|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 28.08.2018 (ore 23,59) |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
a fini abitativi dei sottotetti esistenti.
In materia di recupero a
fini abitativi dei sottotetti esistenti
l'art. 1 della l.r. Lombardia n.
15 del 1996, poi trasfuso nell'art. 63 della
l.r. n. 12 del 2005, che ne prevede la
possibilità, ha quale presupposto che la
trasformazione avvenga in ordine ad un
volume già esistente e che abbia, in
partenza, dimensioni tali da essere
praticabile e da poter essere abitabile, sia
pure con gli aggiustamenti che occorrono per
raggiungere i requisiti minimi di
abitabilità.
Solo a queste condizioni il "recupero", che
la legge regionale classifica come
"ristrutturazione" (art. 3 comma 2), è
effettivamente ascrivibile a tale categoria
di interventi, come definita dall'art. 31
della legge n. 457 del 1978 (oggi, art. 3
del d.P.R. n. 380 del 2001), la quale
postula che il nuovo organismo edilizio
corrisponda a quello preesistente, senza
alterarne in misura sostanziale sagoma,
volume e superficie.
Diversamente l'intervento si risolverebbe
non già nel recupero di un piano sottotetto,
ma nella realizzazione di un piano
aggiuntivo, che eccede i caratteri della
ristrutturazione per integrare un intervento
di nuova costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.07.2018 n. 1858 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Nell’odierno giudizio le parti controvertono
in ordine a quale regime urbanistico debbano
essere assoggettate delle unità abitative
ricavate dal recupero di sottotetti adibiti
a scopo residenziale e ricadenti entro
edifici realizzati, dietro Convenzione, in
esecuzione di un PIR ex LR Lombardia n.
23/1990.
Secondo la parte ricorrente, essendo stati i
sottotetti trasformati successivamente alla
stipula della Convenzione e non essendo
inclusa la relativa superficie entro quella
prevista e disciplinata in quest’ultima
(peraltro completamente eseguita), i
relativi spazi abitativi sarebbero cedibili
in regime di libera vendita.
Secondo il Comune di Milano, il vincolo
sorto sulle unità abitative degli edifici si
estenderebbe anche ai sottotetti, ancorché
realizzati successivamente, in ragione
dell’inscindibile unità del corpo di
fabbrica e della sottoposizione di quest’ultimo
alla disciplina del Piano di Recupero.
Quest’ultima tesi è corretta, mentre le
argomentazioni cui sono affidate le censure
di parte ricorrente sono prive di
fondamento.
I) Deve preliminarmente rilevarsi che il
rapporto tra la parte ricorrente e l’Ente
non è regolato solamente dalla Convenzione;
e che quest’ultima non è un negozio libero
nell’oggetto e nel fine.
Se le parti
avessero stipulato un negozio soggetto
solamente alla disciplina comune, la tesi
della parte ricorrente sarebbe stata
corretta, in quanto, una volta assolta la
destinazione ai fini pattuiti della
superficie totale prevista in Convenzione,
tutte le ulteriori sopravvenienze edilizie,
ancorché derivanti (come una sorta di
specificazione) da un diverso utilizzo degli
spazi (oppure da una trasformazione planovolumetrica dal manufatto originale,
come ad esempio una sopraelevazione oppure
un ampliamento di altro genere) sarebbero
state libere da vincoli; o comunque una
diversa disciplina giuridica delle
abitazioni ricavate avrebbe dovuto essere
tradotta in una nuova Convenzione.
Tuttavia, deve osservarsi che la Convenzione
che regola l’intervento abitativo è
funzionalmente orientata all’esecuzione del
Programma approvato con la deliberazione nr.
430 dell’11 e 12.11.1994 del Consiglio
Comunale e n. 6492 del 15.12.1995 della
Giunta Regionale cui aderisce e che ne
conforma la causa sulla base delle
previsioni di cui alla LR Lombardia 02.04.1990 nr. 23 e della legge
05.08.1978, n.
457.
Quest’ultima introduce una disciplina di
favore (volta a favorire l’accesso
all’abitazione), includente vantaggi di tipo
strettamente edilizio e planovolumetrico (v.
ad es. gli artt. 31 e 43 della L. 457/1978),
nonché forme specifiche di finanziamento o
agevolazioni di tipo finanziario; sussiste
altresì una minore incidenza dei costi di
costruzione del fabbricato rispetto alle
edificazioni ordinarie (per effetto
dell’art. 7 della l. 10/1977, argomento questo
particolarmente approfondito dalla difesa
del Comune senza specifiche contestazioni da
parte della ricorrente).
L’assoggettamento dei relativi alloggi al
regime di prezzi che è sancito nella
Convenzione, all’art. 8, è funzionale quindi
all’esigenza propria del sistema normativo
di assicurare che le unità immobiliari
realizzate sulla base dei programmi
integrati siano effettivamente accessibili
all’utenza secondo quella particolare logica
di favore di tutela del diritto
all’abitazione che giustifica la
realizzazione degli interventi edilizi di
cui si discute.
Invero, come puntualmente argomentato dalla
difesa dell’Ente, in regime di edilizia
convenzionata l’Amministrazione riduce la
misura degli oneri relativi all’intervento
edilizio perché il costruttore è vincolato,
con la stipula della Convenzione, ad
applicare il prezzo calmierato in luogo del
prezzo di mercato, beneficio del quale si
giovano sia, direttamente, il costruttore,
che ne fruisce, sia, indirettamente,
l’acquirente, che acquista l’appartamento ad
un prezzo più conveniente di quello che
avrebbe ottenuto sul mercato, in regime di
libera contrattazione (realizzando così in
concreto quel meccanismo di facilitazione
dell’accesso all’abitazione che il
legislatore si propone).
A fronte di questa agevolazione, la legge
pone a carico del costruttore e
dell’acquirente l’obbligo di non vendere a
prezzo superiore a quello di acquisto per un
determinato periodo di tempo.
Nello specifico, con la concessione in
variante n. 65 del 20.02.2001, la misura del
contributo per il rilascio della concessione
–determinata in base all’incidenza delle
spese di urbanizzazione ed al costo di
costruzione, ai sensi dall’art. 3 della
legge n. 10/1977– veniva ridotta rispetto a
quella prevista dalla concessione n.
300/2003, in base all’art. 7 della legge n.
10/1977 (che limita il contributo ai soli
oneri di urbanizzazione se il
concessionario, stipulando una Convenzione
con il comune, si obbliga ad applicare i
prezzi convenzionati).
Atteso il relativo regime, l’immobile
realizzato entro un piano di recupero come
quello in esame e con i vantaggi sin qui
descritti in termini di costi, è dunque
qualificato dallo scopo dell’intervento e
come tale è soggetto alla relativa
disciplina nella sua interezza; la
descrizione –contenuta nella Convenzione attuativa– che compendia gli alloggi alla
cui realizzazione il privato si obbliga,
entro la relativa quantità di superficie
utile destinata alla residenza, non esclude
dunque affatto che successivi incrementi di
detta superficie –localizzati entro la
sagoma dell’edificio e conseguenti ad
interventi di recupero di spazi tecnici come
i sottotetti– seguano il medesimo regime
giuridico, poiché si tratta di interventi su
spazi pertinenti alle unità abitative
originali (e dunque già esistenti al tempo
di realizzazione di queste ultime in
esecuzione della Convenzione).
Invero, in materia di recupero a fini
abitativi dei sottotetti esistenti, l'art. 1 l.reg. Lombardia 15.07.1996 n. 15, poi
trasfuso nell'art. 63 l.reg. n. 12 del
2005, che ne prevede la possibilità, ha
quale presupposto che la trasformazione
avvenga in ordine ad un volume già esistente
e che abbia, in partenza, dimensioni tali da
essere praticabile e da poter essere
abitabile, sia pure con gli aggiustamenti
che occorrono per raggiungere i requisiti
minimi di abitabilità (altezza media
ponderale m. 2.40: cfr. art. 2 l.reg. 15.07.1996 n. 15, oggi art. 63, comma ultimo,
l.reg. n. 12 del 2005); solo a queste
condizioni il "recupero", che la l. reg.
classifica come "ristrutturazione" (art. 3,
comma 2), è effettivamente ascrivibile a
tale categoria di interventi, come definita
dall'art. 31 l. n. 457 del 1978 (oggi, art.
3 d.P.R. n. 380 del 2001), la quale postula
che il nuovo organismo edilizio corrisponda
a quello preesistente, senza alterarne in
misura sostanziale sagoma, volume e
superficie; diversamente l'intervento si
risolverebbe non già nel recupero di un
piano sottotetto, ma nella realizzazione di
un piano aggiuntivo, che eccede i caratteri
della ristrutturazione per integrare un
intervento di nuova costruzione (così TAR
Milano, II 02.04.2010 n. 970).
In questi termini, la giurisprudenza
chiarisce che ai sensi dell'art. 63 commi 1
e 2, l.rg. Lombardia 11.03.2005 n. 12,
il recupero a fini abitativi dei sottotetti
(per essi intendendosi i volumi sovrastanti
l'ultimo piano degli edifici) “costituisce
un ampliamento volumetrico ammissibile solo
se compatibile con le prescrizioni dettate
dalla disciplina urbanistica vigente e,
quindi, nel rispetto degli indici di edificabilità e dei parametri stabiliti
dagli strumenti urbanistici comunali, salve
le ipotesi derogatorie da detta disciplina
espressamente dettate” (Consiglio di Stato
sez. IV 04.02.2008 n. 298; TAR Milano,
Lombardia, I 06.12.2016 n. 2305),
con
la conseguenza che “ai sensi dell'art. 63
commi 1 e 2, l.rg. 11.03.2005 n. 12, il
recupero volumetrico a scopo residenziale
del piano sottotetto non può prescindere
dall'esistenza dell'edificio e del
sottotetto medesimo —da intendersi come
vero e proprio volume preesistente— e deve
avvenire nel rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie e di abitabilità previste
dai regolamenti vigenti” (Consiglio di Stato
sez. IV 20.02.2013 n. 1058).
Dunque, il recupero dei sottotetti operato
in forza dell’art. 63 della l.r. n. 12/2005
è dipendente dall’edificio cui essi accedono
sul piano strutturale e tecnico-costruttivo;
pertanto, non può che seguire anche il
regime derivante dalla natura dell’edificio
stesso, con soggezione, nel caso in cui
l’edificio sia stato realizzato nell’ambito
di un PIR ex lege nr. 23/1990, alle limitazioni
inerenti la formazione del prezzo di vendita
dei relativi alloggi.
Condivisibilmente, invero, la difesa
comunale rileva che in caso contrario, ossia
ritenendo i sottotetti come organismo a se
stante in quanto “nuova costruzione”, come
sostiene parte ricorrente, e non come unico
involucro urbanistico contenuto
nell’immobile recuperato, si contravverrebbe
alla finalità propria dell’edilizia
convenzionata, creando evidenti disparità di
trattamento tra gli assegnatari degli
alloggi, in quanto risulterebbero
assoggettati appartamenti del medesimo
edificio ad un regime giuridico diverso, per
alcuni dei quali (appartamenti all’ultimo
piano) si applicherebbe in caso di vendita,
il prezzo di mercato, senza vincoli e
limitazioni di sorta, mentre agli
appartamenti dei restanti piani il prezzo
convenzionato -nonché il divieto temporaneo
di cessione– con evidenti differenze in
termini di realizzazione degli scopi di
tutela dell’intervento medesimo.
Del resto, non è possibile invocare –a
sostegno della tesi di parte ricorrente–
una esigenza di tutela dell’affidamento (a
che gli obblighi della Convenzione fossero
assolti e quindi si potesse ottenere dalla
commercializzazione degli appartamenti
insistenti nei sottotetti recuperati un
provento corrispondente alla redditività di
mercato dell’investimento), poiché, nel
sistema della legge, i prezzi di vendita
degli alloggi sono determinati sulla base
del piano finanziario (che è infatti
puntualmente sollecitato dalla nota
impugnata) così da assicurare comunque la
remunerazione dell’investimento.
Dunque,
prospettare che il privato possa alienare a
prezzo di mercato l’appartamento ricavato
dal recupero del sottotetto a fini abitativi
entro un edificio realizzato in regime di
edilizia convenzionata implicherebbe una
evidente locupletazione del costruttore in
quanto quest’ultimo –profittando, da un
lato, della riduzione dei costi di
costruzione relativi al fabbricato al
momento della sua realizzazione e,
dall’altro, del maggior prezzo di mercato
ricavabile in libera contrattazione–
massimizzerebbe il profitto non tramite un
vantaggio competitivo imprenditoriale vero e
proprio (imputabile alla propria iniziativa
e merito aziendale con assunzione del
relativo rischio di impresa), bensì grazie
alla traslazione a carico della collettività
pubblica dei costi dell’aggravamento del
carico urbanistico conseguente
all’ampliamento della base residenziale
della zona.
Ne consegue che i sottotetti recuperati ad
uso abitativo entro un edificio realizzato
nell’ambito di un PIR successivamente
all’esecuzione della relativa Convenzione,
sono soggetti alle medesime condizioni
fissate per gli altri appartamenti dal
relativo regime di circolazione.
Le censure dedotte al secondo motivo di
ricorso sono quindi infondate e vanno
ritenute generiche e meramente formali
quelle relative al difetto di motivazione di
cui al primo motivo, con conseguente
reiezione del gravame. |
IN EVIDENZA |
APPALTI:
Calcolo dell’anomalia dell’offerta e taglio delle ali nel
sistema di aggiudicazione al prezzo più basso.
---------------
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Sistema di
aggiudicazione del prezzo più basso – Taglio delle ali – Va
effettuato secondo il c.d. criterio del blocco unitario.
Anche con la nuova disciplina dettata
dall’art. 97, comma 2, lett. a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50
nel caso in cui il sistema di aggiudicazione è quello del
prezzo più basso il taglio delle ali per verificare
l’anomalia dell’offerta va effettuato secondo il c.d.
criterio del blocco unitario (detto anche criterio
relativo), cioè procedendo all’accorpamento delle offerte di egual valore vuoi che si collochino al margine delle ali,
vuoi che si collochino all’interno delle stesse, e non con
il cd. criterio assoluto, tenendo cioè conto di tutte le
offerte presenti all’interno delle ali singolarmente
considerate (1).
---------------
(1) La Sezione ha ritenuto estensibili i principi, espressi dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 19.09.2017, n. 5
in vigenza della pregressa disciplina dettata
Ha chiarito che l’introduzione di altri strumenti
anticollusivi non vale a dare per superate le esigenze a suo
tempo ritenute da Cons. Stato, A.P., 19.09.2017, n. 5 che
privilegiano, perché più confacente allo scopo, il c.d.
criterio assoluto. Per quanto alla luce della normativa
sopravvenuta, appaia meno facile figurare –mediante
l’indebito concordamento delle modalità di formalizzazione
delle offerte– un’alterazione anticoncorrenziale della
determinazione della soglia di anomalia, resta comunque che
il criterio del blocco unitario appare convergente al
medesimo scopo, la cui rilevanza non è diminuita nel nuovo
contesto (nel senso che “la condivisibile ratio
‘antiturbativa’ non [possa] considerarsi venuta meno solo
per effetto del complesso meccanismo introdotto dalla
novellata disciplina dell’art. 97 del Codice in tema di
esclusione automatica”, cfr.,
parere 12.02.2018 n. 361 della Commissione speciale di
questo Consiglio di Stato sull’aggiornamento,
in parte qua, delle linee guida ANAC).
Piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior
criterio ermeneutico, anche per basilari esigenze di
sicurezza giuridica, appare il mantenere, fino a
dimostrazione di una volontà contraria del legislatore,
l’orientamento della consolidata giurisprudenza e con essa
gli acquisiti presidi di funzionalità, di efficienza, di
trasparenza e concorrenzialità dei procedimenti di evidenza
pubblica
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.08.2018 n. 4821 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
8. Il ricorso solleva la questione, già oggetto di
divergenti ricostruzioni interpretative nel vigore del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, (da ultimo superate dalla
sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 19.09.2017, n. 5), della
corretta procedura di determinazione della soglia di
anomalia delle offerte, giusta il criterio del c.d. taglio
delle ali, per le procedure da aggiudicarsi secondo il
criterio del prezzo più basso.
È noto che nell’alternativa tra il criterio del c.d.
blocco unitario (c.d. criterio relativo, che
impone di considerare, ai fini della determinazione
matematica della soglia di anomalia, le offerte con identico
ribasso quali offerta unica, vuoi che si collochino al
margine delle ali, vuoi che si collochino all’interno delle
stesse) e il c.d. criterio assoluto (che impone,
all’incontro, la distinta considerazione delle singole
offerte, pur quando caratterizzate dal medesimo ribasso) –la
richiamata decisione dell’Adunanza plenaria (che peraltro
non si pronuncia sulle previsioni– comunque non applicabili
ratione temporis al caso deciso) ha preferito il
primo in ragione di diversi argomenti:
a) sia di carattere testuale (discendenti dalla comparazione del
primo e del secondo periodo dell’articolo 121, comma 1,
primo e secondo periodo, del d.P.R. 05.10.2010, n. 207, dal
cui confronto emerge la distinzione tra le offerte
intermedie, escluse dal “taglio delle ali” –per le
quali opera il c.d. criterio assoluto– e le offerte estreme
o marginali, interessate dal “taglio delle ali”, per
le quali opera invece il c.d. criterio relativo):
b) sia di carattere sistematico (connesse alla finalità complessiva
di salvaguardare l’interesse pubblico al corretto
svolgimento delle gare e a prevenire manipolazioni delle
gare e dei relativi esiti, ostacolando condotte collusive in
sede di formulazione delle percentuali di ribasso).
9. La tesi dell’appellante assume che, alla luce della
formulazione letterale della norma ora contenuta nell’art.
97, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 (diversa rispetto a
quella dell’art. 86 d.lgs. n. 86 del 2016) e della sua
ragione giustificatrice, la soluzione accolta dall’Adunanza
plenaria n. 5 del 2017 vada rimodulata, venendo meno (con il
nuovo Codice degli appalti pubblici e la corrispondente
attenuazione dei rischi di manipolazione della gara
derivanti da non prevedibilità del metodi di calcolo della
soglia di anomalia), le esigenze che avevano portato a
un’interpretazione teleologicamente orientata: sicché non vi
sarebbe ragione per non privilegiare ora il prioritario
criterio letterale, alla cui stregua –in conformità al c.d.
criterio assoluto– ogni offerta caratterizzata da
identico ribasso andrebbe computata, ai fini del taglio
delle ali, singolarmente e non (più) cumulativamente.
10. Detta conclusione muove, in particolare, da un duplice e
convergente tratto argomentativo:
a) per un verso (in negativo) l’abrogazione dell’art. 121 d.P.R. n.
207 del 2010 avrebbe caducato il solo riferimento positivo e
testuale al criterio assoluto, così esprimendo un’intenzione
del legislatore nei sensi della innovazione;
b) per altro verso (e in positivo), l’introduzione di una regola
anticollusiva e proconcorrenziale (incentrata sulla
estrazione a sorte tra più, alternativi criteri di
individuazione dell’anomalia e sulla consequenziale “incalcolabilità”
preventiva ad opera delle imprese concorrenti) avrebbe eliso
la forza e la concludenza dell’argomento teleologico.
11. La tesi in esame non merita condivisione.
12. Devono, al riguardo, richiamarsi le considerazioni sulla
base delle quali questa Sezione
(cfr.
Cons. Stato, V, 21.06.2018, n. 3821)
ha già evidenziato che la regola del c.d. blocco unitario
continui a trovare applicazione anche nel vigore del Codice
degli appalti pubblici del 2016.
12.1. Anzitutto, è manifesto che
l’abrogazione dell’art. 121 è coerente con la sostituzione
del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163
del 2006 con il d.lgs. n. 50 del 2016, non accompagnata da
una disciplina secondaria esecutiva ed attuativa (a quella
preferendo ora la legge il sistema delle linee guida): il
che rende l’abrogazione indifferente rispetto al criterio in
esame. Del resto,
la citata disposizione regolamentare si limitava ad
esplicitare una regola logica che la giurisprudenza
amministrativa aveva ricavato dal sistema normativo ancor
prima della sua introduzione.
12.2. A sua volta, l’introduzione di altri
strumenti anticollusivi non vale, di suo, a dare per
superate le esigenze a suo tempo ritenute da Cons. Stato,
Ad. plen., 19.09.2017, n. 5 che privilegiano, perché più
confacente allo scopo, il c.d. criterio assoluto.
Per quanto, alla luce della normativa
sopravvenuta, appaia meno facile figurare –mediante
l’indebito concordamento delle modalità di formalizzazione
delle offerte– un’alterazione anticoncorrenziale della
determinazione della soglia di anomalia, resta comunque che
il criterio del blocco unitario appare convergente al
medesimo scopo, la cui rilevanza non è diminuita nel nuovo
contesto (nel senso che “la condivisibile ratio
‘antiturbativa’ non [possa] considerarsi venuta meno solo
per effetto del complesso meccanismo introdotto dalla
novellata disciplina dell’art. 97 del Codice in tema di
esclusione automatica”,
cfr., parere 361/2018 della Commissione speciale di questo
Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua,
delle linee guida ANAC).
12.3. Piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n.
50 del 2016– miglior criterio ermeneutico, anche per
basilari esigenze di sicurezza giuridica, appare il
mantenere, fino a dimostrazione di una volontà contraria del
legislatore, l’orientamento della consolidata giurisprudenza
e con essa gli acquisiti presidi di funzionalità, di
efficienza, di trasparenza e concorrenzialità dei
procedimenti di evidenza pubblica.
13. Tali considerazioni di ordine logico e
sistematico impongono dunque di interpretare l’art. (art.
97, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 50 del 2016, coerentemente
con la ratio legis e, dunque, in senso sostanziale e
non meramente formale o letterale, dovendosi quindi ritenere
che il termine “offerte” di maggiore o minore ribasso
contenuto nella suddetta norma vada inteso in senso logico e
non in senso numerico.
14. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
deve, pertanto, essere respinto. |
APPALTI:
Sulla corretta
procedura di determinazione della soglia di anomalia delle
offerte.
Il Collegio rileva che:
a) è, anzitutto, manifesto che l’abrogazione dell’art. 121 cit. è
coerente con la sostituzione del Codice dei contratti
pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 con il d.lgs. n.
50 del 2016, sostituzione avvenuta senza essere accompagnata
da una disciplina secondaria esecutiva ed attuativa (a
quella preferendo ora la legge il sistema delle linee
guida): il che rende l’abrogazione, quanto al criterio in
esame, indifferente;
b) a sua volta, l’introduzione di altri strumenti anticollusivi non
vale, di suo, a dare per superate le esigenze a suo tempo
ritenute da Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2017 che
privilegiano, perché più confacente allo scopo, il
criterio c.d. assoluto: per quanto alla luce della
normativa sopravvenuta, appaia meno facile figurare
–mediante l’indebito concordamento delle modalità di
formalizzazione delle offerte– un’alterazione
anticoncorrenziale della determinazione della soglia di
anomalia, resta comunque che il criterio del blocco
unitario appare convergente al medesimo scopo, la cui
rilevanza non è diminuita nel nuovo contesto (nel senso che
“la condivisibile ratio ‘antiturbativa’ non [possa]
considerarsi venuta meno solo per effetto del complesso
meccanismo introdotto dalla novellata disciplina dell’art.
97 del Codice in tema di esclusione automatica”, cfr.,
parere 361/2018 della Commissione speciale di questo
Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua, delle
linee guida ANAC);
c) piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior
criterio ermeneutico (cui sono altresì sottese, dal lato
delle stazioni appaltanti, commendevoli ragioni di certezza
operativa) appare il conservare e preservare, fino a
dimostrazione dell’espressa od implicita volontà contraria
del legislatore, tutti gli acquisiti presidi di
funzionalità, di efficienza, di trasparenza e
concorrenzialità dei procedimenti di evidenza pubblica.
---------------
... per la riforma della
sentenza 02.03.2018 n. 147 del Tar Umbria
(Sezione Prima), resa tra le parti;
...
Ritenuto che l’appello –che ripropone la questione, già
oggetto di divergenti ricostruzioni interpretative, da
ultimo superate dalla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., n.
5/2017, della corretta procedura di determinazione della
soglia di anomalia delle offerte, giusta il criterio del
c.d. taglio delle ali, per le procedure da aggiudicarsi
secondo il criterio del prezzo più basso– è, in forza delle
considerazioni che seguono, fondato e merita di essere
accolto;
Considerato che –nell’alternativa tra il criterio del
c.d. blocco unitario (c.d. criterio relativo, che
impone di considerare, ai fini della determinazione
matematica della soglia di anomalia, le offerte con identico
ribasso quali offerta unica, vuoi che si collochino al
margine delle ali, vuoi che si collochino all’interno delle
stesse) e il criterio c.d. assoluto (che impone,
all’incontro, la distinta considerazione delle singole
offerte, pur quando caratterizzate dal medesimo ribasso)– la
richiamata decisione dell’Adunanza plenaria (che peraltro
non si pronuncia sulle previsioni –comunque non applicabili
ratione temporis al caso deciso– del Codice degli
appalti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, in ordine
alle quali ha evidenziato la presenza di elementi di
continuità e di discontinuità) ha preferito il primo a causa
di vari argomenti:
a) sia di carattere testuale (discendenti dalla comparazione del
primo e del secondo periodo dell’articolo 121, comma 1,
primo e secondo periodo, del d.P.R. 05.10.2010, n. 207, dal
cui confronto emerge la distinzione tra le offerte
intermedie, escluse dal ‘taglio delle ali’ –per le
quali opera il c.d. criterio assoluto– e le offerte
estreme o marginali, interessate dal ‘taglio delle ali’,
per le quali opera invece il c.d. criterio relativo):
b) sia di carattere sistematico (connesse alla finalità complessiva
di salvaguardare l’interesse pubblico al corretto
svolgimento delle gare e a prevenire manipolazioni delle
gare e dei relativi esiti, ostacolando condotte collusive in
sede di formulazione delle percentuali di ribasso);
Ritenuto, per contro, che la sentenza appellata ha tratto
dalla sopravvenuta abrogazione della normativa regolamentare
dell’art. 121 d.P.R. n. 207 del 2010 e dalla riformulazione,
nell’art. 97 d.lgs. n. 50 del 2016, dell’abrogato art. 86
d.lgs. n. 163 del 2006, che, sia sul piano letterale che su
quello della corrispondente ragione, la soluzione meritasse
di essere rimodulata, venendo meno (con l’entrata in vigore
del nuovo Codice degli appalti e della corrispondente
attenuazione dei rischi di manipolazione della gara
derivanti dalla non prevedibilità del metodi di calcolo
della soglia di anomalia), le esigenze che avevano portato a
un’interpretazione teleologicamente orientata, sicché non vi
sarebbe ragione per non privilegiare ora il prioritario
criterio letterale, alla cui stregua –in conformità al
criterio c.d. assoluto– ogni offerta caratterizzata da
identico ribasso andrebbe computata, ai fini del taglio
delle ali, singolarmente e non (più) cumulativamente;
Ritenuto che detta conclusione, valorizzata in prime cure,
muove da un duplice e convergente tratto argomentativo:
a) che, per un verso (e in negativo) l’abrogazione dell’art.
121 d.P.R. n. 207 del 2010 avrebbe caducato il solo
riferimento positivo e testuale al criterio assoluto, così
manifestandosi una intenzione del legislatore nei sensi
della sua deliberata modificazione;
b) che per altro verso (e in positivo), l’introduzione di
una regola anticollusiva e proconcorrenziale (incentrata
sulla estrazione a sorte tra più, alternativi criteri di
individuazione dell’anomalia e sulla consequenziale “incalcolabilità”
preventiva ad opera delle imprese concorrenti) avrebbe eliso
la forza e la concludenza dell’argomento teleologico;
Considerato per il Collegio che la decisione merita di
essere rimodulata, in quanto:
a) è, anzitutto, manifesto che l’abrogazione dell’art. 121 cit. è
coerente con la sostituzione del Codice dei contratti
pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 con il d.lgs. n.
50 del 2016, sostituzione avvenuta senza essere accompagnata
da una disciplina secondaria esecutiva ed attuativa (a
quella preferendo ora la legge il sistema delle linee
guida): il che rende l’abrogazione, quanto al criterio in
esame, indifferente;
b) a sua volta, l’introduzione di altri strumenti anticollusivi non
vale, di suo, a dare per superate le esigenze a suo tempo
ritenute da Cons. Stato, Ad. plen., n. 5/2017 che
privilegiano, perché più confacente allo scopo, il
criterio c.d. assoluto: per quanto alla luce della
normativa sopravvenuta, appaia meno facile figurare
–mediante l’indebito concordamento delle modalità di
formalizzazione delle offerte– un’alterazione
anticoncorrenziale della determinazione della soglia di
anomalia, resta comunque che il criterio del blocco
unitario appare convergente al medesimo scopo, la cui
rilevanza non è diminuita nel nuovo contesto (nel senso che
“la condivisibile ratio ‘antiturbativa’ non [possa]
considerarsi venuta meno solo per effetto del complesso
meccanismo introdotto dalla novellata disciplina dell’art.
97 del Codice in tema di esclusione automatica”, cfr.,
parere 361/2018 della Commissione speciale di questo
Consiglio di Stato sull’aggiornamento, in parte qua,
delle linee guida ANAC);
c) piuttosto –nel silenzio del d.lgs. n. 50 del 2016– miglior
criterio ermeneutico (cui sono altresì sottese, dal lato
delle stazioni appaltanti, commendevoli ragioni di certezza
operativa) appare il conservare e preservare, fino a
dimostrazione dell’espressa od implicita volontà contraria
del legislatore, tutti gli acquisiti presidi di
funzionalità, di efficienza, di trasparenza e
concorrenzialità dei procedimenti di evidenza pubblica;
Ritenuto che, su tali basi, l’appello merita di essere
accolto, e con travolgimento della pedissequa condanna al
risarcimento del danno, che trae fondamento –nell’appellata
sentenza– dall’asserita illegittimità della aggiudicazione.
Sicché, in riforma della sentenza appellata, il ricorso di
primo grado va definitivamente respinto (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 21.06.2018 n. 3821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Esposizione di auto smantellata.
Il comune che accerta l'occupazione abusiva di un'area da parte di un
concessionario di autoveicoli deve ordinare l'immediata cessazione
dell'esposizione a cielo aperto. Anche se si tratta di una porzione di
terreno posizionata in una zona periferica degradata che è stata curata
negli anni grazie all'intervento del commerciante di automobili.
Lo ha
chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, con la
sentenza 09.08.2018 n. 8949.
Un concessionario della periferia romana si è allargato recintando un'area
confinante con la sua e posizionando negli anni in questo spazio una vera e
propria esposizione di veicoli a cielo aperto.
A seguito di un controllo della polizia municipale di Roma capitale il
dirigente capitolino ha ordinato l'immediata cessazione dell'occupazione
abusiva e l'interessato ha proposto ricorso contro questa determinazione. Ma
senza successo.
Non interessa tanto il fatto che i veicoli in questione siano solo in
esposizione e non in vendita, specifica il collegio. Quello che rileva è il
fatto che senza alcun titolo il commerciante abbia posizionato dei veicoli
su una porzione di terreno per esercitare la sua attività commerciale (articolo
ItaliaOggi del 25.08.2018).
---------------
MASSIMA
Rileva il Collegio che il presupposto in fatto delle censure dedotte
–secondo il quale la ricorrente avrebbe ottenuto l’area in questione in
affidamento in custodia a seguito di eventi di rilievo per l’ordine pubblico
puntualmente descritti in ricorso– è del tutto recessivo rispetto
all’oggetto del provvedimento impugnato, che è rivolto a determinare la
cessazione dell’attività di deposito a cielo aperto di autoveicoli,
questione che attiene all’utilizzazione in atto dell’area, non alla sua
titolarità in capo alla ricorrente stessa.
Quest’ultima trascura di considerare che la collocazione di
autoveicoli in area a cielo aperto in uso all’azienda comporta la
qualificazione dell’attività come di deposito, senza che rilevi lo specifico
scopo commerciale (che può variare a seconda della natura dell’attività di
impresa) ai fini del quale l’esposizione degli automezzi è rivolta e
finalizzata (in ordine al rapporto
tra il deposito a cielo aperto, l’attività di tipo imprenditoriale cui è
riferita e la necessità della SCIA, si veda TAR Lazio, II-ter, 18.01.2018 nr.
651; per il rapporto tra l’attività in parola ed il regime del titolo
edilizio, si veda, della stessa Sezione, sentenza nr. 11090 del 07.11.2017),
con la conseguenza che, ai fini dell’odierno giudizio, l’asserita
locazione finanziaria degli autoveicoli medesimi non implica la
qualificazione del relativo esercizio in termini di attività finanziaria
sottratta all’applicazione dell’art. 19 della l. 241/1990 (quanto al regime
delle attività semplificate, però, non nei termini della possibilità di
esercitare senza alcun titolo).
In ogni caso, non sussiste dimostrazione alcuna né della titolarità
dell’affidamento dell’area in custodia che parte ricorrente afferma, ma non
comprova, di avere ricevuto (peraltro da funzionari di altra
amministrazione, non proprietaria dell’area, né titolare di poteri di
amministrazione attiva di tipo territoriale); né della circostanza, del pari
meramente affermata, secondo la quale sarebbe stata comunicata l’attività di
collocazione della recinzione (ciò rileva sia ai fini della decorrenza dei
termini di cui alla seconda censura, sia al fine di
valutare la regolarità edilizia della recinzione, che, pertanto, allo stato
va ritenuta insussistente, dal momento che il relativo regime dipende dalle
caratteristiche tipologiche e rimane esclusa la necessità di un titolo solo
in caso di modesta consistenza senza opere murarie di alcun genere,
vedasi da ultimo Consiglio di Stato, IV 15.12.2017, n. 5908).
Nessuna delle censure dedotte può quindi trovare accoglimento, stante
l’irrilevanza della natura finanziaria o meno dell’attività, nonché essendo
palese l’insussistenza di qualsiasi legittimo affidamento (difettando un
provvedimento di assegnazione dell’area come pure un titolo per la sua
trasformazione), ed avendo riguardo alla completezza dell’istruttoria
condotta dall’ufficio (che aveva richiesto di dimostrare il titolo
dell’assegnazione dell’area).
Quanto agli ulteriori profili inerenti le spese eseguite dalla ricorrente
sull’area, deve affermarsi che l’espletamento di fatto dell’attività
sull’area ed il relativo possesso, ancorché prolungato, non costituiscono
titolo per il permanere dell’occupazione dell’area pubblica ai fini del
deposito a cielo aperto; ogni questione inerente il rapporto economico tra
il valore e l’utilità dell’occupazione, anche sotto il profilo della tutela
di ordine pubblico della zona, si colloca in fase esecutiva della
determinazione impugnata ed attiene allo stato a poteri non ancora
esercitati (non risultando avanzata dalla ricorrente alcuna richiesta di
indennizzo o di risarcimento, né, di converso, adottata alcuna
determinazione in merito da parte dell’Amministrazione), con conseguente
impossibilità per il giudice di pronunciarsi al riguardo.
Resta salva, naturalmente, l’azione della PA cui compete di valutare, nel
procedimento amministrativo, ogni eventuale istanza che il privato riterrà
di proporre ai fini della valutazione del valore delle opere eseguite.
Il ricorso è quindi infondato e come tale va respinto, con ogni conseguenza
in ordine alle spese di lite che si liquidano come in dispositivo. |
EDILIZIA PRIVATA:
In
ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto di
veicoli, l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita e
la necessità della SCIA.
Ai
fini del decidere appaiono rilevanti i presupposti di fatto
e le determinazioni assunti con l’ordinanza impugnata e,
quindi, gli aspetti qualificanti la specifica attività
svolta sul terreno, consistente in un deposito a cielo
aperto di veicoli che “non
può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione
amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai
sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene, partendo dalla qualificazione dell’attività come
descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di
automezzi di proprietà da destinare all’attività del
servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del
contratto di appalto in essere con il Comune e non
deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico
dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle
modalità di esecuzione del servizio, come indicate
nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del
servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come
indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di
deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio
(con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del
capitolato) costituisce componente necessaria per
l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e
trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è
attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma
(trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la
disponibilità).
Sicché, non è possibile equiparare l’attività della
ricorrente riguardo il deposito-stazionamento degli
automezzi da adibire per il predetto servizio a quella del
soggetto privato che parcheggia la propria vettura nel
garage di casa o su un terreno in locazione per tale scopo,
come sostenuto, ipotesi non necessarie di autorizzazione.
Nella specie, va rilevato
che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività
imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato
di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi
(che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un
pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata
per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il
deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella
articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei
beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa,
come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a
Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione
dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d.
Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un
atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno
strumento di massima semplificazione quale manifestazione di
autonomia privata con cui l’interessato certifica la
sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a
presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata
ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché
assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post.
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative
alla violazione della normativa in materia di c.d.
Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari
comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza
in materia secondo cui il principio della liberalizzazione
prelude a una razionalizzazione della regolazione, che
elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio
dell'attività economica che si rivelino inutili o
sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative
necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si
svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto
conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella
relativa legislazione a tutela del bene “salute” e
della “sicurezza dei lavoratori”.
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di
attività che necessita di un pubblico controllo ed involge
la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che
dagli atti di causa non risulta in modo evidente che
nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio
temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la
necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
---------------
2. La controversa vicenda è volta all’annullamento
dell’ordinanza n. 9 del 29.07.2016 emessa dal Comune di
Fiumicino nei confronti della società ricorrente nonché
della successiva nota prot. n. 21802 del 12.08.2016 di
rigetto dell’istanza di riesame proposta dalla società.
In particolare con l’ordinanza il Comune ha disposto a
carico della società ricorrente la cessazione dell’attività
abusivamente intrapresa di deposito a cielo aperto di
veicoli (mezzi Ama) su terreno in locazione, in quanto
attività sprovvista della prescritta autorizzazione
amministrativa o segnalazione certificata di inizio attività
Scia ex art. 19 della legge n. 241 del 1990, previa
contestazione con nota n. 28020/16 della violazione
dell’art. 33 del Reg. di P.U.
2.1. Osserva il Collegio che la contestazione di fondo della
ricorrente, come sopra riportato, verte sul profilo della
carenza di motivazione, sul travisamento dei fatti e la
carenza di istruttoria e sulla erronea valutazione del
Comune riguardo la pretesa Scia per il deposito dei veicoli,
in quanto non si tratterebbe di attività abusiva di deposito
di veicoli da considerare “merce” per l’esercizio
dell’attività, come tale soggetta a Scia, ma di uno
stazionamento temporaneo di automezzi di proprietà da
destinare all’attività del servizio di raccolta e trasporto
rifiuti in adempimento del contratto di appalto in essere
con il Comune di Roma.
Preliminarmente occorre perimetrare l’oggetto del contendere
che non attiene ai profili urbanistico-edilizi del terreno,
abusivamente modificato da lavori eseguiti sullo stesso,
risultando ininfluenti i riportati tratti del parallelo
contenzioso presso il g.o., puntualmente svolti in fatto
dalla ricorrente, in quanto ai fini del decidere appaiono
rilevanti i presupposti di fatto e le determinazioni assunti
con l’ordinanza impugnata e, quindi, gli aspetti
qualificanti la specifica attività svolta sul terreno,
consistente in un deposito a cielo aperto di veicoli che “non
può essere esercitata senza la prescritta autorizzazione
amministrativa, o senza aver presentato la relativa Scia ai
sensi dell’art. 19 della L. 241/1990” .
Orbene partendo dalla qualificazione dell’attività come
descritta da parte ricorrente -stazionamento temporaneo di
automezzi di proprietà da destinare all’attività del
servizio di raccolta e trasporto rifiuti in adempimento del
contratto di appalto in essere con il Comune di Roma e non
deposito di veicoli quali merce per l’esercizio tipico
dell’attività svolta– occorre rilevare che dall’esame delle
modalità di esecuzione del servizio, come indicate
nell’allegato contratto di appalto, e dalla descrizione del
servizio e delle modalità di svolgimento dello stesso, come
indicata nel capitolato d’appalto, l’attività di
deposito-stazionamento degli automezzi adibiti al servizio
(con caratteristiche di impiego indicate nell’art. 8 del
capitolato) costituisce componente necessaria per
l’esercizio dell’attività del servizio di raccolta e
trasporto dei rifiuti in questione svolta dalla società ed è
attività ad essa strettamente funzionale, anche se autonoma
(trattandosi di mezzi propri o di cui abbia la
disponibilità).
Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente non è
possibile equiparare l’attività della ricorrente riguardo il
deposito-stazionamento degli automezzi da adibire per il
predetto servizio a quella del soggetto privato che
parcheggia la propria vettura nel garage di casa o su un
terreno in locazione per tale scopo, come sostenuto, ipotesi
non necessarie di autorizzazione; nella specie, va rilevato
che la società ricorrente agisce quale esercente un’attività
imprenditoriale ossia quella oggetto del servizio espletato
di raccolta e trasporto dei rifiuti realizzata con automezzi
(che dovranno riportare in evidenza, su ciascun lato, un
pannello o adesivo con la scritta “Raccolta differenziata
per conto AMA Spa – Roma Capitale”) e il
deposito-stazionamento di tali mezzi rientra nella
articolazione del servizio svolto e dunque nel complesso dei
beni organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa,
come tale soggetto ad autorizzazione amministrativa ovvero a
Scia, per effetto della deprovvedimentalizzazione
dell'attività amministrativa a seguito delle norme di c.d.
Liberalizzazioni.
La Scia, com'è oramai da ritenersi acquisito, rappresenta un
atto soggettivamente e oggettivamente privato ossia uno
strumento di massima semplificazione quale manifestazione di
autonomia privata con cui l’interessato certifica la
sussistenza dei presupposti in fatto e in diritto allegati a
presupposto del legittimo esercizio dell’attività segnalata
ammessa dalla legge e, come tale, libera, ancorché
assoggettata a un regime amministrativo di controllo ex post
(cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 05.07.2016, n. 7707; idem,
02.11.2016, n. 10809; Tar Campania, Napoli, sez. II,
25.07.2016, n. 3869; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 09.02.2017,
n. 203).
Riguardo a ciò non sono condivisibili le censure relative
alla violazione della normativa in materia di c.d.
Liberalizzazioni e disapplicazione delle norme regolamentari
comunali, attesa la posizione costante della giurisprudenza
in materia secondo cui il principio della liberalizzazione
prelude a una razionalizzazione della regolazione, che
elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio
dell'attività economica che si rivelino inutili o
sproporzionati e, dall'altro, però mantenga “le normative
necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si
svolgano in contrasto con l'utilità sociale” tenuto
conto altresì delle espresse deroghe contemplate nella
relativa legislazione a tutela del bene “salute” e
della “sicurezza dei lavoratori” (cfr. Corte Cost.
23.01.2013, n. 8).
E d’altro canto è indubbio che nella specie si tratta di
attività che necessita di un pubblico controllo ed involge
la cura di interessi pubblici (in disparte comunque che
dagli atti di causa non risulta in modo evidente che
nell’area adibita a deposito si svolga anche lo stoccaggio
temporaneo dei rifiuti essendo in tal caso indiscutibile la
necessità di apposito titolo e di autorizzazione sanitaria).
Per quanto riguarda, infine, il difetto di motivazione
dell’impugnato provvedimento il Collegio osserva che l’atto
de quo non presenta deficit motivazionale in ragione
dell’indicato presupposto di fatto accertato (attivazione di
attività con deposito senza autorizzazione o Scia) nonché
dei richiami normativi contenuti; inoltre la natura
vincolata del provvedimento fa sì che lo stesso sconti in
sede procedimentale la sola verifica di conformità al
paradigma normativo di riferimento; sicché, ogni vizio di
carattere formale e/o procedimentale non assume nella
fattispecie valore viziante (art. 21-octies, L. n. 241 del
1990).
In definitiva, il ricorso è infondato e va, dunque, respinto (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 18.01.2018 n. 651 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In
ordine al rapporto tra il deposito a cielo aperto,
l’attività di tipo imprenditoriale cui è riferita ed il
regime del titolo edilizio.
La
regolarità urbanistica ed edilizia dell’immobile che ospita
l’attività commerciale è una delle condizioni oggettive di quest’ultima,
in assenza della quale l’Amministrazione esercita i propri
poteri di intervento conseguenti alla mancanza dei requisiti
dell’attività privata.
---------------
La trasformazione di un manufatto ai fini
dell’individuazione della corretta disciplina edilizia ed
urbanistica, va apprezzata nella sua globalità e
nell’assetto finale della sua consistenza, senza che sia
possibile scindere il risultato unitario nelle singole
operazioni che lo compongono (così da sostituire il permesso
a costruire con la somma di singole operazioni edilizie da
assoggettarsi a DIA o SCIA), con conseguente insufficienza
della DIA relativa alla sola recinzione a consentire l’uso
dell’intera area come deposito.
---------------
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la
realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art.
3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia
diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e
comporti la trasformazione permanente dello stato dei
luoghi, necessita del permesso di costruire, non essendo
riconducibile al regime delle pertinenze.
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area
siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile:
le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del
manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite
al momento della presentazione della SCIA di avvio e se
queste difettano perché –in tesi– sono state operate
trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla
precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente
dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla
condizione dell’immobile e non si verte intorno a
provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento
della responsabilità del soggetto agente.
---------------
Nell’odierno giudizio, parte ricorrente agisce per
l’annullamento degli atti impugnati con i quali
l’Amministrazione intimata ha dichiarato l’inefficacia della
SCIA di avviamento dell’attività commerciale della
ricorrente stessa, nel presupposto della mancanza di
conformità urbanistica dell’immobile nel quale è condotta.
Prima di procedere all’esame delle ragioni di censura, è
bene premettere che la regolarità urbanistica ed edilizia
dell’immobile che ospita l’attività commerciale è una delle
condizioni oggettive di quest’ultima, in assenza della quale
l’Amministrazione esercita i propri poteri di intervento
conseguenti alla mancanza dei requisiti dell’attività
privata (da ultimo, vedasi TAR Lazio, II-ter, 16.06.2017, nr.
07097 e 19.09.2017, nr. 9820/2017, nonché richiami ivi
contenuti).
Nel caso di specie, secondo l’Amministrazione l’uso
dell’area utilizzata dalla ricorrente per l’esposizione a
cielo aperto di veicoli destinati alla vendita avrebbe
necessitato di un permesso a costruire, a mente del
combinato disposto di cui all’art. 3, punto 1- lett. 7 del
DPR 380/2001 (applicabile ratione temporis),
sussistendo trasformazione del suolo.
L’effettiva sussistenza di tale ultima condizione è stata
l’oggetto dell’indagine svolta a seguito della fase
cautelare.
Alla luce delle risultanze di giudizio, il ricorso si rivela
infondato e come tale va respinto.
Dagli atti depositati da parte di Roma Capitale, emerge che,
con DD del 17.01.2005, a seguito di sopralluogo
dell’08.11.2004 e con DD n. 53 del 13.01.2006 era stata
riscontrata la realizzazione abusiva di un manufatto
prefabbricato in legno di circa mq 30 (uso ufficio); un
secondo manufatto, sempre prefabbricato, di circa 16,00 mq,
con antistante veranda (uso ufficio); una tettoia in legno e
pilastri infissi a terra per circa 72 mq, adibita a
lavorazione del legno; un box prefabbricato in legno,
adibito a magazzino, per circa 15,0 mq.
Sull’area di interesse sussisteva, dunque, una pregressa
situazione di abusivismo che ha comportato l’emanazione
della DD di demolizione e ripristino nr. 53 del 13.01.2006,
di cui però non si conosce l’esito.
Dal sopralluogo effettuato il 26.10.2016 emerge la
presenza di un primo manufatto di circa 28,00 mq, che la
parte ricorrente dichiara di aver chiesto di sanare,
producendo poi, da ultimo, il relativo provvedimento nr.
383540 del 23.06.2017.
Quanto a tale aspetto, deve convenirsi con Roma Capitale
circa l’irrilevanza della sanatoria del fabbricato, posto
che si tratta di un elemento della fattispecie sopravvenuto
rispetto agli atti impugnati (e dunque dovrà eventualmente
tenersene conto in esito all’eventuale riproposizione di una
istanza da parte della ricorrente, in quella sede
verificando la pertinenza o meno del manufatto rispetto
all’area di interesse); in ogni caso, dal confronto tra la
descrizione degli abusi edilizi oggetto dei provvedimenti di
demolizione sopra indicati e la descrizione degli abusi
oggetto del provvedimento di sanatoria da ultimo
intervenuto, non si evince una perfetta corrispondenza, e
dalle risultanze del sopralluogo emerge la presenza di un
secondo manufatto (di mt. 1,50 x 1,50), del quale non
risultano i titoli edilizi. Altresì risulta, sempre dal
sopralluogo, la realizzazione di un impianto di
illuminazione e l’adeguamento del selciato con collocazione
di materiale inerte, opere che implicano, di per sé,
trasformazione del suolo.
Si aggiunga che –differenza di quanto dichiarato dalla
ricorrente nell’apposita asseverazione– l’area è gravata dal
vincolo paesaggistico ed archeologico (nota prot.
194799/2015 del 10.11.2015), circostanza in ordine alla
quale non risultano efficaci controdeduzioni sostanziali.
Pertanto, anche ad attenersi alla sola situazione descritta
nel sopralluogo da ultimo svolto in contraddittorio (dal
momento che, per quanto sopra indicato, non è chiaro se i
manufatti oggetto degli accertamenti operati nel 2004 sono
stati demoliti a seguito della DD nr. 53/2006 e, laddove
persistano, siano inclusi nell’area oggetto della SCIA), è
infondata la principale censura di gravame secondo cui non
sarebbe stato necessario il permesso di costruire ai fini
della regolarità urbanistica dell’immobile, rendendosi
invece necessario quest’ultimo.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, peraltro, la
trasformazione di un manufatto ai fini dell’individuazione
della corretta disciplina edilizia ed urbanistica, va
apprezzata nella sua globalità e nell’assetto finale della
sua consistenza, senza che sia possibile scindere il
risultato unitario nelle singole operazioni che lo
compongono (così da sostituire il permesso a costruire con
la somma di singole operazioni edilizie da assoggettarsi a
DIA o SCIA; vedasi TAR Lazio, II-ter, 13.07.2016, nr. 8058 e
16.06.2017, nr. 7092; v. anche TAR Napoli, VIII 08.11.2012
n. 4496), con conseguente insufficienza della DIA relativa
alla sola recinzione a consentire l’uso dell’intera area
come deposito.
Nessuna delle censure o degli argomenti dedotti a sostegno,
può quindi trovare condivisione.
Pacifica, secondo la giurisprudenza, è la circostanza che la
realizzazione di un deposito-merci, che, a norma dell'art.
3, comma primo, lett. e, 5) e 7), d.P.R. n. 380/2001, sia
diretto a soddisfare esigenze non meramente temporanee e
comporti la trasformazione permanente dello stato dei luoghi
necessita del permesso di costruire, non essendo
riconducibile al regime delle pertinenze (vedasi, tra le
tante, Cass. pen. Sez. III, sent. n. 6593 del 24.11.2011;
Sez. III, n. 8064 del 02.12.2008; Tar Piemonte, Torino,
18.01.2017, n. 134).
Irrilevante è la circostanza che le trasformazioni dell’area
siano o meno imputabili a gestioni precedenti dell’immobile:
le condizioni di conformità urbanistica ed edilizia del
manufatto che ospita l’attività commerciale vanno riferite
al momento della presentazione della SCIA di avvio e se
queste difettano perché –in tesi– sono state operate
trasformazioni del bene senza il prescritto titolo dalla
precedente proprietà dell’immobile, la SCIA va egualmente
dichiarata priva di efficacia perché ciò consegue alla
condizione dell’immobile e non si verte intorno a
provvedimenti sanzionatori che presuppongono l’accertamento
della responsabilità del soggetto agente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 07.11.2017 n. 11090 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROGETTUALI: Stop
ai bandi pubblici senza compenso per il professionista.
Dal Tar Calabria stop ai bandi pubblici gratis.
A ribadire il concetto è il TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I, che, con la
sentenza 02.08.2018 n. 1507, ha annullato la delibera della
giunta del comune di Catanzaro n. 33 del 17.02.2016 dedicata alla
realizzazione del piano strutturale comunale.
La sentenza del tribunale è contraria a quanto dichiarato dal Consiglio di
stato con la sentenza 4614/2017, che aveva dichiarato legittimo il bando
emesso dal comune calabrese.
Il bando in questione, e la successiva sentenza del Cds, sono state tra le
cause scatenanti della manifestazione organizzata dalle varie categorie alla
fine del 2017 per la definizione di una norma per tutelare i compensi dei
lavoratori autonomi e alla conseguente riapertura della discussione sul
tema, conclusasi poi con l'approvazione della norma sull'equo compenso per i
professionisti avvenuta con la legge di bilancio 2017.
Il tribunale amministrativo ha accolto il ricorso contro il bando comunale
presentato da un ingegnere, peraltro neanche abilitato a poter prendere
parte alla gara. Il ricorso si basava sul fatto che, per l'espletamento
delle attività preposte nel bando, non vi fosse previsto un compenso per il
professionista incaricato ma solo un rimborso spese (seppur di 250 mila
euro).
Secondo il tribunale la gratuità del bando non è legittima perché in
violazione del codice degli appalti (dlgs 50/2016), in particolare nella
parte in cui viene stabilita l'essenziale onerosità degli appalti pubblici e
l'illegittimità di quelli che prevedano solo forme di rimborso spese o di
forme di compenso non finanziarie.
Se il codice degli appalti è il pilastro su cui si basa la sentenza del Tar
Calabria, nel dispositivo viene fatto uno specifico riferimento alla norma
sull'equo compenso approvata in legge di bilancio. La disposizione non può
trovare applicazione nel caso in questione, in quanto avvenuto prima
dell'approvazione della norma.
Però «le ricordate disposizioni (equo compenso), non direttamente
applicabili alla vicenda in esame, nondimeno lasciano emergere come
nell'ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al
lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo, una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto»
(articolo
ItaliaOggi del 14.08.2018).
----------------
MASSIMA
1. – Gi.An., ingegnere, ha impugnato d’innanzi a questo Tribunale
Amministrativo Regionale il bando e il disciplinare di gara con i quali il
Comune di Catanzaro ha messo a gara l’affidamento dell’incarico per la
redazione del nuovo piano strutturale comunale, nonché le delibere
prodromiche all’indizione della gara.
Con motivi aggiunti egli ha impugnato anche gli atti attraverso i quali si è
giunti all’affidamento dell’incarico al R.T.I. St.As. d:rh architetti ed
associati / Cr. S.r.l. Società di Ingegneria.
...
6. – Gi.An. ha impugnato la legge speciale di gara anche nella parte in cui
prevede che l’incarico sia a titolo gratuito, salvo un rimborso delle spese
sino ad un ammontare massimo di € 250.000,00.
6.1. – Egli ritiene che tale clausola sia illegittima sotto vari profili e,
in particolare, si ponga in contrasto con le norme del codice civile e del
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, dalle quali si ricaverebbe l’essenziale onerosità
degli appalti pubblici.
Tale illegittimità precluderebbe una seria partecipazione alla gara e,
pertanto, potrebbe essere fatta valere impugnando immediatamente il bando di
gara, senza la necessità di presentare domanda di partecipazione alla
procedura.
6.2. – Il Collegio conviene che la clausola che preveda la gratuità della
prestazione in favore dell’amministrazione pubblica sia, ove effettivamente
risulti essere illegittima, immediatamente lesiva della posizione giuridica
soggettiva dell’operatore che, pur essendo interessato a svolgere il
servizio, non intenda prestare gratuitamente la propria opera.
Si tratta, invero, di una clausola preclusiva della partecipazione, in
quanto impedisce di presentare un’offerta economicamente valida a colui che
non intenda prestare gratuitamente la propria opera.
La clausola è, pertanto, immediatamente impugnabile e Gi.An., pur non avendo
partecipato alla procedura, è legittimato a ricorrere al giudice
amministrativo per farne valere l’illegittimità.
7. – Nel merito della questione, il Tribunale, pur consapevole del diverso
avviso espresso dal giudice dell’appello (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
03.10.2017, n. 4614), ritiene di dover ribadire il proprio orientamento,
espresso con la sentenza del 13.12.2016, n. 2435, con la quale, su ricorso
degli ordini professionali interessati, era stato ritenuto illegittimo
proprio il bando nuovamente oggetto di sindacato.
8. – Possono dunque richiamarsi le motivazioni già rassegnate, con cui è
stata data risposta negativa alla questione giuridica concernente la
configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito, ovvero
“atipico” rispetto alla disciplina normativa di cui al d.lgs. n. 50
del 2016.
9. – In effetti, la qualificazione dell’oggetto della gara in esame
–peraltro formalmente riconosciuta dalla stessa Amministrazione nel richiamo
alle diverse norme del d.lgs. n. 50 del2016– quale appalto di servizi è
desumibile dalla natura imprenditoriale che si richiede all’organizzazione
delle risorse, soprattutto umane, da parte dell’operatore economico
partecipante, in considerazione della peculiare complessità dell’oggetto
della specifica organizzazione e dalla predeterminazione della sua durata (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2012, n. 2370; Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2000,
n. 1019).
L’affidamento ha infatti ad oggetto la “elaborazione, stesura e redazione
integrale del Piano Strutturale del Comune di Catanzaro” e di tutte le
norme, discipline, atti, piani, programmi e accordi di governo del
territorio, di settore e di programmazione, comunque correlati (ivi compresa
la redazione del regolamento edilizio e urbanistico); ovvero la redazione di
un atto di pianificazione territoriale, compresa la relativa necessaria “Valutazione
Ambientale Strategica”, che non tenga conto solo del profilo
urbanistico, ma anche dei diversi profili connessi (specificatamente
indicati: geologici, idrogeologici, sismici, ambientali, culturali,
tecnologici, storico-architettonici, socio-demografici, economici); la
natura organizzativo-imprenditoriale è peraltro imposta dalla stessa
stazione appaltante che richiede specificamente all’operatore di avvalersi
di una pluralità di figure professionali, specializzate in funzione delle
diverse competenze tecniche richieste dalla particolare complessità del
servizio di progettazione (cfr. art. 1, lett. b, n. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, del
capitolato speciale di appalto.
L’appalto pubblico di servizi rientra, come è noto, nella categoria dei “contratti
speciali di diritto privato” connotata da una disciplina, di derivazione
europea, derogatoria dei contratti di diritto comune, in ragione degli
interessi pubblici sottesi e della natura soggettiva del contraente
pubblico, e che trova la sua principale fonte nel cd. Codice di Contratti
Pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016). Non vi è dubbio che, alla stregua di tale
normativa speciale, il contratto di appalto sia contraddistinto dalla
necessaria “onerosità” e sinallagmaticità delle prestazioni, essendo
connotato sia dalla sussistenza di prestazioni a carico di entrambe le parti
che dal rapporto di reciproco scambio tra le stesse.
E’ sufficiente sul punto richiamare la definizione normativa di cui all’art.
3, co. 1, lett. ii), di “appalti pubblici” di cui al d.lgs. n. 50 del
2016 quali contratti a titolo oneroso e stipulati per iscritto; e, quanto
alla tipologia dei “servizi di architettura ed ingegneria e altri servizi
tecnici” alla definizione rinvenibile nell’art. 3 lett. vvvv) come
quelli “riservati ad operatori economici esercenti una professione
regolamentata ai sensi dell’art. 3 della Direttiva 2005/36/CE”.
A tale specifica tipologia di servizi fa inoltre riferimento anche la norma
di cui all’art. 95, co. 3, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016 che
stabilisce come obbligatorio il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo,
nell’ipotesi di contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria
e architettura, e degli altri servizi di natura tecnica ed intellettuale, di
importo superiore a € 40.000,00, così confermando la necessità che sia
specificato il valore della prestazione richiesta, ovvero che sia previsto
come elemento essenziale del contratto il corrispettivo.
Sul punto, come correttamente rappresentato da parte ricorrente, assumono
particolare rilievo le linee guida n. 1 e 2 adottate dall’ANAC,
rispettivamente con delibera del 14 e del 21.09.2016.
Con le prime, recanti Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria, e dirette a garantire la
promozione dell’efficienza, della qualità delle stazioni appaltanti, della
omogeneità dei procedimenti amministrativi ex art. 213, comma 2, d.lgs. n.
50 del 2016, si sottolinea l’esigenza che il corrispettivo degli incarichi e
servizi di progettazione ai sensi dell’art. 157 del Codice degli Appalti
venga determinato secondo criteri fissati dal decreto del Ministero della
Giustizia 17.06.2016 “nel rispetto di quanto previsto dall’art. 9, co. 2,
del decreto 24.01.2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla Legge
24.03.2012 n. 27, così come ulteriormente modificato dall’art. 5 della legge
134/2012”, al fine di garantire anche il controllo da parte dei potenziali
concorrenti della congruità della remunerazione”.
Con le Linee Guida n. 2 “Offerta economicamente più vantaggiosa”, si
specifica che la valutazione dell’offerta sulla base di un prezzo o costo
fisso è ammessa solo entro i limiti rigorosi dell’art. 95, comma 7, del
Codice, ovvero o nell’ipotesi in cui esso sia rinvenibile sulla base di “disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative relative al prezzo di
determinate forniture o alla remunerazione di servizi specifici”, o, in
mancanza, “valutando con attenzione le modalità di calcolo o di stima del
prezzo o costi fisso. Ciò al fine di evitare che il prezzo sia troppo
contenuto per permettere la partecipazione di imprese “corrette” o troppo
elevato, producendo danni per la stazione appaltante”; fermo restando,
in questa ultima ipotesi, l’obbligo di un particolare impegno motivazionale
dal quale emerga l’iter logico comunque seguito per la determinazione del
prezzo fisso, a garanzia della imparzialità della scelta del contraente e in
generale dell’obiettivo che la concorrenza si svolga nel rispetto della
sostenibilità economica e quindi “serietà” delle offerte.
La necessaria predeterminazione del prezzo del servizio oggetto di appalto,
anche quando tale componente quantitativa sia valutata unitamente a quella
qualitativa, nell’ottica del legislatore sia nazionale che europeo, è
funzionale a garantire il principio di qualità della prestazione e della
connessa affidabilità dell’operatore economico, rispetto al quale va
contemperato e per certi versi anche “misurato” il principio generale
di economicità, cui solo apparentemente sembra essere coerente il risparmio
di spesa indotto dalla natura gratuita del contratto di appalto “atipico”.
Il principio della qualità delle prestazioni che l’amministrazione
aggiudicatrice intende acquistare sul mercato e che, in termini economici,
si traduce nella “serietà” dell’offerta sotto il profilo
quantitativo, è infatti alla base della regolamentazione specifica
dell’anomalia dell’offerta (ora disciplinata dall’art. 97 del Codice degli
Appalti), poiché, anche nella prospettiva del perseguimento da parte
dell’amministrazione del “risparmio di spesa”, le offerte che
appaiono “anormalmente basse rispetto ai lavori, alle forniture o ai
servizi potrebbero basarsi su valutazioni o prassi errate dal punto di vista
tecnico, economico o giuridico” (considerando 103 della Direttiva
2014/24 UE), così rischiando di rivelarsi, nel lungo periodo, poco
convenienti, foriere di ritardi, inadempimenti, contenziosi giurisdizionali
(cfr. Corte Cost. 05.03.1998 n. 40 i cui principi sono applicabili anche nel
vigore delle norme attuali; cfr. anche TAR Lombardia–Brescia, Sez. I,
09.07.2007 n. 621).
10. – Alla luce della natura essenzialmente onerosa del contratto di appalto
pubblico di servizi, devono ritenersi pertanto fondate le censure di
violazione delle norme del Codice degli appalti sopra indicate, che, come
indicato in premessa, costituiscono applicazioni specifiche del principio di
onerosità del contratto di appalto di servizi.
11. – Per mera completezza di motivazione pare opportuno aggiungere che ad
una diversa figura contrattuale, quella del contratto di opera di
prestazione professionale intellettuale ex art. 2230 e ss.cc. si riferisce
invece la delibera della Corte dei Conti sezione regionale di controllo per
la Calabria del 29.01.2016 n. 6, cui rinvia espressamente la determinazione
del Comune del 24.10.2016, n. 3059.
La considerazione che, almeno per una parte della giurisprudenza civilistica,
il corrispettivo in tale tipo contrattuale sia considerato quale elemento “naturale”
e non essenziale del contratto non rileva nel caso di specie, poiché, anche
alla stregua della disciplina civilistica, il contratto in controversia deve
essere invece qualificato come appalto di servizi, poiché connotato dalla
organizzazione dell’attività di servizi in forma imprenditoriale (cfr. Cass.
12519/2010); in quanto tale “tipicamente” oneroso e commutativo anche
secondo la disciplina civilistica, come attestato dall’art. 1657 c.c. che,
in caso di mancata determinazione del corrispettivo, rimette in via
sussidiaria tale determinazione al giudice; né il contratto di appalto
pubblico di servizi “gratuito” potrebbe essere configurato facendo
leva sulla generale capacità dell’amministrazione di stipulare contratti
atipici ex art. 1322 c.c., la quale deve essere comunque esercitata
compatibilmente la realizzazione degli interessi pubblici, ostandovi, da un
lato, la natura “speciale” e vincolante della disciplina
pubblicistica dei contratti di appalto; dall’altro, la considerazione che,
proprio alla luce dei principi di imparzialità, tutela della concorrenza ed economicità dell’azione amministrativa cui risponde il requisito della “onerosità”
del contratto di appalto di servizi come sopra indicato, il contratto di
appalto pubblico di servizi “atipico” perché gratuito non supererebbe
comunque il vaglio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2 c.c..
12. – Riportate, ai §§ 9-11, le motivazione della sentenza del 13.12.2016,
n. 2435, si intende operare qualche ulteriore riflessione, anche alla luce
delle sopravvenienze normative, che a parere del Collegio avvalorano la
soluzione cui in quella sede si era giunti.
12.1. – In primo luogo, con la l’art. 12 l. 22.05.2017 n. 81, la quale reca
“Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure
volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del
lavoro subordinato”, è stato imposto alle amministrazioni pubbliche di
promuovere la partecipazione dei lavoratori autonomi nelle gare di appalti
pubblici per la prestazione di servizi o ai bandi per l’assegnazione di
incarichi. In tal modo, viene espressamente riconosciuto un notevole rilievo
ai lavoratori autonomi nella dinamica delle relazioni economiche.
12.2. – Più significativamente, la l. 04.12.2017, n. 172, nel convertire
d.l. 16.10.2017, n. 148, vi ha inserito l’art. 19-quaterdecies, il quale, al
comma 3, stabilisce che la pubblica amministrazione, in attuazione dei
principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività,
garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni
rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di
entrata in vigore della citata legge di conversione.
Il compenso si intende equo, ai sensi del comma 2 dell’art. 13-bis l.
31.12.2012, n. 247, che proprio il citato art. 19-quaterdecies ha introdotto
e reso applicabile a tutti i professionisti, se è proporzionato alla
quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle
caratteristiche della prestazione.
12.3. – Le ricordate disposizioni, non direttamente applicabili –lo si
ribadisce– alla vicenda in esame, nondimeno lasciano emergere come
nell’ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al
lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro.
Non a caso, l’art. 35 Cost. tutela il lavoro “in tutte le sue forme e
applicazioni”, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto
alla retribuzione, non discrimina tra le varie forme di lavoro.
12.4. – Ebbene, la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a
titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto a tale affresco, tenuto conto
che non ogni servizio prestato reca con se vantaggi curricolari e di
immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali
da soddisfare il diritto a un equo compenso.
Ciò, invero, pare al Collegio avvalorare la ricostruzione del sistema
adottata da questo Tribunale.
13. – In conclusione, il ricorso va accolto e gli atti oggetto di
impugnazione annullati.
Le parti non hanno dedotto che sia stato stipulato il contratto tra
l’amministrazione e il soggetto aggiudicatario, cosicché non occorre su di
esso pronunziare. |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
Sulla competenza, o meno, di un ingegnere meccanico in materia di
pianificazione urbanistica e territoriale.
Sino alla riforma dell’Albo degli ingegneri,
avvenuta con gli artt. 45 ss. d.P.R. 05.06.2001, n. 328, la professione di
ingegnere era unitaria.
Colui che era laureato in ingegneria meccanica, dunque, poteva, una volta
superato l’esame di abilitazione alla professione e una volta iscritto
all’Albo, esercitare la professione di ingegnere che, ai sensi dell’art. 51
r.d. 23.10.1925, n. 2537, ricomprende “il progetto, la condotta e la
stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali
direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le
industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di
deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine
ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della
fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”.
Con il citato d.P.R. n. 328 del 2001 è stata prevista la ripartizione
dell’Albo in due sezioni, la A (per coloro che abbiano conseguito la laurea
magistrale) e la B (per coloro che abbiano conseguito la laurea triennale).
Entrambe le sezioni sono articolate in tre settori: civile e ambientale;
industriale; dell’informazione.
Ai sensi dell’art. 49 del testo normativo, coloro che già appartenevano
all'Ordine degli ingegneri al momento della riforma dell’Albo sarebbero
stati iscritti nella sezione A dell'albo degli ingegneri, nonché nel
settore, o nei settori, per il quale ciascuno di essi dichiara di optare.
----------------
MASSIMA
1. – Gi.An., ingegnere, ha impugnato d’innanzi a questo Tribunale
Amministrativo Regionale il bando e il disciplinare di gara con i quali il
Comune di Catanzaro ha messo a gara l’affidamento dell’incarico per la
redazione del nuovo piano strutturale comunale, nonché le delibere
prodromiche all’indizione della gara.
Con motivi aggiunti egli ha impugnato anche gli atti attraverso i quali si è
giunti all’affidamento dell’incarico al R.T.I. St.As. d:rh architetti ed
associati / Cr. S.r.l. Società di Ingegneria.
...
5. – Venendo all’esame dei motivi di ricorso, occorre interrogarsi sulla
legittimazione del ricorrente a proporre l’azione oggi in esame.
5.1. – Va premesso, in proposito, che Gi.An. non ha partecipato alla gara.
Egli, infatti, ha conseguito nel 1955 la laurea in ingegneria meccanica,
mentre il disciplinare di gara prevede che il progettista responsabile del
gruppo di progettazione sia in possesso della laurea in pianificazione
urbanistica e territoriale o in architettura o in ingegneria civile.
In proposito, ritiene il Collegio che non si si possa ritenere
l’equipollenza tra la laurea in ingegnera meccanica conseguita dal
ricorrente e quelle richieste dal bando.
Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, ove il bando richieda per la
partecipazione ad un pubblico concorso il possesso di un determinato titolo
di studio o di uno ad esso equipollente, la determinazione dello stesso deve
essere intesa in senso tassativo, con riferimento alla valutazione di
equipollenza formulata da un atto normativo e non può essere integrata da
valutazioni di tipo sostanziale compiute ex post dall'amministrazione
(Cons. Stato, Sez. V, 06.12.2012, n. 6260; TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
21.06.2007, n. 1677).
Ebbene, nel caso di specie nessuna norma sancisce l’equipollenza tra le due
lauree in considerazione.
Dunque, il ricorrente non avrebbe potuto partecipare alla procedura di gara
quale responsabile della progettazione, in quanto la laurea da lui
conseguita non può essere considerata equipollente a quelle richieste dal
bando.
5.2. – Ancorché non abbia partecipato alla procedura di gara, Gi.An. dunque
legittimato a impugnare la clausola del disciplinare di gara, che risulta
escludente nei suoi confronti (il principio è stato da ultimo ribadito da
Cons. Stato, Ad Plen., 26.04.2018, n. 4).
5.3. – Sempre in via preliminare va affermato che, benché il bando e il
disciplinare di gara siano stati preceduti da una delibera di Giunta
comunale e da alcune determinazioni dirigenziali, pure fatte oggetto di
impugnative da parte del ricorrente, è solo lex specialis di gara ad
avere rilevanza esterna.
La tempestività dell’impugnazione, contestata dal Comune di Catanzaro, va
dunque verificata in ragione della pubblicazione di tali atti, nel caso di
specie avvenuta in data 24.10.2016,
Il ricorso, portato alla notifica il 22.11.2016, è pertanto tempestivo.
5.4. – Nel merito, il ricorrente contesta la previsione del disciplinare di
gara avente effetto escludente nei suoi confronti, in quanto sarebbe
irragionevole e si porrebbe in contrasto con l’art. 49 d.P.R. 05.06.2001.
5.5. – Va rilevato che, sino alla riforma dell’Albo degli ingegneri,
avvenuta con gli artt. 45 ss. d.P.R. 05.06.2001, n. 328, la professione di
ingegnere era unitaria.
Colui che era laureato in ingegneria meccanica, dunque, poteva, una volta
superato l’esame di abilitazione alla professione e una volta iscritto
all’Albo, esercitare la professione di ingegnere che, ai sensi dell’art. 51
r.d. 23.10.1925, n. 2537, ricomprende “il progetto, la condotta e la
stima dei lavori per estrarre, trasformare ed utilizzare i materiali
direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le
industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di
deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine
ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della
fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo”.
Con il citato d.P.R. n. 328 del 2001 è stata prevista la ripartizione
dell’Albo in due sezioni, la A (per coloro che abbiano conseguito la laurea
magistrale) e la B (per coloro che abbiano conseguito la laurea triennale).
Entrambe le sezioni sono articolate in tre settori: civile e ambientale;
industriale; dell’informazione.
Ai sensi dell’art. 49 del testo normativo, coloro che già appartenevano
all'Ordine degli ingegneri al momento della riforma dell’Albo sarebbero
stati iscritti nella sezione A dell'albo degli ingegneri, nonché nel
settore, o nei settori, per il quale ciascuno di essi dichiara di optare.
Dalla documentazione in atti risulta che l’odierno ricorrente è allo stato
iscritto all’Albo degli Ingegneri, Sezione A, per tutti i settori previsti
dalla legge.
Egli, pertanto, può, sin dalla sua iscrizione all’Albo –avvenuta nel 1956–
svolgere l’attività di ingegnere civile.
5.6. – La previsione del disciplinare di gara oggetto di censura, da parte
sua, non tiene conto dell’evoluzione normativa, escludendo dalla
partecipazione alla gara chi, come il ricorrente, legittimamente esercita
l’attività di ingegnere civile, sol perché ha conseguito la laurea sotto un
regime normativo diverso, che non differenziava così nettamente come fa la
legislazione attuale, le varie branche dell’ingegneria.
