguardano, rimette sempre all'amministrazione destinataria dell’istanza il potere di valutare la fondatezza della pretesa;
   - che, in secondo luogo, non è rilevante che il documento sia stato formato da un altro soggetto, se il Comune lo detiene stabilmente, così come statuito dal legislatore in materia di accesso “documentale”;
Ritenuto:
   - che l’Ente locale intimato è tenuto ad esibire gli atti amministrativi sopra riepilogati ai punti II, III e IV (oggetto dell’istanza di parte ricorrente), anche attraverso l’esatta indicazione del percorso informatico per reperirli, ossia con la trascrizione del “link esteso” idoneo a rinviare direttamente a ciascun provvedimento richiesto;
   - che, sul punto, il diritto di accesso deve essere assicurato nella sua pienezza e immediatezza, senza possibilità di frapporre alcun tipo di ostacolo, anche rappresentato dalla necessità di ricercare il documento entro un’ampia lista che presuppone il possesso di una capacità di “orientamento” tra le pagine internet (ove il percorso non sia intuitivo e di immediata comprensione);
    - che, quanto agli altri documenti (punti V e VI del riepilogo dell’istanza), secondo il Comune il colloquio individuale del candidato è stato finalizzato ad “indagare il suo percorso di vita dal punto di vista relazionale, formativo, professionale e di relazione con la comunità, il significato della leva civica all'interno di questo percorso ed eventuali vincoli ed impegni che possono influire sul corretto svolgimento del progetto”;
   - che, secondo le linee guida ANAC, l’Ente destinatario dell’istanza deve valutare, nel fornire riscontro motivato a richieste di accesso “generalizzato”, se la conoscenza da parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in materia, con esame delle controdeduzioni del controinteressato coinvolto;
   - che il soggetto destinatario dell’istanza, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione di documenti con l’omissione dei «dati personali» in essi presenti, laddove l’esigenza informativa possa essere raggiunta senza implicare il loro trattamento;
   - che ANAC ha, infine, messo correttamente in luce come <<l’accesso generalizzato è servente rispetto alla conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013). Di conseguenza, quando l’oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l’ente destinatario della richiesta dovrebbe accordare l’accesso parziale ai documenti, oscurando i dati personali ivi presenti>>;
Rilevato:
   - che, alla luce delle indicazioni appena riportate e della genericità della motivazione illustrata nell’atto comunale di diniego, ad avviso del Collegio i documenti richiesti sono in via di massima suscettibili di ostensione, salva la facoltà di oscurare i dati strettamente ed effettivamente personali (soprattutto di natura sensibile), per i quali la divulgazione possa ritenersi eccessiva e non pertinente rispetto allo scopo perseguito dal legislatore (la massima trasparenza dell’azione amministrativa);
   - che l’avviso di selezione in atti enuclea i criteri di attribuzione dei punteggi (utili per la redazione della graduatoria finale), ossia il curriculum vitae, il questionario motivazionale, il colloquio di gruppo e il colloquio individuale;
   - che, da un’analisi dei parametri suddetti, non si evince con immediatezza la necessità (per i candidati) di esplicitare dati personali sensibili o “super-sensibili”;
   - che, sotto altro profilo, in una selezione pubblica le “ragionevoli aspettative di confidenzialità degli interessati” riguardo a talune informazioni recedono o sono comunque depotenziate;
   - che, seppur con riguardo all’accesso procedimentale, si è in proposito affermato che, una volta conclusasi la procedura concorsuale, i documenti prodotti dalle ditte concorrenti assumono rilevanza esterna, in quanto la documentazione prodotta ai fini della partecipazione ad una gara di appalto indetta dalla pubblica amministrazione esce dalla sfera esclusiva delle imprese per formare oggetto di valutazione comparativa, essendo versata in un procedimento caratterizzato dai principi di concorsualità e trasparenza;
   - che il principio evocato, seppur dettato per gli operatori economici e alle imprese, può essere esteso alle persone fisiche che si sottopongono a un confronto pubblico finalizzato alla scelta del soggetto più idoneo a ricoprire un determinato ruolo;
---------------

... per l’esercizio del diritto di accesso “generalizzato” ALLA DOCUMENTAZIONE DETENUTA DAL COMUNE INTIMATO, RELATIVA AL BANDO DEL PROGETTO AUTOFINANZIATO “LEVA CIVICA IN BREMBATE”.
...
Evidenziato:
   - che deve essere respinta l’eccezione di difetto di procura in forma digitale, sollevata in Camera di consiglio dal legale di parte ricorrente, in quanto dall’accesso al portale informatico la procura alle liti risulta regolarmente conferita in documento allegato e firmato digitalmente;
   - che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
   - che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
Atteso:
   - che, in data 16/10/2017, il ricorrente ha chiesto al Comune di Brembate il rilascio di copia degli atti seguenti:
      I. bando “Leva civica regionale” autofinanziata 2017/057 “Leva civica in Brembate”;
      II. delibera recante l’istituzione del bando;
      III. deliberazione di impegno di spesa successiva al bando;
      IV. deliberazione di spesa del 21/09/2017;
      V. relazione sulla selezione e valutazione della candidata controinteressata (Serena Roberta Pagliaro);
      VI. relazione sulla selezione e valutazione del primo candidato in graduatoria risultato idoneo, ma non selezionato;
   - che, con nota 23/11/2017, l’amministrazione si è pronunciata sull’istanza;
   - che, in primo luogo, ha assentito al rilascio di copia del bando LCR autofinanziata 2017/057 “leva civica in Brembate”;
   - che, sui documenti sopra elencati ai n. II, III, e IV, dopo avere precisato la loro natura di determinazioni, ha rilevato che gli stessi sono “soggetti a pubblicazione obbligatoria” e disponibili sul sito internet istituzionale (con specificazione della “sezione” e “sottosezione” e trascrizione del link);
   - che per gli ulteriori atti (oggetto di due distinte istanze), acquisiti nel corso della procedura selettiva, il Comune ha negato la divulgazione, avvertendo la presenza di dati personali “super-sensibili” (art. 4, comma 1, lett. b, del D.Lgs. 196/2003), ossia informazioni di carattere psicoattitudinale;
   - che, ad avviso dell’amministrazione, la materia della privacy prevede che il trattamento dei dati vada effettuato nel rispetto delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato con particolare riferimento alle componenti della riservatezza, identità personale, reputazione, immagine, nome, oblio (qualificabili come diritti inviolabili ex artt. 2 e 3 della Costituzione);
   - che, ad avviso del Comune, l’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013 –ai commi 2 e 3– prevede un’eccezione assoluta al diritto alla conoscenza diffusa, per la tutela dei diritti fondamentali, non superabile con il meccanismo del bilanciamento degli opposti interessi;
   - che l’ostensione arrecherebbe un pregiudizio concreto ai soggetti indicati, sotto il profilo della lesione del diritto alla protezione dei dati personali;
   - che l’Ente intimato rileva che anche l’art. 24, comma 1, della L. 241/1990 esclude l’accesso nell’ambito dei procedimenti selettivi contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relative a terzi;
   - che, infine, le selezioni sono state svolte da un’Associazione accreditata –“Associazione Mosaico – Ente di gestione per il servizio civile”– titolare dei progetti per il Comune Brembate e unico soggetto abilitato al trattamento dei dati, con possibilità di accesso riservata ai soli diretti interessati;
Considerato:
   - che, dopo aver premesso che l’errata qualificazione dei provvedimenti –come delibere anziché determinazioni– non ha precluso all’Ente locale intimato l’esatta comprensione dell’istanza, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 5 commi 2 e ss. del D.Lgs. 33/2013, in quanto:
      • all’indirizzo internet indicato nella nota comunale è reperibile solo la determinazione del 21/09/2017;
      • in ossequio alle norme sulla trasparenza, l’Ente locale è tenuto ad indirizzare esattamente il cittadino e a favorire l’agevole reperimento del materiale richiesto, affinché possa orientarsi tra le numerose determinazioni oggetto di pubblicazione;
      • diversamente da quanto opina il Comune, l’accesso esercitato non è di tipo “documentale”, e dunque non è riconducibile nell’alveo della L. 241/1990 e non è necessario specificare l’interesse giuridicamente rilevante che si intende perseguire;
      • la circolare n. 2/2017 del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione statuisce che, nel dubbio, le amministrazioni devono dare prevalenza all’interesse conoscitivo, tutelato dall’istituto dell’accesso “generalizzato”;
   - che l’esponente lamenta altresì la violazione dell’art. 5-bis commi 2 e 3 del D.Lgs. 33/2013, dato che:
      • a fronte di due istanze formulate, non è chiaro a quale sia stata data effettivamente risposta;
      • l’Ente locale ha addotto argomentazioni non supportate da elementi di fatto, che rendono impossibile comprendere l’iter logico sotteso;
      • l’eccezione assoluta a salvaguardia dei dati “super-sensibili” opera con esclusivo riferimento ai dati psicoattitudinali acquisiti nei concorsi pubblici attraverso indagini eseguite da figure specialistiche (psichiatri o psicologi), che intrattengono colloqui clinici e somministrano test scientifici validati (cfr. Indicazioni operative ANAC e Garante della privacy del 28/12/2016, par. 6.2);
      • la selezione effettuata dall’Associazione Mosaico non ha comportato alcuna produzione di elaborati dei candidati, né la sottoposizione all’accertamento di requisiti attitudinali da parte di specialisti, salva la necessità di compilare un questionario motivazionale e di svolgere un colloquio collettivo e un colloquio individuale, condotti da soggetti non qualificati;
      • dunque, la selezione ha investito i profili motivazionali degli aspiranti all’impiego volontario presso la biblioteca, tenuti a esplicitare le ragioni che li hanno indotti a partecipare al bando (si è trattato di ascoltare e comprendere il “racconto” della persona, senza alcuna intrusione nel suo mondo psichico);
      • che, in ogni caso, l’amministrazione non ha indicato con precisione il pregiudizio che patirebbero i soggetti interessati;
      • che, ai sensi delle Linee guida ANAC già citate (punto 5.3), nei casi di diniego in relazione ai limiti di cui all’art. 5, commi 1 e 2, del D.Lgs., l’amministrazione è tenuta a fornire una congrua e completa motivazione e non può (come nella specie) opporre elementi vaghi e apodittici;
Rilevato:
   - che la fattispecie di cui si controverte è regolata dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013, per cui “Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis”;
   - che il ricorrente ha dato impulso al procedimento di accesso civico “generalizzato” per esercitare un diritto a titolarità diffusa, azionabile da “chiunque” (senza essere sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva) a prescindere dalla motivazione sottesa, che non deve essere esplicitata;
   - che lo strumento dell’accesso civico “generalizzato” si aggiunge, nel nostro ordinamento, a quello connesso agli obblighi di pubblicazione (articoli 12 e ss. del D.Lgs. 33/2013) e alla più risalente disciplina di cui agli articoli 22 e ss. della L. 241/1990 in tema di accesso ai documenti;
   - che si traduce, in estrema sintesi, in un diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti ed avente ad oggetto tutti i dati, i documenti e le informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è stabilito un obbligo di pubblicazione (cfr. linee guida ANAC 28/12/2016, par. 2.1);
   - che il nuovo istituto è teso a massimizzare la trasparenza amministrativa, secondo i principi costituzionali di trasparenza e buon andamento, per far comprendere dall’esterno le decisioni assunte nel perseguimento dell’interesse pubblico;
   - che detta modalità di accesso agli atti ha un oggetto molto esteso, in quanto tutta la documentazione detenuta dalla pubblica amministrazione è accessibile, qualora non ricorrano le tassative circostanze di cui all’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013;
   - che, in altri termini, l’ampio diritto all’informazione e alla trasparenza dell’attività delle amministrazioni resta temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di riservatezza, di segretezza e di tutela di determinati interessi pubblici e privati (come elencati all’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione alla regola, alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal sistema FOIA, acronimo derivante dal Freedom of Information Act, e cioè la legge sulla libertà di informazione adottata negli Stati Uniti il 04/07/1966 (TAR Campania Napoli, sez. VI – 13/12/2017 n. 5901);
Dato atto:
   - che secondo TAR Puglia Bari, sez. III – 19/02/2018 n. 234 (che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 12/08/2016 n. 3631) la novella legislativa “svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5-bis, e in tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente”;
   - che, per rifiutare l’accesso civico “generalizzato” ai sensi dei citati commi 1 e 2 dell’art. 5-bis (tutela di interessi pubblici o privati di rilievo ordinamentale), l’amministrazione procedente deve indicare quale sia il “concreto pregiudizio” che corrono tali interessi e non può più opporre tali limiti quando termina il periodo temporale “nel quale la protezione è giustificata in relazione alla natura del dato”, ai sensi del comma 5 dell’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013 (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 14/11/2017 n. 2157);
   - che nelle linee guida ANAC del 28/12/2016, adottate d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, si afferma che il “bilanciamento degli opposti interessi” è ben diverso nel caso dell’accesso ai sensi della L. 241/1990 –dove la tutela può consentire un accesso più in profondità ai dati pertinenti– rispetto al caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni;
Tenuto conto:
   - che va anzitutto escluso che l'amministrazione possa legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego di accesso la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa, lungi dal rendere questi ultimi arbitri assoluti delle richieste che li riguardano, rimette sempre all'amministrazione destinataria dell’istanza il potere di valutare la fondatezza della pretesa (cfr. sentenza TAR Campania Napoli, sez. VI – 09/03/2017 n. 1380);
   - che, in secondo luogo, non è rilevante che il documento sia stato formato da un altro soggetto, se il Comune lo detiene stabilmente, così come statuito dal legislatore in materia di accesso “documentale”;
   - che l’avviso di selezione pubblica 27/07/2017 n. 57 è stato prodotto in giudizio dal Comune;
Ritenuto:
   - che l’Ente locale intimato è tenuto ad esibire gli atti amministrativi sopra riepilogati ai punti II, III e IV (oggetto dell’istanza di parte ricorrente), anche attraverso l’esatta indicazione del percorso informatico per reperirli, ossia con la trascrizione del “link esteso” idoneo a rinviare direttamente a ciascun provvedimento richiesto;
   - che, sul punto, il diritto di accesso deve essere assicurato nella sua pienezza e immediatezza, senza possibilità di frapporre alcun tipo di ostacolo, anche rappresentato dalla necessità di ricercare il documento entro un’ampia lista che presuppone il possesso di una capacità di “orientamento” tra le pagine internet (ove il percorso non sia intuitivo e di immediata comprensione);
    - che, quanto agli altri documenti (punti V e VI del riepilogo dell’istanza), secondo il Comune il colloquio individuale del candidato è stato finalizzato ad “indagare il suo percorso di vita dal punto di vista relazionale, formativo, professionale e di relazione con la comunità, il significato della leva civica all'interno di questo percorso ed eventuali vincoli ed impegni che possono influire sul corretto svolgimento del progetto”;
   - che, secondo le linee guida ANAC, l’Ente destinatario dell’istanza deve valutare, nel fornire riscontro motivato a richieste di accesso “generalizzato”, se la conoscenza da parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in materia, con esame delle controdeduzioni del controinteressato coinvolto;
   - che il soggetto destinatario dell’istanza, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione di documenti con l’omissione dei «dati personali» in essi presenti, laddove l’esigenza informativa possa essere raggiunta senza implicare il loro trattamento;
   - che ANAC ha, infine, messo correttamente in luce come <<l’accesso generalizzato è servente rispetto alla conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013). Di conseguenza, quando l’oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l’ente destinatario della richiesta dovrebbe accordare l’accesso parziale ai documenti, oscurando i dati personali ivi presenti>>;
Rilevato:
   - che, alla luce delle indicazioni appena riportate e della genericità della motivazione illustrata nell’atto comunale di diniego, ad avviso del Collegio i documenti richiesti sono in via di massima suscettibili di ostensione, salva la facoltà di oscurare i dati strettamente ed effettivamente personali (soprattutto di natura sensibile), per i quali la divulgazione possa ritenersi eccessiva e non pertinente rispetto allo scopo perseguito dal legislatore (la massima trasparenza dell’azione amministrativa);
   - che l’avviso di selezione in atti enuclea i criteri di attribuzione dei punteggi (utili per la redazione della graduatoria finale), ossia il curriculum vitae, il questionario motivazionale, il colloquio di gruppo e il colloquio individuale;
   - che, da un’analisi dei parametri suddetti, non si evince con immediatezza la necessità (per i candidati) di esplicitare dati personali sensibili o “super-sensibili”;
   - che, sotto altro profilo, in una selezione pubblica le “ragionevoli aspettative di confidenzialità degli interessati” riguardo a talune informazioni recedono o sono comunque depotenziate;
   - che, seppur con riguardo all’accesso procedimentale, si è in proposito affermato che, una volta conclusasi la procedura concorsuale, i documenti prodotti dalle ditte concorrenti assumono rilevanza esterna, in quanto la documentazione prodotta ai fini della partecipazione ad una gara di appalto indetta dalla pubblica amministrazione esce dalla sfera esclusiva delle imprese per formare oggetto di valutazione comparativa, essendo versata in un procedimento caratterizzato dai principi di concorsualità e trasparenza (cfr. ordinanza della sez. II di questo TAR 13/01/2016 n. 20 e i precedenti ivi citati);
   - che il principio evocato, seppur dettato per gli operatori economici e alle imprese, può essere esteso alle persone fisiche che si sottopongono a un confronto pubblico finalizzato alla scelta del soggetto più idoneo a ricoprire un determinato ruolo;
Considerato:
   - che, in conclusione, il ricorso in esame è fondato e merita accoglimento nei limiti precisati;
   - che, di conseguenza, il Comune intimato deve esibire (anche indicando le modalità di visualizzazione informatica di pronta e facile esecuzione) gli atti amministrativi sopra elencati ai punti II, III e IV;
   - che le relazioni sulla selezione e valutazione della candidata controinteressata (Se.Ro.Pa.) e del primo candidato in graduatoria risultato idoneo ma non selezionato, sono suscettibili di divulgazione, salvo oscuramento dei dati personali la cui conoscenza non sia strettamente necessaria o comunque sproporzionata;
   - che, in definitiva, le relazioni (e i giudizi ivi racchiusi) dovranno essere puntualmente esaminate dal Comune –che potrà oscurare i dati personali, dando adeguata motivazione delle ragioni della decisione– per poi essere esibite in copia al richiedente;
   - che le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, ordina al Segretario comunale di Brembate di rilasciare alla parte ricorrente la documentazione richiesta, nei limiti e con le modalità indicate in motivazione, entro e non oltre il termine di 30 (trenta) giorni dalla data di comunicazione della presente sentenza.
Annulla l’atto di diniego del 23/11/2017 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 12.03.2018 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISull’anomalia dell’offerta sempre da verificare il costo del lavoro.
Nell’esecuzione degli appalti pubblici gli operatori economici sono sempre obbligati a rispettare le norme poste a tutela del lavoro e la stazione appaltante deve sempre chiedere all'aggiudicatario, in sede di verifica sull'anomalia dell'offerta, i giustificativi del costo della manodopera.

È questo il principio affermato dal TAR Umbria con la sentenza 09.03.2018 n. 168.
Il caso
Il gestore uscente del servizio di spazzamento stradale nei Comuni di Terni e Narni partecipava alla procedura aperta indetta per il riaffidamento del predetto servizio mediante accordo quadro, collocandosi al secondo posto della graduatoria di gara.
Ai sensi di quanto disposto dall’articolo 97, comma 3, del Dlgs n. 50/2016, constatato che la prima classificata aveva superato i 4/5 dei punteggi massimi attribuibili, il responsabile del procedimento avviava il sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria. Dopo aver proceduto all'esame delle giustificazioni e della documentazione fornite a più riprese dall'impresa, la stazione appaltante concludeva il predetto sub-procedimento ritenendo la relativa offerta congrua ed adeguata alla sostenibilità del servizio ed aggiudicava in via definitiva l’affidamento del servizio all’impresa prima classificata.
L'impresa seconda graduata impugnava il provvedimento di aggiudicazione definitiva unitamente agli atti e verbali del sub-procedimento di anomalia, lamentando l’illegittimità del giudizio di congruità con particolare riferimento al mancato riscontro dell'effettivo rispetto dei trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalle tabelle ministeriali.
Secondo la ricorrente, in considerazione dell’obbligo di riassorbimento del personale del gestore uscente derivante dalla clausola sociale prevista nella legge di gara, sarebbe stato del tutto ingiustificato l’ipotizzato minor costo derivante dall’inquadramento del personale nel livello più basso “B”, dovendosi invece garantire il livello medio “A” ai dipendenti dell'operatore economico uscente in possesso di specifica anzianità di servizio.
La decisione
Con la pronuncia in rassegna il Tar Umbria dichiara il ricorso fondato.
Il Giudice sottolinea che la gara d’appalto oggetto di ricorso riguardava l’affidamento di servizi ad alta densità di manodopera, ai sensi dell’articolo 50 del Dlgs n. 50/2016, essendo il costo del personale pari ad almeno il 50 per cento dell’importo totale del contratto. In particolare, il rinvio operato dall'articolo 97, comma 5, lett. a) del Dlgs n. 50/2016 all'articolo 30, comma 3, del medesimo Codice dei contratti implica che, nella esecuzione degli appalti pubblici, gli operatori economici sono obbligati a rispettare le norme poste a tutela dei diritti sociali, ambientali e del lavoro, essendo preciso obbligo della stazione appaltante chiedere i necessari giustificativi in sede di verifica sull'anomalia dell'offerta.
Da ciò consegue –prosegue il Tar Umbria– la necessaria esclusione dell'offerta proposta dall’aggiudicataria in violazione degli obblighi retributivi minimi, e ciò anche indipendentemente dalla congruità dell'offerta valutata «nel suo complesso».
Proprio in questo il nuovo Codice si discosta rispetto alla previgente disciplina: da un esame testuale e sistematico emerge, infatti, che la ratio del nuovo Codice è chiaramente orientata verso il rigoroso rispetto dei diritti minimi che riguardino i fondamentali interessi ambientali, sociali e lavoristici (si veda Tar Calabria, Reggio Calabria, n. 1315/2016).
D’altronde –prosegue il Giudice amministrativo– il comma 6 del già citato articolo 97 del Dlgs n. 50/2016 esclude tassativamente che la stazione appaltante possa ammettere giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge, mentre il comma 5 del medesimo articolo autorizza espressamente la stazione appaltante ad escludere l’offerta quando, all’esito del contraddittorio attivato con il concorrente interessato, venga accertato che la stessa è anormalmente bassa in quanto il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16, del medesimo Codice dei contratti.
Peraltro, l’obbligo inderogabile della stazione appaltante di verificare il rispetto dei minimi tabellari non era stato assolto, non avendo svolto i necessari approfondimenti in merito al costo del personale indicato dall’impresa prima classificata rispetto alle ore presunte, limitandosi, del tutto acriticamente, a prendere atto del costo complessivo indicato nell’offerta economica, pur in presenza di contestazioni messe a verbale dal rappresentante della ricorrente nel corso della seduta pubblica di gara.
L’approfondimento
Era tra l’altro preciso onere della stazione appaltante verificare in contraddittorio con l’aggiudicataria anche la rilevanza della clausola sociale sul costo del lavoro prevista nella lex specialis, verificando gli inquadramenti del personale da assorbire dal gestore uscente, pur nel contemperamento delle esigenze organizzative dell’impresa aggiudicataria ritenuto doveroso dalla giurisprudenza (si veda anche Consiglio di Stato n. 4079/2017), valutando la possibilità o meno di derogare ai livelli retributivi.
L’impresa aggiudicataria si era invece limitata ad indicare nei giustificativi una generica razionalizzazione del servizio mediante l'integrazione tra i propri dipendenti e quelli della stazione appaltante, non comprovate da elementi concreti, quali (del tutto indicativamente) vantaggi fiscali o economie dovute al basso tasso di malattia del personale oppure dall’utilizzo in altri servizi del personale proveniente dall’operatore uscente.
Tale mancata verifica non può giustificarsi, secondo il Tar Umbria, in relazione alla tipologia di affidamento mediante accordo quadro né tantomeno ai criteri di valutazione dell’offerta stabiliti dalla lex specialis. Le esigenze di semplificazione e programmazione alla base di un accordo quadro, come oggi definito dall’articolo 3, lett. iii), del Dlgs n. 50/2016, non consentono infatti, in alcun modo, deroghe alla disciplina in materia di appalti pubblici né tantomeno consentono deroghe al citato articolo 97 in tema di inderogabilità del costo del lavoro. La congruità e sostenibilità economica dell’offerta deve sussistere a prescindere dagli effettivi ordini attuativi che la stazione appaltante vorrà adottare nel corso dell’esecuzione dell’accordo quadro.
Anche la circostanza per cui la disciplina di gara avesse effettivamente previsto, quale valore di riferimento per la valutazione dell’offerta, il solo costo chilometrico non esime certo la stazione appaltante dall’onere di verificare, in ipotesi di sospetto di anomalia, il necessario rispetto dei trattamenti salariali minimi, trattandosi di appalto ad alta densità di manodopera.
Il problema -conclude il Tar Umbria- nel caso di specie non era consistito nell'inderogabilità o meno dei valori risultanti dalle tabelle ministeriali, ma piuttosto nella mancata verifica, da parte della stazione appaltante, dell'effettivo costo del lavoro quale rilevante componente dell’offerta dell'aggiudicataria, verifica che, se realmente effettuata, avrebbe potuto condurre (in presenza di idonee giustificazioni) anche ad escludere l’anomalia dell'offerta (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.03.2018).
---------------
MASSIMA
4. - Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
5. - Non meritano anzitutto accoglimento le censure di carattere procedimentale circa l’”eccesso” di contraddittorio provocato dall’aver la stazione appaltante più volte rinnovato la richiesta di chiarimenti, non essendo a suo dire ciò più consentito dall’art. 97, c. 5, del D.lgs. 50 del 2016 e costituendo un inutile aggravio procedimentale.
Nell'ambito del procedimento di verifica dell’anomalia vale infatti il principio comunitario del pieno contraddittorio successivo alla presentazione delle offerte, oggi codificato dall’art. 69 della Direttiva 2014/24, secondo cui la partecipazione al procedimento consente alla stazione appaltante di ottenere ogni utile chiarimento in ordine al contenuto della documentazione prodotta (ex multis TAR Toscana, sez. I, 26.03.2009, n. 507; C.G.U.E. 27.11.2001, CC-285-286/99) sì da non impedire la reiterazione della richiesta ove necessario.
Ciò vale anche per le gare governate dall’applicazione del nuovo Codice approvato con D.lgs. 50/2016, laddove la struttura apparentemente monofasica del contraddittorio (giustificazione-chiarimenti) e non trifasica (giustificazione-chiarimenti-contraddittorio) va letta in conformità ai suesposti principi, si da non impedire una ulteriore fase di confronto dialettico dopo la presentazione delle giustificazioni, specie allorquando come nel caso di specie appaiono di dubbia congruità alcune rilevanti componenti dell’offerta e vi sia contestazione da parte dei concorrenti.
6. - Meritano invece adesione le censure di violazione dell’art. 97 D.lgs. 50/2016 nonché di eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione di cui al I motivo di gravame.
6.1. -
Come noto nelle gare pubbliche il giudizio di verifica della congruità di un'offerta sospetta di anomalia, ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento; esso non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e, dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto, rilevando che l'offerta nel suo complesso appaia "seria" (ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 17.11.2016, n. 4765; Id., sez. V, 13.09.2016, n. 3855; Id. sez. V, 27.08.2014, n. 4368; Id., sez. III, 09.07.2014, n. 3492; Id., sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; Id. sez. V, 22.02.2011, n. 1090; Id., sez. VI, 24.08.2011, n. 4801; TAR Puglia, Bari sez. I, 08.03.2012, n. 506) ed ammettendosi in caso di giudizio positivo la motivazione “per relationem (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 27.07.2017, n. 3702).
6.2. - Tanto premesso, la gara d’appalto per cui è causa attiene all’affidamento di servizi ad alta densità di manodopera, ai sensi dell’art. 50 del D.lgs. 50/2016, come stabilito dallo stesso art. 10 del Capitolato speciale, essendo il costo del personale pari ad almeno il 50 per cento dell’importo totale del contratto, dunque indubbiamente rilevante nell’economia dell’affidamento e nell’ambito dello stesso giudizio di anomalia.
Il rinvio operato dall'art. 97, comma 5, lett. a), D.lgs. n. 50/2016 all'art. 30, comma 3, implica che, nella esecuzione degli appalti pubblici, gli operatori economici sono obbligati a rispettare le norme poste a tutela dei diritti sociali, ambientali e del lavoro, essendo preciso obbligo della stazione appaltante chiedere i necessari giustificativi in sede di verifica sull'anomalia dell'offerta.
Con il vincolato esito della dovuta esclusione dell'offerta proposta in spregio degli obblighi retributivi minimi, e ciò, si badi bene, anche indipendentemente dalla congruità dell'offerta valutata nel suo complesso; in ciò sostanziandosi il “novum” rispetto alla pregressa disciplina. Da un esame testuale e sistematico emerge, invero, che la ratio del nuovo codice è chiaramente orientata per il rigoroso rispetto dei diritti minimi laddove involgano i primari interessi ambientali, sociali e lavoristici
(ex multis TAR Calabria Reggio Calabria, sez. I, 15.12.2016, n. 1315).
D’altronde
il comma 6 del citato art. 97 del D.lgs. 50/2016 esclude tassativamente che la stazione appaltante possa ammettere giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzati dalla legge mentre il comma 5 autorizza espressamente la stazione appaltante ad escludere l’offerta se accerta all’esito del contraddittorio con il concorrente interessato, che la stessa è anormalmente bassa in quanto il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, c. 16.
6.3. - L’obbligo inderogabile della stazione appaltante di verificare il rispetto dei minimi tabellari non è stato invece assolto nel caso di specie, non avendo l’ASM svolto i necessari approfondimenti in merito al costo del personale indicato dalla controinteressata rispetto alle ore presunte, limitandosi del tutto acriticamente a prendere atto del costo complessivo indicato in 799.766,24 euro, pur in presenza di contestazioni messe a verbale dal rappresentante della ricorrente già nella seduta della Commissione giudicatrice del 12.07.2017.
Era tra l’altro preciso onere dell’Amministrazione verificare in contraddittorio con l’aggiudicataria anche la rilevanza della prevista clausola sociale sul costo del lavoro, verificando gli inquadramenti del personale da assorbire dal gestore uscente, pur nel contemperamento delle esigenze organizzative dell’impresa aggiudicataria ritenuto doveroso dalla giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.08.2017, n. 4079) valutando la possibilità o meno di derogare ai livelli retributivi.
Ti. s.r.l. si è invece limitata ad indicare nei giustificativi una razionalizzazione del servizio mediante integrazione tra dipendenti dell’ASM e della Ti. non comprovate da elementi concreti, quali -del tutto indicativamente- vantaggi fiscali o economie dovute al basso tasso di malattia del personale, utilizzo del personale proveniente dalla cooperativa So. in altri servizi ecc.
6.4. - Tale mancata verifica non può secondo il Collegio giustificarsi in relazione alla tipologia di affidamento mediante accordo quadro né tanto meno ai criteri di valutazione dell’offerta stabiliti dalla lex specialis.
Le esigenze di semplificazione e programmazione alla base di un accordo quadro, come oggi definito dall’art. 3, lett. iii), del D.lgs. 50/2016, non consentono in alcun modo deroghe alla disciplina in materia di appalti pubblici (C.G.U.E. 04.05.1995 C-79) né tanto meno al citato art. 97 in tema di inderogabilità del costo del lavoro.
La congruità e sostenibilità economica dell’offerta deve sussistere a prescindere dagli effettivi ordini attuativi che la stazione appaltante vorrà adottare nel corso dell’esecuzione dell’accordo quadro.
Anche la circostanza secondo cui l’inoppugnata disciplina di gara preveda quale valore di riferimento per la valutazione dell’offerta il solo costo chilometrico non esime certo la stazione appaltante dall’onere di verificare, in ipotesi di sospetto di anomalia, il doveroso rispetto dei trattamenti salariali minimi, a fortiori trattandosi di appalto ad alta densità di manodopera.
Non si fa cioè questione della inderogabilità o meno dei valori risultanti dalle tabelle ministeriali, bensì della mancata verifica da parte della stazione appaltante del costo del lavoro quale rilevante componente dell’offerta, verifica che -ove effettuata- può evidentemente condurre in presenza di idonee giustificazioni ad escludere l’anomalia (ex multis TAR Lazio, Roma sez. I, 30.12.2016, n. 12873).
6.5. - D’altronde
deve condividersi quanto lamentato dalla ricorrente in merito al tentativo di irrituale integrazione postuma della motivazione effettuata dall’ASM, non potendo quest’ultima pretendere di sopperire alle lacune del giudizio di anomalia con valutazioni addotte per la prima volta nell’ambito del giudizio attraverso mere memorie difensive (ex multis TAR Lazio Roma, sez. II, 11.07.2017, n. 8243; TAR Veneto, sez. I, 11.03.2010, n. 768; TAR Sicilia, Catania sez. IV, 29.03.2012, n. 900).
6.6. - Il mezzo di gravame è dunque fondato, inficiando tal mancata verifica del costo del lavoro il giudizio di congruità nel suo complesso in considerazione della rilevanza di tal componente dell’offerta sul valore complessivo del contratto.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOLicenziamenti, l'e-mail non basta. Senza Pec il messaggio risulta in astratto modificabile.  Sentenza della Corte di cassazione sulla valenza probatoria dei documenti informatici.
Illegittimo il licenziamento del dipendente per giusta causa fondato sui messaggi contenuti nella sua posta elettronica aziendale: non è infatti certo che siano riferibili all'autore apparente. E ciò perché soltanto la Pec o la firma digitale garantiscono l'integrità del documento, mentre la mail tradizionale, almeno in astratto, risulta modificabile e in base al codice dell'amministrazione digitale costituisce soltanto un «documento informatico» liberamente valutabile dal giudice.
È quanto emerge dalla sentenza 08.03.2018 n. 5523 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Responsabilità oggettiva. Bocciato il ricorso del datore: diventa definitiva la condanna a pagare al dirigente circa 450 mila euro fra indennità supplementare e mancato preavviso. Al dipendente si imputava di aver avuto un ruolo nelle irregolarità accertate nelle rivalutazioni di magazzino: alcuni partner commerciali dell'azienda ottengono l'accredito di somme non dovute per scorte inesistenti.
Ma i testimoni sono inattendibili in quanto coinvolti nella vicenda: hanno interesse a scaricare su altri le responsabilità. Resta la posta elettronica, che però ha «dubbia valenza probatoria». Insomma: senza riscontri certi sul coinvolgimento dell'incolpato non lo si può licenziare per responsabilità oggettiva, soltanto perché è un dirigente.
Integrità e sicurezza. La definizione di documento informatico è contenuta nell'articolo 1, comma primo, lettera p), del dlgs 82/2005: si tratta del «documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti».
Nessun dubbio, allora, sui limiti all'efficacia probatoria dell'e-mail tradizionale, che va distinta dalla posta elettronica certificata: in base all'art. 21 del codice dell'amministrazione digitale soltanto il documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, fa piena prova fino a querela di falso come la scrittura privata ex art. 2702 Cc.
La posta elettronica non certificata, dunque, come ogni altro documento informatico risulta liberamente valutabile dal giudice ai sensi dell'articolo 20 del dlgs 82/2005: spetta dunque all'autorità giudiziaria verificare se i messaggi hanno le caratteristiche oggettive per soddisfare il requisito della forma scritta per qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità.
Violazione esclusa. Nella specie la Corte d'appello non mette in discussione che sussiste una corrispondenza relativa all'indirizzo di posta elettronica del dipendente: deve quindi escludersi che si configuri una violazione dell'art. 2712 Cc sulle riproduzioni meccaniche.
Il punto è che la sentenza confermata esclude piuttosto che «i messaggi siano riferibili al suo autore apparente»: si tratta di e-mail prive di firma elettronica e dunque la decisione non può essere censurata per violazione dell'art. 2702 Cc perché i messaggi di posta elettronica non hanno natura di scrittura privata ai sensi dell'art. 1 del codice dell'amministrazione digitale
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).
---------------
MASSIMA
La censura è, in ogni caso, infondata.
Il messaggio di posta elettronica è riconducibile alla categoria dei documenti informatici, secondo la definizione che di questi ultimi reca l'art. 1, comma 1, lett. p), del D.Lgs. nr. 82 del 2005 ("documento informatico: il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti"), riproducendo, nella sostanza, quella già contenuta nell'art. 1, comma 1, lett. b), del DPR nr. 445 del 2000.
Quanto all'efficacia probatoria dei documenti informatici, l'art. 21 del medesimo D.Lgs., nelle diverse formulazioni, ratione temporis vigenti, attribuisce l'efficacia prevista dall'articolo 2702 del cod. civ. solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, mentre è liberamente valutabile dal giudice, ai sensi dell'art. 20 D.Lgs. 82/2005, l'idoneità di ogni diverso documento informatico ( come l'e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità.
La decisione impugnata non mette in discussione la sussistenza di una corrispondenza relativa all'indirizzo di posta elettronica del dipendente, sicché è da escludere una violazione dell'art. 2712 cod. civ. La sentenza della corte territoriale esclude, piuttosto, che i messaggi siano riferibili al suo autore apparente; trattandosi di e-mail prive di firma elettronica, la statuizione non è censurabile in relazione all'art. 2702 cod. civ. per non avere i documenti natura di scrittura privata, ai sensi del citato art. 1 D.Lgs. 82/2005.
Infine, non vi è alcuna specifica argomentazione in ordine alla asserita violazione dell'art. 414 cod. proc. civ., indicata nella rubrica ma non sviluppata nel motivo.

SEGRETARI COMUNALI: Segretari, dalla Cassazione stop definitivo alla retribuzione «maggiorata» post galleggiamento.
Con la sentenza 06.03.2018 n. 5284, la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- chiude definitivamente sulla legittimità della maggiorazione della retribuzione di posizione dei segretari generali applicata dopo il galleggiamento. La questione è complessa, al punto che dopo diverse sentenze dei giudici del lavoro che avevano dato ragione ai segretari, era dovuto intervenire il legislatore con l’articolo 4, comma 26, della legge 183/2011 per chiarire che la maggiorazione andava applicata prima del riallineamento con lo stipendio del dirigente o funzionario con la retribuzione di posizione più elevata.
La questione controversa
I Segretari comunali e provinciali hanno dato inizio una controversia civilistica sulla corretta applicazione delle disposizioni del contratto nazionale (articolo 41, comma 5, del contratto del 16.05.2001) e di quello integrativo n. 2 del 22.12.2003, secondo cui nel calcolo della retribuzione di posizione l'allineamento all'indennità percepita dal dirigente con funzione più elevata, previsto dall’articolo 41, comma 5, rappresenta la base a cui aggiungere la maggiorazione prevista al comma 4 (fino al 50% in più in caso di funzioni gestionali aggiuntive).
A sostegno della tesi, era stato evidenziato come, se le maggiorazioni stipendiali fossero assorbite dal riallineamento, verrebbero penalizzati i segretari più gravati di compiti; il tutto in violazione del principio di corrispettività, in virtù del quale gli incarichi ulteriori rispetto a quelli istituzionali devono avere una propria remunerazione. Per esempio, se la la retribuzione di posizione del segretario è pari a 30, mentre quella del dirigente con la retribuzione più elevata è di 40, allora:
   a) nel caso di maggiorazione dopo il galleggiamento, spetterebbe al segretario, cui siano stati affidati compiti gestionali aggiuntivi, una retribuzione di posizione pari a 60 (40 x 1,5 = 60);
   b) in caso di assorbimento della maggiorazione nel galleggiamento, si avrebbe una retribuzione di posizione pari a 45 (30 x 1,5), mentre nel solo caso in cui la maggiorazione sia inferiore alla retribuzione del dirigente, allora troverebbe ragione il riallineamento a quest'ultima (esempio dirigente con retribuzione pari a 50 maggiore della maggiorazione di 45).
La posizione della Suprema Corte
Secondo la Suprema Corte, l’articolo 41, comma 4, nell'attribuire alle parti la facoltà di maggiorare i compensi del segretario, si limita a richiamare esplicitamente i compensi indicati al precedente comma 3, secondo i valori economici riconosciuti da quella disposizione, senza nulla dire del comma 5 che contiene la clausola di riallineamento stipendiale.
La maggiorazione prevista dal comma 4 si aggiunge dunque ai valori economici stabiliti dal comma 3 dell'articolo 41, fermo restando che entrambe le disposizioni (commi 3 e 4) riguardano la sola voce della retribuzione di posizione. Se, dunque, il riallineamento stipendiale (comma 5) ha una funzione perequativa, distinta da quella corrispettiva delle maggiorazioni (comma 4), è logico che alla perequazione si arrivi con riferimento alla retribuzione di posizione complessiva, comprendente anche le maggiorazioni previste dal comma 4.
In definitiva, per la Cassazione, se con le maggiorazioni (comma 4) la retribuzione di posizione del segretario supera quella del dirigente apicale, allora non si potrà procedere con il riallineamento al dirigente con più elevata retribuzione di posizione (comma 5). E nemmeno l’impatto negativo sul sul piano previdenziale può condizionare la corretta interpretazione delle norme contrattuali (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.03.2018).

TRIBUTIAree edificabili, valori sanabili. Possibile rettificare l'importo determinato dal comune.
I comuni hanno il potere di accertare i valori delle aree edificabili in misura superiore a quelli fissati dallo stesso ente, con delibera del consiglio comunale o della giunta, se questi valori risultino inferiori a quelli indicati in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a conoscenza. La ratio della norma di legge che consente ai comuni di fissare dei valori predeterminati ha la finalità di ridurre il contenzioso con i contribuenti, ma non può impedire la rettifica dei valori dichiarati che non sono in linea con i valori di mercato degli immobili.