Tale esclusione è evidentemente irragionevole e si pone in contrasto con
l’art. 49 d.P.R. n. 328 del 2001, il quale ha dettato una specifica
disciplina transitoria per salvaguardare la posizione di chi si sia laureato
e abbia avviato la propria attività di ingegnere sotto il precedente regime
normativo.
5.7. – Il ricorso è sul punto fondato, essendo illegittima la previsione del
disciplinare di gara che, all’art. 3.b.1., prevede che il soggetto
responsabile del gruppo di progettazione sia in possesso della laurea in
pianificazione urbanistica e territoriale, o in architettura o in ingegneria
civile e non consente la partecipazione alla gara quali responsabili del
gruppo di progettazione a coloro che siano iscritti all’Albo degli
ingegneri, Sezione A, settore ingegneria civile e ambientale pur non avendo
conseguito la laurea in ingegneria civile (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, la
sentenza 02.08.2018 n. 1507 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: L'Iva
agevolata per le manutenzioni delle abitazioni (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.08.2018). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Informative in consiglio.
Legittime le comunicazioni del presidente. Il loro contenuto va verbalizzato
a tutela dei diritti dei consiglieri.
In
materia di funzionamento del consiglio comunale, è legittima la norma
regolamentare che affida al presidente del consiglio comunale la facoltà di
eventuali comunicazioni proprie o della giunta sull'attività del comune e su
fatti ed avvenimenti di particolare interesse per la comunità, lasciando ai
singoli gruppi solo il diritto di replica, senza possibilità, per i
consiglieri, di introdurre questioni nuove? Tale disposizione, consentendo
al presidente di allargare l'ordine del giorno senza verificare la presenza
e l'accettazione dell'unanimità degli altri componenti del consiglio,
potrebbe presentare profili di illegittimità?
L'art. 38 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2, stabilisce che il
funzionamento dei consigli è disciplinato dal regolamento, nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto; il regolamento, in particolare, secondo la
citata disposizione, deve prevedere le modalità per la presentazione e la
discussione delle proposte.
L'art. 39 del citato decreto legislativo assegna al presidente del
consiglio, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e
delle attività del consiglio e, al comma 4, dispone l'obbligo di assicurare
una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari ed ai singoli
consiglieri sulle questioni sottoposte al consiglio. Su tali questioni,
soggette alla deliberazione del consiglio, i consiglieri, ai sensi dell'art.
43 del citato Tuel, hanno diritto di iniziativa e possono, altresì,
presentare interrogazioni e mozioni.
Nel caso di specie, la norma
regolamentare affida al presidente, nella fattispecie il sindaco, la facoltà
di informare il consiglio, in apertura di seduta, in merito a questioni che
interessano l'operato del sindaco o della giunta o a questioni di
particolare interesse per la comunità non iscritte all'ordine del giorno a
cui, dunque, non dovrebbe seguire alcuna deliberazione. Ferma restando la
riconosciuta potestà, in capo al presidente, di dirigere i lavori e le
attività del consiglio, la norma contenuta nel regolamento non appare
limitativa del diritto dei singoli consiglieri a partecipare alle decisioni
nelle materie di stretta competenza del consiglio medesimo, ai sensi
dell'art. 42 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, che si
concretizzano nell'ordine del giorno formalizzato.
Il contenuto delle comunicazioni del presidente e le repliche affidate ai
rappresentanti dei gruppi devono, comunque, essere riprodotti nel verbale di
seduta, di libero accesso ai singoli consiglieri, ivi compresi gli assenti
alla seduta.
Qualora, dalla lettura di tali verbali, emergano aspetti ritenuti di
interesse, i singoli consiglieri, possono sempre utilizzare gli strumenti
offerti dall'ordinamento, inducendo una eventuale deliberazione, in presenza
dei relativi presupposti di competenza, con la richiesta di inserimento
della questione in un successivo ordine del giorno, secondo le normali
procedure regolamentari, oppure presentare mozioni o interrogazioni (articolo
ItaliaOggi del 24.08.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza paletti. Al riscontro
fornito dal comune alla Corte conti. La conoscenza
di tali atti non viola alcun segreto istruttorio.
In materia di diritto di accesso, da parte dei
consiglieri comunali, è legittimo, ai sensi dell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000, il diniego espresso da un comune nei confronti di
un consigliere che ha chiesto all'ente di potere acquisire «il riscontro
fornito dal comune ad una nota della Corte dei conti»?
Nella fattispecie in esame il comune, che avrebbe parzialmente riscontrato
la richiesta della Corte dei conti ha, precisato che trattasi di «chiarimenti
e valutazioni sulle criticità emerse dall'esame delle relazioni ai
rendiconti relativi ad annualità pregresse, redatte dall'organo di revisione
contabile».
In particolare, i funzionari comunali che hanno negato l'accesso al
consigliere, che ha diffidato il responsabile del settore ai sensi dell'art.
328, comma II, del codice penale, hanno rilevato che le richieste della
Corte dei conti sono state effettuate ai sensi dell'art. 1, comma 166 e
segg. della legge 23/12/2005, n. 266 e dell'art. 148-bis del dlgs
18/08/2000, n. 267 e che dunque, «il rilascio della nota di riscontro
richiesta potrebbe essere di pregiudizio per l'ente e per l'attività della
stessa Corte».
Invero, le citate disposizioni non disciplinano i procedimenti di natura
giudiziale (rispetto ai quali la commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, con talune pronunce –v. plenum del 25/01/2005– ha optato per
il rinvio dell'accesso alla conclusione delle controversie), ma affidano,
invece, alla Corte dei conti il controllo sui bilanci e sui rendiconti degli
enti locali, al fine della verifica del rispetto del patto di stabilità
interno, dell'osservanza dei vincoli in materia di indebitamento e di ogni
grave irregolarità contabile e finanziaria.
La conoscenza di tali atti non violerebbe, dunque, alcun segreto
istruttorio, fermo restando, in tale ipotetico caso, l'assoggettamento del
consigliere al vincolo della riservatezza.
Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del
16.03.2010, ha affermato che il «diritto di accesso» ed il «diritto
di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a.
trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000
che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
La maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino
(art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del
particolare munus espletato dal consigliere comunale.
Lo stesso, infatti, deve essere posto nelle condizioni di valutare, con
piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole
sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il
ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica esercitata.
Pertanto, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all'individuazione e al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato. Peraltro, in fattispecie analoga alla presente, il
Consiglio di stato, Sez. IV con decisione 4829/2011 del 29/08/2011 ha
confermato l'accessibilità, da parte del consigliere, al documento richiesto
«sul fondamento della precisa quanto generale previsione di rango
legislativo recata dall'art. 43 decreto legislativo n. 267 del 2000».
Il Consiglio di stato ha, altresì, specificato che «in assenza di precisi
dati in senso contrario non può che prevalere, pertanto, il principio della
libera accessibilità da parte del consigliere comunale, regola generale alla
quale non risultano essere state apportate deroghe neppure in subiecta
materia».
Pertanto, come affermato dalla stessa commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi (plenum del 03.10.2013), «ai sensi dell'art. 5 del decreto
legislativo n. 33 del 14/03/2013, chiunque, e dunque anche i consiglieri
comunali, ha diritto di ottenere l'accesso ai dati relativi ai controlli
sull'organizzazione e sull'attività dell'amministrazione che la p.a. ha
l'obbligo di pubblicare».
Alla luce del quadro sopra delineato, e ferma restando l'opportunità, per
l'ente, di dotarsi di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio
dell'esercizio di tale diritto, non appare, dunque, che possa negarsi
l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018). |
APPALTI: OGGETTO:
Conseguenze derivanti dall’omessa comunicazione di modifiche
all’assetto proprietario e degli organi sociali da parte
dell’impresa iscritta nella white list. Quesito
(Ministero dell'Interno,
nota 24.04.2018 n. 11001/119/20(5)-A di prot.). |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni organizzative /
Il nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il
21/05/2018 prevede una nuova disciplina per le posizioni
organizzative.
Si prevede inoltre un periodo transitorio nel corso del
quale gli incarichi di posizione organizzativa già conferiti
e ancora in atto, proseguono o possono essere prorogati fino
alla definizione del nuovo assetto delle posizioni
organizzative e, comunque, non oltre un anno dalla data di
sottoscrizione del presente CCNL.
In relazione al suddetto periodo transitorio si chiede di
chiarire se un ente che non abbia ancora definito i nuovi
criteri e procedure relativi al nuovo assetto delle
posizioni organizzative possa conferire un nuovo incarico su
una posizione organizzativa già esistente?
Nel merito del quesito formulato, relativamente alla
particolare problematica esposta, l’avviso della scrivente
Agenzia è nel senso che, anche se l’ente non ha ancora
proceduto alla definizione del nuovo assetto delle posizioni
organizzative (modifica dei contenuti delle precedenti
posizioni organizzative in relazione al nuovo assetto
delineato dal CCNL; graduazione delle stesse sulla base
anche dei nuovi criteri previsti dalle parti negoziali;
diversa disciplina delle modalità di determinazione della
retribuzione di posizione e di risultato; determinazione dei
nuovi criteri generali per il conferimento e revoca degli
incarichi), stante la necessità di garantire la funzionalità
ed operatività degli uffici, lo stesso possa ugualmente, in
via del tutto eccezionale, anche durante il periodo
transitorio, conferire la titolarità della posizione
organizzativa priva di titolare, applicando i criteri già
precedentemente adottati nell’osservanza delle precedenti
previsioni del precedente art. 9, comma 2, del CCNL del
31.03.1999 e fino ad oggi già applicati.
Tale ultimo incarico, peraltro -come tutti gli altri
incarichi di posizione organizzativa già conferiti e ancora
in atto, anche se con scadenza successiva al 20.05.2019,
oppure prorogati, alla data di sottoscrizione del nuovo
contratto collettivo nazionale, secondo la disciplina
generale dell’art. 13, comma 3, del CCNL del 21.05.2018-
giungerà, comunque, a scadenza al momento dell’adozione del
nuovo assetto delle posizioni organizzative o, comunque, non
oltre un anno dalla data di sottoscrizione del CCNL (orientamento
aplicatico
02.08.2018 CFL 6
- link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Part-time
orizzontale, i permessi familiari vanno riproporzionati.
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, caratterizzato
da una ridotta prestazione oraria su tutti i giorni lavorativi, il
riproporzionamento dei permessi retribuiti per particolari motivi personali
o familiari deve essere fatto non soltanto sul monte ore annuo a
disposizione (18 ore), ma anche rispetto alle 6 ore quale decurtazione
convenzionale del monte ore, in caso di fruizione del permesso per l'intera
giornata.
Anche l'Aran, con l'orientamento applicativo CFL 5 del
02.08.2018, torna
sul tema della disciplina dettata dall'art. 32 del nuovo Ccnl del 21.05.2018
con. Esso stabilisce che i permessi per motivi personali e familiari possono
essere fruiti anche per la durata dell'intera giornata lavorativa e che, in
tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del
dipendente è convenzionalmente pari a 6 ore.
Il contratto dispone anche che
le 18 ore di permesso sono riproporzionate in caso di rapporto di lavoro a
tempo parziale, ma non chiarisce se in tal caso vadano riproporzionate anche
le 6 ore convenzionali di incidenza sul monte ore del dipendente nel caso di
fruizione per l'intera giornata lavorativa. L'Aran propende per la tesi
affermativa, «per coerenza ed al fine di assicurare trattamenti uniformi con
il personale a tempo pieno». Sul medesimo argomento, inoltre, è rilevante la
precisazione per cui l'eventuale fruizione nei primi mesi del 2018, di
assenze per visite specialistiche a giorni non può avere alcuna incidenza
sul quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina
contrattuale riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il
lavoratore potrà comunque fruire di permessi retribuiti per l'espletamento
di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, nel
limite delle 18 ore annue, anche se precedentemente al 21.05.2018 si era già
assentato, a giorni, per la medesima motivazione.
Del resto, la suddetta
clausola contrattuale non contiene alcuna espressa indicazione circa una
eventuale maturazione progressiva del diritto ai permessi di cui si tratta.
Sempre l'Aran, infine, fornisce un importante chiarimento in ordine al
cosiddetto elemento perequativo, previsto quale specifica, autonoma e
distinta voce retributiva, la cui corresponsione avviene una tantum
nell'arco di uno specifico e determinato periodo temporale. Proprio per tale
caratteristiche, esso non è «stipendio» e, pertanto, non rientra in nessuna
delle nozioni di retribuzione.
L'ulteriore conseguenza è che esso non può
essere considerato nella base di calcolo né del compenso per lavoro
straordinario né dell'indennità di turno o di qualunque altro compenso che
assuma, comunque, una delle suddette nozioni di retribuzione come base. Esso
inoltre non può neanche essere qualificato come «trattamento economico
accessorio» e quindi non va sottoposto alla trattenuta per i primi 10 giorni
di malattia (articolo
ItaliaOggi del 18.08.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi per motivi personali o familiari /
Il nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il
21/05/2018 stabilisce che i permessi per motivi personali e
familiari possono essere fruiti anche per la durata
dell’intera giornata lavorativa e che, in tale ipotesi,
l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del
dipendente è convenzionalmente pari a sei ore.
Stabilisce inoltre che le 18 ore di permesso sono
riproporzionate in caso di rapporto di lavoro a tempo
parziale.
In relazione alle suddette nuove previsioni contrattuali, si
chiede di sapere se, in caso di part-time orizzontale,
vadano riproporzionate anche le sei ore convenzionali di
incidenza sul monte ore del dipendente nel caso di fruizione
per l’intera giornata lavorativa?
Per quanto riguarda il personale con rapporto di lavoro a
tempo parziale, in coerenza con i principi generali che
regolano tale tipologia di rapporto di lavoro, la clausola
del contratto prevede espressamente il riproporzionamento
del monte ore annuo di 18 ore di permessi retribuiti per
particolari motivi personali o familiari (art. 32, comma 4,
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018).
Trattandosi di permesso fruito su base oraria, il
riproporzionamento va effettuato in tutti i casi di rapporto
di lavoro a tempo parziale (verticale, orizzontale e misto).
Per coerenza ed al fine di assicurare trattamenti uniformi
con il personale a tempo pieno, si è altresì dell'avviso
che, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale
orizzontale, caratterizzato da una ridotta prestazione
oraria su tutti i giorni lavorativi, debba procedersi anche
al riproporzionamento delle sei ore, previste dal comma 2,
lett. e), del citato art. 32 del CCNL del 21.05.2018, quale
decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di
fruizione del permesso per l'intera giornata (orientamento
applicativo
02.08.2018 CFL 4
- link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per
l’espletamento di visite, terapie, prestazioni
specialistiche od esami diagnostici
/
E’ possibile fruire per
frazioni di ora (esempio, per 45 minuti) le 18 ore annuali
di permesso permessi per l’espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici previste
dall’art. 35 del nuovo CCNL Funzioni Locali sottoscritto il
21/05/2018?
L’art. 35, comma 1, del CCNL del 21.05.2018 riconosce la
fruibilità dei permessi in oggetto sia su base giornaliera
sia su base oraria. In mancanza di espresso divieto in tal
senso nella disciplina contrattuale, si ritiene che i
predetti permessi possano essere fruiti anche per frazioni
inferiori alla singola ora, con imputazione al monte ore
annuale delle 18 ore delle frazioni di ora effettivamente
utilizzate (ad esempio, 45 minuti).
E’ sempre possibile, in ogni caso, l'utilizzo per periodi
composti da un'ora o da un numero intero di ore, seguiti da
frazioni di ora (ad esempio, un'ora e quindici minuti,
un'ora e trenta, due ore e 30 ecc.). Anche in questi casi la
decurtazione sarà pari alla durata del permesso
effettivamente utilizzato dal dipendente.
Quindi, nel caso di un permesso fruito per 3 ore e 31
minuti, la decurtazione sarà pari a 3 ore e 31 minuti (orientamento
applicativo
02.08.2018 CFL 3
- link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per l’espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici /
Le 18 ore annuali di permesso per l’espletamento
di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici previste dall’art. 35 del nuovo CCNL Funzioni
Locali sottoscritto il 21/05/2018, vanno riproporzionate
nell’anno 2018 tenuto conto che il nuovo CCNL è divenuto
efficace solo dal 22/05/2018?
L’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 ha
introdotto un’organica ed esaustiva disciplina in materia di
“assenze per l’espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici”.
Il nuovo istituto contrattuale, applicabile dal 22.05.2018,
infatti, prevede un quantitativo di 18 ore annue che,
potranno essere fruite, alle condizioni espressamente
stabilite dal citato art. 35 del CCNL del 21.05.2018.
Trattandosi di un istituto del tutto nuovo, l’eventuale
fruizione nei primi mesi del 2018, di assenze per visite
specialistiche a giorni non può avere alcuna incidenza sul
quantitativo complessivo delle ore che la richiamata
disciplina contrattuale riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà comunque
fruire di permessi retribuiti per l’espletamento di visite,
terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici,
nel limite delle 18 ore annue, anche se precedentemente al
21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la medesima
motivazione. Del resto, la suddetta clausola contrattuale
non contiene alcuna espressa indicazione circa una eventuale
maturazione progressiva del diritto ai permessi di cui si
tratta.
Si ritiene, in conclusione, che i lavoratori possano,
comunque, avvalersi per intero, entro il 31.12.2018, delle
18 ore annuali della nuova tipologia di permesso, anche se
il contratto collettivo nazionale è stato sottoscritto
definitivamente solo in data 21.5.2018 (orientamento
applicativo
02.08.2018 CFL 2
- link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Elemento perequativo una-tantum /
Qual è la natura della voce retributiva “Elemento
perequativo” prevista dal nuovo CCNL del comparto Funzioni
Locali, sottoscritto il 21/05/2018?
In particolare, si chiede di chiarire se sia sottoposta alle
decurtazioni del trattamento accessorio per i primi dieci
giorni di malattia e se vada conteggiata nella base di
calcolo utile per la corresponsione di alcuni trattamenti
accessori (ad esempio, straordinario e turni).
Sulla base delle previsioni dell’art. 66 del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018, l’elemento perequativo
rappresenta una specifica, autonoma e distinta voce
retributiva, la cui corresponsione avviene una-tantum
nell’arco di uno specifico e determinato periodo temporale.
Proprio per tale caratteristiche:
a) esso non è “stipendio” e, pertanto, non rientra in
nessuna delle nozioni di retribuzione di cui all’art. 10,
comma 2, lett. a), b) e c), del CCNL del 09.05.2006;
l’ulteriore conseguenza è che esso non può essere
considerato nella base di calcolo né del compenso per lavoro
straordinario né dell’indennità di turno o di qualunque
altro compenso che assuma, comunque, una delle suddette
nozioni di retribuzione come base;
b) non può neanche essere qualificato come “trattamento
economico accessorio”; conseguentemente, si ritiene che
non vada sottoposto alla trattenuta per i primi 10 giorni di
assenza per malattia (orientamento
applicativo
02.08.2018 CFL 1
- link a www.aranagenzia.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PATRIMONIO:
Oggetto: Monitoraggio dello stato di conservazione e manutenzione delle
opere di competenza - URGENTE (ANCI Veneto,
circolare 23.08.2018 n. 1997 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
Il Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico
-presso il
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare-
ha il compito di monitorare e promuovere le attività
degli Enti locali finalizzate all’incremento del verde
urbano e peri-urbano
[art.
3, comma 2, lett. a) e b), L. 14.01.2013 n 10 -
Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani].
In questo contesto si inseriscono le Buone Pratiche sul
verde urbano raccolte nella
Banca dati GELSO realizzata da ISPRA.
Al riguardo, si leggano:
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde
Pubblico,
deliberazione 14.05.2018 n. 27.
---------------
Premessa
Per baratto amministrativo si intende, essenzialmente, uni
strumento -disciplinato a livello nazionale con legge, e a
livello locale con regolamento- che in situazioni
prestabilite consente ai cittadini di pagare tasse o tributi
(quali TASI, IMU e TARI e, in generale, di di estinguere le
situazioni di debenza legate alla fiscalità locale),
mediante prestazioni personali di utilità sociale (ad
esempio, tagliare l'erba nei parchi, pulire le strade,
prestare opere di manutenzione o recuperare e riqualificare
aree e beni immobili inutilizzati).
(...continua)
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde
Pubblico,
deliberazione 04.05.2018 n. 26.
---------------
Premessa
Come noto, i referendum consultivi comunali sono espressione
del più ampio fenomeno della democrazia partecipativa, e
rappresentano una delle forme di consultazione della
popolazione previste dall'art. 8 del d.lgs. n. 267/2000. In
particolare, il comma 4 dell'art. 8 stabilisce che i
referendum consultivi devono riguardare materie di esclusiva
competenza locale.
(...continua)
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde
Pubblico,
deliberazione 04.05.2018 n. 25.
---------------
Premessa
E’ diffusa esperienza, nel Paese, che comitati di
quartiere e singoli cittadini siano disposti a contribuire,
con donazioni volontarie, e a partecipare operativamente a
interventi di messa a dimora di alberi, da condividere con
le amministrazioni locali, specie in luoghi nei quali, per
eventi esterni, cattiva manutenzione, rifacimento di
marciapiedi o altro, le piante vengono abbattute.
Si tratta di situazioni in cui, in buona sostanza, i
cittadini desiderano mettere a dimora alberi a proprie spese
su suolo comunale. (...continua).
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde
Pubblico,
deliberazione 04.05.2018 n. 24.
---------------
Premessa
E' accaduto di constatare che, una volta abbattuti -per
comprovate ragioni di sicurezza, attestate da tecnici
qualificati- gli alberi collocati in un dato sito urbano, la
Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio
competente per territorio abbia negato la messa a dimora,
nello stesso sito, di nuovi alberi.
(...continua)
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico,
deliberazione 04.10.2017 n. 20.
---------------
Premessa
Con il recente DL n. 14/2017, convertito, con modificazioni,
con L. n. 48/2017, sono state introdotte nuove norme a
presidio -in ambito urbano- non solo della sicurezza, ma
anche del decoro.
(...continua)
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico,
deliberazione 03.10.2017 n. 22.
---------------
Premessa
Constano a questo Comitato diffuse situazioni, nel Paese,
nelle quali, a fronte delle previsioni regolamentari tuttora
vigenti in tema di fascia di rispetto ferroviaria, non si fa
alcuna distinzione fra alberi messi a dimora prima o dopo il
1980, e si privilegia -con troppa semplificazione- la
soluzione dell'abbattimento sulle altre che siano in
concreto possibili, ad iniziare, ovviamente, da quelle di
ordine manutentivo.
(...continua)
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico,
deliberazione 03.10.2017 n. 21.
---------------
Premessa
Informazione e comunicazione istituzionale degli enti locali
sono attività essenziali anche ai fini della promozione e
dello sviluppo degli spazi verdi urbani. Il tema si pone,
infatti, anche quando, come nel caso dell'obbligo di mettere
a dimora un albero per ogni nuovo nato o adottato, la legge
prevede un adempimento puntuale a carico delle
amministrazioni territoriali.
(...continua)
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico,
deliberazione 03.07.2017 n. 19.
---------------
Linee guida per la gestione del verde urbano e
prime indicazioni per una pianificazione sostenibile
●
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare, Comitato per lo Sviluppo del verde Pubblico,
deliberazione 22.05.2017 n. 18.
---------------
Premessa
1. Lo scrivente comitato, quale organo istituzionale che,
nell'ambito dell'amministrazione statale, ha il compito di
dare attuazione alla legge italiana n. 10/2013, verificando
il rispetto della normativa di settore, avendo appreso dalla
stampa che il Comune di Frosinone aveva multato per circa
1300 euro la Asl di Frosinone, per un taglio di alberi "non
autorizzato" (effettuato da quest'ultima, alle spalle della
palazzina che ospita il reparto di fisioterapia), ha
richiesto, con nota del 22.03.2017, la trasmissione e
l'acquisizione di tutta la documentazione utile alla
verifica di cui sopra (art. 3, comma 2, lett. d), l. n.
10/2013), previo svolgimento degli accertamenti per legge di
competenza degli uffici in indirizzo, al fine del
perseguimento delle responsabilità personali di cui abbiano
a ricorrere in concreto i presupposti.
(...continua) |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Alla luce delle novità legislative introdotte con
l’approvazione dell’art. 1, comma 526, della legge 205/2017
(legge di stabilità per il 2018), gli incentivi disciplinati
dall’articolo 113 del d.lgs. 50/2016, essendo erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege e facenti capo agli
stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo
posto al complessivo trattamento economico accessorio dei
dipendenti degli enti pubblici dall’articolo 23, comma 2,
del d.lgs. 75/2017.
Con la conseguenza che i compensi incentivanti per funzioni
tecniche risultano attualmente svincolati dai limiti vigenti
in materia di trattamento accessorio del personale.
Inoltre, la concreta erogazione di tali compensi può
avvenire soltanto a seguito della preventiva
predisposizione, da parte dell’Ente, del Regolamento
previsto dalla normativa, per non incorrere in quanto
previsto dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.
13384/2004, con la quale è stato riconosciuto il
risarcimento del danno per inottemperanza all’obbligo di
adozione del Regolamento da parte della Amministrazione
aggiudicatrice.
---------------
... il Comune di Pasiano di Pordenone (PN) ha
formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con
cui, dopo aver succintamente rappresentato le circostanze di
fatto e di diritto, pone un quesito in materia di
incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, l’Ente richiedente ha formulato un
quesito volto a sapere:
1) Se gli incentivi per le funzioni tecniche, come disciplinati
dall’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 e s.m.i. trovino
applicazione anche agli Enti della Regione Friuli Venezia
Giulia;
2) Se sia possibile escludere tali incentivi dalle misure di
contenimento del salario accessorio previste dalla vigente
normativa di coordinamento della finanza pubblica;
3) Se sia possibile ricalcolare, a prescindere dalla fonte
giuridica, con riferimento ad eventuali incentivi inclusi
nell’aggregato “salario accessorio del personale”, il
limite dell’anno 2016 ai fini del contenimento del salario
accessorio per l’anno 2017 alla luce del nuovo dettato
normativo.
...
Come esposto nella premessa ed in sede di esame preliminare
dell’ammissibilità, sul piano oggettivo, del quesito in
esame, deve innanzitutto evidenziarsi che questa Sezione ha
recentemente avuto modo di esaminare la problematica
relativa ai compensi incentivanti per funzioni tecniche,
come disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016,
precipuamente con riferimento alle novità legislative
introdotte con l’approvazione dell’art. 1, co. 526, della
legge 27.12.2017, n. 205 (legge di stabilità per il 2018).
Con tale novella, è stato previsto che all'articolo 113 del
codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma: «5-bis.
Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture»”.
Alla luce di tale modifica legislativa, con il
parere 02.02.2018 n. 6 si è avuto modo di
affermare che “…da ciò si evince che gli
incentivi non fanno carico ai capitoli della spesa del
personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo
dell’opera”.
Tali conclusioni vanno riaffermate anche in questa sede, con
la conseguenza, quindi, che gli incentivi
disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 nel
testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205
del 2017, essendo erogati su risorse finanziarie individuate
ex lege e facenti capo agli stessi capitoli sui quali
gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture,
non sono soggetti al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
Così inquadrata la disciplina attualmente vigente in materia
di incentivi per funzioni tecniche, i quesiti posti dal
Comune richiedente trovano una loro pacifica soluzione,
dovendosi applicare anche nel Friuli Venezia Giulia
la recente novità legislativa, che appare pienamente
compatibile anche con la legge regionale n. 14/2002 e ss.
mm. e ii., con la conseguenza che i compensi incentivanti
per funzioni tecniche risultano attualmente svincolati dai
limiti vigenti in materia di trattamento accessorio del
personale.
Ad ogni buon conto, vale la pena di rimarcare che
la concreta erogazione di tali compensi può avvenire
soltanto a seguito della preventiva predisposizione, da
parte dell’Ente, del Regolamento previsto dalla normativa,
per non incorrere in quanto previsto dalla Corte di
Cassazione nella
sentenza 19.07.2004 n. 13384, con la quale è
stato riconosciuto il risarcimento del danno per
inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da
parte della Amministrazione aggiudicatrice
(cfr. in tal senso,
parere 02.02.2018 n. 6 cit.).
Infine, anche in questa sede vale la pena di ricordare
quanto affermato da questa Sezione con la deliberazione n. 51/2016,
richiamata anche dal citato
parere 02.02.2018 n. 6,
secondo cui “anche con riferimento al
comparto unico del pubblico impiego regionale e locale … si
devono categoricamente escludere interventi in sanatoria,
dovendosi necessariamente procedere ad una preventiva
individuazione a bilancio delle risorse, ad una successiva
costituzione del fondo ed infine all'individuazione delle
modalità di ripartizione del fondo mediante contratto
decentrato, in maniera tale da rispettare il principio di
preventiva assegnazione degli obiettivi e di successiva
verifica del loro raggiungimento"
(Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 02.08.2018 n. 35). |
SEGRETARI COMUNALI: Sui
diritti di rogito spunta il rischio debiti fuori bilancio.
Sui diritti di rogito spunta il rischio debiti fuori
bilancio.
È una delle possibili conseguenze della recente
deliberazione 30.07.2018 n. 18 con cui la sezione delle autonomie
della Corte dei conti (si veda ItaliaOggi del 27/07/2018) ha messo la parola
fine alla telenovela sulla spettanza di tali emolumenti, allineandosi
all'orientamento espresso dal giudice ordinario e modificando la propria
precedente interpretazione restrittiva.
Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la questione nasce dall'art.
10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso dispone che i diritti di rogito
spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica
dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la
qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto
dello stipendio in godimento.
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da un lato, si è
affermato che l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di enti
di piccole dimensioni collocati in fascia C, dall'altro lato si è
argomentato che negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i
diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in cui è
inquadrato il segretario.
La magistratura contabile ha sposato la prima tesi, sebbene con non poche
oscillazioni che avevano reso necessario, come detto, un primo intervento
chiarificatore delle Autonomie con la
deliberazione 24.06.2015 n. 21.
Sul fronte opposto, si sono schierati compatti i tribunali del lavoro, che
aditi dai segretari esclusi hanno sempre accolto i ricorsi. Da qui, il
cambio di rotta, sollecitato dalla sezione regionale di controllo per il
Veneto e imposto dalla necessità di pervenire finalmente a una soluzione
definitiva «rispettosa di un principio di coerenza sistematica»
dell'ordinamento.
Insomma, la Corte si è adeguata, pur senza rinunciare a rimarcare le
differenze fra il proprio percorso valutativo e quello fatto proprio dal
giudice ordinario: mentre quest'ultimo privilegia, sulla base
dell'interpretazione letterale di una norma poco chiara, l'interesse
patrimoniale particolare della categoria dei segretari, la prima aveva
optato per un'interpretazione funzionale al conseguimento dell'interesse
pubblico a garantire maggiori entrate in favore degli enti locali.
A questo punto, quindi, i ragionieri possono procedere a liquidare i diritti
di rogito. Per il pregresso, è certamente legittimo l'utilizzo delle somme
che nel frattempo sono state prudenzialmente accantonate (anche se ciò ha un
impatto negativo sul pareggio di bilancio, almeno fino a che non saranno
recepite le pronunce della Consulta sulla piena disponibilità dell'avanzo).
Le amministrazioni che non avessero proceduto in tal senso, invece,
potrebbero trovarsi di fronte addirittura a dei debiti fuori bilancio,
avendo usufruito di un servizio (che si è scoperto poi essere) oneroso senza
le necessarie coperture. Si tratterebbe di un paradosso evidente, per
evitare il quale, però, è necessario forzare le attuali regole contabili.
Non è escluso, quindi, che la Corte debba tornare nuovamente sul tema (articolo
ItaliaOggi dell'08.08.2018). |
SEGRETARI COMUNALI:
In riforma del primo principio di diritto
espresso nella
deliberazione 24.06.2015 n. 21, alla luce della
previsione di cui all’art. 10, comma 2-bis, del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni dalla legge
11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito, nei limiti
stabiliti dalla legge, competono ai segretari comunali di
fascia C nonché ai Segretari comunali appartenenti alle
fasce professionali A e B, qualora esercitino le loro
funzioni presso enti nei quali siano assenti figure
dirigenziali.
---------------
5. La questione, all’esame della Sezione, ripropone il
quesito circa la riconoscibilità o meno -ancorché nei limiti
indicati dalla legge di riforma della materia de qua
(articolo 10, comma 2-bis, del d.l. n. 90/2014)- dei
proventi discendenti dall’attività rogatoria espletata dai
Segretari comunali, ove questi ultimi, ancorché appartenenti
alle fasce professionali A e B, esercitino le loro funzioni
presso enti nei quali siano assenti figure dirigenziali.
Occorre preliminarmente precisare che la necessità di un
ulteriore intervento da parte di questa Sezione si impone in
quanto le reiterate ed univoche, nel merito, pronunce del
giudice del lavoro, oltre a far prefigurare la, non remota,
possibilità di ulteriori repliche di tali pronunciamenti,
mettono in evidenza la progressiva disapplicazione di uno
dei due principi di diritto pronunciati da questa Sezione
nella ricordata delibera ed il diffondersi di aspetti di
disomogeneità e frammentarietà nei modi di risolvere la
medesima questione.
Si tratta di pronunce che, ovviamente, si fondano su un
percorso valutativo che si differenzia radicalmente da
quello della Sezione delle autonomie. Una differenza che
rileva sia in ordine alla situazione giuridica soggettiva
considerata nella tutela azionata dai segretari che
ricorrono al giudice del lavoro e cioè il diritto
patrimoniale soggettivo all’emolumento, sia per quel che
riguarda l’individuazione dei parametri normativi di
riferimento che portano all’accertamento costitutivo del
diritto alla percezione dei diritti di rogito, vale a dire
la verifica “tout court” del presupposto che dà
titolo all’attribuzione patrimoniale e cioè l’assenza di
figure dirigenziali nella sede di servizio. In sostanza si
evidenzia la funzione di reintegrazione del patrimonio del
ricorrente che si assume illegittimamente leso dal diniego
opposto dall’amministrazione di servizio al riconoscimento
di un diritto soggettivo perfetto.
Questa Sezione, nella
deliberazione 24.06.2015 n. 21 ha privilegiato,
invece, una interpretazione della norma funzionale al
conseguimento dell’interesse pubblico a garantire maggiori
entrate in favore degli enti locali che fa recedere
l’interesse (patrimoniale) particolare del segretario
comunale, “fatta salva l’ipotesi della fascia
professionale e della condizione economica che meno
garantisca il singolo segretario a livello retributivo”.
Ciò detto, il percorso argomentativo per una nuova
valutazione degli aspetti di diritto del tema posto deve
muovere dalla verifica di una compatibilità logica tra gli
aspetti sostanziali sottesi al consolidato indirizzo
giurisprudenziale che connota gli accertamenti costitutivi
del giudice del lavoro e quelli sottesi alla prospettazione
della questione che aveva indirizzato questa Corte
nell’analizzare l’articolo 10, comma 2-bis, del d.l. n.
90/2014 che è sfociato, poi, nella
deliberazione 24.06.2015 n. 21:
garantire, nell’ottica di un contemperamento tra due
interessi diversi, maggiori entrate agli enti locali, così
da salvaguardare un superiore interesse pubblico, qual è la
concreta tutela della finanza locale.
In sostanza, nel definire il perimetro dell’azione di
contemperamento disegnato dal legislatore con la previsione
legislativa in argomento, questa Sezione ha individuato due
aspetti meritevoli di tutela: garantire maggiori entrate
alle amministrazioni locali, salvaguardando, nel contempo,
gli specifici interessi patrimoniali della sola categoria
professionale dei Segretari comunali di fascia C, la cui
tutela rinviene la sua qualificazione in una finalità
perequativa necessaria a sopperire a situazioni stipendiali
meno favorevoli.
Opinando diversamente, il giudice del
lavoro, così come una parte della giurisprudenza delle
Sezioni regionali di controllo, nel privilegiare
l’interpretazione letterale della norma, hanno, al
contrario, ampliato l’area di legittimazione alla percezione
dei diritti di rogito, individuandone il presupposto
nell’assenza di figure dirigenziali nell’ente in cui è
prestato il servizio.
Logico corollario di tale assunto è,
pertanto, una dilatazione del suddetto contemperamento fino
al punto di prevenire il sacrificio di ulteriori posizioni
di vantaggio quali sono da considerare quelle dei segretari
comunali appartenenti alle fasce A e B che però prestano
servizio in enti privi di dirigenza.
In proposito vale considerare che,
verosimilmente, la ratio della disposizione non è da
individuarsi nella carenza in sé nell’ente di personale con
qualifica dirigenziale, circostanza che da sola non consente
di costruire concettualmente la logica dell’attribuzione, ma
nel fatto che tale carenza influisce sulla consistenza del
trattamento economico, tenuto conto della disciplina delle
sue specifiche componenti che risentono, nella loro
quantificazione, della correlazione alle dimensioni
dell’ente dove il segretario presta servizio.
Tale azione di conformazione della situazione di fatto alla
norma, prodotta dalle sentenze del G.O. in quanto declinata
in reiterate pronunce, assume la sostanziale consistenza di
parametro di valutazione alla luce del quale va ridefinito
il suddetto perimetro.
In questa operazione di rivisitazione del principio di
diritto espresso dalla Sezione delle autonomie nella
delibera più volte richiamata, si concretizza la verifica di
compatibilità tra indirizzo del giudice ordinario, del quale
non può non prendersene atto ed orientamento della Corte dei
conti. In altri termini il predetto
indirizzo assurge anch’esso, come appena ricordato, a
sostanziale parametro di riferimento oggettivo, in punto di
diritto, nella decisione della questione di massima.
Per le ragioni esposte ed in considerazione della
fondamentale regola di giudizio per cui è compito del
Giudice utilizzare ogni strumento ermeneutico che gli
consenta di pervenire ad una soluzione del caso sottoposto
al suo esame e rispettosa di un principio di coerenza
sistematica, si ritiene maggiormente
aderente ai motivati parametri di riferimento, in punto di
diritto, accedere ad una interpretazione letterale della
norma.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
Sezione regionale di controllo per il Veneto con la
deliberazione 18.06.2018 n. 192, enuncia il
seguente principio di diritto:
“In riforma del primo principio di
diritto espresso nella
deliberazione 24.06.2015 n. 21, alla luce
della previsione di cui all’art. 10 comma 2-bis, del d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni dalla legge
11.08.2014, n. 114, i diritti di rogito, nei limiti
stabiliti dalla legge, competono ai segretari comunali di
fascia C nonché ai Segretari comunali appartenenti alle
fasce professionali A e B, qualora esercitino le loro
funzioni presso enti nei quali siano assenti figure
dirigenziali”
(Corte dei Conti, Sez. autonomie,
deliberazione 30.07.2018 n. 18). |
SEGRETARI COMUNALI: Diritti
di rogito a tutti i segretari. Se sono insediati in sedi comunali prive di
dirigenti. La sezione autonomie della Corte conti
fa dietrofront dopo anni di contenziosi e incertezze.
Diritti di rogito a tutti i segretari Diritti di rogito a tutti i segretari
comunali di qualsiasi qualifica, se insediati in sedi di comuni privi di
dirigenti. Si va verso un'interpretazione estensiva delle previsioni
contenute nell'articolo 10, comma 2-bis, del dl 90/2014, che ha inteso
abolire la compartecipazione ai diritti di rogito per i segretari comunali
operanti negli enti con qualifica dirigenziale.
La Corte dei conti, sezione delle autonomie (deliberazione 30.07.2018 n. 18), modificando di 180 gradi il
proprio avviso sul tema, espresso con la
deliberazione 24.06.2015 n. 21, da un lato
risolve un problema concreto che si trascina da anni, dall'altro torna a
porre in maniera molto forte il grave problema della funzione di controlli
cosiddetti collaborativi della Corte dei conti, regolati dall'articolo 7
della legge 131/2003.
Tale disposizione consente a regioni e comuni di richiedere alle sezioni
regionali di controllo pareri in materia di contabilità pubblica, che la
magistratura contabile esprime in assolvimento ai propri compiti di
collaborazione ai fini del coordinamento della finanza pubblica. Tuttavia,
con l'andare degli anni e, soprattutto, con il moltiplicarsi di una serie di
norme e regole dettate più da logiche di efficienza operativa e gestionale,
da una visione quasi esclusivamente finanziaria, si è tracciato un confine
molto forte tra le esigenze della cosiddetta amministrazione «attiva»,
consistente nel concreto agire, e l'amministrazione «consultiva», cui latamente poter ricondurre la funzione collaborativa della Corte dei conti,
che resta, comunque, giurisdizionale.
L'occhio attento in via esclusiva al coordinamento della finanza pubblica,
nel caso dei diritti di rogito ha creato un cortocircuito incredibile tra
funzione giurisdizionale della magistratura contabile, funzione
amministrativa e giurisdizione civile.
I comuni, infatti, sono stati investiti dalle richieste, legittime, dei
segretari di ottenere il pagamento della compartecipazione ai diritti di
rogito, ma hanno negato queste richieste, col problema, però, di accantonare
le somme in vista di possibili vertenze davanti al giudice civile. Le cause
non sono certo mancate e a partire dal 2016 le sentenze dei giudici del
lavoro favorevoli ai segretari e fortemente critiche nei confronti della
Corte dei conti si sono moltiplicate.
Un caos che ha prodotto tensioni, ma soprattutto costi amministrativi e
giudiziari che oggettivamente sono andati ben al di là degli effetti sulla
finanza pubblica che si volevano preservare: senza dimenticare che i
segretari comunali compartecipano ad un'entrata, dunque i diritti di rogito
sono integralmente e abbondantemente finanziati.
Si tratta di un cortocircuito già visto ormai troppe volte. Lo stesso è
accaduto per gli incentivi per le funzioni tecniche: anche qui la sezione
autonomie ha prima ritenuto che fossero al di fuori del tetto della spesa
per il salario accessorio, per poi cambiare opinione, dopo aver indotto il
legislatore ad una sorta di interpretazione autentica con la legge di
bilancio 2018. Ancora aperti sono i problemi sulla qualificazione della
spesa per gli incarichi dirigenziali a contratto: mentre la legge esclude la
spesa conseguente ai contratti a termine regolati dall'articolo 110 del dlgs
267/2000 dal tetto alla spesa per lavoro flessibile, la sezione autonomia è
rimasta ancora all'inclusione di tale spesa nel vincolo, ma molte sezioni
regionali contraddicono questa visione.
Di recente, la sezione Puglia ha aperto un nuovo fronte di confusione: ha
ritenuto priva di efficacia la dichiarazione congiunta n. 5 al Ccnl
21.05.2018, il cui scopo consiste nell'escludere che l'articolo 67, comma 7,
del contratto possa essere letto nel senso di scaricare sul fondo della
contrattazione decentrata i maggiori oneri per le posizioni di sviluppo
derivanti dalle progressioni orizzontali e per l'indennità annua di euro
83,20 che scatta dal 2019.
La funzione «collaborativa» della Corte dei conti finisce troppe volte per
scontrarsi con esigenze di carattere sostanziale o con la visione di altre
giurisdizioni. La legge 131/2003 sconta il vizio, per altro, dell'assenza di
contraddittorio: i pareri vengono resi dalla magistratura contabile senza
sentire alcuna controparte. Né sui pareri, essendo espressi nell'esercizio
di una funzione giurisdizionale, sono ammessi gravami o ricorsi.
Insomma, se non ci ripensa la stessa magistratura contabile, quanto espresso
con le delibere resta invariabile: le amministrazioni non ritengono di avere
la forza per superare con ragionate motivazioni i contenuti di quelli che,
comunque, restano pareri. E così, magari per anni, come avvenuto con i
diritti di rogito, si esacerba lo scontro tra giurisdizioni e si innescano
contenziosi e costi. Un ripensamento di questo sistema appare ormai non
rinviabile (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mini
enti, assunzioni flessibili. Corte dei Conti.
Le assunzioni flessibili dei mini enti possono aggirare il tetto di spesa se
questo è modesto e quindi non idoneo a costituire un ragionevole parametro
assunzionale.
È l'importante chiarimento contenuto nella
deliberazione
30.07.2018 n. 15 della Corte dei conti, sezione autonomie.
In forza dell'art. 9, comma 28, del dl 78/2010, la spesa per le assunzioni
flessibili deve essere contenuta entro il limite del 100% del valore
registrato nel 2009 per gli enti in regola con gli obblighi di riduzione
della spesa di personale, del 50% per gli altri enti. Laddove la spesa
dell'anno di riferimento fosse pari a zero, si può assumere come parametro
la spesa media del triennio 2007/2009.
Se anche quest'ultima era pari a zero, in base alla deliberazione n. 1/2017
della stessa sezione autonomie, l'ente può comunque procedere alle
assunzioni strettamente necessaria per far fronte ai servizi essenziali. In
questo quadro, rimaneva ancora una zona d'ombra, in cui si collocavano le
malcapitate amministrazioni che avessero una spesa benchmark, ma talmente
esigua da non consentire alcune spazio per nuovi reclutamenti.
In questi casi, secondo la tesi più restrittiva non vi erano margini. Si
trattava di un evidente paradosso, che per fortuna la sezione autonomie
cancella sulla scorta di argomentazioni assolutamente condivisibili: una
scelta diversa, si legge nella deliberazione in commento, finirebbe per
risultare lesiva dell'autonomia degli enti locali, in quanto vanificherebbe
quei margini di scelta tra le varie tipologie di spesa nel rispetto del
limite complessivo che la stessa Consulta, nella sentenza n. 173/2012, ha
ritenuto incomprimibili.
Inoltre, il ricorso a queste forme contrattuali non può essere precluso
indipendentemente dall'osservanza o meno, da parte dell'ente, dei vincoli di
spesa ed assunzionali vigenti, in quanto ciò impedirebbe il ricorso ad una
modalità organizzatoria che, in presenza dei presupposti stabiliti dall'art.
36 del dlgs n. 165/2001, mira a sopperire a carenze temporanee di personale
necessario a garantire, soprattutto nei piccoli comuni la continuità
dell'attività istituzionale (articolo
ItaliaOggi dell'08.08.2018).
---------------
MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per il
Veneto con la deliberazione n. 180/2018/QMIG, enuncia il seguente principio
di diritto: “Ai fini della determinazione del limite di
spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010 e s.m.i., l’ente
locale di minori dimensioni che abbia fatto ricorso alle tipologie
contrattuali ivi contemplate nel 2009 o nel triennio 2007-2009 per importi
modesti, inidonei a costituire un ragionevole parametro assunzionale, può,
con motivato provvedimento, individuarlo nella spesa strettamente necessaria
per far fronte, in via del tutto eccezionale, ad un servizio essenziale per
l’ente. Resta fermo il rispetto dei presupposti stabiliti dall’art. 36,
commi 2 e ss., del d.lgs. n. 165/2001 e della normativa –anche contrattuale–
ivi richiamata, nonché dei vincoli generali previsti dall’ordinamento”. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Risorse
per le assunzioni senza vincoli di destinazione.
Possibile assumere personale con qualifica dirigenziale utilizzando gli
spazi finanziari derivanti dalla cessazione dal servizio di personale non
dirigente.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, col
parere 26.07.2018 n. 222 chiarisce che le risorse disponibili per
le assunzioni costituiscono un insieme unico, senza vincoli di destinazione
derivanti dalla fonte di produzione.
In parole più semplici, in enti nei quali siano presenti dirigenti non si
verifica che le risorse derivanti dalla cessazione di personale non avente
qualifica dirigenziale siano riservate a tale tipo di personale e, quindi,
non siano utilizzabili per assumere nuovi dirigenti.
Il parere della sezione Lombardia fornisce risposta positiva al quesito
posto dal sindaco di un comune volto proprio a comprendere se sia possibile
«utilizzare la spesa conseguente alla cessazione di personale di
qualifica non dirigenziale, applicando le percentuali di facoltà
assunzionali previste per tali categorie e ad oggi disponibili, per poter
incrementare le facoltà assunzionali da destinare ad assunzioni di personale
dirigente».
Per i giudici contabili è un'ipotesi «percorribile» quella di «utilizzare
la spesa conseguente alla cessazione di personale dirigenziale e non
dirigenziale per il calcolo della capacità assunzionale destinabile ad una
unità con qualifica dirigenziale», purché ovviamente nel rispetto dei
complessivi vincoli di finanza pubblica.
Il chiarimento è particolarmente utile ai fini della necessaria
flessibilizzazione della gestione del personale e conferma la tesi
simmetrica: come è possibile utilizzare risorse liberate dalla cessazione di
personale non dirigente per assumere i vertici amministrativi, allo stesso
modo deve considerarsi possibile la situazione opposta, cioè utilizzare le
risorse liberate dal turn over delle qualifiche dirigenziali per effettuare
assunzioni di personale non dirigenziale.
Ciò risulta coerente con la normativa vigente, in particolare l'articolo 1,
comma 228, della legge 2087/2015 e l'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, i
quali nel disciplinare le percentuali di turn over previste non pongono
nessun genere di vincolo all'utilizzo delle risorse assunzionali, che quindi
costituiscono un insieme unico.
Il parere della sezione Lombardia non si sofferma sul tema della
programmazione del fabbisogno, ma è comunque possibile osservare che quanto
espresso dalla magistratura sia coerente anche con l'articolo 6 del dlgs
165/2001 che, come noto, indica alle amministrazioni pubbliche di impostare
i fabbisogni assunzionali non a partire da una dotazione organica
precostituita e rigida, bensì dalla valutazione dei fabbisogni di
professionalità rilevati, tradotti poi in una dotazione organica da
ricomporre annualmente a valle di un processo che parta dalla rilevazione
del tetto di spesa di personale massimo possibile (la media del triennio
2011-2013), per controllare se la somma tra spesa per il salario accessorio
e spesa per il trattamento fondamentale del personale in servizio sia al di
sotto del tetto fissato: il che consente di prevedere nuove assunzioni entro
il differenziale tra tetto previsto e spesa sostenuta cui aggiungere le
risorse assunzionali.
Tocca a ciascun ente stabilire, in relazione ai fabbisogni rilevati, se la
spesa utilizzabile per nuove assunzioni sia da finalizzare a questa o quella
categoria giuridica (e profilo professionale).
Il parere della Corte dei conti fonda una piena autonomia di scelta, da
dimostrare col piano dei fabbisogni, nell'ambito di risorse finanziarie
derivanti dal turn over che non scontano il problema di una loro rigida
distinzione a seconda del possesso o meno della qualifica dirigenziale del
personale cessato, ma che appunto sono da considerare come un plafond unico (articolo
ItaliaOggi del 17.08.2018). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Solo
gli incentivi tecnici del 2018 vanno esclusi dai limiti di spesa.
Solo gli incentivi per funzioni tecniche erogati nel 2018 vanno esclusi dai
limiti alla spesa di personale e al trattamento accessorio.
Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo
per il Veneto, che nel recente
parere 25.07.2018 n.
265 è tornata sul tema da poco affrontato dalla sezione
autonomie.
La materia è disciplinata dall'art. 113 del dlgs 50/2016 e dall'art. 23,
comma 2, del dlgs 75/2017. La prima norma definisce a chi e per quali
attività spettano i compensi aggiuntivi. Il nuovo codice dei contratti ha,
da un lato, escluso le attività di progettazione, dall'altro ha esteso gli
incentivi, oltre che ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e
forniture. Mentre per i lavori, possono essere beneficiari sia i tecnici che
il restante personale che abbia prestato la propria collaborazione, per
servizi e forniture, gli incentivi sono previsti esclusivamente per il
direttore dell'esecuzione.
A tali soggetti, sulla base di un atto
unilaterale dell'amministrazione (non soggetto a contrattazione sindacale),
possono essere destinate somme non superiori al 2% dell'importo posto a base
di gara ed entro un tetto pari al 50% del trattamento economico complessivo
spettante al singolo dipendente.
Ma il vero nodo riguarda la portata della seconda norma, che limita la
consistenza complessiva del fondo per le risorse decentrate all'importo del
2016. Non era chiaro se gli incentivi per funzioni tecniche fossero da
includere in tale limite o se ne siano esclusi (come accadeva per i vecchi
incentivi alla progettazione). Sul tema, sono intervenuti prima il
legislatore (con la legge 205/2017, che ha introdotto nel corpo dell'art.
113 il nuovo comma 5-bis) e poi la Sezione delle Autonomie (con
deliberazione 06.04.2017 n. 7), facendo prevalere la tesi dell'esclusione.
Si pone, tuttavia, un problema di diritto intertemporale, ovvero se possano
essere esclusi anche gli incentivi per attività svolta e conclusasi con
l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis. La
Sezione di controllo veneta propende per la tesi negativa, per cui per il
pregresso continuano a operare i tetti alla spesa di personale e al
trattamento accessorio (articolo
ItaliaOggi del 28.07.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco della Città di Porto Viro (RO) ha inviato a questa Sezione di
controllo una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8,
della legge 05.06.2003, n. 131, formulando i seguenti quesiti:
1) Se per quegli enti che si "associano" mediante
convenzione per la costituzione di una centrale unica di committenza (in
attuazione di quanto previsto dall'art. 33, co. 3-bis del D.lgs. n.
163/2006, come riformulato dall'art. 9, co. 4, del D.L. n. 66/2014,
convertito nella legge n. 89/2014 e per come integrato nei profili
applicativi dall'art. 23-ter del D.L. n. 90/2014 convertito nella legge n.
114/2014) il limite di spesa inerente il trattamento accessorio, così
come stabilito dalla normativa vigente, vada calcolato sul complesso delle
spese destinate al salario accessorio sostenuto dagli enti associati;
2) Se il Comune associato che eroga al proprio personale
dipendente il trattamento accessorio possa portare in diminuzione l'importo
rimborsatogli da altro comune associato, in forza della convenzione
istitutiva della centrale di committenza, ai fini del calcolo del proprio
limite di spesa stabilito dalla vigente normativa per il trattamento
accessorio complessivamente erogato;
3) Se il Comune che eroga al proprio personale dipendente il
trattamento accessorio possa portare in diminuzione l'importo rimborsatogli
da altro comune associato, in forza della convenzione istitutiva della
centrale di committenza, ai fini del calcolo del proprio limite di spesa
complessiva inerente il personale stabilito dalla vigente normativa;
4) Se i trattamenti accessori (incentivi) di cui all'art. 113
del d.lgs. n. 50/2016, per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione
della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis del medesimo decreto,
introdotto dalla novella di cui all'art. 1, comma 526, della legge n. 205
del 27/12/2017 (legge di bilancio 2018), debbano essere o meno esclusi
dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato
dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa.
La nota concludeva precisando “Tanto, in relazione al vigente quadro
normativo di cui all’art. 1, comma 557-quater, della legge n. 296/2006 ed
all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017”.
...
IV. Premesso quanto sopra in ordine alla delimitazione di competenza della
Corte nell’ambito dell’attività consultiva, e dunque non potendo sindacare
nel merito le scelte dell’ente, né tanto meno valutare l’esistenza dei
presupposti che consentono di esprimersi sulla legittimità dell’azione
amministrativa gestionale, questa Sezione ritiene che i
primi tre quesiti formulati dal Comune di Porto Viro non siano
oggettivamente ammissibili.
Infatti, le questioni prospettate si ricollegano necessariamente ai
contenuti di una convenzione tra amministrazioni destinata a regolare i
rapporti nell’ambito dell’operatività di una centrale unica di committenza,
compresi quelli relativi alla distribuzione degli oneri di funzionamento tra
i quali generalmente, in tali casi, si annoverano quelli diretti, quelli
generali e comuni, nonché le modalità con le quali ogni singolo ente
associato mette a disposizione il proprio personale. Quest’ultimo, infatti,
come noto può essere reso disponibile da parte di ogni comune con ricorso ai
diversi istituti giuslavoristici previsti dalla normativa vigente e dai CCNL
(distacco, convenzione, utilizzo ecc.) in relazione agli accordi scaturenti
dalla convenzione.
In relazione a quanto da ultimo rappresentato, pertanto, ove la Sezione
rendesse il parere rispondendo ai primi tre quesiti prospettati si
violerebbe il richiamato principio di astensione dall’attività consultiva
nei casi in cui vengano in poste discussione fattispecie concrete che, nel
caso in specie, trovano nel rapporto convenzionale gran parte della loro
origine. Ciò proprio al fine di evitare l’ingerenza della Corte nelle scelte
gestionali da operare solo ed esclusivamente da parte dell’amministrazione
attiva.
V. Con riferimento, invece, al quarto quesito, la Sezione ritiene che
lo stesso possa essere reso atteso che si verte in ordine
all’interpretazione della normativa vincolistica in materia di personale
(limite di spesa del trattamento accessorio) in correlazione, in
particolare, a quanto disposto dall’art. 113 del nuovo Codice degli Appalti
dedicato agli incentivi per funzioni tecniche, al fine della sua corretta
applicazione. Ciò, ovviamente astraendo il parere reso da ogni eventuale
riferimento a fattispecie concrete sottostanti, offrendo esclusivamente una
lettura interpretativa delle norme di contabilità pubblica che regolano la
materia in oggetto.
Venendo al merito, preliminarmente, si evidenzia come la
ratio sottesa alla previsione normativa di incentivi per il personale
delle pubbliche amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione
interna agli enti pubblici oltre che nelle attività di esecuzione dei lavori
pubblici era finalizzata a valorizzare le professionalità interne esistenti:
ciò anche con lo scopo di originare risparmi sulla spesa corrente delle
pubbliche amministrazioni che in tal modo, avrebbero potuto evitare di
ricorrere, per l’acquisizione di tali prestazioni, all’esternalizzazione con
una probabile levitazione degli oneri.
Non va poi sottaciuto che il quadro normativo di riferimento è stato
caratterizzato da numerose integrazioni delle disposizioni in materia
succedutesi nel tempo in modo non sempre organico.
In particolare, l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti
pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche”, ha
riproposto, in materia di incentivi tecnici, norme previgenti (quali l’art.
18 della legge n. 109 del 1994, e successive modifiche ed integrazioni, e
l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito in seguito
nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo).
Detta norma consente, previa adozione di un regolamento interno e della
stipula di un accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti
economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche
amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di
programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di
conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Successivamente, l’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, ha innovato la
disciplina prevedendo che l’imputazione degli oneri per le attività tecniche
ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, vada
effettuato non solo con riferimento agli appalti di lavori (nella
formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni
e di servizi.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle
amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di
cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in
misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori,
servizi e forniture, posti a base di gara”. L’importo del fondo è
destinato a remunerare una serie di funzioni, amministrative e tecniche,
svolte dai dipendenti interni ben individuate quali: “attività di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di
verifica di conformità, di collaudatore statico”.
Il successivo comma 3 della medesima disposizione non solo estende la
possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori”
ma stabilisce che l’80% delle risorse allocate sul detto fondo possa
ripartirsi, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, “con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del
personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti”, ai destinatari indicati al comma 2.
Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal
successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali
all’uso di metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le
infrastrutture; attivazione di tirocini formativi; svolgimento di dottorati
di ricerca; etc.).
Rispetto alla previsione di detti incentivi, che di per sé sono annoverabili
nell’ambito del trattamento accessorio del personale, si pongono, tuttavia,
una serie di norme vincolistiche di finanza pubblica che, nel corso degli
ultimi anni hanno posto dei limiti alle risorse che ogni amministrazione
deve destinare al relativo Fondo facendo emergere questioni interpretative
non di poco conto incentrate sulla riconduzione o meno di detti e delle
risorse destinate agli incentivi nell’ambito “tetto” al Fondo delle
risorse decentrate,
Con riguardo a tali disposizioni si richiama dapprima l’art. 9, comma 2-bis,
del d.l. n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 del 2010 con il quale
si disponeva che l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente
al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non
potesse superare il corrispondente importo dell'anno 2010 e che a decorrere
dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico
accessorio andassero decurtate di un importo pari alle riduzioni operate.
In seguito, l’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015 ha introdotto
analoga limitazione, statuendo che “Nelle more dell'adozione dei decreti
legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124,
con particolare riferimento all’omogeneizzazione del trattamento economico
fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di
finanza pubblica, a decorrere dal 1° gennaio 2016 l'ammontare complessivo
delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale,
anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche
di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto
del personale assumibile ai sensi della normativa vigente".
Il citato comma è stato poi abrogato dall'art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del
2017, che, a decorrere dal 1° luglio, dispone che “l'ammontare
complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio
del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2016”.
Fatto il debito richiamo al quadro normativo di riferimento si rammenta che
recentemente la Sezione delle Autonomie chiamata a pronunciarsi in merito
alla questione interpretativa prospettata dalla Sezione di controllo per la
Lombardia in ordine alla circostanza “se i compensi erogati a carico del
predetto fondo per gli incentivi tecnici debbano essere computati ai fini
del rispetto dei limiti al trattamento accessorio disposti dal
soprarichiamato articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017”, ha affermato,
sul punto, il seguente principio di diritto “Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo
modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli
sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non
sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75 del 2017” (deliberazione
26.04.2018 n. 6
Sezione delle Autonomie).
Nella citata deliberazione viene chiarito che l’incentivo,
essendo previsto da una disposizione di legge speciale (art. 113 del D.lgs.
50/2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche,
non è assoggettabile al vincolo del trattamento accessorio che, invece,
trova la sua fonte nei contratti collettivi di comparto.
Ed ancora, viene affermato che “gli incentivi per le
funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso
del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza
pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un
predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in
modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari
enti pubblici”.
Alla luce di dette considerazioni che si fondano sullo ius superveniens,
viene pertanto, superato il precedente orientamento della stessa Sezione
delle Autonomie, in vigore fino a tutto il 2017, che riteneva che gli
incentivi fossero da includere nel tetto del trattamento accessorio di cui
all’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) (deliberazione
06.04.2017 n. 7
e
deliberazione 10.10.2017 n. 24
Sezione delle Autonomie ).
Nella stessa
deliberazione 26.04.2018 n. 6,
veniva poi affrontato un ulteriore quesito interpretativo posto dalla
Sezione remittente lombarda e precisamente quello in ordine a “quali
siano le concrete modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici
devono adottare per osservare la regola dell’eventuale sottoposizione degli
incentivi previsti dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, al
limite complessivo posto al trattamento economico accessorio dall’art. 23,
comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Detto quesito nasceva da una serie di considerazioni sulle problematiche
interpretative della norma di cui al comma 5-bis formulate dalla Sezione
lombarda, che in parte attengono alla questione odierna, e che qui si
richiamano integralmente “Il primo problema attiene alla modalità
di computo degli incentivi erogati nel 2016 (anno base), ai sensi del d.lgs.
n. 163 del 2006, in modo da avere un omogeneo termine di riferimento per
l’esercizio di osservazione (per es., il 2018), in cui andrebbero inseriti
gli emolumenti spettanti ai sensi dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Tuttavia, come più volte affermato, mentre i primi erano riferiti ai soli
appalti di lavori, i secondi premiano anche agli appalti di forniture e di
servizi, e, come tali, dovrebbero, fisiologicamente, essere di un importo
superiore rispetto a quanto impegnato/erogato nel 2016 per i soli lavori
(elemento che prefigura, già in astratto, un potenziale sforamento del
limite).
Il secondo dubbio attiene al computo degli incentivi in discorso, ai
fini del limite di finanza pubblica, sia nell’anno base (2016) che in quello
oggetto di limitazione (per es. 2018), in termini di cassa o di competenza
(o sulla base di altro eventuale criterio).
Se si propende per la cassa, occorrerebbe inserire anche emolumenti che
derivano da attività aggiudicate o eseguite in anni precedenti, esercizi per
i quali l’orientamento delle Sezioni riunite avevano escluso la soggezione
al limite di finanza pubblica (e, facendo affidamento su tale principio, le
singole PA avevano costituito i vari fondi). Se si ragiona, invece, per
competenza (come accade, in generale, per l’applicazione delle regole
limitative di spesa), occorre chiarire a quale esercizio imputarle. Una
prima ipotesi potrebbe essere di imputarle a quello di costituzione del
fondo (in cui l’attività incentivata, tuttavia, potrebbe non essere stata
ancora espletata).
In alternativa, si potrebbe imputarle a quelli di effettivo espletamento
dell’attività tecnica incentivata, proponendosi però un problema applicativo
per gli incarichi per natura coinvolgenti più esercizi (quali il RUP, la
direzione dell’esecuzione del contratto, il collaudo in corso d’opera, etc.)
in ragione della necessità di individuare un parametro affidabile di
ripartizione (non sempre omogenea allo stato di avanzamento delle opere),
anche al fine di evitare interpretazioni elusive del dettato normativo. In
alternativa, per avere un ancoramento puntuale, si potrebbe imputare la
spesa all’esercizio di formale affidamento dell’incarico (con conseguenti
dubbi, tuttavia, per le attività che devono, per loro natura, essere
concretamente eseguite in esercizi successivi).
Ulteriore problema attiene al trattamento giuridico da accordare ai compensi
incentivanti collegati al medesimo lavoro, servizio o fornitura per
attività, tuttavia, espletate su più esercizi.
L’ancoramento del limite generale di finanza pubblica posto al trattamento
economico accessorio ad un anno base di riferimento, determina il rischio,
per gli appalti aventi esecuzione o efficacia pluriennale, dell’erogabilità
dell’incentivo a favore di alcune attività strumentali espletate dai
dipendenti interni, e non di altre, in ragione dell’esercizio di imputazione
(se capiente o meno), con riferimento, tuttavia, al medesimo lavoro,
servizio o fornitura (con conseguente necessità di adottare un criterio per
es. decurtazione proporzionale, che non determini disparità di trattamento
fra dipendenti interni, fonte di potenziale contenzioso).
Orbene, è proprio in relazione alle prospettate questioni poste dalla
Sezione lombarda, che si ricollega, almeno in parte, il quarto quesito
prospettato in questa sede dal Comune di Porto Viro ovvero se gli incentivi
“... di cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, per attività svolta e
conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del
comma 5-bis del medesimo decreto, …… debbano essere o meno esclusi dal
calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato
dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa”.
Detto quesito, può trovare la propria soluzione alla luce delle
considerazioni sopra richiamate svolte dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
In relazione alla questione se gli incentivi “per attività svolta e
conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del
comma 5-bis del medesimo decreto, ……debbano essere o meno esclusi dal
calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato
dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa”
la soluzione non può che essere ricondotta all’effetto innovativo prodotto
dal comma 5-bis dell’articolo 113 a far data dall’entrata in vigore della
disposizione normativa in relazione sia al principio del tempus regit
actum che a quello dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1,
delle Preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l'avvenire:
essa non ha effetto retroattivo).
La stessa Sezione delle Autonomie, d’altronde afferma che “…
va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur
mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione
autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio
nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione
ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di
incentivi tecnici …”.
Per altro verso la richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della sezione delle Autonomie dopo aver affermato che “la
ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo
ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative
analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure”
in ordine al fatto se le prestazioni per gli incentivi vadano o meno
considerate quale spesa del personale, è giunta a ritenere chiaramente che “L’avere
correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera
con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato
dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello
predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei
capitoli destinati a spesa di personale”.
Con ciò confermando che l’onere relativo non transita nell’ambito dei
capitoli dedicati alla spesa del personale e, quindi non può essere soggetto
ai vincoli posti, nel caso in specie agli enti territoriali, alla relativa
spesa.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo per il Veneto dichiara inammissibili
oggettivamente i primi tre quesiti formulati dal Comune dei Porto
Viro, e rende il parere nei termini sopra espressi in relazione al quarto
quesito prospettato. |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, regolamenti non retroattivi.
Il regolamento per gli incentivi tecnici non può avere effetti retroattivi,
ma la sua mancata approvazione non preclude la ripartizione delle risorse in
precedenza accantonate, purché ovviamente in modo conforme ai limiti di
legge.
Il nuovo chiarimento sulla ingarbugliata questione degli emolumenti previsti
dall'art. 113 del dlgs 50/2016 (che ha sostituito il previgente art. 93 del
dlgs 163/2006) arriva ancora una volta dalla Sezione regionale di controllo
per il Veneto della Corte dei conti, che con il
parere
25.07.2018 n. 264 ha affrontato un altro nodo critico,
ossia le conseguenze della mancata adozione del regolamento previsto sia dal
vecchio che dal nuovo codice dei contratti per disciplinare nel dettaglio
tutti gli aspetti del riparto di tali risorse non oggetto di specifica
previsione da parte del legislatore.
In tal senso, esso, per pacifica e
consolidata giurisprudenza contabile, si configura in maniera
inequivocabile, quale presupposto necessario della erogazione degli
incentivi, nel senso che in mancanza del regolamento non è possibile
procedere al pagamento.
Infatti, sulla scorta di quanto affermato anche
dalla Corte di cassazione, lo svolgimento delle attività tecniche e (oggi
anche) amministrative incentivatili non costituisce, in sé, un fatto
compiuto generatore della pretesa patrimoniale (essendo, a tal fine,
necessario il regolamento e la fissazione dei criteri di riparto del fondo,
la cui assenza, sempre secondo la Suprema Corte, non può essere ovviata
attraverso l'esercizio della potestà di cui all'art. 2099 c.c.) o, comunque,
determinante l'acquisizione definitiva di una utilità da parte dei soggetti
interessati.
Tuttavia, l'assoggettamento alla disciplina regolamentare del riparto delle
risorse accantonate tra i dipendenti che abbiano svolto le attività in
questione, purché effettuato con riferimento alle norme ratione temporis
applicabili alla fattispecie, secondo il criterio di regolazione in esse
espressamente previsto o, in mancanza, in base al disposto dell'art. 11
delle Preleggi, non concretizza una estensione retroattiva degli effetti di
tale disciplina ovvero una violazione del principio di irretroattività.
In altri termini, l'irretroattività del regolamento non preclude la
ripartizione delle risorse in precedenza accantonate e ciò rende legittimo
l'accantonamento, in misura ovviamente conforme al limite normativo, nelle
more dell'adozione di tale atto. Deve certamente escludersi, invece, che il
regolamento possa avere ad oggetto riparti già effettuati, al fine di porre
rimedio, con effetto ex tunc, al mancato, tempestivo adeguamento a quanto
prescritto dalla legge, come non potrebbe lo stesso modificare a posteriori
l'aliquota effettiva di risorse già destinate al fondo (cfr. Sezione
regionale di controllo per la Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7).
Sarebbe comunque auspicabile, rilevano i giudici veneti, un intervento del
legislatore che chiarisse la portata temporale delle norme regolamentari,
anche prevedendo una espressa (e possibile) deroga al principio di
irretroattività (articolo
ItaliaOggi del 02.08.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Fossalta di Portogruaro (VE), tenuto conto
degli ultimi approdi giurisprudenziali in materia di incentivi per funzioni
tecniche (deliberazione
26.04.2018 n. 6),
sulla base delle modifiche normative introdotte dalla L. n. 205/2017,
riguardanti la contabilizzazione delle risorse ad essi destinate nei bilanci
delle amministrazioni pubbliche, chiede se le conclusioni alle quali era
giunta questa Sezione regionale di controllo (parere
07.09.2016 n. 353) e le considerazioni espresse dalla Sezione Regionale di
controllo per la Basilicata (parere
08.03.2017 n. 7) siano ancora attuali, avuto riguardo alla possibilità
di liquidare (a far data dal 2014) le somme accantonate prima della
adozione, da parte delle amministrazioni medesime, del regolamento previsto
dal Codice degli appalti (vecchio e nuovo) e di fare riferimento, a tal
fine, ai “patti sindacali” ossia al contenuto della contrattazione
decentrata integrativa.
...
La richiesta di parere all’esame di questa Sezione ha ad oggetto gli
incentivi per funzioni tecniche disciplinati dal precedente e dall’attuale
Codice degli appalti e, specificamente, la possibilità di ripartire le somme
accantonate prima della adozione del regolamento previsto dalla normativa
richiamata, allo scopo di remunerare prestazioni rese in precedenza dai
dipendenti dell’ente.
La questione è stata già affrontata da questa e da altre Sezioni regionali
di controllo.
Nel
parere 07.09.2016 n. 353
(espressamente menzionato nella richiesta di parere), questa Sezione si è
pronunciata su alcuni quesiti interpretativi incentrati sul previgente art.
93 del D.lgs. n. 163/2006: in particolare, dopo aver affermato
l’irretroattività del regolamento ivi previsto, espressamente finalizzato,
nel testo della norma, alla quantificazione della “percentuale effettiva”
delle risorse da destinare ad apposito fondo nonché a disciplinare, mediante
il recepimento dei criteri definiti in sede di contrattazione decentrata, il
riparto del fondo medesimo tra i dipendenti interessati, ha concluso che la
disciplina regolamentare è “condizione essenziale ai fini del legittimo
riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate” e che, comunque,
nelle more della adozione di tale atto, l’ente possa provvedere
all’accantonamento delle risorse entro i limiti percentuali normativamente
fissati (non più del 2 per cento sull’importo dei lavori dei lavori, servizi
o forniture).
Ad analoga conclusione è giunta anche la Sezione di controllo per la
Basilicata (parere
08.03.2017 n. 7, del
pari, richiamata nella richiesta di parere), anche se attraverso un percorso argomentativo differente, caratterizzato dalla previa individuazione del
momento di insorgenza del diritto al compenso e dall’analisi della diversa
incidenza, su tale genesi, dei presupposti contemplati dalla norma, con un
distinguo tra contrattazione collettiva decentrata integrativa e regolamento
vero e proprio.
In sostanza, a prescindere dal momento genetico del diritto e dalla
qualificazione dei presupposti contemplati dalla norma, l’adozione del
regolamento è stata ritenuta presupposto necessario ai fini della
remunerazione anche delle prestazioni svolte in precedenza, sulla base dei
criteri e delle modalità da esso recepite e dell’ammontare complessivo del
Fondo ivi stabilito.
In tal senso, si è espressa anche la Sezione Lombardia,
secondo cui i “nuovi” incentivi previsti dall’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016
possono essere erogati una volta adottato il regolamento, anche se relativi
a funzioni tecniche espletate nel periodo anteriore, purché in riferimento a
procedure bandite dopo l’entrata in vigore del suddetto Decreto legislativo
e mediante l’utilizzazione delle somme accantonate nel quadro economico
riguardante lo specifico appalto (parere
12.06.2017 n. 191 e
parere 07.11.2017 n. 305).