Questo importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 02.03.2018 n. 4969.
Per la Cassazione, la fissazione dei valori delle aree fabbricabili non può avere altro effetto che quello di autolimitare il potere di accertamento Ici, ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, poiché il comune si obbliga a ritenere congruo il valore delle aree fabbricabili qualora sia stato dichiarato dal contribuente in misura non inferiore a quella stabilita nel regolamento comunale. I giudici di legittimità hanno posto in evidenza che «il valore minimo delle aree edificabili integra un elemento presuntivo suscettibile di doverosa riconsiderazione nel caso in cui il valore venale del bene così determinato risulti contraddetto da quello, maggiore, indicato in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a conoscenza».
Valori delle aree e presupposti per l'imposizione. Per Ici, Imu e Tasi il valore di un'area edificabile deve essere determinato in base ai criteri fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre stabilire il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato.
La norma prevede che occorra fare riferimento a zona territoriale di ubicazione dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta comunale, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico, ma non sono vincolanti nella determinazione del quantum.
Possono essere anche determinati con delibera del consiglio comunale, come nel caso in esame, ma secondo la Cassazione non può essere un ostacolo l'indicazione preventiva se il loro valore di mercato, risultante da atti di compravendita di beni aventi analoghe caratteristiche, dovesse risultare di importo più elevato. Del resto la norma sopra citata prevede un parametro ad hoc, che è il valore di mercato delle aree.
Non è cambiato nulla per l'imposizione delle aree edificabili con la disciplina Imu rispetto all'Ici. Così come per la Tasi, che ha la stessa base imponibile dell'Imu. Il legislatore, infatti, richiama espressamente le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla normativa Ici.
Per la qualificazione delle aree è necessario fare riferimento al piano regolatore generale. In base all'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992, per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «generali o attuativi» oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione per pubblica utilità.
Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la base imponibile Ici è data dal valore dell'area (non viene computato il valore del fabbricato in corso d'opera), dalla data di inizio dei lavori di costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino al momento in cui il fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello di ultimazione del fabbricato. In base alla finzione giuridica prevista nella disciplina dell'imposta (art. 5, comma 6, del decreto legislativo 504/1992) durante il periodo dell'effettiva utilizzazione edificatoria anche per demolizione e per esecuzione di lavori di recupero edilizio, il suolo va considerato area fabbricabile, indipendentemente dal fatto che sia tale o meno in base agli strumenti urbanistici.
Pertanto, un'area è edificabile quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta alle imposte locali indipendentemente dalla successiva lottizzazione del suolo. È il comune, su richiesta del contribuente, che attesta se un'area sita nel proprio territorio sia edificabile. Se lo strumento urbanistico è approvato dal consiglio comunale, l'ente può dal momento dell'approvazione richiedere il pagamento del tributo.
Cambi di destinazione. Se il comune non comunica ai contribuenti le variazioni urbanistiche e i cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili, l'omissione non rende nulli gli avvisi di accertamento pur essendo un obbligo imposto dalla legge all'amministrazione comunale (Commissione tributaria regionale di Palermo, sezione XXV, sentenza 4071/2016). Pertanto, l'omessa comunicazione prevista dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 non comporta alcuna nullità.
I titolari dei terreni divenuti edificabili sono tenuti a pagare le imposte su un'area edificabile anche se il comune non li abbiano informati delle variazioni apportate allo strumento urbanistico e non abbia comunicato il cambio di destinazione del terreno (Cassazione, sentenza 15558/2009).
Tuttavia, nei casi in cui il comune non abbia provveduto a comunicare formalmente il cambio di destinazione, e il contribuente violi l'obbligo di dichiarazione e di versamento, si può ritenere che ricorra una causa di non punibilità
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2018).

TRIBUTITassa rifiuti, le variazioni non hanno effetto retroattivo.
Le variazioni dichiarate dai contribuenti all'amministrazione comunale non hanno effetto retroattivo. La riduzione della superficie dell'immobile, per pagare un importo minore a titolo di tassa sui rifiuti, deve essere dichiarata tempestivamente. Non è possibile ottenere la riduzione della superficie da assoggettare a tassazione, in caso d'inabitabilità parziale dell'immobile, per il periodo precedente alla presentazione della dichiarazione di variazione. Solo dopo la presentazione della denuncia, infatti, l'amministrazione comunale può accertare e valutare la fondatezza delle richieste avanzate dall'interessato.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 28.02.2018 n. 4602.
Per i giudici di piazza Cavour, la ratio è quella di «indurre il contribuente alla sollecita presentazione della comunicazione di variazione e, al contempo, di preservare all'ente impositore la concreta possibilità di verificare tempestivamente, e sulla base dell'attualità di stato, il fondamento della variazione comunicata».
Peraltro, il principio comunitario «chi inquina paga» verrebbe meno nell'ipotesi «in cui si consentisse alla dichiarazione di riduzione di esplicare effetto anche con riguardo ad annualità pregresse, in ordine alle quali non sarebbe più possibile alcun controllo di debenza da parte dell'ente impositore», in presenza di un'asserita «pregressa non abitabilità di una porzione di locali». La sentenza fa riferimento alla Tia, alla quale si applicano le disposizioni sulla Tarsu. Ma gli stessi adempimenti sono imposti per la Tari.
Il principio affermato dalla Cassazione non è proprio in linea con quanto sostenuto di recente dalla stessa Corte (sentenza 453/2018), secondo cui il contribuente può rettificare in qualsiasi momento la dichiarazione presentata al comune relativa ai tributi locali, per correggere errori o omissioni, e può contestare la pretesa tributaria dell'amministrazione che non abbia tenuto conto delle variazioni dichiarate.
In effetti, è stata ritenuta emendabile la dichiarazione anche in sede contenziosa, perché non ha valore confessorio né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria. Se la modifica ha luogo prima della notifica dell'avviso di accertamento, l'amministrazione locale ne deve tenere conto, altrimenti è obbligata a fornire la prova contraria. Mentre, se la rettifica dell'errore avviene dopo la notifica dell'atto impositivo, spetta al contribuente l'onere di dimostrare la correttezza della modifica proposta, anche in sede contenziosa.
Nella pronuncia è stata richiamata la regola già applicata alla dichiarazione dei redditi, qualificata «una mera esternazione di scienza o di giudizio» e quindi «emendabile e ritrattabile». La rettifica può intervenire su tutti gli errori commessi dal contribuente, «anche non meramente materiali o di calcolo», considerato che «non ha valore confessorio, né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria». Naturalmente queste diverse prese di posizione, a breve distanza di tempo, generano confusione.
Va ricordato che per Imu, Tasi e Tari ormai c'è un termine unico per assolvere all'obbligo di presentazione delle dichiarazioni. Devono essere presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in comune di un immobile, la dichiarazione Tari può essere presentata solo da uno degli obbligati. Sono esonerati dall'adempimento coloro che hanno già denunciato le superfici per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Consiglio di stato: per l'end of waste necessarie regole generali.
Le Regioni possono autorizzare esclusivamente il recupero dei rifiuti già a monte disciplinato da norme comunitarie o statali di settore.

Questo il principio di diritto che si trae dalla sentenza 28.02.2018 n. 1229 con cui il Consiglio di Stato -Sez. IV- ha chiarito come l'attuale ordinamento giuridico non attribuisca ad enti regionali, e loro delegati, il potere di stabilire in via autonoma i criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto (cosiddetto «end of waste») dei residui derivanti da processi produttivi.
Il contesto normativo. La direttiva 2008/98/Ce prevede che, per essere riabilitati a veri e propri beni (ossia per aversi il citato end of waste), i rifiuti devono essere sottoposti a specifiche operazioni di recupero all'esito delle quali si ottengono materiali che soddisfano le seguenti condizioni:
   - sono sostanze od oggetti comunemente utilizzati per scopi specifici;
   - hanno un mercato/domanda di riferimento;
   - rispettano requisiti tecnici e standard di prodotto;
   - non hanno impatti negativi per salute e ambiente.
La direttiva sancisce il primato dell'Ue nel declinare mediante regolamenti i principi su singole categorie di rifiuti, solo in assenza di questi concedendo agli Stati membri di decidere «caso per caso» tenendo conto della giurisprudenza applicabile.
Le condizioni generali previste dalla direttiva 2008/98/Ce sono state riprese dal legislatore nazionale. Questi, mediante l'articolo 184-ter del dlgs 152/2006 ha stabilito che: in assenza delle suddette specifiche norme Ue, spetta al ministero dell'ambiente mediante propri decreti adottare «caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto» criteri nazionali end of waste; fino all'adozione di tali decreti continuano ad applicarsi le storiche regole sul recupero dei rifiuti in materie prime secondarie («mps») previste da decreti risalenti agli anni 90 e meno snelle delle prime.
Su tale quadro giuridico, che legittima il solo recupero di residui oggetto di specifica normativa («end of waste» o «mps» che sia), si è innestata la lettura estensiva data dal Minambiente con circolare 01.07.2016. Con tale atto, il dicastero aveva interpretato le norme riconoscendo che, in via residuale, le regioni (o gli enti da queste individuati) potessero, in sede di rilascio di autorizzazione, definire propri criteri end of waste previo riscontro della sussistenza delle condizioni ex articolo 184-ter del dlgs 152/2006 rispetto a rifiuti che non fossero già stati disciplinati dai regolamenti comunitari o decreti ministeriali.
La pronuncia del Consiglio di stato. In direzione opposta a tale interpretazione arriva la sentenza 28.02.2018 n. 1229 del Consiglio di stato. La pronuncia riconosce infatti come il diritto comunitario individui esclusivamente lo «Stato», e non suoi enti o organizzazioni interne quale soggetto titolato all'adozione di criteri end of waste per tipologie di residui.
E ciò anche per il fatto che la determinazione di tali criteri deve ragionevolmente avere efficacia sull'intero territorio nazionale dello Stato membro. Nell'ambito di tale disposizione comunitaria, il Legislatore nazionale ha (in coerenza con il principio di potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ecosistema ex articolo 117 della Costituzione) attribuito il relativo potere al ministero dell'ambiente.
Ancor più sottilmente, il Consiglio di stato fa emergere come nel conferire tale potere normativo al dicastero il dlgs 152/2006 abbia precisato che l'adozione «caso per caso» delle regole end of waste debba essere fatta con riferimento a «specifiche tipologie» di rifiuti e non in relazione a singoli casi. Sotto questo profilo la sentenza appare evidenziare una necessità del legislatore nazionale di affidare la riabilitazione «da rifiuto a bene» a generali previsioni regolamentari per categorie di rifiuti e non a specifici provvedimenti autorizzativi localmente rilasciati per attività di recupero vertenti su singoli residui.
La pronuncia è stata stimolata dal contenzioso nato proprio intorno a una delibera regionale che non autorizzava un'azienda a riabilitare a beni tramite un diretto processo di recupero specifici residui in ragione della mancanza di norme comunitarie e nazionali ad hoc. Ma la forza della sentenza sembra inevitabilmente portata a travolgere anche gli eventuali atti degli enti locali in materia di end of waste dal più ampio respiro di una semplice autorizzazione, che siano veicolati da leggi o regolamenti (come la recente Dgr Veneto 07.02.2018 n. 120).
I criteri esistenti. Tacciate di illegittimità le autonome fonti end of waste di carattere locale, ecco quali sono allo stato dell'arte gli attuali legittimi criteri «eow». In attuazione della direttiva 2008/98/Ce l'Ue ha previsto criteri end of waste per: rottami di rame (regolamento 715/2013/Ue); rottami di vetro (1179/2012/Ue); rottami ferro, acciaio, alluminio (333/2011/Ue).
L'unico provvedimento nazionale attuativo dell'art. 184-ter del dlgs 152/2006 è costituito dal dm Ambiente 22/2013 sui combustibili solidi secondari («Css»). Ulteriori norme nazionali sono previste dal dl 91/2014, il quale (mediante modifica dell'art. 216, dlgs 152/2006) ha sancito l'applicabilità del regime autorizzativo semplificato alle operazioni di recupero svolte secondo le norme Ue. Sempre dal dl 91/2014 è sancito come, in attesa di regole «eow», sia consentito: il riutilizzo delle materie prime secondarie ottenute da rifiuti inerti per opere di recupero ambientale, rilevati, sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali (art. 184-quater, dlgs 152/2006); la gestione come normali beni dei materiali dragati.
Novità in arrivo. Sull'assetto della disciplina comunitaria promette di incidere la nuova direttiva rifiuti prevista dal «Piano d'azione per l'economia circolare» in corso di approvazione da parte dell'Ue. Lo schema di provvedimento licenziato il 27.02.2018 dalla commissione ambiente del parlamento Ue e atteso in plenaria nell'aprile prossimo prevede di intervenire sull'art. 6 della direttiva 2008/98/Ce conferendo maggior potere di iniziativa agli Stati membri nello stabile regole end of waste «caso per caso».
Sul piano nazionale, venerdì il ministero dell'ambiente ha annunciato di aver trasmesso al Consiglio di stato lo schema di regolamento «end of waste» sui «Pap» (prodotti assorbenti per la persona)
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.03.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIALa strada non può diventare un bar.
La strada non può diventare un bar. Troppi avventori lasciati in strada a consumare bevande alcoliche con musica, rumori e disagio conclamato per i residenti determinano un grave pregiudizio per l'ordine ed il decoro urbano. E alla fine il conto lo pagano tutti.

Lo ha evidenziato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con la sentenza 26.02.2018 n. 188.
Il comune di Bologna ha ordinato ad un esercente di limitare i rumori e gli assembramenti in prossimità del esercizio pubblico, meta abituale di persone particolarmente rumorose e negligenti. Contro questa decisione l'interessato ha proposto censure al collegio ma senza successo.
L'ordinanza sindacale adottata ai sensi dell'art. 50 del tuel è giustamente finalizzata al ripristino delle normali condizioni di vivibilità di un'area urbana deturpata da un uso smodato del territorio.
Gli avventori del locale, infatti, oltre ad occupare strada e marciapiedi impedendo anche il transito veicolare con il rumore impediscono da anni il riposo dei residenti.
Per questo motivo il Tar non si è limitato a rigettare il ricorso.
Ma ha anche trasferito gli atti sia all'Ispettorato del lavoro, alla Prefettura e alla Procura per le necessarie opportune valutazioni conseguenti
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIDiniego d'accesso generalizzato, necessari contraddittorio e onere motivazionale rafforzato.
Secondo la sentenza 19.02.2018 n. 234 del TAR Puglia-Bari, Sez. III,
un diniego d'accesso civico generalizzato, motivato con riferimento alla compromissione del buon andamento della Pubblica amministrazione, per il carico di lavoro ragionevolmente e ordinariamente esigibile dagli uffici, non può ritenersi tout court infondato.
Può essere d'aiuto ricordare -sia pure con riferimento a un diverso referente normativo (articolo 43 del Dlgs 267/2000)– che in un caso di accesso massivo agli atti formulato da consiglieri comunali di minoranza –che pure godono di un non limitato diritto di accesso agli atti, svincolato da qualsivoglia onere motivazionale– il Consiglio di Stato ha affermato il principio che essi godono di un diritto di accesso incondizionato «purché non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo» (Consiglio di Stato n. 846/2013).
In pratica «…l'esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso» (ex plurimis, Consiglio di Stato sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
Il buon andamento della Pa rappresenta –in qualunque forma di accesso- un valore cogente e non recessivo, la cui sussistenza, tuttavia, non può essere genericamente affermata, bensì adeguatamente dimostrata da parte dell'amministrazione che nega l'accesso (Delibera Anac 1309/2016; circolare della Funzione pubblica 30.05.2017 n. 2/2017). Alla stregua dell'evocato parametro interpretativo, il diniego di accesso, radicato al buon andamento della Pubblica amministrazione, deve ritenersi soggetto a un onere motivazionale rafforzato. Inoltre, non deve mancare il dialogo endoprocedimentale che appare ormai un valore immanente dell'azione amministrativa.
È utile ricordare la circolare del Dipartimento della Funzione pubblica 30.05.2017 n. 2/2017, predisposta in raccordo con l'Anac, al fine di promuovere una coerente e uniforme attuazione della disciplina sull'accesso civico generalizzato e nell'esercizio della funzione generale di «coordinamento delle iniziative di riordino della pubblica amministrazione e di organizzazione dei relativi servizi (art. 27, n. 3, legge n. 93 del 1983)». Il punto d) della circolare precisa che qualora la trattazione dell'istanza di accesso civico generalizzato sia suscettibile di arrecare un pregiudizio serio e immediato al buon funzionamento della pubblica amministrazione, quest'ultima «prima di decidere sulla domanda, dovrebbe contattare il richiedente e assisterlo nel tentativo di ridefinire l'oggetto della richiesta entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità».
Secondo la pronuncia del Tar Puglia, questo comportamento non può ritenersi estraneo al percorso e alle finalità dell'accesso civico, atteso che il principio del dialogo cooperativo con i richiedenti, deve ritenersi un valore immanente alle previsioni della legge istitutiva del Foia e della finalità di condividere con la collettività il patrimonio di informazioni in possesso della Pa (la «società dell'informazione» cui a livello europeo tende -considerando n. 2- la Direttiva n. 2003/98/CE) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.03.2018).
----------------
MASSIMA
6.2.- L’istanza, unitariamente intesa, risulta radicata a due diversi referenti normativi atteso che, per un verso, individua le ragioni della richiesta di accesso agli atti nelle previsioni del d.lgs. n. 33/2013 che –com’è noto– contiene la disciplina del c.d. “accesso civico” (oggi differenziato in accesso civico semplice (art. 5, comma 1) e accesso civico generalizzato (art. 5, comma 2) ; dall’altro, radica l’istanza ostensiva agli art. 22 e ss. della l. n. 241/1990.
6.3.- Siffatta duplicazione di referenti normativi impone una preliminare delibazione in ordine alla portata ed alla correlazione delle citate previsioni, come più volte precisato dalla giurisprudenza anche di questo Tribunale.
6.3.1.- Non sfugge al Collegio che nell’ambito delle deleghe concesse al Governo di cui all’art. 7 della legge 07.08.2015 n. 124 per la riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni (c.d. Riforma Madia), in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, con il d.lgs 25.05.2016 n. 97 sono state novellate le disposizioni di cui alla legge 06.11.2012 n. 190 ed al d.lgs. 14.03.2013 n. 33 -previo parere della Sezione Consultiva per gli atti Normativi del Consiglio di Stato, reso nell’adunanza di Sezione del 18.02.2016- introducendo una nuova forma di accesso civico libero ai dati e ai documenti pubblici, equivalente a quella che nei sistemi anglosassoni è definita Fredom of information act (F.O.I.A.): questa nuova forma di accesso prevede che chiunque, indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti, può accedere a tutti i dati e ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, nel rispetto di alcuni limiti tassativamente indicati dalla legge.
6.3.2.- Anche con riguardo alla normativa de qua,
la giurisprudenza ha più volte scrutinato il rapporto intercorrente tra le previsioni in materia di accesso di cui alla legge n. 241/1990 e quelle di cui al d.lgs. n. 33/2016, modificato dal d.lgs. n. 97/2016.
In particolare il Consiglio di Stato, a fronte delle previsioni innovative del d.lgs. n. 33/2013, si è orientato a ritenere quanto segue: “
Al riguardo sembra opportuno sottolineare in primo luogo che le nuove disposizioni, dettate con d.lgs. 14.03.2013, n. 33 in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni disciplinano situazioni, non ampliative né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, come successivamente modificata ed integrata.
Col citato d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare “il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche”, quale integrazione del diritto “ad una buona amministrazione”, nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino”. Detta normativa –avente finalità dichiarate di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione– intende anche attuare la funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r) della Costituzione”: quanto sopra, tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo d.lgs. e concernenti l’organizzazione, nonchè diversi specifici campi di attività delle predette amministrazioni) nei siti istituzionali delle medesime, con diritto di chiunque di accedere a tali siti “direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione”; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto “accesso civico”, consistente in una richiesta –che non deve essere motivata– di effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di conclusiva inadempienza all’obbligo in questione, di ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul processo (d.lgs. 02.07.2010, n. 104).
L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 è riferito, invece, al “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati….tutti i soggetti….che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”; in funzione di tale interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata.
Benché sommarie, le indicazioni sopra fornite appaiono sufficienti per evidenziare la diversificazione di finalità e di disciplina dell’accesso agli atti, rispetto al cosiddetto accesso civico, pur nella comune ispirazione al principio di trasparenza, che si vuole affermare con sempre maggiore ampiezza nell’ambito dell’amministrazione pubblica
.” (Cons. St. Sez. VI n. 5515 del 2013).
Le riferite conclusioni non risultano superate dalla successiva giurisprudenza che, in sede di definizione dei rispettivi ambiti di operatività delle diverse norme, ha ulteriormente aggiunto quanto segue: “
Vuol dire piuttosto che va condotta un'indagine circa la consistenza della situazione legittimante all’accesso e che la relativa valutazione va articolata a seconda della disciplina normativa di riferimento, che varia in significative parti sia con riguardo ai caratteri della posizione legittimante (l’interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di cui alla legge n. 241), sia dei vari presidi che la legge pone verso l’accesso generalizzato (non collegato, cioè, ad un interesse qualificato e differenziato o comunque volto a un controllo diffuso sull’attività dei pubblici poteri). In particolare sul versante dei rapporti con i pubblici poteri, il legislatore non sconta limiti generali nel prevedere in favore dei cittadini una serie più o meno ampia di diritti ad essere informati, come avviene, per esempio, con le regole di pubblicità ex art. 29 del Dlgs 14.03.2013 n. 33.
E’ fondamentale sottolineare, al riguardo, che l'evoluzione della legislazione in materia, che pure è via via sempre più aperta alle esigenze di trasparenza dell'azione pubblica, ha portato a configurare le diverse forme di accesso più che a guisa di un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri, come un insieme di sistemi di garanzia per la trasparenza, tra loro diversificati pur con inevitabili sovrapposizioni. Sicché s’avrà una maggiore o minore estensione della legittimazione soggettiva, a seconda della più o meno diretta strumentalità della conoscenza, incorporata negli atti e documenti oggetto d’accesso, rispetto ad un interesse protetto e differenziato, diverso dalla mera curiosità del dato, di colui che esprime sì il bisogno di accedere, ma con le modalità previste dalla specifica disciplina normativa invocata.
In altri termini, è da considerare che il sistema nel suo complesso dà luogo a vari tipi d’accesso, con diverse finalità e metodi d’approccio alla conoscenza ed altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza dei pubblici poteri. Tali livelli, nel sistema della legge n. 241 … saranno più ampi quando riguardano la partecipazione di un soggetto ad un procedimento amministrativo (art. 7, c. 1; art. 8, c. 2, lett. b); art. 10, lett. a), della l. 241/1990) o ad un processo amministrativo già in atto (art. 116, c. 2, c.p.a.: cfr., p. es., Cons. St., III, 14.03.2013 n. 1533), oppure quando l’accesso riguardi «… documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici…» (art. 24, c. 7, della legge n. 241); ma richiederanno pur sempre, nel sistema della legge n. 241, una posizione legittimante nei termini richiesti da quella disciplina. È allora ben chiaro che il diritto d’accesso ex legge n. 241 agli atti amministrativi non è connotato da caratteri di assolutezza e soggiace, oltre che ai limiti di cui all’art. 24 della l. 241/1990, alla rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente, il quale deve dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti. …. Né sembri tutto ciò in contrasto con la c.d. “società dell’informazione” cui a livello europeo tende (cfr. considerando n. 2) la dir. n. 2003/98/CE, poiché, al di là dell’enfasi così manifestata, tale fonte comunque non esclude, nei ben noti ed ovvi limiti di ragionevolezza e proporzionalità, regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una posizione legittimante).
Diversi sono i presupposti che connotano i casi di c.d. “accesso civico” ex art. 5 del Dlgs 33/2013 (anche nel testo previgente alla novella del 2016), che tuttavia presuppongono la sussistenza di un obbligo di pubblicazione (cfr. funditus Cons. St., VI, 20.11.2013 n. 5515).
E ancora diversi sono i presupposti che disciplinano l’accesso ai sensi del decreto legislativo n. 97 del 2016, che svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5 bis. In tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente
.” (Cons. St. n. 3631 del 2016).
6.4.- Nel caso di specie, deve escludersi che l’istanza possa ritenersi radicata alle previsioni della l. n. 241/1990 che, peraltro, risulta genericamente richiamata, senza l’indicazione dell’interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, secondo i noti principi elaborati, ex multis, da Ad. Plen. Cons. St. n. 7 del 24.04.2012.
6.5.- Più correttamente, l’istanza ostensiva deve ritenersi proposta -come peraltro espressamente indicato dalla parte– all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013 e cioè quale accesso civico generalizzato.
6.6.-
E’ noto che, per effetto delle modifiche apportate dal decreto legislativo 25.05.2016 n. 97 al decreto legislativo 14.03.2013 n. 33, è stato introdotto, con il comma 2, il c.d. accesso civico generalizzato che va ad aggiungersi al c.d. accesso civico semplice di cui al comma uno dello stesso articolo. L’accesso civico semplice prevede che l’obbligo in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati, comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi nel caso in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.
L’accesso civico generalizzato contiene, invece, una diversa disciplina e segnatamente il diritto di chiunque di accedere ai dati ed ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione -nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti– e ciò allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Si aggiunge al comma 3, che “l’esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L’istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione…”.