In merito alla irretroattività del regolamento, affermata in linea di
principio da questa Sezione nella citata delibera -in ragione della natura
di atto normativo allo stesso attribuibile e della conseguente applicazione
dell’art. 11 delle Preleggi- ed esclusa, invece, dalla Sezione Basilicata,
limitatamente a quella parte dell’atto finalizzata al recepimento degli
esiti della contrattazione collettiva decentrata integrativa,
appare
opportuno formulare alcune considerazioni, che consentiranno di affrontare i
profili problematici segnalati dall’ente.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che, nell’art. 93 del vecchio codice degli
appalti -nel testo modificato dall’art. 13-bis della L. n. 114/2014 (di
conversione del D.L. n. 90/2014)- il regolamento in questione, come si è già
evidenziato, oltre a disciplinare il riparto del fondo, attraverso
l’assunzione dei criteri e delle modalità stabilite in sede di
contrattazione decentrata integrativa, definiva, altresì, la percentuale “effettiva”
delle risorse da impiegare, entro il limite massimo del 2% degli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori.
Nell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, invece, al regolamento non è più
demandata la definizione della percentuale effettiva delle risorse da
destinare al fondo, ma esso rimane strumento della disciplina di dettaglio
riguardante tutti gli aspetti del riparto di tali risorse non oggetto di
specifica previsione da parte della norma, qualificandosi, in maniera ancor
più inequivocabile, quale presupposto necessario della erogazione degli
incentivi per funzioni tecniche (“L’ottanta per cento delle risorse
finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito per
ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento, adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i
soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i
loro collaboratori”).
Fatta questa precisazione, deve rilevarsi che, sia con riguardo alle
disposizioni del vecchio codice che con riguardo a quelle attualmente in
vigore, la conclusione secondo cui, a seguito dell’adozione del regolamento,
si può disporre la ripartizione degli incentivi per attività espletate dopo
l’entrata in vigore delle disposizioni medesime ma prima di tale adozione,
mediante l’utilizzazione delle somme accantonate, non si pone in contrasto
con l’irretroattiva del regolamento, comunque riferibile, ad avviso di
questa Sezione, all’atto nella sua interezza, senza distinzioni.
Gli incentivi in esame, diversamente da quanto accade per il trattamento
retributivo (principale o accessorio) dei pubblici dipendenti, di competenza
della contrattazione collettiva nazionale, sono previsti dalla legge
–attualmente, art. 113 del D.lgs. n. 50/2016– che definisce le prestazioni
(espletamento di funzioni tecniche, appunto, analiticamente individuate) che
danno luogo alla corresponsione degli stessi; lo speciale trattamento
retributivo in questione, dunque, trova la propria fonte in una norma, la
quale prevede, ai fini della corresponsione –rectius ripartizione del
fondo all’uopo accantonato– la fissazione dei criteri e della modalità di
distribuzione delle risorse ad esso specificamente “destinate” in sede di
contrattazione collettiva decentrata e l’adozione di “apposito regolamento”.
Quest’ultimo costituisce un “passaggio fondamentale per la regolazione
interna della materia” (deliberazione
13.05.2016 n. 18),
strumento di adattamento della disciplina normativa alle specifiche esigenze
dell’ente, legate alle singole procedure di appalto, ma, nell’ottica che qui
interessa, è soprattutto l’atto che, recependo i criteri e le modalità
individuati dalla contrattazione decentrata, consente il riparto delle
risorse accantonate e rende determinabile il quantum dell’incentivo
spettante ai singoli dipendenti, con ciò sancendo il sorgere della pretesa
patrimoniale (ovvero del diritto) alla corresponsione del trattamento
accessorio.
Invero, il momento in cui può dirsi sorto il diritto alla erogazione degli
incentivi (per la progettazione, prima, e per le funzioni tecniche,
attualmente), in passato, era stato identificato con l’espletamento della
prestazione.
In particolare, la Sezione delle Autonomie e, seguendone
l’orientamento, anche alcune Sezioni regionali di controllo, avevano
ritenuto, sulla scorta di una pronuncia della Suprema Corte (sentenza 19.07.2004
n. 13384), che il diritto all’incentivo –ossia quello allora
previsto dall’art. 18 della L. n. 109/1994– costituisse “un vero e
proprio diritto soggettivo di natura retributiva (…) che inerisce al
rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo
dell’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai
presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso” e che “dal
compimento dell’attività nasce il diritto al compenso” (deliberazione
08.05.2009 n. 7/2009/QMIG).
Di recente, tuttavia, sempre con riferimento ad una fattispecie sorta nella
vigenza della disciplina anteriore al Codice degli appalti, la Corte di
Cassazione ha chiarito il proprio orientamento, precisando che
i principi
affermati nella sentenza del 2004 non avallano affatto la possibilità di
riconoscere il diritto all’incentivo in assenza del regolamento (allora
prescritto dall’art. 18 della L. n. 109/1994, a seguito delle modifiche
introdotte prima dall’art. 16 della L. n. 127/2007 e poi dall’art. 13 della
L. n. 144 del 1999) e che, in ogni caso, “l’incentivo può essere
attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva decentrata e se sia
stato adottato l’atto regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice
volto alla precisazione dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle
risorse finanziarie confluite nel Fondo” (Cass. civ. sez. lav.,
sentenza
05.06.2017 n. 13937).
Sulla base del tenore, assolutamente analogo, sotto il profilo considerato,
delle disposizioni sin qui menzionate ed alla luce delle condivisibili
conclusioni alle quali è giunto anche il Giudice del lavoro,
non può
configurarsi un diritto soggettivo alla erogazione dell’incentivo (per la
progettazione o per funzioni tecniche) prima della adozione del regolamento.
In altri termini, secondo il chiaro disposto tanto del previgente art. 93
del D.lgs. n. 163/2016 –ancora applicabile alle fattispecie afferenti alle
procedure bandite prima della entrata in vigore del nuovo Codice degli
appalti– quanto dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, lo svolgimento delle
attività tecniche (ed amministrative) non costituisce, in sé, un fatto
compiuto generatore della pretesa patrimoniale (essendo, a tal fine,
necessario il regolamento e la fissazione dei criteri di riparto del fondo,
la cui assenza, sempre secondo la Suprema Corte, non può essere ovviata
attraverso l’esercizio della potestà di cui all’art. 2099 c.c.) o, comunque,
determinante l’acquisizione definitiva di una utilità da parte dei soggetti
interessati.
L’assoggettamento alla disciplina regolamentare del riparto delle risorse
accantonate tra i dipendenti che abbiano svolto le attività in questione,
purché effettuato con riferimento alle norme ratione temporis
applicabili alla fattispecie, secondo il criterio di regolazione in esse
espressamente previsto o, in mancanza, in base al disposto dell’art. 11
delle Preleggi, dunque, non concretizza una estensione retroattiva degli
effetti di tale disciplina ovvero una violazione del principio di
irretroattività.
Deve certamente escludersi, invece, che il regolamento possa avere ad
oggetto riparti già effettuati, al fine di porre rimedio, con effetto ex
tunc, al mancato, tempestivo adeguamento a quanto prescritto dalla
legge, come non potrebbe lo stesso –con riferimento alle procedure di
appalto instaurate nel vigore dell’art. 93 del D.lgs. n. 163/2006- “modificare
a posteriori l’aliquota effettiva di risorse già destinate al fondo”
(Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7, cit).
L’irretroattività, inoltre, va valutata in relazione al contenuto dell’atto
de quo ovvero agli aspetti che esso regolamenta e che può legittimamente
regolamentare. L’art. 113, in particolare, ne colloca la disciplina
esclusivamente nell’ambito del riparto delle risorse finanziarie del fondo e
della determinazione delle modalità di quantificazione del corrispettivo,
provvedendo alla individuazione analitica delle varie tipologie di
prestazioni rilevanti ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio,
con la conseguenza che è alla norma soltanto che occorre fare riferimento,
sia sotto il profilo temporale che della corrispondenza della fattispecie
concreta a quella astratta ivi prevista, per stabilire se una prestazione
possa essere o meno riconosciuta, una volta sussistenti tutti i presupposti
dei quali si è detto.
In conclusione, l’irretroattività del regolamento non preclude, per le
ragioni dianzi specificate, la ripartizione delle risorse in precedenza
accantonate e ciò rende legittimo l’accantonamento, in misura ovviamente
conforme al limite normativo, nelle more dell’adozione di tale atto.
Al fine di fugare ogni dubbio in merito ed evitare problemi applicativi alle
amministrazioni, comunque, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore
che chiarisse la portata temporale delle norme regolamentari, anche
prevedendo una espressa (e possibile) deroga al principio di
irretroattività.
Il quadro appena delineato va valutato alla luce del principio di diritto
enunciato dalla Sezione delle Autonomie nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6,
secondo cui gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016 non soggiacciono al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici
dall’art. 23, comma 2, del D.lgs. n. 75/2017. Sulla base dello ius
superveniens, la Sezione ha superato il precedente orientamento, in base al
quale gli incentivi erano, invece, da includere nel tetto del trattamento
accessorio (deliberazione
06.04.2017 n. 7
e
deliberazione 10.10.2017 n. 24).
L’ente richiedente, infatti, ha espresso perplessità circa la compatibilità
del suddetto, nuovo principio con la ritenuta utilizzabilità delle risorse
accantonate ai fini del riparto, una volta adottato il regolamento.
Le perplessità sembrerebbero prendere le mosse dalla considerazione che, una
volta esclusi gli incentivi dalle voci di bilancio che riguardano la spesa
di personale, in forza del comma 5-bis dell’art. 113, introdotto dall’art.
1, comma 526, della L. n. 205/2017, che li ha collocati sui capitoli di
spesa previsti per i singoli lavori, servizi e forniture, verrebbe meno
l’impianto argomentativo che giustifica il riparto nei termini anzi detti.
Invero, sia la modifica normativa che la conseguente interpretazione della
disciplina sugli incentivi formulata dalla Sezione delle Autonomie non
appaiono in contrasto con le conclusioni sin qui esposte.
Nella pronuncia del 2018, si afferma che; l’allocazione contabile degli
incentivi nell’ambito dei medesimi capitoli di spesa dei singoli lavori,
servizi o forniture, se pure “potrebbe non mutarne la natura di spesa
corrente -trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio
spettanti al personale”– tuttavia, “sembra consentire di desumere
l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e della spesa per il
trattamento accessorio”; la ratio legis è quella “di stabilire una
diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure”; in definitiva, “l’allocazione in
bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di
conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto
finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori,
servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le
risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici”.
Ne emerge, in sostanza, la presa d’atto della considerazione, in termini di
specialità, degli incentivi in esame, non a caso “disciplinati da una
disposizione di legge speciale, valevole per i dipendenti di tutte le
amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi
fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto” (deliberazione
26.04.2018 n. 6), che trovano origine nella legge e non nella
contrattazione collettiva (e men che meno quella decentrata integrativa, cui
compete, nella specie, soltanto la fissazione dei criteri di riparto tra i
dipendenti del fondo all’uopo stanziato).
La contabilizzazione delle risorse secondo un modello predeterminato ed al
di fuori dei capitoli destinati alla spesa di personale non collide con la
possibilità di ripartire le risorse del fondo per remunerare le prestazioni
tecniche precedentemente rese dai dipendenti, una volta adottato il
regolamento, così come sin qui argomentato –tenuto conto del vincolo al
trattamento accessorio di cui all’art. 23, comma 2, del D.lgs. n. 75/2017,
nei termini indicati, da ultimo, nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle
Autonomie- generando semmai il dubbio che la speciale disciplina
contabile, per effetto delle modifiche introdotte dal citato art. 1, comma
526, della L. n. 205/2017, abbia conformato anche la natura giuridica del
trattamento economico in questione.
Vero è che –come
prospettato dall’ente nella richiesta di parere- nel quadro
appena delineato ed alla luce delle considerazioni contenute nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6 dianzi riportate, non
sembra avere più molta utilità distinguere tra contrattazione decentrata
integrativa e Regolamento destinato a recepirla ai fini della individuazione
della genesi del diritto a percepire gli incentivi per funzioni tecniche;
tanto più che, in ogni caso, essa non consente (e non consentiva secondo
l’orientamento delle Sezioni regionali di controllo, in generale) di
liquidare gli incentivi in assenza del prescritto regolamento. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: I
compensi incentivanti non sono riconoscibili ai Commissari
di gara.
Gli incentivi ex art. 113 D.Lgs. n. 50/2016
retribuiscono dal 19/04/2016 (art. 220) soltanto le funzioni
prettamente “tecniche” (gestionali, esecutive e di
controllo), attingendo al Fondo vincolante risorse non
superiori al 2% dell’importo a base di gara, con copertura
“a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1” (c.d.
“quadro economico” dell’appalto) secondo il comma 5-bis,
introdotto da art. 1, comma 526, della L. 205/2017.
---------------
Secondo il criterio transitorio dell’art. 216 Cod., l’art.
113 si applica a tutte le procedure o ai contratti per cui -dopo l'entrata in vigore del Codice- sono stati pubblicati
i bandi o gli avvisi, o sono stati inviati gli inviti a
presentare le offerte. L’incentivo è erogabile in tutte e
tre le tipologie di contratti pubblici di appalti: lavori,
servizi e forniture, senza che sia necessaria la presenza di
un appalto “misto”, purché sussista una pubblica gara.
Il Regolamento è elemento integrativo della “fattispecie
complessa” prodromica alla liquidazione dell’incentivo, ma
non è necessario per costituire il Fondo, che il Comune è
autorizzato per legge ad accantonare prima, purché nei
limiti massimi (2%).
Esso è condizione di legittimità per ripartire, tra gli
aventi diritto, in recepimento dei criteri e modalità
fissati in sede di contrattazione decentrata, le risorse del
Fondo ed ha duplice ruolo: esecutivo delle tassative
previsioni legali nella parte in cui ripartisce gli
incentivi tra le diverse categorie di beneficiari;
normativo, ove specifica le percentuali da corrispondere a
ciascuna figura professionale ed il concetto di
“collaboratori” del RUP.
---------------
L’elencazione tassativa delle attività incentivabili (cfr.
“esclusivamente” in 2° co.) preclude di ricomprendere
estensivamente l’attività dei Commissari di gara, in quanto
valutativa e non tecnico-esecutiva. I Commissari sono
retribuibili -con onere gravante sul quadro economico
dell’appalto- soltanto ove nominati tra professionisti
esterni alla Stazione (cfr. art. 77, 10° co., Cod. e art. 2 DM
Infrastrutture 12/02/2018).
Né sono incentivabili i dipendenti della Stazione appaltante
operanti come Commissari di gara (neppure entro il 25%
dell’incentivo previsto dal 2° co., se distaccati presso la
CUC).
Il Regolamento è richiesto soltanto dal 3° co. per
ripartire le risorse tra gli aventi diritto nel caso in cui
sia l’Ente locale, gestendo direttamente l’appalto, a dover
devolvere l’80% del Fondo, ma non per devolvere “tutto o
parte” del Fondo di cui al 2° co., ai dipendenti della CUC
di cui il Comune si avvale, spettando poi alla CUC ripartire
tali risorse con proprio Regolamento.
Il Comune può
riconoscere incentivi entro il 25%, di cui al 5° co., se li
attribuisce ai suoi dipendenti, previo consenso della CUC
presso di cui li ha distaccati, per lo svolgimento di
funzioni tecniche a vantaggio di Comuni diversi.
Sono incentivabili i componenti della Conferenza Unificata
tecnica della CUC (di cui fa parte il Responsabile della CUC
e possono far parte i Segretari comunali), purché non
svolgano funzioni valutative.
---------------
Dal 01.01.8 le spese relative
agli incentivi tecnici non sono più iscrivibili nel capitolo
di spesa del personale relativo al trattamento accessorio,
né sottoponibili ai relativi vincoli e limiti.
Esse devono trovare iscrizione contabile nel medesimo
capitolo di spesa (di investimento) destinato a coprire il
costo complessivo dei lavori, servizi e forniture: Tit. II
della spesa, ove si tratti di opere pubbliche e Tit. I, nel
caso di servizi e forniture, “con qualificazione coerente
con quella del tipo di appalto di riferimento”.
Ne consegue che la spesa relativa agli incentivi è
finanziabile con l’indebitamento, non ostandovi il 119 Cost..
---------------
... il Sindaco pro tempore del Comune di San Cesareo (RM) ha
effettuato richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma
8, della L. n. 131 del 2003, con riferimento agli “incentivi
per funzioni tecniche” riconosciuti, dall’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, ai pubblici dipendenti,
formulando i seguenti quesiti:
1. “se tra le attività riportate al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs.
n. 50/2016, per lo svolgimento delle quali è prevista la
possibilità di riconoscere gli incentivi tecnici, rientrano
anche le attività svolte dai dipendenti come commissari di
gara”;
2. “se, in mancanza di Regolamento comunale per la ripartizione
degli incentivi tecnici ed in assenza della previsione, tra
le risorse variabili del Fondo della contrattazione
decentrata del Comune, delle somme necessarie a finanziare i
medesimi incentivi, sia possibile riconoscere alla CUC la
quota del 25% dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113
del D.Lgs. n. 50/2016”;
3. “se la quota del 25% che ciascun Comune versa alla CUC possa
essere utilizzata per corrispondere gli incentivi tecnici
solo al personale stabile della CUC (l’art. 113, comma 5,
parla di compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza) o se, invece, è possibile riconoscere tali
compensi anche ai commissari di gara formalmente incaricati
dal RUP della CUC (tali dipendenti, anche in altri comuni
aderenti alla CUC, sono considerati funzionalmente
distaccati presso la Centrale) ed ai membri della Conferenza
unificata tecnica della CUC (di cui fa parte anche il
responsabile della CUC o un suo delegato o di cui possono
far parte anche i segretari comunali)”;
4. “se, dopo l’approvazione del Regolamento comunale, sia possibile
riconoscere tali incentivi con effetto retroattivo, ovvero
anche per le procedure di acquisizione di lavori, servizi e
forniture avviate e concluse prima dell’adozione dello
stesso”;
5. “se sia possibile riconoscere tali incentivi dopo l’approvazione
del Regolamento, pur in assenza della previsione di tali
risorse nel fondo per la contrattazione integrativa
dell’anno di riferimento”.
A tal fine, precisa di non aver ancora adottato lo specifico
Regolamento comunale per disciplinare la ripartizione degli
incentivi tecnici in questione tra il personale dipendente;
di non aver stanziato –in sede di costituzione del Fondo
della contrattazione decentrata– alcuna risorsa da
destinare ad essi come vincolata; di aver aderito ad una
Centrale Unica di Committenza (CUC) per l’espletamento delle
procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture.
Riferisce, altresì, che il Regolamento della CUC prevede che
ciascun Ente aderente ad essa debba riconoscerle il 25%
dell’incentivo di cui al comma 2, secondo la propria
modulazione, da ripartirsi tra il personale stabile della
CUC, i Commissari di gara (nominati dal RUP della CUC tra i
dipendenti degli Enti aderenti) ed i membri della Conferenza
tecnica unificata (composta dal responsabile della CUC e dai
responsabili comunali nominati dalle amministrazioni
aderenti).
...
Considerazioni generali.
Occorre premettere, all’analisi specifica dei cinque quesiti
ermeneutici prospettati, alcune considerazioni di carattere
generale sull’istituto degli incentivi tecnici, quale
disciplinato dall’art. 113 del Codice, dapprima novellato dal
D.Lgs. correttivo n. 56 del 2017 e poi integrato, con
l’aggiunta di un comma 5-bis, dalla L. n. 205 del 2017 (Legge
di Stabilità 2018).
Trattasi di interventi normativi, che
hanno progressivamente innovato -in modo significativo
rispetto a quanto previsto dal Codice previgente (D.Lgs. n. 163/2006)- l’apparato dei compensi incentivanti, i quali –da un
canto– non possono più essere corrisposti per le attività
di progettazione e –dall’altro– sono stati estesi alle
funzioni tecniche svolte dai dipendenti anche nei contratti
pubblici di servizi e di forniture e non più soltanto di
lavori pubblici.
1. Le origini storiche dell’istituto.
Quanto al primo profilo, giova ricordare che gli incentivi
tecnici storicamente nascono come correlati proprio alle
funzioni progettuali, stante il principio che alla
predisposizione del progetto dovessero provvedere, di
regola, gli Uffici tecnici interni alle Amministrazioni,
costituendo l’affidamento esterno una mera eccezione:
principio introdotto dall’art. 1 del R.D. 1923 n. 422,
reiterato dagli articoli 17 e 18 della abrogata L. n. 190
del 1994 (c.d. “Legge Merloni”), nonché confluito nell’art.
7, comma 6, del D.Lgs. n. 165 del 2001 e, al contempo,
consolidatosi anche a livello giurisprudenziale.
In considerazione di tale conformazione dell’attività di
progettazione, l’art. 18 della L. n. 190 del 1994 introdusse
l’istituto degli incentivi c.d. “alla progettazione”, poi
ripreso –seppure con oscillazioni, nel tempo, delle
relative percentuali– dall’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006,
che (come modificato dall’art. 1, comma 10-quater, del D.L. n. 162
del 2008, convertito dalla L. n. 201 del 2008) pose un tetto
massimo, in base al quale l’importo del compenso
incentivante non poteva superare quello del complessivo
trattamento annuo lordo del dipendente che lo percepiva.
Alla relativa corresponsione era destinato un Fondo interno,
alimentato con una quota parametrata all’ammontare del costo
preventivato per le opere e per i lavori, da distribuire e
liquidare con le modalità stabilite dall’Amministrazione
appaltante mediante Regolamento. Si trattava, dunque, di
somme finalizzate, con vincolo di destinazione, ad
incentivare i dipendenti interni svolgenti, oltre alla
progettazione, anche una serie di altre attività tecniche,
alcune analoghe a quelle dell’art. 113 in esame, per cui
costituivano a tutti gli effetti, anche nel portato
dell’interpretazione giurisprudenziale, oggetto di un
diritto soggettivo retributivo del pubblico dipendente (sub
specie di “salario accessorio”).
Diritto che era considerato direttamente nascente da
disposizioni normative e, dunque, sussistente ove pure la
P.A. restasse inottemperante riguardo alla predisposizione
del Regolamento (in tal senso Cass.
sentenza 19.07.2004 n. 13384,
in relazione alla formulazione dell’art. 18, come modificato
dall’art. 6, comma 13, della L. n. 127/1997, che peraltro non
subordinava –come l’attuale 113– l’emanazione del
Regolamento alla previa stipula della contrattazione
collettiva decentrata integrativa, a differenza di quanto è
stato poi previsto sin dall’art. 13, comma 4, della L. n. 144/1999).
Con gli articoli 13 e 13-bis del D.L. n. 90 del 2014 e la
relativa L. di conversione n. 114 del 2014, l’istituto fu,
poi, profondamente innovato e la disciplina degli incentivi
alla progettazione interna di opere o lavori, con effetto
dal 19/08/2014, non più allocata nell’abrogato comma 5
dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, venne riproposta, con
modifiche, all’interno del successivo art. 93, escludendosi:
a) la categoria dirigenziale dall’erogazione dei compensi
incentivanti, in quanto –ove pure essa fosse chiamata a
svolgere funzioni tecniche, quali quelle elencate– doveva
ritenerle retribuite dall’onnicomprensivo trattamento
economico percepito (comma 6-bis, aggiunto all’art. 92), con
eccezione reiterata in modo espresso nell’ultimo inciso del
terzo comma dell’art. 113 del nuovo Codice;
b) le attività di pianificazione urbanistica, nonché quelle di
progettazione riguardante attività di manutenzione
straordinaria e ordinaria, dal novero delle attività
tecniche incentivabili.
2. Il nuovo Codice dei contratti pubblici
(D.Lgs. n. 50/2016).
In seguito al generale riordino della materia dei contratti
pubblici, operato dal nuovo Codice, approvato in recepimento
delle Direttive europee n. 2014/23/UE, n. 2014/24/UE n. 2014/25/UE,
oggi, per discrezionale scelta di politica legislativa (art.
113), gli incentivi non retribuiscono più l’espletamento di
funzioni progettuali da parte dei dipendenti.
E ciò sebbene la regola resti, anche nel nuovo Codice,
quella di affidare la progettazione a dipendenti interni,
visto che l’art. 23, comma 2, dispone: “Per la progettazione
di lavori di particolare rilevanza sotto il profilo
architettonico, ambientale, paesaggistico, agronomico e
forestale, storico-artistico, conservativo, nonché
tecnologico, le stazioni appaltanti ricorrono alle
professionalità interne, purché in possesso di idonea
competenza nelle materie oggetto del progetto o utilizzano
la procedura del concorso di progettazione o del concorso di
idee di cui agli articoli 152, 153, 154, 155 e 156. Per le
altre tipologie di lavori, si applica quanto previsto
dall'articolo 24”.
In base a quest’ultimo articolo, la
progettazione, che per i lavori pubblici si articola in tre
livelli (progetto di fattibilità, progetto definitivo e
progetto esecutivo) è affidata, in prima battuta, agli
uffici tecnici delle Stazioni appaltanti (lett. a del comma
1) o agli uffici consortili costituiti da Enti pubblici o ad
altri organismi di altre PA e, in via soltanto residuale, ad
operatori economici privati esterni (facendo la lett. d
rinvio recettizio all’art. 46). Mentre “La progettazione di
servizi e forniture è articolata, di regola, in un unico
livello ed è predisposta dalle stazioni appaltanti, di
regola, mediante propri dipendenti in servizio” (art. 23,
comma 14, Codice).
L’esclusione, dall’ambito di operatività dei nuovi incentivi
tecnici, dell’espletamento di funzioni progettuali è da
ricondurre, già a monte, alla ratio della legge delega
emanata per il riordino della disciplina vigente in materia
di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture
(art. 1, comma 1, lett. rr, L. n. 11/2016), secondo la quale
detti compensi sono finalizzati a incentivare specifiche
attività –di natura eminentemente tecnica– svolte dai
dipendenti pubblici, tra cui quelle di programmazione, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara,
nonché di esecuzione del contratto, “escludendo
l’applicazione degli incentivi alla progettazione”, in modo
espresso ed inequivoco.
Gli oneri necessari, invece, per coprire le funzioni
progettuali svolte da professionisti esterni della Stazione
pubblica appaltante, direttamente “fanno carico agli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture, negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti” (art. 113, comma 1,
Codice).
3. I nuovi incentivi “tecnici” (art. 113).
Gli incentivi tecnici sono, pertanto, oggi funzionalmente
destinati a retribuire –in chiave premiale ed aggiuntiva
rispetto al trattamento economico ordinario– soltanto le
funzioni più prettamente gestionali, esecutive e di
controllo e sono corrisposti attingendo al Fondo in cui sono
vincolate risorse non superiori al 2% dell’importo
complessivo posto a base di gara, con copertura “a valere
sugli stanziamenti di cui al comma 1” (art. 113, comma 2),
costituenti il c.d. “quadro economico” dell’appalto.
Anche la Sezione Autonomie di questa Corte ha, del resto,
esplicitamente dato atto della intervenuta abolizione degli
incentivi alla progettazione previsti dal previgente Codice
e della introduzione di nuove forme di incentivazione per
funzioni tecniche, ad opera dell’art. 113 del nuovo Codice (deliberazione
13.05.2016 n. 18, citata e confermata da
deliberazione 06.04.2017 n. 7).
Ed ha ribadito che, comunque:
a) gli incentivi per la progettazione affidata a dipendenti
interni, per quanto ancora spettanti in applicazione
dell’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006, sono contabilmente
inquadrabili come spese di investimento, attinenti alla
gestione in conto capitale, non soggiacenti alle riduzioni
di cui all’art. 1, commi 557 e 562, della L. 2006 n. 296 (delibera
13.11.2009 n. 16/2009);
b) gli incentivi per la progettazione ancora spettanti in
applicazione dall’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006,
al personale degli uffici tecnici incaricato della
realizzazione di lavori pubblici, incentivi che sono stati i
primi ad essere ritenuti non sottoposti al tetto del Fondo
per la contrattazione decentrata e dal tetto della spesa del
personale, continuano ad esserne esclusi (Sezione Autonomie,
deliberazione 10.10.2017 n. 24).
4. Il regime transitorio.
Problematica di rilevante importanza è quella relativa al
regime di diritto transitorio applicabile, in particolare,
all’istituto degli incentivi tecnici, quale disciplinato
dall’art. 113, considerato che il protrarsi nel tempo delle
procedure di appalto le espone allo ius superveniens.
A decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore
del Codice (ex art. 220, dal giorno stesso della sua
pubblicazione nella G.U.), il criterio di diritto
transitorio enunciato dall’art. 216 del Codice, in difetto
della previsione di espresse eccezioni, risulta generale e
applicabile anche riguardo all’operatività della disciplina
recata dall’art. 113. Secondo detto criterio, la questione
di diritto intertemporale va risolta nel senso che le nuove
disposizioni del Codice si applicano a tutte le procedure o
ai contratti per i quali i bandi o gli avvisi risultano
pubblicati (o, quando si prescinde dal bando, gli inviti a
presentare le offerte sono stati inviati) posteriormente
all'entrata in vigore dello stesso.
Ai fini della applicabilità del regime normativo
disciplinante, invece, i pregressi ed abrogati incentivi
alla progettazione, si deve far riferimento –secondo il
vincolante orientamento espresso dalle delibere della
Sezione Autonomie– alla data di effettivo espletamento
delle funzioni progettuali (deliberazione
08.05.2009 n. 7;
deliberazione 24.03.2015 n. 11
e
deliberazione 13.05.2016 n. 18): per cui, ove il bando sia stato
approvato dopo il 19.04.2016, continuerà ad applicarsi
la previgente disciplina alle attività di progettazione
incentivate espletate prima di tale data, che risulteranno
liquidabili purché sia stato già emanato il Regolamento e
purché siano stati effettuati gli accantonamenti
nell’apposito Fondo.
La “necessità per gli enti locali di adeguare
tempestivamente la disciplina regolamentare in materia,
nella quale peraltro trova necessario presupposto
l’erogazione dei predetti incentivi” è stata, peraltro,
espressamente ribadita anche dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione
23.03.2016 n. 10).
Il criterio dell’effettivo espletamento non è stato tuttavia
riproposto dalla medesima Sezione Autonomie, in funzione di
orientamento generale, nella più recente deliberazione (cit.
deliberazione 26.04.2018 n. 6), che si è proprio occupata
dell’ermeneusi del comma 5-bis, senza effettuare, tuttavia,
alcuna osservazione che possa vincolare le Sezioni regionali
sotto il profilo del diritto transitorio: il che è
condivisibile considerato che del resto non avrebbe potuto
spingersi a favorire una interpretazione contraria alla
chiara lettera dell’art. 216 del Codice.
Per cui è da ritenersi che l’art. 113, sia applicabile a
tutte le procedure ed ai contratti per i quali i bandi o gli
avvisi risultano pubblicati dopo l'entrata in vigore del
Codice, ovvero, in difetto di essi, dopo tale data siano
stati inviati gli inviti a presentare le offerte per le
funzioni tecniche (in tal senso anche Sez. reg. controllo
Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177).
5. L’ambito di operatività dell’istituto.
I nuovi e diversi incentivi per funzioni tecniche oggi
erogabili, nell’ambito della contrattualistica pubblica,
sono riferiti agli appalti sia di lavori, sia di servizi,
sia di forniture. In tal senso si era già espressa,
nell’interpretare l’art. 113 nella sua originaria
formulazione, altra Sezione regionale di controllo di questa
Corte, affermando che “la disposizione in esame si applica a
tutte e tre le tipologie di contratti pubblici di appalti:
lavori, servizi e forniture” (Sez. Reg. controllo E.
Romagna,
parere 07.12.2016 n. 118) e “senza che sia
necessaria, per il riconoscimento dell’incentivo, la
presenza di un appalto misto, ossia di un appalto di un
servizio o fornitura collegato ad un lavoro pubblico” (Sez.
reg. controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333), così
anticipando quanto poi meglio esplicitato dal decreto
correttivo n. 56/2017.
Con l’emanazione di quest’ultimo decreto, tuttavia,
l’applicabilità degli incentivi, nell’ambito dei contratti
di affidamento di servizi e forniture, è risultata –al
contempo– fortemente ridotta, in quanto contemplata
soltanto “nel caso in cui sia nominato il direttore
dell’esecuzione” (parte finale del comma 2, come modificata,
in senso limitativo, dall’art. 76, comma 1, lett. b, del D.Lgs. n. 56/2017), inteso quale soggetto autonomo e diverso
dal RUP, altrimenti nessun dipendente svolgente le funzioni
enumerate dal comma 2 dell’articolo 113 può percepire
compensi incentivanti.
E tale distinta nomina è richiesta
soltanto negli appalti di forniture o servizi di importo
superiore a 500.000 euro, ovvero di particolare complessità,
con valutazione spettante ai dirigenti (secondo quanto
specificato al punto 10 delle Linee guida n. 3/2017, emanate
dall’Anac, in attuazione dell’art. 31, comma 5, Codice, con
delib. n. 1096 del 26.10.2016, per disciplinare in modo
più dettagliato “Nomina, ruolo e compiti del RUP, per
l’affidamento di appalti e concessioni”, ed aggiornate con
la delib. n. 1007 dell’11.10.2017).
Tali incentivi non possono erogarsi neppure nell’ambito di
contratti di appalto e concessione di servizi, che l’art. 17
del Codice fa oggetto di “Esclusioni specifiche”, stabilendo
che ad essi le disposizioni del Codice non si applicano (ad
es. servizi legali che sono connessi, anche occasionalmente,
all'esercizio dei pubblici poteri).
6. Il presupposto applicativo: la gara.
È pacifico che, essendo la presenza di una pubblica gara il
presupposto indefettibile di operatività dell’istituto, le
funzioni tecniche svolte da dipendenti in procedure di somma
urgenza o svolte mediante affidamento diretto, non siano
incentivabili mediante tale meccanismo indiretto, che
presuppone la costituzione di un Fondo e la predisposizione
di un Regolamento e non fa discendere la corresponsione del
compenso incentivante –in via sinallagmatica e diretta–
dal compimento della prestazione lavorativa, alla luce della
previsione legale, analogamente a quanto avviene per i
professionisti esterni (in tal senso, Sez. reg. controllo
Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185 e
parere 09.06.2017 n. 190,
Sez. reg. controllo Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186 e
parere 27.03.2018 n. 19).).
7. La valenza giuridica del Regolamento ed
il suo contenuto.
Il Regolamento comunale, stando alla lettera della
interpretata disposizione, non è necessario per costituire
il Fondo, che l’Ente è autorizzato dalla legge ad
accantonare anche in un momento anteriore, purché nei limiti
massimi previsti (2% di cui al comma 2), ma è condizione di
legittimità per ripartirne, in recepimento dei criteri e
modalità fissati in sede di contrattazione decentrata
integrativa, le risorse tra gli aventi diritto, in modo
funzionale alla assunzione dei relativi impegni e dei
correlati pagamenti.
Esso costituisce, in sintesi, un elemento atto ad integrare
la “fattispecie complessa” che conduce alla liquidazione del
compenso incentivante (in tal senso Sez. reg. controllo
Friuli Venezia Giulia,
parere 02.02.2018 n. 6 e Sez. reg.
Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186, che la definisce “condicio sine qua non” per attuare il riparto).
Al Regolamento è demandata dalla legge valenza esecutiva
delle tassative previsioni legali, nella parte in cui gli si
affida l’individuazione delle tipologie di dipendenti
beneficiari.
Ma gli è anche demandato il compito di individuare sia la
portata definitoria del termine “collaboratori” del RUP, che
la legge lascia aperto, evitandone uno sproporzionato
ampliamento, sia l’ammontare delle percentuali da
corrispondere a ciascuna figura professionale interna,
sempre in un’ottica di congruenza, logicità e
ragionevolezza.
L’Ente locale, dunque, nelle more della approvazione del
Regolamento e della stipula del contratto decentrato, può
(ed anzi deve), in esecuzione dell’art. 113, accantonare, a
copertura degli incentivi tecnici, risorse nel Fondo, entro
i limiti massimi previsti dalla legge, ma non può
liquidarli, ripartendoli tra i propri dipendenti, poiché a
tale ripartizione è funzionale e necessaria proprio
l’emanazione dell’atto regolamentare.
A meno che –a prescindere dalla costituzione del Fondo–
non avesse già stipulato, prima della entrata in vigore
della norma, “contratti o convenzioni che prevedano modalità
diverse per la retribuzione di funzioni tecniche svolte dai
propri dipendenti”, ai sensi dell’ultima parte del comma 2
dell’art. 113 in esame.
La forza derogatoria dei contratti e delle convenzioni,
rispetto alla nuova disciplina che impone alle
Amministrazioni aggiudicatrici la costituzione del Fondo,
non opera, quindi, per l’avvenire, ma soltanto per il
passato, trattandosi di previsione di diritto intertemporale
che si limita a far salva l’efficacia delle pattuizioni già
stipulate, non consentendo di effettuarne di nuove, in
deroga all’art. 113.
Mediante la fonte regolamentare e nell’esplicazione di una
potestà normativa, è demandata alla prudente valutazione
dell’Ente, la possibilità, in rapporto all'entità ed alla
complessità dell'appalto da realizzare, di abbassare
l’aliquota di stanziamento del Fondo, comprimendola in una
misura inferiore al 2%.
E ciò anche dopo aver prudenzialmente accantonato un Fondo
in misura massima legale, il che determina la conseguenza
che la differenza accantonata in eccesso, va ad accrescere
il risultato di amministrazione (Sez. reg. controllo
Veneto
parere 07.09.2016 n. 353 e Sez. Controllo Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185).
8. Il Fondo.
Mentre l’accantonamento –a monte– degli stanziamenti
finalizzati a costituire ed impinguare il Fondo è frutto di
una discrezionale ed unilaterale scelta dell’Ente, la
ripartizione dei compensi incentivanti tra le diverse
categorie di beneficiari è operata dal Regolamento, tenute
in debito conto le responsabilità professionali connaturate
alle specifiche prestazioni da svolgere, in relazione a
ciascun ruolo, in recepimento ed in applicazione delle
modalità e dei criteri concertati in sede di contrattazione
decentrata.
Tanto che si è condivisibilmente osservato che
“la disciplina che quantifica l’incentivo da pagare ha –e
conserva– natura sostanzialmente contrattuale e, pertanto,
l’ammettere che la stessa possa regolare anche il riparto
del Fondo per prestazioni rese prima della sua approvazione
non lede il principio di irretroattività del Regolamento,
inteso come fonte normativa” (Sez. reg. controllo
Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7, che approfondisce i
rapporti tra contrattazione e Regolamento).
9. Il rapporto tra Regolamento e
contrattazione collettiva decentrata.
Ciò resta fermo pur dopo l’introduzione del comma 5-bis, ad
opera della L. n. 205 del 2017, e, pertanto, è bene chiarire,
riguardo al rapporto tra Regolamento e contrattazione
decentrata, che il primo può assumere, in via provvisoria,
anche un ruolo sostitutivo della seconda, stante la
perdurante vigenza della normativa del Testo Unico sul
pubblico impiego (D.Lgs. n. 165/2001) e, soltanto in tal
caso resterà ferma la sua irretroattività, direttamente
conseguente alla natura normativa.
In particolare, l’art. 45, comma 1, del T.U. enuncia la
regola generale secondo cui “Il trattamento economico
fondamentale ed accessorio, fatto salvo quanto previsto
all'articolo 40, commi 3-ter …, è definito dai contratti
collettivi”.
L’art. 2, comma 3, del T.U. stabilisce che “L'attribuzione
di trattamenti economici può avvenire esclusivamente
mediante contratti collettivi e salvo i casi previsti dai
commi 3-ter… dell'articolo 40”.
Quest’ultimo, al comma 3-ter, pone una clausola di
salvaguardia di carattere eccezionale, prevedendo che “Nel
caso in cui non si raggiunga l'accordo per la stipulazione
di un contratto collettivo integrativo, qualora il protrarsi
delle trattative determini un pregiudizio alla funzionalità
dell'azione amministrativa, nel rispetto dei principi di
correttezza e buona fede fra le parti, l'amministrazione
interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle
materie oggetto del mancato accordo fino alla successiva
sottoscrizione e prosegue le trattative al fine di pervenire
in tempi celeri alla conclusione dell'accordo. Agli atti
adottati unilateralmente si applicano le procedure di
controllo di compatibilità economico-finanziaria previste
dall'articolo 40-bis.”
In difetto di accordo raggiunto in sede di contrattazione
integrativa decentrata, quindi, il Comune può provvedere
unilateralmente alla ripartizione, fermo che “Le
disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che
attribuiscono incrementi retributivi non previsti da
contratti cessano di avere efficacia a far data dall'entrata
in vigore dal relativo rinnovo contrattuale” (così prosegue
il citato comma 3 dell’art. 2 del TU).
In quest’ultimo caso, il contenuto normativo del Regolamento
non può certamente retroagire, ma deve limitarsi a
disciplinare le sole fattispecie verificatesi dopo la sua
entrata in vigore, mentre, ove esso si ponga come
contenitore di mero recepimento delle pattuizioni
contrattuali, occorre porre mente, a tutela dei diritti
quesiti dai lavoratori, al fatto che i criteri e le modalità
di ripartizione degli incentivi sono già stati fissati dalle
parti in sede di tale contrattazione decentrata (e non in
via unilaterale dall’Ente, che si limita, di regola e salvo
le illustrate eccezioni, a renderle semplicemente operative
con proprio atto regolamentare).
Quindi, ai fini della
maturazione del diritto alla liquidazione dell’incentivo, è
maggiormente rilevante, sotto il profilo cronologico, il
momento in cui è stata stipulata la contrattazione
decentrata integrativa, che fissa i criteri di ripartizione
degli incentivi.
10. La ratio dell’istituto degli incentivi
tecnici.
Innegabile è la funzione premiale dell’istituto, volto a
incentivare, con un surplus di retribuzione, lo svolgimento
di prestazioni intellettive qualificate che, ove fossero
svolte –invece che da dipendenti interni ratione officii–
da esterni sarebbero da considerare prestazioni di lavoro
autonomo professionali. La ratio dei nuovi incentivi è,
infatti, anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale
utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso
all’affidamento all’esterno di incarichi professionali, che
sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente,
con aggravio della spesa complessiva.
Ed è direttamente la legge a prescrivere, in funzione di
razionalizzazione e contenimento della spesa, che le quote
relative agli incarichi conferiti a professionisti esterni
vadano ad accrescere l’ammontare del Fondo da ripartire.
Il comma 3 dell’art. 113 attribuisce al Regolamento la
fissazione dei criteri di riduzione del Fondo, nel caso in
cui non siano rispettati i costi ed i tempi inizialmente
previsti nel quadro economico del progetto esecutivo
dell’appalto ed in proporzione a tali evenienze. Ciò al fine
di stimolare, in sede di realizzazione delle opere o dei
lavori pubblici, in capo ai pubblici dipendenti coinvolti,
ogni sforzo utile al rispetto delle tempistiche e dei costi,
penalizzando di conseguenza i ritardi o le lievitazioni di
costi ingiustificati ai sensi del Codice, mediante una
riduzione delle risorse finanziarie stanziate per il
pagamento degli incentivi tecnici.
11. L’effettivo espletamento delle funzioni
tecniche incentivate.
In ottemperanza al generale principio di effettività,
sancito dall’art. 7, comma 5, del D.Lgs. n. 165/2001 “Le
amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti
economici accessori che non corrispondano alle prestazioni
effettivamente rese”. Per cui gli incentivi devono essere
correlati allo svolgimento delle prestazioni tecniche
realmente svolte, in modo da remunerare il concreto carico
di responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti (su
questa linea, ha preso posizione la Sezione Autonomie,
seppure in relazione al vecchio Codice, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18),
con accertamento da certificarsi a cura dei Dirigenti o dei
Responsabili.
Ciò premesso sulla genesi e sulla conformazione giuridica
dell’istituto, quale delineato nella formulazione dell’art.
113, poi modificata dal correttivo operato con D.Lgs. n. 56
del 2017, onde agevolare una più ampia comprensione del
tema, si può passare alla disamina ed alla risoluzione dei
singoli quesiti prospettati dall’Ente locale nella richiesta
di parere.
I quesiti.
1) Al primo quesito deve darsi risposta senz’altro negativa,
poiché non è possibile riconoscere gli incentivi tecnici per
l’espletamento di attività svolte dai dipendenti della
stazione appaltante come Commissari di gara, in quanto, come
può agevolmente desumersi dall’univoco avverbio
“esclusivamente”, riportato nel comma 2, l’elencazione delle
attività incentivabili con tali compensi è da reputarsi
tassativa e, dunque, non suscettibile di interpretazione
estensiva o, peggio, analogica.
Le funzioni incentivabili sono, invero, soltanto quelle
“tecniche” specificamente enumerate dalla norma: funzioni di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di gara e delle procedure di esecuzione dei
contratti pubblici, funzioni di RUP, di direzione dei lavori
ovvero di direzione dell’esecuzione, funzioni di collaudo
tecnico-amministrativo o di verifica di conformità e
funzioni di collaudatore statico.
Nel senso della tassatività delle attività incentivabili e
del conseguente divieto di ampliamento oltre la lettera
della legge, si è anche espresso il prevalente orientamento
di questa Corte, che ha costantemente considerato tale
disciplina di stretta interpretazione, sulla scorta della
considerazione che si pone come derogatoria al principio
generale di onnicomprensività del trattamento economico (in
tal senso: Sez. reg. controllo Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204,
parere 24.01.2017 n. 5,
parere 21.09.2017 n. 108 e
deliberazione 09.02.2018 n. 9; Sez. reg. controllo Marche
parere 27.04.2017 n. 52,
Sez. reg. controllo Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185).
Da ultimo la Sezione Autonomie, in funzione di orientamento
generale, ha confermato che “si tratta, quindi, di una
platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati
dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni
rilevanti nell’ambito di attività espressamente e
tassativamente previste dalla legge” (deliberazione
26.04.2018 n. 6).
Tra le attività menzionate dall’art. 113, comma 2, non
rientra, pertanto, né può essere fatta rientrare a livello
interpretativo, l’attività svolta dai Commissari di gara,
poiché non può essere qualificata come tecnico-esecutiva, ma
resta eminentemente valutativa, seppure condotta in
applicazione delle regole e dei criteri enunciati nel bando
di gara.
L’art. dell’art. 77, comma 10, infatti recita: “Le spese
relative alla commissione sono inserite nel quadro economico
dell'intervento tra le somme a disposizione della stazione
appaltante”. Ma, poiché l’ultima parte del citato comma 10,
dispone che: “I dipendenti pubblici sono gratuitamente
iscritti all'Albo e ad essi non spetta alcun compenso, se
appartenenti alla stazione appaltante”, ne consegue che i
Commissari di gara possono essere retribuiti –e con onere
gravante sul quadro economico dell’appalto– soltanto ove
siano nominati tra professionisti esterni alla Stazione
appaltante.
È bene ricordare che la prassi di scegliere i Commissari di
gara tra i dipendenti interni alla Stazione appaltante, in
modo discrezionale, continuava a fondarsi sul comma 12
dell’art. 77, che disponeva “Fino alla adozione della
disciplina in materia di iscrizione all'Albo di cui
all'articolo 78, la commissione continua ad essere nominata
dall'organo della stazione appaltante competente ad
effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto,
secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente
individuate da ciascuna stazione appaltante”.
Ma tale disposizione è stata abrogata, con effetto dal 20.05.2017, ad opera dell'art. 46, comma 1, lett. f), D. Lgs. 19.04.2017, n. 56, comportante, di riflesso,
l’esaurimento degli effetti anche della analoga disciplina
transitoria recata dall’art. 216, comma 12, del Codice. La
possibilità, per la Stazione appaltante, di nominare
Commissari di gara (ma non Presidente della Commissione)
“alcuni componenti interni alla stazione appaltante, nel
rispetto del principio di rotazione” permane oggi soltanto
nelle residuali ipotesi di “affidamento di contratti per i
servizi e le forniture di importo inferiore alle soglie di
cui all'articolo 35, per i lavori di importo inferiore a un
milione di euro o per quelli che non presentano particolare
complessità”, in quanto implicanti “procedure svolte
attraverso piattaforme telematiche di negoziazione ai sensi
dell'articolo 58” (art. 77, comma 3).
La nuova disciplina contenuta negli articoli 77 e 78 del D.Lgs. n. 50/2016, contempla la creazione, presso l’Anac, di un
Albo nazionale obbligatorio, dal quale dovranno essere
attinti i nominativi da sorteggiare per effettuare le nomine
dei componenti delle Commissioni giudicatrici degli appalti
pubblici, in modo che la Autorità possa accentrare in sé non
soltanto il controllo sui requisiti di moralità e di
professionalità dei medesimi, ma anche sulle eventuali
ipotesi di conflitto di interessi.
Albo che resterà, comunque, aperto anche all’iscrizione dei
dipendenti interni e che sarà comunque unico per i soggetti
esterni ed interni alle Stazioni appaltanti, non avendo Anac
accolto l’indicazione del Consiglio di Stato nella parte in
cui riteneva preferibile l’istituzione di Albi separati ed
avendo precisato che, in ogni caso, nell’Albo dovrà essere
evidenziato quale sia l’Ente di appartenenza dell’esperto,
in modo da rendere evidente se si tratti o meno di un
dipendente interno alla Stazione appaltante.
In materia sono state emanate, in funzione integrativa del
Codice dei contratti pubblici, dapprima le Linee Guida Anac
n. 5, approvate con determinazione n. 1190 del 16.11.2016, a cui il Consiglio di Stato nell’apposito parere
preventivo ha riconosciuto natura vincolante (CdS delib. n. 1919
del 14.09.2016), con le quali sono stati fissati i
“Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione
degli esperti all’Albo nazionale obbligatorio dei componenti
delle commissioni giudicatrici”.
A seguito del correttivo del Codice sui contratti pubblici
(adottato con D.Lgs. n. 56/2017), si è reso necessario un
aggiornamento delle predette Linee Guida Anac n. 5, che è
stato effettuato con determinazione n. 4 del 10.01.2018, previo parere del Consiglio di Stato n. 2163 del 19.10.2017. Tale articolata disciplina, avente nel suo
complesso carattere normativo e vincolante, non è tuttavia
ancora entrata a pieno regime, in quanto non può essere
applicata finché l’Anac non abbia dichiarato operativo
l’Albo, previa disciplina delle procedure informatiche da
adottare per garantire la casualità del sorteggio dei
Commissari e le modalità di rotazione tra i medesimi,
adempimento a cui è pure subordinata l’entrata in vigore
dell’art. 1 del Decreto del Ministro delle Infrastrutture e
dei Trasporti del 12.02.2018, che è stato pubblicato
in attuazione dell’art. 77, comma 10, del Codice, per
stabilire le tariffe di iscrizione all’Albo ed i parametri
di calcolo dei compensi dei Commissari.
L’art. 2 del citato DM, al comma 2, che ribadisce che: “2.
Ai dipendenti pubblici che svolgono la funzione di
componente della commissione in favore della stazione
appaltante di appartenenza non spetta alcun compenso” è,
invece, entrato in vigore il 02.05.2018.
Per cui, seppure sia possibile continuare a nominare i
Commissari tra i dipendenti della Amministrazione
aggiudicatrice, trattasi di incarico considerato ricompreso
nella normale retribuzione di servizio, che non può
determinare il percepimento di incentivi tecnici ex art. 113
del Codice.
Sull’assunto consolidato, che correla la corresponsione
dell’incentivo tecnico ad una funzione esclusivamente
tecnico-amministrativa, non può incidere la assai discussa
questione se possa essere o meno nominato Commissario di
gara il RUP, che è –di regola– un dipendente interno della
Stazione appaltante.
Significativo elemento discretivo tra le due funzioni è che
il dipendente della stazione appaltante può rifiutare la
nomina a Commissario di gara (gratuita), ma non quella di
RUP, che è ufficio obbligatorio, ai sensi di quanto
prescritto dall’art. 31, comma 1, ultima parte, del D.Lgs.
n. 50/2016, e per lo svolgimento del quale, secondo l’art. 113,
può percepire incentivi tecnici.
Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sull'abrogato art. 10,
comma 2, del D.Lgs. n. 163 del 2006, che attribuiva in via
residuale al RUP, nell’ambito delle procedure di
affidamento, lo svolgimento di tutti i compiti non
specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti, aveva
effettuato una rilevante distinzione, asserendo che
“competenza esclusiva della commissione è l'attività
valutativa, mentre ben possono essere svolte dal
responsabile unico del procedimento quelle attività che non
implicano l'esercizio di poteri valutativi”, in quanto il RUP ed i suoi collaboratori sono chiamati a svolgere,
sovente, attività istruttoria e di supporto ai compiti della
Commissione e della Stazione appaltante (Cons. Stato, Sez.
V, 21.11.2014, n. 5760).
Il nuovo Codice, come modificato dal decreto correttivo n. 56/2017,
distingue le funzioni svolte dai Commissari di gara e le
funzioni tecniche, prevedendo, all’art. 77, comma 4, che “I
commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta” e, dunque, eleva
a regola generale la nomina dei Commissari di gara tra
soggetti esterni all'Amministrazione aggiudicatrice, che nel
previgente Codice era una eccezione e lo fa con riferimento
non soltanto al ruolo di Presidente ma anche a quello di
Componente della Commissione di gara. La netta distinzione
di compiti, stabilita dal citato art. 77, comma 4, tra il
ruolo di Commissario di gara e le funzioni
tecnico-amministrative svolte in relazione al contratto di
appalto dal RUP, è stata tuttavia temperata dall’inciso,
introdotto dal D.Lgs. "correttivo" n. 56 del 2017, che “La
nomina del RUP a membro delle commissioni di gara è valutata
con riferimento alla singola procedura”.
Ciò conferisce alla Stazione appaltante un certo margine di
manovra, nel senso che, ferma l'incompatibilità tra il ruolo
di Commissario e lo svolgimento di altre funzioni o
incarichi tecnici o amministrativi relativi al contratto da
affidare, la possibilità di nominare Commissario di gara il
RUP può essere valutata dalla Stazione appaltante con
riferimento “alle attività effettivamente svolte dal RUP
nell'ambito della specifica procedura di gara" (come
esplicitato dalla relazione di accompagnamento
all’aggiornamento delle sopra già citate Linee guida Anac n.
3). Tanto che il Consiglio di Stato, nel pronunciarsi sullo
schema delle medesime Linee, ha evidenziato come sia stata
riconosciuta la "possibilità che il RUP sia altresì membro
della Commissione giudicatrice" (Cons. Stato, parere n.
2040/2017).
Del resto, la drastica incompatibilità pregressa
tra tali tipologie di funzioni prevista dal nuovo Codice,
nella sua formulazione antecedente al correttivo, si poneva
in evidente antinomia normativa, rispetto all’art. 107, D.Lgs. n. 267 del 2000, che attribuiva e continua ad
attribuire ai Dirigenti degli Enti locali "tutti i compiti
di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con
gli atti di indirizzo adottati dai medesimi organi, tra i
quali in particolare, secondo le modalità stabilite dallo
statuto o dai regolamenti dell'ente […] la presidenza delle
commissioni di gara e di concorso; la responsabilità delle
procedure d'appalto e di concorso […]".
Antinomia non
sanabile col ricorso al principio dell’abrogazione tacita ad
opera della fonte di pari grado successiva, considerata la
natura “rafforzata” del D.Lgs. n. 267 del 2000, visto che il
suo art. 1, comma 4, dispone che "ai sensi dell'art. 128
Cost. le leggi della Repubblica non possono introdurre
deroghe al presente testo unico se non mediante espressa
modificazione delle sue disposizioni”.
Resta inteso che, ove
pure il RUP sia chiamato a svolgere, secondo la prudente
valutazione della Stazione appaltante, la funzione di
Commissario di gara, il medesimo potrà percepire gli
incentivi tecnici di cui all’art. 113, comma 2, soltanto in
stretta correlazione alle sue funzioni
tecnico-amministrative di RUP (o al limite per la mera
attività istruttoria di supporto tecnico ai compiti
valutativi riservati alla Commissione), in quanto si
ribadisce che tali incentivi non sono erogabili per lo
svolgimento delle funzioni di Commissari di gara e correlate
attività, ancorché svolte dai pubblici dipendenti, interni
alla Amministrazione aggiudicatrice (o, come di seguito si
esplicherà, da questa distaccati presso la CUC).
2) Il secondo quesito “se, in mancanza di Regolamento
comunale per la ripartizione degli incentivi tecnici ed in
assenza della previsione, tra le risorse variabili del fondo
della contrattazione decentrata del Comune, delle somme
necessarie a finanziare i medesimi incentivi, sia possibile
riconoscere alla CUC la quota del 25% dell’incentivo di cui
al comma 2 dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016” risulta in
parte superato dalla novella recata dalla legge di bilancio
2018, che ha introdotto una nuova forma di copertura
mediante il comma 5-bis, per la interpretazione del quale si
rinvia, infra, alla risposta al quinto quesito, diversa da
quella prima prevista tramite le risorse variabili del Fondo
di contrattazione decentrata.
È comunque ovvio che nulla possa essere ripartito con
Regolamento, in carenza di adeguato Fondo di copertura.
Quanto al quesito residuo se sia possibile riconoscere la
quota del 25% dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113
del D.Lgs. n. 50/2016, in caso di mancata emanazione di
Regolamento comunale, occorre rammentare che quest’ultimo è
richiesto dalla legge come condizione di legittimità per
ripartire le risorse tra gli aventi diritto agli incentivi
soltanto nel caso in cui sia l’Ente locale a dover devolvere
l’80% del Fondo, in quanto non si avvale di una CUC, ma
gestisce direttamente l’appalto.
In tal caso, l’impossibilità di liquidare legittimamente gli
incentivi a prescindere da una apposita normazione
regolamentare della loro ripartizione è del resto assunto
pacifico, che viene dato per scontato anche dall’Organo
richiedente il parere, il quale richiede, invece, un
chiarimento ermeneutico in relazione ad un aspetto
ulteriore, e certamente più problematico. Il Sindaco chiede,
in sostanza, di sapere se, pur in carenza di Regolamento
comunale, la quota del 25%, prevista come massima dal comma
5 dell’art. 113, possa essere devoluta dal Comune alla CUC
(o meglio ai relativi dipendenti).
Orbene, il Regolamento
comunale è richiesto dal comma 3 soltanto per poter
liquidare l’80% degli incentivi tecnici ai propri
dipendenti, mentre la previsione del comma 2 (secondo la
quale tutto o parte del Fondo può essere dal Comune
destinato ai dipendenti della Centrale Unica di Committenza
che il medesimo ha costituito o di cui si avvale), non
richiede a tal fine un Regolamento comunale, né fa
riferimento alla contrattazione collettiva decentrata.
Spetterà, ovviamente, poi alla CUC ripartire tali risorse
con un proprio Regolamento.
3) Più delicato è il terzo quesito “se la quota del 25%, che
ciascun Comune versa alla CUC possa essere utilizzata per
corrispondere gli incentivi tecnici solo al personale
stabile della CUC (l’art. 113, comma 5, parla di compiti
svolti dal personale di una centrale unica di committenza) o
se, invece, sia possibile riconoscere tali compensi anche ai
Commissari di gara formalmente incaricati dal RUP della CUC
(tali dipendenti, anche in altri Comuni aderenti alla CUC,
sono considerati funzionalmente distaccati presso la
Centrale) ed ai membri della Conferenza unificata tecnica
della CUC (di cui fa parte anche il responsabile della CUC o
un suo delegato o di cui possono far parte anche i segretari
comunali)”.
La risposta a tale quesito richiede delle debite
distinzioni.
Le ipotesi che possono verificarsi sono, perciò, in linea di
massima tre:
A) o l’Ente locale è abilitato a conferire, gestire ed eseguire da
solo l’appalto, poiché questo è contenuto entro le soglie
indicate dall’art. 37 (forniture e servizi di importo
inferiore a 40.000 euro e lavori di importo inferiore a
150.000 euro) o perché possiede i requisiti di
qualificazione richiesti dall’art. 38 e, dunque, deve
stanziare il Fondo, per ripartirlo poi all’80%, tra i suoi
dipendenti interni chiamati a svolgere le relative funzioni
tecniche come indicato dal comma 3 (con Regolamento
comunale) ed al 20%, come indicato dal comma 4;
B) oppure l’Ente è tenuto ad avvalersi di una Centrale Unica di
committenza ed in tal caso, può decidere di destinare tutto
o parte del Fondo, di cui al comma 2, ai dipendenti della
CUC, la quale poi lo ripartirà in base ai criteri fissati in
un proprio atto regolamentare;
C) o infine, l’Ente è tenuto ad avvalersi di una CUC ed a questa al
contempo invia –mediante comando o distacco– suoi
dipendenti, chiamati ad operare nella CUC ma anche “per
conto di altri enti”, ossia anche di Comuni diversi da
quello di loro provenienza, purché aderenti alla CUC. In tal
caso, a tali dipendenti può essere corrisposto dal loro Ente
di provenienza (se la CUC è d’accordo e lo richiede
espressamente) un compenso incentivante nei limiti massimi
del 25%, ossia di un quarto dell’indennità prevista dal
comma 2.
Quindi il Comune potrà riconoscere incentivi tecnici ai suoi
dipendenti al massimo entro l’80% di cui al comma 2, se lo
fa direttamente, ripartendolo con proprio Regolamento tra i
medesimi, oppure entro i limiti del 25%, di cui al comma 5,
se glieli attribuisce previo consenso della CUC presso di
cui li ha distaccati, per lo svolgimento di funzioni
tecniche a vantaggio di Comuni diversi da quello di
appartenenza.
In relazione quest’ultimo profilo, infatti, è bene
ricordare, anzitutto, che i compensi incentivanti non sono
riconoscibili a Commissari di gara chiamati ad aggiudicare
l’appalto, previa adozione delle relative valutazioni in
applicazione dei criteri del bando, ma sono limitati a
compensare soltanto l’esercizio di funzioni tecniche. Per
cui, non può aggirarsi tale chiaro divieto normativo
mediante un mero distacco –presso la CUC– dei dipendenti
comunali chiamati a svolgere le funzioni di Commissari di
gara, in quanto nominati dal RUP. Ne discende che non pare
ammissibile attribuire incentivi tecnici ai Commissari di
gara che siano nominati tra i dipendenti comunali distaccati
presso la CUC, neppure entro i limiti del 25% dell’incentivo
previsto dal comma 2.
Per quel che concerne, invece, i membri della Conferenza
Unificata tecnica della CUC, di cui fa parte anche il
Responsabile della CUC e della quale, trattandosi di organo
di regola permanente, che è istituito ai sensi della L.
241/1990 e s.m.i. per garantire il coordinamento tecnico
amministrativo e giuridico tra la CUC ed i Comuni aderenti
ad essa, possono essere chiamati a far parte anche i
Segretari comunali, non pare sussistano ragioni ostative
all’attribuzione degli incentivi tecnici ai suoi componenti
(tra cui anche i Responsabili comunali), purché non svolgano
funzioni valutative in relazione alla gara d’appalto.
Di
recente, è stato, infatti, ribadito che il Fondo in
questione “può essere finalizzato a premiare esclusivamente
le funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai
dipendenti interni”, quali quelle specificamente elencate
dalla norma, in funzione propulsiva della corretta e
tempestiva attuazione dell’appalto (Sezione Autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
4) Negativa è la risposta al quarto quesito, che chiede “se,
dopo l’approvazione del Regolamento comunale, sia possibile
riconoscere tali incentivi con effetto retroattivo, ovvero
anche per le procedure di acquisizione di lavori, servizi e
forniture avviate e concluse prima dell’adozione dello
stesso”, poiché, in difetto di una specifica ed espressa
disposizione legislativa in tal senso, deve escludersi la
natura retroattiva del Regolamento comunale, attuativo del
terzo comma dell’art. 113.
Ciò in quanto esso è, nelle sole parti in cui detta regole
normative, un atto di diritto pubblico, unilateralmente
emanato dall’Autorità comunale, che introduce
nell’ordinamento, a livello locale, norme generali ed
astratte di rango secondario, in funzione di attuazione e di
integrazione delle norme di principio recate dal Decreto
legislativo approvativo del nuovo Codice, in relazione ad
una serie di aspetti già evidenziati nelle premesse
generali.
In applicazione del generale principio di irretroattività
degli atti amministrativi a contenuto normativo, promanante
dal combinato disposto degli articoli 3, 4 e 11 delle
preleggi al cod. civ., il Regolamento comunale ha, di
regola, efficacia ex nunc (Sez. regionale di controllo
Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185), ossia limitata alle
procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture che
non risultino ancora concluse al momento dell’emanazione
dello stesso.
Considerata la sua natura normativa quando è
adottato in transitoria sostituzione della contrattazione
collettiva, è da escludere che il Regolamento possa
ripartire tali incentivi con effetto retroattivo (pur in
presenza di un accantonamento di risorse in bilancio già
tempestivamente effettuato dall’Ente, in via prudenziale,
nei limiti di legge), a coloro che, dopo l’entrata in vigore
del nuovo Codice, abbiano espletato attività tecniche nelle
procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture non
soltanto già avviate, ma anche già concluse, prima
dell’adozione dell’atto regolamentare.
È chiaro che, ove nelle more dell’adozione del Regolamento
siano stati comunque già fissati, in sede di contrattazione
integrativa, i criteri di riparto delle risorse accantonate,
che lo stesso è chiamato soltanto a recepire, la mera
carenza dell’atto regolamentare o la sua tardiva emanazione
non possono ledere il diritto al compenso incentivante
spettante al dipendente che ha eseguito la funzione
incentivata, e la questione è suscettibile di tutela a
livello giurisdizionale, su eventuale iniziativa del
singolo. Ciò in quanto “le amministrazioni interessate sono
tenute, per il principio di correttezza e buona fede, a
procedere speditamente all’emanazione e, a seguito di
modifica della normativa legislativa, all’aggiornamento dei
regolamenti attuativi (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 09.03.2012 n. 3779 ha riconosciuto
al dipendente il diritto al risarcimento del danno
discendente dalla mancata possibilità di percepire
l’incentivo previsto dalla normativa)” (così, testualmente Sez. reg. controllo Piemonte,
parere 09.10.2017 n. 177).).
Il riconoscimento della applicabilità del Regolamento, nella
parte in cui recepisce i criteri di ripartizione già
adottati in sede di contrattazione integrativa, non viola in
realtà il principio di irretroattività degli atti normativi,
poiché in parte qua esso deve essere considerato un elemento
che concorre al formarsi della fattispecie complessa che dà
luogo alla determinazione e liquidazione dell’incentivo
stesso e “l’applicazione del regolamento di cui al
richiamato art. 113 agli incentivi degli incarichi espletati
prima della sua adozione (ma pur sempre dopo l’entrata in
vigore del d.lgs. n. 50/2016) non pone un problema di
efficacia <<retroattiva>> del regolamento stesso, ma di
concreto perfezionamento della fattispecie produttiva del
diritto all’incentivo” (in tal senso Sez. Reg. controllo
Umbria
parere 19.03.2018 n. 41).
Con particolare riferimento agli incentivi da corrispondersi
dopo la entrata in vigore del D.L. n. 90/2014, di modifica
al D.Lgs. n. 163/2006, con riferimento alle funzioni
espletate tra l’estate del 2014 e la data in cui è entrato
in vigore il nuovo Codice, ferma l’applicazione del
Regolamento attuativo già per esse, al tempo, adottato, non
pare più ammissibile l’adozione –dopo il 19.04.2016–
di un Regolamento concernente i criteri di ripartizione dei
pregressi incentivi per le funzioni come modificate nel
2014, trattandosi di normative abrogate (seppure possa
essere tutelata, sotto il profilo risarcitorio, in presenza
di correlata contrattazione collettiva decentrata, la
posizione di coloro che avrebbero avuto diritto a
percepirli, per aver svolto le attività indicate dalla
norma).
Questo è un aspetto che, pertanto, l’Ente locale è tenuto
prudenzialmente a valutare con rigore, onde evitare
possibili contenziosi con i dipendenti aventi diritto ad una
tempestiva ripartizione dei compensi incentivanti, in
quanto, se i criteri e le modalità di riparto siano stati
già concertati in sede di contrattazione integrativa
decentrata, la carenza di Regolamento preclude, di fatto,
l’adempimento del rapporto contrattuale.
È ovvio che l’adozione del Regolamento presuppone a monte il
tempestivo accantonamento del Fondo, sulla base delle cui
risorse gli incentivi devono essere ripartiti ed in difetto
del quale nulla può essere corrisposto, in virtù dei
generali principi di bilancio, anche in presenza di un
Regolamento emanato prima della conclusione della procedura
di appalto.
5) Al quinto quesito “se sia possibile riconoscere tali
incentivi dopo l’approvazione del Regolamento, pur in
assenza della previsione di tali risorse nel fondo per la
contrattazione integrativa dell’anno di riferimento” può
essere data, invece, risposta positiva, seppure con
ulteriori precisazioni, considerato il mutamento normativo
introdotto dall’art. 1, comma 526, della L. 27.12.2017, n. 205 (“Bilancio di previsione dello Stato per l'anno
finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio
2018-2020”), che ha aggiunto all’art. 113 un comma 5-bis,
prevedente che tali incentivi “fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture” e considerato, altresì, il nuovo orientamento
assunto dalla Corte dei conti in materia.
Il citato comma riconduce, in sostanza, anche la copertura
degli incentivi per le funzioni tecniche –seppure per il
tramite del Fondo– alla regola generale già contenuta nel
comma 1 dello stesso articolo, prevedente che “gli oneri
inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti”, menzionando molte
delle funzioni pertinenti, secondo il comma 2, ai
beneficiari degli incentivi tecnici e, in effetti, senza
fare alcuna espressa distinzione in ragione del fatto che
tali funzioni fossero attribuite a professionisti privati
soggetti esterni, oppure a dipendenti della P.A..
La Sezione delle Autonomie, pronunciandosi sulle questioni
di massima poste dalla Sezione regionale di controllo per la
Puglia (con la
deliberazione 09.02.2018 n. 9) e dalla Sezione
regionale di controllo per la Lombardia (con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40), ha enunciato il seguente
principio di diritto: “Gli incentivi disciplinati dall’art.
113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art.
1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli
stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo
posto al complessivo trattamento economico accessorio dei
dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75 del 2017”.
Dopo la novella, quindi, tutte le figure destinatarie della
incentivazione delle funzioni tecniche, compreso il RUP e
coloro che sono impegnati nella programmazione della spesa
per gli investimenti, nella predisposizione e nel controllo
delle procedure di gara e loro collaboratori, sono
incentivate con oneri gravanti sugli stanziamenti destinati
al finanziamento del singolo appalto e che vanno imputati
allo stesso capitolo che sovvenziona l’opera o l’acquisto di
beni o servizi.
Tra tali Collaboratori è possibile includere anche quei
dipendenti della Stazione appaltante che non svolgono un
ruolo prettamente tecnico, ma attività amministrative e
contabili, purché strettamente collegate ai lavori
(occupandosi, ad esempio, degli adempimenti relativi alla
procedura di esproprio prodromica alla realizzazione
dell’opera pubblica), a condizione che siano dotati della
necessaria competenza professionale.
In tal senso, seppure
nel vigore della precedente normativa, si erano già
pronunciate altre Sezioni (Sez. reg. controllo Marche,
parere 17.12.2014 n. 141), il cui orientamento sul punto è stato
confermato –con valenza generale– dalla Sezione Autonomie
(deliberazione
13.05.2016 n. 18 e poi
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
che rimarca l’intento legislativo del nuovo Codice di
“ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in
esame, individuati nei profili tecnici e non del personale
pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di
spesa”).
La corretta perimetrazione della nozione di “Collaboratori”
è demandata all’esercizio della potestà regolamentare
dell’Ente, tenuto comunque ad esercitarla in modo da evitare
ingiustificati ampliamenti della platea dei destinatari (in
tal senso: Sezione autonomie, nella
deliberazione 13.05.2016 n. 18).
La erogazione di tali incentivi, dunque, prescinde da un
accantonamento vincolato di risorse –a tal fine
specificamente destinate– nel Fondo per la contrattazione
integrativa dell’anno di riferimento, ma non può
prescindere, ovviamente, dallo stanziamento di un apposito
Fondo, che deve essere costituito a valere sulle risorse che
finanziano l’appalto, come del resto già avrebbe potuto
desumersi da una corretta interpretazione dell’inciso
iniziale del comma 2 dell’art. 113 “A valere sugli
stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo”.
Resta fermo
che, pur dopo la approvazione del relativo Regolamento,
resta preclusa all’Ente la possibilità di liquidare
incentivi tecnici se non è stato stanziato come vincolato un
Fondo nei quadri economici dei singoli appalti, per evidente
difetto di copertura (Sez. reg. controllo Toscana
parere 27.03.2018 n. 19).).
Quanto alle modalità di contabilizzazione, gli importi per
pagare gli incentivi tecnici devono trovare allocazione
contabile nel medesimo capitolo di spesa (di investimento),
destinato a coprire il costo complessivo dei lavori, servizi
e forniture e non possono più confluire nel capitolo di
spesa del personale relativo al trattamento accessorio, né
sono sottoponibili ai relativi vincoli e limiti di spesa.
Il riconoscimento degli incentivi tecnici, infatti, non
soggiace più, a decorrere dal 01.01.2018, né al tetto
massimo di spesa del personale, né ai vincoli imposti al
trattamento retributivo accessorio del personale da ultimo
dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017, che ha
abrogato con effetto dal 01.01.2017, il limite posto
dall’art. 1, comma 236, della L. n. 208/2015 (Legge di
Stabilità 2016).
Tale limite reiterava l’originario tetto
posto dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010 (deliberazione
07.12.2016 n. 34)
e comportava anche la automatica riduzione del Fondo
medesimo in misura proporzionale alla fisiologica riduzione
del personale in servizio, tenuto conto, altresì, dei
vincoli normativi all’assunzione di nuovo personale.
Ne discende che la spesa relativa alla corresponsione degli
incentivi tecnici, a decorrere dalla entrata in vigore al 01.01.2018, della L. Stabilità 2018, non si configura più
quale spesa di funzionamento (sub specie di spesa corrente e
di personale), come a suo tempo ritenuto dall’orientamento
della Sezione Autonomie, superato in quanto formatosi in
relazione alla previgente normativa (deliberazione
06.04.2017 n. 7,
che classificava l’erogazione di tali incentivi nell’ambito
delle “spese di funzionamento e dunque come spese correnti
e di personale”). Essa si connota, oggi, come spesa di
investimento, attinente alla gestione in conto capitale, che
dunque, a differenza della prima tipologia di spesa, può
essere finanziata con ricorso all’indebitamento, non
ostandovi il divieto di cui all’art. 119 Cost.
La spesa per gli incentivi tecnici è, quindi, spesa di
investimento, al pari di quanto già riconosciuto dagli
orientamenti di questa Corte in relazione al diverso
istituto degli incentivi alla progettazione di cui
all’abrogato art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. n. 163/2006 (delibera
13.11.2009 n. 16/2009, ripresa da
deliberazione 04.10.2011 n. 51, che
facevano discendere la esclusione dal tetto di spesa
stabilito per il salario accessorio dal fatto che si
trattava di “compensi per prestazioni professionali
specialistiche offerte da soggetti qualificati”).
E, come tale, è spesa da contabilizzare nel Titolo II della
spesa, ove si tratti di opere pubbliche, e nel Titolo I, ove
si tratti di servizi e forniture, “ma con qualificazione
coerente con quella del tipo di appalto di riferimento” (Sez.
Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Ciò nonostante, la
liquidazione –e, prima, la ripartizione– degli incentivi
tecnici richiedono pur sempre, oggi, l’adozione di uno
specifico atto regolamentare da parte del Comune, previa
fissazione –in sede di contrattazione integrativa
decentrata del personale– dei criteri e delle modalità di
ripartizione dei medesimi tra gli aventi diritto, poiché la
novella non ha cancellato il riferimento agli istituti di
contrattazione decentrata, contenuto nel comma 3.
La lettera dell’art. 113, del resto, come si è sopra
evidenziato, pone già dei limiti massimi alla spesa per la
corresponsione degli incentivi tecnici, parametrandoli –in
linea generale– al singolo appalto (non potendo il Fondo
superare il 2% del quadro economico posto a base di asta) e
–in linea particolare– al singolo dipendente (non potendo quest’ultimo percepire, neppure da diverse PP.AA., incentivi
su scala annuale complessivamente superanti il 50% del suo
trattamento economico annuo lordo).
E, inoltre, si assicura, con apposita prescrizione, che gli
incentivi non siano devoluti “a pioggia”, ma corrisposti dal
dirigente competente in importo proporzionato al previo
accertamento delle attività effettivamente espletate dal
dipendente ed in applicazione delle modalità e dei criteri
“previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale” (cfr. in tal senso l’interpretazione del
comma 3 dell’art. 113 fornita da Sez. reg. controllo Umbria,
con la
parere 05.02.2018 n. 14, che richiama le argomentazioni
di Sez. reg. controllo Liguria
deliberazione 29.06.2017 n. 58, già
favorevole all’esclusione degli incentivi tecnici dai
vincoli e dai limiti massimi previsti in materia del
personale, secondo una prospettazione confermata –dopo la
modifica operata dalla L. n. 205/2017– anche dalla
pronuncia di orientamento adottata dalla Sezione Autonomie
con
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Quanto alla applicabilità cronologica del nuovo comma 5-bis
dell’art. 113, ai fini della individuazione della linea di
demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione
della materia incentivante, essa decorre dal 01.01.2018, trattandosi di disposizione introdotta dal comma 526
dell’art. 1 della legge di stabilità 2018 e non avente
natura di interpretazione autentica, per cui non può
considerarsi retroattivamente operativa (in tal senso Sez.
reg. controllo Puglia,
deliberazione 09.02.2018 n. 9, che coglie
l’occasione per richiamare l’attenzione sulla discrasia
sussistente tra il riferimento operato dal comma 5-bis del
113 al “medesimo capitolo di spesa” e la nuova disciplina in
materia di armonizzazione contabile recata dall’art. 13 del D.Lgs. n. 118/2011, che fa riferimento a missioni e
programmi, con terminologia mutuata dall’art. 191 TUEL).
La novella legislativa che modifica la fonte di copertura
del Fondo, richiama, in effetti, l’attenzione su un momento
antecedente alla pubblicazione del bando, fornendo un
argomento motivazionale a favore della operatività, con
portata limitata a tale specifico caso, del criterio di
diritto intertemporale già individuato, in via generale, in
modo ben articolato e ragionato, dalla Sezione Basilicata di
questa Corte (Sez. reg. controllo Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7,
che richiama il
parere 12.02.2015 n. 3 e
parere 20.04.2017 n. 22).
Per
cui risulta logico ritenere che la fonte di copertura inizi
a variare per tutte le procedure la cui programmazione della
spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima
compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i
relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel
Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e
liquidazione dei compensi incentivanti. Per cui la nuova
forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis
inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto
dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei
documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per
le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del
contratto è stato deliberato dopo tale data.
In conclusione,
a salvaguardia tanto dell’autonomia del Comune richiedente,
quanto della posizione di terzietà ed indipendenza
connotante questo organo magistratuale nell’esercizio della
funzione consultiva, resta escluso che
quanto esplicato per chiarire i dubbi ermeneutici correlati
alla normativa oggetto di richiesta di parere
(e che deve risolversi in un ausilio interpretativo astratto
della disciplina esaminata), possa
condizionare le scelte gestionali concrete le quali, pur se
da adottarsi in un’ottica di sana gestione finanziaria e di
prudente tutela degli equilibri di bilancio, restano rimesse
alla esclusiva competenza dell’Ente locale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Caos
sul salario accessorio dopo il «no» di Corte conti alle deroghe scritte nel
contratto.
Tutti gli incrementi previsti dal nuovo contratto nazionale rientrano nei
limiti del trattamento accessorio.
Non è bastata la dichiarazione congiunta n. 5 e neppure la certificazione
positiva della Corte dei conti a sezioni Riunite per escluderli dal tetto
del 2016.
La Corte dei conti della Puglia, con il
parere 05.07.2018 n. 99 (si veda il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 9 luglio) manda in tilt gli operatori che in questi giorni sono
alle prese con la prima costituzione del fondo in base all'articolo 67 del
contratto del 21 maggio.
Norme e contratto
L'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 prevede che, fino a quando non sarà
realizzata la convergenza dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici
confluiti nei quattro comparti di contrattazione, l'ammontare complessivo
del trattamento accessorio non deve superare il relativo importo dell'anno
2016.
Due soli soggetti hanno, quindi, in mano le chiavi per sbloccare la
situazione: il legislatore -che però finora non è intervenuto a nessuna
modifica– oppure il contratto nazionale, il quale, però, anziché
armonizzare le retribuzioni, richiama più volte la medesima disposizione limitatrice. Tutto sospeso, quindi, fino a data da destinarsi.
Il contratto, tra le varie forme di alimentazione del fondo delle risorse
decentrate, prevede all'articolo 67, comma 2, lettera a) risorse fresche, ma
solo a partire dall'anno 2019. Come la mettiamo, a questo punto, con il
rispetto del tetto dell'anno 2016? Gli 83,20 euro a dipendente presente al
31.12.2015 rientrano tra le somme che vanno incluse nella verifica
dell'articolo 23, comma 2?
La risposta positiva della Corte dei conti della
Puglia, di fatto vanifica l’incremento che sarebbe come a dire che le parti
contrattuali hanno previsto un aumento non realizzabile. Ovvero, sarebbe
concretizzabile a patto di ridurre altre componenti soggette a limitazione.
La soluzione dei magistrati contabili
La soluzione, peraltro, sembra essere suggerita proprio dai magistrati
contabili: abbassare altre voci incluse nel limite, come ad esempio gli
importi finalizzati alle posizioni organizzative, per fare spazio a questi
incrementi di parte stabile del fondo. Il cosiddetto principio dei vasi
comunicanti.
A questo punto, però, non possiamo non ricordare che ai fini
del rispetto della norma, la giurisprudenza contabile ha ritenuto che
rientrino nei vincoli anche i valori della maggiorazione della retribuzione
di posizione del segretario comunale (Corte conti Lombardia, deliberazione
n. 116/2018) o delle somme aggiuntive ai soggetti incaricati secondo
l'articolo 110 del Tuel (Corte conti Piemonte, deliberazione n. 144/2017,
anche se sono presenti interventi in senso contrario).
Ben vengano, quindi, gli incrementi del nuovo contratto, ma a patto di
ridurre da qualche altra parte. Il tutto, però, suona alquanto strano. Se
queste somme fossero state nel limite, perché le parti hanno pensato
comunque di quantificarle? Avrebbe avuto più senso spalmarle sui trattamenti
fondamentali mensili, piuttosto che perderle definitivamente. Ma i
magistrati della Puglia non hanno dubbi.
E pensare che la Corte dei conti a
sezioni Riunite, nella deliberazione n. 6/2018, aveva dapprima dato atto
della dichiarazione congiunta tendente a precisare che tali nuovi oneri «in
quanto derivanti da risorse definite a livello nazionale e previste nei
quadri di finanza pubblica, non siano assoggettabili ai limiti di crescita
dei Fondi previsti dalle norme vigenti» e poi certificato positivamente il
contratto.
Nella vicenda, almeno, c'è una nota positiva. Poiché gli aumenti vi saranno
solo dal 2019, ci sono ancora sei mesi per vedere come si evolverà la
situazione. E quasi sicuramente, a questo punto, verrà inviato tutto alla
sezione Autonomie
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.07.2018).
---------------
MASSIMA
L’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 è tuttora vigente
e si applica anche in rapporto agli aumenti previsti
dall’art. 67, comma 2, del C.C.N.L. del personale non
dirigente degli enti locali del 21.05.2018.
Nessuna
rilevanza, in senso contrario, può essere attribuita alla
dichiarazione congiunta n. 5, allegata al C.C.N.L. in
parola, non avendo la stessa alcun valore normativo e non
risultando, quindi, né vincolante, né, tantomeno, idonea a
derogare a norme di contenimento della spesa pubblica.
---------------
Il Sindaco del Comune di Statte (TA), con nota n.
11085 dell’11.06.2018, ha posto alcuni quesiti in merito
alla normativa recentemente introdotta dal C.C.N.L. del
21.05.2018 relativo al personale non dirigente degli enti
locali.
Con un primo quesito, richiamando l’art. 67, commi 2
e 7, del suddetto C.C.N.L. e la dichiarazione congiunta n. 5
allegata al medesimo C.C.N.L. che disciplinano il fondo
delle risorse decentrate, il Comune di Statte chiede, in
sintesi, se gli aumenti previsti si pongono al di fuori del
perimetro applicativo dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n.
75/2017.
Con un secondo quesito, richiamando gli articoli 64 e
65 dello stesso C.C.N.L. che dispongono aumenti tabellari
con decorrenze diversificate, l’Amministrazione chiede,
sostanzialmente, se e con quali modalità le risorse utili a
corrispondere gli arretrati economici possono essere
ricavate dal bilancio e/o dalle risorse accessorie.
...
Fermo restando che, in sede consultiva, è consentito dare
risposta ai quesiti posti solo in termini generali ed
astratti e che ogni decisione rimane di esclusiva competenza
e responsabilità dell’ente, il Collegio ritiene, quindi, di
poter rispondere alle questioni sollevate unicamente per gli
aspetti legati alla normativa che pone limiti alle spese per
il personale, con esclusione degli aspetti relativi
all’applicazione di istituti contrattuali di carattere
economico.
Conseguentemente, questo Collegio ritiene di doversi
esprimere in merito al rapporto tra le norme in tema di
fondo delle risorse decentrate previste dal nuovo C.C.N.L.
(in particolare l’art. 67, commi 2 e 7) e i limiti alle
spese del personale posti dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs.
n. 75/2017. Tale aspetto, infatti, rientra certamente nella
competenza di questa Sezione, in sede consultiva, atteso che
trattasi di interpretazione di norme di contenimento della
spesa pubblica (ex multis, Sez. controllo Lombardia
n. 54/2018/PAR).
Il 21.05.2018 è stato sottoscritto, previa certificazione
positiva della relativa ipotesi di accordo da parte delle
Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti
(deliberazione n. 6/SSRRCO/CCN/18), il contratto collettivo
nazionale di lavoro del comparto Funzioni locali per il
triennio 2016-2018. Questo C.C.N.L. regola il rapporto di
lavoro dei dipendenti comunali e destina una parte delle
risorse disponibili all’incremento del fondo risorse
decentrate. L’art. 67, comma 2, lettere a) e b), del
C.C.N.L. consente, infatti, uno stabile incremento del fondo
delle risorse decentrate. Appare opportuno evidenziare che
l’aumento disposto dalla lettera a) opera solo a decorrere
dal 31.12.2018 e a valere dall’anno 2019. Ai sensi
dell’art. 15, comma 5, dello stesso C.C.N.L. le risorse per
le posizioni organizzative sono a carico del bilancio degli
enti, anche per quelli dotati di personale dirigenziale.
Questa nuova modalità di finanziamento impatta sulle
modalità di costituzione del fondo delle risorse decentrate
(deliberazione n. 6/SSRRCO/CCN/18).
L’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 prevede, in attesa
della graduale convergenza, attraverso la contrattazione
collettiva nazionale, dei trattamenti economici accessori
del personale delle amministrazioni pubbliche “anche
mediante la differenziata distribuzione, distintamente per
il personale dirigenziale e non dirigenziale, delle risorse
finanziarie destinate all'incremento dei fondi per la
contrattazione integrativa di ciascuna amministrazione”
(comma 1), a decorrere dal 2017, che l’ammontare complessivo
delle risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale, anche di livello dirigenziale,
delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2,
del D.Lgs. n. 165/2001, non può superare il corrispondente
importo determinato per l’anno 2016.
Tale norma, emanata nell’ambito di una riforma complessiva
del Testo unico sul pubblico impiego (D.Lgs. n.165/2001),
prevede, quindi, in materia di salario accessorio, con
effetto dall’01.01.2017 e senza una scadenza, disposizioni
vincolistiche sostanzialmente analoghe a quelle
costantemente adottate negli ultimi anni dal legislatore.
Anche tale disposizione, infatti, pone limiti quantitativi
all’ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento economico accessorio del
personale. L’espressa abrogazione dell’art. 1, co. 236,
della legge n. 208/2015, tuttavia, ha fatto venir meno
l’ulteriore obbligo, per l’ente, di ridurre automaticamente
il suddetto fondo in misura proporzionale alla riduzione del
personale in servizio (Sez. controllo Puglia, n.
110/2017/PAR).
Nel computo del tetto di spesa previsto dalla menzionata
disposizione rientrano, se non diversamente previsto dalla
legge, tutte le risorse stanziate in bilancio dall’ente con
destinazione al trattamento accessorio del personale,
indipendentemente dall’origine delle eventuali maggiori
risorse, proprie dell’ente medesimo, a tal fine destinate.
Il limite all’ammontare complessivo delle risorse destinate
al trattamento accessorio riguarda, infatti, sia le risorse
tratte dai fondi per la contrattazione integrativa
(circolare MEF-RGS n. 12/2011 e SS.RR. in sede di controllo
n. 51/2011/CONTR), sia le risorse poste direttamente a
carico del bilancio delle singole amministrazioni (Sezione
delle Autonomie, n. 26/2014/QMIG). Nel trattamento
accessorio del personale rientrano, quindi, tutti gli oneri
accessori del personale, ivi comprese le risorse destinate a
finanziare le posizioni organizzative nei Comuni privi di
qualifiche dirigenziali (Sez. controllo Lombardia n.
54/2018/PAR).
Il contenuto dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 è
sostanzialmente confermato dall’art. 67, comma 7, del
C.C.N.L. del 21.05.2018, relativo al personale non dirigente
degli enti locali, secondo il quale “la quantificazione
del fondo delle risorse decentrate e di quelle destinate
agli incarichi di posizione organizzativa di cui all’art.15,
comma 5, deve comunque avvenire, complessivamente, nel
rispetto dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017”.
La suddetta norma contrattuale, di contenuto univoco, non
risulta smentita dalla successiva dichiarazione congiunta n.
5, allegata al C.C.N.L. in parola, secondo la quale “in
relazione agli incrementi del fondo risorse decentrate
previsti dall’art. 67, comma 2, lett. a) e b), le parti
ritengono concordemente che gli stessi, in quanto derivanti
da risorse finanziarie definite a livello nazionale e
previste nei quadri di finanza pubblica, non siano
assoggettati ai limiti di crescita dei fondi previsti dalle
norme vigenti”, atteso che, come talvolta confermato
anche dalla stessa ARAN, le dichiarazioni congiunte non
hanno valore normativo e, quindi, né sono vincolanti, né,
tantomeno, possono derogare a norme di contenimento della
spesa pubblica quale è il più volte menzionato art. 23.
La possibile contraddizione tra l’art. 67, comma 7, e la
citata dichiarazione congiunta può essere superata
osservando che, in pratica, un incremento del suddetto fondo
delle risorse decentrate può risultare legittimo se non
comporta un incremento dell’ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale rispetto all’anno 2016. Tale obiettivo può essere
raggiunto attraverso una corrispondente riduzione delle
risorse destinate agli incarichi di posizione organizzativa.
Questa conclusione trova sostanziale conferma nell’art. 15,
comma 7, del C.C.N.L. secondo il quale “per effetto di
quanto previsto dall’art. 67, comma 7, in caso di riduzione
delle risorse destinate alla retribuzione di posizione e di
risultato delle posizioni organizzative previste dal comma
5, si determina un corrispondente ampliamento delle facoltà
di alimentazione del Fondo risorse decentrate, attraverso
gli strumenti a tal fine previsti dall’art. 67”. E’
previsto, praticamente, un sistema di “vasi comunicanti”
(SS.RR. n. 6/SSRRCO/CCN/18) che trova un limite invalicabile
“nel rispetto dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n.
75/2017” (art. 67, comma 7, del C.C.N.L.).
In conclusione, riassumendo in estrema sintesi,
l’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017 è tuttora
vigente e si applica anche in rapporto agli aumenti previsti
dall’art. 67, comma 2, del C.C.N.L. del personale non
dirigente degli enti locali del 21.05.2018. Nessuna
rilevanza, in senso contrario, può essere attribuita alla
dichiarazione congiunta n. 5, allegata al C.C.N.L. in
parola, non avendo la stessa alcun valore normativo e non
risultando, quindi, né vincolante, né, tantomeno, idonea a
derogare a norme di contenimento della spesa pubblica.
La richiesta di parere risulta, invece, oggettivamente non
ammissibile per gli aspetti relativi all’applicazione di
istituti contrattuali di carattere economico (Corte dei
Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 05.07.2018 n. 99). |
ENTI LOCALI
-
PUBBLICO IMPIEGO:
Le risorse destinate a remunerare le indennità, di posizione e risultato,
spettanti ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l’aggiornamento
teorico dei valori minimi e massimi (art. 15, c. 2, CCNL comparto Funzioni
locali 21.05.2018), debbono osservare, sommate alle risorse confluenti nei
fondi per la contrattazione integrativa, il limite di finanza pubblica posto
dall’art. 23, c. 2, d.lgs. n. 75/2017.
La
sezione Lombardia conferma: posizioni organizzative vincolate anche dopo
l’aggiornamento.
Le risorse destinate a remunerare le indennità di posizione e risultato che
spettano ai titolari di posizione organizzativa, anche dopo l'aggiornamento
dei valori massimi da parte del nuovo contratto per le funzioni locali del
21.05.2018, devono complessivamente osservare, sommate alle risorse che
confluiscono nei fondi per la contrattazione integrativa, il limite posto
dall'articolo 23 del Dlgs 75/2017 in ordine al trattamento accessorio.
Di conseguenza, l'eventuale incremento dovrebbe avvenire solo ed
esclusivamente in presenza di corrispondenti margini, ricavabili mediante un
bilanciamento con il fondo del restante personale (nel rispetto delle
relazioni sindacali) ovvero a seguito di accadimenti che liberano congrui
spazi di manovra (come, ad esempio, il venire meno di altre posizioni
organizzative).
È quanto ha sancito la sezione della Lombardia della Corte dei conti (con il
parere 02.07.2018 n. 200), rispondendo alla richiesta
di un ente ed evidenziando, così come già avvenuto anche da parte della
Sezione Puglia (parere
05.07.2018 n. 99), le difficoltà di raccordo tra le
disposizioni contrattuali e i vincoli di finanza pubblica progressivamente
introdotti.
La nuova soglia introdotta dal contratto
La questione riguarda, soprattutto, la nuova soglia introdotta dal contratto
della retribuzione di posizione, pari a 16mila euro (per tredici mensilità),
che può condurre a un incremento del trattamento riconosciuto a condizione
che, insieme alle restanti somme destinate al salario accessorio che
concorrono al limite, sia rispettato il vincolo derivante (ordinariamente)
dalle corrispondenti risorse 2016.
Peraltro, è utile ricordare, da un lato, che l'importo attribuito a ogni
posizione organizzativa deve risultare da un meccanismo di ponderazione
formalizzato che tenga conto delle responsabilità e dei carichi di lavoro
connessi a ciascun incarico.
Dall'altro lato, che –secondo l'articolo 13 del contratto- gli incarichi
di posizione organizzativa conferiti, a suo tempo, proseguono o possono
essere prorogati fino alla definizione delle nuove attribuzioni e, comunque,
non oltre un anno dalla data di sottoscrizione del contratto del 21.05.2018.
Secondo la pronuncia, del resto, anche il nuovo contratto del comparto
funzioni locali si è premurato di precisare che, comunque, la somma
complessiva delle risorse finanziarie destinate al trattamento economico
accessorio del personale, sia che abbiano fonte nei fondi per la
contrattazione sia che siano destinate alla remunerazione delle indennità
dei titolari di posizione organizzativa, debba osservare il limite di
finanza pubblica.
Ciò a prescindere dalle scelte eseguite dallo stesso
contratto in ordine alle modalità di finanziamento, posto che, dal 2018,
anche negli enti con “dirigenza” le risorse destinate alla remunerazione
delle indennità dei titolari di posizione organizzativa devono trovare
copertura direttamente nel bilancio dell'ente locale.
La rimodulazione
Peraltro, il contratto consente agli enti di rimodulare, all'interno del
tetto massimo posto all'ammontare delle risorse destinate al trattamento
accessorio del personale, le risorse destinabili ai titolari di posizione
organizzativa rispetto a quelle spettanti al restante personale, accrescendo
le une e diminuendo le altre o viceversa.
Infatti, nel caso di riduzione delle risorse destinate dagli enti locali
alla retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative,
si determina un corrispondente ampliamento del fondo risorse decentrate,
mentre nel caso contrario, di incremento del trattamento delle posizioni
organizzative, occorre passare per la “contrattazione” e non per il
“confronto” per procedere alla riduzione del fondo.
Infine, sempre secondo la Corte, a corroborare ulteriormente la conclusione
rileva altresì la dichiarazione congiunta n. 5, secondo la quale la quale
solo determinati incrementi del fondo risorse decentrate (che non
comprendono quelli in esame) non sono assoggettati ai limiti di crescita dei
fondi previsti dalle norme vigenti. Previsione che, tuttavia, secondo la
Sezione Puglia non appare conforme alle disposizioni di legge che vincolano
le risorse destinabili al trattamento accessorio da parte degli enti locali
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.07.2018).
---------------
MASSIMA
Il Comune di Lentate sul Seveso (MB) ha posto alla Sezione una richiesta
di parere inerente ai limiti di finanza pubblica posti al trattamento
economico accessorio del personale dipendente da enti locali.
Nello specifico, il Sindaco premette che, in data 21.05.2018, è stato
sottoscritto il nuovo Contratto collettivo nazionale dei dipendenti degli
enti locali, il cui art. 15, comma 2, stabilisce che l’importo della
retribuzione di posizione dei titolari di incarico di posizione
organizzativa può variare da un minimo di euro 5.000 ad un massimo di euro
16.000 annui lordi (suddiviso per tredici mensilità), da graduare sulla base
delle responsabilità e dei carichi di lavoro connessi a ciascun incarico.
L’art. 13, comma 3, del medesimo CCNL stabilisce, inoltre, che gli incarichi
di posizione organizzativa conferiti, a suo tempo, ai sensi dell’art. 8 del
CCNL 31.03.1999 e dell’art. 10 del CCNL del 22.01.2004, proseguono o possono
essere prorogati fino alla definizione delle nuove attribuzioni (da
effettuare dopo la determinazione dei relativi criteri generali, ex art. 14,
comma 1) e, comunque, non oltre un anno dalla data di sottoscrizione del
CCNL del 21.05.2018.
Esposto brevemente il quadro della normativa contrattuale nazionale, il
Comune istante, dovendo attuare il percorso palesato dall’esposto art. 13,
comma 3, del ridetto CCNL, chiede se gli incrementi teorici agli importi
delle retribuzioni di posizione, previsti dall’art. 15, comma 2, prima
esposto, debbano rispettare i limiti dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017, il quale stabilisce che, a decorrere dal 01.01.2017,
l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non può superare il
corrispondente importo determinato per l’anno 2016.
In alternativa, prospetta la possibilità, alla luce dell’entrata in vigore
del CCNL del 21.05.2018, di reperire in bilancio le risorse necessarie a
finanziarie i predetti incrementi.
...
L’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, facendo seguito, anche se con
formulazione precettiva differente, a quanto disposto da precedenti norme di
finanza pubblica, dispone che, nelle more di quanto previsto dal comma 1
della medesima disposizione (percorso di omogeneizzazione dei trattamenti
retributivi dei dipendenti pubblici), a decorrere dal 01.01.2017,
l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del
2001, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno
2016, con conseguente abrogazione dell’art. 1, comma 236, della legge n. 208
del 2015, che, per il 2016, aveva imposto analogo limite finanziario
(facendo seguito a quelli prescritti, per il quadriennio 2011-2014 dall’art.
9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del
2010, e, per il 2015, sempre dalla disposizione da ultimo citata come
integrata dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013).
La disposizione di finanza pubblica in esame pone un limite all’ammontare
complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale
in servizio presso pubbliche amministrazioni, non distinguendo fra quelle
aventi fonte nei fondi per la contrattazione integrativa previsti dai vari
contratti collettivi nazionali di comparto (Circolare MEF-RGS n. 12/2011 e
Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, deliberazione n.
51/2011/CONTR) e quelle finanziate direttamente a carico del bilancio delle
amministrazioni (come ha avuto modo di affermare, dopo un iniziale
convivenza di orientamenti contrapposti, la Sezione delle autonomie della
Corte dei conti con la deliberazione n. 26/2014/QMIG).
Tale ultima ipotesi si verifica, per esempio, proprio nel caso delle
indennità remuneranti le c.d. posizioni organizzative attribuite al
personale degli enti locali.
Nella vigenza dei contratti collettivi nazionali del comparto enti locali
anteriori a quello stipulato il 21.05.2018, le indennità di posizione
organizzativa attribuite dagli enti locali privi di dirigenti erano (e sono)
finanziate direttamente a carico del bilancio, senza transitare per lo
specifico aggregato delle risorse destinate, annualmente, alla costituzione
dei fondi per la contrattazione integrativa. Su questi ultimi fondi
gravavano, invece, le risorse necessarie a finanziare le indennità
attribuite ai titolari di posizione organizzativa dagli enti locali con
dirigenza.
Il Contratto collettivo nazionale del comparto funzioni locali del
21.05.2018 ha uniformato le esposte divergenti modalità di finanziamento,
prevedendo che, in entrambi i casi (sia per gli enti locali con dirigenti
che per quelli che ne sono privi), le indennità, di posizione e di
risultato, spettanti ai titolari dei predetti incarichi, debbano essere
finanziate dal bilancio indistinto dell’ente. La scelta contrattuale ha
comportato, per gli enti locali con dirigenti, una parallela decurtazione
delle risorse destinate, fino al 2017, ai fondi per la contrattazione
integrativa (pari al valore delle indennità spettanti ai titolari di
posizione organizzativa nel predetto esercizio).
La differente modalità di copertura finanziaria non ha inciso, tuttavia, sul
limite di finanza pubblica da osservare ai sensi della fonte legislativa
primaria (il sopra esposto art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017).
Anche il nuovo CCNL del comparto funzioni locali si è premurato di
precisare, infatti, che, comunque, la somma complessiva delle risorse
finanziarie destinate al trattamento economico accessorio del personale, sia
che abbiano fonte nei fondi per la contrattazione sia che siano destinate
alla remunerazione delle indennità dei titolari di posizione organizzativa,
debba osservare il limite di finanza pubblica (introducendo, peraltro, come
si avrà modo di specificare, un percorso di contrattazione sindacale teso a
travasare risorse da un aggregato ad un altro).
L’art. 13 del CCNL “Funzioni locali” del 21.05.2018, rubricato “area
delle posizioni organizzative”, prevede che gli enti locali istituiscano
posizioni di lavoro (assegnabili, di regola, a personale di categoria D) che
richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di risultato,
lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di
particolare complessità (lett. a) o di attività con contenuti di alta
professionalità (lett. b).
Il successivo art. 15 del ridetto CCNL disciplina la retribuzione di
posizione e di risultato spettante al personale incaricato, stabilendo che
l’importo dell’indennità di posizione possa variare da un minimo di euro
5.000 ad un massimo di euro 16.000 annui lordi (ammontare, quest’ultimo,
incrementato rispetto a quello indicato nell’art. 10 del CCNL del comparto
enti locali del 31.03.1999), sulla base della relativa graduazione. Tale
trattamento, unitamente a quello di risultato (previsto dal successivo comma
4), assorbe tutte le competenze accessorie previste dal medesimo CCNL
(compreso il compenso per il lavoro straordinario e fatti salvi gli
emolumenti elencati nel successivo art. 18).
Il comma 5 dell’art. 15 in esame precisa, come in precedenza accennato, che,
a seguito della decurtazione, dalle risorse c.d. stabili che alimentano il
fondo per la contrattazione integrativa, di quelle che gli enti locali hanno
destinato (nel 2017) alla retribuzione di posizione e di risultato delle
posizioni organizzative in precedenza istituite, il finanziamento della
retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative va
coperto a carico del bilancio indistinto dell’ente.
L’art. 67 del nuovo CCNL, infatti, prescrive che, a decorrere dal 2018, il “fondo
risorse decentrate” è costituito da un unico importo sommante tutte le
risorse c.d. “stabili” (indicate dall’art. 31, comma 2, del CCNL del
22.01.2004) di competenza 2017, come certificate dal collegio dei revisori
(ivi comprese quelle dello specifico fondo per le progressioni economiche e
le risorse che hanno finanziato le quote di indennità di comparto di cui
all’art. 33, comma 4, lett. b) e c), del citato CCNL del 2004). Tali
risorse, prosegue la nuova norma contrattuale, confluiscono, dal 2018, in un
unico importo consolidato, al netto di quelle che gli enti avevano
destinato, nel 2017 (a carico del fondo) alla retribuzione di posizione e di
risultato delle posizioni organizzative (fattispecie propria, come già
precisato, degli enti locali con dirigenti).
Il combinato disposto degli illustrati articoli del CCNL Funzioni locali
(art. 15, comma 5, da un lato, e 67, comma 1, dall’altro) evidenzia,
appunto, come, dal 2018, le risorse destinate alla remunerazione delle
indennità dei titolari di posizione organizzativa devono trovare copertura
direttamente nel bilancio dell’ente locale. Tuttavia, ai fini del rispetto
dei limiti di finanza pubblica posti al trattamento economico accessorio del
personale, lo stesso art. 67, al comma 7, del nuovo CCNL, si premura di
precisare che la quantificazione del fondo delle risorse decentrate e di
quelle destinate agli incarichi di posizione organizzativa “deve comunque
avvenire, complessivamente, nel rispetto dell’art. 23, comma 2 del d.lgs. n.
75/2017”.
In aderenza alle precedenti interpretazioni della magistratura contabile
(per esempio, le deliberazioni di SRC Friuli n. 49/2017/PAR, SRC Piemonte n.
144/2017/PAR, SRC Lombardia n. 145/2016/PAR e n. 54/2018/PAR), il CCNL
consente agli enti di rimodulare, all’interno del tetto massimo posto
all’ammontare delle risorse destinate al trattamento accessorio del
personale, le risorse destinabili ai titolari di posizione organizzativa
rispetto a quelle spettanti al restante personale, accrescendo le une e
diminuendo le altre o viceversa.
L’art. 15, comma 7, infatti, precisa che,
in caso di riduzione delle risorse destinate dagli enti locali alla
retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, si
determina un corrispondente ampliamento del fondo risorse decentrate
(naturalmente, nei limiti di quelle che, in virtù dell’art. 67 del CCNL,
possono alimentare i predetti fondi). Nel caso contrario, l’art. 7, comma 4,
lett. u), riserva alla contrattazione l’incremento delle risorse destinate
alla corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato delle
posizioni organizzative, “ove implicante, ai fini dell’osservanza dei
limiti previsti dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017”, una
riduzione delle risorse del fondo per la contrattazione integrativa di cui
all’art. 67 del CCNL.
Ulteriore argomento a supporto della soggezione di un eventuale incremento
delle indennità spettanti ai titolari di posizione organizzativa al limite
di finanza pubblica posto dalla vigente norma legislativa (art. 23, comma 2,
d.lgs. n. 75 del 2017) si trae, a contrario, dalla “dichiarazione
congiunta n. 5”, apposta in calce al CCNL Funzioni locali del
21.05.2018, in base alla quale solo per gli incrementi del fondo risorse
decentrate previsti dall’art. 67, comma 2, lett. a (euro 83,20, moltiplicato
per il personale in servizio al 31.12.2016, a valere dal 2019) e b
(differenze derivanti dall’aggiornamento di valore delle c.d. progressioni
economiche), le parti contraenti hanno ritenuto che, in quanto derivanti da
risorse finanziarie definite a livello nazionale e previste nei quadri di
finanza pubblica, non siano assoggettati ai limiti di crescita dei fondi
previsti dalle norme vigenti.
PQM
la Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
in riscontro all’istanza di parere del Comune di Lentate sul Seveso,
ritiene che le risorse destinate a remunerare le indennità, di
posizione e risultato, spettanti ai titolari di posizione organizzativa,
anche dopo l’aggiornamento dei valori minimi e massimi contenuto nell’art.
15, comma 2, del CCNL Funzioni locali del 21.05.2018, debbano
complessivamente osservare, sommate alle risorse confluenti nei fondi per la
contrattazione integrativa, di cui all’art. 67 del medesimo CCNL, il limite
di finanza pubblica posto dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017,
come, peraltro, precisato dall’art. 67, comma 7, del ridetto CCNL (salve le
facoltà di rimodulazione, ad invarianza complessiva di spesa, previste dagli
artt. 15, comma 7, e 7, comma 4, lett. u)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 02.07.2018 n. 200). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del
2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della
legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui
quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e
forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
--------------
Il Comune di San Bellino (RO) ha inviato una richiesta di
parere ex art. 7, comma 8, della L. 131/2003, in
materia di incentivi per funzioni tecniche di cui all’art.
113 del D.lgs. 50/2016, recante il “Codice dei
contratti pubblici” (il “Codice”).
L’Ente domanda se alla luce delle innovazioni normative
introdotte dalla Legge di bilancio 2018 si possa ritenere
che gli incentivi in parola debbano essere ricondotti al
tetto del fondo del salario accessorio determinato ai sensi
del D.lgs. 75/2017.
...
In particolare, l’Ente chiede se, tenuto conto del nuovo
comma 5-bis, art. 113, in base al quale “Gli incentivi di
cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”
(introdotto dall’art. 1, comma 526, L. 205/2017 a decorrere
dal 01.01.2018), i benefici in parola debbano essere
ricondotti al tetto del fondo del salario accessorio
determinato ai sensi dell’art. 23, comma 2, D.lgs. 75/2017,
il quale prevede che “l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare
il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
Il quesito in esame trova risposta nel principio di diritto
pronunciato dalla Sezione delle Autonomie, ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del D.l. 174/2012, convertito dalla L.
213/2012, con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6, in base al quale “Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del
2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della
legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui
quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e
forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
PQM
la Sezione regionale di controllo per il Veneto rende il
parere richiesto dal Comune di San Bellino con nota prot. n.
328 del 18.01.2018 conformandosi alla pronuncia di
orientamento della Sezione delle Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 21.06.2018 n. 199). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici anche nelle operazioni di partenariato pubblico-privato.
Risolto il problema degli incentivi tecnici per gli appalti di lavori
pubblici, servizi e forniture, arriva ora un chiarimento dei giudici
contabili sulla possibile estensione alle operazioni di partenariato
pubblico-privato.
La Corte dei conti veneta (parere 21.06.2018 n. 198)
ritiene che questi incentivi siano estendibili anche alle operazioni di
partenariato pubblico-privato, con possibile pagamento da parte del privato
in relazione a un incremento dell'efficienza e dell'efficacia nella
realizzazione dell'opera pubblica o servizio.
Il dubbio del Comune
Un Comune si è interrogato sul fatto che nel regolamento sugli incentivi
tecnici non siano stati inseriti quelli relativi alle operazioni di
partenariato pubblico privato quali: la finanza di progetto, la concessione
di costruzione e gestione, la locazione finanziaria di opere pubbliche, il
contratto di disponibilità, gli interventi di sussidiarietà orizzontale, il
baratto amministrativo e in generale qualunque altra procedura di
realizzazione di partenariato di opere o servizi che presentino le
caratteristiche non dissimili dagli istituti disciplinati dal codice.
La
possibilità di poter inserire gli incentivi sarebbe sembrata, tuttavia,
esclusa dal legislatore che ha inserito gli incentivi tecnici (articolo 113
del Dlgs 165/2001) all'interno dei soli «Contratti di appalto per lavori
servizi e forniture», senza fare menzione delle operazioni di partenariato.
La diversa posizione dei giudici contabili
Il Collegio contabile veneto, pur riconoscendo la disciplina di questi
incentivi nella sola parte relativa agli appalti di lavori, servizi e
forniture, ha evidenziato come le stesse disposizioni del codice dei
contratti estendano anche alle concessioni di lavori pubblici e servizi
(articolo 164, comma 2) e al partenariato pubblico privato e contraente
generale (articolo 179, comma 2) la normativa sugli appalti, in quanto
compatibile.
D'altra parte, precisano i giudici contabili veneti, l'articolo 113 sugli
incentivi tecnici non si applica, per espressa previsione dell'articolo 3,
comma 3, esclusivamente alle seguenti fattispecie espressamente enumerate
dal legislatore ovvero: agli appalti di lavori, di importo superiore a 1
milione di euro, sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50 per
cento da amministrazioni aggiudicatrici, nel caso in cui tali appalti
comportino lavori di genio civile o lavori di edilizia relativi a ospedali,
impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero, edifici scolastici e
universitari e edifici destinati a funzioni pubbliche; agli appalti di
servizi di importo superiore alle soglie comunitarie in presenza di
sovvenzionamenti, in misura superiore al 50 per cento, da parte di
amministrazioni aggiudicatrici; lavori pubblici affidati dai concessionari
di servizi, quando essi sono strettamente strumentali alla gestione del
servizio e le opere pubbliche diventano di proprietà dell'amministrazione
aggiudicatrice; ai lavori pubblici di cui i privati assumono in via diretta
l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale o in
regime di convenzione; alle società con capitale pubblico anche non
maggioritario, che non siano organismi di diritto pubblico, che hanno ad
oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la
produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato
in regime di libera concorrenza. Al di fuori di tali espresse esclusioni
l'art. 113 si applica anche alle operazioni di partenariato pubblico privato.
In caso di oneri posti in capo all'aggiudicatario
Risolto positivamente il quesito relativo all'incentivazione per le
operazioni di partenariato-pubblico privato, resta da chiarire se questi
incentivi possano essere posti a carico del soggetto aggiudicatario. Anche
in questo caso, precisa il collegio contabile, la risposta può essere
positiva qualora, il sacrificio richiesto al privato nel versamento del
corrispettivo dovuto all'ente, sia funzionale all'incentivazione
dell'efficienza e dell'efficacia nella realizzazione e nell'esecuzione a
regola d'arte del lavoro o servizio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.07.2018).
----------
MASSIMA
Il Comune di Treviso ha inviato una richiesta di parere ex art. 7, comma
8, della L. 131/2003, in materia di incentivi per funzioni tecniche di
cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016, recante il “Codice dei contratti
pubblici” (il “Codice”).
L’Ente, dopo aver riportato la normativa di interesse del Codice
(art. 113, art. 164, comma 2, art. 179, comma 1) e aver premesso che il
Regolamento comunale adottato in materia “non ha previsto espressamente
la corresponsione degli incentivi anche per l’esercizio delle “funzioni
tecniche” inerenti procedure diverse da quelle di appalto, quali le
procedure di aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori pubblici
o di servizi (…) e le procedure di affidamento dei contratti di
“partenariato pubblico privato””, domanda se:
1) il regolamento, di cui di cui al comma 3 dell’art. 113 del
D.lgs. 12.04.2016 n. 50, possa estendere la corresponsione degli incentivi
per le funzioni tecniche, previsti dal medesimo articolo, anche alle
procedure di aggiudicazione regolate dalla parte III (concessione di lavori
pubblici o di servizi) e dalla parte IV (partenariato pubblico o/e privato)
del codice.
2) in caso di risposta affermativa al quesito di cui al punto l),
se tale estensione, dopo essere stata prevista nel regolamento
dell’amministrazione, consenta di liquidare gli incentivi anche per le
funzioni tecniche svolte prima dell’entrata in vigore del regolamento
medesimo, qualora le relative somme siano state accantonate (la sezione
regionale di controllo per la Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186, ha infatti ammesso la possibilità, in presenza di una
procedura di gara o in generale di una procedura competitiva, di “accantonare
il fondo che viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento
adottato dalla singola amministrazione”).
3) se l’amministrazione appaltante possa porre a carico del
soggetto aggiudicatario del contratto l’onere del pagamento delle somme
spettanti ai dipendenti dell’ente che hanno svolto le funzioni tecniche
espressamente individuate nell’art. 113, comma 2, del codice, includendole
nel quadro economico dell’opera, dei lavori e/o del servizio, con
particolare riferimento alle procedure di aggiudicazione regolate dalla
parte III (concessione di lavori pubblici o di servizi) e dalla parte
IV (partenariato pubblico o/e privato) del codice.
...
Esula dal presente, parere, ogni valutazione in merito alla legittimità sia
del Regolamento che il Comune riferisce essere stato adottato nella materia
considerata che della corresponsione degli incentivi già erogati o da
erogare.
Ciò premesso, di seguito si procede all’analisi, in termini generali e
astratti, del quesito formulato dall’Ente in merito alla possibilità, sulla
base della normativa attualmente vigente, di corrispondere gli incentivi in
parola, oltre che per i contratti di appalto, anche per i contratti di
concessione e di partenariato e, in caso affermativo, di poterli erogare
anche per le funzioni svolte anteriormente alla modifica in tal senso del
Regolamento e, infine, di poter porre a carico dell’aggiudicatario l’onere
delle relative somme includendole nel quadro economico dell’opera, dei
lavori e/o del servizio.
Come prospettato nella richiesta di parere all’esame, la sistematica
adottata dal Codice merita un approfondimento.
Difatti, l’art. 113, rubricato agli “Incentivi per funzioni tecniche”,
è collocato nella parte II del Codice, dedicato ai “Contratti di appalto
per lavori servizi e forniture”, e, più precisamente, nel titolo V,
contenente norme in materia di “Esecuzione”.
La disposizione di cui trattasi reca l’esplicito riferimento testuale ai
soli contratti di appalto:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e
amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico,
agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n.
81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la
redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico
agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte
di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione
delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La
disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a
servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.”.
Per ciò che concerne le concessioni, l’art. 164, comma 2, stabilisce che “Alle
procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o
di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute
nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai
principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di
affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli
avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai
criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e
agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai
termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e
delle offerte, alle modalità di esecuzione”.
Si tratta di definire, pertanto, se detto rinvio vada inteso esclusivamente
con riferimento agli aspetti prettamente procedurali dell’esecuzione del
contratto o, in senso più ampio, a tutte le norme, con l’unico limite della
“compatibilità”, che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi
compresa la disposizione sull’incentivabilità delle funzioni tecniche.
Attenendosi al dato strettamente letterale e alla sistematica del Codice, si
osserva che la disposizione in esame non ha adottato, nella sua seconda
parte, la tecnica del rinvio a singoli titoli o capi o articoli della parte
II del Codice, a differenza di quanto fa nella sua prima parte in cui rinvia
all’interezza delle disposizioni contenute nella parte I e II, il che
suggerisce cautela nell’interpretare il riferimento “alle modalità di
esecuzione” come afferente indistintamente a tutte le norme contenute
nel titolo V, ivi compreso l’art. 113, collocato nella parte II.
Alla stessa considerazione si giunge anche in virtù della specialità e della
tassatività della disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche
rispetto al principio della onnicomprensività della retribuzione del
dipendente pubblico più volte ribadita dalla giurisprudenza contabile.
Tanto dicasi anche per la non generalizzabilità del rinvio operato dall’art.
179, comma 2, che per i contratti di “Partenariato pubblico privato e
contraente generale ed altre modalità di affidamento”, prevede che “Si
applicano inoltre, in quanto compatibili con le previsioni della presente
parte, le disposizioni della parte II, titolo I a seconda che l'importo dei
lavori sia pari o superiore alla soglia di cui all'articolo 35, ovvero
inferiore, nonché le ulteriori disposizioni della parte II indicate
all'articolo 164, comma 2” (tra le quali, per l’appunto, quelle relative
alle “modalità di esecuzione”).
Ciononostante, si ritiene di dover prediligere una lettura
logico-sistematica che valorizzi la nozione di concessione trasfusa nel
Codice (art. 3, comma 1, lett. uu e vv) basata sull’assimilazione di detto
istituto al contratto di appalto con la fondamentale differenza del c.d.
rischio operativo insito nella concessione, in recepimento delle definizioni
di cui alla Direttiva Unica Appalti che indica l’elemento distintivo tra i
due contratti (contratti secondo l’orientamento ormai prevalente) nel
diritto del concessionario di gestione l’opera o il servizio accompagnato da
un prezzo.
Detti elementi caratterizzanti la concessione non appaiono ostativi nel
vaglio della compatibilità a cui devono essere sottoposte le norme dettate
per gli appalti alle quali rinviare ai sensi del citato art. 164.
Analogamente, e soprattutto, avendo a mente la funzione degli incentivi
tecnici prevista dalla legge delega del Codice (art. 1, comma 1, lett. rr),
della L. 11/2016) per la quale “al fine di incentivare l'efficienza e
l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola
d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in
corso d'opera”, non si ravvisa preclusione all’estensione dell’istituto
in esame anche agli altri contratti pubblici, nei limiti, s’intende, delle
specifiche tassative attività prescelte dal legislatore come meritevoli di
premialità.
A corroborare tale impostazione soccorrono una serie di disposizioni del
Codice che rinviano all’art. 113.
Così l’art. 3, comma 3, stabilisce che non si applica, tra l’altro, l’art.
113 a una serie di fattispecie espressamente enumerate: comma 2 del medesimo
articolo, lettera a) (ovvero appalti di lavori, di importo superiore ad 1
milione di euro, sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50 per
cento da amministrazioni aggiudicatrici, nel caso in cui tali appalti
comportino lavori di genio civile di cui all’Allegato I o lavori di edilizia
relativi a ospedali, impianti sportivi, ricreativi e per il tempo libero,
edifici scolastici e universitari e edifici destinati a funzioni pubbliche),
lettera b) (ovvero appalti di servizi di importo superiore alle soglie di
cui all’articolo 35 sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50 per
cento da amministrazioni aggiudicatrici, allorché tali appalti siano
connessi a un appalto di lavori di cui alla lettera), lettera d) (ovvero
lavori pubblici affidati dai concessionari di servizi, quando essi sono
strettamente strumentali alla gestione del servizio e le opere pubbliche
diventano di proprietà dell'amministrazione aggiudicatrice) e lettera e)
(ovvero lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati,
titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che
assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del
permesso ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione);
inoltre, l’art. 113 non si applica nemmeno alle società con capitale
pubblico anche non maggioritario, che non siano organismi di diritto
pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di
lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi non destinati ad
essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza e agli enti
aggiudicatori che affidino lavori, servizi, forniture, di cui all'articolo
3, comma 1, lettera e), numero 1), qualora debbano trovare applicazione le
disposizioni della parte II ad eccezione di quelle relative al titolo VI,
capo I.
Si ritiene, pertanto, che quando il legislatore abbia inteso non
incentivabili attività annoverabili tra le funzioni tecniche svolte
nell’ambito di certi contratti pubblici lo abbia fatto esplicitamente.
D’altra parte, l’incentivabilità delle funzioni tecniche è prevista in altre
disposizioni del Codice espressamente applicabili anche alle concessioni o
indistintamente riferite a tutti i contratti pubblici.
In particolare, l’art. 31, rubricato “Ruolo e funzioni del responsabile
del procedimento negli appalti e nelle concessioni”, stabilisce, al
comma 12, che la valutazione, da parte dei competenti organismi di
valutazione, dell’attività di controllo svolta dalla stazione appaltante
sull’esecuzione delle prestazioni (in base alle modalità organizzative e
gestionali, attraverso le quali garantire il controllo effettivo da parte
della stazione appaltante sull'esecuzione delle prestazioni, programmando
accessi diretti del RUP o del direttore dei lavori o del direttore
dell’esecuzione sul luogo dell’esecuzione stessa, nonché verifiche, anche a
sorpresa, sull’effettiva ottemperanza a tutte le misure mitigative e
compensative, alle prescrizioni in materia ambientale, paesaggistica,
storico-architettonica, archeologica e di tutela della salute umana
impartite dagli enti e dagli organismi competenti, individuate
preventivamente dal soggetto responsabile dell’unità organizzativa) incide
anche sulla corresponsabile degli incentivi in esame.
Inoltre, l’art. 102, comma 6, stabilisce che il compenso spettante per
l’attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti pubblici (senza alcuna
distinzione) è contenuto, per i dipendenti della stazione appaltante,
nell’ambito dell’incentivo di cui all'art. 113. A tale proposito, la nozione
di contratti pubblici contenuta nel Codice, si noti, ricomprende (art. 3,
comma 1, lett. dd), del Codice) sia i contratti di appalto che di
concessione aventi per oggetto l’acquisizione di servizi o di forniture,
ovvero l’esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni
appaltanti.
Per ciò che concerne il secondo quesito formulato dall’Ente, relativo alla incentivabilità delle funzioni tecniche svolte prima dell’approvazione del
relativo regolamento, si ritiene di non discostarsi dai precedenti in
argomento per i quali, ferma restando l’indispensabilità del regolamento e
ammessa l’accantonabilità ad apposito fondo degli importi che potranno
essere erogati successivamente all’adozione di detto regolamento, si deve
ribadire l’irretroattività dell’efficacia dell’atto in questione (Sez.
Veneto
parere 07.09.2016 n. 353 e Sez. Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185).
Con riferimento, infine, all’ultimo quesito posto dal Comune, relativo alla
possibilità di porre a carico del soggetto aggiudicatario del contratto
l’onere del pagamento delle somme spettanti ai dipendenti dell’Ente per gli
incentivi in parola, per ciò che interessa in questa sede ci si limita a
ricordare che la disciplina in esame, come novellata dapprima dall’art. 76,
comma 1, lett. a), b) e c) del D.Lgs. 56/2017 (che hanno modificato,
rispettivamente, i commi 1, 2 e 3), e dall’art. 1, comma 526, L. 205/2017
(che ha aggiunto il comma 5-bis), stabilisce le modalità di
contabilizzazione e corresponsione degli incentivi in materia. Essi devono
essere attinti, comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell’amministrazione, dall’apposito fondo a valore sugli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture
negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti e, più precisamente, dal medesimo capitolo di spesa previsto per
i singoli lavori, servizi e forniture, salvo non siano in essere contratti o
convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle
funzioni tecniche svolte dal pubblico dipendenti.
L'amministrazione, inoltre, stabilisce anche i criteri e le modalità per la
riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme
del Codice.
Ulteriormente, la corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o
dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
Ed ancora, gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al
singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare
l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo
lordo.
Infine, è disciplinata la destinazione del restante 20 per cento delle
risorse finanziarie del fondo per acquisti di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso
di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica
informativa per l’edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle
banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di
efficientamento informatico; una parte delle risorse può essere utilizzato
per l’attivazione di tirocini formativi e di orientamento o per lo
svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei
contratti pubblici.
Risulta, pertanto, che “La ratio legis è quella di
stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in
termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di
attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale” (Sez. Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Tanto considerato, si ritiene che la contabilizzazione, la gestione e
l’onere finanziario dei benefici in esame, che costituiscono eccezione al
principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente in
funzione di incentivazione dell’efficienza e dell’efficacia nel
perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, sono
oggetto di esclusivo adempimento in capo all’amministrazione, impregiudicata
la libertà contrattuale di quest’ultima di ipotizzare, in sede di
corrispettivo, una modalità di finanziamento degli oneri connessi che,
tuttavia, non può andare a incidere sugli aspetti sopra riportati (Corte dei
Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 21.06.2018 n. 198). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente
consulenze a pensionati.
Niente incarichi di studio o consulenza a pensionati, anche se si tratta di
lavoratori autonomi in quiescenza.
Il
parere 06.06.2018, n. 180
della Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia
ritorna in maniera molto efficace a chiarire la portata della previsione
contenuta nell'art. 5, comma 9, del dl 95/2012, ai sensi del quale «è fatto
divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs
n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (Istat) ai sensi dell'art. 1, c. 2,
della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi
inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di
attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza».
La norma precisa poi che
incarichi, cariche e collaborazioni resi da soggetti in quiescenza sono
consentiti solo se a titolo gratuito e per la durata massima di un anno.
La ratio della disposizione in esame «è evidentemente di favorire l'occupazione
giovanile», come esplicitato dalla sentenza del Consiglio di stato
4718/2016.
La sezione Lombardia richiama le indicazioni date dalla sezione centrale del
controllo di legittimità sugli atti del governo e delle amministrazioni
dello stato che, nella deliberazione 6/2015/PREV, evidenzia la tassatività e
assolutezza del divieto posto dal legislatore.
La magistratura contabile enuncia «la natura palesemente selettiva del
divieto introdotto dalla norma, la quale introduce nel sistema, in modo
diretto e senza deroghe o eccezioni, se non per il caso della gratuità e per
la durata massima di un anno, un impedimento generalizzato al conferimento
di incarichi a soggetti in quiescenza. Tale impedimento appare fondato su un
elemento oggettivo che non lascia spazio a diverse opzioni interpretative».
Dunque, il divieto non riguarda solo i pensionati lavoratori dipendenti
pubblici o privati e si estende anche ai lavoratori autonomi (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il
Sindaco ha richiesto un parere circa “l’'interpretazione in
merito alla definizione della natura giuridica della spesa
per incentivi per funzioni tecniche e l'eventuale esclusione
dalla spesa del personale e del trattamento accessorio alla
luce della novella normativa di cui all'art. 1, comma 526,
della L. 205/2017 al fine di permettere una corretta
imputazione di tale fondo sul bilancio comunale.
La Sezione si è pienamente uniformata all’orientamento
espresso dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione
n 6/SEZAUT/2018/QMIG, secondo il quale "stante che il
legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di
bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi
gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio
(indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs.
n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte
all’erogazione di compensi accessori al personale, gli
incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi
non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Trecate (NO), con nota del 06.03.2018, chiede, all’adita Sezione, l’espressione di un parere
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n.
131. La Sezione regionale di Controllo per il Piemonte,
nell’adunanza del 20.02.2018, ha deliberato di
rinviare la discussione del parere posto dal sindaco di Bra.
Tale decisione, ha riguardato anche il parere, richiesto
successivamente, dal Comune di Trecate, ed è stata motivata
dal fatto che su analogo problema, sollevato dalle Sezioni
di Controllo per la Regione Puglia e per la Regione
Lombardia, doveva esprimersi, nel breve tempo, la sezione
delle Autonomie. Tale decisione è stata assunta in data 10
aprile con
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Nella nota in epigrafe il Sindaco, prima della formulazione
del quesito specifico, richiama l’attenzione su alcuni
principi normativi. In particolare si fa riferimento all'articolo 113, rubricato "Incentivi per funzioni tecniche",
del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, di approvazione del nuovo Testo
Unico sui lavori, servizi e forniture, che sostituisce
l'art. 93 del D.Lgs. 163/2006, già oggetto di riforma ad
opera del D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito con L.
114/2014, riscrivendo la disciplina degli incentivi del
personale già denominato "Fondo per la progettazione"
ed ora trasformato in "Fondo per le funzioni tecniche", con
decorrenza dal 19.04.2016.
Nella nota in epigrafe si sottolinea inoltre “che il
D.Lgs. n. 50/2016 ha introdotto la redistribuzione degli
incentivi per il buon compimento di appalti pubblici, aventi
ad oggetto sia lavori che forniture di beni e servizi;
- l’art 113, al comma 3, prevede che una somma non superiore
all'80% del 2% dell'importo posto a base di gara di un'opera
o di un lavoro, servizio o fornitura è ripartita tra il
responsabile del procedimento e quanti svolgono le altre
prestazioni professionali connesse (programmazione della
spesa per investimenti, verifica preventiva dei progetti,
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, direzioni lavori e
collaudo ovvero direzione dell'esecuzione e verifica di
conformità oltre al collaudo statico delle opere ove
previsto) in base ad apposito Regolamento;
- il restante 20% del 2% delle risorse finanziarie del
Fondo, è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione, di implementazione delle banche dati per il
controllo ed il miglioramento della capacità di spesa,
nonché all'ammodernamento e accrescimento dell'efficienza
dell'ente e dei servizi ai cittadini”.
Si osserva inoltre che la Corte dei Conti, sezione delle
Autonomie, con due successive pronunce,
deliberazione 06.04.2017 n. 7
e la
deliberazione 10.10.2017 n. 24, ha affermato rispettivamente che
“gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo
113 comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto
dei trattamenti accessori di cui all'art. 1, comma 236, L.
208/2015 (legge di stabilità 2016)" e ribadito che "gli
incentivi per le funzioni tecniche non possono essere
assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non
possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle
norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del
personale, nell'alveo delle quali si collocano anche le
norme limitative delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio”; che l’art. 1, comma 526, della L.
27.12.2017 n. 205 ha innovato l'art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 aggiungendo il seguente comma 3-bis: "gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture"; che la Corte dei Conti, sezione regionale di
controllo per l'Umbria, con il
parere 05.02.2018 n. 14 ha analizzato le modifiche apportate al sistema
degli incentivi alla luce del mutato quadro normativo
ritenendo che gli incentivi non confluiscono nel capitolo di
spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai
limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno
capo al capitolo di spesa relativo all'appalto non rilevando
più la qualificazione della spesa come investimento o
corrente.
Premesso tutto quanto sopra esposto, il Sindaco del Comune
di Trecate chiede:
- “di esprimere un'interpretazione in merito alla
definizione della natura giuridica della spesa per incentivi
per funzioni tecniche e l'eventuale esclusione dalla spesa
del personale e del trattamento accessorio alla luce della
novella normativa di cui all'art. 1, comma 526, della L.
205/2017 al fine di permettere una corretta imputazione di
tale fondo sul bilancio comunale;
- di definire la decorrenza del sopra indicato comma e,
quindi, se lo stesso trova applicazione a far data dal
01.01.2018”.
...
Il quesito posto dall’ente locale fa riferimento, come in precedenza
detto, all’art. 113, comma 5-bis, come modificato
dall’articolo 1 comma 526 della legge 27.12.2017, n.
205 (legge di bilancio 2018) che enuncia; “gli incentivi di
cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In quest’ambito si chiede chiarire se gli incentivi per le
“funzioni tecniche” di cui al comma 3 del medesimo articolo
(peraltro gli incentivi per le funzioni tecniche vengono
indicati al comma 2; ed analogamente anche la delibera della
sezione regionale di controllo del Piemonte si riferiva al
comma 2 e non al comma 3), vadano o meno conteggiati ai fini
del rispetto del limite annuale di cui all’articolo 23, comma
2, 3 del D.lgs. n. 75/2017 che rispettivamente recitano:
“comma 2 -nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine
di assicurare la semplificazione amministrativa, la
valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e
garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità
dell'azione amministrativa, assicurando al contempo
l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017,
l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente
al trattamento accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente
importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla
predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che
non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive
alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto
del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare
complessivo delle risorse di cui al primo periodo del
presente comma non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale
alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016.
comma 3 - Fermo restando il limite delle risorse complessive
previsto dal comma 2, le regioni e gli enti locali, con
esclusione degli enti del Servizio sanitario nazionale,
possono destinare apposite risorse alla componente variabile
dei fondi per il salario accessorio, anche per l'attivazione
dei servizi o di processi di riorganizzazione e il relativo
mantenimento, nel rispetto dei vincoli di bilancio e delle
vigenti disposizioni in materia di vincoli della spesa di
personale e in coerenza con la normativa contrattuale
vigente per la medesima componente variabile”.
Su tale quesito si è espressa in modo esaustivo, con
deliberazione n. 14 del 05.02.2018, la sezione
regionale di controllo per l’Umbria ribadendo che, con
riferimento agli incentivi tecnici disciplinati dalla
precedente normativa (ex art. 93, comma 7-ter, del D.lgs. n.
163/2006) “vi era stata una pronuncia delle Sezioni Riunite
la 51/2011 che aveva “escluso dal rispetto del limite di
spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010,
tutti quei compensi per prestazioni professionali
specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali
l’incentivo per la progettazione”.
In questo specifico contesto si era espressa anche la
Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16,
disponendo, ai fini del computo delle voci di spesa da
ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006 n. 296, l’esclusione di incentivi per la
progettazione interna a motivo della loro riconosciuta
natura: “di spese di investimento, attinenti alla gestione
in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e
finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di
funzionamento”.
La Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, aveva stabilito che gli incentivi per le funzioni
tecniche, diversi dagli incentivi per la progettazione,
rientrassero nel tetto del fondo per la contrattazione
decentrata.
Su questo punto, in particolare, la sezione di Controllo per
la Liguria con deliberazione n. 58/2017 aveva espressamente
richiesto alla Sezione delle Autonomie un riesame della
problematica in esame: “la Sezione, considerata l’esigenza
di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante
gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di
spesa del personale” sottopone la seguente questione di
massima: “se gli incentivi tecnici di cui al comma 2
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere
ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini del
rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 557,
della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto del
tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge
n. 208 del 2015”.
La Sezione delle Autonomie, in risposta alla richiesta
formulata dalla sezione di controllo della Liguria, con
deliberazione 10.10.2017 n. 24, aveva ribadito il proprio
orientamento espresso con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della
stessa Sezione, pronunciandosi sul rapporto tra nuovi
incentivi e norme vincolistiche sul contenimento della spesa
del personale, rimarcando che gli incentivi per le funzioni
tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n.
50/2016, fossero da includere nel tetto di spesa per il
salario accessorio dei dipendenti pubblici “posto che gli
stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese
di funzionamento e, dunque, come spese correnti, e, quindi,
di personale.”
Nella
deliberazione 10.10.2017 n. 24 della Sezione delle Autonomie
si chiariva che: “Le intervenute modifiche, comunque, non
hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione
ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in
relazione alla rilevata difformità della fattispecie
introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016,
rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla
progettazione.
IV. Ciò debitamente rappresentato, si osserva
che la questione di massima deferita dalla Sezione regionale
di controllo per la Liguria è sostanzialmente identica a
quella già valutata e risolta da questa Sezione delle
autonomie con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7
assunta nell’adunanza del 30.03.2017 con la quale, sia
pure in via incidentale, in conformità alla questione di
massima ad essa in tale sede deferita, la Sezione si è
pronunciata anche sul rapporto tra nuovi incentivi e norme
vincolistiche sul contenimento della spesa del personale.
Come sottolineato in detta deliberazione, nel delineato
nuovo scenario normativo gli incentivi per le funzioni
tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la
progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal
perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema
di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle
quali si collocano anche le norme limitative delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che
per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche
costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n.
2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte
esposte nella richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7 –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza
contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent.
n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti
legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di
spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 (in relazione ai trattamenti accessori del
personale) e dalla Sezione delle autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16 (in relazione al limite
previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e
562, della l. 296/2006).
IV.1. Sulla problematica si sono
successivamente pronunciate, in sede consultiva, le Sezioni
regionali di controllo per il Piemonte e Lombardia
(rispettivamente con il
parere 09.06.2017 n. 113 e
parere 09.06.2017 n. 185) in conformità al
principio di diritto espresso dalla Sezione delle autonomie.
Pertanto, allo stato non si registrano ulteriori contrasti
interpretativi in relazione alla novella legislativa oggetto
della questione di massima nuovamente riproposta dalla
Sezione regionale di controllo per la Liguria, ed oggi
all’esame”.
Fermo restando la ricostruzione fin qui svolta, che dava un
orientamento restrittivo, è tuttavia intervenuto
successivamente l’articolo 1, comma 526, della legge
27/12/2017, n. 205 che ha aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 il comma 5-bis, che si inserisce
all’interno del quadro normativo pregresso, innovandolo.
Nel citato
parere 05.02.2018 n. 14 della
sezione di Controllo per l’Umbria si sottolinea che la Legge
di Bilancio 2018 con l’articolo 1, comma n. 526, ha
infatti, aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 75 del
2016, il comma 5-bis il cui testo è il seguente: “Gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”.
“In tal modo il legislatore è intervenuto sulla
questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini
del rispetto del tetto di spesa per il trattamento
accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini
dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs. n. 75 del 2017. Il
legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi
non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al
trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa
previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo
di spesa dell’appalto”.
“Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113
citato, già disponevano che tutte le spese afferenti gli
appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare
imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti
appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento e
individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli
incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati,
l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa
previsto per l’appalto”.
Con
deliberazione 26.04.2018 n. 6
la Sezione delle Autonomie ha affrontato due distinte
questioni sollevate, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con
modificazioni dalla legge 07.12.2012 n. 213. In
particolare:
1) dalla Sezione di controllo per la Regione Puglia, con la
deliberazione 09.02.2018 n. 9, a seguito della
richiesta di parere del Sindaco del Comune di San Giovanni
Rotondo (FG) concernente l’accertamento, alla luce della
novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L. n.
205/2017, della natura giuridica della spesa per incentivi
per funzioni tecniche e dell’inclusione, o meno, della
stessa nell’ambito della spesa per il personale, con le
relative conseguenze in ordine al rispetto dei vincoli
normativi in tema di trattamento accessorio.
2) dalla Sezione di controllo per la Regione Lombardia, con
la
deliberazione 16.02.2018 n. 40, in ordine alla richiesta di parere
presentata dal Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG)
in merito alla sottoposizione ai generali limiti posti al
trattamento accessorio del personale dipendente anche degli
emolumenti economici erogati a titolo di incentivi dall’art.
113 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50/2016.
Anche ad avviso di questa sezione di controllo si ritiene
che il nuovo assetto normativo fin qui riproposto, possa
dare una “nuova” luce ed una più chiara interpretazione che
permetta, in modo più esaustivo, di colmare le distanze
rispetto a precedenti interpretazioni normative e
giurisprudenziali.
Nella predetta delibera della sezione
delle Autonomie si sottolinea che:
“Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va
considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento
normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle
norme di interpretazione autentica (tra cui la
retroattività), non può che trovare la propria ratio
nell’intento di dirimere definitivamente la questione della
sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale
delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in
quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono
apparire non compatibili con la natura delle spese da
sostenere. La ratio legis è quella di stabilire una diretta
corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in
termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello
svolgimento di attività tecniche e amministrative
analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di
specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con
riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo
preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali
risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione
e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa
di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma
contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione
degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti
finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione:
uno di carattere generale (il tetto massimo al 2%
dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere
individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico
complessivo per gli incentivi spettante al singolo
dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi
tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture è da rilevare che tali compensi
non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente,
ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni
(“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro
collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una platea ben
circoscritta di possibili destinatari, accomunati
dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni
rilevanti nell’ambito di attività espressamente e
tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC
Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato,
inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve
munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in
termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per
circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli
incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113
citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la
riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola
opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi
o dei costi”. Una condizione, dunque, che collega
necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento
dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio
oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi
prestabiliti.
Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come
configurato a seguito delle ultime modifiche normative
intervenute, occorre prendere atto che l’allocazione in
bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore
ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura
giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare
globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o
forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche
le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici.
Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di
legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016),
valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni
pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi
fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento volto a tipizzare
espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per
le funzioni tecniche, si deve ritenere che il legislatore
(che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il disposto di
cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto
alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono
tali risorse, nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero
conseguire sul piano della gestione contabile. Pur
permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità
operative di contabilizzazione, la novella impone che
l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel
titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e
forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con
qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di
riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta
nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i
predetti incentivi gravano su risorse autonome e
predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma
5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle
risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi
accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni
tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo
posto al complessivo trattamento economico accessorio dei
dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75 del 2017”.
Questa Sezione, pertanto, non può che uniformare il proprio
parere a quanto già stabilito dalla Sezione delle Autonomie
nella richiamata deliberazione (Corte dei Conti, Sez.
controllo Piemonte,
parere 23.05.2018
n. 56). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ai
fini applicativi dell’articolo
90 del TUEL, non può essere rinnovato l’incarico
nell’ambito dell’Ufficio alle dirette dipendenze del Sindaco
a personale collocato in quiescenza, se esso pertiene ad una
delle attività indicate dall’art.
5, comma 9 del d.l. n. 95/2012, dato il carattere
necessariamente oneroso dell’incarico stesso ex comma 2 del
precitato art. 90.
---------------
1) – Il Sindaco del Comune di Città di Castello (PG) ha
inoltrato a questa Sezione regionale di controllo, per
il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell'Umbria,
una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l.
n. 131/2003, per sapere se può “attribuire incarichi,
nell’ambito dell’Ufficio Staff del Sindaco, [ai sensi dell’]
art. 90 del d.lgs. n. 267/2000, a personale
collocato d’ufficio in quiescenza, avendo superato il limite
di età ordinamentale, nonché maturato il requisito
contributivo per la pensione anticipata e, in caso
affermativo, se tale incarico debba essere svolto a titolo
gratuito o anche in forma onerosa”.
2) – A tal fine, si è fatto presente che:
a) la richiesta riguarda “un dipendente [del] Comune che
ricopriva l’incarico con contratto a tempo determinato, ai
sensi del [citato] art. 90 presso l’Ufficio Staff del
Sindaco nel profilo di Funzionario addetto all’attuazione
del programma, cat. D3, collocato d’ufficio in pensione
dall’01/04/2018, per limite di età";
b) l’idea perseguita è quella di “rinnovare tale incarico”;
c) i problemi interpetrativo-applicativi relativi al ripetuto art.
90 nascono da “alcune deliberazioni delle Sezioni
Regionali della Corte dei conti che […] sembrano escludere
tale possibilità”, in relazione anche alla “natura
necessariamente onerosa del rapporto di lavoro presso i c.d.
Uffici di Staff” (v. Sez. Calabria n. 5/2017 e n.
27/2018), laddove altra Sezione ha precisato che l’incarico
ex art. 90 più volte menzionato non deve avere ad oggetto “l’espletamento
di funzioni direttive, dirigenziali, di studio o di
consulenza, senza specificare ulteriormente se l’incarico
[stesso] debba essere gratuito o meno” (v. Sezione
Liguria n. 27/2016).
...
5.1) Il tema del conferimento di incarico
di “staff” ex
art. 90 TUEL, nei termini in cui è stato
prospettato con la richiesta di parere all’esame del
Collegio, si intreccia con quello della corretta
applicazione dell’art.
5, comma 9, del d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n.
135/2012, come modificato dall’art. 17, comma 3, della l. n.
124/2015.
Le deliberazioni richiamate nella richiesta di parere (sez.
Calabria n. 27/2018 e Sezione Liguria n. 27/2016), infatti,
vertono proprio sulla corretta applicazione dell’art. 90
TUEL nel suo combinato disposto con l’appena citato art. 5,
comma 9, del d.l. n. 95/2012 e s.m.i..
Gli orientamenti espressi con tali deliberazioni, maturati
tenendo anche conto delle circolari n. 6/2014 e n. 4/2015
del Ministero per la semplificazione e la pubblica
Amministrazione (oltre che dei principi affermati dalla
Sezione Centrale di controllo di Legittimità con la
deliberazione n. 23/2014), distinguono e separano gli
incarichi che possono essere conferiti al personale in
quiescenza, da quelli che invece non possono essere
conferiti al medesimo personale, specificando trattarsi
–relativamente a questi ultimi- di fattispecie non
estensibili oltre la puntuale previsione normativa.
5.2) – Gli incarichi “vietati”,
dunque, sono solo quelli espressamente contemplati dal
ripetuto art. 5, comma 9, ossia gli incarichi di: “studio
e di consulenza”, ovvero “dirigenziali o direttivi o
cariche in organi di governo delle amministrazioni”.
Per espressa indicazione normativa,
peraltro, gli elencati “incarichi, cariche e
collaborazioni […] sono comunque consentite [se espletati] a
titolo gratuito”
(v. terzo periodo dell’art. 5, comma 9, del d.l. n.
95/2012).
5.3) Dal testo normativo e dalle circolari che ad esso fanno
riferimento, pertanto, risultano due
condizioni necessariamente concorrenti per escludere la
conferibilità degli incarichi in discorso al personale in
quiescenza: a) la prima attiene alla natura degli incarichi
(direttivi, dirigenziali, di studio, ecc.); b) la seconda
attiene al carattere oneroso dell’affidamento.
6) Le deliberazioni considerate nella richiesta di parere
all’esame del Collegio, contrariamente a quanto lascerebbe
intendere la richiesta stessa, non sono tra loro in
disallineamento culturale-interpretativo, ma si integrano,
cogliendo ognuna di esse uno dei due aspetti del “divieto”.
6.1) La deliberazione n. 27/2016 della Sezione Liguria,
infatti, si occupa della natura dell’incarico che, qualora
diverso da quelli poco sopra elencati (direttivi,
dirigenziali, di studio, ecc.), ben può essere conferito
anche mediante il contratto di cui all’art. 90 TUEL, atteso
che la natura intrinsecamente diversa da quelli
espressamente “vietati” rende superfluo
l’accertamento dell’ulteriore condizione del suo carattere
oneroso.