6.7.- Alla luce di quanto sopra esposto, deve ritenersi infondato il primo profilo di diniego espresso dalla resistente amministrazione, con riferimento alla “incerta qualificazione” dell’istanza.
6.8.- Una più attenta considerazione merita il secondo profilo motivazionale dell’atto impugnato, laddove si afferma, a giustificazione del diniego –sulla scorta della deliberazione ANAC n. 1309 del 28.12.2016 “Linee Guida recanti indicazioni operative della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del D.Lgs n. 33 del 2013”– che non è ammissibile una richiesta meramente esplorativa e le richieste non devono essere generiche, ma consentire l’individuazione del dato, del documento o dell’informazione, con riferimento almeno, alla loro natura ed al loro oggetto, aggiungendo che “Allo stesso modo, nei casi in cui venga presentata una domanda di accesso per un numero manifestamente irragionevole di documenti imponendo così un carico di lavoro tale da paralizzare, in modo sostanziale, il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può ponderare, da un lato l’interesse all’accesso del pubblico ai documenti e, dall’altro, il carico di lavoro che ne deriverebbe, al fine di salvaguardare, in questi casi particolari, e di stretta interpretazione, l’interesse ad un buon andamento dell’Amministrazione”.
6.8.1.- Ad avviso del Collegio deve escludersi che l’istanza non consenta di identificare i dati, le informazioni o i documenti richiesti dal momento che, per come formulata, consente agevolmente l’identificazione degli stessi.
6.8.2.- Merita condivisione, invece, il profilo motivazionale relativo alla massa dei documenti richiesti, relativi agli ultimi cinque anni di attività amministrativa (bilanci societari; verbali del Consiglio di Amministrazione relativi agli incarichi assegnati; fatture riguardanti acquisti e vendite, con annesse stampe dei registri Iva acquisti, registri iva vendite, libro giornale, partitari, cedolini paga; contratti di lavoro del personale e dei collaboratori ASIPU, nonché contratti con le Agenzie interinali).
Il diniego opposto –motivato con riferimento alla compromissione del buon andamento della Pubblica Amministrazione, per il carico di lavoro ragionevolmente ed ordinariamente esigibile dagli uffici– non può ritenersi tout court infondato.
6.8.3.-
Gioverà ricordare -sia pure con riferimento ad un diverso referente normativo (art. 43 d.lgs. n. 267/2000)– che in un caso di accesso massivo agli atti formulato da consiglieri comunali di minoranza –che pure godono di un non limitato diritto di accesso agli atti, svincolato da qualsivoglia onere motivazionale– il Consiglio di Stato ha affermato il principio che essi godono di un diritto di accesso incondizionato “purchè non invada l’ambito riservato all’apparato amministrativo (Cons. St. n. 846/2013): in pratica “…l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso" (tra tanti, Consiglio di Stato sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
6.8.4.- In definitiva,
il buon andamento della Pubblica Amministrazione rappresenta –in qualunque forma di accesso- un valore cogente e non recessivo, la cui sussistenza, tuttavia, non può essere genericamente affermata bensì adeguatamente dimostrata da parte dell’amministrazione che nega l’accesso (Delibera ANAC citata; Circolare della Funzione Pubblica 30.05.2017 n. 2/2017).
Alla stregua dell’evocato parametro interpretativo, il diniego di accesso, radicato al buon andamento della Pubblica Amministrazione, deve ritenersi soggetto ad un onere motivazionale rafforzato.
6.8.5.- Nel caso di specie, l’istanza di accesso civico generalizzato presentata dal ricorrente effettivamente afferisce ad un numero manifestamente irragionevole di documenti (si pensi soltanto ai cedolini paga degli ultimi cinque anni; alle fatture riguardanti acquisti e vendite, con annesse stampe dei registri Iva acquisti, registri iva vendite degli ultimi cinque anni) per cui il diniego opposto con riferimento alla tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione, non può ritenersi, in linea di principio erroneo od infondato.
6.8.6.- Ciò che è mancato, tuttavia, è il dialogo endoprocedimentale che appare ormai un valore immanente dell’azione amministrativa.
6.8.7.- Gioverà all’uopo richiamare, ai fini che ci occupano, i contenuti della Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica 30.05.2017 n. 2/2017, predisposta in raccordo con l’Autorità nazionale anticorruzione, al fine di promuovere una coerente e uniforme attuazione della disciplina sull’accesso civico generalizzato e nell’esercizio della funzione generale di “coordinamento delle iniziative di riordino della pubblica amministrazione e di organizzazione dei relativi servizi (art. 27, n. 3, legge n. 93 del 1983)”.
IL punto d) della citata circolare precisa che qualora la trattazione dell’istanza di accesso civico generalizzato sia suscettibile di arrecare un pregiudizio serio ed immediato al buon funzionamento della pubblica amministrazione, quest’ultima “prima di decidere sulla domanda, dovrebbe contattare il richiedente e assisterlo nel tentativo di ridefinire l’oggetto della richiesta entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e di proporzionalità”.
Siffatto comportamento non può ritenersi estraneo al percorso ed alle finalità dell’accesso civico atteso che il principio del dialogo cooperativo con i richiedenti deve ritenersi un valore immanente alle previsioni della legge istitutiva del FOIA e della finalità di condividere con la collettività il patrimonio di informazioni in possesso della Pubblica Amministrazione.
6.8.7.- Trasponendo le riferite considerazioni al caso in esame, deve convenirsi che il diniego all’istanza di accesso civico è illegittimo nei soli limiti sopra evidenziati e come tale va annullato.

EDILIZIA PRIVATA: Oneri per installazione di uno spazio attrezzato per una struttura teatrale.
Premesso che la deroga alla onerosità della concessione edilizia (ora permesso di costruire) ricorre nelle sole ipotesi tassativamente indicate dalla legge, per l’inveramento della fattispecie di gratuità di cui alla richiamata lett. f) dell’art. 9 della legge n. 10 del 1977 è necessaria la contestuale presenza di due requisiti: uno soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competenze; l’altro di carattere oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
---------------

1. La Cooperativa ricorrente, odierna appellante, ha agito in giudizio per l’accertamento del diritto all’esenzione dal pagamento del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria richiesti dal Comune di Bitritto con nota del 12.03.1993.
Gli elementi di fatto, come essenzialmente già contenuti nella pronuncia di primo grado, possono essere così sintetizzati:
   - il Comune di Bitritto, con delibera consiliare n. 99 del 1985, ha approvato il progetto per la realizzazione di uno spazio attrezzato per Teatro Tenda, provvedendo successivamente alla sistemazione e recinzione dell’area interessata, con ultimazione dei lavori alla data del 30.05.1987;
   - con successiva delibera consiliare n. 165 del 1987 ha affidato in concessione detta area alla Cooperativa S.C.A.L.S., con la quale, in data 16.06.1988, ha stipulato apposita convenzione;
   - con istanza del 26.01.1989, la Cooperativa, dovendo completare i lavori sull’area attrezzata per l’installazione del teatro tenda, ha chiesto, ai sensi dell’art. 12 della convenzione, l’autorizzazione per l’esecuzione di alcuni lavori e tali lavori sono stati autorizzati con provvedimento sindacale dell’11.02.1989;
   - il Comando di Polizia Municipale di Bitritto, con nota del 07.12.1992, ha rilevato l’abusiva realizzazione del teatro tenda con copertura con telone in PVC nonché di sei prefabbricati e di un corpo di fabbrica con muratura perimetrale in tufo e copertura con lamiere zincate;
   - l’amministrazione comunale, con atto del 01.02.1983, ha ordinato l’immediata sospensione dei lavori abusivamente eseguiti dalla Cooperativa;
   - in data 04.02.1993, l’odierna appellante ha proposto istanza di sanatoria anche per tali opere, sulla quale è intervenuto favorevole parere della C.E.;
   - il Comune di Bitritto, con atto del 12.03.1993, ha richiesto il pagamento di costi e oneri relativi alle opere eseguite.
Il TAR Puglia, Sede di Bari, Seconda Sezione, con sentenza n. 1729 del 2012, ha respinto il ricorso.
La Cooperativa SCALS ha proposto appello avverso la detta sentenza, articolando i seguenti motivi di impugnativa: ...
...
3. L’appello è infondato e va di conseguenza respinto.
Con convenzione stipulata in data 16.06.2018, il Comune di Bitritto ha affidato in concessione alla Cooperativa S.C.A.L.S. l’area attrezzata per teatro tenda per consentire alla detta Cooperativa di insediarvi una struttura teatrale, comprendente anche eventuali attrezzature accessorie. Il diritto di concessione, ai sensi dell’art. 8, comma 2, della convenzione è esteso oltre che all’area attrezzata, anche al mantenimento e godimento della predetta struttura nei limiti e con le modifiche indicate nella stessa convenzione.
La concessione, pertanto, ha ad oggetto l’area attrezzata nonché il mantenimento ed il godimento della struttura, ma non l’esercizio dell’attività teatrale, con la conseguenza che per la realizzazione del teatro è necessaria la concessione edilizia, onerosa per legge; onerosità, peraltro, non esclusa da alcuna clausola convenzionale.
Pertanto, non sussiste alcun motivo per escludere l’assoggettamento della realizzazione del Teatro Tenda dagli oneri di costruzione e di urbanizzazione primaria e secondaria da parte del costruttore, a prescindere dal soggetto che sarebbe rimasto in futuro proprietario delle strutture fisse.
L’art. 12 della convenzione, d’altra parte, autorizza la Cooperativa ad effettuare tutte le modifiche necessarie sull’area attrezzata del Comune per il montaggio ed il funzionamento della struttura teatrale, previo riscontro e nulla osta da parte dell’Ufficio Comunale.
Di talché, come condivisibilmente statuito nella pronuncia di primo grado, la clausola “si riferisce esclusivamente alle modifiche necessarie da effettuarsi sull’area attrezzata del Comune per il montaggio ed il funzionamento della struttura teatrale, opere meramente prodromiche e di modeste entità (così come del resto individuate dalla stessa ricorrente nella originaria istanza del 26.01.1989), non anche invece alle opere di costruzione del Teatro Tenda e di tutti gli altri manufatti edilizi realizzati in assenza di titolo, che integrano opere e lavori del tutto estranei a quelli relativi alla sistemazione e predisposizione dell’area”.
Né è possibile ritenere che la fattispecie rientri nell’ambito dell’art. 9, lett. f), della l. n. 10 del 1977, ratione temporis vigente, secondo cui il contributo di concessione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Infatti, premesso che la deroga alla onerosità della concessione edilizia (ora permesso di costruire) ricorre nelle sole ipotesi tassativamente indicate dalla legge, per l’inveramento della fattispecie di gratuità di cui alla richiamata lett. f) dell’art. 9 della legge n. 10 del 1977 è necessaria la contestuale presenza di due requisiti: uno soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competenze; l’altro di carattere oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale (ex multis: Cons. Stato, V, 07.05.2013, n. 2467; Cons. Stato, IV, 02.03.2011, n. 1332),
Nel caso di specie, difettano entrambi i requisiti atteso che la struttura è stata realizzata da un soggetto privato per la gestione in via autonoma (cfr. art. 4 della convenzione) a fini verosimilmente di lucro (cfr. anche art. 8 della convenzione sui proventi, riservati alla Cooperativa, rivenienti dall’affitto di spazi pubblicitari a terzi) e, quindi, per fini privati.
Va da sé, inoltre, che nella presente delibazione non può assumere rilievo la circostanza che il suolo è demaniale e risulta trasformato e urbanizzato dallo stesso Comune e ciò in quanto gli oneri in discorso sono posti a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
La censura sull’incompetenza dell’Assessore ai Lavori Pubblici di Bitritto, il quale non sarebbe mai stato delegato al compimento di atti di determinazione del contributo de quo, infine, non può trovare ingresso nel presente giudizio nel quale, come detto, si controverte sull’accertamento del diritto della Cooperativa ad essere esentata dagli oneri concessori e non sulla determinazione del quantum degli stessi oneri ed in cui, quindi, la nota del 12.03.2013, si presenta ininfluente.
Ad ogni buon conto, occorre rilevare che il Sindaco pro tempore del Comune di Bitritto, in data 11.01.1991, aveva delegato all’Assessore il ramo dei servizi lavori pubblici, edilizia privata ed urbanistica, nel quale rientra la determinazione degli oneri di costruzione ed urbanizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.02.2018 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il pensionamento del dipendente impone il pagamento delle ferie residue.
Nonostante quanto previsto dall'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012 che obbliga alla fruizione delle ferie i dipendenti della Pa con il divieto della corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, la Corte di Cassazione, Sez. lavoro - con la sentenza 01.02.2018 n. 2496, confermando i propri precedenti orientamenti, stabilisce che l'inerzia della Pa sulla concessione delle ferie obbliga la stessa alla remunerazione di eventuali ferie residue a prescindere dalla mancata richiesta avanzata dal dipendente durante il rapporto di lavoro.
---------------
MASSIMA
5. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Il CCNL EPR 1994-1997 del 07.10.1996, CCNL normativo 1994-1997 ed economico 1994-1995, all'art. 7 (Ferie, festività del Santo Patrono e recupero festività soppresse), commi 1, 9, 15 (di contenuto uguale al comma 13 richiamato dal ricorrente) e 16, prevede: "1. Il dipendente ha diritto, per ogni anno di servizio, ad un periodo di ferie retribuito. Durante tale periodo al dipendente spetta la normale retribuzione, escluse le indennità previste per prestazioni di lavoro straordinario e quelle collegate ad effettive prestazioni di servizio".
"9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e la mancata fruizione non dà luogo alla corresponsione di compensi sostitutivi, salvo quanto previsto nel comma 16. Esse vanno fruite nel corso di ciascun anno solare, su richiesta del dipendente, previa autorizzazione, tenuto conto delle esigenze di servizio."
"15 Fermo restando il disposto del comma 9, all'atto della cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di servizio, si procede al pagamento sostitutivo delle stesse sulla base del trattamento economico di cui al comma 1."
"16. Al personale che presenti i requisiti previsti dall'articolo 5 comma 1, delle legge 724/1994, spettano ulteriori quindici giorni di ferie, non frazionabili, per recupero biologico, nel rispetto delle disposizioni del d.lgs. 230/1995
."
Il successivo CCNL EPR 1998-2001, all'art. 6 (Ferie, festività del Santo Patrono e recupero festività soppresse), commi 1, 9 e 15, stabilisce "1. Il dipendente ha diritto, per ogni anno di servizio, ad un periodo di ferie retribuito. Durante tale periodo al dipendente spetta la normale retribuzione, escluse le indennità previste per prestazioni di lavoro straordinario e quelle collegate ad effettive prestazioni di servizio. (...)
9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e la mancata fruizione non dà luogo alla corresponsione di compensi sostitutivi, salvo quanto previsto nel comma 15.
Esse vanno fruite nel corso di ciascun anno solare, su richiesta del dipendente, previa autorizzazione, tenuto conto delle esigenze di servizio. (...)
15. Fermo restando il disposto del comma 9, all'atto della cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di servizio, si procede al pagamento sostitutivo delle stesse sulla base del trattamento economico di cui al comma 1
".
6. Così ricapitolato il quadro della disciplina contrattuale di settore, occorre ricordare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 286 del 2013 ha affermato che: "
(...) le ferie del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche, ivi comprese quelle regionali, rimangono obbligatoriamente fruite «secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti», tuttora modellati dalla contrattazione collettiva dei singoli comparti. E la stessa attuale preclusione delle clausole contrattuali di miglior favore circa la "monetizzazione" delle ferie non può prescindere dalla tutela risarcitoria civilistica del danno da mancato godimento incolpevole. Tant'è che nella prassi amministrativa si è imposta un'interpretazione volta ad escludere dalla sfera di applicazione del divieto posto dall'art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 «i casi di cessazione dal servizio in cui l'impossibilità di fruire le ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente» (parere del Dipartimento della funzione pubblica 08.10.2012, n. 40033). Con la conseguenza di ritenere tuttora monetizzabili le ferie in presenza di «eventi estintivi del rapporto non imputabili alla volontà del lavoratore ed alla capacità organizzativa del datore di lavoro» (nota prot. n. 0094806 del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato)".
Con la successiva sentenza n. 95 del 2016 nel ritenere non fondata questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con mod. dalla legge n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione ..., sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi"), ha posto in evidenza come
il legislatore correli il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie.
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che
tale interpretazione, che si pone nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma terzo), dalle fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con legge 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007; direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia). Tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore.
7. Questa Corte con la sentenza n. 13860 del 2000, richiamata nella sentenza n. 95 del 2016 del Giudice delle Leggi, ha affermato che
dal mancato godimento delle ferie deriva -una volta divenuto impossibile per l'imprenditore, anche senza sua colpa, adempiere l'obbligazione di consentire la loro fruizione- il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione, a norma degli artt. 1463 e 2037 cod. civ., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica; l'assenza di un'espressa previsione contrattuale non esclude l'esistenza del diritto a detta indennità sostitutiva, che peraltro non sussiste se il datore di lavoro dimostra di avere offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito (venendo ad incorrere così nella "mora del creditore").
Lo stesso diritto, costituendo un riflesso contrattuale del diritto alle ferie, non può essere condizionato, nella sua esistenza, alle esigenze aziendali.