6.2) La deliberazione n. 27/2018 della Sezione Calabria,
invece, esamina più in dettaglio proprio il profilo
dell’onerosità dell’incarico, evidenziandone l’intrinseca
correlazione con le disposizioni del comma 2 dell’art. 90
TUEL. Trattasi, ovviamente, di aspetto da coordinare con
quello del contenuto dell’incarico, da ritenere “vietato”
se attinenti a funzioni dirigenziali, direttive, di studio,
ecc.
7) Nel caso di specie, parrebbe che l’incarico da “rinnovare”
sia quello di “Funzionario addetto all’attuazione del
programma, D3”, già conferito in precedenza, ai sensi
dell’art. 90 TUEL (v. testualmente pag. 1 della nota di
richiesta del parere).
7.1) Trattasi, perciò di un incarico “direttivo”,
negativamente considerato dall’art. 5, comma 9, del d.l. n.
95/2012, da affidare mediante un contratto ex art. 90 TUEL,
necessariamente oneroso (v. il relativo comma 2).
Salve le diverse determinazioni del Comune di Città di
Castello, pertanto, il predetto incarico sembra che non
possa essere conferito, ex deliberazioni n. 17/2016 della
Sezione Liguria e n. 17/2018 della Sezione Calabria
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 21.05.2018 n. 77). |
EDILIZIA PRIVATA: «Rottamazione»
impossibile per gli oneri accessori dei condoni edilizi.
Il Consiglio comunale non può procedere alla definizione agevolata degli
oneri accessori dei condoni edilizi, in considerazione del tasso di
interesse applicato (10%) rispetto a quello legale (dal 01.01.2018 pari
allo 0,3%).
La risposta negativa al quesito di un Comune arriva dalla Corte dei conti
della Campania (parere
09.05.2018 n. 70) e trova fondamento nel fatto che
la richiesta riguarda corrispettivi di diritto pubblico che non
costituiscono tributi, con impossibilità di estenderne i regimi agevolativi
disposti dalle norme tributarie.
La normativa tributaria
La normativa tributaria (articolo 13 della legge 289/2002) lascia ampia
autonomia agli enti locali sui propri tributi, sia in merito alla
possibilità di poter procedere a una riduzione dell'ammontare delle imposte
e tasse dovute, sia sull'esclusione o sulla riduzione degli interessi e
sanzioni nel caso in cui, entro un termine fissato dall'ente (non inferiore
ai sessanta giorni), i contribuenti adempiano a obblighi tributari
precedentemente in tutto o in parte non rispettati.
Sulla base, pertanto, di
quanto indicato dalla legge, è rimessa all'ente la possibilità di poter
disciplinare in autonomia i possibili criteri di definizione agevolata dei
tributi, a condizione che gli stessi siano stati già accertati dall'ente e
il contribuente non abbia adempito al pagamento della propria obbligazione
tributaria.
Le indicazioni del collegio contabile
Per il collegio contabile campano deve essere esclusa la possibilità, da
parte dell'ente locale, di poter procedere nella propria autonomia a
stabilire criteri per una definizione agevolata degli oneri accessori al
condono edilizio, anche se limitata a ricondurre gli interessi, pari al 10%,
a quelli legali, che dal 01.01.2018 sono pari allo 0,3%.
L'esclusione
discende dalla natura giuridica degli oneri (compresi gli accessori quali
interessi e sanzioni) che è non tributaria, con conseguente impossibilità di
estendere la definizione agevolata prevista dal legislatore per i soli
tributi. Stessa sorte tocca anche gli altri corrispettivi di diritto
pubblico, ossia in generale quelli posti a carico del proprietario e
idealmente commisurati ai costi sostenuti dalla collettività e al beneficio
resi.
La differenza, infatti, tra tributi e oneri edilizi è sostanziale, in
quanto questi ultimi hanno il loro presupposto nella volontà costruttiva del
proprietario, mentre il tributo (imposte, tasse, contributi) è una entrata autoritativa o coattiva, la cui obbligatorietà è imposta con un atto
dell'autorità senza che vi concorra la volontà del soggetto obbligato,
destinata a finanziare le pubbliche spese.
In merito al rilascio dei titoli abilitativi edilizi, la legge prevede che
il proprietario costruttore versi due quote, la prima (oneri di
urbanizzazione) è dovuta dalla necessità di dotare l'area delle opere di
urbanizzazione primarie (servizi all'abitazione) e secondarie (servizi agli
abitanti) che ben essere effettuata in via diretta dal proprietario (a
scomputo degli oneri dovuti); la seconda quota è invece commisurata al costo
di costruzione a fronte del corrispettivo aumento di valore di cui
beneficerà l'immobile per effetto delle opere pubbliche che saranno
realizzate.
Nel caso dell'abuso edilizio l'oblazione richiesta dalla normativa
rappresenta già una forma agevolata di pagamento di per se incompatibile con
ulteriori interventi agevolativi, inoltre la natura degli interessi previsti
dal legislatore sono da qualificarsi quali interessi moratori incompatibile
con la funzione stessa dell'interesse legale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2018).
---------------
MASSIMA
Gli oneri per titoli edilizi
costituiscono non un “tributo” ma un “corrispettivo di
diritto pubblico” a carico del proprietario, commisurato ai
costi sostenuti dalla collettività e al beneficio reso.
Il
richiedente il titolo edilizio può sottrarsi al pagamento
del contributo, obbligandosi a “realizzare direttamente le
opere di urbanizzazione, nel rispetto [delle norme del
codice dei contratti pubblici], con le modalità e le
garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione
delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del
comune» (c.d. opere “a scomputo” degli oneri) (art.16 T.U. edilizia).
Non costituendo, pertanto, l’obbligo di
pagamento per siffatti oneri, “tributi” o “imposte e tasse”,
la Sezione ritiene che non sia applicabile l’art. 13 della L. n. 289/2002, quale forma agevolata di defezione di
rapporti il cui titolo è già sorto, né, pertanto, la
definizione agevolata agli interessi per il ritardato
pagamento dell’oblazione per il condono edilizio.
---------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agnello (NA) ha chiesto alla Sezione un
parere in merito alla possibilità per gli enti locali di applicare l’art. 13
della Legge n. 289 del 27.12.2002 agli oneri previsti dall'art. 39, comma
10, della legge n. 724/1994 in caso di “condono edilizio”.
Segnatamente chiede di sapere se è possibile procedere a definizione
agevolata del quantum dovuto per interessi in caso di ritardato
pagamento dell’oblazione.
L’Ente osserva che in caso di risposta positiva, intenderebbe procedere alla
riduzione del tasso di interesse, stabilito dall'art. 39, comma 10, della
Legge 724/1994 nella misura del 10%, rapportandolo al tasso di interesse
legale attualmente vigente.
«In tal modo si contempererebbero sia le esigenze dell'Amministrazione,
di incassare nel più breve tempo possibile le somme derivanti dalla
definizione dei procedimenti di condono, sia quelle dei cittadini, che in
tal modo potrebbero procedere al pagamento del dovuto più agevolmente».
...
1. Come è noto, l’art.
13 della Legge n. 289/2002, concede a regioni, province e comuni
la facoltà di definire in modo agevolato il rapporto tributario per “tributi
propri”, per mezzo di apposite previsioni normative generali, adottate
secondo l’ordinamento di riferimento e conformi ai criteri di legge fissati
nella stessa disposizione.
Segnatamente: «[…] con riferimento ai tributi propri, le regioni, le
province, ed i comuni possono stabilire, con le forme previste dalla
legislazione vigente per l’adozione dei propri atti destinati a disciplinare
i tributi stessi, la riduzione dell’ammontare delle imposte e tasse loro
dovute, l’esclusione o la riduzione dei relativi interessi e sanzioni, per
le ipotesi in cui, entro un termine appositamente fissato da ciascun ente,
non inferiore a sessanta giorni dalla data di pubblicazione dell’atto, i
contribuenti adempiano a obblighi tributari precedentemente in tutto o in
parte non adempiuti» (enfasi aggiunta).
Lo stesso articolo precisa che:
- restano escluse dalla previsione le addizionali, le
compartecipazioni a tributi erariali e le mere attribuzioni di gettito di
tributi erariali;
- la definizione agevolata riguarda rapporti tributari, già
esistenti per cui si sia registrata una difficoltà di riscossione (“obblighi
tributari precedentemente in tutto o in parte non adempiuti”);
- le agevolazioni potranno essere previste anche per i casi in cui
siano già in corso procedure di accertamento o procedimenti contenziosi in
sede giurisdizionale, le quali potranno quindi riferirsi anche a tributi ora
abrogati.
Tale previsione trova fondamento nell’art. 119 della Costituzione, nel testo
modificato con legge costituzionale n. 3/2001, secondo il quale: «I
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse
autonome.
Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la
Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e
del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di
tributi erariali riferibile al loro territorio».
L’applicazione di tale disposizione, dunque, presuppone:
- la natura tributaria delle entrate;
- il previo accertamento dell’entrata e la sua mancata riscossione
nei termini e tempi di legge;
- una disciplina attuativa che stabilisca preventivamente ed in
generale, nelle forme e con le fonti dell’ordinamento proprio di ciascun
ordinamento territoriale, i criteri della definizione agevolata.
2. Il Comune chiede di sapere se tale norma e tali criteri siano applicabili
sulle entrate per “oneri” dovuti in relazione al rilascio di titoli
edilizi in sanatoria, ai sensi dell’art. dell’art. 39 Legge n. 724/1994, in
particolare con riguardo ai previsti interessi del 10% in caso di ritardo
nel versamento dell’oblazione.
2.1. La giurisprudenza tributaria, amministrativa e contabile, nonché della
Suprema Corte di Cassazione (cfr. TAR Campania-Salerno, Sez. II, 05.10.2009
n. 5318; SRC Lombardia n. 144/2017/PAR; SS.UU. sentenza n. 22514 del
20.10.2006) hanno concordemente affermato che gli oneri per
i titoli edilizi non costituiscono un “tributo”, sia pure nella forma
di contributo, ma un “corrispettivo di diritto pubblico”, come tale
obbligatoriamente posto a carico del proprietario, idealmente commisurato ai
costi sostenuti dalla collettività e al beneficio reso.
Si tratta di una prestazione, da un lato, che ha il
suo presupposto nella volontà costruttiva del proprietario, mentre il
tributo (imposte, tasse, contributi) è una entrata autoritativa o coattiva,
la cui obbligatorietà è imposta con un atto dell'autorità senza che vi
concorra la volontà del soggetto obbligato, destinata a finanziare le
pubbliche spese.
Infatti, il richiedente il titolo edilizio può sottrarsi al pagamento del
contributo se, ai sensi dell’art. 16 del T.U. edilizia, si obbliga «a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto [delle
norme del codice dei contratti pubblici], con le modalità̀ e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al
patrimonio indisponibile del comune» (c.d. opere “a scomputo”
degli oneri).
Per altro verso, tale prestazione è commisurata all’utilità diretta
del soggetto destinatario del titolo edilizio. Tale corrispettivo si
articola infatti in due quote.
Una prima quota, relativa agli “oneri di urbanizzazione” propriamente
detti, ha causa nelle spese che l’ente pubblico affronta per dotare un’area
delle opere di urbanizzazione primarie (servizi all’abitazione) e secondarie
(servizi agli abitanti) ed è commisurata al c.d. “peso insediativo”
dell’intervento che il comune dovrà sopportare.
Una seconda quota, commisurata invece al costo di costruzione, è idealmente
giustificata in ragione del corrispettivo aumento di valore di cui
beneficerà l’immobile per effetto delle realizzande opere pubbliche.
2.2. Analoga qualificazione “non tributaria”, per
estensione, è stata sostenuta con riguardo all’oblazione edilizia accertata
e versata ai sensi dell'articolo 35 della Legge n. 47/1985 e dell’art. 39
Legge n. 724/1994 (TAR Campania
Salerno Sez. II, sentenza 21.11.2011, n. 1895; Commissione tributaria
regionale di Roma, sezione 20, sentenza n. 115 del 07.09.2005).
Trattasi di una somma di denaro determinata con riferimento
all'opera abusiva o alla parte abusiva realizzata in relazione al tipo di
abuso, ovvero di una somma determinata sulla base delle superfici abusive
realizzate, oppure, per alcune tipologie, a forfait.
3. Ne consegue che l’obbligo di pagamento per siffatti
oneri, discendente dall’art. 19 del T.U. Edilizia (D.P.R. n. 380/2001), dal
precedente art. 3 della L. n. 10/1977 ed, infine, dalle norme sulla
definizione agevolata degli abusi edilizi (capi IV e V della legge
28.02.1985, n. 47 e art. 39 della Legge 724/1994), non costituiscono “tributi”
o “imposte e tasse”.
Per l’effetto a tale prestazioni non è applicabile l’art. 13 della Legge n.
289/2002, che costituisce una forma agevolata di defezione di rapporti il
cui titolo è già sorto.
Tale inapplicabilità riguarda tanto la sorte che gli accessori.
Del resto:
- da un lato, l’oblazione costituisce già una forma agevolata di
pagamento, pertanto logicamente incompatibile con ulteriori manipolazioni
agevolative;
- gli interessi previsti dal comma 10 dell’art. 39 della L. n.
724/1994, sono interessi “moratori” ex art. 1224 c.c., per cui il
Legislatore ha espressamente contemplato la divergenza dall’interesse
legale, oggi stabilito dall’art. 1284, comma 1, c.c., tramite rinvio ad
appositi decreti annui del Ministro del tesoro;
- le fattispecie di esonero hanno carattere tassativo, costituendo
esse eccezione rispetto alla regola del pagamento obbligatorio (cfr. TAR
Veneto, Sez. II, 18.06.2010 n. 2688; TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
26.04.2006 n. 1062; TAR Lombardia-Brescia 28.01.2002 n. 100). Infatti,
l’unica deroga in materia è quella contenuta nel già citato art. 39 (comma
9) della L. 724/1994, il quale prevede che il contributo non è dovuto se il
costruttore, in proprio od in forme consortili, abbia eseguito od intenda
eseguire parte delle opere di urbanizzazione, secondo le disposizioni
tecniche dettate dagli uffici comunali (c.d. opere a “scomputo degli
oneri”).
Ne consegue che non è possibile applicare la definizione
agevolata di cui all’art. 13 della Legge n. 289/2002 agli interessi per il
ritardato pagamento dell’oblazione per il condono edilizio. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Agli
amministratori spese legali rimborsate solo se non colpiscono l’equilibrio
di bilancio.
La locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»
contenuta nell'articolo 86, comma 5, del testo unico degli enti locali a
proposito del rimborso delle spese legali agli amministratori, deve essere
riferita all'aggregato delle spese di funzionamento, per cui sono possibili
compensazioni interne tramite le quali garantirne la copertura qualora non
previste o siano maggiori rispetto agli esercizi precedenti.
Lo afferma la Sez. regionale di controllo per il Molise della Corte dei
conti con il
parere 03.05.2018 n. 55.
Il tema
Diversi amministratori comunali, sottoposti a indagini penali e per i quali
è poi stato dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non
sussiste, hanno chiesto il rimborso delle spese legali. Un sindaco ha
chiesto se, alla luce della locuzione «senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica» contenuta nell'articolo 86, comma 5, del Tuel, sia
possibile utilizzare come parametro il complessivo equilibrio finanziario
dell'ente e non l'invarianza della singola voce di spesa, non avendo mai
posto in essere stanziamenti per spese legali. E se è corretto intendere la
clausola di invarianza finanziaria nel senso che l'amministrazione provvede
attingendo alle ordinarie risorse di cui può disporre a legislazione
vigente, senza precludere spese nuove solo perché non precedentemente
sostenute o maggiori rispetto alla precedente previsione.
L'articolo 86 vincola il rimborso delle spese legali per gli amministratori
locali al limite massimo dei parametri stabiliti dal decreto previsto
dall'articolo 13, comma 6, della legge 247/2012, nel caso di conclusione del
procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento
di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: assenza di conflitto
di interessi con l'ente amministrato, presenza di nesso causale tra funzioni
esercitate e fatti giuridicamente rilevanti e assenza di dolo o colpa grave.
Le coperture
A fronte di un diverso avviso espresso dalla sezione Basilicata, secondo cui
la facoltà riconosciuta agli enti locali di rimborsare le spese legali deve
trovare copertura nelle entrate attese, i magistrati contabili molisani
scelgono l'opzione interpretativa secondo cui la locuzione «senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica» deve essere riferita all'aggregato
delle spese di funzionamento, che nel bilancio armonizzato è identificato
nelle spese della Missione 1 per «Servizi istituzionali, generali e di
gestione».
L'introduzione o l'aumento della spesa per la voce in esame sono, dunque,
preclusi solo qualora determinano un innalzamento delle spese relative
all'organizzazione e al funzionamento complessivamente sostenute dall'ente
locale rispetto a quanto appostato nel rendiconto del precedente esercizio.
Sono conseguentemente possibili compensazioni interne, tramite le quali
l'ente può garantire la copertura delle spese per il rimborso agli
amministratori a patto che venga rispettato il complessivo aggregato di
spesa.
Il fondo rischi
La sezione, poi, ricorda che nel caso in cui abbia una obbligazione passiva
condizionata all'esito di un giudizio o di un ricorso, l'ente è tenuto ad
accantonare le risorse necessarie per il pagamento degli oneri attraverso la
costituzione di un apposito fondo rischi. Spetta alla singola
amministrazione valutare se il contenzioso che potrebbe insorgere con gli
amministratori aventi diritto al rimborso sia già attualizzato al momento
dello stanziamento del fondo, evitando che accantonamenti stanziati per
assicurarsi dal rischio di ulteriori eventi sfavorevoli possano essere
utilizzati per le segnalate finalità onde evitare di depotenziare l'utilità
del fondo stesso a discapito degli equilibri di bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.05.2018).
---------------
MASSIMA
La Sezione -ammessa la richiesta sotto il profilo
soggettivo e i primi quattro quesiti sotto il profilo oggettivo– ritiene
oggettivamente i restanti quesiti estranei alla materia della contabilità
pubblica e richiedenti una risposta puntuale in relazione ad aspetti
operativi riconducibili esclusivamente alla sfera amministrativo-gestionale
dell’Ente.
Tra le interpretazioni intervenute in ordine all’art. 86, comma 5, TUEL, il
Collegio ritiene preferibile l’opzione interpretativa secondo la quale il
significato della locuzione “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica”, debba essere riferito all’aggregato di spesa delle spese di
funzionamento, in quanto, da un lato, comprensivo delle spese afferenti al
mandato degli amministratori ma, dall’altro non così ampio da ricomprendere
anche le uscite destinate a soddisfare le finalità pubbliche il cui
perseguimento è demandato all’Amministrazione.
Tale aggregato interessa in particolare “tutte le voci di spesa destinate a
garantire l’esistenza dell’apparato comunale e il suo funzionamento ed
esclude invece quelle voci di spesa per loro natura destinate
all’espletamento dei compiti di cui l’ente è intestatario, preordinati ad
assicurare e contemperare gli interessi dei soggetti a cui l’azione pubblica
è rivolta”. Nel bilancio armonizzato pertanto l’aggregato in questione non
può che essere identificato nelle spese della Missione 1 recante “Servizi
istituzionali, generali e di gestione”
(cfr. Sez. controllo Lombardia nn. 452 e 470/2015/PAR).
Non intravede ostacoli a che l’Amministrazione, nel
rispetto del complessivo aggregato di spesa del precedente esercizio,
provveda alle variazioni di bilancio necessarie a garantire la copertura
delle spese in questione.
In ultimo, è possibile utilizzare gli importi previsti nel fondo
rischi/passività future esclusivamente a fronte di sentenze sfavorevoli non
definitive o non esecutive e/o di un contenzioso che si sia già manifestato
nell’”an” senza tuttavia essere stato ancora definito tanto nell’esito che
nel “quantum”.
L’Amministrazione valuterà pertanto se il contenzioso si fosse già
attualizzato al momento dello stanziamento del Fondo in questione e,
soprattutto, eviterà che accantonamenti stanziati per assicurarsi dal
rischio di ulteriori eventi sfavorevoli (altri contenziosi e/o sentenze non
definitive o non esecutive) possano essere utilizzati per le segnalate
finalità onde evitare di depotenziare l’utilità del fondo stesso a discapito
degli equilibri di bilancio. |
SEGRETARI COMUNALI: Il
blocco del fondo accessorio frena anche la maggiorazione dei segretari.
Dopo i dipendenti del comparto, i titolari di posizione
organizzativa e i dirigenti, arriva l'ora dei segretari comunali. Fino a
oggi nessuna amministrazione si era azzardata a chiedere lumi sul loro
trattamento economico e, nel silenzio, si propendeva per la non
applicabilità al tetto del salario accessorio imposto dalla riforma Madia
alla loro retribuzione. Ben coscienti dell'assoluta fragilità di questa
posizione.
A rompere il castello di carta è arrivata la Corte dei conti per la
Lombardia, con il
parere 12.04.2018 n. 116.
Il quesito
Un Comune ha interrogato i magistrati contabili sul campo di applicazione
dell'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 e, in particolare, se la
disposizione impone il limite alla dinamica di crescita anche per la
maggiorazione di posizione che può essere riconosciuta ai segretari comunali
e provinciali.
I precedenti
La Corte parte da posizioni ormai consolidate nel tempo. Un primo filone, in
ordine sia alla predetta maggiorazione, secondo l'articolo 41, comma 4, del
contratto del 16.05.2001, che al cosiddetto «galleggiamento»,
previsto al successivo comma 5, evidenzia come questi istituti, per espressa
disposizione contrattuale, possano essere riconosciuti solo nell'ambito
delle risorse disponibili e nel rispetto della capacità di spesa. A questo,
i magistrati contabili hanno aggiunto che «gli incrementi in esame non
possono comportare da parte del Comune concedente la violazione dei vincoli
in materia di contenimento delle spese per il personale» (deliberazione
n. 30/2010 della Corte dei conti per la Sardegna).
Un secondo filone ha affrontato i problemi applicativi in ordine al tetto
del salario accessorio e ha chiarito come il limite debba essere applicato
alle risorse destinate al trattamento accessorio del personale nel suo
ammontare complessivo e non con riferimento ai fondi riferiti alle singole
categorie di personale (di comparto, titolare di posizione organizzativa,
dirigente ed, oggi, anche segretari comunali e provinciali).
La posizione della Sezione Autonomie
La posizione è stata definitivamente statuita dalla Sezione delle Autonomie,
con le deliberazioni n. 26/2014 e n. 34/2016. Con questi presupposti, la
conclusione non poteva che essere una: la maggiorazione della retribuzione
di posizione dei segretari rientra nel campo di applicazione dell'articolo
23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
La deliberazione non lascia per nulla sorpresi. La memoria, infatti, corre
ai tempi nei quali si discuteva delle voci da assoggettare a trattenuta nei
primi 10 giorni di malattia. In quell'ambito, sia il Dipartimento della
Funzione Pubblica che l'Aran avevano affermato che tanto la retribuzione di
posizione quanto la maggiorazione e il galleggiamento sono soggette alla
trattenuta in quanto fanno parte del trattamento accessorio del segretario.
E se lo sono per la trattenuta Brunetta non possono che essere tali anche ai
fini del tetto previsto dalla riforma Madia. Sicuramente questo pone
problemi non indifferenti, soprattutto negli enti di minori dimensioni, dove
la rotazione del segretario è piuttosto frequente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
---------------
MASSIMA
PQM
La Corte dei conti
–Sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia–
ritiene che il compenso per la maggiorazione di posizione da attribuirsi al
segretario comunale, nei termini espressi nel quesito in epigrafe, sia
ricompresa nell’ammontare complessivo delle risorse destinate al trattamento
accessorio del personale e che sia soggetta ai limiti di spesa parametrati
al 2016 di cui all’art. 23 D.Lgs. 75/2017 per le ragioni riportate in
motivazione. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Transazione
impossibile sulle sanzioni.
Solo i rapporti patrimoniali disponibili possono essere oggetto di
transazione da parte dell'ente locale.
Con il
parere 12.04.2018 n. 108 la Sez. regionale
di controllo della Corte dei Conti per la Lombardia riassume i requisiti
essenziali dell'accordo transattivo disciplinato agli articoli 1965 e
seguenti del Codice civile.
La scelta discrezionale
Ai magistrati viene chiesto se sia ammissibile una transazione con la
curatela di un fallimento, nell'ambito di un contenzioso giudiziario, per il
pagamento di fatture relative a prestazioni mai impegnate nel bilancio
dell'ente. La Sezione ritiene oggettivamente inammissibile la richiesta di
parere, non ravvisando le necessarie caratteristiche di astrattezza e
generalità, ma in ottica collaborativa giudica utile richiamare i limiti al
ricorso alla transazione da parte degli enti pubblici.
La scelta se
proseguire un giudizio o arrivare ad un accordo transattivo spetta all'amministrazione nell'ambito dello svolgimento dell’ordinaria attività
amministrativa, e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a
sindacato giurisdizionale. Uno degli elementi che l'ente deve considerare è
sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione
all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso relativo, da
valutare in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della
situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali.
L’esame sulla convenienza
I limiti alla stipula della transazione da parte di enti pubblici attengono
alla legittimazione soggettiva e alla disponibilità dell'oggetto, oltre che
al rispetto della disciplina pubblicistica. La transazione richiede poi
l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto
economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese
confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia
giuridicamente fondata.
Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di
due posizioni giuridiche è la base della transazione, in quanto serve per
individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla
contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione
all'oggetto della controversia.
I diritti disponibili
Infine la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili e
cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno
il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. È nulla, infatti, la
transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano
sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa
disposizione di legge.
In particolare, il potere sanzionatorio
dell'amministrazione e le misure afflittive che ne sono l'espressione
possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti
indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi
transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Mozzate (Co) ha formulato a questa Sezione
il seguente quesito: se sia ammissibile una transazione in un
contenzioso giudiziario con la curatele di un fallimento per il quale si
chiede il riconoscimento di fatture, e conseguente pagamento, per pranzi (n.
1784 coperti) erogati nell'anno 2007 presso un ristorante) per la
motivazione presunta di presentazione Piano del Governo del Territorio
(approvato l'anno successivo).
La ricorrente Fa. S.r.l. afferma di essere creditore della somma di €
35.057,60 comprovata da n. 17 fatture emesse tra il 2006 e il 2007, rimaste
impagate, nonostante l'asserita prestazione di servizi di ristorazione
avvenuta in diverse occasioni, a favore del Comune.
A riguardo il segretario comunale evidenzia l'impossibilità a transare,
perché, ex art. 194 TU 267/2000, trattasi di debito fuori bilancio non
riconoscibile. In questo caso -sempre secondo il segretario- ricorre
l'ipotesi di cui all'art. 191, co. 4 del predetto T.U. per cui "il
rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e
l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la
fornitura. Per le esecuzioni reiterate e continuative detto effetto si
estende a coloro che hanno reso possibile le singole prestazioni. Secondo il
suggerimento del legale del Comune, si può ritenere civilisticamente
conveniente la transazione caldeggiata anche dal Giudice della causa, al
fine di scongiurare una conclusione con esito sfavorevole per il Comune, con
il rischio di condanna alle spese legali anche di controparte."
Il Sindaco poi allega una sintesi della vicenda dove gli elementi più
significativi secondo la prospettazione dell'istante, sono rappresentati dal
fatto che non esiste da parte dell'Ente alcun impegno di spesa per le
prestazioni rese in favore dei partecipanti all'incontro per la
presentazione del nuovo P.G.T. (incontro durato alcuni giorni) e che si
dubita che tali prestazioni possano essere imputate all'amministrazione.
...
1.3. Alla luce dei principi ora richiamati, la richiesta di
parere in esame deve ritenersi oggettivamente inammissibile, in quanto il
relativo quesito sottende valutazioni attinenti alla concreta attività
gestionale ed amministrativa di esclusiva competenza dell'Ente istante
(cfr., ex multis, le deliberazioni della Sezione nn. 161/2013/PAR e
128/2013/PAR), risultando, dunque, finalizzato ad ottenere
-più che un parere avente rilievo interpretativo generale- un vaglio di
legittimità e di merito.
Nel caso in esame, infatti, non si deve interpretare una norma di
contabilità pubblica, che presenti incertezze o problemi esegetici
particolari, ma si deve legittimare una scelta che l'Amministrazione dovrà
adottare in ordine ad una transazione caldeggiata addirittura dal Giudice
del contenzioso in atto.
Non vi è chi non veda che il caso è caratterizzato da una concretezza
estrema.
La Sezione, tuttavia, in un'ottica collaborativa e sempre
in linea generale, ritiene di richiamare i seguenti limiti al ricorso alla
transazione da parte degli enti pubblici già espressi con orientamenti
costanti dalla Corte che possono essere utili al Comune:
• "i limiti alla stipulazione della
transazione da parte di enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto
dell'ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la
disponibilità dell'oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè
la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione. Sotto quest'ultimo
profilo va ricordato che, nell'esercizio dei propri poteri pubblicistici,
l'attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di
interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell'interesse intestato
all'ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono
condizionare l'esercizio del potere dell'Amministrazione pubblica sia
rispetto alla miglior cura dell'interesse concreto della comunità
amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi,
secondo il principio di imparzialità dell'azione amministrativa;
• la scelta se proseguire un giudizio o addivenire
ad una transazione e la concreta delimitazione dell'oggetto della stessa
spetta all'Amministrazione nell'ambito dello svolgimento della ordinaria
attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta
a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle
stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai
quali deve ispirarsi l'azione amministrativa. Uno degli elementi che l'ente
deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in
relazione all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso
relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla
chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti
giurisprudenziali;
• ai fini dell'ammissibilità della transazione è
necessaria l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice
conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono
pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia
giuridicamente fondata. Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di
due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per
individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla
contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione
all'oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la
transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;
• la transazione è valida solo se ha ad oggetto
diritti disponibili (art 1966, co. 2 cod. civ.) e cioè, secondo la
prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di
estinguere il diritto in forma negoziale. E' nulla, infatti, la transazione
nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti
alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione
di legge. In particolare, il potere sanzionatorio dell'amministrazione e le
misure afflittive che ne sono l'espressione possono farsi rientrare nel
novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è
escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata
destinataria degli interventi sanzionatori
(cfr. Sez. Lombardia n. 1116/2009 cit.);
• requisito essenziale dell'accordo transattivo disciplinato dal
codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell'art. 1321 dello stesso
codice, la patrimonialità del rapporto giuridico".
Per quanto attiene alla legittimità della transazione, questa Sezione
(deliberazione n. 161/2013/PAR) ha già chiarito che "non
può pronunciarsi in ordine alla ragionevolezza, intesa in termini di
opportunità e di convenienza per l'Ente, di una potenziale transazione.
Circa gli eventuali spazi per un eventuale accordo [transattivo] si rimanda
ai principi elaborati da dottrina e giurisprudenza in merito a presupposti e
limiti entro i quali le amministrazioni pubbliche possono stipulare
contratti di transazione (senza
pretesa di esaustività, deliberazioni della scrivente Sezione n. 26 del
16/04/2008 e n. 1161 del 18/12/2009)".
Appare utile evidenziare, inoltre, che il comune che sarà
tenuto ad una prestazione (il pagamento di una somma di denaro) in
esecuzione di un accordo transattivo, debba comunque accertarsi, prima di
aderire all’accordo, che la prestazione sia stata effettivamente ricevuta
dall’Ente e perciò che l’Ente sia il soggetto legittimato a concludere il
contratto di transazione e che non siano, invece, altri i soggetti tenuti
all’adempimento. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Doppia
riduzione di spesa per legittimare le esternalizzazioni.
Dalla Corte dei conti dell’Emilia Romagna arrivano indicazioni utili sui
riflessi finanziari delle esternalizzazioni.
Nel
parere 10.04.2018 n. 86, la
Sez. regionale spiega che, alla luce della disciplina civilistica in
materia di appalto riconosciuta applicabile (articolo 1655 del Codice
civile), il corrispettivo pagato dall'ente per l’affidamento all'esterno di
un servizio non configura direttamente una spesa per il personale da
includere nel calcolo del tetto.
Questa irrilevanza permane anche se il
servizio trasferito si qualifica per un elevato tasso di incidenza di
manodopera, a patto –ovviamente– che non si tratti di una fattispecie
elusiva dei vincoli di finanza pubblica.
Obbligo di risparmi
Tuttavia l’irrilevanza non è assoluta perché, in base all’articolo 6-bis del
Dlgs 165/2001, la decisione di esternalizzare il servizio produce effetti
immediati sull'organizzazione del personale dell'ente e sulla spesa. La
norma stabilisce che, nel rispetto dei principi di concorrenza e di
trasparenza, gli enti locali possono «acquistare sul mercato i servizi,
originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere
conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie misure in
materia di personale».
La norma postula un assetto in grado di essere
razionalmente perseguito solo se non produce duplicazioni di spese
(soprattutto di personale): sarà quindi legittimo il trasporto all'esterno
dei costi di produzione del servizio prima realizzato in house se viene
conseguito un risparmio superiore al corrispettivo per l'outsourcing. In
altri termini, la norma impone che l'esternalizzazione sia attuata nel
quadro di misure di programmazione e riorganizzazione in grado di garantire,
nell'ambito della generale riduzione della spesa corrente, anche la
contrazione delle spese di personale.
I controlli interni
Quest'ultima deve conseguire dalla nuova modalità organizzativa, come esito
naturale della fuoriuscita di attività non più svolte all'interno dell'ente.
A parere dei magistrati contabili, insomma, l'esternalizzazione di un
servizio è sottoposta a vincoli stringenti, ed è consentita a patto di
assicurare in via generale economie gestionali per l'ente, e in via
specifica una riduzione della spesa del personale.
Questo rigore si riflette
anche dall’obbligo posto agli organi di revisione di verbalizzare i risparmi
derivanti dall'adozione dei provvedimenti sull’organizzazione e sul
personale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.04.2018).
---------------
MASSIMA
L’esternalizzazione di un servizio è soggetta a vincoli stringenti
in quanto è consentita con una riduzione della spesa del personale in
ragione del cessato impiego di forza lavoro nel servizio in precedenza
gestito in economia, alla condizione di ottenere con l’affidamento
dell’appalto all’esterno conseguenti economie di gestione per l’Ente.
...
Il Sindaco del Comune di San Cesario sul Panaro (MO) ha rivolto a
questa Sezione una richiesta di parere in materia di personale.
Nello specifico l’Ente domanda se ”ai fini delle norme contabili volte
al contenimento della spesa pubblica, sia corretto escludere dal computo
delle ‘spese di personale’ il corrispettivo del contratto di appalto volto
ad affidare a terzi la gestione di un servizio (o parte di esso) che viene
in tal modo esternalizzato, e ciò anche ove si tratti di appalto ad alto
tasso d’incidenza della manodopera”.
...
4. ... il Collegio può procedere ad analizzare il merito del quesito con
cui, sostanzialmente, si chiede se il corrispettivo per un contratto di
appalto con cui si esternalizza un servizio in precedenza gestito
internamente da personale dell’Ente abbia rilevanza, ai fini degli obblighi
di contenimento della spesa pubblica, sulla spesa per il personale di quello
stesso Ente.
In proposito preliminarmente si sottolinea che, come prospettato nella
stessa richiesta di parere, il corrispettivo di un contratto di appalto,
anche se ad alto tasso di incidenza di manodopera e salvo non si tratti di
fattispecie elusiva, non configuri direttamente una spesa per il personale.
Basti, al riguardo, richiamare la disciplina civilistica di riferimento, per
cui oggetto dell’appalto è, ai sensi dell’art. 1655 c.c., il compimento di
un’opera o di un servizio -con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio- verso un corrispettivo di un prezzo, mentre il
contenuto di ogni rapporto di lavoro, comunque declinato, cui si riferisce
la spesa del personale, consiste nella prestazione lavorativa in sé (art.
2094 c.c.). Pertanto, nell’un caso si tratta di un’obbligazione di risultato
(un’opera o un servizio), nell’altro di mezzi (le proprie energie
lavorative), questo a conferma dell’alterità delle due fattispecie.
Ciò premesso, l’esternalizzazione di un servizio assume diretta rilevanza
sull’organizzazione del personale dell’Ente e sulla relativa spesa, come
peraltro puntualizzato dal d.lgs. del 30.03.2001, n. 165, laddove all’art.
6-bis è statuito che “1. Le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo
1, comma 2, nonché gli enti finanziati direttamente o indirettamente a
carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, nel rispetto dei principi
di concorrenza e di trasparenza, ad acquistare sul mercato i servizi,
originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere
conseguenti economie di gestione e di adottare le necessarie misure in
materia di personale.
2. Le amministrazioni interessate dai processi di cui al presente articolo
provvedono al congelamento dei posti e alla temporanea riduzione dei fondi
della contrattazione in misura corrispondente, fermi restando i processi di
riallocazione e di mobilità del personale.
3. I collegi dei revisori dei conti e gli organi di controllo interno delle
amministrazioni che attivano i processi di cui al comma 1 vigilano
sull’applicazione del presente articolo, dando evidenza, nei propri verbali,
dei risparmi derivanti dall’adozione dei provvedimenti in materia di
organizzazione e di personale, anche ai fini della valutazione del personale
con incarico dirigenziale di cui all’articolo 5 del decreto legislativo
30.07.1999, n. 286”.
In proposito, la Sezione delle Autonomie con un recente pronunciamento ha
precisato che “Tale disposizione impone alle amministrazioni, al
momento di assumere la decisione di esternalizzare un servizio, di adottare
le conseguenti misure di riduzione e rideterminazione della dotazione
organica. Ne deriva che l’esternalizzazione di un servizio deve essere
attuata dall’ente nel quadro di misure di programmazione ed organizzazione
in grado di assicurare, nell’ambito della generale riduzione della spesa
corrente, anche la riduzione delle spese di personale … . Infatti, tale
modalità organizzativa, fisiologicamente, deve generare una contrazione
della spesa di personale, in relazione ad attività non più svolte
all’interno dell’ente” (deliberazione
04.05.2016 n. 16).
A conferma del fatto che l’esternalizzazione del servizio comporti,
necessariamente, una riduzione della spesa di personale, è stato precisato
che “Nel caso di esternalizzazione del servizio, non sarebbe coerente
con la lettura dell’art. 6-bis, comma 2, del d.lgs. 165/2001, che sancisce
il congelamento dei posti e la rideterminazione in riduzione della pianta
organica …, computare per la determinazione del budget assunzionale, anche
il costo dei dipendenti cessati (rectius trasferiti) per l’esternalizzazione
del servizio” (Corte dei Conti Sezione regionale di controllo per la
Lombardia/143/2017/PAR).
In conclusione, in ragione del richiamato quadro ermeneutico si puntualizza
che l’esternalizzazione di un servizio è soggetta a vincoli stringenti in
quanto è consentita con una riduzione della spesa del personale in ragione
del cessato impiego di forza lavoro nel servizio in precedenza gestito in
economia, alla condizione di ottenere con l’affidamento dell’appalto
all’esterno conseguenti economie di gestione per l’Ente. |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Anche
per i piccoli incarichi di valore serve la selezione pubblica.
Illegittimo e non conforme a legge il regolamento di un Comune che affida
incarichi esterni in via fiduciaria anche per prestazioni meramente
occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica svolta in
maniera autonoma e saltuaria, non riconducibile a fasi di piani o programmi
del committente.
Queste sono le conclusioni della Corte dei
Conti
piemontese, nella
deliberazione 06.04.2018 n. 39.
Il caso oggetto di verifica
Il caso riguarda l'affidamento di un incarico esterno per importi superiori
ai 5mila euro, quale membro della commissione veterinaria per il palio della
città. I giudici hanno evidenziato come l’incarico avrebbe potuto
legittimamente essere disposto se avesse rispettato:
• una procedura comparativa;
• la ricognizione preventiva delle professionalità presenti all'interno del
Comune;
• l'osservanza dei limiti della riduzione delle spese per consulenze;
• l'accertamento preventivo che il programma dei pagamenti fosse compatibile
con gli stanziamenti di bilancio e le regole di finanza pubblica;
• l’adozione preventiva del piano della performance;
• l'inserimento dell'atto di spesa nel programma annuale degli incarichi;
• la valutazione della preventiva da parte del revisore o del collegio dei
revisori;
• la dichiarazione preventiva della Pa che il consulente non sia un
lavoratore pubblico o privato collocato in quiescenza.
Il Comune non ha effettuato l'esame comparativo sulla base della
disposizione del regolamento degli uffici e servizi secondo cui è possibile
l'affidamento dell'incarico «in via diretta e fiduciariamente, senza
l'esperimento di procedure di selezione» delle «sole prestazioni meramente
occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il
collaboratore svolga in maniera saltuaria che non è riconducibile a fasi di
piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto
autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6
dell'articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001».
Le indicazioni del collegio contabile
Per i giudici contabili le disposizioni regolamentari sono da considerare in
violazione di legge (articolo 7 del Dlgs 165/2001) in quanto contravvengono
ai principi di concorsualità, di trasparenza e di pubblicità. Infatti, «l'occasionalità
è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di incarico
esterno» e l'astratta distinzione tra occasionalità e mera occasionalità
«non fornisce alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti
ricavabile dalla ratio sottesa all'articolo 7 del Testo unico del pubblico
impiego» (Corte dei Conti, Sezione Regionale di controllo per la Lombardia
deliberazione
03.07.2013 n. 294).
Le uniche eccezioni al principio dell'esame comparativo, secondo i giudici
contabili, si possono verificare quando la procedura concorsuale andata
deserta, in caso di unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo
oppure per un'assoluta urgenza determinata dall’imprevedibile necessità
della consulenza e non attribuibile a inerzia dell'amministrazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2018).
---------------
MASSIMA
Gli incarichi esterni devono essere conferiti sulla
base di una procedura pubblica comparativa, caratterizzata da trasparenza e
pubblicità.
Le deroghe a tale principio hanno carattere eccezionale e sono
sostanzialmente riconducibili a circostanze del tutto particolari quali
“procedura concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il
profilo soggettivo, assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile
necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un
evento eccezionale”.
Risulta, pertanto, in contrasto con tale principio la determinazione con la
quale sono stati affidati dal Comune gli incarichi relativi ad una
commissione veterinaria sulla base di una scelta discrezionale
dell’amministrazione procedente, finalizzata ad assicurare la continuità
rispetto alle edizioni precedenti in contrasto, pertanto, anche con il
principio della rotazione degli incarichi.
---------------
Parimenti risulta in contrasto con la disciplina richiamata la previsione
dell’art. 54, co. 1, lett. c), del regolamento sull’ordinamento dei servizi
e degli uffici del Comune, nella parte in cui consente l’affidamento
dell’incarico “in via diretta e fiduciariamente, senza l’esperimento di
procedure di selezione” delle “sole prestazioni meramente occasionali che si
esauriscono in una prestazione episodica che il collaboratore svolga in
maniera saltuaria che non è riconducibile a fasi di piani o programmi del
committente e che si svolge in maniera del tutto autonoma, anche rientranti
nelle fattispecie indicate al comma 6 dell’articolo 53 del decreto
legislativo n. 165 del 2001”.
L’esclusione, così come formulata, risulta troppo ampia e non tiene conto
dei richiamati principi di concorsualità, trasparenza e pubblicità.
Infatti, al di fuori della ricorrenza di quelle specifiche e peculiari
circostanze già richiamate, deve escludersi che la natura meramente
occasionale della prestazione, il carattere saltuario e pienamente autonomo
della stessa, possano giustificare una deroga alle ordinarie regole di
pubblicità, trasparenza e parità di trattamento nell’assegnazione
dell’incarico.
...
Premesso in fatto
Il Comune di Asti con nota pervenuta in data 04.09.2017, prot. 8373, ha
trasmesso a questa Sezione, ai sensi dell’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, la determinazione del Dirigente del Settore cultura,
istituti culturali, manifestazioni e sport n. 1501, avente ad oggetto
l’affidamento dell’incarico di membro della commissione veterinaria per il
palio di Asti 2017 in favore dei dottori Pa.Bo., Fr.Po.,
Al.Fr., Ro.Gi., Ma.An., Ma.Ca. e
An.Ma.Br. per una spesa complessiva di euro 18.551,04.
Dall’esame di tale determinazione, si è evinto che non risultava:
l’espletamento di una procedura comparativa, la previa circostanziata
ricognizione dell’assenza di strutture organizzative o professionalità
interne all’ente in grado di svolgere l’incarico, la dimostrazione che la
spesa sia stata finanziata con il contributo della Fondazione Cassa di
Risparmio o, in mancanza, l’osservanza dei limiti di spesa di cui al D.L. n.
78/2010 conv. in Legge n. 122/2010, art. 6, co. 7; l’accertamento preventivo
che il programma dei pagamenti sia compatibile con gli stanziamenti di
bilancio e le regole di finanza pubblica, ai sensi dell’art. 9, co. 1, lett.
a), n. 2, D.L. n. 78/2009; la previa adozione del Piano della Performance ai
sensi e per gli effetti dell’art. 10, co. 5, D.lgs. n. 150/2009;
l’inserimento dell’atto di spesa nel programma annuale degli incarichi ex
art. 3, co. 55, l. 244/2007 e la coerenza con il medesimo.
Con nota istruttoria prot. 13300 del 02.11.2017, il Magistrato istruttore
richiedeva al Comune di Asti atti, documenti e informazioni a chiarimento di
quanto sopra.
Con nota di risposta a firma del Responsabile del servizio finanziario,
pervenuta al prot. n. 13989 del 17.11.2017, l’ente:
- in merito alla modalità di affidamento degli incarichi, allegava
comunicazione del dirigente del settore cultura, manifestazioni e sport;
- in merito alla ricognizione dell’assenza di strutture organizzative o
professionalità interne all’ente produceva la certificazione del dirigente
del settore risorse umane sulla ricognizione del personale;
- in merito alla dimostrazione che la spesa è stata finanziata con il
contributo della Fondazione cassa di risparmio allegava certificazione del
responsabile del servizio finanziario, parere del collegio dei revisori dei
conti, lettera della fondazione e atto di entrata n. 96 del 02.08.2017;
- quanto all’accertamento preventivo che il programma dei pagamenti sia
compatibile con gli stanziamenti di bilancio precisava che “la realizzazione
del Palio di Asti 2017 rappresenta un macro obiettivo di Performance,
inserito nel Piano della Performance 2017/2019 unificato organicamente nel
Piano Esecutivo di Gestione ai sensi dell’art. 169, comma 3-bis, del TUEL
D.Lgs. 267/2000 approvato con Delibera di Giunta comunale n. 60 del
14/02/2017”;
- quanto alla previa adozione del Piano della Performance riferiva che “come
indicato al punto precedente, ai sensi dell’art. 169, comma 3-bis, del TUEL
D.Lgs. 267/2000 2017/2019 il Piano della Performance 2017/2019 e il Piano
dettagliato degli Obiettivi 2017 sono unificati organicamente nel Piano
Esecutivo di Gestione 2017/2019 approvato con Delibera di Giunta comunale n.
192 del 11/4/2017”;
- quanto all’inserimento dell’atto di spesa nel programma annuale degli
incarichi ex art. 3, co. 55, l. 244/2007 riferiva che la spesa è stata
“inserita negli atti di Bilancio e di Programma approvati dal Consiglio
comunale come recita l’art. 61 del Regolamento sull’ordinamento degli Uffici
e dei Servizi”.
Non ritenendo superati tutti i rilievi mossi sull’atto oggetto di controllo,
il Magistrato istruttore chiedeva al Presidente della Sezione la
convocazione dell’odierna adunanza per l’esame collegiale della questione.
Considerato in diritto
1. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che
gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo
superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della
Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione.
La finalità di tale previsione normativa è funzionale all’espletamento delle
funzioni di controllo assegnate alle Sezioni regionali della Corte dei
Conti. Il controllo espletato non incide, nel caso specifico, sull’efficacia
dell’atto, ma si sostanzia in un riesame di legalità e regolarità,
finalizzato al confronto tra l’attività dell’amministrazione e i parametri
normativi vigenti (fra cui, in particolare, l’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001
e l’art. 110 del d.lgs. n. 267/2000) in un’ottica non più statica, ma
dinamica, che, come sottolineato dalla Corte costituzionale, conduca
all’adozione di effettive misure correttive da parte dell’ente (ex multis
Corte costituzionale sentenze n. 60 del 2013, n. 198 del 2012, n. 179 del
2007).
I presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione
sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165,
così come a più riprese modificato.
La linea interpretativa restrittiva è, tuttavia, costante, in quanto, in
un’ottica di contenimento dei costi e di valorizzazione delle risorse
interne, le amministrazioni pubbliche devono svolgere le loro funzioni con
la propria organizzazione e con il proprio personale e solo in casi
eccezionali e negli stretti limiti previsti dalla legge possono ricorrere a
personale esterno.
A tal fine il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. 165/2001, introdotto dal d.lgs.
25.05.2017, n. 75, ha sancito il divieto per le amministrazioni
pubbliche “di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in
prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con
riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. I contratti posti in essere in
violazione del presente comma sono nulli e determinano responsabilità
erariale […]”. L’entrata in vigore del divieto è stata, tuttavia,
posticipata dall’art. 22, comma 8, della L. 27.12.2017, n. 205, “a
decorrere dal 01.01.2019" e, pertanto, fino a tale data, le
amministrazioni pubbliche, nel rispetto degli altri parametri normativi,
possono ancora ricorrere a tale tipologia contrattuale.
Il successivo comma 6, fermo restando quanto previsto dal comma 5-bis,
individua, infatti, i presupposti necessari per poter conferire incarichi
individuali con contratto di lavoro autonomo:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite
dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti
specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di
funzionalità dell'amministrazione conferente;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità
oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata
(è possibile prescindere dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria solo nei casi espressamente previsti dalla normativa); non è
ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per
ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del
compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso
della collaborazione;
e) il conferimento degli incarichi deve avvenire mediante ricorso a
procedure comparative, adeguatamente pubblicizzate;
f) per gli enti locali con popolazione superiore ai 5.000 abitanti è
necessaria la valutazione del revisore o del collegio dei revisori dei conti
(Corte Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione
n. 231/2009/par del 14.05.2009; Corte Conti, Sezione regionale di
controllo per la Lombardia, deliberazione n. 506/2010/par del 23.04.2010).
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che in caso di conferimento
di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti
di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge.
n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi quali, ad esempio, la
copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici
trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte
deliberazione 25.10.2013 n. 362).
Per completezza va, infine, rammentato che in materia di incarichi esterni
rileva la previsione della “disciplina di cui all’art. 6, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014,
n. 114, modificativa dell’art. 5, co. 9, del d.l. n. 95/2012, convertito con
l n. 135/2012, che ha posto il divieto di conferimento di incarichi
remunerati di studio e consulenza a soggetti già lavoratori privati o
pubblici collocati in quiescenza, consentendo a questi soggetti unicamente
incarichi gratuiti e comunque per una durata non superiore ad un anno”
(Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Piemonte,
deliberazione n. 22/2015/REG).
2. Quanto all’affidamento degli incarichi oggetto di esame, si rileva che,
all’esito dei chiarimenti forniti dal Comune di Asti, permangono criticità
con riferimento alle modalità di scelta dei soggetti a cui sono stati
affidati gli incarichi.
Innanzitutto si evidenzia la centralità del principio secondo cui
gli
incarichi esterni devono essere conferiti sulla base di una procedura
pubblica comparativa, caratterizzata da trasparenza e pubblicità.
Come sottolineato a più riprese dalla giurisprudenza contabile, infatti,
le
deroghe a tale principio hanno carattere eccezionale e sono sostanzialmente
riconducibili a circostanze del tutto particolari quali “procedura
concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il profilo
soggettivo, assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della
consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale”
(Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 122/2014/REG
ed in senso analogo, ex multis, Sezione regionale di controllo per il
Piemonte, n. 61/2014; Sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 19.02.2013 n. 59; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione
n. 22/2015/REG; Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna,
deliberazione n. 28/2013/REG).
In proposito il dirigente del settore cultura, manifestazione e sport del
Comune di Asti, riferisce, nella nota prodotta dall’ente a seguito delle
richieste istruttorie di questa Sezione, che la commissione veterinaria è
presieduta e coordinata dal dott. Fu.Br., il quale “offre da sempre la
sua disponibilità a titolo gratuito”. Inoltre, il dirigente riferisce che
“in considerazione della delicatezza dell’incarico e dei rischi oggettivi
che la manifestazione comporta (3 corse da sette cavalli e 1 finale da 9
cavalli con partenza al canapo) viene richiesto al Dott. Fu.Br. di
segnalare i nominativi di professori universitari e veterinari di comprovata
esperienza nel settore che diano garanzie all’Amministrazione Comunale di
alta professionalità e di trasmettere i relativi curriculum; - gli
incarichi, valutati i curriculum, vengono poi conferiti ai sensi del
Regolamento sull’Ordinamento dei servizi e degli Uffici di questa
Amministrazione (art. 50 e seguenti)”.
L’affidamento degli incarichi relativi alla commissione veterinaria è stato,
dunque, effettuato senza il previo esperimento di una procedura pubblica
comparativa, adeguatamente pubblicizzata, ma piuttosto sulla base di una
scelta discrezionale dell’amministrazione procedente, finalizzata ad
assicurare la “continuità rispetto alle edizioni precedenti” (come
evidenziato nella determinazione n. 1501) in contrasto, pertanto, anche con
il principio della rotazione degli incarichi.
Né dalla motivazione della determinazione n. 1501 è possibile riscontrare la
ricorrenza di quelle specifiche ed eccezionali situazioni, tipizzate dalla
consolidata giurisprudenza contabile, che consentono di derogare alla regola
concorsuale.
In particolare, appare non rispondente a tale giurisprudenza la previsione
dell’art. 54, co. 1, lett. c), del regolamento sull’ordinamento dei servizi
e degli uffici del Comune di Asti, richiamato nella nota a firma del
dirigente del settore cultura, manifestazione e sport, nella parte in cui
consente l’affidamento dell’incarico “in via diretta e fiduciariamente,
senza l’esperimento di procedure di selezione” delle “sole prestazioni
meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il
collaboratore svolga in maniera saltuaria che non è riconducibile a fasi di
piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto
autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6
dell’articolo 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
L’esclusione, così come formulata, risulta troppo ampia e non tiene conto
dei richiamati principi di concorsualità, trasparenza e pubblicità. Infatti,
al di fuori della ricorrenza di quelle specifiche e peculiari circostanze
già richiamate, deve escludersi che la natura meramente occasionale della
prestazione, il carattere saltuario e pienamente autonomo della stessa,
possano giustificare una deroga alle ordinarie regole di pubblicità,
trasparenza e parità di trattamento nell’assegnazione dell’incarico.
Infatti, come ben evidenziato dalla Sezione Regionale di controllo per la
Lombardia in un caso del tutto analogo, “l’occasionalità è una
caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di incarico esterno” e
l’astratta distinzione tra occasionalità e “mera” occasionalità “non
fornisce alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti ricavabile
dalla ratio sottesa all’art. 7 TUPI”
(Corte dei Conti Sezione Regionale di controllo per la Lombardia
deliberazione
03.07.2013 n. 294).
Pertanto la casistica riportata, pur potendo richiamare il contenuto della
Circolare n. 2/2008 della Presidenza del Consiglio dei Ministri e la
disciplina delle prestazioni non incompatibili di cui all’art. 53 d.lgs.
165/2001, “non rileva ai fini dell’art. 7 TUPI, salvo che, nel caso
concreto, ricorra una delle tre eccezioni alla procedura comparativa di cui
sopra (procedura concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione
sotto il profilo soggettivo o l’assoluta urgenza determinata dalla
imprevedibile necessità della consulenza)”
(Corte dei Conti Sezione Regionale di controllo per la Lombardia
deliberazione
03.07.2013 n. 294).
Per quanto rilevato, pertanto, risultano non conformi alla disciplina
legislativa sia lo specifico atto di conferimento dell’incarico di cui alla
determinazione dirigenziale n. 1501, sia il regolamento sull’ordinamento dei
servizi e degli uffici nella parte in cui consente da parte del Comune
l’affidamento diretto e fiduciario di incarichi nei casi di prestazioni
meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica che il
collaboratore svolga in maniera saltuaria e del tutto autonoma.
Sussiste, dunque, l’obbligo del Comune di Asti di conformare la propria
azione amministrativa in materia di affidamento di incarichi alla legge,
provvedendo anche alla revisione del disposto dell’art. 54, co. 1, lett. c),
del regolamento, e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle
iniziative assunte.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per il Piemonte
- dichiara l’atto di affidamento di incarico di cui alla
determinazione n. 1501 del 07.08.2017 del Comune di Asti non conforme alla
disciplina di legge per quanto esposto nella parte motiva;
- invita l’Amministrazione ad adottare gli opportuni provvedimenti
per conformare la propria attività alla legge in materia di affidamento di
incarichi, dando riscontro a questa Sezione delle iniziative
conseguentemente assunte; |
TRIBUTI: Ancora
un «no» agli incentivi IMU.
Dalla Corte dei conti ancora una volta una delibera negativa rispetto alla
possibilità di prevedere incentivi per i dipendenti degli uffici tributi dei
Comuni per il recupero dell'evasione Imu, non essendo ammissibili sul tema
interventi regolamentari da parte degli enti locali.
La pronuncia
Con il
parere 29.03.2018 n. 72 la Corte dei
conti della Sicilia ha affrontato la questione degli incentivi ai dipendenti
degli uffici tributi degli enti locali per il recupero dell’evasione
tributaria.
La corte ha escluso la possibilità di prevedere tali incentivi, rammentando
che in base al principio dell’onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici, previsto dall’articolo 2, comma 3, e dall’articolo 24,
comma 3, del Dlgs 165/2001, e dall'articolo 45 del medesimo decreto, solo la
legge può prevedere qualunque forma di incentivo, insieme al Ccnl. Ciò è
quanto è disciplinato ai tempi dell’Ici con l’articolo 3, comma 57, della
legge 662/1996 e con l’articolo 59, lettera p), del Dlgs 446/1997.
In
particolare, il primo consentiva ai Comuni di destinare una quota del
gettito Ici al potenziamento dell’ufficio tributi, mentre la seconda norma
ha permesso loro di utilizzare una parte di tale gettito per incentivare gli
addetti degli uffici tributi. Il Ccnl del 01.04.1999 aveva previsto
l’erogazione ai dipendenti di incentivi stabiliti da specifiche norme di
legge (articolo 15, comma 1, lettera k).
La Corte dei conti Sicilia, riprendendo un orientamento già evidenziato
dalla Sezione regionale di controllo del Veneto (22/2013), della Lombardia
(577/2011) e della Sardegna (127/2011), ribadisce che la deroga al principio
di onnicomprensività della retribuzione non è stato previsto dalla legge
sull’Imu e non può essere introdotto da una norma regolamentare del Comune.
Le norme
In effetti, l’articolo 13 del Dl 201/2011 non richiama le norme contenute
nell’articolo 59 del Dlgs 446/1997, riferite espressamente all’imposta
comunale sugli immobili.
Sulla questione lo schema di contratto dei dipendenti degli enti locali
prevede all’articolo 18 che ai titolari di posizione organizzativa, in
aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, possono essere
erogati anche, tra l’altro, i trattamenti accessori riferiti ai compensi che
specifiche disposizioni di legge espressamente stabiliscono a favore del
personale, in coerenza con le medesime. Trattamenti tra cui la norma include
i compensi incentivanti connessi alle attività di recupero dell’evasione dei
tributi locali, in base all’articolo 3, comma 57, della legge 662/1996 e
dall’articolo 59, comma 1, lettera p), del Dlgs 446/1997.
La norma contrattuale richiama le disposizioni di legge che consentivano
l'erogazione di incentivi per il recupero dell'evasione Ici, ma non può
estendere l’applicazione degli stessi a un tributo per i quali non sono
previsti.
Anche se certo desta qualche perplessità una tale previsione riferita a un
tributo ormai abrogato da oltre 6 anni, per il quale sono anche scaduti i
termini di accertamento. Pur se va rammentato che l’Aran, con parere 1949,
ha ritenuto che «solo a conclusione dei progetti di recupero presi in
considerazione nell'anno di riferimento del contratto integrativo, sarà
certa l'entità delle risorse effettivamente riscosse e, quindi, anche
l’ammontare delle stesse, che può essere erogato sotto forma di incentivi e
secondo le regole fissate in sede di contrattazione integrativa, al
personale impegnato nei progetti stessi.
Nella determinazione di tali
risorse, evidentemente, rientreranno anche quelle che, pure oggetto delle
attività di recupero dell’evasione dell’anno di riferimento, saranno
effettivamente riscosse solo nell'anno successivo. Infatti, si tratta sempre
degli effetti delle attività poste in essere dal personale interessato dai
progetti nell'anno di riferimento e, quindi, rappresentano anche la misura
del grado di raggiungimento degli obiettivi dei progetti stessi e
dell’entità degli incentivi da riconoscere allo stesso».
Tale situazione, come più volte richiesto dall’Anutel anche a livello
ufficiale, sta generando un effetto disincentivante nei confronti dei
dipendenti degli uffici tributi degli enti locali e sta spingendo sempre di
più verso l’esternalizzazione delle attività di accertamento tributario,
esternalizzazione che se in alcuni casi può fornire un reale supporto agli
enti, comporta comunque un depauperamento di conoscenze e di capacità
specifiche all’interno dei Comuni che rischia di essere difficilmente
recuperabile in futuro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2018).
---------------
MASSIMA
In conclusione, la Sezione, in riferimento al quesito, ritiene, nel
merito, che in assenza di uno specifico intervento
legislativo di deroga al richiamato principio di onnicomprensività della
retribuzione dei dipendenti pubblici, non è legittimo riconoscere un
compenso incentivante aggiuntivo in favore del personale impiegato in
progetti di recupero dell’evasione ed elusione IMU. |
PATRIMONIO: Permuta
immobiliare senza vincoli per gli Enti Locali.
La manovra economica correttiva del luglio 2011, approvata con il Dl
98/2011, nell’intento di ottenere risparmi di spesa, ha imposto agli enti
territoriali un vincolo di finanza pubblica in materia di operazioni
immobiliari in base al quale (a decorrere dal 01.01.2014) essi possono
effettuare operazioni di acquisto di immobili solo se ne siano documentate
l'indispensabilià, l'indilazionabilità e la congruità del prezzo
(quest'ultima attestata dall'Agenzia del Territorio, incorporata
dall'Agenzia delle Entrate).
La decisione della Corte dei conti veneta
Il regime vincolistico, disciplinato dall'articolo 12, comma 1-ter, del
decreto n. 98, ha sollevato una rilevante questione circa il suo perimetro
oggettivo di applicazione, che è stata recentemente affrontata dalla Corte
dei conti, sezione di controllo per il Veneto, nella
parere 22.03.2018 n.
110.
Più in dettaglio, viene fornita una precisazione circa la corretta
interpretazione della disposizione in merito alla riconducibilità al suo
alveo applicativo dell'istituto giuridico della permuta immobiliare.
Al riguardo, i giudici del controllo veneto rilevano come in passato la
giurisprudenza contabile sia più volte intervenuta chiarendo che la norma si
riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo, frutto di
una contrattazione tra ente locale e privato, con specifico riferimento al
prezzo; viceversa, la sua applicazione è stata esclusa in caso di
procedimento autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo
(come nell'ipotesi di esproprio), oppure nel caso di acquisizione al
patrimonio pubblico di opere di urbanizzazione a scomputo (assimilata
all'appalto di lavori).
Da questa interpretazione la sezione del Veneto ricava il principio generale
secondo cui la norma vincolistica in questione produce effetti
esclusivamente nei confronti degli atti posti in essere iure privatorum
dalla Pa in cui la stessa acquisti i beni immobili in contropartita
dell'esborso di un prezzo a titolo di corrispettivo. Pur rientrando la
permuta nell'ambito degli atti in cui l'ente locale agisce iure privatorum,
a parere della sezione Veneto, questa operazione immobiliare è fuori dal
regime restrittivo sulla scorta dell'esegesi letterale della norma.
Interpretazione della norma
Sotto il profilo lessicale, dopo aver richiamato l'articolo 1552 del codice
civile («la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco
trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente
all'altro»), ravvisando l'incompatibilità con la disposizione in rassegna,
che impone espressamente delle restrizioni alle (sole) «operazioni di
acquisto di immobili», i magistrati veneti concludono per l'esclusione delle
operazioni di permuta dall'ambito delle limitazioni mancando il sinallagma
del trasferimento di bene dietro versamento di corrispettivo.
Alla stessa conclusione si perviene pensando allo scopo della disciplina
vincolistica il cui fine risiede nel freno agli esborsi di denaro da parte
degli enti per l'acquisto del patrimonio immobiliare; circostanza, invece,
aliena alla fattispecie permutativa ove nessun versamento di denaro a titolo
di corrispettivo viene a sostanziarsi, bensì unicamente un trasferimento di
un bene in cambio di un altro bene. In questa prospettiva, infatti,
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali
dell'ente, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente
neutra e, conseguentemente, non regolata dal divieto.
Questa posizione interpretativa viene confermata dalla giurisprudenza sia
con riferimento alla permuta “pura”, ovvero al trasferimento
reciproco di immobili a parità di prezzo, sia relativamente alla permuta “spuria”,
cioè quando il valore del bene del privato risulti diverso da quello
pubblico da trasferire, nel particolare caso in cui il valore dell'immobile
di proprietà della pubblica amministrazione sia superiore a quello della
controparte privata, laddove i giudici veneti risolvono la necessità di
omogeneizzare il trasferimento incrociato con il correttivo della
compensazione a carico del privato (sotto forma –ad esempio– di opere
specifiche come la manutenzione degli immobili trasferiti o altri
interventi)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Sindaco del Comune di Veggiano (PD) ha formulato a questa Sezione
una richiesta di parere in merito all'ambito applicativo dell'art. 12 del
decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011.
Nel dettaglio, il Sindaco ha specificato che è intenzione
dell’Amministrazione Comunale individuare un magazzino con uffici da
destinare alla Protezione Civile Comunale. Anziché realizzare ex novo
tale magazzino, come originariamente indicato nel programma triennale dei
lavori pubblici, l’Amministrazione Comunale vorrebbe permutare un’area di
proprietà comunale con un lotto di proprietà privata con sovrastante un
fabbricato idoneo allo scopo.
Il Sindaco precisa che “il valore della permuta risulta positivo per
l’Amministrazione, essendo il valore dell’area comunale ben superiore al
valore del lotto con fabbricato proposto dal privato. La differenza tra i
due valori di stima sarà destinato esclusivamente ad opere per la
manutenzione stessa del fabbricato o per altre opere programmate”.
Il Sindaco chiede chiarimenti in merito all’applicazione dell’art. 12 del
decreto legge n. 98/2011 e precisa, comunque, che, nel caso di specie,
sussistono i presupposti dell’indispensabilità e indilazionabilità richiesti
dalla norma in questione.
...
Ciò nonostante, quanto al quesito prospettato, seppure è da considerarsi
apprezzabile lo sforzo dell’Amministrazione Comunale di Veggiano di
evidenziare l’indispensabilità e l’indilazionabilità dell’operazione, il
parere può essere reso solo ed esclusivamente in merito alla riconducibilità
dell’istituto giuridico della permuta ai vincoli di finanza pubblica di cui
all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011.
Lo stesso non può considerarsi ammissibile per la parte che inerisce il caso
concreto che interessa il Comune di Veggiano.
Venendo al merito, il quesito concerne la corretta applicazione dell'art. 12
del decreto legge n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, e
successivamente modificato, secondo cui “a decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a
quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (…)
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l'indispensabilià e l'indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento (…). La congruità del prezzo è attestata
dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette
operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto
alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente”.
La giurisprudenza contabile è più volte intervenuta sulla portata
dell’articolo in questione, precisando che la norma si
riferisce ai casi in cui vi sia un acquisto a titolo derivativo frutto di
una contrattazione tra le parti con specifico riferimento al prezzo.
Viceversa, tale norma non si applica quando vi sia un procedimento
autoritativo che presuppone la corresponsione di un indennizzo, come nel
caso dell’esproprio.
La norma de qua si applica, pertanto, agli atti
posti in essere iure privatorum dalla Pubblica Amministrazione, in
cui la stessa acquisti tali beni e corrisponda per essi un prezzo a titolo
di corrispettivo.
Le considerazioni che precedono sono altresì funzionali alla soluzione del
quesito prospettato nella richiesta di parere, inerente all’applicabilità
delle suddette norme vincolistiche all’istituto della permuta.
E’ vero, infatti, che la permuta rientra nell’ambito degli
atti iure privatorum della Pubblica Amministrazione, ma è altrettanto
vero che non si può prescindere dall’interpretazione letterale della norma e
dalla sua ratio.
Sotto il profilo letterale, si sottolinea che, ai sensi dell’art. 1552 c.c.,
“la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento
della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro”.
Il comma 1-ter dell’art. 12 citato, invece, impone espressamente delle
limitazioni per quanto riguarda “le operazioni di acquisto di immobili”.
Ne deriva che possono considerarsi escluse dall’ambito
delle limitazioni di cui all’art. 12 le operazioni di permuta, non essendovi
alcun trasferimento di un bene dietro versamento di un corrispettivo.
Alla medesima conclusione dell’esclusione della
riconducibilità della permuta alla disposizione di cui all’art. 12, comma
11, del decreto legge n. 98/2011 si perviene se si indaga la ratio
della norma. Fine di tale disposizione è quello di limitare esborsi di
denaro per l’acquisto del patrimonio immobiliare. In caso di permuta,
invece, non v’è alcun versamento di denaro a titolo di corrispettivo, ma
unicamente un trasferimento di un bene in cambio di un altro bene.
Giova ricordare che questa Sezione ha più volte ribadito tali concetti,
seppur riferendosi alla permuta “pura”, ovverosia al trasferimento
reciproco di immobili a parità di prezzo (cfr. Corte dei conti - Sezione
Veneto n. 149/2013/PAR e Corte dei conti - Sezione Veneto n. 150/2013/PAR).
Ove, nei casi in cui non ci si trovi dinanzi ad una ipotesi di permuta c.d.
“pura”, in quanto il valore del lotto di un privato con annesso, o
meno, un fabbricato, risulti diverso dal valore del terreno o dell’immobile
da trasferire, possono, comunque, applicarsi i medesimi principi, seppur, a
seconda della circostanza concreta, con gli opportuni correttivi.
Infatti, in tutte le circostanze nelle quali il valore del bene di proprietà
della pubblica amministrazione sia superiore a quello del privato, in
permuta, appare necessario che l’operazione preveda forme di compensazione
rispetto al maggior valore del bene pubblico trasferito.
In tal senso, l’amministrazione pubblica avrebbe diritto di ottenere, in
aggiunta, anche opere specifiche (consistenti, a mero titolo
esemplificativo, nella manutenzione degli immobili trasferiti, piuttosto che
in altri interventi, ovviamente previsti o, eventualmente, da prevedersi
nell’ambito della programmazione delle opere pubbliche).
Alla luce di quanto sopra evidenziato, non vi sono ragioni
per ritenere che, sia i casi di permuta “pura”, sia quelli rientranti
nell’ambito delle fattispecie di permuta c.d. “spuria”, siano
riconducibili all’art. 12 del decreto legge n. 98/2011. |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nei
piccoli Comuni tre strade per la gestione delle funzioni fondamentali.
Se mancano le professionalità interne, i piccoli Comuni hanno ancora la
facoltà di scegliere tra la forma associata delle funzioni, il conferimento
delle competenze gestionali a uno dei membri della giunta ovvero
l'affidamento al segretario comunale. La scelta deve, comunque, avere a
riferimento due «stelle polari»: il criterio della competenza professionale
del nominato e il contenimento della spesa.
Lo asserisce la sezione
regionale di controllo per il Lazio della Corte dei conti con il
parere 16.03.2018 n. 5.
I quesiti
Un Comune di 551 abitanti formula alla sezione tre quesiti specifici:
1) se nei piccoli Comuni le funzioni relative al servizio finanziario
possano essere affidate a un assessore o al sindaco;
2) se alcuni adempimenti contabili rilevanti possano essere illegittimi se
effettuati dal capo dell'amministrazione in assoluta carenza di
professionalità interne;
3) se il segretario comunale, su specifico incarico del sindaco, possa
assumere le funzioni gestionali in modo permanente, supplendo alle carenze
di dotazione organica.
Amministratori vs gestione associata
In relazione al quesito 1), la sezione ricorda che nei Comuni con
popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la responsabilità degli uffici
e dei servizi e il potere di adottare atti gestionali possono essere
affidati, in deroga al generale principio di separazione di competenze tra
organi politici e dirigenti, a un assessore o allo stesso sindaco, essendo
ancora in vigore l'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 che lo
consente, a condizione che l'ente abbia adottato apposite disposizioni
regolamentari organizzative. Strada che può essere, dunque, percorsa anche a
prescindere dalla carenza di professionalità interne, in quanto la norma non
subordina la possibilità a questa condizione, che invece è richiesta per il
conferimento di incarichi a soggetti esterni. Regola che, quindi, può essere
applicata anche nel caso di gestione delle funzioni relative al servizio
finanziario.
Ricorda però la sezione –quasi a voler proporre un consiglio– che prima di
arrivare a «sacrificare» il principio di distinzione delle funzioni di
indirizzo da quelle gestionali è possibile percorrere la via della gestione
associata, obbligatoria per quelle fondamentali ai sensi dell'articolo 14
del Dl 78/2010.
Siccome l’obbligo è ancora condizionato dalla
individuazione degli ambiti ottimali, i magistrati rimettono al singolo ente
la scelta tra le due alternative «del pari giuridicamente legittime», ossia
lo strumento associativo e il conferimento delle funzioni a uno dei membri
della giunta, cercando comunque la soluzione che consenta di contenere
maggiormente la spesa del personale e tenendo conto delle necessarie
competenze richieste dall'elevato grado di tecnicità del servizio.
Il ruolo del segretario
La sezione non fornisce risposta al quesito n. 2), viziato da genericità,
mentre si esprime sul n. 3), che coinvolge la figura del segretario comunale
il quale, ai sensi dell'articolo 97, comma 4, lettera d), del Tuel può
esercitare ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti
o conferitagli dal sindaco.