8. Nella specie, la Corte d'Appello, con accertamento di merito non adeguatamente censurato, ha rilevato che il collocamento d'ufficio in ferie del lavoratore da parte del datore di lavoro, senza assorbimento al momento del pensionamento dell'intero monte ferie spettante, era intervenuto senza che risultasse che il lavoratore medesimo si fosse rifiutato di godere delle ferie in un periodo indicato e comunicato dal datore di lavoro.
Pertanto, correttamente, alla luce dei principi sopra enunciati dal Giudice delle Leggi e da questa Corte, il giudice di Appello, in presenza di causa non imputabile al lavoratore, quale il collocamento a riposo, ha accolto la domanda (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 01.02.2018 n. 2496).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarico legale senza impegno di spesa.
La regola contabile generale, validata anche per gli enti locali, prevede che in mancanza del preventivo impegno di spesa, nonché della corrispondente copertura finanziaria, eventuali affidamenti di incarichi in violazione di questi principi sono da considerarsi nulli.
Tuttavia, il principio contabile non può essere esteso agli affidamenti degli incarichi legali, sia perché è incerta l'incidenza del relativo onere economico, condizionato alla soccombenza, e sia perché, nel bilancio dell'ente, è di norma presente una voce generale nella quale possono essere inserite le prevedibili spese di lite
, principi questi stabiliti dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza 25.01.2018 n. 1830.
Inoltre, applicando questi principi alla contabilità armonizzata, se ne deduce che la mancata copertura finanziaria, una volta affidata la difesa dell'ente ad un avvocato del libero foro, la spesa non potrà essere qualificata quale debito fuori bilancio ma, in mancanza di un prudente stanziamento in bilancio nel fondo rischi, in caso di soccombenza, emergerà una passività pregressa da coprire finanziariamente e contabilmente nell'esercizio in cui si sia verificata la soccombenza per l'ente (articolo Il Sole 24 Ore del 30.01.2018).
---------------
MASSIMA
2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto tra loro collegati, sono fondati.
La Corte d'appello di Napoli ha revocato il decreto ingiuntivo emesso in favore dell'Avv. St. reputando che la procura speciale ex art. 83 cod. proc. civ. rilasciata al predetto procuratore per patrocinare il Comune nel giudizio arbitrale non fosse sufficiente a costituire validamente il vincolo contrattuale in forma scritta difettando:
   - la formazione della volontà negoziale in un unico documento («lo scambio del mandato (proposta) e della sottoscrizione dell'atto difensivo (accettazione), non risulta rispettoso degli artt. 16 e 17 del r.d. del 1923 che impongono, non solo la forma scritta, ma anche la formazione della volontà negoziale nell'ambito di un unico documento. ... La formazione con atto separato, quindi, esclude che il professionista possa accettare separatamente l'incarico oggetto di delibera»);
   - il «contenuto minimo del contratto formale della pubblica amministrazione» («La ratio del divieto del contratto a distanza tra p.a. e privato ... non risiede nella impossibilità di scambiarsi proposta ed accettazione, ma nella necessità che le condizioni contrattuali siano espressamente regolate (oggetto dell'incarico, compenso, motivi di risoluzione, durata, ecc.). Il riferimento giurisprudenziale al "documento" non va inteso nella materialità cartacea del documento (che nella specie contiene sia la procura sia l'atto sottoscritto), ma con riferimento alla forma-contenuto dell'atto negoziale») e, in particolare, il corrispettivo stabilito per il professionista («non può neppure sostenersi che, relativamente alla statuizione delle spettanze dell'avvocato, per relationem si applicavano, tacitamente, le tariffe legali sussistenti all'epoca, perché tali tariffe erano, e sono, in vigore per tutte le professioni intellettuali e tale circostanza non ha mai portato la giurisprudenza della Corte di cassazione a sostenere che il disciplinare di incarico, per questa ragione, fosse superfluo»);
   - il preventivo impegno di spesa da parte dell'Ente («La obbligazione di pagamento pretesa con il decreto ingiuntivo del professionista risulta invalida perché non assistita dal correlativo impegno di spesa richiesto, non solo dalle norme generali in tema di contabilità di Stato, ma anche dalle norme sugli enti locali ... La circostanza che sia stato nella delibera di incarico previsto un impegno di spesa a titolo di acconto ... non soddisfa minimamente il requisito previsto dalle norme, che presuppongono, al contrario, l'intera prestazione contrattuale pretesa sia stata contemplata ed assistito dalla copertura finanziaria. ... è la previsione del costo del proprio legale che può e deve essere oggetto di una previsione iniziale che, come avviene per appalti servizi, potrà poi avere una successiva variazione di costo, se giustificata. Non sembra, peraltro, che le norme in materia di contabilità consentano eccezioni con riferimento alla figura specifica del legale e che si possa affidare un incarico a quest'ultimo in assenza di attestazione di copertura finanziaria»).
La Corte di merito si pone in consapevole contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, al quale il Collegio intende dare continuità non sussistendo valide argomentazioni per discostarsene.
Infatti, questa Corte ha già più volte statuito che «
in tema di forma scritta ad substantiam dei contratti della P.A., il requisito è soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con il rilascio al difensore della procura ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., atteso che l'esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, mediante l'incontro di volontà fra le parti, l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo così possibile l'identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell'Autorità tutoria» (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 2266 del 16/02/2012, Rv. 621776-01; nello stesso senso, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 8500 del 05/05/2004, Rv. 572611-01, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 13963 del 16/06/2006, Rv. 592970-01, e Cass., Sez. 2, Sentenza n. 10707 del 15/05/2014, non nnassimata; sulla idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta della procura generale alle liti purché individui l'ambito delle controversie per cui opera, Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 3721 del 24/02/2015, Rv. 634430-01, Cass., Sez. 6-3, Sentenza n. 15454 del 22/07/2015, Rv. 636092-01, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 4562 del 08/03/2016, non massimata, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 4563 del 08/03/2016, non massimata, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 5805 del 23/03/2016, non massimata, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 15648 del 27/07/2016, non massimata, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 15649 del 27/07/2016, non massimata).
Contrariamente alle asserzioni della Corte territoriale,
l'unicità del documento negoziale (requisito preteso dalla giurisprudenza citata nella pronuncia impugnata) è costituita dalla procura e dall'atto difensivo, che individua in forma scritta il contenuto essenziale dell'accordo (volontà delle parti, oggetto dell'incarico), peraltro integrato ex art. 1374 cod. civ. dalle allora vigenti (e inderogabili) tariffe professionali del d.m. 05.10.1994, n. 585 (corretta è, peraltro, l'osservazione del ricorrente secondo cui gli altri professionisti intellettuali, pur vincolati da tariffe predeterminate da atto normativo, non ricevono un mandato ad litem con le caratteristiche formali e sostanziali degli avvocati).
Quanto ai richiamati principi di contabilità pubblica, «è evidente che la nullità prevista per la mancata previsione della spesa e della sua copertura non concerne anche le deliberazioni relative alla partecipazione degli Enti a controversie giudiziarie, sia perché è incerta l'incidenza del relativo onere economico, condizionato alla soccombenza, e sia perché, nel bilancio dell'Ente, è di norma presente una voce generale nella quale possono essere inserite le prevedibili spese di lite» (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 13963 del 16/06/2006, in motivazione; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8646 del 12/02/1993, in motivazione); inoltre, «il riferimento alle vigenti tariffe professionali, la cui applicabilità, in assenza di uno specifico accordo tra le parti, è di per sé sufficiente ad escludere l'incertezza in ordine alla controprestazione dovuta dalla Amministrazione, quantificabile soltanto in via approssimativa al momento della stipulazione del contratto, in quanto correlata al compimento degli atti difensivi resi necessari dall'evoluzione del giudizio, e proprio per tale motivo idonea a giustificare la previsione della copertura finanziaria mediante generica imputazione al capitolo di bilancio riguardante le spese processuali» (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 24859 del 09/12/2015, in motivazione).
3. In conclusione, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d'appello di Napoli in diversa composizione, la quale esaminerà la fattispecie alla luce delle indicazioni fornite da questa Corte (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 25.01.2018 n. 1830).

APPALTIDeroghe motivate agli obblighi di rotazione.
L'Anac fa chiarezza sulle modalità applicative del principio di rotazione, fornendo una serie di indicazioni operative per garantire il confronto concorrenziale.
Gli orientamenti giurisprudenziali
La giurisprudenza amministrativa ha sviluppato due orientamenti diversi, affermando da un lato l'obbligo incondizionato di applicazione e dall'altro la possibilità di deroga, soprattutto per garantire il contemperamento con il principio di concorrenza.
Il TAR Lombardia–Milano, -Sez. IV- con la sentenza 18.01.2018 n. 145, ha affermato che non c'è un divieto assoluto di invito del gestore uscente, perché il principio di rotazione non è una regola inderogabile. Sulla stessa linea altri Tar (Tar Veneto, sentenza 146/2018 e Tar Lazio-Latina, sentenza n. 105/2018; quest'ultimo sui servizi sociali per garantire la continuità del personale su utenti deboli).
La posizione dell’Autorità
Le linee-guida n. 4, nella versione revisionata, confermano anzitutto l'obbligo di applicazione del principio di rotazione stabilito dall'articolo 36 del Codice dei contratti. L'Anac riafferma che l'affidatario uscente (e gli altri soggetti invitati alla mini-gara) possono essere reinvitati sulla base di una motivazione che evidenzi le particolarità del mercato, la corretta esecuzione delle prestazioni da parte dell'operatore economico nel contratto precedente e la sua competitività sotto il profilo economico.
L'Autorità precisa tuttavia che il principio di rotazione degli affidamenti e degli inviti si applica, con riferimento all'affidamento immediatamente precedente, nei casi in cui i due affidamenti (quello precedente e quello attuale) abbiano ad oggetto una commessa rientrante nello stesso settore merceologico, nella stessa categoria di opere o nello stesso settore di servizi.
Uno stesso operatore economico che svolga attività in settori differenti può quindi risultare affidatario in procedimenti di acquisto che abbiano ad oggetto prestazioni diverse.
Le modalità di contemperamento
L'Anac definisce quindi alcune modalità per assicurare il contemperamento con la tutela della concorrenza, chiarendo che la rotazione non si applica quando il nuovo affidamento avviene tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, in cui la stazione appaltante non limiti il numero degli invitati alla procedura selettiva semplificata conseguente a indagine di mercato con avviso o con utilizzo di elenco di operatori economici.
In questi casi, infatti, la normativa prevede un numero minimo di soggetti da invitare, che consente una velocizzazione della procedura, ma che limita al contempo il confronto tra gli operatori economici: il superamento della condizione restrittiva e la maggiore apertura si realizzano pertanto quando la stazione appaltante invita tutti gli operatori che hanno manifestato il loro interesse a seguito dell'avviso, o tutti quelli iscritti all'elenco costituito dalla stessa Pa.
L'Anac fornisce inoltre una soluzione operativa, sollecitando le amministrazioni a suddividere gli affidamenti in fasce di valore economico, in modo da applicare la rotazione solo in caso di affidamenti rientranti nella stessa fascia. Il provvedimento di articolazione in fasce deve però prevedere un'effettiva differenziazione tra forniture, servizi e lavori, e deve essere adeguatamente motivato in ordine alla scelta dei valori di riferimento delle fasce (per i lavori si può tener conto delle soglie previste dal sistema unico di qualificazione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.03.2018).

TRIBUTICopertura ponteggio. Resta la pubblicità.
Il comune che autorizza dei pannelli artistici a copertura di un ponteggio avallando anche una implicita autorizzazione alla sostituzione della scenografia con messaggi pubblicitari non può fare marcia indietro ordinando la rimozione degli impianti commerciali senza un preventivo annullamento in autotutela.

Lo ha chiarito il TAR Valle d'Aosta con la sentenza 16.01.2018 n. 4.
Il comune di Courmayeur ha autorizzato sia dal punto di vista edilizio che paesaggistico l'installazione di pannelli a copertura di un ponteggio edilizio.
Al momento della sostituzione dei pannelli scenografici con pannelli pubblicitari l'amministrazione ha ordinato la rimozione degli impianti. Contro questa decisione l'interessato ha proposto con successo ricorso al Tar.
Siccome nella relazione tecnico-illustrativa allegata alla licenza comunale era specificamente prevista la possibilità di sostituire i pannelli artistici con impianti pubblicitari il comune che voleva rivedere questa determinazione doveva esercitare il proprio potere in sede di autotutela. Non ordinare alla ditta di rimuovere impianti pubblicitari in precedenza implicitamente autorizzati
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso alle carte solo post concorso. Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
Deve ritenersi legittimo il provvedimento della Pubblica Amministrazione di differire al momento della conclusione della tornata concorsuale l'accesso a parte della documentazione richiesta dal candidato respinto alla prova scritta e ciò al fine, da un lato, di garantire l'anonimato dei partecipanti e la riservatezza dei lavori della commissione giudicatrice, dall'altro, di non intralciare la conclusione della stessa procedura concorsuale in atto.

Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, nella sentenza 11.01.2018 n. 275: nel caso di specie, il collegio giudicante non ha infatti ravvisato validi motivi per discostarsi da alcuni precedenti giurisprudenziali sul punto ed ha confermato che il differimento di accesso agli atti «non nega l'interesse del privato, ma si limita a rinviarne il soddisfacimento a una data successiva, a tutela al tempo stesso dell'interesse pubblico alla riservatezza e speditezza delle operazioni concorsuali».
Nelle motivazioni, i giudici amministrativi spiegano che il diritto di difesa non verrebbe comunque «minimamente» compromesso dal suddetto differimento; un iter analogo, continuano, sarebbe stato di recente seguito in una fattispecie avente ad oggetto la richiesta di accesso agli atti relativi all'esame di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato: anche in questo caso, invero, si era ritenuto legittimo rinviare l'accesso agli atti «stante l'evidente necessità di non intralciare la conclusione del procedimento in corso assicurando al contempo la riservatezza dei lavori della Commissione e la tutela dell'anonimato».
Così argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso di un aspirante allievo vice ispettore, il quale, nel chiedere la condanna dell'Amministrazione ad esibire copia degli atti richiesti e non ostesi, lamentava tra i motivi di doglianza anche la carenza di motivazione, carenza debitamente contestata sul presupposto che «per sufficiente o adeguata motivazione dell'atto amministrativo deve intendersi la rappresentazione, anche sintetica, degli elementi che consentono all'interessato di avere piena contezza delle ragioni di fatto e di diritto che sostengono la determinazione ivi contenuta»
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.03.2018).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è infondato.
3. Va respinta la doglianza di carente motivazione del gravato atto di differimento.
Sul tema, è appena il caso di rammentare che per sufficiente o adeguata motivazione dell’atto amministrativo deve intendersi la rappresentazione, anche sintetica, degli elementi che consentono all’interessato di avere piena contezza delle ragioni di fatto e di diritto che sostengono la determinazione ivi contenuta.
Tale condizione risulta soddisfatta nell’atto in esame.
L’Amministrazione ha richiamato l’ipotesi di differimento prevista dall’art. 4, comma 1, lett. f), del d.m. 415/1994, che dispone che “Ai sensi dell'art. 8, comma 5, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 07.06.1992, n. 352, ed in relazione all'esigenza di salvaguardare la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro ai medesimi la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici, sono sottratte all'accesso le seguenti categorie di documenti:
a) ...
f) documentazione attinente ai lavori delle commissioni di avanzamento e alle procedure di passaggio alle qualifiche superiori, fino alla data di adozione dei relativi decreti di promozione, e documentazione delle commissioni giudicatrici di concorso, fino alla adozione, da parte dell'Amministrazione, del provvedimento conclusivo del relativo procedimento
”.
Mediante tale motivazione per relationem, il ricorrente è stato infatti posto in grado di comprendere le ragioni del parziale differimento del richiesto accesso, nonché l’afferenza di tali ragioni non allo specifico procedimento concorsuale cui ha partecipato, bensì a una disposizione di carattere organizzativo e di portata generale relativa ai procedimenti concorsuali per l’accesso al pubblico impiego, di cui l’Amministrazione dell’interno ha inteso dotarsi.
Vanno respinte anche le ulteriori censure ricorsuali.
La fattispecie in esame non integra un diniego di accesso.
L’Amministrazione, infatti, all’esito dell’istanza di accesso presentata dal ricorrente, ha osteso al medesimo la gran parte degli atti richiesti (ovvero l’elaborato formato dal ricorrente e il verbale della seduta della sua correzione, il verbale recante i criteri di valutazione della prova scritta, altri verbali inerenti lo svolgimento della stessa prova).
Quanto ai restanti atti elencati nell’istanza (copie di “almeno 5 degli elaborati ammessi con punteggio di 06/2010 alle prove successive” e dei “verbali di correzione degli elaborati scelti”), l’Amministrazione si è limitata a differirne l’accesso all’atto della conclusione della procedura, ai sensi del già citato art. 4, comma 1, lett. f), del d.m. 415/1994.
Ciò posto,
si rileva che la giurisprudenza amministrativa, proprio di recente, in una fattispecie relativa a istanza di accesso agli atti relativi all’esame di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato, ha ritenuto un analogo differimento conforme alle norme enucleabili dagli artt. 24, comma 4 (“L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento”), e 25, comma 3, della l. 241/1990 (“Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso sono ammessi nei casi e nei limiti stabiliti dall'articolo 24 e debbono essere motivati”), nonché dall’art. 9 del D.P.R. n. 184 del 2006 (“1. Il rifiuto, la limitazione o il differimento dell'accesso richiesto in via formale sono motivati, a cura del responsabile del procedimento di accesso, con riferimento specifico alla normativa vigente, alla individuazione delle categorie di cui all'articolo 24 della legge, ed alle circostanze di fatto per cui la richiesta non può essere accolta così come proposta. 2. Il differimento dell'accesso è disposto ove sia sufficiente per assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all'articolo 24, comma 6, della legge, o per salvaguardare specifiche esigenze dell'amministrazione, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione a documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon andamento dell'azione amministrativa. 3. L'atto che dispone il differimento dell'accesso ne indica la durata”), stante “l’evidente necessità di non intralciare la conclusione del procedimento in corso assicurando al contempo la riservatezza dei lavori della Commissione e la tutela dell’anonimato” (C. Stato, IV, 04.12.2017, n. 5726).
In altre parole, la giurisprudenza ha valorizzato le stesse esigenze poste chiaramente a base dell’art. 4, comma 1, lett. f), del d.m. 415/1994, qui in rilievo.
Può ancora aggiungersi che già precedentemente la stessa giurisprudenza ha rilevato, con specifico riferimento a una procedura concorsuale per l’accesso a pubblico impiego, e sempre in relazione a un differimento di accesso agli atti, che esso non nega l’interesse del privato, ma si limita a rinviarne il soddisfacimento a una data successiva, a tutela al tempo stesso dell’interesse pubblico alla riservatezza e alla speditezza delle operazioni concorsuali (C. Stato, IV, 04.04.2012, n. 2005).
Da tali condivisibili affermazioni il Collegio non ravvisa alcun motivo di discostarsi, anche tenuto conto del fatto che il diritto di difesa invocato in ricorso non risulta minimamente compromesso dal differimento per cui è causa: la valutazione negativa conseguita dal ricorrente nel concorso di cui trattasi è infatti suscettibile di essere attaccata in giudizio sia ex se sia sulla base degli atti già trasmessi dall’Amministrazione all’esito dell’istanza di accesso, e la controversia in tal modo instaurata può essere estesa, occorrendo, agli atti non ancora ostesi, una volta disponibili, a mezzo di motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a..
4. Alle rassegnate conclusioni consegue il rigetto del ricorso.

EDILIZIA PRIVATA:  La previsione di cui all'art. 6, comma 2, lett. e), T.U. 380/2001, che ha liberalizzato la realizzazione delle aree ludiche di pertinenza degli edifici, non può mai estendersi all'installazione di piscine.
Per quanto concerne la piscina, la previsione di cui all'art. 6, 2° comma, lett. e), T.U. 380/2001, che ha liberalizzato la realizzazione delle aree ludiche di pertinenza degli edifici, non può mai estendersi all'installazione di piscine,  occorrendo per esse lavori di scavo, rivestimento e dotazione di impianti tecnologici.
A fortiori da escludersi allorquando si verta, come nel caso di specie, dell'installazione di una piscina fuori terra, peraltro di superficie considerevole (50 mq.), cui si aggiunge quella della pedana di legno che la circonda (estesa circa 60 mq.), che, in quanto destinata a creare volume, così come la struttura in legno annessa alla stessa, nonché idonea alla durevole trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio nel quale è inserita, va ricompresa nell'ambito delle costruzioni, ovverosia dei manufatti che, elevandosi al di sopra del suolo, necessitano del permesso di costruire.
---------------

Il ricorso non si confronta con la puntuale motivazione resa dal provvedimento impugnato che ha accertato il carattere permanente dei manufatti, attesa la dotazione di impianto elettrico ed idraulico che ne implica lo stabile ancoraggio al suolo, nonché la loro attitudine alla modifica dello stato dei luoghi in quanto ubicati in area sottoposta vincolo paesaggistico del Parco Metropolitano delle colline di Napoli.
Al riguardo non vale a scriminare il ricorrente la pregressa comunicazione inoltrata al Comune per l'installazione di un'area ludica, peraltro del tutto irrilevante ai fini del contestato reato paesaggistico, non costituendo i manufatti in questione, stanti le loro stesse caratteristiche strutturali tali da escluderne la precarietà ed il conseguente utilizzo temporaneo limitato alla stagione estiva, elementi di arredo delle aree ludiche sussumibili tra gli interventi cd. di edilizia libera, non richiedenti cioè alcun titolo abilitativo.
Per quanto in particolare concerne la piscina, la previsione di cui all'art. 6, 2° comma, lett. e), T.U. 380/2001, che ha liberalizzato la realizzazione delle aree ludiche di pertinenza degli edifici, non può mai estendersi all'installazione di piscine,  occorrendo per esse lavori di scavo, rivestimento e dotazione di impianti tecnologici (Sez. 3, 18.06.2003 n. 26197, Agresti), a fortiori da escludersi allorquando si verta, come nel caso di specie, dell'installazione di una piscina fuori terra, peraltro di superficie considerevole (50 mq.), cui si aggiunge quella della pedana di legno che la circonda (estesa circa 60 mq.), che, in quanto destinata a creare volume, così come la struttura in legno annessa alla stessa, nonché idonea alla durevole trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio nel quale è inserita, va ricompresa nell'ambito delle costruzioni, ovverosia dei manufatti che, elevandosi al di sopra del suolo, necessitano del permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 264).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto abusivo deve essere eseguito anche nei confronti di terzi estranei al reato a cui è stata alienata la proprietà dell'immobile.
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione.

---------------
L'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen..
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
---------------

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep. 2011, Giustino e altri, Rv. 249129; Sez. 3, n. 45301 del 07/10/2009, Roscetti, Rv. 245213, sez. 3, n. 22853 del 29.03.2007, Coluzzi, rv. 236880).
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato né la sua operatività può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (Sez. 3, n. 37120 dell'11.05.2005, Morelli, Rv. 232175; Sez. 3, n. 42781 del 21.10.2009, Arrigoni, non massim.; Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Rv. 259802; Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Rv. 265193).
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670), atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/04/2003, Pasquale, Rv. 226573).
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge
» (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Rv. 265540; Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918; Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403, nonché da ultimo Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Rv. 267977, che ribadendo il principio in questione ha ritenuto infondata la questione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 249).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquirente dell’immobile che non utilizzi la concessione edilizia, non ponendo in essere alcuna attività edificatoria, non è tenuto al pagamento del contributo di costruzione dovuto dal titolare della concessione.
Il Consiglio di Stato si è da tempo espresso nel senso che legittimamente un comune richiede all'intestatario di una concessione edilizia il pagamento del contributo commisurato al costo di costruzione, a nulla rilevando che dopo il rilascio del titolo l'immobile sia stato alienato a terzi. E, analogamente, è stato ritenuto che ai fini del pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per intero il titolare della concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune.
L’indirizzo ha trovato anche ulteriori espressioni.
L'acquirente a titolo particolare di un fabbricato già realizzato, è stato detto, non è, in difetto di accollo, obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione a suo tempo dovuti al momento del rilascio al venditore della relativa concessione edilizia, giusta le ordinarie regole della successione per cui le obbligazioni si trasmettono all'erede del debitore e non anche al predetto acquirente, e non essendo quest’ultimo titolare della concessione edilizia.
Invero, gli oneri relativi a una concessione edilizia vanno determinati, ai sensi dell'art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, al momento del rilascio della concessione stessa, per cui non può essere tenuto al pagamento di detti oneri il soggetto che subentri nella concessione solo successivamente al suo rilascio.
E quando la giurisprudenza ha deciso nel senso opposto del debito dell’acquirente per gli oneri di urbanizzazione, ciò è avvenuto sul rilievo che l’obbligo di compiere le relative opere, originariamente assunto dai lottizzanti, fosse transitato quale obbligazione propter rem a carico del nuovo proprietario che chiedeva la singola concessione edilizia.
---------------
La tematica è stata infine recentemente esaminata funditus in occasione della decisione della stessa Sez. V, 30.11.2011, n. 6333, con la quale sono state svolte le seguenti considerazioni: “L'art. 3 della l. n. 10 del 1977 stabilisce che la concessione edilizia comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione.
La più accreditata dottrina e la giurisprudenza hanno chiarito che il costo di costruzione è una prestazione patrimoniale di natura impositiva e trova la sua ratio nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza dell'intervento edilizio.
Essa, pertanto, postula quale condizione di esigibilità la sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la concreta fruizione del titolo da parte del concessionario, ovvero la effettiva attività di edificazione.
La causa giuridica del pagamento è, dunque, nella fruizione dell'atto abilitativo all'edificazione a mezzo della effettiva realizzazione dell'intervento assentito.
La suddetta natura trova conferma nella disposizione dell'art. 11 della l. n. 10 del 1977, applicabile ratione temporis e del vigente l'art. 16 del T.U. dell'edilizia, che stabiliscono che la quota di contributo per costo di costruzione, determinata al momento del rilascio della concessione, deve essere corrisposta in corso d'opera o comunque non oltre 60 giorni dall'ultimazione delle opere.
Ne consegue che il Pe., non avendo mai usufruito della concessione edilizia -dagli atti di causa emerge che non ha mai nemmeno ritirato il titolo, avendone chiesto la voltura in favore della società Ri.- non è soggetto obbligato per legge a pagare il contributo commisurato al costo di costruzione.
Quanto alla circostanza che il Pe. sia stato il soggetto che ha avviato, con istanza del 1977, il procedimento volto al rilascio della concessione edilizia, essa è del tutto irrilevante, non essendosi verificato in capo allo stesso il presupposto di esigibilità del suddetto onere, che è la fruizione del titolo e la materiale esecuzione delle opere, cui il titolo si riferisce.
D'altra parte, le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano sull'acquirente.
…Si è già detto che il rilascio e l'effettiva fruizione del titolo edilizio rappresentano i fatti costitutivi della fonte dell'obbligazione di pagamento del contributo di costruzione, sicché chi non ha utilizzato il titolo non assume la qualifica di soggetto obbligato e, quindi, nemmeno di soggetto coobbligato.”
---------------
I principi così illustrati, che smentiscono che l’ambulatorietà dell’obbligazione in questione sia incondizionata e illimitata (come presupposto invece dal TAR), sono stati confermati anche dalla Corte di Cassazione.
La Corte, nel configurare l'obbligo del pagamento degli oneri di urbanizzazione come un’obbligazione propter rem, ha precisato, infatti, che verso il Comune ha gli stessi obblighi che gravavano sull’originario concessionarioanche “colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo dante causa”.

---------------
6 Tanto premesso, l’appello in esame merita accoglimento in ragione della fondatezza del suo assorbente primo motivo.
7 Con tale mezzo la società in epigrafe ripropone l’assunto che il pagamento dei contributi concessori gravava sulla precedente proprietaria dell’immobile in qualità di titolare della concessione stessa, nel mentre essa ricorrente, acquirente a titolare particolare, nemmeno attraverso l’atto di trasferimento del bene aveva assunto alcun obbligo circa i contributi ancora dovuti.
7a Il Tribunale ha disatteso la doglianza osservando, in sintesi:
   - innanzitutto, che la prevalente giurisprudenza, con riferimento tanto agli oneri di urbanizzazione quanto al costo di costruzione, ravvisa negli oneri concessori la natura di obbligazioni c.d. reali o propter rem, caratterizzate dalla stretta inerenza alla res e destinate a circolare unitamente ad essa con carattere di ambulatorietà, onde nel caso di trasferimento del bene le stesse si trasferiscono sull’acquirente;
   - in secondo luogo, che il decreto del Tribunale Civile di Trapani n. 52/2014 di trasferimento dell’immobile alla ricorrente puntualizzava che l’acquisto di tale bene sarebbe avvenuto “nello stato di fatto e di diritto in cui si trova, con pesi ed oneri non estinti”.
7b A tanto la ricorrente però obietta che secondo la giurisprudenza, in realtà, l’obbligo di pagare il contributo di concessione si atteggia come obbligazione propter rem, sì che l’adempimento possa essere preteso anche nei riguardi del terzo acquirente, solo allorché questi “valendosi della concessione edilizia realizza le opere che con essa sono state assentite”, e non anche quando da parte sua non vi sia alcuna fruizione dell’atto abilitativo.
L’appellante sostiene, quindi, che l’acquirente dell’immobile che non utilizzi la concessione, non ponendo in essere alcuna attività edificatoria (come appunto essa ricorrente, che aveva acquisito la struttura già ultimata), non sarebbe tenuto al pagamento del contributo dovuto dal titolare della concessione.
7c Orbene, quest’ultima impostazione è del tutto corretta e meritevole d’adesione.
Il Consiglio di Stato si è da tempo espresso nel senso che legittimamente un comune richiede all'intestatario di una concessione edilizia il pagamento del contributo commisurato al costo di costruzione, a nulla rilevando che dopo il rilascio del titolo l'immobile sia stato alienato a terzi (C.d.S., Sez. V, 13.12.1993, n. 1280). E, analogamente, è stato ritenuto che ai fini del pagamento dei contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per intero il titolare della concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col Comune (C.d.S., Sez. V, 26.06.1996, n. 793).
L’indirizzo ha trovato anche ulteriori espressioni.
L'acquirente a titolo particolare di un fabbricato già realizzato, è stato detto, non è, in difetto di accollo, obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione a suo tempo dovuti al momento del rilascio al venditore della relativa concessione edilizia, giusta le ordinarie regole della successione per cui le obbligazioni si trasmettono all'erede del debitore e non anche al predetto acquirente, e non essendo quest’ultimo titolare della concessione edilizia (Sez. V, 26.03.1996, n. 294; cfr. anche la decisione 17.09.2010 n. 6950 nel senso che gli oneri relativi a una concessione edilizia vanno determinati, ai sensi dell'art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, al momento del rilascio della concessione stessa, per cui non può essere tenuto al pagamento di detti oneri il soggetto che subentri nella concessione solo successivamente al suo rilascio).
E quando la giurisprudenza ha deciso nel senso opposto del debito dell’acquirente per gli oneri di urbanizzazione, ciò è avvenuto sul rilievo che l’obbligo di compiere le relative opere, originariamente assunto dai lottizzanti, fosse transitato quale obbligazione propter rem a carico del nuovo proprietario che chiedeva la singola concessione edilizia (C.d.S, Sez. V, 15.05.2001, n. 2699)
La tematica è stata infine recentemente esaminata funditus in occasione della decisione della stessa Sez. V, 30.11.2011, n. 6333, con la quale sono state svolte le seguenti considerazioni.
L'art. 3 della l. n. 10 del 1977 stabilisce che la concessione edilizia comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione.
La più accreditata dottrina e la giurisprudenza hanno chiarito che il costo di costruzione è una prestazione patrimoniale di natura impositiva e trova la sua ratio nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza dell'intervento edilizio.
Essa, pertanto, postula quale condizione di esigibilità la sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la concreta fruizione del titolo da parte del concessionario, ovvero la effettiva attività di edificazione.
La causa giuridica del pagamento è, dunque, nella fruizione dell'atto abilitativo all'edificazione a mezzo della effettiva realizzazione dell'intervento assentito (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2009, n. 218).
La suddetta natura trova conferma nella disposizione dell'art. 11 della l. n. 10 del 1977, applicabile ratione temporis e del vigente l'art. 16 del T.U. dell'edilizia, che stabiliscono che la quota di contributo per costo di costruzione, determinata al momento del rilascio della concessione, deve essere corrisposta in corso d'opera o comunque non oltre 60 giorni dall'ultimazione delle opere.
Ne consegue che il Pe., non avendo mai usufruito della concessione edilizia -dagli atti di causa emerge che non ha mai nemmeno ritirato il titolo, avendone chiesto la voltura in favore della società Ri.- non è soggetto obbligato per legge a pagare il contributo commisurato al costo di costruzione.
Quanto alla circostanza che il Pe. sia stato il soggetto che ha avviato, con istanza del 1977, il procedimento volto al rilascio della concessione edilizia, essa è del tutto irrilevante, non essendosi verificato in capo allo stesso il presupposto di esigibilità del suddetto onere, che è la fruizione del titolo e la materiale esecuzione delle opere, cui il titolo si riferisce.
D'altra parte, le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano sull'acquirente.
…Si è già detto che il rilascio e l'effettiva fruizione del titolo edilizio rappresentano i fatti costitutivi della fonte dell'obbligazione di pagamento del contributo di costruzione, sicché chi non ha utilizzato il titolo non assume la qualifica di soggetto obbligato e, quindi, nemmeno di soggetto coobbligato
.”
I principi così illustrati, che smentiscono che l’ambulatorietà dell’obbligazione in questione sia incondizionata e illimitata (come presupposto invece dal TAR), sono stati confermati anche dalla Corte di Cassazione.
La Corte, nel configurare l'obbligo del pagamento degli oneri di urbanizzazione come un’obbligazione propter rem, ha precisato, infatti, che verso il Comune ha gli stessi obblighi che gravavano sull’originario concessionario anche “colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo dante causa” (così Cass. civ., Sez. III, 17.06.1996, n. 5541; in senso conforme Sez. II, 27.08.2002, n. 12571).
7d Dai principi esposti consegue, dunque, che il Comune di San Vito Lo Capo non aveva titolo per pretendere il pagamento dei contributi oggetto di causa dall’attuale ricorrente.
La s.r.l. SO. & SO. aveva acquistato una struttura immobiliare già completata (tanto da essere munita sin dal 2006 anche dell’agibilità), e pertanto, non avendo essa realizzato opere di trasformazione edilizia, non aveva avuto alcuna effettiva fruizione della concessione.
7e Né giova al Comune opporre la clausola del decreto n. 52/2014 per cui il trasferimento dell’immobile era avvenuto “nella stato di fatto e di diritto in cui si trova, con pesi ed oneri non estinti”: astratta clausola di stile che, come tale, non poteva assurgere a fonte autonoma di obbligazione, a carico del terzo acquirente, fuori dei casi in cui la legge ne imponeva la successione nel debito.
Come neppure vale richiamarsi al riconoscimento di debito che si vorrebbe insito nell’istanza del 22.04.2015 con la quale la società aveva inizialmente chiesto di poter versare gli oneri in discorso semestralmente. L’accertamento, sopra compiuto, dell’insussistenza della posizione debitoria della ricorrente comporterebbe comunque, infatti, il superamento della presunzione meramente relativa contemplata dall’art. 1998 cod.civ..
8 In conclusione, la fondatezza del primo motivo d’appello, di valenza assorbente, impone senz’altro l’accoglimento della presente impugnativa (C.G.A.R.S., sentenza 03.11.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONel match del congedo il diritto batte il servizio.
Nella normativa in tema di congedo parentale è evidente la volontà del legislatore di rendere tale diritto preminente rispetto alle ordinarie esigenze di servizio, potendo lo stesso recedere soltanto in presenza di casi o esigenze eccezionali, di cui l'Amministrazione deve dare puntualmente conto.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano con la sentenza 11.08.2017 n. 1757.
Infatti, hanno poi aggiunto i giudici amministrativi lombardi, la disposizione di cui all''art. 42-bis del D.lgs. 151/2001, come modificato dall'art. 14, comma 7, della legge 07.08.2015 n. 124 (che prevede che «Il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l'altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L'eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L'assenso o il dissenso devono essere comunicati all'interessato entro trenta giorni dalla domanda»), è infatti rivolta a dare protezione a valori di rilievo costituzionale e il dissenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione deve essere limitato a casi o a esigenze eccezionali e congruamente motivato. Si sottolinea, inoltre, che l'art. 14, comma 7, della legge n. 124/2015 ha aggiunto alla previsione dell'obbligo di motivazione del rigetto l'ulteriore condizione che sia “limitato a casi ed esigenze eccezionali”.
Inoltre, sempre nella sentenza in commento, si è evidenziato come il beneficio di cui all'art. 42-bis del D.lgs. n. 151/2001 non costituisce un diritto incondizionato del dipendente, ma è rimesso ad una valutazione relativamente discrezionale dell'Amministrazione, sulla base di una duplice condizione:
   1) che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva;
   2) che vi sia l'assenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione, con la conseguenza che, ancorché ricorra il requisito della vacanza e disponibilità del posto, il beneficio può essere negato in considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza e di quella di destinazione.
L'eventuale dissenso, tuttavia, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di casi o esigenze eccezionali
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2018).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
I motivi di gravame, in quanto intimamente connessi, possono essere trattati congiuntamente.
L’art. 42-bis del D.lgs. 151/2001, come modificato dall’art. 14, comma 7, della legge 07.08.2015 n. 124 –applicabile al personale militare in forza dell’art. 1493 del D.lgs. n. 66/2010– prevede che “Il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l'altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L'eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L'assenso o il dissenso devono essere comunicati all'interessato entro trenta giorni dalla domanda”.
L’art. 14, comma 7, della legge n. 124/2015 ha aggiunto alla previsione dell’obbligo di motivazione del rigetto l’ulteriore condizione che sia “limitato a casi ed esigenze eccezionali”.
Tale modifica dimostra la volontà del legislatore di rendere il diritto al congedo parentale preminente rispetto alle ordinarie esigenze di servizio –peraltro fisiologiche– potendo lo stesso recedere soltanto in presenza di casi o esigenze eccezionali, di cui l’Amministrazione deve dare puntualmente conto nel provvedimento.
La disposizione è infatti rivolta a dare protezione a valori di rilievo costituzionale (TAR Lombardia–Milano, Sez. III, 25.05.2017, n. 1181; Consiglio di Stato, sez. III, ord. 26.02.2016, n. 685, Cons. St., sez. IV, 14.05.2015, n. 2426) e il dissenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione deve essere limitato a casi o a esigenze eccezionali e congruamente motivato (Tar Lazio–Roma, sez. I-quater, 03.03.2017 n. 3091; Cons. Stato, III, 01.04.2016, n. 1317).
Nel caso di specie il provvedimento impugnato non dà affatto conto della sussistenza di esigenze eccezionali.
Indicativa dell’insussistenza di tali esigenze è la rilevante circostanza che il Comandante del -OMISSIS-, presso cui il ricorrente è assegnato, nel trasmettere la domanda di trasferimento dell’interessato al Comando Generale ha espresso parere favorevole all’accoglimento della domanda. Dell’esistenza e del contenuto di tale parere neppure si dà conto nel provvedimento impugnato.
La sopra riferita circostanza connota di ancor maggior genericità la motivazione con cui l’Amministrazione ha cercato di esplicitare la sussistenza di eccezionali esigenze di servizio (“rilevante deficit di effettivi nel ruolo di riferimento”, “connotazione prettamente operativa” dell’istante), considerando che il diretto superiore gerarchico del ricorrente non le ha affatto ravvisate, esprimendo, appunto, parere favorevole all’assegnazione temporanea. In ogni caso le ragioni espresse nel provvedimento non possono essere qualificate come esigenze eccezionali, rientrando piuttosto nelle ordinarie esigenze di servizio.
Per le ragioni che precedono la domanda di annullamento del provvedimento impugnato deve essere accolta.
Tuttavia non può trovare accoglimento la domanda di accertamento del diritto ad ottenere l’assegnazione temporanea presso la sede richiesta.
La giurisprudenza infatti si è orientata in modo uniforme ritenendo che il beneficio di cui all'art. 42-bis del D.lgs. n. 151/2001 non costituisce un diritto incondizionato del dipendente, ma è rimesso ad una valutazione relativamente discrezionale dell'Amministrazione, sulla base di una duplice condizione:
   i) che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva;
   ii) che vi sia l'assenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione, con la conseguenza che, ancorché ricorra il requisito della vacanza e disponibilità del posto, il beneficio può essere negato in considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza e di quella di destinazione.
L'eventuale dissenso, tuttavia, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di casi o esigenze eccezionali
(Cons. Stato, sez. III, 01.04.2016, n. 1317). Se ne deduce un ambito di discrezionalità che connota la valutazione afferente alla seconda condizione (Tar Torino sez. I 24.04.2017 n. 544).
Non trattandosi quindi di attività vincolata questo Tribunale non può decidere in termini di accertamento.
Per effetto del disposto annullamento del provvedimento impugnato l’Amministrazione è però tenuta a rideterminarsi, tenendo conto dei principi stabiliti nella presente sentenza, che devono conformare il riesercizio del potere.