Tra queste rientra la possibilità di essere nominato responsabile degli
uffici e dei servizi, evidenza che i giudici traggono dall'articolo 109,
comma 2, che fa salva l'applicazione della lettera d) per l'attribuzione di
questi incarichi nei Comuni privi di personale di qualifica dirigenziale; e
dall'articolo 49 che, avendo abolito il parere di legittimità del
segretario, valorizza il parere preventivo di regolarità dei singoli
responsabili dei servizi, anch'esso affidato al segretario in via residuale
nel caso l'ente non ne abbia.
Certo, avvertono i giudici, questa funzione
del segretario deve essere esercitata «in relazione alle sue competenze»
che, tuttavia, ritengono ampie alla luce dell'articolo 97, comma 4, del Tuel,
richiamato espressamente dall'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000,
che non distingue tra funzioni assegnate in via provvisoria o permanente.
Il
combinato disposto consente alla sezione di negare la sussistenza di ragioni
ostative all'attribuzione al segretario di funzioni gestionali protratte,
anche se ritiene «auspicabile una periodica revisione di tale incarico
aggiuntivo, sia sotto il profilo dell'efficiente organizzazione interna
degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell'Ente, sia
soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità
sotto il profilo economico finanziario»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.03.2018).
---------------
MASSIMA
Nei Comuni con popolazione inferiore a 5mila
abitanti, in ragione delle ridotte dimensioni demografiche dell'Ente, resta
oggi ancora rimessa alla scelta discrezionale dei medesimi la scelta:
1) tra forma associata di esercizio delle funzioni fondamentali,
tra cui certo rientra il servizio finanziario e di contabilità seguendo lo
schema normativo della convenzione/unione di comuni (non essendo ancora
operativa la obbligatorietà dello strumento associativo, nelle more della
concreta attuazione dell’art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito
dalla L. n. 122/2010 e s.m.i.)
2) o il conferimento ex art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, di
esse, ad uno dei membri della Giunta (Assessori o Sindaco), in deroga al
generale principio di separazione di competenze tra organi politici ed
organi amministrativi, con un regolamento motivato che ridisegni l’assetto
organizzativo interno dell’Ente e senza che sia neppure necessario
dimostrare l’assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità
adeguate, nonché fatta salva la verifica annuale del contenimento della
spesa in sede di approvazione del bilancio
3) o l’affidamento delle medesime ex art. 97, comma 4, lett. d) del
Tuel al Segretario comunale che, nei comuni privi di personale di qualifica
dirigenziale, può essere nominato responsabile degli uffici e dei servizi
(art. 109, comma 2, T.U.E.L), mediante previsioni statutarie, regolamentari
o tramite un provvedimento del Sindaco.
Tra questa rosa di possibilità andrà prescelta, da un canto quella
che consente di contenere maggiormente la spesa del personale e,
dall’altro, tenendo conto delle necessarie competenze richieste
dall’elevato grado di tecnicità del servizio finanziario e di contabilità,
la cui carenza potrebbe comportare potenziali ricadute in termini di
responsabilità amministrativo-contabile.
Scelta da sottoporre a revisione periodica, sia sotto il profilo
dell’efficiente organizzazione interna degli uffici, anche in rapporto alla
consistenza dimensionale dell’Ente, sia onde vagliarne ciclicamente in
concreto la proficuità economico-finanziaria, anche alla luce del criterio
della competenza professionale del nominato per individuare il punto di
equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità correlate alla
peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente.
---------------
... il Sindaco pro tempore del Comune di Salisano-RI (551 abitanti,
secondo rilevazione Istat all’01/01/2017) formula richiesta di parere,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. n. 131 del 2003, con riferimento
all’art. 53, comma 23, del D.Lgs. 23.12.2000, n. 388, sui seguenti
quesiti:
1. se nei Comuni aventi popolazione inferiore a 5mila abitanti
le funzioni relative al servizio finanziario e contabile possano essere
affidate ad un Assessore membro della Giunta o al Sindaco pro-tempore, con
regolamento motivato, da cui si evincano le esigenze straordinarie di
contenimento della spesa pubblica e, in particolare della spesa del
personale, “anche in considerazione dell’attivazione della procedura
obbligatoria del trasferimento di funzioni fondamentali di cui all’art. 14
del D.L. n. 78/2010, convertito nella legge n. 122/2010 e successive
modifiche ed integrazioni” e se ciò sia “compatibile con le esigenze
connesse alle sopravvenute recenti disposizioni in materia di ordinamento
finanziario e contabile degli Enti locali, in attuazione dei principi di
armonizzazione contabile introdotti dal D.Lgs. 118/2009 se ed in quanto
presupponenti una «specifica» professionalità al riguardo”;
2. “se taluni rilevanti adempimenti contabili aventi
carattere ricorrente per l’Ente possano essere inficiati di non conformità
alle disposizioni vigenti in quanto effettuati dal capo dell’amministrazione
in assoluta carenza di professionalità all’interno dell’Ente”;
3. “Se il Segretario Comunale, su specifico incarico del
sindaco, possa assumere dette funzioni gestionali in modo permanente,
supplendo ad ordinarie carenze di dotazione organica, carenze sia pure per
motivate ragioni di contenimento della spesa pubblica”.
...
In relazione al primo quesito, si osserva che, nei
Comuni, quali Salisano,
aventi popolazione inferiore a cinquemila abitanti, la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti,
anche di natura tecnica gestionale, ben possono essere affidati, in deroga
al generale principio di separazione di competenze tra organi politici
(Giunta) ed organi amministrativi (Dirigenti), ad un Assessore o al Sindaco
pro-tempore, purché ciò avvenga con un regolamento motivato dell’Ente che
ridisegni l’assetto organizzativo interno dell’Ente, al fine di operare un
contenimento della spesa, contenimento che deve essere verificato e
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio. In tal senso si è
pronunziata anche la giurisprudenza amministrativa, oltre a diverse sezioni
di questa Corte (TAR Toscana Firenze Sez. III, 07.01.2014, n. 3, Sez.
regionale controllo per il Molise, delib. n. 167/2016/PAR).
E ciò senza che sia neppure necessario dimostrare la
assoluta carenza, all’interno dell’Ente, di professionalità adeguate, in
quanto la norma non subordina tale possibilità a siffatta condizione, che
invece è richiesta per il conferimento di incarichi ad esterni.
A favore di ciò depone, con chiarezza il disposto dell’art. 53, comma 23,
della L. n. 388/2000, che recita: “Gli enti locali con popolazione
inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo
97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al
fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni
regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto
all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all'articolo 107 del predetto testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti
dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il
potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento
della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione,
in sede di approvazione del bilancio”.
E tra tali uffici e servizi sono ricomprese, certamente,
anche le funzioni relative al servizio finanziario e contabile, attribuibili
ai componenti dell'organo esecutivo (Assessore e Sindaco pro-tempore)
mediante disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in
deroga a quanto disposto all'art. 3, commi 2, 3 e 4, del D.Lgs. 03.02.1993,
n. 29 e successive modificazioni, e all'articolo 107 del testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL).
Orbene, è vero che dal combinato disposto degli artt. 50 e 107 del D.Lgs. n.
267 del 2000 e dell’art. 4 del D.Lgs. 30/03/2001, n. 165 (recante “Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche”) si evince in modo inequivoco che, nel vigente ordinamento, è
in auge, anche a livello locale, la netta distinzione fra atti di indirizzo
politico-amministrativo (spettanti agli organi politici) ed atti di gestione
(spettanti agli organi burocratici).
In altri termini, il TUEL ha devoluto, rispettivamente, agli organi politici
(Consiglio Comunale, Giunta Comunale e Sindaco) la competenza ad emanare gli
atti di indirizzo e, ai dirigenti amministrativi comunali, la competenza ad
adottare atti di gestione.
L’art. 107, comma 4, in particolare, pone una riserva di legge a garanzia
della indipendenza -sotto il profilo gestionale- dei dirigenti, dotati anche
di autonomo potere di spesa, rispetto agli organi politici, laddove prevede
che “4. Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di
cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente
e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.
Tuttavia l’art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000 (finanziaria 2001) è
proprio una specifica disposizione derogatoria, pacificamente compatibile
col sistema normativo vigente (in tal senso anche Consiglio di Stato sent.
n. 5296/2015, che ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità
sulla disposizione). La deroga è ammessa in ragione delle
ridotte dimensioni demografiche dell'Ente locale, ma va interpretata
restrittivamente e non è estensibile oltre i casi e i modi espressamente
regolati (Corte dei conti, sez.
reg. controllo Lombardia, delib. n. 513/2012/PAR del 10.12.2012).
A latere della possibilità di attribuire a componenti della Giunta lo
svolgimento di funzioni gestionali amministrative, l’ordinamento disciplina,
al contempo, la possibilità -ed in taluni casi l’obbligo- di svolgere in
forma associata, le medesime funzioni fondamentali: articoli 30 e 32 del
Tuel e art. 14, comma 28, del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n.
122/2010 e successive modifiche ed integrazioni.
Tramite il TUEL, sin dal 2000 sono state introdotte, come facoltative, forme
associative, quali la stipula di apposite convenzioni onerose tra Enti
locali, “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi
determinati” (art. 30) o l'Unione di Comuni, con la creazione di un Ente
locale ex novo, costituito -di norma- da due o più Comuni contermini
e “finalizzato all'esercizio associato di funzioni e servizi” (art.
32).
L’art. 14 del D.L. n. 78/2010, convertito dalla L. n. 122/2010 e successive
modifiche ed integrazioni, ha prescritto che i Comuni con popolazione fino a
5000 abitanti “esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante
unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali di cui al comma 27”,
tra le quali rientra, certamente, la gestione finanziaria e contabile.
Senza entrare in questa sede sulla portata della regolamentazione in ordine
alle dimensioni territoriali ottimali, (come previsto dall’art. 14, comma
30, del D.L. n. 78/2010), permane un indiscusso favor
legislativo per la forma associata di esercizio delle funzioni, ancorché
intesa come rimessa alla mera facoltà di scelta discrezionale dell’Ente
locale (Sez. Aut. Audizione alla
Camera dei deputati del 01.12.2015).
Nell’attesa della concreta operatività della disposizione tesa a rendere ciò
obbligatorio in risposta al primo quesito, si osserva che
al Comune è demandata oggi la scelta tra due alternative del pari
giuridicamente legittime, ossia tra lo strumento associativo
(convenzione/unione di comuni) o il conferimento delle funzioni del servizio
finanziario e di contabilità ad uno dei membri della Giunta (Assessori o
Sindaco).
L’Ente sarà tenuto ad operarla discrezionalmente ma
seguendo, da un canto, la soluzione che consente di contenere
maggiormente la spesa del personale e, dall’altro, tenendo conto
delle necessarie competenze richieste dall’elevato grado di tecnicità del
servizio finanziario e di contabilità, la cui carenza potrebbe comportare
potenziali ricadute in termini di responsabilità amministrativo-contabile.
Il secondo quesito pare, invero, viziato da genericità, nella parte
in cui si riferisce a “taluni rilevanti adempimenti contabili aventi
carattere ricorrente”, senza specificarli ed è ritenuto dal Collegio
inammissibile, anche per carenza di indicazione del riferimento normativo da
interpretare in sede consultiva, ancor prima della specificazione del dubbio
ermeneutico che la Sezione di controllo è chiamata a dirimere in questa
sede.
Quanto al terzo quesito si richiama, in funzione di mero ausilio
dell’Ente, l’articolo 97, comma 4, lett. d) del Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli Enti locali, approvato con D.Lgs. 18.08.2000, n. 267
che stabilisce che il Segretario comunale “d) esercita ogni altra
funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal
sindaco”.
Tra le quali rientra, come esplicitamente contemplato all’art. 109, comma 2,
del T.U.E.L., la possibilità di essere nominato responsabile degli uffici e
dei servizi, in quanto tale comma recita: “2. Nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107,
commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera
d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del
sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”.
Applicazione che potrà avvenire mediante previsioni statutarie,
regolamentari o tramite un provvedimento del Sindaco (Tar Piemonte, sent. n.
4094/2006).
Occorre anche considerare che, visto il disposto dell’art. 49 del Tuel, che
ha abolito il parere di legittimità del Segretario, risulta valorizzato
-ancor più nel testo complessivamente modificato a decorrere
dall’11.10.2012- il parere preventivo di regolarità, obbligatorio ma non
vincolante, dei singoli Responsabili dei servizi (tra cui anche quello di
contabilità, chiamato a rendere un parere di regolarità -non tecnica ma
contabile- su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al
Consiglio).
La disposizione, in via residuale, individua nel Segretario comunale il
soggetto titolato ad esprimere il parere “nel caso in cui l’ente non
abbia i responsabili dei servizi”, con la limitazione individuata “in
relazione alle sue competenze” (cit. art. 49, comma 2), che tuttavia
possono ritenersi in senso ampio ex art. 97, comma 4, TUEL.
La vigenza di tale disposizione è espressamente fatta salva dall’art. 53,
comma 23, della L. n. 388/2000, invero, senza distinguere tra funzioni
assegnate in via provvisoria o permanente, per cui, pur non sembrando in
astratto sussistere ragioni ostative all’attribuzione al medesimo di
funzioni gestionali contabili protratte (attribuzione tanto più giustificata
ove il nominato sia in possesso di specifica professionalità contabile),
pare comunque auspicabile una periodica revisione di tale incarico
aggiuntivo, sia sotto il profilo dell’efficiente organizzazione interna
degli uffici, anche in rapporto alla consistenza dimensionale dell’Ente, sia
soprattutto in modo teso a vagliarne ciclicamente in concreto la proficuità
sotto il profilo economico-finanziario.
In conclusione, quale che sia la soluzione, tra quelle
astrattamente possibili, scelta dell’Ente, essa dovrà avere come stelle
polari, da un canto, il criterio della competenza professionale del
nominato e, dall’altro, il criterio del contenimento della spesa, con
l’esigenza di individuare, nella applicazione congiunta dei due criteri, il
punto di equilibrio più funzionale alla soddisfazione delle necessità
correlate alla peculiare struttura organizzativa interna dell’Ente. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comando
con proroga oltre il triennio per il personale degli Enti Locali.
Il
parere 12.03.2018 n. 61 della Corte dei conti, sezione di controllo per
la Liguria, fornisce rilevanti chiarimenti in merito alla normativa
applicabile all'utilizzazione di personale, da parte degli enti locali,
mediante l'istituto giuridico del comando.
Nel tracciare l'evoluzione legislativa intervenuta in materia, i giudici
contabili rilevano come il testo unico sul pubblico impiego, approvato con
il Dlgs 165/2001, abbia posto la necessità di rivalutare l’istituto, alla
luce della cosiddetta privatizzazione del rapporto lavorativo pubblico e
della stipula dei contratti collettivi nazionali di comparto.
In quest'ultima occasione, mentre alcuni contratti (come quello relativo ai
ministeri) hanno espressamente regolato l'istituto del comando
(mantenendolo, dunque, in vita), quelli invece inerenti al comparto delle
Regioni e degli enti locali non hanno previsto un’analoga disciplina
(ponendone, quindi, in dubbio la sopravvivenza).
Il quadro normativo
Solo con il Collegato lavoro del 2010 si è assistito a una regolamentazione
uniforme dell'utilizzo del comando in abito pubblico. E invero, col nuovo
comma 2-sexies dell'articolo 30 del Testo unico (aggiunto dall'articolo 13,
comma 2, della legge 183/2010), superando ogni aporia esegetica, è stata
introdotta la norma generale secondo cui tutte le pubbliche amministrazioni,
per esigenze organizzative motivate nei documenti di programmazione dei
fabbisogni di personale, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con
le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre
amministrazioni, per un periodo non superiore a tre anni (fermo restando
quanto già contemplato da norme speciali in materia e il relativo regime di
spesa).
È in questo quadro legislativo, pertanto, che trova (sola) fonte normativa
la facoltà per gli enti territoriali di utilizzare temporaneamente –tramite
comando– un dipendente in organico presso altra pubblica amministrazione.
La decisione dei giudici liguri
La sezione Liguria osserva che il limite temporale (triennale) risulta
coerente con il carattere interinale del comando e con i presupposti propri
dell'istituto, ovverosia la temporaneità e la strumentalità (o
propedeuticità) al trasferimento definitivo presso l'amministrazione
utilizzatrice (mediante cessione del contratto secondo l’articolo 30 del
Testo unico) ovvero al rientro in servizio presso quella di appartenenza.
Questo termine cronologico, tuttavia, non sarebbe da intendersi come
perentorio, lasciando così aperta la strada a una prosecuzione del rapporto
lavorativo temporaneo anche oltre i tre anni, nelle particolari ipotesi in
cui emerga il bisogno di consentire al comandato di portare a termine quelle
attività per cui il comando è stato appositamente attivato (si pensi, a
titolo esemplificativo, a settori quali i lavori pubblici caratterizzati da
frequenti ritardi esecutivi e dalla esigenza che il Rup segua l'intero iter
realizzativo dell'opera).
Infatti, anche sulla scorta del parere n. 26908/2014 della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funziona pubblica, i magistrati
del controllo ligure si esprimono favorevolmente in ordine a una proroga del
comando successiva al triennio.
Le condizioni
Ma si tratta di una concessione subordinata a specifiche condizioni. In
primo luogo, si impone una nuova valutazione sia del fabbisogno
professionale da parte dell'amministrazione di destinazione che delle
esigenze organizzative di quella di appartenenza (quest'ultima, non
costituendo la cessione temporanea risparmio di spesa utile a determinare il
contingente assunzionale, si priverebbe di un'unità di personale senza,
però, poterla sostituire con altra).
Secondariamente, non deve trattarsi di una proroga sine die del personale
comandato, né tanto meno di un rinnovo, bensì unicamente di un breve
differimento, ancorato a precise, motivate e documentate esigenze
provvisorie.
È, infine, richiesto che la situazione di necessità non debba ascriversi a
un comportamento colpevole dell’amministrazione utilizzatrice, la quale
conserva l'onere di attivare tempestivamente le procedure di selezione
concorsuale, o di mobilità, per provvedere alle necessitate assunzioni di
personale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2018).
---------------
MASSIMA
Il Comune di Arcola (SP) ha chiesto un parere in merito ai limiti
temporali dell’utilizzazione di personale, mediante l’istituto del comando,
in organico presso altre pubbliche amministrazioni.
Premette che il Comune nel 2015 ha sostituito un dipendente trasferitosi con
mobilità volontaria utilizzando l'istituto del comando, ai sensi dell'art.
30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001. La scelta è stata dettata
dal fatto che, al momento del trasferimento, non era possibile coprire il
posto con altre modalità, visto l'allora vigente obbligo di ricollocazione
del personale di province e città metropolitane. Il lavoratore comandato, al
quale è stata affidata la responsabilità dell’Area lavori pubblici, ha
seguito alcuni progetti di edilizia (finanziati con fondi comunitari) di
rilevante importanza per l’ente, che avrebbero dovuto compiersi nel periodo
del comando.
Nel corso del passato esercizio, prosegue, a causa di problemi dichiarati
non imputabili all’Amministrazione, si sono purtroppo verificati ritardi
nell’esecuzione delle opere, la cui conclusione è attesa per l'anno 2019.
Per i suddetti motivi, in vista della scadenza del comando in essere,
prevista per settembre 2018, il Comune riferisce di ritenere necessaria una
proroga di un anno nell'utilizzo del dipendente, in quanto un cambiamento di
gestione potrebbe comportare un (ulteriore) ritardo nella loro
realizzazione.
Ricorda che l’art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001 sembra
porre un limite massimo di durata all'utilizzo del lavoratore in tre anni (“Le
pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti
dai documenti di programmazione previsti all'articolo 6, possono utilizzare
in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi
ordinamenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore
a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla
materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e
dal presente decreto").
Sulla base di quanto esposto, il Comune chiede di conoscere il parere
della scrivente Sezione regionale di controllo in merito
all’applicabilità dell’art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. n. 165 del 2001
all'istituto del comando e, in caso di risposta positiva, se il termine ivi
previsto rivesta carattere ordinatorio o perentorio, vale a dire se sussista
la possibilità di proroga o rinnovo oltre la durata dei tre anni ove
ricorrano motivazioni comprovabili, quali quelle riportate in premessa.
...
L’origine della disciplina dell’istituto del comando si
rinviene negli artt. 56 e 57 del DPR 10.01.1957, n. 3
(“Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
civili dello Stato”), che derogavano alla regola
generale (desumibile anche dal medesimo art. 56, comma 6) del divieto di
assegnazione, anche temporanea, di personale ad uffici diversi da quelli di
ruolo. Il comando, in base alla predetta disciplina, poteva essere disposto
unicamente per un tempo determinato (la norma non individuava un limite
specifico) e per riconosciute esigenze di servizio, nonché qualora fosse
richiesta una speciale competenza.
Successivamente, l’art. 43 dell’abrogato d.lgs. 03.02.1993,
n. 29, ha mantenuto un riferimento al comando, pur senza disciplinarlo in
maniera organica. Anche l’art. 17 della legge 15.05.1997, n. 127, ai commi
dal 15 al 17, nell’apportare alcune modifiche ai citati artt. 56 e 57 del
DPR n. 3 del 1957, confermava la perdurante vigenza dell’istituto.
Il testo unico sul pubblico impiego, con disposizione
confermata dal successivo d.lgs. 30.03.2001, n. 165, ha posto la necessità
di una rinnovata valutazione della permanenza dell’istituto, alla luce della
successiva, prescritta, stipula dei contratti collettivi nazionali di
comparto. L’art. 72 del d.lgs. n. 29 del 1993 (confermato dall’art. 69,
comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001) prevede la cessazione degli effetti
della normativa relativa al rapporto di lavoro, previgente alla c.d.
privatizzazione del pubblico impiego, a seguito della sottoscrizione della
seconda tornata dei contratti collettivi nazionali di comparto (intervenuta
con i Contratti del quadriennio 1998-2001).
In tale occasione alcuni CCNL, tra cui quello del comparto Ministeri, hanno
regolato l’istituto del comando (mantenendolo, pertanto, in vita), mentre
quelli di altri comparti (segnatamente quello di regioni ed enti locali) non
hanno previsto analoga disciplina (ponendo il dubbio della permanenza).
L’art. 13, comma 2, della legge n. 183 del 2010 ha
aggiunto, all’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, un comma 2-sexies,
chiarendo che tutte le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze
organizzative, risultanti dai documenti di programmazione dei fabbisogni di
personale, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità
previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni, per
un periodo non superiore a tre anni.
Un limite temporale era già contemplato, altresì, all’art. 4, comma 4, del
CCNL del comparto Ministeri del 16.05.2001, il quale stabiliva che “la
posizione di comando cessa al termine previsto e non può superare la durata
di 12 mesi rinnovabili una sola volta” (coerentemente, al comma 5, si
prevedeva la possibilità del dipendente di chiedere, al termine del periodo
di comando, il passaggio diretto nell’amministrazione utilizzatrice mediante
il diverso istituto della c.d. “mobilità”, o, più precisamente, della
cessione del contratto ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001).
La novella del 2010, come visto, delimita a tre anni l’assegnazione
temporanea del dipendente, ponendo un vincolo anche alla contrattazione
collettiva nazionale (il cui effetto “disapplicativo” di disposizioni
di legge e regolamentari concernenti il rapporto di pubblico impiego si
ferma alle norme antecedenti ai d.lgs. n. 29 del 1993 e n. 165 del 2001, e
non già a quelle successive, per gli ordinari principi della successione
delle leggi nel tempo e della gerarchia delle fonti).
Per inciso, il nuovo CCNL del comparto “Funzioni
centrali”, per il triennio 2016-2018, sottoscritto il 12.02.2018,
all’art. 51, ripropone la disciplina il termine annuale (“l’assegnazione
temporanea cessa al termine previsto e non può superare la durata di 12
mesi, rinnovabili”). Non si rinviene, invece, analoga disposizione
nell’ipotesi di accordo sul CCNL del comparto “Funzioni locali”, per
il medesimo triennio 2016-2018. Pertanto, per gli enti territoriali (fra
cui, in primo luogo, regioni ed enti locali), la possibilità di utilizzare
temporaneamente un dipendente in organico presso altra pubblica
amministrazione trova fonte normativa nel solo art. 30, comma 2-sexies, del
d.lgs. n. 165 del 2001.
Il limite temporale contenuto in quest’ultima disposizione
appare coerente con i due caratteri propri dell’istituto del “comando”,
quello della temporaneità e quello della strumentalità (o propedeuticità) al
passaggio definitivo presso altra pubblica amministrazione (mediante
cessione del contratto ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001).
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della funziona
pubblica, nel parere n. 26908 del 14.10.2014, nel
confermare il comma 2-sexies dell’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001 quale
norma generale di riferimento per le assegnazioni temporanee (fermo restando
eventuali disposizioni di legge speciali), ha ritenuto che quest’ultima non
escluda la possibilità di un rinnovo, alla scadenza del termine, anche
successivamente al triennio, salva la necessità di effettuare una nuova
valutazione del fabbisogno professionale da parte dell’amministrazione di
destinazione e delle esigenze organizzative di quella di appartenenza.
La possibilità, palesata dal predetto parere, di prorogare
l’utilizzo temporaneo di un dipendente da parte di un ente locale non può,
tuttavia, far venir meno quei caratteri di temporaneità e strumentalità del
comando, istituto avente carattere interinale destinato, necessariamente, a
sfociare nel trasferimento presso l’amministrazione utilizzatrice ovvero nel
rientro in servizio presso quella di appartenenza. Di conseguenza, può
essere condiviso l’orientamento sopra esposto nella parte in cui impone una
nuova valutazione del fabbisogno professionale da parte dell’amministrazione
di destinazione e delle esigenze organizzative di quella di appartenenza.
Quest’ultima, infatti, si priva di un’unità di personale senza, tuttavia,
stante il carattere temporaneo della cessione, poterla sostituire con altra
(non costituendo risparmio di spesa utile a determinare il contingente
assunzionale). La prima, d’altronde, potrebbe avere bisogno di una breve
proroga al fine di consentire di portare a termine le attività per le quali
il comando era stato attivato, specie in un settore quale quello dei lavori
pubblici caratterizzato da (purtroppo ricorrenti) ritardi esecutivi (anche
non necessariamente dovuti a colpa delle amministrazioni procedenti) e
dall’opportunità che il responsabile unico del procedimento segua tutto
l’iter realizzativo, se possibile fino al collaudo dell’opera.
Naturalmente, tali esigenze, valorizzate nel parere della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, non possono consentire una proroga
sine die del personale comandato oltre il prescritto termine triennale
(né, tanto meno, un rinnovo), ma solo un breve differimento, ancorato a
precise, motivate e documentate esigenze provvisorie. Inoltre, la situazione
di necessità non deve essere causata da comportamento colpevole della
medesima amministrazione, che deve attivare per tempo le procedure di
selezione concorsuale, o di mobilità, per procedere ad assunzioni.
Sotto quest’ultimo profilo si ricorda che l’art. 1, comma 47, della legge n.
311 del 2004 dispone che “in vigenza di disposizioni che stabiliscono un
regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato,
sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra
amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle
disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché
abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno precedente”.
Sul punto, come condiviso anche dal Comune istante, la Sezione delle
Autonomie, nella deliberazione n. 19/QMIG/2015, aveva specificato che la
priorità della ricollocazione del personale di province e città
metropolitane, secondo le previsioni dei commi 421-425 della legge n. 190
del 2014, non appariva compatibile con l’operatività, per il limitato arco
temporale degli esercizi 2015 e 2016, delle disposizioni in materia di
mobilità volontaria dettate dall’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e, in
particolare, con il principio di neutralità ai fini assunzionali, posto dal
citato art. 1, comma 47, della legge n. 311 del 2004).
Tale incompatibilità veniva limitata alla completa ricollocazione del
personale soprannumerario degli enti di area vasta (in termini, la Circolare
del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 1 del
29 gennaio 2015).
Al momento, pertanto, ultimate le procedure di riassorbimento del predetto
personale, è tornata ad essere operante la regola della neutralità della
mobilità ai fini assunzionali, con conseguente possibilità, per un ente
locale, di assumere mediante cessione del contratto da altre pubbliche
amministrazioni soggette a limitazioni assunzionali, senza dover osservare i
contingenti annuali (aventi fonte, allo stato, nell’art. 1, comma 228, della
legge n. 228 del 2015), salvo il necessario rispetto del tetto alla spesa
complessiva per il personale (art. 1, commi 557 e seguenti, della legge n.
296 del 2006). |
PATRIMONIO: Per
gli enti restano i paletti all'acquisto di immobili.
Per gli enti territoriali gli acquisti di immobili restano contingentati.
Lo ha chiarito la Corte dei conti Lombardia con il
parere 09.03.2018 n. 78, chiarendo nuovamente la portata applicativa
dall'art. 12 del dl 98/2011.
Tale disposizione, nel testo modificato dalla l. 228/2012, prevede che, a
decorrere dal 01.01.2014, le p.a. locali possano effettuare operazioni
di acquisto di immobili solo ove sussistano precise condizioni. In primo
luogo, occorre l'attestazione di indispensabilità e indilazionabilità
dell'acquisito da parte del responsabile del procedimento.
Inoltre, la
congruità del prezzo di acquisito deve essere attestata dall'Agenzia del
demanio, previo rimborso delle spese e fatto salvo quanto previsto dal
contratto di servizi stipulato ai sensi dell'art. 59 del dlgs 300/1999.
Infine, delle operazioni di acquisto deve essere data preventiva notizia,
con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito
internet istituzionale dell'ente.
Tale disciplina (che ha sostituito
l'ancora più restrittivo divieto di procedere a nuovi acquisiti previsto per
il 2013) è tuttora in vigore, per cui restano valide anche lo modalità attuative stabilite dal decreto del ministro dell'economia e delle finanze
14.02.2014 e le istruzioni operative sono state fornite con la
circolare della Ragioneria generale dello stato n. 19/2014.
In particolare,
l'art. 3 del citato dm dispone in ordine all'individuazione dei requisiti di
indispensabilità e indilazionabilità degli acquisti programmati, affinché la
relativa attestazione non sia generica, ma esponga le concrete motivazioni
poste a fondamento delle operazioni di acquisto. In merito al requisito
dell'indispensabilità, si chiarisce che lo stesso attiene all'assoluta
necessità di procedere all'acquisto di immobili in ragione di un obbligo
giuridico incombente all'amministrazione nel perseguimento delle proprie
finalità istituzionali, ovvero nel concorso a soddisfare interessi pubblici
generali meritevoli di intensa e specifica tutela (ad esempio, rispetto
delle norme vigenti in materia di tutela dell'ambiente, della sicurezza sui
luoghi di lavoro ecc.).
Quanto all'indilazionabilità, l'attestazione deve
comprovare che l'amministrazione si trova effettivamente nell'impossibilità
di differire l'acquisto, se non a rischio di compromettere il raggiungimento
degli obiettivi istituzionali o di incorrere in possibili sanzioni (articolo
ItaliaOggi del 20.03.2018).
---------------
MASSIMA
Un ente locale, per procedere all’acquisizione di
beni immobili, deve dimostrare nel provvedimento di autorizzazione, salvo
che ricorrano una delle eccezioni previste dalla norma, l’esistenza dei
requisiti di “indispensabilità e indilazionabilità”, richiesti dall’art. 12,
comma 1-ter del d.l. n. 98 del 2011, convertito dalla legge n. 111 del 2011,
esplicitando puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base
dell’acquisto al patrimonio comunale ed evidenziando i vantaggi, anche
economici, derivanti da tale opzione. |
ENTI LOCALI: Dalla
Corte dei Conti richiamo ai revisore che non verificano i fondi di cassa
vincolati.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Liguria, con la
deliberazione
09.03.2018 n. 60, ha formalmente ammonito un organo di revisione
contabile per aver dichiarato nella relazione allo schema del rendiconto di
aver effettuato la verifica preliminare circa «la corrispondenza tra le
entrate a destinazione specifica e gli impegni di spesa assunti in base alle
relative disposizioni di legge» accettando, senza alcuna rilevazione di
irregolarità, una cassa priva di vincoli che si è dimostrata successivamente
non veritiera.
La vicenda
A un Comune, oggetto di verifica in sede di controllo, la Corte territoriale
ha richiesto specifiche motivazioni circa la rappresentazione dei vincoli di
cassa pari a zero alla data del 01.01.2015. Sia il Comune, in sede di
risposta nel febbraio 2016, sia il collegio contabile, in sede di verifica
avvenuta nel 2017, hanno evidenziato l'errore, avendo di fatto accertato la
reale presenza dell'utilizzazione di fondi vincolati per il pagamento di
spese correnti non ricostituiti al termine dell'esercizio finanziario 2014,
puntualizzando che l’errore si fosse protratto per tutto l'anno 2015.
L'organo di revisione contabile, nonostante l'errore evidenziato e ammesso
dallo stesso Comune, ha dichiarato, invece, sia nel parere reso nello schema
di rendiconto di gestione per l'esercizio finanziario 2015 sia nella
relazione-questionario sul bilancio consuntivo dello stesso anno, che non
c’era nessuna grave irregolarità contabile da parte dell'ente locale.
Le indicazioni del collegio contabile
Il Collegio contabile ligure ha rilevato che, nella premessa del parere
dell'organo di revisione al rendiconto di gestione, veniva specificato che
«l'organo di revisione ha verificato utilizzando motivate tecniche di
campionamento …. la corrispondenza tra le entrate a destinazione specifica e
gli impegni di spesa assunti in base alle relative disposizioni di legge» e
che «gli utilizzi, in termini di cassa, di entrate aventi specifica
destinazione per il finanziamento di spese correnti sono stati effettuati
nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 195 del TUEL e al 31/12/2015
risultano reintegrati».
La dichiarazione, non potendo rappresentare una mera
operazione di stile, risulta non conforme sia alle precedenti certificazioni
della stessa amministrazione, che ha ammesso l'esistenza di vincoli di
cassa, sia da parte della stessa sezione di controllo che ha evidenziato
l'assenza della separazione nel fondo di cassa delle somme aventi
destinazione vincolata e la necessità di ricostituirle nella misura in cui
non siano state spese in conformità ai loro vincoli.
A causa del mancato accertamento dei vincoli di cassa, il collegio contabile
richiama formalmente l'organo di revisione, alla luce delle rappresentazioni
non veritiere della situazione finanziaria, ad adempiere al mandato assunto
con la massima diligenza e professionalità, oltre che evitare inutili
aggravi di lavoro alla stessa Sezione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2018). |
PATRIMONIO: Acquisto
di immobili solo se indispensabile e urgente.
Il via libera spetta all'agenzia del Territorio.
Per poter acquistare immobili, gli enti locali devono sempre verificare
l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti previsti dall'articolo 12,
comma 1-ter, del Dl 98/2011, con particolare riferimento alla
indispensabilità, indilazionabilità e congruità economica del prezzo.
Operazione, quest'ultima, che spetta all'agenzia del Territorio e non più a
quella del Demanio.
Lo affermano la sezione regionale di controllo per il
Piemonte della Corte dei conti con il
parere 02.03.2018 n. 26 e quella per
la Lombardia con il
parere 09.03.2018 n. 78.
Il primo caso
Nel caso esaminato dalla sezione Piemonte, il Comune ha avviato le procedure
per lo scioglimento di una Srl a capitale interamente pubblico, costituita
per la gestione dei parcheggi pubblici. Nominati i liquidatori, a seguito
della presentazione del bilancio finale di liquidazione, il Comune avrebbe
avuto intenzione di avere in assegnazione l'immobile adibito a parcheggio.
Ha chiesto alla sezione come regolarsi con l'articolo 12, comma 1-ter, del
Dl 98/2011 nel testo modificato dall'articolo 1, comma 138, della legge
228/2012, che consente agli enti territoriali di effettuare operazioni di
acquisto di immobili «solo ove ne siano comprovate documentalmente
l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del
procedimento». La congruità del prezzo è attestata dall'agenzia del Demanio,
previo rimborso delle spese.
Il secondo caso
Il caso esaminato dalla sezione Lombardia riguarda una convenzione per l'uso
di un'area di proprietà ecclesiastica finalizzata alla realizzazione di un
nuovo parcheggio a uso pubblico. La parrocchia proprietaria ha comunicato la
volontà di cedere le aree e pertanto il sindaco ha chiesto un parere circa
la possibilità di acquisto, previa acquisizione di perizia tecnica che ne
quantificasse il reale valore di mercato. Gli stringenti criteri del comma
1-ter si applicano anche nel caso di assegnazione dell'immobile ai soci a
seguito di scioglimento societario e in quello di cessione dell'area?
I vincoli
Nell'esprimere il parere, le due sezioni si trovano in perfetta sintonia,
escludendo qualsiasi deroga alla regola generale e attestando che le
disposizioni del comma 1-ter devono applicarsi a tutti gli acquisti di
immobili posti in essere successivamente al 1° gennaio 2014,
indipendentemente dalla natura dell'operazione di acquisto e dal tipo
contrattuale utilizzato.
I criteri devono, dunque, essere applicati anche nel caso di acquisizione di
un immobile a seguito dello scioglimento di una società partecipata, così
come in quello del terreno di proprietà parrocchiale, perché l'elemento di
distinzione per l'applicabilità della disciplina è dato dalla presenza di un
contratto in cui l'effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del
rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del
soggetto pubblico.
Per la valutazione dei requisiti della «indispensabilità e indilazionabilità»
è, quindi, necessario che il provvedimento di autorizzazione espliciti
puntualmente i presupposti di fatto e di diritto alla base dell'acquisto al
patrimonio comunale, evidenziando in particolare i vantaggi, anche
economici, derivanti da tale opzione.
Pochi i casi in cui è possibile escludere la soggezione alla disciplina
limitativa: l'acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione
a scomputo, posto che l'acquisizione avviene a seguito di un contratto
assimilato all'appalto di lavori pubblici e non ad una compravendita;
l'acquisto di immobili effetto di un procedimento di espropriazione per
pubblica utilità; l'acquisizione di immobili aventi titolo nel contratto di
permuta e di transazione.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte
dell'Agenzia del demanio, i magistrati contabili rammentano che l'articolo
6, comma 1, della legge 158/2017 ha spostato la competenza in carico
all'Agenzia del territorio che, peraltro, a decorrere dal 01.12.2012,
è stata incorporata dall'Agenzia delle entrate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.03.2018).
---------------
MASSIMA
L'art. 1, comma 138, legge n. 228/2012 è applicabile
a tutti gli acquisti di immobili posti in essere successivamente al
01.01.2014, indipendentemente dalla natura dell'"operazione di acquisto" (e,
quindi, anche dal tipo contrattuale utilizzato) e dal momento in cui quest'ultima
sia stata eventualmente deliberata dal competente organo (l'art. 42 TUEL
riserva la competenza al Consiglio - lett. L).
L'Amministrazione richiedente, prima di procedere alla realizzazione del
progetto dovrà verificare l'effettiva ricorrenza di tutti i presupposti
previsti dal comma 1-ter dell'articolo 12 del decreto-legge 06.07.2011, n.
98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111 ed in
particolare l'indispensabilità, l'indilazionabilità e la congruità economica
dell'operazione, con le specifiche modalità previste.
In relazione all'attestazione della congruità del prezzo da parte
dell'Agenzia del Demanio (cfr. delibera di questa sezione di controllo n.
197/2017), l'articolo 6, comma 1, della Legge 06.10.2017, n. 158, ha
previsto che la suddetta valutazione, per i soli casi indicati, spetti
all'Agenzia del Territorio, e non più all'Agenzia del Demanio.
Sulla base del D.L. n. 95 del 06.07.2012, convertito in Legge n. 135 del
07.08.2012, l'Agenzia del Territorio, a decorrere dal 01.12.2012 è stata
incorporata dall'Agenzia delle Entrate (art. 23-quater). |
LAVORI PUBBLICI:
Le opere pubbliche finanziate con entrate incerte e
variabili sono da considerare in violazione di legge
L'interesse del parere reso dai giudici contabili, pur non
potendo entrare nel merito dei quesiti posti su fatti
concreti, risiede in una questione importante, ossia la
possibilità di poter o meno finanziare la realizzazione di
opere pubbliche cui parte della copertura finanziaria sia da
considerare incerta e/o variabile, ovvero rinvii a future
acquisizione di finanziamenti.
---------------
Il Sindaco del Comune di Cavriago (RE) ha inoltrato a questa
Sezione una richiesta di
parere in merito all’attuazione, in caso di esito positivo
di un referendum
consultivo, per la realizzazione di un nuovo edificio
scolastico in alternativa alla
ristrutturazione di una scuola primaria esistente.
In particolare il Comitato promotore del referendum, dopo
vari incontri
con il Comitato dei Garanti, previsto dall’articolo 4 del
“Regolamento per la
disciplina del referendum comunale” del Comune di Cavriago,
ha formulato il
seguente quesito da sottoporre a Referendum popolare e in
caso di
accoglimento alla successiva deliberazione del Comune di
Cavriago: “Sei
favorevole alla realizzazione di un nuovo edificio
scolastico in alternativa alla
ristrutturazione della scuola primaria Rodari? La nuova
struttura ospiterebbe la
scuola media inferiore, mentre tutte le sezioni delle scuole
verrebbero trasferite negli attuali plessi scolastici di Via
De Amicis e Vida Del Cristo. Gli importi
previsti per i due interventi sono i seguenti: 3.872.000
euro per la nuova scuola
media (2.200 mq); 3.000.000 euro per la ristrutturazione
della Rodari (1900
mq) più 300.000 euro per il noleggio delle strutture
temporanee necessarie per
ospitare gli studenti nel corso dei lavori. La nuova scuola
verrebbe costruita su
un’area comunale, in zona Pianella, e le maggiori spese
rispetto all’intervento
sulla Rodari –pari a 2.762.000 euro, al netto della
fideiussione che copre
parzialmente l’intervento di ristrutturazione- sarebbero
coperte dall’alienazione
dei diritti edificatori di proprietà dell’Azienda Speciale CavriagoServizi ( che
ammontano a 916.060,18 euro) dalla vendita delle azioni Iren
di proprietà del
Comune attualmente cedibili (pari a 340.061 quote, valore di
mercato di una
quota 2,43 euro, ricavo dalla vendita 826.348 euro) e dagli
oneri di
urbanizzazione delle prossime due annualità (la seconda
annualità andrebbe a
finanziare l’ultimo stato di avanzamento lavori)”.
Il Comitato dei Garanti ha ritenuto il quesito ammissibile
pur in presenza
di un parere negativo del responsabile del Servizio di
ragioneria dell’Ente in
merito al finanziamento dell’opera che avrebbe la relativa
copertura finanziaria
“con entrate previste a Bilancio su annualità future”.
In tale contesto il Sindaco esponeva nella richiesta di
parere che a
seguito di risoluzione parziale per inadempimento da parte
della Società
Pratonera Gestioni S.r.l dell’Accordo di pianificazione ai
sensi degli articoli 30,
comma 10, e 18 della L.R. n. 20 del 2000 al quale era
succeduto la stipula
dell’atto convenzionale per la cessione di aree a fronte di
realizzazione di opere
tra le quali la ristrutturazione e l’ampliamento della
Scuola elementare Rodari, il
Comune ha escusso la fideiussione di 2.090.000,00 euro,
somma comunque
vincolata alla ristrutturazione della Scuola in questione.
Il Sindaco del comune di Cavriago richiedeva, anche per il
tramite del
Consiglio delle autonomie locali, l’avviso della Sezione in
merito alla:
a) responsabilità dei consiglieri nell’adozione della delibera
relativa ai
provvedimenti necessari all’attuazione del quesito
referendario, in quanto il
finanziamento della spesa necessaria alla realizzazione
dell’opera pubblica ivi
prevista non trova una corretta e completa copertura ed è
subordinato al
verificarsi di condizioni incerte e future, quali la vendita
di azioni e l’alienazione
di diritti edificatori;
b) responsabilità dei consiglieri
comunali nell’adottare l’atto
di cui sopra che comporta la perdita di somme già nelle
disponibilità dell’Ente
(2.090.000,00 euro);
c) responsabilità del dirigente che
appone parere
favorevole di regolarità tecnica e del responsabile di
ragioneria in ordine alla regolarità contabile, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 49 e 147-bis
TUEL.
...
Sulla base di quanto appena sopra per ultimo evidenziato,
la
richiesta di
parere del Sindaco del comune di Cavriago dev’essere
considerata
oggettivamente così come formulata nei tre quesiti
inammissibile poiché va
rilevato che nel complesso caso sottoposto al parere della
Sezione, l’auspicata
funzione consultiva implica una anticipata valutazione di
legittimità di numerosi
comportamenti amministrativi –peraltro esplicitamente
invocata dall’estensore dei quesiti- e richiede altresì
considerazioni che potrebbero interferire con
eventuali successive pronunce giurisdizionali.
In sostanza i
quesiti, invece di
porre come previsto una questione generale ed astratta
riguardante aspetti di
contabilità pubblica, ricostruiscono e prospettano diverse e
concatenate attività
gestionali, a monte della conclusiva richiesta di conoscere
la legittimità degli atti
consequenziali da adottare dall’Amministrazione comunale
all’esito positivo del
referendum popolare.
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad
oggetto
fattispecie specifiche, né può estendersi a valutazioni
rimesse alla discrezionalità
amministrativa delle pubbliche amministrazioni, nonché nelle
specifiche
attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti
interpellanti e dei loro organi (cfr.
Sezione regionale di controllo per la Campania,
deliberazione del 17.01.2013, n. 2/2013; deliberazione del 14.02.2013, n.
22/2013) mentre nel
caso di specie è palese che la finalità della richiesta di
parere non è quella di
richiedere chiarimenti sulle normative e sui relativi atti
applicativi che
disciplinano in generale l'attività finanziaria che precede
o che segue i distinti
interventi di settore (cit. Sezioni Riunite in sede di
controllo, deliberazione n.
54/CONTR/10 del 17.11.2010), bensì quella di ottenere
una valutazione
di legittimità sulla soluzione gestionale da applicare al
caso concreto, in una
prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una
consulenza generale
della Corte dei conti.
La Sezione ritiene opportuno richiamare comunque l’obbligo
della
certezza e della determinatezza della integrale copertura
finanziaria delle
deliberazioni degli organi degli Enti locali, in generale e
nel caso specifico in
materia di opere pubbliche, principio vigente nel nostro
sistema amministrativo
e contabile che trova la sua fonte persino nelle
disposizioni Costituzionali
previste dall’art. 81 di sana e virtuosa finanza pubblica,
nonché dall’art. 97
relativamente al buon andamento dell’amministrazione.
A ciò
si aggiungono le
vigenti disposizioni primarie previste dal combinato
disposto degli articoli 153,
183 e 191 del d.lgs. n. 267 del 2000.
In definitiva,
per il
concreto rispetto delle
disposizioni sull’obbligo della copertura finanziaria delle
opere da realizzare, la
stessa copertura se riferita ad entrate di futura o incerta
acquisizione o variabili
nel tempo sulla base di fattori economici non determinati,
tra l’approvazione del
progetto con la relativa quantificazione economica e
l’erogazione concreta a
seguito di procedura ad evidenza pubblica e la realizzazione
dell’opera, deve
considerarsi inadeguata e non legittima per violazione di
legge, nonché
contraria ai principi di buona amministrazione.
Ne consegue comunque nelle sopra esposte considerazioni
l’impossibilità, per la Sezione, di entrare nel merito dei
quesiti posti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 27.02.2018 n. 41). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Fondo risorse decentrate, adempimento inutile.
La costituzione del fondo delle risorse decentrate anche se obbligatoria si
rivela un adempimento burocratico inutile ed incompleto.
Lo conferma indirettamente il
parere 21.02.2018, n. 54 della Corte dei conti, sezione
regionale di controllo per la Lombardia che conferma
l'indirizzo ormai consolidato secondo il quale nel tetto delle risorse del
salario accessorio indicato dall'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017
vanno considerate «tanto le risorse del bilancio imputate al fondo quanto le
risorse direttamente stanziate in bilancio a copertura degli oneri relativi
alle posizioni organizzative nei comuni privi di qualifiche dirigenziali».
Occorre ricordare che quando entrerà in vigore il nuovo Ccnl anche negli
enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali le posizioni
organizzative saranno extra fondo, ma gli oneri di spesa saranno da
computare nel tetto del 2016.
Infatti, spiega la sezione Lombardia, le due opzioni presentano «nel computo
del tetto di spesa ora previsto dal comma 2 dell'art. 23 del decreto
legislativo n. 75 del 2017 rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio
dall'ente con destinazione al trattamento accessorio del personale,
indipendentemente dall'origine delle eventuali maggiori risorse, proprie
dell'ente medesimo, a tal fine destinate».
Questo perché il legislatore non ha riferito il tetto alle sole risorse del
fondo decentrato, ma ha usato locuzioni come «l'ammontare complessivo delle
risorse» destinate al «trattamento accessorio del personale»: il che
dimostra, per la magistratura contabile, che il medesimo legislatore «ha
voluto comprendere nel limite stabilito, al di fuori di fattispecie tipiche
ed eccezionali, anche le eventuali entrate, proprie dell'ente, ulteriori
rispetto a quelle presenti nei fondi delle risorse decentrate».
Così stando le cose, la pretesa della costituzione del fondo quale premessa
inderogabile ai fini della legittimità dell'erogazione del salario
accessorio, per altro imposta dal principio contabile 4/2, punto 5.2, al
dlgs 118/2011, si rivela adempimento sostanzialmente inutile. Infatti, una
volta vigente il nuovo Ccnl, tutti gli enti locali costituendo il fondo
evidenzieranno solo una parte (sia pure molto ampia e significativa) delle
somme destinate al salario accessorio. La parte destinata a finanziare i
funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative resterà sempre
non evidenziabile col fondo e trarrà la sua destinazione esclusivamente dal
bilancio.
Di fatto ciò conferma che a ben vedere è lo stanziamento nel bilancio la
corretta e vera fonte che legittima l'impiego dell'«ammontare complessivo
delle risorse» e non l'atto formale di costituzione, che si manifesta più
che altro come mera formalità, priva di contenuto sostanziale, tale da
imporre un urgente ripensamento dei principi contabili e delle
interpretazioni giurisprudenziali, volto ad attuare quella semplificazione
nella gestione dei contratti decentrati, predicata dal dlgs 75/2017 ma
oggettivamente rimasta solo nelle intenzioni (articolo
ItaliaOggi del 30.03.2018).
---------------
MASSIMA
Nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione, che al riguardo
formula il seguente principio di diritto: «nel computo
del tetto di spesa (ora) previsto dal comma 2 dell’art. 23 del decreto
legislativo n. 75 del 2017 –conformemente all’orientamento interpretativo
formatosi con riferimento all’analoga formulazione impiegata dall'art. 1,
comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 (v. deliberazione di questa
Sezione n. 123/2016/PAR)– rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio
destinate al trattamento accessorio del personale, anche derivanti da
risorse proprie dell’ente». |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Nel tetto di spesa anche i fondi di bilancio per le posizioni
organizzative nei Comuni senza dirigenti.
Nel computo del tetto di spesa previsto dall’articolo
23, comma 2, del Dlgs n. 75/2017 rientrano tutte le risorse stanziate in
bilancio destinate al trattamento accessorio del personale, comprese quelle
derivanti da risorse proprie dell’ente.
È quanto sostiene la sezione regionale di controllo per la Lombardia della
Corte dei Conti con il
parere 21.02.2018 n. 54.
La questione
Alla sezione era stato chiesto se fosse possibile istituire posizioni
organizzative, derogando ai limiti di spesa cui sono soggette le risorse da
destinare annualmente al trattamento accessorio del personale, tramite
l’impiego di risorse proprie di bilancio e senza utilizzare completamente
quelle previste dall’articolo 15 del Ccnl del 1999.
L’articolo 23 del Dlgs n. 75/2017 al comma 1 rinvia alla contrattazione
collettiva nazionale la graduale convergenza dei trattamenti accessori anche
mediante la differenziata distribuzione delle risorse finanziarie destinate
all’incremento dei fondi per la contrattazione integrativa. Nelle more, il
comma 2 fissa l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale al corrispondente importo determinato
per il 2016. Il riferimento è all'anno 2015 per gli enti locali che non
hanno potuto destinare nel 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione
integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità 2015.
Il comma 3 consente di destinare risorse specifiche alla componente
variabile dei fondi, anche per l’attivazione dei servizi o di processi di
riorganizzazione e il relativo mantenimento, ma fermo restando il limite
delle risorse complessive previsto dal comma 2.
La posizione della Corte
Secondo la sezione Lombardia, le risorse destinate al finanziamento del
trattamento accessorio degli incaricati di posizioni organizzative in Comuni
privi di qualifiche dirigenziali rientrano nell’ambito di applicazione
dell’articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010, a mente del quale l’ammontare
complessivo delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale
non può superare il corrispondente importo del 2010 ed è automaticamente
ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio.
A decorrere dal 01.01.2015, le risorse sono decurtate di un importo
pari alle riduzioni operate.
Riferendosi la norma all’ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale, devono essere
considerate tutte le risorse destinate alla copertura degli oneri accessori,
senza alcuna considerazione per l’origine o la provenienza. Per questo vanno
considerate sia le risorse imputate direttamente al fondo, sia quelle
stanziate a copertura degli oneri relativi alle posizioni organizzative nei
Comuni privi di qualifiche dirigenziali «presentando le due opzioni, ai fini
che in questa sede rilevano, le medesime caratteristiche funzionali di
destinazione e la medesima idoneità ad incrementare la spesa per il
trattamento accessorio del personale, in ragione del concreto utilizzo delle
risorse stesse».
Il tetto
Stesso ragionamento deve essere riproposto per il computo del tetto di spesa
ora previsto dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, nel quale
rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio con destinazione al
trattamento accessorio del personale, indipendentemente dall’origine delle
eventuali maggiori risorse, proprie dell’ente, a tal fine destinate.
D’altro canto, il comma 3 espressamente riconosce la possibilità di
destinare risorse specifiche alla componente variabile dei fondi per il
salario accessorio, anche per l’attivazione dei servizi o di processi di
riorganizzazione e il relativo mantenimento, ma nel rispetto dei vincoli di
bilancio e delle vigenti disposizioni in materia di vincoli della spesa di
personale e in coerenza con la normativa contrattuale vigente per la
medesima componente variabile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
07.03.2018).
---------------
MASSIMA
Nelle considerazioni esposte è il parere della Sezione, che al riguardo
formula il seguente principio di diritto: «nel computo
del tetto di spesa (ora) previsto dal comma 2 dell’art. 23 del decreto
legislativo n. 75 del 2017 –conformemente all’orientamento interpretativo
formatosi con riferimento all’analoga formulazione impiegata dall'art. 1,
comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 (v. deliberazione di questa
Sezione n. 123/2016/PAR)– rientrano tutte le risorse stanziate in bilancio
destinate al trattamento accessorio del personale, anche derivanti da
risorse proprie dell’ente». |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Il sindaco di Parma
interroga circa una risalente vicenda amministrativa
riguardante il tema della corresponsione di compensi a
dipendenti del Comune che, nel tempo, hanno svolto attività
di progettazione ed altro in favore di società di
trasformazione urbana convenzionate con il Comune nonché di
responsabile del procedimento e di collaudo, svolte per
opere realizzate da privati ed acquisite dal Comune (opere
fuori comparto).
In particolare si chiede alla Sezione se sia
“legittimo” procedere, ora, alla liquidazione delle somme
richieste dai propri dipendenti considerato che alcuni di
loro, pur in presenza di intese generiche fra il Comune e le S.T.U. hanno fornito le prestazioni in assenza di atti di
nomina e di fissazione dei corrispettivi, e che altri
risultano responsabili del procedimento pur in assenza di un
bando di gara.
Il Collegio ha ritenuto inammissibile sotto il profilo
oggettivo il quesito poiché implica una anticipata
valutazione di legittimità di numerosi comportamenti
amministrativi –peraltro esplicitamente invocata
dall’estensore- e richiede altresì considerazioni che non
mancherebbero di interferire con successive pronunce
giurisdizionali, che non è irragionevole considerare
possibili alla luce della situazione venuta a determinarsi,
suscettibile di scaturire in contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre come previsto una
questione generale ed astratta riguardante aspetti di
contabilità pubblica, ricostruisce e prospetta diverse e
concatenate attività gestionali, e formula la conclusiva
richiesta di conoscere la liceità dell’eventuale erogazione
dei compensi sollecitati dagli interessati. La
giurisprudenza contabile ha puntualmente più volte
rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa
qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con
l'organo di controllo esterno.
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad
oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad
impingere, in tutto o in parte, nell'ambito della
discrezionalità, nonché nelle specifiche attribuzioni e
delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro
organi mentre il quesito si pone in
una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una
consulenza generale della Corte dei Conti.
---------------
Il Sindaco del Comune di Parma ha inoltrato a questa Sezione
una richiesta
di parere circa una risalente ed articolata vicenda
amministrativa, avviatasi nel
2004 e riguardante il tema della corresponsione di compensi
a dipendenti del
Comune che, nel tempo, hanno svolto attività di
progettazione ed altro in favore
di società di trasformazione urbana convenzionate con il
Comune (segnatamente
“Area Stazione” s.t.u. SPA e “Pasubio” s.t.u. SPA)
nonché di
responsabile del
procedimento e di collaudo, svolte per opere realizzate da
privati ed acquisite dal
Comune (opere fuori comparto).
In particolare il Sindaco (allegando copiosa documentazione
consistente
negli atti stipulati fra il Comune e le due citate società,
nelle richieste di
liquidazione dei propri dipendenti e, per ultimo, in
numerose diffide a procedere
ai richiesti pagamenti) chiede alla Sezione “se sia
legittimo” procedere, ora, alla
liquidazione delle somme richieste dai propri dipendenti
considerato che:
- alcuni di loro, per anni, hanno prestato la loro attività
professionale di
progettazione in favore delle s.t.u. “Area Stazione” e
“Pasubio” in presenza di
deliberazioni di Consiglio e di Giunta comunale che, pur
prevedendo al riguardo un supporto del Comune a tali società
per la realizzazione dei programmi di
riqualificazione urbana, non avevano poi trovato ulteriore
riscontro e specifica
finalizzazione in atti di nomina degli interessati che
disciplinassero i
corrispettivi delle attività in considerazione, e che gli
schemi di convenzione
fra il Comune e le due società, poi predisposti al fine di
regolamentare ex post
i rapporti per le prestazioni rese dal personale comunale a
vantaggio delle
società stesse, elaborati nel 2007 ed approvate dal Comune
con deliberazione
di Giunta (nonché accompagnate da comunicazioni dell’
Ufficio del personale
del Comune che evidenziavano come il pagamento sarebbe
avvenuto
successivamente alla sottoscrizione delle suddette
convenzioni) non erano,
poi, mai stati sottoscritti dalle parti;
- altri hanno svolto, su nomina dell’ amministrazione,
attività di responsabile del
procedimento nel contesto di acquisizioni da parte del
Comune di opere
realizzate da privati, e nonostante l'assenza di un bando
di gara, sono stati
riconosciuti come destinatari degli incentivi previsti dalla
legge Merloni (in atti
del medesimo Comune) anche se “parrebbe mancare il
presupposto
fondamentale da cui discende il diritto allo stesso
incentivo” mentre, nel
contesto di analoghe acquisizioni da privati, altro
dipendente ha svolto i relativi
collaudi, in forza di una convenzione fra il Comune e questi
ultimi, ed in
attuazione della quale il Comune ha già ingressato i
relativi compensi ed
accantonato le relative somme.
Il Sindaco soggiunge che, in data 27.03.2017,
l’amministratore unico dell’”Area Stazione” s.t.u. ha ribadito la propria
indisponibilità a procedere al
pagamento delle prestazioni ricevute.
...
3. Con riferimento alla verifica del profilo oggettivo,
occorre anzitutto
evidenziare che la disposizione contenuta nel comma 8
dell’art. 7 della legge 131
del 2003, deve essere raccordata con il precedente comma 7,
norma che
attribuisce alla Corte dei conti la funzione di verificare
il rispetto degli equilibri di
bilancio, il perseguimento degli obiettivi posti da leggi
statali e regionali di
principio e di programma, la sana gestione finanziaria degli
enti locali.
Il raccordo tra le due disposizioni opera nel senso che il
comma 8 prevede
forme di collaborazione ulteriori rispetto a quelle del
precedente comma rese
esplicite, in particolare, Sull’esatta individuazione di
tale locuzione e, dunque,
sull’ambito di estensione della funzione consultiva
intestata alle Sezioni di
regionali di controllo della Corte dei conti, che non può
essere intesa quale una
funzione di carattere generale, sono intervenute sia le
Sezioni riunite sia la
Sezione delle autonomie con pronunce di orientamento
generale, rispettivamente,
ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. n. 78/2009 e
dell’articolo 6, comma 4,
d.l. n. 174/2012.
Con deliberazione 17.11.2010, n. 54, le Sezioni
riunite hanno
chiarito che la nozione di contabilità pubblica comprende,
oltre alle questioni
tradizionalmente ad essa riconducibili (sistema di principi
e norme che regolano
l’attività finanziaria e patrimoniale dello Stato e degli
enti pubblici), anche i
“quesiti che risultino connessi alle modalità di utilizzo
delle risorse pubbliche nel
quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa
sanciti da principi di
coordinamento della finanza pubblica (….), contenuti nelle
leggi finanziarie, in
grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione
finanziaria dell’Ente e sui
pertinenti equilibri di bilancio”.
Successivamente la Sezione delle autonomie, con la
deliberazione n.
3/2014/SEZAUT, ha operato ulteriori ed importanti
precisazioni rilevando come, pur
costituendo la materia della contabilità pubblica una
categoria concettuale
estremamente ampia, i criteri utilizzabili per valutare
oggettivamente ammissibile
una richiesta di parere possono essere, oltre “all’eventuale
riflesso finanziario di un
atto sul bilancio dell’ente” (criterio in sé riduttivo ed
insufficiente), anche l’attinenza
del quesito proposto ad “una competenza tipica della Corte
dei conti in sede di
controllo sulle autonomie territoriali”.
E’ stato, altresì,
ribadito come “materie estranee, nel loro nucleo originario
alla contabilità pubblica –in una visione dinamica
dell’accezione che sposta l’angolo visuale dal tradizionale
contesto della gestione del
bilancio a quello inerente ai relativi equilibri– possono
ritenersi ad essa riconducibili,
per effetto della particolare considerazione riservata dal
Legislatore, nell’ambito
della funzione di coordinamento della finanza pubblica”:
solo in tale particolare
evenienza, una materia comunemente afferente alla gestione
amministrativa può
venire in rilievo sotto il profilo della contabilità
pubblica.
Al contrario, proprio per
quanto di specifico interesse per il caso in esame, nella
medesima deliberazione
della sezione delle Autonomie è affermato che la presenza di
pronunce di organi
giurisdizionali di diversi ordini, la possibile interferenza
con funzioni requirenti e
giurisdizionali delle sezioni giurisdizionali della Corte
dei conti o di altra
magistratura, nonché il rischio di un inserimento nei
processi decisionali degli enti
territoriali, che ricorre quando le istanze consultive non
hanno carattere generale e
astratto, precludono alle sezioni regionali di controllo la
possibilità di pronunciarsi
nel merito.
Sulla base di quanto appena sopra per ultimo evidenziato, la
richiesta di parere del
Sindaco di Parma dev’essere considerata oggettivamente
inammissibile poiché va
rilevato che nel complesso caso sottoposto al parere della
Sezione, l’auspicata
funzione consultiva implica una anticipata valutazione di
legittimità di numerosi
comportamenti amministrativi –peraltro esplicitamente
invocata dall’estensore del
quesito- e richiede altresì considerazioni che non
mancherebbero di interferire con
successive pronunce giurisdizionali, che non è irragionevole
considerare possibili
alla luce della situazione venuta a determinarsi, ben
suscettibile di scaturire in
contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre come
previsto una questione
generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità
pubblica, ricostruisce e
prospetta diverse e concatenate attività gestionali, a monte
della conclusiva
richiesta di conoscere la liceità dell’eventuale erogazione
dei compensi sollecitati: il
descritto approccio rende oggettivamente problematica anche
la doverosa
prospettiva di provare ad enucleare comunque, dal caso
concreto rappresentato, le
disposizioni di contabilità pubblica da porre a base della
formulazione del parere.
La giurisprudenza contabile, del resto, ha puntualmente più
volte
rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa
qualsiasi forma di
cogestione o co-amministrazione con l'organo di controllo
esterno (cfr. ex multis
SRC Lombardia, n. 36/2009/PAR, delibera Sezione di controllo
regione Piemonte, n.
345/2013/SRCPIE/PAR).
In altri termini la funzione
consultiva non può avere ad
oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad impingere, in tutto o in
parte, nell'ambito della discrezionalità, nonché nelle
specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti
interpellanti e dei loro organi (Sezione regionale di
controllo per la Campania, deliberazione del 17.01.2013, n. 2/2013;
deliberazione del 14.02.2013, n. 22/2013) mentre nel
caso di specie è palese
che la finalità della richiesta di parere non è quella di
ottenere chiarimenti sulle
normative e sui relativi atti applicativi che disciplinano
in generale l'attività
finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di
settore (cit. Sezioni Riunite
in sede di controllo, deliberazione n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010), bensì
quella di ottenere una valutazione di legittimità sulla
soluzione gestionale da
applicare al caso concreto, in una prospettiva, non conforme
a legge, di apertura
ad una consulenza generale della Corte dei conti.
Ne consegue l’impossibilità, per la Sezione, di entrare nel
merito del quesito (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia
Romagna,
parere 13.02.2018 n. 37). |
ENTI LOCALI: Partecipate senza sotterfugi.
Soggette al T.u. le società a capitale pubblico frazionato. La
Corte conti Liguria ha chiarito i casi in cui sussiste il controllo pubblico.
Una società partecipata da enti pubblici, quando deve essere considerata a
controllo pubblico?
La domanda se l'è posta la provincia di Savona che ha
presentato un quesito in tal senso alla Corte dei conti - sezione di
controllo della Liguria.
Il caso riguardava una società consortile, senza
scopo di lucro, avente per oggetto la promozione, il coordinamento e la
realizzazione di attività didattica e di formazione a favore
dell'insediamento universitario sito nel comune di Savona, gestendo, in
accordo con l'Università degli studi di Genova, le attività del campus
universitario.
Il capitale sociale di questa società è posseduto dalla provincia di Savona,
dalla camera di commercio e dal comune di Savona con un 25% ciascuno,
dall'Università di Genova per un 20% e dall'Unione industriali per il
restante 5%. La preoccupazione della provincia di Savona era quella di
determinare, in assenza di patti parasociali che regolino le decisioni tra
soggetti pubblici, se per questa società ci fosse il controllo pubblico,
previsto dall'art. 2 del dlgs 175/2016, meglio conosciuto come Testo Unico
sulle società a partecipazione pubblica.
La Corte (parere 24.01.2018 n. 3) si è così espressa. Il dlgs. n. 175 del 2016, individua le società
a controllo pubblico, aggregato soggettivo a cui si riferiscono varie
disposizioni precettive del testo unico (prime fra tutte, quelle dettate
dagli artt. 11 e 19 in punto di disciplina di amministratori e dipendenti)
in virtù del combinato disposto delle definizioni contenute alle lettere b)
ed m) dell'art. 2. In particolare, la citata lettera m) precisa che, ai fini
dell'applicazione delle norme del T.U. sono considerate società a controllo
pubblico quelle in cui «una o più amministrazioni pubbliche» esercitano
poteri di controllo ai sensi della precedente lettera b).
La citata lett. b), a sua volta, riconduce il controllo alla situazione
descritta nell'art. 2359 del codice civile, vale a dire quando: 1) si
dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2)
si dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante
nell'assemblea ordinaria; 3) una società è sotto influenza dominante di
un'altra (o, va aggiunto, di un ente pubblico o altro soggetto giuridico) in
virtù di particolari vincoli contrattuali.
La medesima lett. b) del comma 1 dell'art. 2 in esame precisa, inoltre, che
«il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge
o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e
gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso
unanime di tutte le parti che condividono il controllo».
Mentre l'art. 2359 del codice civile, infatti, considera società controllate
quelle in cui un'altra società dispone dei voti o dei poteri (anche aventi
fonte contrattuale) indicati ai numeri 1), 2) e 3) della ridetta
disposizione, in virtù del combinato disposto delle lettere b) ed m)
dell'art. 2 del T.u. vengono qualificate come «società a controllo pubblico»
quelle in cui una o più amministrazioni dispongono dei voti o dei poteri
indicati nel codice civile.
L'interpretazione sopra esposta, in conformità alla ratio normativa, evita
che le società a capitale pubblico frazionato (ricorrenti nell'ambito
dell'espletamento dei servizi pubblici locali) possano strumentalmente
sottrarsi all'applicazione delle disposizioni dettate, per esempio, in
materia di amministratori e dipendenti (artt. 11, 19 e 25 T.u.) nei
confronti delle (sole) società a controllo pubblico (eccependo l'assenza di
norme di legge, statutarie o di patti di sindacato fra i soci pubblici
esplicitanti e delimitanti le modalità di esercizio del controllo).
Le esposte conclusioni sembrano fatte proprie anche dalla deliberazione
della sezione delle autonomie n. 27/2017 che, incidentalmente, dopo aver
ricordato che le società a controllo pubblico sono quelle in relazione alle
quali una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo,
sottolinea come si tratti di definizione particolarmente rilevante, in
quanto la maggior parte delle deroghe alla disciplina di diritto comune
presenti nel dlgs n. 175 del 2016 riguardano tale tipologia di società.
Devono essere qualificate, pertanto, come società a controllo pubblico
quelle in cui una o più amministrazioni dispongono dei voti o dei poteri
indicati nell'art. 2359, numeri 1), 2) e 3) del codice civile. A queste, si
aggiunge la fattispecie, ulteriore e autonoma, indicata al secondo periodo
della lett. b) dell'art. 2 del Testo unico (articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO: Permessi
in tutto il calendario. Congedo da l. 104 di notte, nei festivi e con il
part-time. A chiarirlo è l’Inps nel messaggio n. 3114/2018 sull’assistenza a
familiari disabili.
L'assistenza familiare? Anche di notte, di domenica
e nelle altre giornate festive. Infatti, i tre giorni di permesso mensili,
che in base all'art. 33 della legge n. 104/1992 (art. 33) spettano ai
lavoratori che prestano assistenza a familiari disabili, possono essere
fruiti anche di domenica o di notte, qualora rientrino in turni di lavoro.
A
precisarlo è l'Inps (messaggio
07.08.2048 n. 3114), aggiungendo che, quando il
turno è notturno e la prestazione si svolge a cavallo di due giorni, il
permesso è comunque considerato per un giorno soltanto.
Permessi per assistenza. I chiarimenti, come accennato, riguardano i
permessi retribuiti cui hanno diritto, ai sensi della predetta legge n.
104/1992, il lavoratore disabile grave e i lavoratori dipendenti con
familiari disabili gravi. Nel primo caso si tratta, in particolare, di
lavoratori che hanno una minorazione fisica, psichica o sensoriale
stabilizzata o progressiva con le caratteristiche della gravità (come
certificata dall'apposita commissione Asl); nel secondo caso di
familiari-lavoratori-dipendenti di soggetti aventi le stesse disabilità
gravi. Nel primo caso, il lavoratore maggiorenne disabile grave ha diritto,
per ciascun mese di lavoro, a:
• 2 ore di permesso retribuito giornaliero;
oppure
• a 3 giorni di permesso retribuito, continuativi o frazionati.
Le due ipotesi sono alternative e il lavoratore può scegliere o l'uno o
l'altro tipo di permesso (giornaliero o orario). Una volta scelto, il tipo
può essere cambiato dal lavoratore da un mese all'altro previa modifica
della domanda precedentemente presentata all'Inps. La variazione può essere
eccezionalmente consentita anche nell'ambito di ciascun mese, nel caso in
cui sopraggiungano esigenze improvvise e non prevedibili all'atto della
richiesta dei permessi (da documentare a cura del lavoratore).
Nel secondo caso, i permessi sono riconosciuti ai lavoratori dipendenti che
abbiano familiari disabili gravi. I permessi spettano a un unico
lavoratore-familiare per l'assistenza dello stesso familiare disabile (c.d.
condizione del «referente unico»). In tabella sono indicate le ipotesi e il
tipo di permesso cui si ha diritto. I tre giorni di permesso mensile possono
essere frazionati anche in permessi orari. Il frazionamento non deve
comunque superare le 18 ore mensili se l'orario di lavoro è di 36 ore
suddiviso in sei giorni lavorativi.
Si ricorda, inoltre, che i familiari aventi diritto ai permessi mensili
possono scegliere, laddove sia possibile (cioè disponibile), la sede di
lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non possono
essere trasferiti senza il loro consenso ad altra sede. I benefici vanno
comunque riconosciuti anche ai lavoratori che, pur risiedendo o lavorando in
luoghi distanti da quello in cui risiede di fatto la persona disabile grave
(personale di volo delle linee aeree, personale viaggiante delle ferrovie o
dei marittimi), offrono alla stessa un'assistenza sistematica e adeguata. Il
dipendente che beneficia dei permessi mensili per assistere un disabile
grave residente in un comune distante più di 150 km rispetto alla propria
residenza, deve attestare con idonea documentazione (per esempio esibendo al
datore di lavoro il titolo di viaggio) il raggiungimento del luogo di
residenza dell'assistito.
Le condizioni. I
permessi spettano a condizione che la persona da assistere non sia
ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno) presso
strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino
assistenza sanitaria continuativa. Tuttavia, i permessi vanno concessi in
caso di ricovero a tempo pieno:
• del minore disabile, se i sanitari certificano il bisogno di
assistenza da parte di un genitore o di un familiare;
• del disabile in stato vegetativo persistente e/o con prognosi
infausta a breve termine.
Per fruire dei permessi occorre fare domanda all'Inps, in modalità
esclusivamente telematica.
Come detto, i permessi sono «retribuiti» e il trattamento economico è a
carico dell'Inps, anche se il relativo importo è anticipato dal datore di
lavoro (che lo recupera successivamente dalle denunce contributive).
Lavoro a turno e notturno.