EDILIZIA PRIVATA: Si intendono per volumi tecnici esclusi dal calcolo della volumetria ammissibile i locali completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, i quali risultano esclusivamente destinati a contenere impianti serventi alla costruzione principale, che per esigenze di funzionalità non possono essere inglobati nel corpo della costruzione.
La nozione di volume tecnico in campo edilizio si fonda su tre parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, secondo cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo, negativi, ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e, dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di quest’ultima. Il volume tecnico consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma individualità fisica e conformazione strutturale, funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal proprietario del bene. Inoltre, deve essere sempre facilmente rilevabile il rapporto di proporzionalità tra questi volumi e le esigenze effettivamente presenti.
---------------
Nella specie non risulta affatto provato che gli interventi edilizi realizzati avessero quelle caratteristiche (essere destinati in via esclusiva a contenere impianti serventi non altrimenti collocabili nell’immobile) ed anzi la descrizione contenuta nella relazione tecnica allegata all’istanza amministrativa, cui sopra si è fatto riferimento, mostra chiaramente come nella fattispecie in esame si tratti palesemente di superfici realizzate con autonoma funzionalità e quindi estranee al concetto di “volume tecnico”.
Il sol fatto che, in precedenza, i volumi avessero destinazione abitativa, dimostra di per sé l’assenza del requisito di necessarietà e proporzionalità che presiede alla qualificazione di un vano quale volume tecnico.
Va ribadito, infatti, che proprio al fine di evitare possibilità di aggiramenti della normativa urbanistica ed edilizia, occorre accedere ad una interpretazione restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e perimetrata in termini di effettiva indispensabilità tecnica.
Converge verso tale conclusione anche la considerazione che la valenza abilitativa della realizzazione di opere riguardanti un preesistente fabbricato va riferita all’intervento complessivo, al fine di evitare che i vincoli urbanistici possano essere aggirati per il tramite di pratiche elusive consistenti nella artificiosa parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate, in ragione della loro più modesta incisività sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere sempre “considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti”.
---------------

5a - Passando al merito, va osservato che la Sezione si è già pronunziata sui ricorsi relativi alla medesima fattispecie con sentenze 25.10.2016 n. 4920 e 28.10.2016 n. 5009. A tali pronunce, involgenti le medesime problematiche giuridiche sottese al presente ricorso, si opereranno ampi riferimenti nel prosieguo di questa decisione.
...
Dalla consulenza tecnica emerge senza alcun ombra di dubbio che all’ottavo ed al nono piano gli interventi realizzati con D.I.A. abbiano creato nuovi volumi, prima del tutto inesistenti.
Dunque non sussistono dubbi che nella specie siano stati realizzati interventi edilizi con realizzazione di nuove superficie utili e nuova volumetria, ciò risultando dalla stessa relazione tecnica promanante dalla società ricorrente.
A tal riguardo, è allora essenziale stabilire se sia ammissibile l’operazione di conversione di spazi ordinari in volumi tecnici (non computabili), con recupero della cubatura per realizzare manufatti prima del tutto inesistenti (in particolare quelli edificati al piano nono, dove vi era in precedenza un mero vano adibito ad uso del portiere).
Difatti, ove fosse consentita tale traslazione, si potrebbe ritenere che la modifica volumetrica (oltre che della sagoma) possieda quei caratteri di marginalità che, come si è detto, consentirebbero di qualificare l’intervento complessivo in termini di ristrutturazione leggera, assentibile con D.I.A..
Si intendono per volumi tecnici esclusi dal calcolo della volumetria ammissibile i locali completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, i quali risultano esclusivamente destinati a contenere impianti serventi alla costruzione principale, che per esigenze di funzionalità non possono essere inglobati nel corpo della costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32).
La nozione di volume tecnico in campo edilizio si fonda su tre parametri: il primo, positivo, di tipo funzionale, secondo cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo, negativi, ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e, dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere completamente prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti al servizio di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali di quest’ultima. Il volume tecnico consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma individualità fisica e conformazione strutturale, funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva della costruzione principale, privo di valore autonomo di mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal proprietario del bene. Inoltre, deve essere sempre facilmente rilevabile il rapporto di proporzionalità tra questi volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Nella specie non risulta affatto provato che gli interventi edilizi realizzati avessero quelle caratteristiche (essere destinati in via esclusiva a contenere impianti serventi non altrimenti collocabili nell’immobile) ed anzi la descrizione contenuta nella relazione tecnica allegata all’istanza amministrativa, cui sopra si è fatto riferimento, mostra chiaramente come nella fattispecie in esame si tratti palesemente di superfici realizzate con autonoma funzionalità e quindi estranee al concetto di “volume tecnico” (vedi TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.02.2013 n. 288).
Il sol fatto che, in precedenza, i volumi avessero destinazione abitativa, dimostra di per sé l’assenza del requisito di necessarietà e proporzionalità che presiede alla qualificazione di un vano quale volume tecnico.
Va ribadito, infatti, che proprio al fine di evitare possibilità di aggiramenti della normativa urbanistica ed edilizia, occorre accedere ad una interpretazione restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e perimetrata in termini di effettiva indispensabilità tecnica.
Converge verso tale conclusione anche la considerazione che la valenza abilitativa della realizzazione di opere riguardanti un preesistente fabbricato va riferita all’intervento complessivo, al fine di evitare che i vincoli urbanistici possano essere aggirati per il tramite di pratiche elusive consistenti nella artificiosa parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate, in ragione della loro più modesta incisività sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere sempre “considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti” (Cass., sez. III, sent. 29.01.2003; sent. 11.10.2005).
Anche sotto questa ulteriore e concorrente prospettiva risulta evidente che l’insieme degli interventi ha consentito una conversione integrale del manufatto in albergo, mediante un insieme di opere che ne hanno alterato la sagoma, la volumetria (anche a seguito dell’ispessimento della tompagnatura) e, sia pure in minima parte, l’altezza, nonché mediante l’innesto di strutture (quali la verandatura e la copertura posta sul tetto) del tutto eterogenee rispetto all’impianto originario.
Dal complesso delle esposte considerazioni può concludersi nel senso che l’utilizzo delle plurime denunzie di inizio attività non sia conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, sopra menzionata, sicché anche l’impugnazione dell’art. 124 della variante generale al PRG (da leggersi in combinato disposto con l’art. 12 delle n.t.a.) perde di rilievo, con conseguente inammissibilità delle relative censure per difetto di interesse (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso.
---------------
Mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso.
---------------

7 - Su queste premesse è possibile esaminare le restanti singole censure, anche mediante accorpamento delle stesse per omogeneità delle tematiche involte.
La lamentata violazione degli artt. 7 e ss. legge 241/1990 (atteso che l’originaria contestazione di avviso della autotutela non contemplava il preteso spostamento verso l’esterno delle originarie pareti in ferro e vetri) si rivela infondata, poiché dalla disamina del complesso carteggio emerge la volontà dell’amministrazione comunale di sottoporre a verifica la totalità degli interventi eseguiti sull’albergo Ro..
Peraltro, come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/90 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, sez. IV, n. 3605/2016, sez. VI, n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147).
8 - La censura avente ad oggetto violazione degli artt. 3, 10, 22, DPR 380, art. 1 D.Lgs. 301/2000 (nonché la violazione delle leggi regionale n. 19 del 2001 e n. 16 del /2004, eccesso di potere, difetto di motivazione, violazione art. 31 e 32 DPR 380, violazione degli artt. 7 e 14 delle NTA della variante generale al PRG, violazione art. 124 e 12 delle NTA, eccesso di potere per difetto di istruttoria, errore sul presupposto, violazione dell’art. 33, co. 4 e 6-bis DPR 380/2001) risulta non convincente, poiché, come detto, gli interventi non possono essere considerati assentibili con D.I.A.; ne consegue la reiezione anche di tutte le altre censure (violazione degli artt. 33, comma 4, 34, 37 e 38 DPR 380/2001) che si fondano sulla tesi della validità abilitativa della D.I.A., con la specificazione che la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria, infatti, attiene alla fase dell'esecuzione dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto va ribadito che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso (ex multis, v. Sent. TAR Napoli, sez. IV, n. 3120/2015, cit., nonché TAR Napoli, sez. VII, 14.06.2010 n. 14156) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di rimozione delle D.I.A. si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
---------------
In ogni caso vale rammentare che l'eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato, non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Peraltro le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuta proprio a fatto del privato.
---------------

9a - Anche la denunziata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela, ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non appare meritevole di positiva delibazione.
Si lamenta, infatti, con dovizia di argomentazioni, che gli atti di annullamento delle D.I.A. non avrebbero rispettato i dettami previsti per l’esercizio del potere di autotutela; infatti, non si sarebbe tenuto conto del tempo trascorso né si sarebbe effettuato un corretto bilanciamento tra gli interessi del privato e l’interesse pubblico sotteso al provvedimento anche in relazione all’avvenuta demolizione dell’opera in epoca successiva al perfezionamento della fattispecie tacita di cui alla D.I.A.
Le considerazioni esposte in precedenza dimostrano che la fattispecie tacita di autorizzazione all’intervento non può ritenersi formata correttamente perché l’intervento non poteva essere assentito con mera D.I.A. essendo intervenuta una vera e propria nuova costruzione.
In definitiva, una volta stabilito che la tipologia di interventi richiedesse il permesso di costruire, ne deriva, quale logico corollario, che il procedimento per silentium non può ritenersi mai perfezionato, avendo un oggetto del tutto incongruente ed incompatibile con tale semplificato modulo di formazione del titolo edilizio.
Ne discende che il Comune ben poteva esercitare i propri poteri sanzionatori sull’opera senza considerare la D.I.A. che, difettandone i relativi presupposti, non poteva ritenersi perfezionata (TAR Napoli Campania sez. VI, 10.01.2011, n. 35; Consiglio Stato sez. VI, 05.04.2007, n. 1550; Cassazione penale sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
9b - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione della norma, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, consentirebbe al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori (v. l’art. 19, co. 6-bis, L. 241/1990 secondo cui «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali»).
9c - Ciò posto, l’atto in esame, pur qualificato quale atto di autotutela, va inteso correttamente quale atto avente un sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento della D.I.A. che resta, pertanto, inefficace.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti argomentazioni di parte ricorrente che espressamente fanno riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
In questa ipotesi dunque l’atto di rimozione delle D.I.A. si configura quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
9d - In ogni caso vale rammentare che l'eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame), non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300); peraltro le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuta proprio a fatto del privato.
10 - La reiezione delle censure articolate nei ricorsi principali rende infondata anche la doglianza di cui ai motivi aggiunti presentati nel ricorso numero 289/2012.
L’intervento di manutenzione ivi previsto (ed astrattamente ben assentibile con D.I.A.) è, infatti, strettamente collegato ai lavori precedenti, correttamente ritenuti abusivi e, come si è detto in precedenza, è necessario considerare unitariamente l’insieme di opere poste in essere al fine di trasformare il cd. Palazzo Lauro in un albergo (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - LAVORI PUBBLICILa fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale e alla funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto, si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito, sicché, quando tale rapporto sia contestato, non può costituire valido elemento di prova ma, al più, un mero indizio.
In tema di appalto di opere pubbliche, tuttavia, è esclusa anche la possibilità di riconoscere la predetta portata alle fatture trasmesse alla pubblica amministrazione, sul presupposto che, l’onere della forma scritta, imposto ad substantiam per i contratti degli enti pubblici, impedisce non solo di ritenere provata la stipulazione, in assenza dell’atto dotato del predetto requisito, ma anche di attribuire alla produzione delle fatture l’efficacia di comportamento processuale ammissivo del diritto sorto dal contratto.
Tale principio è applicabile anche al contratto di appalto stipulato in economia, con il sistema del cottimo fiduciario, non essendo sufficiente che da atti scritti risultino comportamenti attuativi di un accordo meramente verbale, come l’esecuzione della prestazione a opera del privato, documentata dalle fatture trasmesse all’amministrazione.

----------------
2. — Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod civ., osservando che, nel negare qualsiasi rilievo alle note di credito ed alle fatture emesse dalla Cooperativa, la sentenza impugnata non ha considerato che tali documenti non hanno un'efficacia meramente fiscale, ma costituiscono scritture private, vincolanti a tutti gli effetti per chi le abbia formate, una volta intervenuta l'accettazione della controparte, e quindi utilizzabili ai fini dell'interpretazione del contratto.
2.1. — Il motivo è infondato.
In linea generale, questa Corte ha avuto infatti modo di affermare che la fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all'esecuzione di un contratto, si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione, indirizzata all'altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito, sicché, quando tale rapporto sia contestato, non può costituire valido elemento di prova, ma, al più. un mero indizio (cfr. Cass., Sez. 11, 12.01.2016, n. 299; 20.05.2004, n. 9593; Cass., Sez. III, 28.06.2010, n. 15383).
In tema di appalto di opere pubbliche, si è tuttavia esclusa anche la possibilità di riconoscere la predetta portata alle fatture trasmesse all'Amministrazione, osservandosi che l'onere della forma scritta, imposto ad substantiam per i contratti degli enti pubblici, impedisce non solo di ritenerne provata la stipulazione, in assenza dell'atto dotato del predetto requisito, ma anche di attribuire alla produzione delle fatture l'efficacia di comportamento processuale implicitamente ammissivo del diritto sorto dal contratto (cfr. Cass., Sez, 1, 22.01.2009, n. 1614).
Tale principio è stato ritenuto applicabile anche al contratto di appalto stipulato in economia, con il sistema del cottimo fiduciario, escludendosi la possibilità d'invocare, in contrario, la disciplina dettata dall'art. 17 del regio decreto 18.11.1923, n. 2440, che consente la stipulazione a trattativa priva di contratti con le imprese commerciali a mezzo di corrispondenza «secondo l'uso del commercio»: si è infatti rilevato che anche in questo caso occorre che il perfezionamento del contratto risulti dallo scambio di proposta ed accettazione, non essendo sufficiente che da atti scritti risultino comportamenti attuativi di un accordo meramente verbale, come l'esecuzione della prestazione ad opera del privato, documentata dalle fatture trasmesse all'Amministrazione (cfr. Cass., Sez. l, 15.06.2015, n, 12316; 17.03.2015, n. 5263).
Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, dopo aver escluso la possibilità di desumere un accordo modificativo del contratto dal comportamento tenuto in sede esecutiva dall'impresa, ed in particolare dall'accettazione di pagamenti in misura ridotta rispetto al corrispettivo determinato attraverso l'aggiudicazione, ha ritenuto insufficienti a giustificare una siffatta ricostruzione della fattispecie anche le fatture emesse dalla società attrice, la cui asserita idoneità a giustificare un'interpretazione del contratto di appalto diversa da quella risultante dal suo tenore letterale si pone d'altronde in contrasto con la già affermata inammissibilità di modifiche successive delle condizioni convenute (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 13.10.2016 n. 20690).

APPALTIIn tema di attività jure privatorum della Pubblica Amministrazione, questa Corte ha affermato costantemente il principio, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, secondo cui i contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la quale assolve una funzione di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il contenuto del programma negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria.
Ciò comporta non solo l'esclusione della possibilità di desumere l'intervenuta stipulazione del contratto da una manifestazione di volontà implicita o da comportamenti meramente attuativi, ma anche la necessità che, salvo diversa previsione di legge, l'intera vicenda negoziale sia consacrata in un unico documento, contenente tutte le clausole destinate a disciplinare il rapporto.
Tale principio trova applicazione non soltanto alla conclusione del contratto, ma anche all'eventuale rinnovazione dello stesso, a meno che la stessa non sia prevista come effetto automatico da un'apposita clausola,
nonché alle modificazioni che le parti intendano in seguito apportare alla disciplina concordata, le quali devono pertanto risultare da un atto posto in essere nella medesima forma del contratto originario, richiesta anche in tal caso ad substantiam, non potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante l'adozione di pratiche difformi da quelle precedentemente convenute, ancorché le stesse si siano protratte nel tempo e rispondano ad un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca successiva.
La ricaduta di questo regime formalistico, sul versante dell'interpretazione del contratto, è costituita dal principio, anch'esso costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui
la ricerca della comune intenzione delle parti, ove il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, deve aver luogo, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto, mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione, in quanto la formazione del consenso non può spiegare rilevanza ove non sia stata incorporata nel documento scritto.
Anche nei casi, invero piuttosto rari, in cui, evidenziandosi la sottoposizione privatistica dell'Amministrazione ai principi del diritto comune, è stata ammessa la possibilità di far ricorso al criterio ermeneutico previsto dal secondo comma dell'art. 1362 cod. civ., al fine di chiarire il senso di termini o espressioni impiegati in modo improprio dalle parti, è stata fermamente esclusa la possibilità di ricollegare al comportamento di queste ultime la formazione di un consenso estraneo al contenuto del contratto, o addirittura ad esso contrario, prospettandosi altrimenti la vanificazione del requisito della forma scritta, imposto a garanzia dei canoni d'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
---------------

1. Con il primo motivo d'impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., sostenendo che il requisito della forma scritta ad substantiam, previsto per la stipulazione dei contratti della Pubblica Amministrazione, pur imponendo di fare riferimento innanzitutto alla lettera del contratto per la ricostruzione dei rapporti tra le parti, non esclude la possibilità di tener conto del comportamento complessivo delle stesse, il quale, soprattutto se protratto nel tempo, assume una valenza interpretativa, conformemente alle regole ermeneutiche dettate dalle predette disposizioni, applicabili anche ai contratti della Pubblica Amministrazione, quali atti di diritto privato.
Tale principio è stato disatteso dalla sentenza impugnata, la quale ha privilegiato una lettura esclusivamente formale del contratto, a scapito del comportamento tenuto dalle parti per tutta la durata del rapporto, conferendo rilievo all'osservanza delle regole di contabilità pubblica, le quali, tuttavia, sono riferibili esclusivamente alla fase precedente all'aggiudicazione, e non anche alla fase successiva, assoggettata all'ordinaria disciplina privatistica.
Nel porre in risalto l'assoggettamento del contratto all'onere della forma scritta
ad substantiam, la Corte di merito ha peraltro omesso di considerare che tale requisito è prescritto esclusivamente a garanzia dell'interesse dell'Amministrazione, che dev'essere posta in grado di conoscere l'importo massimo che è tenuta a corrispondere, con la conseguente inapplicabilità agli accordi che eventualmente intervengano in sede di esecuzione del contratto, ove gli stessi risultino favorevoli all'Amministrazione,
1.1. — Il motivo è infondato.
In tema di attività jure privatorum della Pubblica Amministrazione, questa Corte ha affermato costantemente il principio, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, secondo cui i contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la quale assolve una funzione di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il contenuto del programma negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria (cfr. Cass., Sez. I, 19.09.2013, n. 21477; 24.01.2007, n. 1606; Cass., Sez. I, 26.10.2007, n. 22537).
Ciò comporta non solo l'esclusione della possibilità di desumere l'intervenuta stipulazione del contratto da una manifestazione di volontà implicita o da comportamenti meramente attuativi, ma anche la necessità che, salvo diversa previsione di legge, l'intera vicenda negoziale sia consacrata in un unico documento, contenente tutte le clausole destinate a disciplinare il rapporto (cfr. Cass., Sez. Un., 22.03.2010, n. 6827; Cass., Sez. I. 20.03.2014, n. 6555; 26.03.2009, n, 7297).
Tale principio trova applicazione non soltanto alla conclusione del contratto, ma anche all'eventuale rinnovazione dello stesso, a meno che la stessa non sia prevista come effetto automatico da un'apposita clausola (cfr. Cass., Sez. III, 11.11.2015, n, 22994; 21.08.2014, n. 18107; 10.06.2005, n. 12323), nonché alle modificazioni che le parti intendano in seguito apportare alla disciplina concordata, le quali devono pertanto risultare da un atto posto in essere nella medesima forma del contratto originario, richiesta anche in tal caso ad substantiam, non potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante l'adozione di pratiche difformi da quelle precedentemente convenute, ancorché le stesse si siano protratte nel tempo e rispondano ad un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca successiva (cfr. Cass., Sez. I, 14.04.2011, n. 8539; Cass., Sez. III, 12.04.2006, n. 8621; Cass., Sez. II, 04.06.1999, n. 5448).
La ricaduta di questo regime formalistico, sul versante dell'interpretazione del contratto, è costituita dal principio, anch'esso costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la ricerca della comune intenzione delle parti, ove il senso letterale delle parole presenti un margine di equivocità, deve aver luogo, con riferimento agli elementi essenziali del contratto, soltanto attingendo alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto, mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione, in quanto la formazione del consenso non può spiegare rilevanza ove non sia stata incorporata nel documento scritto (cfr. Cass., Sez. I, 11.05.2007, n. 10868; Cass., Sez. II, 22.06.2006, n. 14444; 05.02.2004, n. 2216).
Anche nei casi, invero piuttosto rari, in cui, evidenziandosi la sottoposizione privatistica dell'Amministrazione ai principi del diritto comune, è stata ammessa la possibilità di far ricorso al criterio ermeneutico previsto dal secondo comma dell'art. 1362 cod. civ., al fine di chiarire il senso di termini o espressioni impiegati in modo improprio dalle parti, è stata fermamente esclusa la possibilità di ricollegare al comportamento di queste ultime la formazione di un consenso estraneo al contenuto del contratto, o addirittura ad esso contrario, prospettandosi altrimenti la vanificazione del requisito della forma scritta, imposto a garanzia dei canoni d'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (cfr. Cass., Sez. 30.09.2011, n, 20057; in generale, riguardo ai contratti da stipularsi in forma scritta ad substantiam, v. anche Cass., Sez. IL 07.06.2011, n. 12297; 04.06.2002, n. 8080; 02.06.2000, n. 7416).
1.2. — Pur avendo correttamente richiamato i predetti principi, la Corte di merito non si è d'altronde sottratta al riscontro della condotta tenuta dalle parti successivamente alla stipulazione del contratto, prendendo specificamente in considerazione la pratica eccepita dall'Amministrazione, consistente nell'avvenuta esecuzione e fatturazione di pagamenti per importi inferiori a quelli previsti dal contratto, ma escludendo la possibilità di desumerne l'intento dell'attrice di accettare una riduzione del corrispettivo pattuito, anche alla luce dell'avvenuta determinazione dello stesso nell'ambito di una procedura ad evidenza pubblica, e della conseguente alterazione che tale condotta avrebbe comportalo nella par condicio dei partecipanti alla gara, oltre che nell'osservanza delle norme che disciplinano la contabilità pubblica.
In proposito, non merita consenso l'assunto della ricorrente, secondo cui, in quanto volte essenzialmente a garantire la certezza del corrispettivo da pagare per il conseguimento della prestazione pattuita, nell'interesse esclusivo dell'Amministrazione, le predette disposizioni non precludono il raggiungimento di accordi in senso riduttivo. anche in via di mero fatto, traducendosi gli stessi in un risparmio di spesa per la committente: la ratio della previsione di procedure competitive per la scelta del contraente da parte degli enti pubblici non consiste infatti nel consentire all'Amministrazione di procurarsi la fornitura o il servizio richiesto al prezzo più basso, indipendentemente dalla qualità della prestazione ottenuta, ma nel permettere lindividuazione dell'offerta complessivamente più conveniente, sulla base di criteri preventivamente determinati ed applicati in modo trasparente, si da evitare che, anche per effetto del meccanismo concorrenziale adottato, la vantaggiosità delle condizioni economiche prospettate si traduca in un minor valore tecnico-qualitativo della fornitura o del servizio offerto.
In tal senso deponeva già la disciplina dettata dal regio decreto 23.05.1924, n. 827, richiamata dal regio decreto 03.03.1934, n. 383 anche per contratti stipulati dagli enti territoriali, la quale prescriveva, in riferimento al pubblico incanto cd alla licitazione privata, che il relativo bando dovesse indicare, rispettivamente, «la qualità, ed ove d'uopo, i prezzi parziali o totali, secondo la natura dell'oggetto» (art. 65) e «l'oggetto dell'appalto e le condizioni generali e speciali» (art. 89), consentendo all'Amministrazione d'indicare, nel primo caso, anche il limite massimo di ribasso che i concorrenti non dovevano in ogni caso oltrepassare. e di escludere dalla gara le imprese che lo avessero oltrepassato.
Nella medesima ottica, la legge 11.02.1994, n. 109, i cui principi costituivano norme fondamentali di riforma economico-sociale, dopo aver dichiarato solennemente che «l'attività amministrativa in materia di opere e lavori pubblici deve garantirne la qualità» (art. 1), nel disciplinare i criteri di aggiudicazione aveva previsto, in conformità delle norme comunitarie, l'esclusione delle offerte anomale, cioè di quelle che, presentando un ribasso pari o superiore alla media dei ribassi delle offerte ammesse (art. 21, comma 1-bis), potessero far dubitare della corrispondenza della prestazione ai requisiti qualitativi prescritti; in riferimento all'appalto-concorso, essa aveva poi previsto (conformemente alla natura di tale procedimento, comprendente anche la progettazione dell'opera da realizzare) che l'offerta economicamente più vantaggiosa dovesse essere valutata in base non solo al prezzo, ma anche, tra l'altro, al valore tecnico ed estetico delle opere progettate ed al tempo di esecuzione dei lavori e ad altri elementi individuati in base al tipo di lavoro da realizzare (art. 21, comma secondo).
Ancor più chiara è l'impostazione di fondo del dlgs. 12.04.2006, n. 163 (cd. codice dei contratti pubblici) e del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (cd. codice dei contratti pubblici), i quali, oltre a ribadire la facoltà dell'Amministrazione di escludere le offerte anormalmente basse (art. 8-1 del d.lgs. n. 163, art. 59 , comma quarto, lett. c, del d.lgs. n. 50), nell'enunciare i principi per l'aggiudicazione e l'esecuzione di appalti e concessioni stabiliscono che il relativo affidamento, oltre a garantire la qualità delle prestazioni, deve svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza, precisando espressamente che il principio di economicità può essere subordinato, nei limiti consentiti dalle norme vigenti e dal medesimo codice, a criteri, da prevedere nel bando, ispirati a esigenze sociali o alla tutela della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e alla promozione dello sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista energetico (art. 2 del d.lgs. n. 163, art. 30 del d.lgs. n. 50).
Il mero risparmio di spesa collegato alla richiesta di un corrispettivo più basso non costituisce pertanto l'unico scopo e nemmeno quello principale, delle norme che disciplinano la contabilità pubblica e gli appalti pubblici, le quali hanno invece di mira il conseguimento di una prestazione tecnicamente e qualitativamente adeguata al miglior prezzo ragionevolmente compatibile con tale obiettivo. Il perseguimento di tale finalità non potrebbe non ritenersi compromesso qualora, come sostiene la ricorrente, fosse consentito alle parti di modificare successivamente, sia pure in senso più favorevole all'Amministrazione, le condizioni economiche determinate attraverso l'applicazione delle regole di evidenza pubblica, non essendovi alcuna certezza che a tale modificazione corrisponda, nella realizzazione dell'opera o nella prestazione del servizio, il mantenimento delle caratteristiche tecnico-qualitative previste dal bando di gara ed accettate mediante la presentazione dell'offerta.
Sotto un diverso profilo, come ha opportunamente evidenziato la Corte di merito, il meccanismo competitivo che presiede alla scelta dell'altro contraente nei contratti stipulati dagli enti pubblici esige il rispetto di regole volte ad assicurare una trasparente individuazione ed applicazione dei criteri di selezione e la par condicio tra i concorrenti: al riguardo, è appena il caso di richiamare, senza neppure soffermarvisi specificamente, le norme che fissano i requisiti soggettivi per la partecipazione alle gare e prevedono l'inclusione dei criteri di valutazione delle offerte nei relativi bandi, da rendersi pubblici nelle forme prescritte, quelle che stabiliscono termini rigorosi per la presentazione delle offerte, quelle che, in caso di adozione del metodo delle offerte segrete, dispongono le cautele necessarie per garantirne la segretezza ed escludono la possibilità di modificarle dopo l'apertura, quelle, infine, che prevedono la pubblicità della fase di valutazione ed impongono la motivazione dei provvedimenti di esclusione ed aggiudicazione.
Pur dovendosi escludere che, cosi come ipotizzato dalla sentenza impugnata, l'applicazione in sede esecutiva di condizioni diverse da quelle previste dal bando e consacrate nel provvedimento di aggiudicazione possa incidere retroattivamente sulla legittimità della fase ad evidenza pubblica, in tal modo determinando ex post la validità del contratto, la quale dev'essere invece valutata con riferimento all'epoca della stipulazione, occorre rilevare che l'operatività dei principi di trasparenza e parità dei concorrenti risulterebbe sostanzialmente vanificata ove le parti potessero, a loro piacere, non solo modificare il contenuto del programma negoziale successivamente all'aggiudicazione o addirittura dopo la stipulazione del contratto, ma addirittura evitare di avvalersi, a tale scopo, della forma prescritta a pena di nullità per l'attività contrattuale della Pubblica Amministrazione (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 13.10.2016 n. 20690).

EDILIZIA PRIVATA: I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della l.r. 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della l.r. n. 12/2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della l.r. 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
---------------

6.2 Ciò posto, quanto alla determinazione dell’entità dell’intervento, deve condividersi quanto rappresentato dalla difesa comunale, la quale correttamente evidenzia come i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge regionale 11.03.2005, n. 11 abbiano previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che –come già chiarito dalla giurisprudenza formatasi sulle disposizioni richiamate– gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni (v. Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2969, che conferma la sentenza di questa Sezione del 18.05.2010, n. 1566).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alla d.i.a. oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2015 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il manufatto in questione supera in diversi tratti l’altezza di m. 3 e assolve alle precipue funzioni di contenimento di un terrapieno artificialmente realizzato e di sostegno di una rampa di accesso al fabbricato.
Tali caratteristiche del manufatto ragionevolmente escludono, pertanto, la sua configurabilità quale muro di cinta della proprietà, a' sensi dell’art. 878 cod. civ., posto che questo, ai fini dell’esenzione dal rispetto delle distanze legali imposte dall’art. 873 c.c., deve essere essenzialmente destinato a recingere una determinata proprietà onde separarla dalle altre, non superare un’altezza di tre metri ed avere entrambe le facce isolate da altre costruzioni.
Va rilevato anche che, di per sé, il muro di contenimento elevato ad opera dell’uomo per assolvere alla stabilizzazione di un terrapieno artificiale ricade per certo nel regime di rilascio del titolo edilizio, all’epoca dei fatti di causa indubitabilmente concessorio.
Infatti, per “muro di cinta”, nella dizione contenuta nell’art. 4, comma 7, lett. c), del D.L. 05.10.1993 n. 498 convertito con modificazioni in L. 04.12.1993 n. 493 e sostituito per effetto dell’art. 2, comma 60, della L. 23.12.1996 n. 662, all’epoca in vigore, devono intendersi quelle opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà, nel mentre ben diversa è la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri di contenimento”, i quali si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la funzione, ma anche, perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Per assolvere a tale funzione, i muri di contenimento devono presentare necessariamente una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive.
Il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di recinzione, è tuttavia sotto il profilo edilizio un’opera ben più consistente di una recinzione proprio in quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla sua funzione principale dianzi illustrata: il che pertanto esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza delle modifiche che esso produce, sia la necessità del suo assoggettamento al regime concessorio all’epoca vigente, sia la legittimità, a torto contestata dall’appellante, dell’applicazione della sanzione della demolizione prevista per il caso di assenza di concessione.

---------------
In linea di principio le norme in tema di distanze sono per loro natura inderogabili in quanto assolvono al fine ripartire in misura eguale il distacco tra edifici tra i lotti confinanti.
---------------

Come si è visto innanzi, secondo la prospettazione del Pr. il muro di cui trattasi, edificato a sostegno dello scivolo prefabbricato e dei vani retrostanti posti sul lato nord del complesso edilizio, sarebbe stato assentito già con la concessione edilizia n. 3 del 1997 in quanto asseritamente rappresentato negli elaborati grafici allegati alla relativa domanda; non implicherebbe problemi in ordine alla sua distanza dall’altrui proprietà in quanto si configurerebbe comunque quale muro di recinzione; né potrebbe applicarsi alla specie l’art. 17 delle N.T.A. del P.R.G. che impone per le costruzioni il rispetto della distanza di 5 metri dal confine della proprietà essendo stato acquisito in data 15.07.1999 l’assenso del proprietario del fondo vicino.
A tale riguardo va innanzitutto rilevato che negli elaborati progettuali richiamati dal Pr. a sostegno della propria tesi secondo la quale la realizzazione del muro in questione sarebbe già stata assentita per effetto della predetta concessione edilizia n. 3 del 1997 il muro medesimo non è rappresentato nelle sue effettive dimensioni, posto che la sua rappresentazione grafica negli elaborati medesimi consiste in un breve tratto di muro completamente interrato verso est adiacente ad altro breve muro di cinta libero su entrambi i lati.
Viceversa, dal doc. 27 di parte ricorrente sub R.G. 4478 del 2000 (fascicolo del giudizio di primo grado innanzi al TAR per la Lombardia) consta inequivocabilmente che il manufatto in questione è ben più lungo, supera in diversi tratti l’altezza di m. 3 e assolve alle precipue funzioni di contenimento di un terrapieno artificialmente realizzato dal medesimo Pr. (peraltro poi sostituito da vani e locali) e di sostegno di una rampa di accesso al fabbricato.
Tali caratteristiche del manufatto ragionevolmente escludono, pertanto, la sua configurabilità quale muro di cinta della proprietà, a' sensi dell’art. 878 cod. civ., posto che questo, ai fini dell’esenzione dal rispetto delle distanze legali imposte dall’art. 873 c.c., deve essere essenzialmente destinato a recingere una determinata proprietà onde separarla dalle altre, non superare un’altezza di tre metri ed avere entrambe le facce isolate da altre costruzioni (così, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. II, 20.11.2012 n. 20351; concorda su tali caratteristiche del muro di cinta al fine del regime di realizzazione della relativa opera Cons. Stato, Sez. IV, 03.05.2011 n. 2621).
Va rilevato anche che, di per sé, il muro di contenimento elevato ad opera dell’uomo per assolvere alla stabilizzazione di un terrapieno artificiale ricade per certo nel regime di rilascio del titolo edilizio, all’epoca dei fatti di causa indubitabilmente concessorio.
Infatti, per “muro di cinta”, nella dizione contenuta nell’art. 4, comma 7, lett. c), del D.L. 05.10.1993 n. 498 convertito con modificazioni in L. 04.12.1993 n. 493 e sostituito per effetto dell’art. 2, comma 60, della L. 23.12.1996 n. 662, all’epoca in vigore, devono intendersi quelle opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà, nel mentre ben diversa è la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri di contenimento”, i quali si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la funzione, ma anche, perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso.
Per assolvere a tale funzione, i muri di contenimento devono presentare necessariamente una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive.
Il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche concomitante funzione di recinzione (come, per l’appunto, accade nel caso di specie), è tuttavia sotto il profilo edilizio un’opera ben più consistente di una recinzione proprio in quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla sua funzione principale dianzi illustrata: il che pertanto esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone, data la rilevanza delle modifiche che esso produce, sia la necessità del suo assoggettamento al regime concessorio all’epoca vigente, sia la legittimità, a torto contestata dall’appellante, dell’applicazione della sanzione della demolizione prevista per il caso di assenza di concessione.
In tale contesto, pertanto, gli atti di diniego di rilascio della sanatoria e di ingiunzione a demolire impugnati dal Pr. in primo grado sub R.G. 4478 del 2000 risultano intrinsecamente legittimi stante la difformità dell’opera da lui realizzata rispetto all’art. 17.1 delle N.T.A. del P.R.G. comunale, il quale impone alle costruzioni il rispetto della distanza di 5 metri dal confine: distanza che nella specie risulta assodatamente violata.
A questo punto, va evidenziato che, se in linea di principio le norme in tema di distanze sono per loro natura inderogabili in quanto assolvono al fine ripartire in misura eguale il distacco tra edifici tra i lotti confinanti (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10.01.2012 n. 53 e Sez. IV, 30.06.2010 n. 4181), nella specie non può comunque sostenersi –a differenza di quanto affermato dal Pr.- che il proprietario del fondo vicino abbia prestato il proprio consenso alla realizzazione del manufatto in questione, posto che la nota sottoscritta dal Sig. Do.Be. in data 15.07.1999 e prodotta in copia quale doc. 15 di parte resistente nel giudizio di primo grado proposto sub R.G. 4478 del 2000 innanzi al TAR di Milano si sostanzia nella denuncia della realizzazione da parte dello stesso Pr. di un’opera difforme –come, per l’appunto, si è detto innanzi– rispetto al progetto originario e, per di più, anche in sedime non suo, e si conclude con la richiesta di un sopralluogo al fine di verificare tali irregolarità
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.04.2014 n. 1651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
La ratio di tale disciplina va ricercata nella necessità di approntare una procedura tempestiva, non discriminatoria e trasparente per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990.
E evidente che tali finalità verrebbero irrimediabilmente vanificate se il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro procedimento, anche di natura edilizia.

---------------

Il ricorso è fondato e merita accoglimento per le ragioni di seguito illustrate.
Merita condivisione il motivo di diritto con cui parte ricorrente contesta il difetto dei presupposti per l’irrogazione della sanzione demolitoria ex art. 31 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 che, come noto, richiede l’assenza del permesso di costruire, la totale difformità rispetto al medesimo ovvero variazioni essenziali.
Invero, secondo condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.01.2009 n. 355; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.05.2013 n. 2394; Sez. VII, 27.01.2012 n. 426), la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
La ratio di tale disciplina va ricercata nella necessità di approntare una procedura tempestiva, non discriminatoria e trasparente per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990.
E evidente che tali finalità verrebbero irrimediabilmente vanificate se il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro procedimento, anche di natura edilizia.
Il provvedimento impugnato si fonda quindi su un erroneo presupposto, ovvero sulla supposta equivalenza in termini edilizi fra il concetto di costruzione e quello di impianto tecnologico, nella specie antenne di telefonia mobile dotate di caratteristiche del tutto diverse da quelle delle costruzioni in senso proprio.
Peraltro, trattandosi di struttura emittente con potenza inferiore ai 20 watt, trova applicazione l’art. 87 del D.Lgs. 259/2003 che richiede la mera segnalazione certificata di inizio attività (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.02.2014 n. 1190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il pertinente quadro normativo non impone in alcun modo di allegare la denuncia di verifica sismica della struttura già in sede di presentazione dell’istanza di autorizzazione o della denuncia di cui all’art. 87, d.lgs. 259 del 2003, limitandosi -piuttosto- a prescrivere che la denuncia in parola avvenga prima del concreto inizio dei lavori.
---------------

2.2. Quanto al secondo motivo ostativo trasfuso nel provvedimento annullato dal TAR (si tratta della mancata presentazione della certificazione di avvenuta denuncia della verifica sismica della struttura al competente Ufficio del Genio Civile), il TAR ha osservato che la denuncia in questione deve essere effettuata prima dell’inizio dei lavori, ma non risulta contemplata fra i documenti che devono essere tassativamente allegati all’istanza/comunicazione ex art. 87, d.lgs. 259 del 2003.
Il Tribunale, del resto, ha osservato che “anche ammessa la necessità di tale denuncia, l’Amministrazione non può negare la D.I.A. sol per la mancanza della stessa, dovendo piuttosto richiedere l’integrazione dei documenti entro il termine di quindici giorni dalla data di ricezione dell’istanza, ai sensi del comma 5 dell’art. 87, d.lvo n. 259/2003”.
Nella tesi dell’appellante, la pronuncia in epigrafe risulterebbe in parte qua erronea e meritevole di riforma per non aver fatto corretto governo della pertinente normativa.
In particolare, il Tribunale avrebbe omesso di tenere in adeguata considerazione:
   - la l. 05.11.1971, n. 1086 (recante ‘norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica’), il cui art. 4 stabilisce che le opere a struttura metallica (come l’impianto destinato ad ospitare l’installazione della cui realizzazione si discute) “devono essere denunciate dal costruttore all’ufficio del genio civile competente per territorio, prima del loro inizio (…)”.
Ancora, il TAR avrebbe omesso di tenere in considerazione il successivo art. 10, a tenore del quale “il Sindaco del Comune, nel cui territorio vengono realizzate le opere indicate nell’art. 1, ha il compito di vigilare sull’osservanza degli adempimenti preposti alla presente legge: a tal fine si avvale dei funzionari ed agenti comunali”;
   - la l. 02.02.1974, n. 64 (recante ‘provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche’), il cui art. 17 stabilisce che “nelle zone sismiche di cui all'articolo 3 della presente legge, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto, notificato a mezzo del messo comunale o mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, contemporaneamente, al sindaco ed all'ufficio tecnico della regione o all'ufficio del genio civile secondo le competenze vigenti (…)”;
   - la L.R. Campania 07.01.1983, n. 9 (recante ‘norme per l’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio dal rischio sismico’), il cui art. 2, al comma 1 stabilisce che “il committente o il costruttore che esegue in proprio devono depositare il progetto esecutivo delle opere di cui all'art. 1 presso l'Ufficio provinciale del Genio civile o Sezione autonoma competente per territorio, prima dell'inizio dei lavori”.
Ancora, risulterebbe rilevante ai fini del decidere il successivo art. 5 (nella formulazione vigente all’epoca dei fatti), secondo cui “il Sindaco del Comune nel cui territorio si eseguono le opere è tenuto ad accertare, a mezzo degli agenti e dei tecnici comunali, che chiunque inizi l'esecuzione delle opere di cui all'art. 1 sia in possesso dell'attestazione dell'Ufficio provinciale del Genio civile dell'avvenuto deposito degli atti prescritti”.
Questo essendo il pertinente quadro normativo, il Comune appellante ritiene l’erroneità della pronuncia in epigrafe, per la parte in cui ha ritenuto l’illegittimità del provvedimento di divieto in data 23.11.2004. Al contrario. Il Comune ritiene che il divieto in parola costituisse un esito necessario della vicenda, se solo si consideri:
   i) che, al momento della presentazione della D.I.A. (06.09.2004), la soc. H3G non avesse neppure presentato al competente Genio civile la prescritta denuncia di verifica sismica;
   ii) che, secondo le risultanze in atti, la società appellata avesse a tanto provveduto solo in data 13.01.2005, ossia dopo il decorso del termine di 90 giorni di cui al comma 9 dell’art. 87, d.lgs. 259 del 2003 e dopo l’adozione da parte del Comune del più volte richiamato provvedimento negativo.
2.2.1. Il motivo di doglianza in parola non può trovare accoglimento.
Ed infatti, il pertinente quadro normativo (pure correttamente richiamato dal Comune appellante) non impone in alcun modo di allegare la denuncia di verifica sismica della struttura già in sede di presentazione dell’istanza di autorizzazione o della denuncia di cui all’art. 87, d.lgs. 259 del 2003, limitandosi -piuttosto- a prescrivere che la denuncia in parola avvenga prima del concreto inizio dei lavori (in tal senso: il primo comma dell’art. 4, l. 1086 del 1971; il primo comma dell’art. 17, l. 64 del 1974, nonché il comma 3 dell’art. 2, L.R. 9 del 1983).
Conseguentemente, la pronuncia in epigrafe deve trovare puntuale conferma per la parte in cui ha ritenuto l’illegittimità del provvedimento comunale di divieto, laddove fondato sulla pretesa necessità di allegare la certificazione di avvenuta denuncia della verifica sismica già in sede di presentazione della D.I.A.
Non rileva, invece, ai fini della presente decisione la circostanza secondo cui la denuncia in parola sia stata presentata solo dopo il decorso dei 90 giorni di cui al comma 9 dell’art. 87, d.lgs. 259, cit. vuoi perché il provvedimento impugnato in prime cure si limitava ad affermare il carattere ostativo della mancata presentazione della denuncia in sé intesa (senza ammetterne la presentazione entro i termini di cui all’art. 87, co. 9, cit.), vuoi perché ciò che rileva in base al pertinente quadro normativo non è il momento in sé della presentazione della denuncia, quanto, piuttosto, la circostanza relativa al se la denuncia in parola sia intervenuta prima o dopo l’effettivo inizio dei lavori (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.09.2010 n. 7128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di spese degli enti locali effettuate senza il rispetto delle condizioni di cui all'art. 23, commi 3 e 4, d.l. 02.03.1989, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 24.04.1959, n. 144, e riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dall'art. 35 d.lgs. n. 77 del 1995 e poi dall'art. 191 d.lgs. n. 267 del 2000, l'insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, determina l'impossibilità di esperire nei confronti del Comune l'azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
---------------

Il ricorso è inammissibile.
Invero la ratio decidendi della sentenza impugnata è basata sulla inammissibilità della domanda in quanto il rapporto contrattuale si era concretizzato esclusivamente con l'Assessore dei lavori Pubblici, che aveva commissionato oralmente i lavori senza rispettare le disposizioni dall'art. 23 della legge 144/1999 onde la domanda doveva essere proposta nei confronti di quest'ultima non sussistendo di conseguenza il requisito di sussidiarietà di cui all'art. 2042 della P.A. disponendo il ricorrente di azione diretta di risarcimento nei confronti del citato assessore.
Tale ratio, che è di per sé decisiva, risulta del tutto conforme all'orientamento ripetutamente espresso da questa Corte, secondo cui in tema di spese degli enti locali effettuate senza il rispetto delle condizioni di cui all'art. 23, commi 3 e 4, d.l. 02.03.1989, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 24.04.1959, n. 144, e riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dall'art. 35 d.lgs. n. 77 del 1995 e poi dall'art. 191 d.lgs. n. 267 del 2000, l'insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, determina l'impossibilità di esperire nei confronti del Comune l'azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà (Cass. 15296/2007, Cass. 10640/2007) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 29.07.2009 n. 17550).

inizio home-page