La prima precisazione arriva a seguito della richiesta di chiarimenti sulle
modalità di calcolo dei permessi, nei casi in cui l'orario di lavoro è
organizzato in turni. Per lavoro a turni, ricorda l'Inps, s'intende ogni
forma di orario di lavoro diverso dal normale (cioè giornaliero), potendo
comprendere anche il lavoro notturno e quello festivo (come le domeniche).
Poiché l'art. 33 della legge n. 104/1992 prevede la fruizione di permessi «a
giornata», indipendentemente dall'orario di lavoro, l'Inps precisa che:
a) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di
turni con giornata di lavoro di domenica;
b) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di
turni con orario di lavoro notturno;
c) in caso di lavoro notturno svolto a cavallo di due giorni
solari, la prestazione resta riferita a un unico turno di lavoro e anche il
permesso è considerato per un solo giorno.
Nuova formula per il part-time.
Nei rapporti di lavoro a part-time i permessi vanno riproporzionati in
ragione dell'orario di lavoro ridotto. Semplice è il caso relativo al
part-time orizzontale, perché i permessi spettano con riferimento agli
effettivi giorni (ridotti) di lavoro; più articolato, invece, è il caso del
part-time di tipo verticale o quello di tipo misto, per i quali l'Inps
fornisce la formula di calcolo ai fini del riproporzionamento dei tre giorni
di permesso mensili, quando l'attività lavorativa è limitata ad alcuni
giorni del mese. La formula è data dal prodotto di 3 (i giorni di permesso
mensili) e il rapporto tra:
• «orario medio settimanale teoricamente eseguibile dal lavoratore
part-time» e
• «orario medio settimanale teoricamente eseguibile a tempo pieno».
Un esempio: applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario
medio settimanale di 18 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro
medio settimanale a tempo pieno pari a 38 ore, si ottiene: (18/38) x 3 =
1,42 che arrotondato all'unità inferiore, in quanto frazione inferiore allo
0,50, dà diritto a 1 giorno di permesso mensile.
Altro esempio; applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario
medio settimanale di 22 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro
medio settimanale a tempo pieno di 40 ore, si ottiene: (22/40) x 3 = 1,65
che arrotondato all'unità superiore, in quanto frazione superiore allo 0,50,
dà diritto a 2 giorni di permesso mensili (articolo
ItaliaOggi Sette del 27.08.2018). |
ENTI LOCALI: Sanzioni e videosorveglianza, vigili alla prova privacy.
Il comando di polizia locale che vuole adeguarsi alla riforma della privacy
può confrontarsi tempestivamente con il responsabile della protezione dei
dati per organizzare un cronoprogramma dei lavori.
Lo hanno evidenziato
implicitamente le
linee guida per la sicurezza urbana approvate il 26.07.2018 dalla Conferenza stato-città e autonomie locali (si veda ItaliaOggi del
27/07/2018).
Con il documento appena sottoscritto si è completato il quadro
degli strumenti che servono ai sindaci per accordarsi con i prefetti in
materia di patti per la sicurezza. Ovvero i contratti che potranno essere
adottati in ogni città per la concreta applicazione del pacchetto sicurezza.
Ma intanto occorrerà mettere mano anche al trattamento dei dati personali
per consentire ai comandi di polizia locale di essere in regola con la
gestione dell'attività sanzionatoria e di polizia giudiziaria. E di trattare
con cognizione di causa i moderni impianti di videosorveglianza e
successivamente le attività conseguenti ai moderni e imminenti patti per la
sicurezza.
Il quadro normativo di riferimento è variegato e non ancora
completo. Da una parte infatti abbiamo il Gdpr, ovvero il regolamento
2016/679, in attesa del decreto legislativo che dovrà raccordare meglio la
novella con il testo unico della privacy (approvato dal cdm il 08/08/2018).
Dall'altra il dlgs 51/2018 che ha recepito nell'ordinamento la direttiva
2016/680 specificamente riferita all'attività di polizia e che dovrà essere
meglio dettagliato con un regolamento.
Per organizzare al meglio la messa a
regime del trattamento dei dati sarà opportuno effettuare il censimento dei
dati, l'individuazione dei contitolari, con la redazione di un registro dei
trattamenti comprensivo dell'analisi dei rischi e delle misure di sicurezza.
Ma sarà anche opportuno un confronto con il responsabile della protezione
dei dati per realizzare un cronoprogramma degli interventi da realizzare.
Molto importante sarà però soprattutto la realizzazione di adeguate
valutazioni di impatto privacy da effettuare necessariamente per i
trattamenti a rischio, come nel caso di utilizzo di impianti moderni di
videosorveglianza o di body cam per gli agenti. Dall'8 giugno scorso i
comandi dovranno anche fare i conti con la direttiva 2016/680.
Per espressa
previsione normativa il Gdpr non troverà infatti diretta applicazione ai
trattamenti effettuati per fini di prevenzione, indagine, accertamento e
perseguimento di reati e pubblica sicurezza. I dati personali trattati dalle
autorità pubbliche quando utilizzati per tali finalità, sono infatti
disciplinati dalla direttiva 2016/680 relativa alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle
autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e
perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera
circolazione di tali dati, recepita con decreto legislativo 18.05.2018,
n. 51, entrato in vigore l'8 giugno.
Che per andare a regime richiede però
l'adozione di un regolamento specifico. In attesa occorrerà prestare
particolare attenzione alla regolamentazione del trattamento dati con
impiego di sistemi di videosorveglianza urbana interforze e classificazione
e trattamento dei fascicoli di polizia giudiziaria. Ma sarà la nuova
stagione dei patti per la sicurezza il vero banco di prova (articolo
ItaliaOggi del 25.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Via, sanzioni automatiche da 35 a 100 mila euro.
Da oggi parte il formato standard, con contenuti minimi, dei verbali di
accertamento per l'applicazione delle sanzioni in materia di valutazione di
impatto ambientale. La cosiddetta Via.
Salvo che il fatto costituisca reato, chiunque realizzi un progetto o parte
di esso, senza la Via (o senza la verifica di assoggettabilità a Via, ove
queste siano prescritte), incapperà in una sanzione amministrativa compresa
tra 35.000 e 100.000 euro (per come è disposta all'articolo 29 del dlgs n.
152/2006).
La novità è contenuta in un decreto del ministero dell'ambiente, datato 28.03.2018 (il n. 94, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
09.08.2018
n. 184), che regolamenta i contenuti e le forme dei verbali per
l'irrogazione di sanzioni in materia di Via (si veda ItaliaOggi 11.08.2018). Il decreto è attuativo dell'articolo 29 del dlgs 152/2006, modificato
dall'articolo 18 del dlgs n. 104/2017.
La notifica del verbale andrà fatta direttamente al trasgressore, obbligato
in solido. Il verbale potrà essere consegnato a mano o mediante servizio
postale, ufficiale giudiziario o altro notificatore. Oppure tramite Pec, in
caso di rifiuto da parte dell'interessato di sottoscrivere il verbale,
mediante verbalizzazione del rifiuto. Ma tutto con preavviso che l'invio del
verbale avverrà mediante servizio postale, o mediante ufficiale giudiziario,
o tramite Pec.
Entro 30 giorni dalla data di contestazione o di notifica dell'atto, gli
interessati avranno facoltà di far pervenire scritti difensivi e documenti
all'autorità competente, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 689/1981. E
potranno chiedere di essere sentiti dalla stessa autorità, che, poi, è il
prefetto competente per territorio per i progetti di competenza statale.
Mentre, per gli altri progetti, è l'ufficio regionale o provinciale.
Ovviamente, l'accertatore dovrà indicare qual è l'autorità a cui rivolgersi
e dovrà anche rendere evidente l'importo minimo e massimo della sanzione
prevista. L'autorità, invece, dovrà emettere l'ordinanza di ingiunzione,
contenente l'importo esatto della multa, che andrà pagato dal trasgressore
con le modalità indicate nel medesimo atto. La legge esclude ogni
possibilità di estinzione del dovuto tramite pagamento in forma ridotta (articolo
ItaliaOggi del 24.08.2018). |
PATRIMONIO: Opere, monitoraggio fai-da-te.
Nessuna comunicazione formale dal Mit ai comuni. L’Anci
Veneto avverte: gli enti dovranno attivarsi in autonomia entro il 1°
settembre.
Restano
solo pochi giorni per effettuare il censimento delle infrastrutture (ponti,
strade, gallerie, viadotti, dighe) in condizioni di criticità avviato dal Mit. E i comuni brancolano nel buio anche se una cosa sembra ormai certa:
non arriverà ai sindaci nessuna comunicazione formale sul monitoraggio e
sarà compito degli enti adottare eventuali provvedimenti urgenti di modifica
della circolazione in caso di evidenti criticità di manufatti, ponti e
gallerie.
Lo ha evidenziato la
circolare
23.08.2018 n. 1997 di prot. indirizzata
dall'Anci Veneto a tutti i sindaci del territorio, dopo le numerose
richieste di chiarimenti pervenute.
La ricognizione urgente dello stato di manutenzione delle opere
infrastrutturali come strade, ponti, dighe e gallerie è stata annunciata dal
ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Danilo Toninelli, il 16
agosto scorso (si veda ItaliaOggi del 17/08/2018).
Dopo aver sentito informalmente il provveditorato interregionale per le
opere pubbliche per il Veneto, il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia
Giulia, l'Anci Veneto ha avvertito gli enti che non perverrà ai singoli
comuni alcuna comunicazione formale sul monitoraggio e sulle modalità di
esecuzione. Gli enti dovranno attivarsi in autonomia per trasmettere al
ministero dei trasporti, entro il 01.09.2018, una scheda informativa
sulle strutture viarie che presentano possibili criticità tecniche.
L'associazione dei comuni del Veneto consiglia, infatti, di predisporre una
scheda sintetica sui principali interventi necessari, indicando l'ordine di
priorità in base al rischio, gli elementi tecnici disponibili, le risorse
economiche necessarie, il livello di progettazione e gli eventuali
riferimenti all'inserimento delle opere nella programmazione triennale. Tali
informazioni dovranno essere trasmesse via Pec al dipartimento delle
infrastrutture del Mit e al provveditorato interregionale per le opere
pubbliche.
Entro il 1° settembre tutti gli enti e soggetti gestori di strade,
autostrade e dighe dovranno quindi inviare una comunicazione formale per
segnalare all'organo tecnico centrale tutti gli interventi necessari a
rimuovere condizioni di rischio riscontrate sulle infrastrutture di propria
competenza. Corredando le relative segnalazioni di adeguate attestazioni
tecniche e indicazioni di priorità.
In caso di criticità, il Mit invierà una task force composta da dirigenti e
da esperti indipendenti che dovrà vigilare sullo stato di salute delle
infrastrutture per prevenire ogni situazione di pericolo.
La conseguenza immediata di questo monitoraggio urgente sarà che eventuali
criticità sulle infrastrutture stradali, che dovessero essere evidenziate
formalmente dai tecnici comunali all'esito del monitoraggio urgente,
dovranno essere accompagnate immediatamente da adeguati e corrispondenti
interventi di modifica della circolazione stradale, con responsabilità
ricadenti pertanto sui comandanti delle polizie locali e sui sindaci.
Formalmente, dunque, non sono da escludere immediati provvedimenti di
limitazione del transito dei veicoli anche su importanti arterie stradali.
Si prospetta pertanto un autunno caldo per la viabilità, in vista
dell'apertura delle scuole.
Resta però qualche perplessità sulle modalità di coinvolgimento “informale”
dei comuni, limitato a un comunicato ministeriale e a chiarimenti forniti in
ordine sparso a livello regionale. Peraltro, pur in assenza di un termine
perentorio e di precise indicazioni sulla raccolta e trasmissione delle
informazioni, l'indagine avviata dal ministero costringe i comuni a una
riflessione importante e improcrastinabile e a un attento esame e
monitoraggio, assai delicato per i connessi profili di responsabilità civile
e penale dei suoi funzionari
(articolo
ItaliaOggi del 24.08.2018). |
ENTI LOCALI
- LAVORI PUBBLICI: Dup,
30 giorni per le osservazioni. In caso contrario gli enti devono mettersi in
regola.
Gli enti locali che hanno già approvato il Dup 2019-2021 comprensivo del
programma triennale e dell'elenco annuale delle opere pubbliche devono
verificare di aver rispettato il termine di 30 giorni per la presentazione
di eventuali osservazioni. In mancanza, sono tenuti a regolarizzare la
propria posizione.
La questione è stata affrontata dall'Anci nella recente
Nota di
orientamento (24.07.2018) sulla materia e interessa le numerose
amministrazioni che hanno deciso di varare il Dup nella stessa seduta
consiliare in cui è stata approvata la salvaguardia degli equilibri e la
variazione generale di assestamento, ovvero entro il 31.07.2018.
In tali casi, l'adozione del documento avrebbe dovuto essere anticipata
almeno al 30 giugno, al fine di assicurare i tempi di pubblicazione del
programma triennale e dell'elenco annuale previsti dal decreto del
Mininfrastrutture n. 14/2018. In base a quest'ultimo provvedimento, che ha
aggiornato procedure e schemi-tipo per la programmazione dei lavori (oltre
che delle forniture e servizi) a quanto previsto dal nuovo codice dei
contratti (dlgs 50/2016), è necessario che i relativi strumenti (programma
triennale ed elenco annuale appunto) siano adottati dalla giunta inserendoli
nel Dup, salvo poi pubblicarli per 30 giorni per consentire la presentazione
di eventuali osservazioni. La programmazione deve essere quindi approvata in
consiglio entro i termini previsti dal regolamento di contabilità, ma non
oltre 60 giorni dalla prima pubblicazione.
Cosa accade se questa sequenza non è stata correttamente rispettata? La nota
Anci suggerisce, sia pure implicitamente, una possibile via d'uscita laddove
specifica che la nota di aggiornamento al Dup (che deve essere presentata,
ricorrendone i presupposti, entro il 15 novembre, insieme allo schema di
bilancio di previsione) è possibile procedere all'eventuale aggiornamento
anche della programmazione dei lavori pubblici. In pratica, chi avesse «bruciato
le tappe» potrà sfruttare la scadenza autunnale per rimettersi in
carreggiata.
Se, invece, entro il 31 luglio, la giunta si è limitata a presentare il Dup
al consiglio, la necessaria deliberazione consiliare dovrebbe avvenire non
prima del 31.08.2018, ma non oltre il 30 settembre, stante il tenore della
disposizione ministeriale. Anci ritiene, tuttavia, che il termine massimo
dei 60 giorni intercorrente tra l'adozione e l'approvazione del programma
triennale delle opere pubbliche e dell'elenco annuale, previsto dal dm
14/2018 non sia perentorio, alla stessa stregua della scadenza del 31 luglio
per la presentazione del Dup al consiglio, non essendo prevista alcuna
sanzione in caso di ritardo, come peraltro confermato dalla
Faq n. 10 della Commissione Arconet (articolo
ItaliaOggi del 23.08.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, norme non retroattive. La Conferenza delle regioni ha approvato il
regolamento.
Il regolamento per gli incentivi tecnici non è
retroattivo, ma si applica ai lavori, servizi e forniture per le quali il
bando, l'avviso o la lettera di invito sono stati pubblicati o trasmessi
successivamente alla sua entrata in vigore.
È una delle previsioni contenute
nello
schema di provvedimento approvato nelle scorse settimane dalla
Conferenza delle regioni e delle province autonome, recependo la bozza
elaborata da Itaca (Istituto per l'innovazione e la trasparenza degli
appalti e la compatibilità ambientale).
La materia è disciplinata dall'art. 113 del dlgs 50/2016, che ha sostituito
il previgente art. 93 del dlgs 163/2006, modificando, sia sul piano
soggettivo che su quello oggettivo la platea dei beneficiari di tali
compensi aggiuntivi. Il nuovo codice dei contratti ha, da un lato, escluso
le attività di progettazione, dall'altro ha esteso gli incentivi, oltre che
ai lavori pubblici, anche agli appalti di servizi e forniture.
Mentre per i lavori possono essere beneficiari sia i tecnici che il restante
personale che abbia prestato la propria collaborazione, per servizi e
forniture gli incentivi sono previsti esclusivamente per il direttore
dell'esecuzione. A tali soggetti, sulla base di un atto unilaterale
dell'amministrazione (non soggetto a contrattazione sindacale), possono
essere destinate somme non superiori al 2% dell'importo posto a base di gara
ed entro un tetto pari al 50% del trattamento economico complessivo
spettante al singolo dipendente.
Un elemento di continuità fra il vecchio ed il nuovo codice riguarda
l'obbligo, per gli enti, di approvare un regolamento per disciplinare nel
dettaglio tutti gli aspetti del riparto di tali risorse non oggetto di
specifica previsione da parte del legislatore. In tal senso, esso, per
pacifica e consolidata giurisprudenza contabile, si configura in maniera
inequivocabile, quale presupposto necessario della erogazione degli
incentivi, nel senso che in mancanza del regolamento non è possibile
procedere al pagamento.
Tuttavia, secondo un recente parere della Corte dei conti Veneto (parere
25.07.2018 n. 264)
l'irretroattività del regolamento non preclude la ripartizione delle risorse
in precedenza accantonate e ciò rende legittimo l'accantonamento, in misura
ovviamente conforme al limite normativo, nelle more dell'adozione di tale
atto. Invece, lo schema definito da Itaca è più tranchant e, all'art.
14, propende per un'irretroattività piena, escludendo dal suo ambito di
applicazione le procedure già avviate.
Per il resto, la Conferenza ha recepito la raccomandazione della commissione
tecnica che ha lavorato sul testo affinché, sotto il profilo di ripartizione
dei compensi per le figure tecniche e amministrative, si formuli una
modalità di riparto del compenso che operi su base previsionale con
riferimento all'intero arco temporale dell'intervento come da cronoprogramma
allegato al contratto, in modo che il rispetto dell'aliquota del 50% sia da
verificarsi distribuita sull'intero arco di durata dello stesso.
Da notare anche la puntuale disciplina dei coefficienti di riduzione degli
emolumenti per attività in parte affidate all'esterno e di decurtazione
degli stessi per errori o ritardi, nonché delle modalità di quantificazione
e liquidazione dell'incentivo (articolo
ItaliaOggi del 21.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Eventi
privati, polizia a carico. Introiti comunali esclusi dai tetti di spesa per
il personale. L’interpretazione del dl n. 50/2017 in
una nota della Conferenza unificata stato-città.
Per tutti i servizi di polizia stradale per la
regolazione del traffico in occasione di eventi di carattere privato, prive
di interesse pubblico, l'organizzatore deve pagare il personale della
polizia locale.
E tali somme introitate dal comune non sono soggette ai vigenti limiti per
la spesa del personale.
Lo ha precisato la Conferenza unificata stato-città nella
seduta del 26
luglio scorso con una nota interpretativa sulla norma introdotta dal decreto
legge n. 50 del 24.04.2017.
Il decreto legge n. 50/2017.
La legge di conversione n. 96 del 21.06.2017 aveva introdotto il comma 3-bis
all'art. 22 del dl n. 50/2017, disponendo che a decorrere dal 2017 le spese
del personale di polizia locale, relative a prestazioni pagate da terzi per
l'espletamento di servizi di cui all'articolo 168 tuel, in materia di
sicurezza e di polizia stradale necessari allo svolgimento di attività e
iniziative di carattere privato che incidono sulla sicurezza e la fluidità
della circolazione nel territorio dell'ente, sono poste interamente a carico
del soggetto privato organizzatore o promotore dell'evento e le ore di
servizio aggiuntivo effettuate dal personale di polizia locale in occasione
dei medesimi eventi non sono considerate ai fini del calcolo degli
straordinari del personale stesso.
Il nuovo Ccnl funzioni locali.
Il nuovo contratto collettivo nazionale del lavoro per le funzioni locali
sottoscritto il 21.05.2018, ha introdotto uno specifico articolo in merito
all'applicazione dell'art. 22, c. 3-bis, del decreto legge n. 50/2017.
Il Ccnl ha precisato che le ore di servizio aggiuntivo del personale, rese
al di fuori dell'orario ordinario di lavoro, impiegato per le attività di
sicurezza e di polizia stradale necessarie per lo svolgimento di attività e
di iniziative di carattere privato, sono remunerate con un compenso di
ammontare pari a quelli previsti per il lavoro straordinario dall'art. 38,
comma 5, del Ccnl del 14/09/2000; e se le ore di servizio aggiuntivo sono
rese di domenica o nel giorno del riposo settimanale, oltre al predetto
compenso spetta un riposo compensativo di durata corrispondente a quella
della prestazione lavorativa resa.
Le ore aggiuntive non concorrono alla verifica del rispetto del limite
massimo individuale di ore di lavoro straordinario e non rientrano nel tetto
massimo spendibile per i compensi per lavoro straordinario da ciascun ente.
Concretamente, ogni ente locale dovrà inserire apposita regolamentazione nel
primo contratto integrativo successivo alla stipulazione del nuovo Ccnl.
La nota interpretativa della Conferenza unificata.
Per gli enti pubblici e per gli organizzatori erano emerse incertezze
nell'esatta individuazione della «attività e iniziative di carattere
privato», di difficile perimetrazione oggettiva. Nella nota
interpretativa approvata dalla Conferenza unificata il 26 luglio scorso,
viene chiarito che con tale formulazione si deve fare riferimento alle
manifestazioni prive di interesse pubblico e che perseguono finalità
lucrative.
Peraltro, alle amministrazioni locali è rimessa la valutazione autonoma di
escludere dal pagamento le manifestazioni di interesse pubblico, organizzate
da soggetti privati o di natura privata destinatari di contributi o di
patrocini o di altre forme di riconoscimento della valenza istituzionale
dell'evento.
Ma la nota interpretativa si spinge oltre, delineando concretamente in quali
casi debba essere fatto il pagamento dei servizi svolti a favore di eventi
organizzati da privati. Riepilogando, non sono soggette al pagamento:
- le attività che devono essere svolte dalla polizia locale in
quanto rientranti nel campo delle funzioni pubbliche;
- le manifestazioni e riunioni pubbliche, tra le quali rientrano
anche le cerimonie religiose e i cortei funebri;
- i servizi svolti dal personale di polizia locale come ausiliario
nelle operazioni di pubblica sicurezza, il cui impiego venga disposto con
l'ordinanza di pubblica sicurezza della Questura.
Invece, di norma sono sempre soggette al pagamento le attività svolte dalla
polizia locale per l'organizzazione e la regolazione del traffico.
Pertanto, per esemplificare, se per un importante concerto musicale i
servizi svolti come ausiliari di pubblica sicurezza dai vigili in possesso
della qualifica di Agente di P.S. non possono essere conteggiati ai fini del
rimborso delle spese sostenute per l'impiego del personale, per i servizi
svolti invece per gestire la viabilità stradale l'organizzatore privato deve
effettuare il pagamento, che dovrà essere contabilizzato in relazione sia
alle ore di turno ordinario che alle ore di straordinario, ponendosi ciò in
contrasto, però, con quanto stabilito dal nuovo Ccnl funzioni locali.
Infine, la nota interpretativa fornisce un ulteriore importante chiarimento
sulla natura delle risorse introitate come pagamenti dei servizi svolti
dalla polizia locale a favore di eventi organizzati da privati.
Secondo la conferenza unificata, tali risorse in entrata, essendo neutrali
ai fini del rispetto dei saldi di finanza pubblica, non sono oggetto di
conteggio ai sensi delle disposizioni sul contenimento della spesa di
personale, come per esempio l'art. 1, commi 557, 557-quater e 562 della
legge n. 296/2006 e l'art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017.
---------------
Sagre, si allentano alcuni vincoli.
Semplificazione delle misure di sicurezza per le sagre e
le manifestazioni pubbliche con vincoli meno stringenti rispetto a quelli
introdotti un anno fa, ma anche più responsabilità a carico di sindaci e
comandanti di polizia locale, che avranno più libertà di manovra e più
discrezionalità nel valutare i rischi e le criticità di una manifestazione.
Lo prevede la la
nota 18.07.2018 n. 11001/1/110/(10) di prot. del Ministero
dell'interno, contenente le nuove linee guida sul contenimento del rischio
in manifestazioni con peculiari condizioni di criticità.
La classificazione dei rischi correlati a un evento non deve più essere
fatta mediante una valutazione tabellare oggettiva, ma verificando le
criticità connesse alla tipologia della manifestazione, alla conformazione
del luogo e al numero e alle caratteristiche dei partecipanti.
Ed è esclusivamente agli eventi che presentano condizioni di particolare
criticità che si applicano le nuove linee guida ministeriali, che
abbandonano la classificazione effettuata in base al livello di rischio
(basso/medio/alto).
Cambiano le regole per la suddivisione della zona in
settori. Sale a 10 mila persone la
quota fino alla quale non è richiesta la separazione. I settori devono
essere distinti i tra di loro mediante l'interposizione di spazi liberi in
cui è vietato lo stazionamento di pubblico ed automezzi non in emergenza
aventi larghezza non inferiore a 5 metri e devono essere previsti
attraversamenti presidiati in ragione di uno ogni 10 m.
Non è più richiesto il posizionamento di un estintore ogni 200 mq: le nuove
linee guida prevedono soltanto un congruo numero di estintori portatili, di
adeguata capacità estinguente, in posizioni controllate, mentre nell'area
del palco possono essere aggiunti estintori carrellati. Esclusivamente per
le manifestazioni dinamiche in spazi limitati è imposta la disponibilità di
un estintore ogni 100 mq.
Il servizio di vigilanza antincendio è imposta solo nel caso in cui
l'affluenza prevista sia di oltre 20 mila persone. Per l'assistenza
all'esodo, l'instradamento e il monitoraggio dell'evento, l'organizzatore
della manifestazione deve avvalersi di operatori di sicurezza, che possono
essere soggetti iscritti ad associazioni di protezione civile riconosciute
oppure il personale in quiescenza già appartenente alle forze dell'ordine,
alle forze armate, ai vigili urbani, ai vigili del fuoco, al servizio
sanitario, per i quali sia stata attestata l'idoneità psico-fisica, ovvero
altri operatori in possesso di adeguata formazione in materia.
Per la lotta all'incendio, vanno impiegati addetti, formati con corsi di
livello C (rischio alto) ai sensi del dm 10.03.1998 e abilitati ai sensi
dell'art. 3 della legge n. 609/1996 (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.08.2018). |
ENTI LOCALI: L'addio
al pareggio di bilancio renderà più libero l'indebitamento.
Il probabile addio al pareggio di bilancio renderà più libero anche il
ricorso al debito per il finanziamento degli investimenti. Sebbene la Corte
costituzionale abbia sbloccato solo l'avanzo e il fondo pluriennale
vincolato, la probabile decisione di eliminare tout court il vincolo avrà
l'effetto collaterale di affrancare anche l'indebitamento.
Negli anni del Patto di stabilità e, successivamente, del pareggio, avanzo e
debito sono sempre stati equiparati, nel senso che entrambi hanno sempre
potuto essere utilizzati solo compatibilmente con gli spazi disponibili
nell'ambito dei diversi meccanismi di finanza pubblica.
A legislazione
vigente, vi è solo una differenza legata al diverso impatto degli
investimenti pluriennali, che se finanziati con avanzo devono essere
interamente coperti nell'anno iniziale (con possibilità di traslare gli
impegni mediante il fondo pluriennale vincolato), se finanziati a debito
devono essere coperti pro quota in ciascun esercizio in base agli stati
avanzamento maturati (ma in tal caso il fondo pluriennale vincolato non
rileva).
In ogni caso, tali limitazioni hanno fortemente disincentivato gli enti a
fare ricorso al mercato dei capitali, inaridendo una fonte tipicamente
utilizzata dalle aziende (anche private) per investire.
Dal prossimo anno, il mondo, però, potrebbe cambiare con la cancellazione
del pareggio, che finirebbe di liberare anche il debito, fermi restando
ovviamente i paletti dell'art. 119, comma 6, Cost. (che circoscrive ai soli
investimenti le spese finanziabili a mutuo o con altre forme di funding) e
204 del Tuel (in base al quale l'importo annuale degli interessi non deve
superare il 10% delle entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del
rendiconto del penultimo anno precedente).
Mentre, a rigore, l'avanzo è immediatamente utilizzabile in base alle
sentenze n. 247/2017 e 101/2018 della Consulta (insieme al fondo pluriennale
vincolato), per il debito l'intervento del legislatore è ineludibile. In
teoria, il pareggio potrebbe anche restare in piedi con l'inclusione del
solo avanzo fra le entrate finali e la piena valorizzazione del fondo
pluriennale vincolato, ma la cosa più probabile è che si applichino i soli
equilibri del dlgs 118/2011, che comprendono anche le entrate del titolo VI.
Se tali scenari si dovessero realizzare, sarebbe necessario per gli enti, in
sede di nota di aggiornamento del Dup, rivedere tutto il quadro della
programmazione degli investimenti per i prossimi anni, anche alla luce delle
imminenti modifiche ai principi contabili, che per le opere di importo
superiore a 100.000 euro rendono obbligatorio l'inserimento delle opere nel
documento al fine di procedere con la progettazione (articolo
ItaliaOggi del 18.08.2018). |
APPALTI: Fornitori
con cda trasparenti.
Un'impresa iscritta negli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed
esecutori di lavori non sottoposti a tentativo di infiltrazione mafiosa
(cosiddetta white list) deve comunicare alla prefettura competente le
modifiche apportate ai propri assetti proprietari e gestionali. In
particolare di tutti i soggetti titolari di incarichi di amministrazione,
direzione e controllo dell'azienda. L'iscrizione nell'elenco ha lo scopo di
rendere più efficaci i controlli antimafia nei confronti delle società
operanti in settori maggiormente esposti a rischi di infiltrazione mafiosa.
È con la
nota 24.04.2018 n. 11001/119/20(5)-A di prot. che il ministero
dell'interno fotografa le conseguenze derivanti dall'omessa comunicazione di
modifiche all'assetto proprietario e degli organi sociali da parte
dell'impresa iscritta nella white list.
L'iscrizione nelle white list «tiene
luogo della comunicazione e dell'informazione antimafia liberatoria anche ai
fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti e
subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è
stata disposta» (cosiddetto effetto-equipollenza), sempre che permangano le
condizione relative ai soggetti e alla composizione del capitale sociale.
Le
stazioni appaltanti devono comunicare alla prefettura, in via telematica, le
denominazioni o le ragioni sociali delle imprese in relazione alle quali
hanno acquisito la documentazione antimafia tramite consultazione degli
elenchi. La richiesta deve indicare gli elementi essenziali idonei ad
identificare univocamente l'impresa (ragione sociale, sede legale anche per
le imprese straniere, sede secondaria stabile in Italia, numero di codice
fiscale e di partiva Iva) e il settore o i settori di attività per cui è
richiesta l'iscrizione.
Competente a ricevere la richiesta di iscrizione è
la prefettura della provincia dove l'impresa ha posto la propria residenza o
sede legale o, se l'impresa è costituita all'estero, la prefettura della
provincia dove l'impresa ha una sede stabile ai sensi dell'art. 2508 del
codice civile, ovvero, se l'impresa è costituita all'estero e non ha una
sede stabile nel territorio dello Stato, qualsiasi prefettura nel cui elenco
l'impresa intenda richiedere l'iscrizione (articolo
ItaliaOggi del 18.08.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Placet
unico ambientale. Nel Pua autorizzazioni e nulla osta vari. Linee guida del
ministero dell’ambiente dopo le novità normative.
Un provvedimento unico ambientale (Pua) che riunisce in un unico atto il
rilascio di ogni altra autorizzazione, intesa, parere, nulla osta, o atto di
assenso in materia ambientale. Vi sono assorbiti l'autorizzazione integrata
ambientale (Aia), le autorizzazioni paesaggistiche e culturali, i nulla osta
idrogeologici, le autorizzazioni sismiche e quelle riguardanti gli scarichi
nel sottosuolo e nelle acque sotterranee. Scopo dell'unificazione è quello
di rendere più efficienti le procedure amministrative nonché di innalzare il
livello di tutela ambientale.
Le
istruzioni operative sono contenute in una
guida del
Ministero dell'ambiente
diffusa nei giorni scorsi che spiega le modalità per il rilascio del
provvedimento unico ambientale alla luce delle modifiche apportate dal dlgs
16.06.2017 n. 104, in attuazione della direttiva 2014/52/Ue alla parte
II del codice dell'ambiente (dlgs 152/2006), alla disciplina sulla
valutazione di impatto ambientale.
Il Pua può essere richiesto per tutti i
progetti di competenza statale sottoposti a procedura di Via (Valutazione
impatto ambientale). L'autorità competente in sede statale è il ministero
dell'ambiente, direzione generale per le valutazioni e le autorizzazioni
ambientali.
Ruolo commissione tecnica di verifica. La commissione tecnica di verifica
dell'impatto ambientale svolge l'istruttoria tecnica finalizzata
all'espressione del parere sulla base del quale sarà emanato il
provvedimento di Via, previa acquisizione del concerto del ministro dei beni
e delle attività culturali e del turismo.
Il proponente trasmette alla
direzione valutazione ambientale l'istanza per il rilascio del Pua
utilizzando l'apposito modulo disponibile nella sezione «specifiche tecniche
e modulistica» del portale delle valutazioni ambientali
http://www.va.minambiente.it/it. All'istanza deve essere allegata la
seguente documentazione in formato digitale:
- progetto di fattibilità tecnico economica (o eventuale diverso livello di
progettazione);
- documentazione ed elaborati progettuali previsti dalle normative di
settore per consentire la compiuta istruttoria tecnico amministrativa
finalizzata al rilascio dei titoli ambientali richiesti, incluse, nel caso
di richiesta di autorizzazione integrata ambientale, le informazioni
previste ai commi 1, 2 e 3 dell'art. 29-ter del dlgs 152/2006;
- studio di impatto ambientale;
- sintesi non tecnica dello studio di impatto ambientale;
- informazioni sugli eventuali impatti transfrontalieri del progetto;
- dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante il valore delle opere
da realizzare e l'importo del contributo versato (art. 33 del dlgs
152/2006);
- copia della ricevuta di avvenuto pagamento del contributo per gli oneri
istruttori;
- risultati della procedura di dibattito pubblico eventualmente svolta (art.
22 del dlgs 50/2016);
- valutazione di impatto sanitario (se pertinente);
- piano di utilizzo delle terre e rocce da scavo (se pertinente).
Sospensione dei termini. Il proponente può richiedere alla direzione
valutazione ambientale, con adeguate motivazioni, la sospensione dei termini
per la presentazione della documentazione integrativa per un periodo non
superiore a 180 giorni. La sospensione può essere richiesta o concessa una
sola volta nel corso dell'intera procedura. Se il proponente non trasmette
la documentazione integrativa entro il termine perentorio stabilito nella
comunicazione della Dva, l'istanza si intende ritirata. La Dva procede
all'archiviazione della medesima
(articolo
ItaliaOggi del 18.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
nuovo ecobonus con 28 tetti. Massimali specifici per ogni tipologia di
intervento. La bozza di decreto che riformerà
l’incentivo. Nel bonifico anche data e numero fattura.
Al via la riforma delle detrazioni fiscali (50 o 65%)
per gli investimenti in efficientamento energetico. Con l'introduzione di
ventotto tetti di spesa intesi come massimali specifici per ogni singola
tipologia di intervento. Il tetto da rispettare sarà duplice: uno globale,
riferito a tutte le spese sostenute e uno per i valori unitari, riferito a
ciascuna delle spese detraibili. La maggior parte dei massimali saranno
stabiliti in base al metro quadro (ad esempio installazione e sostituzione
di infissi). Per quanto riguarda, invece, caldaie e similari, l'importo
massimo detraibile sarà determinato sulla base dei kilowatt. Ad esempio, per
le finestre comprensive di infissi nuovi il limite di spesa sarà di 350 euro
al metro quadro per le zone climatiche A, B e C (le più calde) e di 450 euro
al metro quadro per le zone climatiche D, E e F (le più fredde).
Queste alcune delle novità che emergono dalla lettura dell'ultima
bozza di decreto del ministero dello Sviluppo economico - redatto
di concerto con i dicasteri dell'economia, delle infrastrutture e trasporti
e dell'ambiente che andrà a cambiare le detrazioni fiscali (si veda
ItaliaOggi del 20 luglio scorso) per gli investimenti in efficientamento
energetico (articolo 1, commi 344/349, della legge 296/2006). Vantaggi
tributari già prorogati dalla legge di Bilancio 2018 (n. 205/2017) che ha
anche modificato i confini di riferimento del bonus.
Le nuove misure entreranno in vigore a partire dal terzo mese successivo
alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dello schema di decreto. Pertanto
restano invariate le regole per i lavori effettuati tra il 01.01.2018 e la
data di attuazione della misura. In concreto, con le nuove regole, sarà più
arduo utilizzare la detrazione per lavori che non rientrano nello steccato
dell' efficientamento energetico.
Tra le altre novità quella per cui il bonifico, non dovrà contenere solo la
causale del versamento, costituita dalla norma incentivante (ad esempio,
«detrazione del 50% o del 65%»), il codice fiscale del beneficiario della
detrazione e il numero di partita Iva o il codice fiscale del soggetto a
favore del quale il bonifico viene effettuato ma dovrà essere prevedere
anche «il numero e la data della fattura» che viene saldata.
Finalità del nuovo decreto e necessità di aggiornamento.
Il provvedimento in commento ha la finalità di aggiornare i requisiti
tecnici minimi per le tecnologie che accedono al beneficio delle detrazioni
fiscali (c.d. ecobonus), previste dalla finanziaria per il 2007 (articolo 1,
commi 344/349, della legge 296/2006).
L'aggiornamento si è reso necessario in quanto negli ultimi dieci anni gli
incentivi tributari hanno subito modifiche o proroghe. Comportando un
disallineamento rispetto alle disposizioni introdotte con i decreti
ministeriali del 2015 in materia di prestazione energetica degli edifici (dm
26.06.2015) e generando nel contempo difficoltà per tecnici e cittadini
dovute alla mancanza di chiarezza nella definizione dei requisiti di accesso
alle detrazioni fiscali per gli interventi ammessi all'agevolazione.
Di conseguenza sono stati molti i ricorsi presentati all'Agenzia delle
entrate.
Alcuni esempi di massimali unitari.
I limiti di spesa dell'ecobonus saranno calcolati come abbiamo detto al
metro quadro o in base ai kilowatt. A esempio il tetto a metro quadrato
riguarderà i seguenti interventi:
- riqualificazione energetica: limite di spesa di 500 euro al metro
quadro per le zone climatiche A, B e C e di 575 euro al metro quadro per le
zone climatiche D, E e F;
- schermature solari e tende solari: limite di 180 euro per ogni
metro quadro;
- strutture opache orizzontali : esterno (limite 100,00 euro),
interno terreno (limite 80,00 euro) e parete ventilata (limite 150,00 euro).
Il tetto per kilowatt sarà ad esempio relativo ai microgeneratori (con nuovo
limite di spesa di mille euro per kilowatt di energia elettrica potenziale)
e le caldaie ad acqua a condensazione e generatori di aria calda a
condensazione (con limite di spesa a 250/200 euro per kw di energia
elettrica potenziale - kWe) (articolo
ItaliaOggi del 17.08.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Nel
Dup opere sopra 100 mila €. Obbligatorio inserirle nel Documento di
programmazione. È l’effetto combinato del Codice appalti e dei nuovi
principi contabili degli enti locali.
Opere di importo superiore ai 100.000 euro da inserire obbligatoriamente nel
Dup.
È questa una delle novità più
importanti previste dal combinato disposto del codice dei contratti e dei
(rinnovati) principi contabili degli enti locali.
Fino ad oggi, è prassi diffusa quella di inserire nella programmazione
triennale opere prive di un livello minimo di progettazione. In base
all'art. 21, comma 3, del dlgs n. 50/2016 ciò non è più consentito, essendo
obbligatorio dotarsi del documento delle alternative progettuali, per i
lavori da inserire nel programma triennale e del progetto di fattibilità
tecnica ed economica, per i lavori di importo pari o superiore a un milione
di euro, da inserire nell'elenco annuale. È consentita, in ogni caso,
l'omissione di uno o di entrambi i primi due livelli di progettazione,
purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il
livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione.
Nei documenti citati (che sostituiscono lo studio di fattibilità e il
progetto preliminare previsto dalla normativa previgente) occorre
individuare, tra più soluzioni progettuali, quella che presenta il miglior
rapporto costi/benefici, in relazione alle esigenze della collettività da
soddisfare. L'ente locale deve, quindi, analizzare, identificare e
quantificare gli interventi e le risorse reperibili per il finanziamento
dell'opera indicando, dove possibile, le priorità e le azioni da
intraprendere per far decollare il nuovo investimento, la stima dei tempi e
la durata degli adempimenti amministrativi per la realizzazione e il
successivo collaudo. Vanno inoltre stimati, ove possibile, i relativi
fabbisogni finanziari in termini di competenza e cassa. Nelle eventuali
forme di copertura dell'opera, si dovrà fare riferimento anche al
finanziamento tramite l'applicazione nella parte entrata del bilancio del
fondo pluriennale vincolato.
Il programma deve in ogni modo indicare:
• le priorità e le azioni da intraprendere come richiesto dalla
legge;
• la stima dei tempi e la durata degli adempimenti amministrativi
di realizzazione delle opere e del collaudo;
• la stima dei fabbisogni espressi in termini sia di competenza,
sia di cassa, al fine del relativo finanziamento in coerenza con i vincoli
di finanza pubblica.
Inoltre, occorre considerare le imminenti modifiche all'allegato 4/2 del
dlgs n. 118/2011 previste dall'ottavo decreto correttivo, che mirano a
rendere più semplice il raccordo fra le norme contabili e quelle sugli
appalti di lavori pubblici, introducendo numerose novità, soprattutto per
quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della
realizzazione delle opere.
In primo luogo, viene disciplinata la registrazione del livello minimo di
progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma
triennale e nell'elenco annuale. Parliamo, quindi, di opere di taglio pari o
superiore a 100.000 euro: in tali casi, le spese di progettazione devono
essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera
cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di
progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario
che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup)
individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione
è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
Il Dup, quindi, oltre a contenere il programma triennale delle opere
pubbliche, dovrà individuare le opere per le quali l'ufficio competente è
autorizzato, nel primo anno della programmazione, ad avviare la prima fase
di progettazione, sia che essa venga svolta internamente o affidata
all'esterno (articolo
ItaliaOggi del 17.08.2018). |
APPALTI:
Affidamenti a terzi con nuove regole. Al via da domani l’obbligo
per i concessionari scelti senza gara.
Da domani al via le regole per le verifiche sul rispetto
dell'obbligo di affidamento a terzi dell'80% dei contratti di lavori,
forniture e servizi da parte dei concessionari scelti senza gara (è il 60%
per i concessionari autostradali).
È stata infatti pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 178 del 02.08.2018 la
delibera Anac n. 614 del 04.07.2018 riguardante le linee guida n. 11 recanti
indicazioni per la verifica del rispetto del limite di cui all'articolo 177,
comma 1 (il c.d. 80/20).
Le linee guida n. 11 sono vincolanti e attuano il disposto dell'articolo
177, comma 3, del Codice dei contratti che prevede che l'Autorità detti le
regole per la verifica sull'avvenuto ed effettivo affidamento a soggetti
terzi di una quota pari all'80% (o al 60% per le concessioni autostradali)
di lavori, forniture e servizi di importo superiore a 150 mila euro da parte
di concessionari che, a loro volta, non hanno ricevuto la concessione a
seguito di procedura ad evidenza pubblica prima del 19.04.2016.
Viene previsto anche un obbligo di adeguamento entro due anni e su questo
punto l'Anac ha chiarito che l'obbligo «è immediatamente operativo e che
il termine di 24 mesi è soltanto un termine finale entro cui deve essere
raggiunta l'aliquota minima dell'80% dei contratti affidati con gara. Quindi
man mano che i contratti già affidati vengono a scadenza, i nuovi contratti
devono sin da subito essere affidati mediante gara».
Si tratta di un rilevantissimo numero di concessioni (circa 6.500 stando
all'indagine Anac del 2017), affidate soprattutto nel settore idrico e del
gas, che sono sottratte al confronto competitivo e spesso sopravvivono con
proroghe sistematiche limitate alla gestione ordinaria. La stessa norma del
codice, oltre a stabilire che spetti all'Anac dettare le regole per le
verifiche, stabilisce che «eventuali situazioni di squilibrio rispetto ai
limiti indicati devono essere riequilibrate entro l'anno successivo» e che «nel
caso di situazioni di squilibrio reiterate per due anni consecutivi, il
concedente applica una penale in misura pari al 10% dell'importo complessivo
dei lavori, servizi o forniture che avrebbero dovuto essere affidati con
procedura ad evidenza pubblica».
Il provvedimento Anac consta di una prima parte con indicazioni (non
vincolanti) relative alla corretta interpretazione della disciplina e di una
seconda parte che contiene indicazioni vincolanti e operative. Va rilevato
che l'Anac ritiene che la disciplina «si applichi ai settori speciali, con
la sola esclusione delle concessioni di cui all'articolo 7 del codice dei
contratti pubblici, espressamente fatte salve (appalti e concessioni
aggiudicati ad una impresa collegata).
Altro elemento di rilievo riguarda il calcolo della percentuale (60 o 80%):
l'Anac, su indicazione del Consiglio di stato chiarisce che si deve fare
riferimento al valore dei contratti nel suo complesso, senza operare
distinzioni tra le quote riferite a lavori, servizi e forniture.
Le linee guida definiscono anche le modalità dei controlli e fissano gli
obblighi di comunicazione che devono agevolare le verifiche a carico
dell'Autorità; in particolare si prevede l'obbligo di pubblicazione di tutti
i dati necessari ai concedenti per lo svolgimento delle verifiche di
competenza sul rispetto dei limiti percentuali e all'Anac per l'attività di
vigilanza (articolo
ItaliaOggi del 17.08.2018). |
ENTI LOCALI: Avanzi
sbloccati, ma i comuni temono sanzioni. I municipi stanno alla finestra in
attesa di un intervento del legislatore.
Incognita avanzo di amministrazione
per gli enti locali. Le risorse risparmiate negli scorsi esercizi sono state
sbloccate dalla Corte costituzionale, ma molti amministratori (e ragionieri)
sono ancora in attesa di un intervento del legislatore che faccia piazza
pulita delle sanzioni previste in caso di sforamento del pareggio di
bilancio.
Con l'approvazione delle delibere sulla salvaguardia degli equilibri e
sull'assestamento generale di bilancio, siamo entrati nella fase
dell'esercizio in cui di norma è possibile applicare avanzo per finanziare
investimenti, al netto delle eventuali quote vincolate già utilizzate.
Prima, infatti, è necessario licenziare il rendiconto e verificare che non
sussistano squilibri finanziari e/o debiti fuori bilancio a ipotecare i
risparmi conseguiti negli scorsi anni.
Ma, come noto, coprire una spesa con l'avanzo richiede la disponibilità di
spazi nell'ambito del pareggio di bilancio, che non «vede» tale entrata,
mentre registra puntualmente la spesa, ivi compreso il fondo pluriennale
vincolato. Sul tale materia, peraltro, è intervenuta ripetutamente la Corte
costituzionale (dapprima con la sentenza n. 247/2017 e poi con al sentenza
n. 101/2018), censurando le limitazioni previste all'utilizzo delle
menzionate poste contabili.
Secondo i giudici delle leggi, l'avanzo, una volta accertato nelle forme di
legge, è nella disponibilità dell'ente che lo realizza e non risulta incluso
fra le entrate finali solo perché la disciplina del pareggio guarda al
bilancio di previsione, mentre l'avanzo, come detto, è accertato in sede di
rendiconto. Ancora più nette le affermazioni sul fondo pluriennale
vincolato, che gli enti hanno piena facoltà di gestire indipendentemente
dalla sua collocazione in bilancio.
Si è trattato di vere e proprie picconate all'edificio del pareggio, che a
questo punto rischia di essere del tutto demolito. Nulla è ancora stato
deciso, ma la soluzione più gettonata prevede addirittura il completo
superamento del meccanismo e l'applicazione dei soli equilibri previsti dal
dlgs 118/2011 (che includono pienamente l'avanzo e, come si dirà, il ricorso
al debito).
Il nuovo corso dovrebbe scattare con la manovra di fine anno, dopo che il
decreto Milleproroghe ha solo sfiorato il tema; ma nel frattempo i vincoli
(e le relative sanzioni) sono ancora vigenti, come confermato dal recente
decreto del Mef sul monitoraggio e da quello del Viminale che ha applicato
le penalità alle amministrazioni che hanno sforato nel 2017. Ma pare
difficile che lo Stato possa continuare ad applicare delle penalità sulla
base di norme mantenute in vita dalla Consulta sulla base di una
interpretazione «costituzionalmente orientata»: anzi, in punto di
diritto, è possibile affermare che, dopo l'intervento dei giudici delle
leggi, l'avanzo e il fondo pluriennale vincolato sono a pieno diritto
entrate valide ai fini del pareggio, senza se e senza ma.
A questo punto, quindi, gli enti sarebbero assolutamente legittimati ad
utilizzarle senza il rischi di incappare in conseguenze negative. Ma nella
culla del diritto positivo (dove la forma dei precedenti giurisprudenziali,
anche se al massimo grado, è tradizionalmente modesta) prevale ancora un
atteggiamento di prudenza sia negli amministratori che (soprattutto) nei
responsabili finanziari, che attendono di vedere scritte nero su bianco in
un provvedimento le nuove regole. Per cui, a meno che il governo decida di
accorciare i tempi ed inserire lo sblocco in un decreto legge, dovremo
aspettare il 2019 per vedere gli avanzi finalmente liberi: un peccato,
perché di fatto si perderà un anno di tempo (articolo
ItaliaOggi del 15.08.2018). |
APPALTI: Appalti
in versione elettronica entro il 18 ottobre.
Il passaggio alla versione elettronica degli appalti sarà completo entro il
18.10.2018. Data a partire dalla quale sarà possibile presentare le offerte
elettronicamente a tutte le amministrazioni aggiudicatrici dell'Ue
attraverso il documento di gara unico europeo (Dgue).
Le amministrazioni aggiudicatrici sono invitate a suddividere i contratti in
lotti in maniera da facilitare la partecipazione delle Pmi alle procedure di
appalto pubblico. Sono comunque libere di non effettuare tale suddivisione.
Tuttavia in tal caso devono motivare la loro scelta.
È quanto si legge nella guida sugli appalti pubblici redatta dalla
commissione Ue in vista della partenza il prossimo 18 ottobre del documento
di gara unico europeo.
Il documento di gara unico europeo consente agli operatori economici di
autodichiarare elettronicamente di soddisfare le condizioni richieste per
partecipare a una procedura di appalto pubblico.
Soltanto l'aggiudicatario è tenuto a fornire prove documentali complete. In
futuro, potrebbe essere eliminato anche questo obbligo qualora tali prove
possano essere collegate elettronicamente alle banche dati nazionali.
A partire dal 18.10.2018, al più tardi, un operatore economico potrebbe non
dover più fornire documenti amministrativi complementari nel caso in cui
l'amministrazione aggiudicatrice possieda già tali documenti.
Il ricorso agli appalti elettronici rende la procedura più trasparente,
riduce l'interazione sleale tra i funzionari responsabili degli appalti e
gli operatori economici e facilita l'individuazione di irregolarità e
corruzione grazie a piste di controllo trasparenti (articolo
ItaliaOggi del 15.08.2018). |
TRIBUTI: Corvée
per pagare i debiti fiscali. Sì al baratto amministrativo con lavori
socialmente utili. A dare il via libera il Comitato per lo sviluppo del
verde pubblico del Minambiente.
Sì al baratto amministrativo per pagare il fisco con
lavori socialmente utili finalizzati al decoro urbano. Si potrà tagliare
l'erba nei parchi, pulire le strade, prestare opere di manutenzione o
recuperare e riqualificare aree e beni immobili inutilizzati. Non potrà
tuttavia essere utilizzato per iniziative di carattere imprenditoriale,
quali la realizzazione e la gestione di chioschi o ristoranti o altre
attività a pagamento, su aree verdi pubbliche di proprietà del comune.
Questo è l'importante principio che emerge dalla lettura della
deliberazione
14.05.2018 n. 27
del comitato per lo sviluppo del verde pubblico del Ministero dell'ambiente
circa la possibilità offerta ai cittadini di saldare i propri debiti con il
fisco mettendosi a disposizione dell'ente locale attraverso il baratto
amministrativo. Ma andiamo con ordine.
I funzionari del comitato ricordano che nel nostro ordinamento l'istituto
del baratto amministrativo, espressione del fenomeno del partenariato
sociale, riconducibile alla più ampia esperienza della sussidiarietà
orizzontale (articolo 118, ultimo comma, Costituzione) è stato introdotto
dall'articolo 24 del decreto legge del 12.09.2014 n. 133 convertito nella
legge 11.11.2014, n. 164 (c.d. «Sblocca Italia»).
In materia, si è pronunciata più volte in sede consultiva la Corte dei conti
(Lombardia
parere 24.06.2016 n. 172 e
parere 06.09.2016 n. 225) precisando che il precetto
dell'articolo 190 del dlgs n. 50/2016 ha ripreso in massima parte le
espressioni testuali dell'articolo 24 dello Sblocca Italia ma ha completato
l'istituto attraendolo «nella materia dei contratti pubblici di
partenariato sociale», cosicché deve ritenersi che «l'area di
intervento del baratto concerna i servizi strumentali, le iniziative
culturali e il recupero dei beni pubblici, e che l'utilità derivante
all'amministrazione per la prestazione eseguita non preveda lucro, bensì
riduzione o esenzione dei tributi corrispondenti all'attività svolta dal
privato o dall'associazione in funzione dell'utilità che ne deriva alla
pubblica amministrazione locale».
L'esenzione può essere concessa solo per un periodo di tempo limitato, a
seconda del tipo di tributo da pagare e dell'attività di lavoro socialmente
utile.
Fattispecie incluse ed escluse dal baratto.
I componenti del comitato del verde pubblico, nell'esaminare l'istituto del
baratto amministrativo. affermano che lo stesso non può essere attivato
dall'ente locale in diretta applicazione dell'articolo 190 del dlgs n.
50/2016. Occorre che ciascun ente territoriale si doti di una specifica
regolamentazione a carattere generale che descriva gli specifici interventi
sotto forma di riduzione o esenzione del tributo (Tasi, Imu, Tari e in
generale estinzione di debenza legate alla fiscalità locale).
Continuano i funzionari che il riferimento alle aree verdi (siano esse
giardini, parchi comunali, boschi o semplici spazi di verde abbandonati o
no) contenuto nell'articolo 190 del dlgs n. 50/2016, porta a ritenere, in
coerenza con lo spirito della norma, che gli interventi possano consistere
in pulizia, manutenzione, abbellimento valorizzazione mediante iniziative
culturali di vario genere.
Interventi, cioè, riconducibili, in senso lato al decoro urbano o alla
cultura mentre esulano dal baratto amministrativo iniziative di carattere
imprenditoriale, quali la realizzazione e gestione di chioschi o ristoranti
o altre attività a pagamento, su aree verdi pubbliche.
Bilanci di previsione.
Nella delibera in commento, i funzionari ministeriali invitano l'ente locale
a stimare in anticipo la minore entrata dovuta alla riduzione o esenzione
della tassa locale già in sede di bilancio di previsione ai fini del
mantenimento degli equilibri economici.
Andranno, quindi, prestabiliti nei regolamenti e conseguentemente nei
bilanci di previsione dei singoli anni, i limiti d'importo entro cui l'ente
territoriale intende accettare interventi su beni comuni, rinunciando al
credito tributario. Occorre, dunque, pianificare gli interventi suscettibili
di baratto amministrativo, in termini di spesa ad essi destinati, da
quantificare in termini di ridotte entrate fiscali, individuando i tributi
su cui calcolare la minore entrata (articolo
ItaliaOggi del 14.08.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Eco-reati,
delineati i confini. Chi aggrava il danno può rispondere di inquinamento.
Il punto sulla giurisprudenza a tre anni dall’entrata in
vigore della legge 68/2015.
Può essere chiamato a rispondere
del delitto di inquinamento ambientale anche chi aggrava il danno che già
affligge una matrice ambientale, così come della più grave fattispecie di
disastro ambientale chi, danneggiando l'ecosistema, mette in pericolo
l'incolumità pubblica. A distanza di poco più di tre anni dall'entrata in
vigore dei nuovi eco-delitti previsti dalla legge 68/2015 sono le diverse
pronunce della Suprema corte di cassazione già in materia stratificatesi a
tracciare i confini operativi delle fattispecie introdotte direttamente nel
codice penale.
Inquinamento e disastro ambientale. I delitti in parola (articoli 452-bis e
452-quater, reclusione fino a 6 e 15 anni) costituiscono le fattispecie
cardine dei nuovi delitti previsti dal titolo VI-bis del codice penale, in
vigore dal 29.05.2015, alle quali si affiancano in virtù della citata legge
68/2015 quelle della morte/lesioni conseguenza di inquinamento ambientale
(452-ter), traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività
(452-sexies), impedimento del controllo (452-septies), omessa bonifica
(452-terdecies).
Il delitto di inquinamento ambientale consiste nella abusiva compromissione
o nel deterioramento significativi e misurabili di: acque, aria; porzioni
estese e significative suolo o sottosuolo; ecosistema, biodiversità, flora o
fauna. Il delitto di disastro ambientale previsto dall'articolo 452-quater
del codice penale punisce chi, fuori dai casi ex articolo 434 c.p. (lo
storico delitto di «inquinamento innominato»), abusivamente cagiona
alternativamente: un'alterazione dell'equilibrio dell'ecosistema
irreversibile o con eliminazione particolarmente onerosa tramite
provvedimenti eccezionali; una rilevante offesa pubblica incolumità (per
estensione della compromissione cagionata, effetti lesivi o numero persone
offese/esposte a pericolo). Sulla portata degli elementi oggettivi delle due
ultime fattispecie hanno fatto luce le diverse pronunce della Corte di
cassazione.
L'abusività della condotta.
Con relazione dell'Ufficio massimario 29.05.2015 la Cassazione ha precisato
che è da considerarsi abusiva: la condotta non autorizzata; l'attività posta
in essere con inosservanza di prescrizioni e limiti imposti da titoli validi
o in presenza di atti scaduti; l'agire solo formalmente ed esteriormente
corrispondente a una prescrizione normativa o a una autorizzazione, ma di
fatto incongruente rispetto alle finalità da queste perseguite. Mediante la
sentenza 46170/2016, il giudice di legittimità ha invece ritenuto «abusiva»
la condotta posta in essere in violazione di leggi statali o regionali e
prescrizioni amministrative anche non direttamente vertenti in materia
ambientale.
Attraverso la sentenza 52436/2017 relativa all'inquinamento provocato
attraverso l'attività di depurazione di acque la Corte ha rilevato la
sussistenza dell'abusività della condotta per aver l'imputato agito
nonostante un provvedimento di diniego dell'autorizzazione funzionalmente
richiesta. Sempre in quanto abusiva, con la recente sentenza 28732/2018 la
Corte ha ritenuto rilevante ai fini dell'integrazione del delitto in
questione la condotta di colui che effettua un prelievo d'acqua pubblica
senza il provvedimento autorizzativo o concessorio dell'Autorità competente
ex articolo 17, regio decreto 1775/1933.
Compromissione e deterioramento dell'ambiente.
Con sentenza 46170/2016 la Cassazione ha sottolineato come la compromissione
coincida con uno squilibrio «funzionale» della matrice ambientale, poiché
incide sui suoi normali processi naturali, mentre il deterioramento è da
considerarsi uno squilibrio strutturale che comporta il vero e proprio
decadimento di stato o di qualità dell'eco-sistema. Con la pronuncia
10515/2017, relativa all'inquinamento di due corsi d'acqua con moria di
fauna ed incidenza sullo stato di salute di persone, la Cassazione ha
riconosciuto che il deterioramento e la compromissione rilevano anche quando
tali eventi interessano elementi naturali che sono già in parte stati dagli
stessi eventi interessati.
Significatività e misurabilità del danno.
Per la sentenza 46170/2016 della Cassazione le condizioni di significatività
e misurabilità indicano rispettivamente la necessità che il danno sia (in
termini di incisività) rilevante ed altresì oggettivamente rilevabile.
Le matrici interessate.
La sentenza 46170/2016 del giudice di legittimità ha rilevato come un
parametro dimensionale minimo di inquinamento sia chiesto solo per suolo e
sottosuolo, ma non per le altre matrici.
Lo storico reato di «disastro innominato».
In base alla sentenza 58023/2017 della Suprema corte la clausola di riserva a
favore del delitto di «disastro innominato» ex art. 434 c.p. è funzionale
alla salvaguardia dei processi in corso commessi sotto tale fattispecie
prima dell'entrata in vigore del neo delitto di disastro ambientale ex
articolo 452-quater c.p. Quest'ultima disposizione, rispetto alla prima, non
costituisce una ipotesi di nuova incriminazione, essendo il disastro
ambientale già punito, ma solo una specializzazione della stessa, con
l'introduzione di elementi ulteriori.
L'irreversibilità dell'alterazione.
In base alla citata Relazione 29.05.2015 l'«irreversibilità»
dell'alterazione ambientale va valutata in senso relativo. Per cui sussiste
anche quando l'inversione di tendenza necessita di un ciclo temporale molto
più ampio dell'agire umano.
L'offesa della pubblica incolumità.
Con la sentenza 29901/2018, relativa a una fattispecie di abusivismo
edilizio la Corte ha sottolineato come, nel contesto della nuova figura di
«disastro ambientale», l'elemento dell'offesa alla pubblica incolumità deve
necessariamente ritenersi riferita a comportamenti comunque incidenti
sull'ambiente, rispetto ai quali il pericolo per l'integrità del pubblico è
una diretta conseguenza (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Condizionatori?
Senza fretta. Sotto esame divieti e obblighi del regolamento condominiale.
L’installazione dell’impianto comporta immissioni e problemi
di decoro, da valutare bene.
Casa fresca d'estate, ma
rispettando le regole del buon vicinato. Il condizionatore è uno dei tipici
acquisti della stagione calda, quando le temperature cominciano a diventare
insopportabili. L'installazione del condizionatore può però comportare dei
problemi per i vicini e per i passanti. Infatti il compressore, oltre a
emettere rumore, produce anche vapore d'aria calda e stillicidio di acqua.
Inoltre, in mancanza di un balcone, il compressore viene montato il più
delle volte sulla facciata dell'edificio, con evidenti problematiche in tema
di decoro architettonico e rispetto del regolamento edilizio e condominiale.
Vediamo allora quali sono le accortezze che possono garantire
un'installazione corretta e rispettosa degli interessi dei terzi.
L'installazione.
La prima questione da affrontare quando si acquista un condizionatore è
quella di trovare uno spazio adeguato nel quale collocare l'unità del
compressore d'aria, la cui grandezza aumenta proporzionalmente alla potenza
dell'impianto. Di norma, il motore viene posizionato sul balcone
dell'appartamento, in modo da non creare disturbo.
Nel caso in cui manchi il balcone l'unità esterna dovrà necessariamente
essere installata sulla facciata dell'edificio. In questo caso occorre che
l'installazione sia eseguita senza recare danno alle parti comuni dello
stabile. La giurisprudenza, con riferimento ai condizionatori, ha precisato
che deve intendersi per danno alle cose comuni anche il pericolo, purché
attuale e non solo ipotetico, connesso al rischioso funzionamento o alla
realizzazione imperfetta di un impianto.
Il decoro architettonico.
L'installazione del compressore sui muri perimetrali del condominio non deve
poi ledere il decoro architettonico dell'edificio. La disciplina si ricava
dal disposto dell'art. 1102 c.c., ai sensi del quale ciascun condomino può
servirsi delle parti comuni e apportare a proprie spese le variazioni
necessarie per il miglior godimento del bene, purché non impedisca agli
altri comproprietari di farne pari uso.
Occorre però anche tenere conto del successivo art. 1120 c.c., in tema di
innovazioni, che impone ai condomini il rispetto delle condizioni statiche
dell'edificio e del decoro architettonico. Con quest'ultimo concetto si
intende l'estetica dell'edificio nel suo complesso, data dall'insieme delle
linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante e
che imprimono alle varie parti dell'immobile, nonché al suo insieme, una
determinata e armonica fisionomia. Per quanto sopra, se difficilmente un
condizionatore potrà alterare le condizioni statiche dell'edificio, più
probabile è invece la possibile alterazione del decoro architettonico.
Infatti la giurisprudenza ha per esempio precisato che un voluminoso corpo
estraneo sporgente, quale è un condizionatore d'aria di grandi dimensioni,
installato da un condomino, altera certamente l'aspetto e il valore estetico
della facciata di uno stabile e, quindi, l'impianto in casi del genere deve
essere rimosso. Per i condizionatori di dimensioni più contenute sarà invece
necessario valutare caso per caso.
Tuttavia è da segnalare una sentenza con cui il tribunale di Milano nel
recente passato aveva negato a priori la possibilità di installare un
condizionatore sulla facciata di un edificio, ritenendo detto impianto di
per sé lesivo del decoro architettonico. Solitamente, però, il relativo
accertamento viene condotto dal giudice di merito mediante l'ausilio di un
consulente tecnico d'ufficio e quindi con una valutazione specifica del caso
concreto.
Il regolamento condominiale.
Il regolamento di condominio può contenere clausole che vietino qualsiasi
opera che, anche senza arrecare un pregiudizio all'edificio, sia tale da
modificarne l'estetica. Tuttavia una simile clausola, che comprime
l'esercizio connesso al diritto di proprietà esclusiva, è di natura
contrattuale e di conseguenza perché sia valida dovrebbe essere accettata da
tutti i condomini, non essendo sufficiente la sola maggioranza (quindi
dovrebbe essere contenuta nel regolamento predisposto dall'originario
costruttore o risultare da una delibera assembleare approvata con i mille
millesimi di proprietà).
Ma spesso i regolamenti condominiali prevedono anche l'obbligo di previa
comunicazione all'amministratore delle modifiche che i condomini intendono
apportare alle parti comuni dell'edificio oppure l'obbligo di subordinare i
lavori alla preventiva accettazione da parte dell'assemblea. In casi del
genere, valutando caso per caso la legittimità della clausola regolamentare,
la violazione del procedimento previsto dal regolamento condominiale
legittima i condomini ad agire in giudizio per chiedere la rimozione del
condizionatore, nonché il risarcimento dei danni.
Occorre poi ricordare come il nuovo art. 1122 c.c., modificato dalla legge
n. 220/2012 di riforma del condominio, abbia previsto l'onere del condomino
di informare l'amministratore condominiale anche nei casi in cui si appresti
a effettuare interventi sulle parti di proprietà esclusiva o su quelle
comuni di sua proprietà o utilizzo esclusivo (fermo restando che anche tali
opere non sono comunque ammesse qualora possano recare danno alle parti
comuni o pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro
architettonico dell'edificio).
La previa informativa all'amministratore è finalizzata a fare in modo che
quest'ultimo possa avvertire per tempo l'assemblea, la quale potrebbe per
esempio chiedere al condomino di valutare differenti modalità di
realizzazione dell'intervento che possano evitare o attutire i disagi temuti
dagli altri comproprietari.
I regolamenti edilizi.
Un ulteriore limite all'installazione del condizionatore sulle pareti
perimetrali dell'edificio può derivare poi dal regolamento edilizio
comunale. Infatti gli enti locali, nell'ambito della propria autonomia
statutaria e normativa, sono tenuti a disciplinare l'attività edilizia che
si svolge sul proprio territorio, includendo nel regolamento norme in
materia di decoro architettonico che possono riguardare anche le facciate
degli edifici e quindi l'installazione su di esse di impianti di
climatizzazione. È quindi consigliabile chiedere informazioni preventive
anche all'ufficio tecnico comunale prima di impegnarsi in lavori del genere.
Le immissioni. Il
motore del condizionatore, che deve essere collocato necessariamente
all'esterno dell'edificio per il suo funzionamento, produce una serie di
immissioni, quali il rumore, lo stillicidio d'acqua dovuto alla condensa e
getti di vapore d'aria calda. Per questo motivo l'installazione
dell'apparecchio deve avvenire nel rispetto delle norme previste dal codice
civile a tutela della proprietà.
In casi del genere trova applicazione l'art. 844 c.c., che vieta le
immissioni di fumo, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e altre simili
propagazioni qualora superino la normale tollerabilità. Il limite oltre il
quale le immissioni si ritengono non tollerabili è relativo e si deve
valutare in relazione al caso concreto e al luogo in cui le immissioni si
propagano e non a quello da cui derivano. Per quanto riguarda il rumore, in
particolare, la giurisprudenza ha adottato il cosiddetto criterio
comparativo, in base al quale si presume tollerabile il rumore che non
superi i tre decibel rispetto al rumore di fondo della zona senza disturbi.
Ciò premesso, si può affermare che la normale tollerabilità si riferisca a
immissioni di modesta entità, tenuto conto degli interessi opposti e dei
rapporti di buon vicinato. Inoltre è bene precisare che se l'impianto di
climatizzazione è troppo rumoroso si rischia anche una condanna per disturbo
alle occupazioni e al riposo delle persone.
Infatti la Suprema corte ha in proposito sottolineato che, per la
sussistenza della contravvenzione prevista dal primo comma dell'art. 659 c.p.,
è sufficiente la dimostrazione che la condotta posta in essere dall'agente
sia tale da poter disturbare il riposo e le occupazioni di un numero
indeterminato di persone, anche se una sola di esse si sia in concreto
lamentata.
Non si potrà quindi installare all'esterno un condizionatore troppo rumoroso
ove questo arrechi disturbo ai vicini. Ma se il rumore emesso dall'impianto
è percepito in misura inferiore ai tre decibel, lo stesso rientrerà nella
normale tollerabilità e il vicino non potrà opporsi all'utilizzo
dell'apparecchio (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.08.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Debiti
fuori bilancio, la Corte dei Conti riapre al pagamento prima del
riconoscimento in consiglio.
Il tema del riconoscimento, finanziamento e pagamento dei debiti fuori
bilancio che derivano da provvedimenti giudiziari esecutivi (sentenze e
decreti ingiuntivi) continua a essere al centro dell'attività consultiva
della Corte dei conti.
Ciò dovrebbe avvantaggiare gli enti locali, se non
fosse che la magistratura contabile è intervenuta più volte, nel giro di
poco tempo, con indicazioni discordanti che finiscono, invece, per generare
un vero e proprio caos amministrativo.
I precedenti
Mentre con il
parere 10.01.2018 n. 2 della sezione di controllo della
Campania (si veda il Quotidiano enti locali e della Pa del 31 gennaio) si
era aperta la strada al pagamento del debito prima dell'approvazione della
deliberazione di riconoscimento da parte del consiglio, il successivo
parere 22.02.2018 n. 29 della sezione Puglia (si veda il Quotidiano enti
locali e della Pa del 14 marzo) aveva all'opposto escluso la possibilità di
discostarsi dalle prescrizioni degli articoli 193 e 194 del Tuel che
impongono la preventiva e tempestiva adozione della delibera consiliare di
riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, garantendo così
una maggiore efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa per
salvaguardare gli equilibri finanziari dell'ente locale.
La decisione dei giudici liguri
Con il più recente
parere 22.03.2018 n. 73, la sezione Liguria cambia –di
nuovo– diametralmente interpretazione ritenendo che, salvo comunque
l'obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento di
riconoscimento, sia possibile procedere al pagamento dell'obbligazione
(sorta fuori bilancio) derivante dal provvedimento giurisdizionale esecutivo
anche prima della deliberazione consiliare ricognitiva.
Le coordinate ermeneutiche seguite tracciano un percorso di coerenza con il
principio di economicità dell'azione amministrativa e con l'interesse
pubblico volto a evitare inutili sprechi di danaro pubblico.
Più in particolare, secondo il giudice del controllo ligure, nei casi di
ostacoli alla tempestiva adozione della deliberazione consiliare (per
mancanza del numero legale prima della votazione finale, non immediata
tempistica di convocazione o di istruttoria dell'atto deliberativo, limiti
normativi alla gestione del bilancio e alle relative variazioni in caso di
esercizio provvisorio o gestione provvisoria, eccetera), l'iter ordinario di
riconoscimento risulta inidoneo a scongiurare il rischio di maggiori
pregiudizi economici a carico dell'ente (specie in ipotesi, ad esempio, di
perdita di agevolazioni accordate dal creditore –come una dilazione o la
rinuncia/riduzione degli interessi– se il pagamento avviene entro un
prefissato termine).
In questa prospettiva, allora, la soluzione affermativa al pagamento del
debito prima dell'intervento consiliare passerebbe proprio attraverso
l'interpretazione (funzionale) delle stesse norme vigenti, le quali,
nell'ispirare i canoni dell'azione amministrativa volti alla rapida adozione
della deliberazione di riconoscimento, sottendono quelle medesime esigenze
di evitare danni patrimoniali rinvenibili dal mancato o tardivo pagamento
del provvedimento giurisdizionale esecutivo.
I requisiti tecnico-finanziari
I magistrati contabili della Liguria precisano, inoltre, i requisiti
tecnico-finanziari al ricorrere dei quali è consentito effettuare il
pagamento del debito prima del passaggio consiliare.
In primo luogo, l’evenienza è ammessa laddove, in considerazione
dell'oggetto della spesa cui si riferisce l'obbligazione perfezionata con il
provvedimento del giudice, sussista già un pertinente e capiente
stanziamento di bilancio.
Secondariamente, anche in assenza/incapienza di apposita copertura
finanziaria, il pagamento anticipato del debito per evitare aggravi di spesa
è concesso ricorrendo alle disponibilità individuate attraverso l'esercizio
dei poteri di variazione del bilancio spettanti in via ordinaria agli altri
organi dell'ente (ossia la giunta e i responsabili finanziari o della
spesa).
Si sottolinea che, in questi casi, posta la peculiarità del debito da
riconoscere, la sottoposizione all'esame del consiglio in un momento
successivo al pagamento del debito lascia nondimeno inalterati i poteri e i
margini di valutazione che competono a detto organo, che potrà esercitarli
con uguali modalità nonché pari efficacia e rilevanza.
L'approccio interpretativo assunto dalla sezione ligure privilegia una
lettura sostanziale del quadro normativo di riferimento, rispetto al
formalismo giuridico accolto dal precedente indirizzo giurisprudenziale.
Per dirimere il contrasto giurisprudenziale, sarebbe opportuna una pronuncia
di orientamento della sezione delle Autonomie della Corte dei conti, per
l'affermazione di un principio di diritto univoco a cui tutte le sezioni
regionali debbano conformarsi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Passività da sentenze da pagare subito. In questo modo non generano debiti
fuori bilancio.
I debiti fuori bilancio sono una preoccupante patologia dei bilanci (e degli
equilibri) degli enti locali, in quanto sorgono da obbligazioni nei
confronti di terzi assunte senza aver preventivamente adottato un
provvedimento di impegno spesa.
La fattispecie del debito fuori bilancio derivante da sentenze, è
nell'ambito di tale fenomeno patologico di spesa quella più ricorrente ed è
connotata dall'assenza totale dell'elemento volitivo.
Secondo un approccio maggiormente analitico (in un'epoca dove le transazioni
erano trattate ancora come debiti fuori bilancio), il dlgs n. 77/1995
prevedeva, tra le casistiche di debito fuori bilancio, non solo le sentenze
immediatamente esecutive, ma anche le sentenze passate in giudicato.
Oggi, generalizzando il dettato normativo, il dlgs n. 267/2000 (Tuel), alla
lettera a) del comma 1 dell'art. 194 fa riferimento alle sole sentenze
esecutive senza ulteriori distinzioni.
Questa genericità rende però di fatto difficile indicare un preciso percorso
a cui dovrebbe attenersi l'ente locale nelle individuazione del debito fuori
bilancio da sentenze, non solo sotto il profilo tipologico ma anche sotto
quello dei tempi e dei modi del procedimento giurisdizionale.
Al fine di precostituire, in tutto o in parte, le occorrenze finanziarie
necessarie per la copertura delle spese derivanti da sentenze esecutive, in
senso lato, il legislatore dell'armonizzazione al principio contabile 4/2,
punto 5.2, lettera h), ha introdotto nell'ordinamento l'istituto del fondo
rischi contenzioso, ascrivendolo nella categoria delle spese potenziali e
allocandolo nella missione 20 (cfr. artt. 167 e 176 del Tuel).
La presenza o meno di un accantonamento al fondo rischi contenzioso rispetto
alla necessità di attivazione delle procedure previste dall'art. 194 è
oggetto di disquisizione da almeno un biennio.
In linea con un approccio più contabilistico, la Corte dei conti Lombardia
nel
parere 06.10.2017 n. 265 ha affermato che non si è nell'ipotesi di
debito fuori bilancio da sentenza quando è avvenuto l'accantonamento nel
fondo rischi contenzioso e questo e sufficiente.
In senso opposto, la Corte dei conti Campania, nel
parere 08.11.2017 n.
249, ha affermato che la procedura di riconoscimento dei debiti fuori
bilancio deve essere attivata anche in presenza di accantonamento al fondo
rischi contenzioso.
In linea invece con la Corte lombarda, Arconet nel corso della riunione del
30.03.2016, aveva già precisato che le obbligazioni passive perfezionate
a seguito di sentenze passate in giudicato se impegnate nelle scritture
contabili dell'ente entro i termini previsti per il pagamento non generano
debiti fuori bilancio; si formano, invece, debiti fuori bilancio qualora gli
impegni non vengono registrati tempestivamente.
Chi scrive, pur condividendo
un approccio più marcatamente contabilistico («debito fuori bilancio è solo
ciò che non è previsto o accantonato in bilancio»), suggerisce di procedere
tempestivamente all'impegno e al pagamento delle spese derivanti da
sentenze, decreti ingiuntivi, pignoramenti ecc., prescindendo dalla
eventualmente necessaria (preventiva o successiva) procedura di
riconoscimento ex art. 194 del Tuel.
E ciò indipendentemente dalla tesi sposata dall'ente locale, il tutto
evitando di assumere la decisione con intento elusivo rispetto alla
obbligatoria comunicazione alla procura della Corte dei conti (articolo
ItaliaOggi del 16.03.2018). |
GIURISPRUDENZA |
VARI: Telecamere col sì dei sindacati.
Al datore di lavoro non basta il via libera dei dipendenti. Cassazione:
reato estinto se si smonta l’impianto e si paga la sanzione amministrativa.
Scatta la condanna penale per il datore se installa una telecamera che
riprende i dipendenti all’opera anche quando la realizzazione dei video è
giustificata da esigenze di sicurezza. E ciò anche se i gli interessati sono
d’accordo e hanno fornito il loro assenso scritto
Il consenso dei dipendenti alle videoriprese non basta.
Scatta la condanna penale per il datore se installa una telecamera che
riprende i dipendenti all'opera anche quando la realizzazione dei video è
giustificata da esigenze di sicurezza. E ciò anche se gli interessati sono
d'accordo e hanno fornito il loro assenso scritto: l'apparecchio che
potenzialmente può controllare a distanza i dipendenti, infatti, può essere
autorizzato solo dall'accordo con i sindacati o dalla direzione territoriale
del lavoro, mentre il consenso degli interessati non può scriminare
l'imprenditore perché i lavoratori sono «soggetti deboli» del rapporto
subordinato. Il tutto anche dopo l'entrata in vigore del Jobs act. Ma
attenzione: il reato è estinto se il datore obbedisce alle prescrizioni
degli ispettori smontando l'impianto e pagando la sanzione amministrativa.
È
quanto emerge dalla
sentenza 24.08.2018 n. 38882 e
sentenza 24.08.2018 n. 38884 della
III Sez. penale della Corte di Cassazione.
Precedente contrario. Cominciamo dalla 38882/18. Confermata l'ammenda al
titolare del bar che dallo schermo lcd monitora tutti i luoghi dove i
lavoratori svolgono mansioni. E ciò anche se il sistema di videocamere
risulta installato per l'incolumità delle persone e la tutela del patrimonio
aziendale: una dipendente è stata aggredita da ragazzi ubriachi e si sono
verificati furti nel locale.
Il punto è che l'impianto anche solo
potenzialmente controlla a distanza i dipendenti: il reato si configura pure
quando le telecamere restano spente. Per autorizzarle la legge ha scelto una
procedura codeterminativa, vale a dire l'accordo coi sindacati, che è
collettivo, o il placet dell'organo pubblico: è indiscutibile la maggiore
forza economico-sociale dell'imprenditore, basterebbe farsi firmare dai
lavoratori il consenso all'atto dell'assunzione per introdurre qualsiasi
tecnologia di controllo.
Insomma: l'iter non può essere derogato dal
consenso dei lavoratori, nonostante una sentenza di segno opposto, la
22611/2012.
Estinzione estesa. Chiudiamo con la 38884/18. Il ricorso del pubblico
ministero è bocciato perché il datore si salva con l'estinzione in via
amministrativa che il dlgs 124/2004 ha esteso a tutte le ipotesi di reato
previste dalle leggi in materia di lavoro e legislazione in cui è prevista
la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda oppure soltanto quest'ultima
(articolo
ItaliaOggi del 25.08.2018). |
APPALTI:
Differenza tra le ipotesi di esclusione dalla gara prevista
dalle lett. c) e f-bis) del comma 5 dell’art. 80 del Codice
dei contratti pubblici.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Ipotesi ex lett. c) e f bis) del comma 5
dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 – Differenza -
Individuazione.
Le ipotesi espulsive individuate
dalle lett. c) e f-bis del comma 5 dell’art. 80, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 si differenziano in senso sostanziale,
atteso che nell’ipotesi di cui al comma 5, lett. c), la
valutazione in ordine alla rilevanza in concreto ai fini
dell’esclusione dei comportamenti accertati è rimessa alla
stazione appaltante, mentre nel caso del comma 5, lett.
f-bis), l’esclusione dalla gara è atto vincolato,
discendente direttamente dalla legge, che ha la sua fonte
nella mera omissione da parte dell’operatore economico (1).
---------------
(1) Giova premettere che all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 50 l’adozione di una misura espulsiva qualora
“la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che
l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata,
non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di
un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al
risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di
influenzare indebitamente il processo decisionale della
stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai
fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare
le decisioni sull'esclusione, la selezione o
l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
La successivo lett. f-bis dello stesso comma 5 correla
l’applicazione della suddetta sanzione dell’esclusione della
gara al fatto de “l'operatore economico che presenti
nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di
subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”.
Ha chiarito la Sezione che fermo restando che, da un punta
di vista strutturale, anche l’omessa dichiarazione può
concretare un’ipotesi di dichiarazione non veritiera, il
discrimen tra le due fattispecie sembra doversi
incentrare sull’oggetto della dichiarazione, che assumerà
rilievo, ai sensi e per gli effetti di cui alla lett.
f-bis), nei soli casi di mancata rappresentazione di
circostanze specifiche, facilmente e oggettivamente
individuabili e direttamente qualificabili come cause di
esclusione a norma della disciplina in commento, ricadendosi
altrimenti –alle condizioni previste dalla corrispondete
disposizione normativa- nella previsione di cui alla
fattispecie prevista al comma 5, lett. c)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.08.2018 n. 5040 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
4.2. Il codice di contratti, per quanto di più diretto
interesse, impone, all’articolo 80, comma 5, lettera c),
l’adozione di una misura espulsiva qualora “la stazione
appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore
economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata,
non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di
un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al
risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di
influenzare indebitamente il processo decisionale della
stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai
fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare
le decisioni sull'esclusione, la selezione o
l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.
Il successivo comma f-bis correla l’applicazione della
suddetta sanzione dell’esclusione della gara al fatto de “l'operatore
economico che presenti nella procedura di gara in corso e
negli affidamenti di subappalti documentazione o
dichiarazioni non veritiere”.
Com’è noto, l’art. 80, co. 5, sopra trascritto si pone a
presidio dell'esigenza di verificare l'affidabilità morale e
professionale dell'operatore economico che andrà a contrarre
con la p.a.
La declinazione applicativa dei suindicati principi
regolatori ha trovato chiara esplicazione nelle linee guida
all’uopo confezionate dall’ANAC, che, al punto 4.2.,
precisano, tra l’altro, che “la sussistenza delle cause
di esclusione in esame deve essere autocertificata dagli
operatori economici mediante utilizzo del DGUE. La
dichiarazione sostitutiva ha ad oggetto tutti i
provvedimenti astrattamente idonei a porre in dubbio
l’integrità o l’affidabilità del concorrente, anche se non
ancora inseriti nel casellario informatico. È infatti
rimesso in via esclusiva alla stazione appaltante il
giudizio in ordine alla rilevanza in concreto dei
comportamenti accertati ai fini dell’esclusione".
Quanto poi alle possibili ricadute si è ulteriormente
chiarito in giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Sez. IV n.
703 del 2018) che, in alcuni casi, la violazione degli
obblighi dichiarativi refluisce nella categoria del cd.
illecito professionale di cui all’art. 80, comma 5, lett. c)
che, come noto, annovera, tra le altre, anche la seguente
fattispecie “il fornire, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare
le decisioni sull’esclusione, la selezione o
l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento delle procedure di selezione”.
In siffatta evenienza, l’accertamento del presupposto
necessita di una adeguata valutazione e di una congrua
motivazione da parte della stazione appaltante.
Al contempo, l’art. 80 cit., alla lettera f-bis), prevede
che le stazioni appaltanti escludono “l’operatore
economico che presenti nella procedura di gara in corso e
negli affidamenti di subappalti documentazione o
dichiarazioni non veritiere”.
Come evidenziato dal CdS, in sede di parere (numero
2042/2017), licenziato a seguito dell’Adunanza del
14.09.2017, la differenza tra le due ipotesi è sostanziale,
atteso che, nell’ipotesi di cui al comma 5, lett. c), la
valutazione in ordine alla rilevanza in concreto ai fini
dell’esclusione dei comportamenti accertati è rimessa alla
stazione appaltante, mentre nel caso del comma 5, lett.
f-bis), l’esclusione dalla gara è atto vincolato,
discendente direttamente dalla legge, che ha la sua fonte
nella mera omissione da parte dell’operatore economico.
Fermo restando che, da un punta di vista strutturale, anche
l’omessa dichiarazione può concretare un’ipotesi di
dichiarazione non veritiera, il discrimen tra le due
fattispecie sembra doversi incentrare sull’oggetto della
dichiarazione, che assumerà rilievo, ai sensi e per gli
effetti di cui alla lettera f-bis), nei soli casi di mancata
rappresentazione di circostanze specifiche, facilmente e
oggettivamente individuabili e direttamente qualificabili
come cause di esclusione a norma della disciplina in
commento, ricadendosi altrimenti –alle condizioni previste
dalla corrispondete disposizione normativa- nella previsione
di cui alla fattispecie prevista al comma 5, lettera c). |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare, con ricorso
incidentale, l’ammissione in gara del ricorrente principale.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorrente
incidentale – Impugnazione ammissione alla gara del
ricorrente principale – Dies a quo – Dalla conoscenza del
provvedimento di ammissione pubblicato sul profilo del
committente.
Il dies a quo per proporre il
ricorso incidentale avverso l’ammissione alla gara del
ricorrente principale decorre dalla conoscenza del
provvedimento di ammissione pubblicato sul profilo del
committente e non, in applicazione del principio dettato
dall’art. 42, comma 1, c.p.a., dalla notifica del ricorso
principale (1).
---------------
Contra
Cons. St., sez. III, 27.03.2018, n. 1902.
Ha chiarito la Sezione che il termine (di trenta giorni) per
la proposizione del ricorso incidentale, da parte del
concorrente che, nel quadro del rito di cui all’art. 120,
comma 2-bis c.p.a., ha subito in prevenzione l’impugnazione
di altro concorrente della propria ammissione al prosieguo
della gara (e che intenda far valere l’estromissione del
ricorrente principale) decorra non –come nella fattispecie
del ricorso incidentale ordinario di cui all’art. 42 c.p.a..- dalla ricevuta notifica del ricorso principale (che, nella
ipotesi generale, attiva e fa insorgere l’interesse ad
agire), ma dalla conoscenza, nelle forme legali,
dell’avvenuta ammissione del ricorrente principale.
La conclusione –che si discosta dal precedente di
Cons. St., sez. III, 10.11.2017, n. 5182–
conferma la riflessione della dottrina che ha messo in luce
le implicazioni, sul piano operativo, del rito
superaccelerato sul regime del c.d. ricorso incidentale
escludente.
In particolare, la presunzione assoluta di insorgenza
immediata dell’interesse a ricorrere, che discende
dall’onere di immediata impugnazione dell’art. 120, comma 2-bis, di suo conduce non solo alla successiva non configurabilità di un ricorso incidentale escludente a valle
dell’impugnazione principale dell’aggiudicazione, com’è
testualmente detto allo stesso comma 2-bis, penultimo
periodo («L’omessa impugnazione preclude la facoltà di far
valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle
procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale»);
ma anche alla non configurabilità di analogo strumento, in
senso proprio, come risposta a un ricorso immediato avverso
l’altrui ammissione proposto in base al comma 2-bis, primo
periodo, seconda parte.
Infatti, l’interesse a proporre un ricorso incidentale sorge
soltanto per effetto dell’avvenuta proposizione del ricorso
principale (art. 42, comma 1, c.p.a..: «Le parti resistenti
e i controinteressati possono proporre domande il cui
interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via
principale, a mezzo di ricorso incidentale»).
Qui la presunzione assoluta e generalizzata di interesse a
ricorrere per tutti i concorrenti anticipa figurativamente
questa insorgenza dell’interesse a ricorrere “escludente” al
momento ufficiale della conoscenza di quell’ammissione.
Sicché la medesima ragione che preclude una reiterazione nel
tempo dell’interesse a ricorrere, che si è vista per il
primo ricorso, preclude una reiterazione per quello che
altrimenti sarebbe un ricorso incidentale. Anche per
l’impresa di cui si contesta la legittimazione alla gara
opera da subito la presunzione di interesse a contestare in
giudizio l’ammissione dell’impresa che muove questa
contestazione. In forza della presunzione, simile,
simmetrico e simultaneo è il loro interesse alla reciproca
esclusione: e questo, per virtuale che sia, tiene ormai
luogo di ogni altra effettiva, successiva insorgenza di
utilità a quei medesimi riguardi.
In termini pratici segue che l’impresa che immagina
un’altrui contestazione della propria legittimazione alla
gara dispone, per muovere una simmetrica contestazione in
giustizia, dello stesso termine di trenta giorni per
ricorrere e dal medesimo dies a quo. E il suo –se segue
l’altro- non sarà comunque un ricorso incidentale, ma un
ricorso formalmente autonomo: anche se, appunto, in risposta
a un ricorso senza il quale non lo avrebbe mosso e comunque
a quello stesso connesso.
La Sezione ha rinvenuto una ulteriore conferma alla
correttezza delle proprie conclusioni nella sentenza dell’Adunanza
plenaria 26.04.2018, n. 4, la quale ha
chiarito:
a) che l’omessa attivazione del rimedio
processuale entro il termine di trenta giorni preclude al
concorrente non solo la possibilità di dedurre le relative
censure in sede di impugnazione della successiva
aggiudicazione, ma anche di paralizzare, mediante lo
strumento del ricorso incidentale, il gravame principale
proposto da altro partecipante avverso la sua ammissione
alla procedura;
b) che una diversa lettura non potrebbe
trarre contrario argomento dal comma 6-bis dell’art. 120
cit. («La camera di consiglio o l’udienza possono essere
rinviate solo in caso di esigenze istruttorie, per integrare
il contraddittorio, per proporre motivi aggiunti o ricorso
incidentale») che, nel contemplare espressamente la
possibilità di proporre ricorsi incidentali, potrebbe far
propendere, a una prima lettura, per la permanenza del
potere di articolare in sede di gravame incidentale, vizi
afferenti l’ammissione alla gara del ricorrente principale
anche dopo il decorso del termine fissato dal comma 2-bis.
Invero, in senso contrario, va osservato che detta
disposizione si riferisce, in realtà, ai gravami incidentali
che hanno ad oggetto non vizi di legittimità del
provvedimento di ammissione alla gara, ma un diverso oggetto
(es. lex specialis ove interpretata in senso presupposto
dalla ricorrente principale): diversamente opinando, si
giungerebbe alla conclusione non coerente con il disposto di
cui al comma 2-bis di consentire l’impugnazione
dell’ammissione altrui oltre il termine stabilito dalla
novella legislativa.
Per tal via si violerebbe il comma
2-bis e la ratio sottesa al nuovo rito specialissimo che,
come sottolineato in sede consultiva dal Consiglio di Stato
(parere n. 782/2017 sul decreto correttivo al Codice degli
appalti pubblici) è anche quello di “neutralizzare per
quanto possibile […] l’effetto “perverso” del ricorso
incidentale (anche in ragione della giurisprudenza
comunitaria e del difficile dialogo con la Corte di
Giustizia in relazione a tale istituto)”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.08.2018 n. 5036 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ancora alla Corte di giustizia Ue l’esclusione dalla gara
per grave illecito professionale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Grave illecito professionale – Art. 80, comma
5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2018 – Conseguente risoluzione
anticipata di un contratto d’appalto – Esclusione solo se la
risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un
giudizio – Compatibilità con la disciplina comunitaria –
Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia UE la questione se il diritto dell’Unione europea
e, precisamente, l’art. 57, par. 4, della Direttiva
2014/24/UE sugli appalti pubblici, unitamente al
Considerando 101 della medesima Direttiva e al principio di
proporzionalità e di parità di trattamento ostano ad una
normativa nazionale, quale l’art. 80, comma 5, lett. c),
d.lgs. 18.04.2018, n. 50, che, definita quale causa di
esclusione obbligatoria di un operatore economico il “grave
illecito professionale”, stabilisce che, nel caso in cui
l’illecito professionale abbia causato la risoluzione
anticipata di un contratto d’appalto, l’operatore può essere
escluso solo se la risoluzione non è contestata o è
confermata all’esito di un giudizio (1).
---------------
(1) La questione era già stata rimessa da
Cons. St., sez. V, ord., 03.05.2018, n. 2639.
Ha chiarito la Sezione che la norma interna fa dipendere
dalla scelta dell’operatore economico –se impugnare la
risoluzione in giustizia– la decisione
dell’amministrazione; a fronte di “gravi illeciti
professionali” simili, allora, un operatore sarà escluso in
quanto non ha proposto impugnazione giurisdizionale della
risoluzione e l’altro, per averla proposta, non potrà essere
escluso.
I principi di proporzionalità e di parità di trattamento
sono principi dei quali gli Stati membri devono tener conto
nell’aggiudicazione degli appalti pubblici (Considerando n.
1 e 2 della Direttiva 2014/24/UE; sul principio di parità di
trattamento, cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea
sentenza 16.12.2008 in causa C-213/07, Michaniki AE).
Ha ricordato la sezione che nella sentenza relativa alla
causa C-171/15, Connexxition taxi service in cui la
normativa europea rilevante era l’art. 45, par. 2, della
Direttiva, 2004/18/CE, del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004 la Corte di Giustizia
dell’Unione europea, la Corte di Giustizia dell’Unione
europea ha affermato: “il diritto dell’Unione, in
particolare era l’art. 45, par. 2, della direttiva 2004/18,
non osta a che una normativa nazionale, come quella di cui
al procedimento principale, obblighi un’amministrazione aggiudicatrice a valutare, applicando il principio di
proporzionalità, se debba essere effettivamente escluso un
offerente in una gara d’appalto pubblico che ha commesso un
grave errore nell’esercizio della propria attività
professionale”.
L’art. 45, par. 2 non era distante
dall’attuale formulazione dell’art. 57, par. 4 della
Direttiva 2014/24/UE perché prevedeva l’esclusione
facoltativa dell’operatore economico “che, nell'esercizio
della propria attività professionale, abbia commesso un
errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova
dall'amministrazione aggiudicatrice”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 23.08.2018 n. 5033 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Documenti, segretezza da motivare.
L'esistenza di un'indagine penale non implica la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi
con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto
il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al
diritto di accesso. E per rendere un atto riservato è sempre necessaria una
motivazione che chiarisca le ragioni alla base della segretezza.
È quanto stabilito dal
TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 23.08.2018 n. 1737.
Secondo i giudici amministrativi siciliani soltanto gli atti di indagine
compiuti dal pm e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall'obbligo di
segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 del codice di
procedura penale.
Gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche
se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di
accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria.
Tali atti, dunque, ha chiarito il Tar, restano
nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno
specifico provvedimento di sequestro da parte dell'autorità giudiziaria, con
la conseguenza che non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, il
diritto di accesso garantito all'interessato dall'art. 22 della legge n.
241/1990, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di esclusione di cui all'art.
24 della medesima legge.
Il Tar Catania ha anche chiarito che per secretare un atto è sempre
necessaria una motivazione che faccia comprendere le concrete ragioni (senza
alcuna necessità, ovviamente, di divulgazione) per le quali i documenti
richiesti siano stati classificati come «riservati», non potendosi ritenere
sufficiente il mero rinvio alla normativa regolante la materia, trasfusa nel
decreto del presidente del consiglio dei ministri 06.11.2015, n. 5 (articolo
ItaliaOggi del 25.08.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso agli atti classificati “riservati”.
---------------
Accesso ai documenti - Documenti classificati “riservati”
– Motivazione sulla riservatezza – Necessità.
In tema di accesso agli atti di
documenti ritenuti riservati, la Prefettura che forma il
documento classifica il documento e/o le parti dello stesso
da ritenere “Riservato”, attenendosi alle direttive
contenute nell’all.to D del d.P.C.M. 12.06.2009, n. 7 o
rinvenendo altre assimilabili ipotesi; ciò implica una
motivazione puntuale, che faccia comprendere le concrete
ragioni (senza alcuna necessità, ovviamente, di
divulgazione) per le quali i documenti richiesti siano stati
classificati come “riservati”, non potendosi ritenere
sufficiente il mero rinvio alla normativa regolante la
materia, trasfusa nel d.P.C.M. 06.11.2015, n. 5 (1).
---------------
(1)
Ha aggiunto la Sezione che l'esistenza di un'indagine penale
non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli
atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare
connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per
i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da
segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché
gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di
attività di vigilanza, controllo e di accertamento di
illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella
disponibilità dell'amministrazione fintanto che non
intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte
dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei
loro confronti, l'accesso garantito all'interessato
dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 23.08.2018 n. 1737 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
II. Con il provvedimento impugnato, il Prefetto di Catania
ha negato l’accesso poiché il “verbale della -OMISSIS-
documenti e pareri acquisiti nonché la relazione del
Procuratore Generale della Repubblica presso il Tribunale di
Palermo - hanno carattere riservato ai sensi del D.P.C.M.
del 06.11.2015 n. 5 recante “Disposizioni per la tutela
amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni
classificate a diffusione esclusiva” e, come tali, sono
sottratti all’accesso …”.
Parte ricorrente manifesta, in ricorso (coerentemente con la
sintetica istanza di accesso, nella quale si fa riferimento
al “rischio alla persona” e alle “misure di
protezione” asseritamente vulnerate, nonché, in sede di
ricorso alla Commissione per l’accesso, al “bene vita”
e alla sua “sicurezza”) l’interesse alla tutela della
sua incolumità, mentre, poi, in sede di memoria conclusiva,
precisa ancora meglio che il diniego costituirebbe un vulnus
anche alle sue funzioni.
Premette il Collegio che, in ragione delle motivazioni
personali espresse nelle istanze, non può considerarsi, ove
mai fondata, la censura relativa all’illegittimità del
diniego di accesso in ragione delle funzioni svolte dal
ricorrente.
Vero è che l’art. 3, comma 2, del Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 06/11/2015, n. 5 stabilisce che “l'accesso
alle informazioni classificate è consentito soltanto alle
persone che, fermo restando il possesso del NOS quando
richiesto, hanno necessità di conoscerle in funzione del
proprio incarico”, ma, in disparte l’assenza del NOS,
tali esigenze non sono state, si ribadisce, evidenziate
nelle istanze, essendo state introdotte altre ragioni,
assolutamente comprensibili, ma di natura strettamente
personale, seppur collegate all’Ufficio ricoperto.
Ciò posto, va ricostruita la complessa normativa posta a
presidio della tutela dei documenti “riservati”, cui
il Prefetto di Catania si è riferito per negare l’accesso.
In termini generali, l’art. 24 della l. 241/1990, nella
parte di interesse, stabilisce: “1. Il diritto di accesso
è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge
24.10.1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi
di segreto o di divieto di divulgazione espressamente
previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al
comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma
2 del presente articolo.
... 6. Con regolamento, adottato ai sensi dell'articolo 17,
comma 2, della legge 23.08.1988, n. 400 , il Governo può
prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti
amministrativi:
... c) quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi,
le dotazioni, il personale e le azioni strettamente
strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla
prevenzione e alla repressione della criminalità con
particolare riferimento alle tecniche investigative, alla
identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei
beni e delle persone coinvolte, all'attività di polizia
giudiziaria e di conduzione delle indagini.
7. Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso
ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel
caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari,
l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente
indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del
decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 , in caso di dati
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
Con decreto ministeriale 10.05.1994, n. 41 (recante il
regolamento del Ministero dell’Interno per la disciplina
delle categorie di documenti sottratti all'accesso ai
documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma
4 -ora comma 6-, della l. n. 241 del 1990), all’art. 3,
lett. b), del comma 1, vengono sottratte all’accesso “le
relazioni di servizio, informazioni ed altri atti o
documenti inerenti ad adempimenti istruttori relativi a
licenze, concessioni od autorizzazioni comunque denominate o
ad altri provvedimenti di competenza di autorità o organi
diversi, compresi quelli relativi al contenzioso
amministrativo, che contengono notizie relative a situazioni
di interesse per l'ordine e la sicurezza pubblica e
all'attività di prevenzione e repressione della criminalità,
salvo che, per disposizioni di legge o di regolamento, ne
siano previste particolari forme di pubblicità o debbano
essere uniti a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità;".
La Giurisprudenza (cfr. TAR Bari, III, 06.02.2018, n. 151)
ha condivisibilmente precisato che <<la norma in esame debba
essere interpretata in senso non strettamente letterale,
giacché altrimenti sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità,
in quanto si determinerebbe una sottrazione sostanzialmente
generalizzata alle richieste ostensive di quasi tutti i
documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con
palese frustrazione delle finalità perseguite dalla l. n.
241 del 1990>> (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 06.10.2010, n.
1653; id., 15.10.2009, n. 949).
Con specifico riferimento alla lett. b) dell'art. 3, comma
1, del d.m. n. 415 cit., sussiste "l'esigenza di evitare
che, stante l'ampia formulazione della previsione stessa,
essa si traduca in una sottrazione indiscriminata e
generalizzata all'accesso di una grandissima parte dei
documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno. Donde
la necessità che la clausola escludente ex art. 3, comma 1,
lett. b), del D.M. n. 415 del 1994, operi a sua volta, quale
causa di giustificazione del diniego di accesso, in presenza
di quelle situazioni ed esigenze -strumentali alla tutela
dell'ordine pubblico ed alla repressione della criminalità-
elencate dall'art. 24, comma 6, lett. c), della l. n.
241/1990" (TAR Latina, sez. I, sent. 262 del
02.04.2012).
<<Inoltre, la disposizione regolamentare di cui all'art.
3, comma 1, lett. b), del D.M. n. 415 del 1994 va coordinata
con quella generale dettata dall'art. 8, comma 2, del D.P.R.
n. 352 del 1992, secondo cui "I documenti non possono essere
sottratti all'accesso se non quando essi siano suscettibili
di recare un pregiudizio concreto agli interessi indicati
nell'art. 24 della legge 07.08.1990, n. 241">>.
<<E' stato osservato in proposito che "l'inaccessibilità
generalizzata delle categorie di atti di cui al citato art.
3, comma 1, lett. b), del D.M., a prescindere dalla
verifica, in concreto, dell'incompatibilità dell'accesso con
la tutela della riservatezza prevista dalle norme
sovraordinate, risulterebbe in insanabile contrasto con
queste ultime e imporrebbe la disapplicazione della
disciplina ministeriale (in senso conforme cfr. TAR Liguria,
sez. II, 06.02.2013 n. 241)" (TAR Toscana sez. II, sent.
2122 del 23.12.2014)>>.
Il Prefetto di Catania, però, come chiarito, ha individuato
la fonte di riservatezza nel D.P.C.M. del 06.11.2015 n. 5.
L’art. 42 della legge 03.08.2007, n. 124, stabilisce che: “1.
Le classifiche di segretezza sono attribuite per
circoscrivere la conoscenza di informazioni, documenti,
atti, attività o cose ai soli soggetti che abbiano necessità
di accedervi [e siano a ciò abilitati] in ragione delle
proprie funzioni istituzionali.
1-bis. Per la trattazione di informazioni classificate
segretissimo, segreto e riservatissimo è necessario altresì
il possesso del nulla osta di sicurezza (NOS).
2. La classifica di segretezza è apposta, e può essere
elevata, dall'autorità che forma il documento, l'atto o
acquisisce per prima la notizia, ovvero è responsabile della
cosa, o acquisisce dall'estero documenti, atti, notizie o
cose.
3. Le classifiche attribuibili sono: segretissimo, segreto,
riservatissimo, riservato. Le classifiche sono attribuite
sulla base dei criteri ordinariamente seguiti nelle
relazioni internazionali.
4. Chi appone la classifica di segretezza individua,
all'interno di ogni atto o documento, le parti che devono
essere classificate e fissa specificamente il grado di
classifica corrispondente ad ogni singola parte”.
L’art. 3, del predetto D.P.C.M. del 06.11.2015 n. 5,
stabilisce che “l'accesso alle informazioni classificate
è consentito soltanto alle persone che, fermo restando il
possesso del NOS quando richiesto, hanno necessità di
conoscerle in funzione del proprio incarico”.
Si è già detto che la disposizione non è applicabile al caso
in esame.
L’art. 4 prevede che “in applicazione dell'art. 42, commi
1 e 3, della legge, le classifiche sono attribuite:
a) per circoscrivere la conoscenza di informazioni, documenti,
atti, attività o cose ai soli soggetti che abbiano necessità
di accedervi;
b) sulla base dei criteri ordinariamente seguiti nelle relazioni
internazionali, applicabili, per motivi convenzionali e ai
fini dell'analisi del rischio di cui all'art. 3, comma 1,
lettera s).
2. Le classifiche assicurano la tutela amministrativa di
informazioni, documenti, atti, attività o cose la cui
diffusione non autorizzata sia idonea a recare un
pregiudizio agli interessi fondamentali della Repubblica.
3. La classifica SEGRETISSIMO è attribuita a informazioni,
documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non
autorizzata sia idonea ad arrecare un danno eccezionalmente
grave agli interessi essenziali della Repubblica.
4. La classifica SEGRETO è attribuita a informazioni,
documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non
autorizzata sia idonea ad arrecare un danno grave agli
interessi essenziali della Repubblica.
5. La classifica RISERVATISSIMO è attribuita a informazioni,
documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non
autorizzata sia idonea ad arrecare un danno agli interessi
essenziali della Repubblica.
6. La classifica RISERVATO è attribuita a informazioni,
documenti, atti, attività o cose la cui diffusione non
autorizzata sia idonea ad arrecare un danno lieve agli
interessi della Repubblica.
7. Le tabelle A, B, C e D allegate al presente regolamento
individuano l'ambito dei singoli livelli di classifica, i
soggetti cui è conferito il potere di classifica e le
materie che possono essere oggetto di classifica, tra le
quali quelle elencate nella colonna 3 delle tabelle stesse”.
Emerge, quindi, che per i documenti classificati come
riservati, la diffusione non autorizzata determina un danno
lieve agli interessi della Repubblica.
L’art. 19 del medesimo dpcm stabilisce che “1. Le
classifiche di segretezza SEGRETISSIMO (SS), SEGRETO (S),
RISERVATISSIMO (RR) e RISERVATO (R), di cui all'art. 42
della legge, assicurano la tutela prevista dall'ordinamento
di informazioni la cui diffusione sia idonea a recare un
pregiudizio agli interessi della Repubblica e sono
attribuite per le finalità e secondo i criteri stabiliti
dall'art. 4 del decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri n. 7 del 12.06.2009”.
Le finalità, quindi, vanno rinvenute, nel caso di specie,
all’all. D di tale decreto.
L’all. D, dopo aver premesso questi principi, elenca un
numero rilevante di casi, nei quali non rientra la
fattispecie in esame.
Tuttavia, alla colonna 3, in premessa, si avverte che
l’elenco non è esaustivo, sicché, debitamente la Prefettura
può autonomamente valutare che l’ostensione possa
determinare la lesione degli interessi (lievi), ove
indiscriminatamente ostesi.
In somma sintesi,
l’Autorità che forma il documento (la
Prefettura) classifica il documento e/o le parti dello
stesso da ritenere “Riservati”, attenendosi a tali
direttive o rinvenendo altre assimilabili ipotesi.
Ciò implica una motivazione puntuale, che faccia comprendere
le concrete ragioni (senza alcuna necessità, ovviamente, di
divulgazione) per le quali i documenti richiesti siano stati
classificati come “riservati”.
Nella relazione della Prefettura alla Commissione per
l’accesso, si precisa che vi sarebbero anche “atti di
natura giudiziaria in ambito processuale non ancora definito”.
Parte ricorrente invoca un precedente di questo Tribunale (cfr.
TAR Catania, III, 01.02.2017, n. 229), che il Collegio
condivide e secondo il quale <<l'esistenza di un'indagine
penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti
gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano
risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli
atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli
coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di
accesso (cfr. TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014).
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché
gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di
attività di vigilanza, controllo e di accertamento di
illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella
disponibilità dell'amministrazione fintanto che non
intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte
dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei
loro confronti, l'accesso garantito all'interessato
dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990>>.
Nel caso di specie, come premesso, per quanto riferito nella
relazione della Prefettura alla Commissione per l’accesso,
le relazioni (atti amministrativi) conterebbero
imprescindibili riferimenti a fasi istruttorie di natura
penale non chiuse e, quindi, sottratte all’accesso.
Né viene indicata una diversa (o ulteriore) motivazione
concreta per la quale quanto richiesto sia classificabile
come riservato.
Si deve osservare che i provvedimenti impugnati sono,
quindi, affetti da difetto di motivazione, poiché, quanto
meno, le ragioni concrete emergono (in parte) nella fase
successiva alla loro adozione e dagli stessi non sono
richiamate espressamente.
La censura sia pure in maniera sintetica è contenuta in
ricorso, nella misura in cui parte ricorrente si duole della
circostanza secondo la quale “l’amministrazione ha errato
anche perché nell’eccepire la rilevanza del tema della
riservatezza si è disfatta dell’istanza di accesso senza
alcuna valutazione comparativa con le esigenze anteposte dal
richiedente, affermando (implicitamente) la prevalenza di
queste ultime acriticamente ed immotivatamente”.
Consegue l’accoglimento del ricorso, facendo obbligo
all’Amministrazione di rideterminarsi, consentendo l’accesso
o negandolo mediante motivazione coerente con i principi
sopra indicati.
|
VARI: Il
cliente va avvisato se il cibo è congelato
Commette il reato di frode in commercio il ristoratore che mette nel piatto
prodotti congelati senza darne piena evidenza al cliente. Non è sufficiente
una postilla generica nel menu, ma è necessario l'impiego di elementi
grafici quali per esempio «asterischi a fianco dei prodotti» o una «apposita
avvertenza collocata in grassetto prima della lista delle pietanze e non già
relegata, con carattere minuscolo, a margine delle pagine di presentazione
del locale».
A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 22.08.2018 n. 38793, che ha confermato la condanna a 4
mesi di reclusione a carico di un ristoratore milanese.
A giudizio degli ermellini, la fattispecie di frode nell'esercizio del
commercio sancita dall'articolo 515 del codice penale si è concretizzata
poiché il sistema di informazione al cliente organizzato dal gestore «non
era sufficiente a garantire la qualità del prodotto venduto (fresco,
surgelato o congelato)».
Non basta nemmeno il fatto che il personale di sala era stato addestrato per
offrire tutte le delucidazioni del caso, in quanto ciò presupponeva «l'iniziativa
del cliente, il quale doveva essere ben accorto» (articolo
ItaliaOggi del 23.08.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Lavori,
la p.a. risponde in solido. Se il danno causato dall’appaltatore deriva dal
progetto. La Cassazione rigetta la sentenza
d’appello che aveva escluso la responsabilità dell’Anas.
Il committente risponde in solido con l'appaltatore per i danni cagionati
nella fase di esecuzione di un progetto approvato dalla pubblica
amministrazione.
Lo ha stabilito la I Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza
22.08.2018 n. 20942, che ha accolto il ricorso di un'azienda
sanitaria locale contro l'Anas, rea di aver arrecato danni, tramite
un'impresa appaltatrice, a un edificio di proprietà della Asl nel corso dei
lavori di realizzazione della variante sulla SS80.
Gli Ermellini hanno cassato con rinvio la sentenza con cui il 27.02.2013 la
Corte d'appello de L'Aquila aveva rigettato la domanda di risarcimento danni
avanzata dall'azienda sanitaria, sollevando l'Anas da ogni imputazione.
Secondo i giudici abruzzesi, infatti, la condotta dell'Anas, che pure, come
emerso dalle risultanze istruttorie, «aveva approvato un progetto esecutivo
dei lavori inadeguato sotto vari profili tecnici», non poteva essere
considerata causa o concausa del danno, «essendo assorbente la
responsabilità dell'appaltatore per non avere adottato gli accorgimenti
necessari ad evitare danni ai terzi, per avere redatto un progetto
costruttivo che non aveva sanato le carenze del progetto esecutivo e per non
avere proposto l'adozione di varianti migliorative».
Pur nella consapevolezza che la giurisprudenza di legittimità considera «di
regola» l'appaltatore di opere pubbliche «unico responsabile dei danni
cagionati a terzi nel corso dei lavori» (poiché i limiti alla sua autonomia,
derivanti dall'obbligatorietà della nomina del direttore dei lavori e dalla
intensa e continua ingerenza dell'amministrazione appaltante «non fanno
venir meno il dovere di assumere le iniziative necessarie per la corretta
attuazione del contratto anche a tutela dei diritti dei terzi»), il collegio
giudicante ha ritenuto che non possa essere esclusa la responsabilità
«concorrente e solidale» dell'amministrazione committente «quando il fatto
dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del progetto da essa
approvato».
La responsabilità esclusiva della p.a., invece, scatta solo allorquando
l'ente «abbia rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da
neutralizzare completamente la sua libertà di decisione».
«Di questi principi la sentenza impugnata non ha fatto corretta
applicazione», hanno concluso gli Ermellini, in quanto è stato escluso che
il comportamento di Anas, per avere approvato un progetto esecutivo
riconosciuto come inadeguato e per non aver adeguatamente vigilato
sull'andamento lavori, sia stato concausa dell'evento dannoso (articolo
ItaliaOggi del 23.08.2018).
---------------
MASSIMA
I motivi in esame sono fondati.
La Corte territoriale ha ritenuto che il comportamento dell'ANAS, che pure
aveva approvato un progetto esecutivo dei lavori inadeguato sotto vari
profili tecnici, non fosse stato causa o concausa del danno, essendo
assorbente la responsabilità dell'appaltatore per non avere adottato gli
accorgimenti necessari ad evitare danni ai terzi, per avere redatto un
progetto costruttivo che non aveva sanato le carenze del progetto esecutivo
e per non avere proposto l'adozione di varianti migliorative.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito il principio secondo
cui l'appaltatore di opere pubbliche è di regola da
considerarsi unico responsabile dei danni cagionati ai terzi nel corso dei
lavori, poiché i limiti della sua autonomia (derivanti dalla obbligatorietà
della nomina del direttore dei lavori e dalla intensa e continua ingerenza
dell'amministrazione appaltante) non fanno venir meno il suo dovere di
assumere le iniziative necessarie per la corretta attuazione del contratto
anche a tutela dei diritti dei terzi; e tuttavia, la responsabilità
concorrente e solidale dell'amministrazione committente non può essere
esclusa quando il fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del
progetto da essa approvato, mentre una sua responsabilità esclusiva resta
configurabile solo allorquando essa abbia rigidamente vincolato l'attività
dell'appaltatore, così da neutralizzare completamente la sua libertà di
decisione (Cass. n. 11356/2002, n.
8802/1999).
Di questi principi la sentenza impugata non ha fatto corretta applicazione
nel caso in esame, avendo escluso, in astratto, che il comportamento dell'ANS
per avere approvato un progetto esecutivo riconosciuto come inadeguato, e
per non avere adeguatamente vigilato sull'andamento dei lavori, possa
considerarsi concausa dell'evento dannoso, ai fini del riconoscimento della
sua responsabilità concorrente con l'appaltatore. |
EDILIZIA PRIVATA: Appaltante,
indennizzi con Iva. Importi a titolo di arricchimento ingiustificato
tassati. Cassazione: non rileva che l’appaltatore abbia o meno versato
l’imposta all’erario.
Si applica l'Iva sugli importi dovuti a titolo di
arricchimento ingiustificato. Per questo motivo, nel determinare
l'indennizzo che l'appaltatore deve versare all'appaltante a ristoro del
danno subito, è necessario tenere conto anche dell'imposta, a prescindere
dal fatto che l'esecutore dei lavori la abbia versata o meno all'erario.
Queste le conclusioni alle quali è
pervenuta la III Sez. civile della Corte di Cassazione, con la
ordinanza 22.08.2018 n. 20884.
Il contenzioso vedeva coinvolto un artigiano che aveva svolto dei lavori
edili nell'abitazione di una coppia nel 1998. La vicenda era finita in
tribunale a seguito di contrasti sul pagamento degli importi pattuiti.
I due gradi di merito facevano emergere un indebito arricchimento del
soggetto prestatore, ai sensi dell'articolo 2041 del codice civile, in
quanto le opere concernevano un'opera abusiva e quindi il contratto era da
ritenersi nullo. Pertanto, in presenza di un arricchimento non sorretto da
giusta causa, i magistrati disponevano un indennizzo pari alla diminuzione
patrimoniale ingiustamente subita dai committenti. Ma la quantificazione era
controversa, in relazione soprattutto al conteggio o meno dell'Iva.
Secondo la Cassazione è indubbio che l'Iva «debba essere applicata anche
sugli importi dovuti a titolo di arricchimento ingiustificato».
Nell'ipotesi in esame, alla luce della nullità del contratto, il
risarcimento previsto dall'articolo 2041 c.c. «va liquidato nei limiti della
diminuzione patrimoniale subita dall'appaltatore», che è costituita «anche
dalla quota di onere rappresentata dall'Iva e questo indipendentemente se vi
sia stato o meno l'accertamento da parte della Gdf, poiché si tratta di un
onere al quale per legge il prestatore è tenuto ed è irrilevante per i
committenti la circostanza che esso abbia o meno corrisposto l'Iva».
Pertanto la misura del ristoro sarà pari a tutto ciò che eccede «sia la voce
relativa ai meri costi, esclusa ogni ipotesi di guadagno, sia la voce
relativa alle spese per imposta diretta quale voce di costo del
depauperamento» (articolo
ItaliaOggi del 23.08.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Statali,
niente doppi incarichi. Licenziamento legittimo anche in caso di inerzia del
datore. Per la Cassazione la reiterata violazione del divieto di cumulo
giustifica la sanzione.
Il licenziamento del dipendente pubblico per
violazione del divieto di cumulo degli incarichi è legittimo anche in caso
di inerzia da parte del datore di lavoro nel reprimere il comportamento
contrario ai doveri di ufficio. Semaforo verde, dunque, al licenziamento del
dirigente medico che aveva svolto, senza la preventiva autorizzazione del
datore di lavoro, l'incarico di medico penitenziario per due anni,
percependo compensi annuali superiori a 100 mila euro.
Lo ha deciso la sezione lavoro della Corte di Cassazione nella
sentenza 21.08.2018 n. 20880.
Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso del medico sanzionato confermando
la sentenza con cui la Corte d'appello di Firenze aveva a sua volta ritenuto
legittima la decisione di primo grado sul licenziamento. I giudici di primo
grado avevano infatti ritenuto l'allontanamento dai ruoli della p.a. per
cumulo degli incarichi una sanzione «proporzionata all'addebito contestato»
nonostante essa non sia espressamente prevista nell'elencazione dell'art.
55-quater del dlgs 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego).
Infatti,
hanno chiarito gli Ermellini, «le fattispecie tipizzate dell'art. 55-quater
non costituiscono un numero chiuso, in quanto lo stesso legislatore ha
mantenuto ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o
per giustificato motivo e ha fatto salve le ulteriori ipotesi previste dai
contratti collettivi».
La Cassazione ha smontato tutti i motivi di ricorso sollevati dal medico, a
cominciare da quello basato sulla presunta falsa applicazione dell'art. 2
legge n. 740/1970. Tale norma afferma che le prestazioni dei medici
incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena non integrano un
rapporto di pubblico impiego, bensì una prestazione d'opera professionale
«caratterizzata dagli elementi tipici della parasubordinazione». La Corte ha
riconosciuto che la disposizione esclude l'obbligo di esclusività («anche al
fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all'incarico, in
considerazione della peculiare natura dello stesso»).
Ma da ciò, puntualizza il collegio presieduto dal giudice Antonio Manna,
«non si possono trarre le conseguenze pretese dal ricorrente perché la norma
non incide sulla disciplina di rapporti diversi da quello al quale si
riferisce e, pertanto, non conferisce al medico incaricato il diritto a
cumulare l'incarico con qualsiasi altra attività, prescindendo dai requisiti
che per quest'ultima il legislatore richiede». «Il distinto rapporto che
viene in rilievo», ha proseguito la Cassazione, «resta soggetto alle regole
sue proprie, sicché, ove lo stesso sia caratterizzato dall'esclusività,
l'obbligo resta immutato e non rileva che l'incarico ulteriore che si
pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della legge n.
740/1970».
Gli Ermellini hanno contestato anche l'altra affermazione del ricorrente,
secondo cui l'inerzia del datore di lavoro l'avrebbe convinto della liceità
della condotta posta in essere. In continuità con quanto recentemente
affermato, sempre in materia di divieto di cumulo di impieghi, con la
sentenza n. 8722/2017, la Corte ha evidenziato che «nell'impiego pubblico contrattualizzato, il principio di obbligatorietà dell'azione disciplinare
esclude che l'inerzia del datore di lavoro posso far sorgere un legittimo
affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con
precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla
contrattazione collettiva».
L'inerzia, secondo la Cassazione, può rilevare
solo quale causa di decadenza dall'esercizio dell'azione, «ma non può mai
fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata».
Non resta quindi che concludere per la legittimità del licenziamento, stante
la reiterata violazione, compiuta dal medico, del divieto di cumulo, di cui
all'art. 53 del T.U. Una condotta che ai sensi dello stesso dlgs 165/2001
assume rilevanza disciplinare tale da giustificare il recesso, giacché
«l'obbligo di esclusività ha particolare rilievo nella disciplina del
rapporto e trova il suo fondamento costituzionale nell'art. 98 Cost.»
(articolo
ItaliaOggi del 22.08.2018). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara e soccorso istruttorio in caso di
omessa allegazione, alla dichiarazione sostitutiva dell’atto
di notorietà, del documento di identità del dichiarante.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio - Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
– Allegazione copia fotostatica del documento di identità
del dichiarante – Omissione – Esclusione dalla gara –
Obbligo di soccorso istruttorio – Non sussiste.
Ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, l’omessa allegazione alla dichiarazione sostitutiva
dell’atto di notorietà –che, in applicazione della lex
specialis di gara, doveva essere allegata all’offerta
tecnica per attestarne un requisito- della copia
fotostatica del documento di identità del dichiarante
determina l’esclusione dalla gara del concorrente, perché
non può essere sanata né con l’utilizzo del documento
depositato nella busta contenente la documentazione
amministrativa né con il soccorso istruttorio, essendo volta
a dare legale autenticità alla sottoscrizione apposta in
calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia
all'autocertificazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che l’allegazione della copia
fotostatica del documento del sottoscrittore della
dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell'art.
38, d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto
a conferire –in considerazione della sua introduzione come
forma di semplificazione– legale autenticità alla
sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e
giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta pertanto di un elemento integrante della
fattispecie normativa, teso a stabilire, data l’unità della
fotocopia sostitutiva del documento di identità e della
dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la
dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle
generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della
dichiarazione al soggetto che la presta (Cons. St., sez. VI,
02.05.2011, n. 2579).
L'assenza della copia fotostatica del documento di identità
non determina, pertanto, una mera incompletezza del
documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della
stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o
chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica
inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al
principio della par condicio e della parità di
trattamento tra le imprese partecipanti, l'impresa deve
essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.08.2018 n. 4059 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
Venendo ora al primo motivo dell’appello iscritto al numero
di registro generale 7737 del 2017, con esso si censura la
sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato
l’esclusione dell’appellante dalla procedura di gara per non
aver allegato alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà (di cui al paragrafo 6, punto 2 del disciplinare)
la copia fotostatica del documento di identità del
dichiarante.
Ad avviso dell’appellante, nel caso di specie non sarebbero
revocabili in dubbio né la provenienza, né l’ascrivibilità
al legale rappresentante dell’impresa partecipante alla gara
del documento oggetto di autocertificazione; né la carenza
sarebbe stata tale da incidere sulla regolarità e
legittimità della dichiarazione, non trattandosi di mancanza
afferente ad elementi di carattere tecnico.
In ogni caso, né il disciplinare di gara, né gli artt. 38 e
47 del d.P.R. n. 445 del 2000 prevedono espressamente alcuna
sanzione automatica di esclusione della concorrente dalla
gara nell’ipotesi di mancanza della copia fotostatica del
documento di identità del dichiarante (laddove, per contro,
la dichiarazione sostitutiva e l’allegazione del documento
di identità costituirebbero adempimenti distinti, aventi una
funzione diversa, sebbene complementare).
L’irregolarità riscontrata avrebbe dunque carattere
meramente formale, ragion per cui la stazione appaltante,
prima di procedere all’esclusione, avrebbe dovuto richiedere
l’integrazione del documento mancante o comunque dei
chiarimenti, anche in ossequio ai principi di economicità ed
efficacia dell’attività amministrativa nonché di massima
partecipazione e di proporzionalità.
Il motivo non è fondato, dovendosi confermare il principio
di cui al precedente di Cons. Stato, V, 26.03.2012, n.
1739 –dal quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso di
specie, a mente del quale l’allegazione della copia
fotostatica del documento del sottoscrittore della
dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell'art.
38 d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto
a conferire –in considerazione della sua introduzione come
forma di semplificazione– legale autenticità alla
sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e
giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta pertanto di un elemento integrante della
fattispecie normativa, teso a stabilire, data l’unità della
fotocopia sostitutiva del documento di identità e della
dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la
dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle
generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della
dichiarazione al soggetto che la presta (ex multis, Cons.
Stato, VI, 02.05.2011, n. 2579; VI, 04.06.2009, n.
3442; V, 07.11.2007, n. 5761; 11.05.2007, n. 2333).
L'assenza della copia fotostatica del documento di identità
non determina, pertanto, una mera incompletezza del
documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della
stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o
chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica
inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al
principio della par condicio e della parità di trattamento
tra le imprese partecipanti, l'impresa deve essere esclusa
per mancanza della prescritta dichiarazione.
Tale omissione, per espressa disposizione di legge (art. 83,
comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016), non poteva essere sanata
con il soccorso istruttorio, né con “l’utilizzo” del
documento depositato nella busta contenente la
documentazione amministrativa, come ipotizzato
dall’appellante. |
APPALTI SERVIZI:
Non profit, l’affidamento è appalto.
A meno che non sia gratuito o con procedure non selettive.
Il Cds ha sciolto ogni dubbio sui rapporti tra il codice dei contratti e
quello del Terzo settore.
Le
procedure di affidamento alle associazioni regolate dagli articoli 56-58 del
codice del Terzo settore sono da considerare veri e propri appalti di
servizi sociali e rientrano nella disciplina del codice dei contratti. A
meno che non si tratti di procedure non selettive o che gli affidamenti
siano inequivocabilmente a titolo gratuito.
Il Consiglio di Stato, col
parere 20.08.2018 n. 2052 della commissione speciale reso all'Anac nella procedura di aggiornamento delle linee guida
per l'affidamento dei servizi ad enti del terzo settore ed ai servizi
sociali, elimina ogni equivoco sui rapporti tra il codice dei contratti (dlgs
50/2016) e codice del terzo settore (dlgs 117/2017) in tema di affidamento
dei servizi: nel rispetto dei principi enunciati dai trattati e direttive
europee sulla concorrenza, prevale il codice dei contratti.
Il parere suona come una doccia fredda per le molte amministrazioni,
soprattutto locali, che avevano scorto nelle disposizioni del codice del
terzo settore la possibilità di affidamenti di servizi sociali senza gara ad
associazioni di volontariato. Il Consiglio di stato evidenzia che, invece,
occorre nella maggior parte dei casi attivare le procedure selettive imposte
dal codice dei contratti.
Non basta, infatti, che i soggetti destinatari di affidamenti pubblici siano
soggettivamente qualificabili come enti del Terzo settore. Se la prestazione
richiesta ha rilevanza economica nel mercato, le caratteristiche soggettive
dell'affidatario non rilevano, posto che, per palazzo Spada, per impresa
deve intendersi l'organismo «che esercita un'attività economica, offrendo
beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dal suo status
giuridico e dalle sue modalità di finanziamento», come sancito dalla Corte
di giustizia Ue con sentenza 23.04.1991, causa C-41/90, Höfner.
L'affidamento di servizi sociali, dunque, come regola generale deve
rispettare la normativa pro concorrenza imposta dalle disposizioni europee,
delle quali il codice dei contratti è attuativo.
Nel caso di specie, i servizi sociali aventi rilevanza economica si affidano
applicando, se di valore superiore alle soglie comunitarie, gli articoli 140
(per i settori speciali) e da 142 a 144 (per i settori ordinari) del codice
dei contratti; fermo restando che nel sotto soglia (appalti inferiori ai
750.000 euro nei settori ordinari) sono applicabili le procedure
semplificate previste dall'articolo 36 del dlgs 50/2016.
Possono sfuggire alla necessità di regolare gli affidamenti applicando il
codice dei contratti solo tassativi casi.
Per esempio, quello che palazzo Spada definisce il cosiddetto
«accreditamento libero»; una sorta di abilitazione dei soggetti operanti nel
Terzo settore a svolgere certi servizi, senza che se ne selezionino solo
alcuni tra i tanti possibili per rendere quel servizio. Lo stesso vale per i partenariati: possono sfuggire al codice dei contratti solo non selettivi.
Le regole degli appalti non si applicano, poi, nei casi di affidamenti
genuinamente gratuiti, che ricorrono, evidenzia il parere, solo quando le
prestazioni svolte dal soggetto del terzo settore siano un arricchimento per
i destinatari, cui corrisponda un effettivo depauperamento (quanto meno dei
costi di produzione) patrimoniale del soggetto che espleta il servizio.
In questi casi sono ammissibili solo rimborsi a piè di lista di costi vivi,
senza remunerazione alcuna di altri costi.
Tuttavia, avverte il Consiglio di stato, gli affidamenti gratuiti vanno ben
ponderati. Per evitare distorsioni al mercato, andrebbero riferiti ad ambiti
non qualificabili come servizi sociali con rilevanza economica: occorrerebbe
riferirsi alle codifiche del vocabolario comune degli appalti.
Proprio per questa ragione, anche le convenzioni con gli enti del terzo
settore sono ammissibili ed attivabili in applicazione del dlgs 117/2017 e
non del codice dei contratti, solo sulla base di una puntuale motivazione.
Spiega palazzo Spada: la gratuità «costituisce, in sé, un vulnus al
meccanismo del libero mercato ove operano imprenditori che forniscono i
medesimi servizi a scopo di lucro e dunque in maniera economica mirando al
profitto. La motivazione della scelta quindi non solo è opportuna, ma deve
considerarsi condicio sine qua non per l'esercizio di un tale potere» (articolo
ItaliaOggi del 24.08.2018). |
APPALTI
SERVIZI: Non
profit e Codice appalti, parola all'Anac.
Non rientrano nell'ambito di applicazione del Codice appalti le procedure di
affidamento di servizi sociali prive di carattere selettivo, oppure volte ad
affidare un servizio che sarà svolto dall'affidatario in forma integralmente
gratuita. Viceversa, e procedure di affidamento dei servizi sociali
contemplate nel Codice del terzo settore saranno soggette al Codice dei
contratti pubblici, al fine di tutelare la concorrenza anche fra enti del
terzo settore, quando il servizio sarà svolto dall'affidatario in forma
onerosa. E in tale fattispecie rientra anche la mera corresponsione di
rimborsi spese forfettari. In questi casi le amministrazioni, devono
motivare il ricorso a tali modalità di affidamento, che, «in quanto
strutturalmente riservate ad enti non profit, de facto privano le imprese
profit della possibilità di rendersi affidatarie del servizio».
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato nel
parere 20.08.2018 n. 2052 reso dalla Commissione speciale di
palazzo Spada lo scorso 26 luglio ma depositato il 20 agosto.
A interpellare i giudici di palazzo Spada è stata l'Anac che ha chiesto
chiarimenti sulla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali
alla luce del combinato disposto del Codice appalti (dlgs n. 50/2016) e del
Codice del terzo settore (dlgs n. 117/2017).
Il Consiglio di stato è intervenuto a dettare chiarimenti anche su quella
che costituisce la più problematica modalità di gestione dei rapporti tra
amministrazioni pubbliche ed enti del terzo settore, e cioè sulle
convenzioni di cui all'art. 56 del dlgs. n. 117 del 2017.
In particolare, a suscitare maggiori problemi interpretativi è il terzo
comma dell'art. 56, secondo cui «l'individuazione delle organizzazioni di
volontariato e delle associazioni di promozione sociale con cui stipulare la
convenzione è fatta nel rispetto dei principi di imparzialità, pubblicità,
trasparenza, partecipazione e parità di trattamento, mediante procedure
comparative riservate alle medesime».
Il problema, osserva palazzo Spada, è che sono enunciati principi
essenzialmente riconducibili nell'ambito dell'imparzialità e della
trasparenza e «costituenti il contenuto imprescindibile di ogni
procedimento di valutazione comparativa, o ad evidenza pubblica in senso
ampio». Tuttavia, osservano i giudici, il procedimento volto alla scelta
dell'organizzazione di volontariato o dell'associazione di promozione
sociale per la stipula di una convenzione non è permeato dal principio di
concorrenzialità, ma solamente da quello di parità di trattamento.
Il Consiglio di stato suggerisce, qualora le circostanze evidenzino che il
ricorso alla convenzione realizza un comportamento vietato in quanto
distorsivo del confronto competitivo tra operatori economici, di rimettere
alla valutazione dell'Anac la decisone di disapplicare l'art. 56 del dlgs.
n. 117 del 2017 nella sede competente (articolo
ItaliaOggi del 22.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione conseguente
all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie,
come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto
dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto
dall'avviso ex art. 7 L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di
una misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un
procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal
legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge;
pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso
edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto,
ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere
ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera
di controllo.
Per giurisprudenza pacifica, poi, deve escludersi la
necessità della comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio quando l’emanazione del provvedimento recante
l’ingiunzione di demolizione sia stata preceduta, come nel
caso di specie, dalla comunicazione dell’ordinanza di
sospensione dei lavori, emanata ai sensi dell’art. 27, comma
3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
---------------
10) Il primo motivo del ricorso introduttivo è
infondato in fatto prima ancora che in diritto.
10.1) Risulta dalla produzione del Comune di Buscate che,
anteriormente alla notifica dell’ordinanza di demolizione,
l’istante è stato raggiunto sia dall’ordinanza di
sospensione dei lavori che dalla comunicazione ex art. 8
della legge n. 241/1990 (cfr. rispettivamente, docc. 5 e 6
della produzione comunale).
Non sussiste, dunque, neanche in punto di fatto la lamentata
violazione delle garanzie partecipative, escluso che debba
esservi la comunicazione di avvio per l’ordinanza di
sospensione, stante la natura cautelare della stessa (ex
art. 7, co. 2, legge n. 241/1990).
10.2) In aggiunta, va rammentato, in punto di diritto, che:
“l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento
della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in
quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7
L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura
vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e
rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi
di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge
in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui
il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza,
rientrando nella propria sfera di controllo” (Consiglio
di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n. 2681; V, 28.04.2014, n.
2194; TAR Campania, Napoli, II, 20.07.2018, n. 4853; TAR
Lazio, Roma, II-quater, 28.05.2018, n. 5937).
Per giurisprudenza pacifica, poi, deve escludersi la
necessità della comunicazione di avvio del procedimento
sanzionatorio quando l’emanazione del provvedimento recante
l’ingiunzione di demolizione sia stata preceduta, come nel
caso di specie, dalla comunicazione dell’ordinanza di
sospensione dei lavori, emanata ai sensi dell’art. 27, comma
3, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (cfr. ex multis,
Cons. Stato, IV, 28.09.2017 n. 4533)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 16.08.2018 n. 1989 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La “sagoma” dell’edificio s’individua nella
“conformazione planovolumetrica della costruzione e nel suo
perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale,
ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi
comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti”.
---------------
Giova rammentare, al riguardo, che la “sagoma”
dell’edificio s’individua (cfr. Consiglio di Stato, Sezione
VI, n. 1564 del 15.03.2013; Cass., sez. III, 23.04.2004, n.
19034) nella “conformazione planovolumetrica della
costruzione e nel suo perimetro considerato in senso
verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad
assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali
con gli aggetti e gli sporti” (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 16.08.2018 n. 1989 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la
costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, 1egge n.
47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del
2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione
pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso, sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione
implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla
funzionalità del manufatto, perché per impedire
l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un
effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio,
consistente in una menomazione della stabilità dell’intero
manufatto.
Invero, “l'eventualità di sostituire la sanzione demolitoria
con quella pecuniaria va apprezzata dalla sola P.A. nella
fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è
successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione …
Il dato testuale della legge è per vero univoco ed
insuperabile -muovendosi in coerenza col principio per cui,
accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro
emesso-, ma, al di là della devoluzione del relativo potere
alla stessa P.A. competente alla sanzione ripristinatoria,
non la onera pure dell'autonomo accertamento d'ufficio sull'eseguibilità
condizionata della sanzione. Pertanto ed in base all'altro
fermo principio -in virtù del quale il privato ha l'onere
d'indicare previamente alla P.A. quali elementi conoscitivi
avrebbe potuto introdurre nel procedimento-, è comunque a
carico del privato stesso rappresentare, con serietà e
rigore, le ragioni dell'impossibilità tecnica della
demolizione, onde indirizzare il Comune verso una
statuizione che eviti pregiudizi alla parte eseguita in
conformità”.
---------------
12.2) Quanto alla restante censura, con cui si lamenta che
non sarebbe possibile procedere alla demolizione della parti
difformi senza pregiudizio di quelle conformi, si osserva
quanto segue.
Per giurisprudenza pacifica, il privato sanzionato con
l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera
edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo
favore dell'art. 12, comma 2, legge n. 47 del 1985 (oggi,
art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta
l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in
cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso, sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe
una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità
del manufatto, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
della stabilità dell’intero manufatto (TAR Napoli, IV,
02/08/2018 n. 5171; Cons. Stato, Sez. VI, Sent. 04.06.2018,
n. 3371, per cui: “l'eventualità di sostituire la
sanzione demolitoria con quella pecuniaria va apprezzata
dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento
sanzionatorio, che è successiva e autonoma rispetto
all'ordine di demolizione … Il dato testuale della legge è
per vero univoco ed insuperabile -muovendosi in coerenza col
principio per cui, accertato l'abuso, l'ordine di
demolizione va senz'altro emesso-, ma, al di là della
devoluzione del relativo potere alla stessa P.A. competente
alla sanzione ripristinatoria, non la onera pure
dell'autonomo accertamento d'ufficio sull'eseguibilità
condizionata della sanzione. Pertanto ed in base all'altro
fermo principio -in virtù del quale il privato ha l'onere
d'indicare previamente alla P.A. quali elementi conoscitivi
avrebbe potuto introdurre nel procedimento-, è comunque a
carico del privato stesso rappresentare, con serietà e
rigore, le ragioni dell'impossibilità tecnica della
demolizione, onde indirizzare il Comune verso una
statuizione che eviti pregiudizi alla parte eseguita in
conformità” Cons. St., VI, 12.04.2013, n. 2001).
In assenza, nella specie, di siffatta dimostrazione a cura
del privato, anche la censura in esame non risulta
suscettibile di positivo apprezzamento (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 16.08.2018 n. 1989 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Obblighi di correttezza e buona fede nello svolgimento
dell'attività autoritativa.
Anche nello svolgimento dell’attività
autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non
soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione
implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e
l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione
dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali
dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e
correttezza, la violazione delle quali può far nascere una
responsabilità da comportamento scorretto, che incide non
sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di
autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè
sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza
subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui
scorrettezza.
---------------
2.5. Non è dunque apprezzabile l’errore in cui, secondo la
prospettazione dell’appellante, sarebbe incorsa la sentenza
gravata nell’accertare a carico del provvedimento di
concessione la sussistenza del vizio genetico discendente da
una difettosa valutazione della situazione dell’area, quale
presupposto della responsabilità precontrattuale
riconosciuta in capo all’amministrazione comunale, nei
limiti dell’interesse negativo dell’impresa a non essere
lesa nell’esercizio della sua libertà negoziale, per aver
sollecitato la partecipazione del privato a una procedura di
selezione, ignorando i preesistenti vincoli, risultanti dal
PSAI, che rendevano impossibile la realizzazione del
progetto.
Ciò in quanto, in linea generale, vengono ormai in rilievo
nell’agire pubblico, prima e a prescindere
dall’aggiudicazione, e senza che possa riconoscersi
rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi
anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga
nel corso della procedura di gara, le clausole di
correttezza e buona fede di cui all’art. dell’art. 1337 c.c.,
oggetto di rilettura e rivisitazione quali manifestazioni
del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il
suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione
(ex multis, Cass. civ., I, 12.07.2016, n. 14188), con
la conseguente possibilità di individuare un comportamento
illecito dell’organo pubblico nonostante la legittimità dei
singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento, in
correlazione con l’affidamento incolpevole del privato in
ordine alla positiva conclusione del procedimento pubblico:
ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è,
infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di
autodeterminazione negoziale, tant’è che, secondo un
consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo
danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che
sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d.
interesse negativo (l’interesse appunto a non subire
indebite interferenze nell’esercizio della libertà
negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d.
interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità
economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e
il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato
concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
La giurisprudenza ha, infatti, in più occasioni affermato
che, anche nello svolgimento dell’attività autoritativa,
l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le
norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di
regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse
legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento
civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la
violazione delle quali può far nascere una responsabilità da
comportamento scorretto, che incide non sull’interesse
legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi
liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di
compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze
illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (Cons. Stato,
Ad. plen., n. 5/2018, cit.; Cons. Stato, VI, 06.02.2013, n.
633; IV, 06.03.2015, n. 1142; Cons. Stato, Ad. plen.,
05.09.2005, n. 6; Cass. civ., SS.UU. 12.05.2008, n. 11656;
Cass. civ., I, 12.05.2015, n. 9636; 03.07.2014, n. 15250) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 10.08.2018 n. 4912 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
condominio accede agli atti comunali.
Anche il condominio ha diritto di accedere agli atti del comune riguardanti
l'esito dei controlli e delle verifiche effettuate sulla qualità dell'acqua
.
Lo ha precisato il TAR Calabria-Reggio Calabria, Sez. I con la
sentenza 09.08.2018 n. 499.
La controversia verte sul diniego tacito da parte del comune di Reggio
Calabria di accesso agli atti relativi alla periodica verifica ed ai
risultati della qualità dell'acqua destinata al consumo umano erogata nel
periodo 2010/2017 nella zona Reggio centro e, più precisamente, a servizio
del condominio Ca..
I giudici amministrativi sono stati, così, chiamati a verificare se
sussistesse o meno il diritto del condominio di prendere visione ed estrarre
copia integrale della documentazione avendo manifestato un interesse
specifico per il fatto di aver stipulato il contratto di somministrazione di
acqua potabile con il comune stesso e di avere in corso un contenzioso.
La risposta è stata affermativa.
Ai sensi dell'art. 3, comma 1, del dlgs 19.08.2005, n. 195, infatti,
l'autorità pubblica deve rendere disponibile l'informazione ambientale
detenuta a chiunque ne faccia richiesta, e senza che questi debba dichiarare
il proprio interesse.
Detto ciò si rileva anche che l'art. 2 del medesimo dlgs n. 195 cit.
chiarisce che per «informazione ambientale» si intende «qualsiasi
informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in
qualunque altra forma materiale concernente: 1) lo stato degli elementi
dell'ambiente, quali l'aria, l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio
3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni
legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto,
anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono
incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente di cui ai numeri 1) e
2)».
Ebbene, non vi è dubbio che i controlli che il comune deve effettuare ai
sensi del dlgs 02.02.2001, n. 31 possono annoverarsi proprio tra le
misure amministrative che incidono sullo stato dell'acqua e sono, quindi,
accessibili. Ne consegue che il ricorso presentato dal condominio Palazzo
Ca. deve essere accolto e deve, pertanto, ordinarsi al comune di Reggio
Calabria di esibire i risultati delle analisi e gli altri atti richiesti
dall'interessato (articolo
ItaliaOggi Sette del 27.08.2018).
---------------
MASSIMA
Con atto notificato il 10.04.2018 e depositato il successivo giorno 19
il Condominio Palazzo Ca. sito al ... n. 154 di Reggio Calabria, premesso di
aver richiesto con pec del 09.02.2018 indirizzata al Comune di Reggio
Calabria ed all’ASP - Servizio SIAN, senza ottenere risposta alcuna,
a) registro dei controlli interni obbligatori previsti dall’art. 62
del vigente Regolamento SII e dall’art. 7 del D.Lgs. 31/2001, di ruotine e
di verifica, per gli anni 2010/2017 contenente i dati afferenti la periodica
verifica ed i risultati della qualità dell’acqua destinata al consumo umano
nella zona “Reggio centro” e, comunque, a servizio del Condominio Ca.;
b) con riferimento alla zona “Reggio centro” e per il periodo
2010/2017 le eventuali comunicazioni inviate e ricevute dall’ASP (SIAN) di
Reggio Calabria, nonché gli atti e documenti relativi alle indagini
analitiche compiute dall’ASP come controllo esterno (art. 8 D.Lgs. 31/2001),
adiva il Tribunale per ottenere l’ostensione della documentazione richiesta.
Nessuno si costituiva per l’ente intimato ed alla camera di consiglio
dell’11.07.2018 la causa è stata chiamata e posta in decisione.
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Ad avviso del Collegio (vd. già sentenze 14.01.2009 n. 19, 26.01.2009 n. 48,
29.01.2009 n. 68, 20.05.2009, n. 344) il ricorso è fondato
(anche) ai sensi dell’art. 3, co. 1, D.lgs. 19.08.2005, n. 195, il quale
precisa che l'autorità pubblica deve rendere disponibile, l'informazione
ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba
dichiarare il proprio interesse, nella specie, peraltro, manifestato e
sussistente nel fatto di aver stipulato contratto di somministrazione di
acqua potabile con il Comune e di avere in corso un contenzioso.
Al riguardo va anche precisato che l’art. 2 (“Definizioni”)
del medesimo D.l.vo n. 195 cit. chiarisce che per “informazione
ambientale” si intende “qualsiasi informazione disponibile in forma
scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale
concernente: 1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria,
l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio … 3) le misure, anche
amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i
programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura
amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli
elementi e sui fattori dell'ambiente di cui ai numeri 1) e 2)”.
Orbene, i controlli che il Comune deve effettuare ai sensi
del D.lgs. 02.02.2001, n. 31, e più esattamente degli artt. 7 ed 8 invocati
dalla parte, possono annoverarsi tra le misure amministrative che incidono
sullo stato dell’acqua e sono, quindi, accessibili.
Ne consegue che il presente ricorso deve essere accolto e deve, pertanto,
ordinarsi al Comune di Reggio Calabria di esibire i risultati delle analisi
e gli altri atti richiesti dall’interessato entro e non oltre il termine di
giorni trenta dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.
Va ulteriormente precisato che poiché il giudizio è stato promosso solo nei
confronti del Comune, mentre nell’istanza di accesso vi era specificato che
nei confronti dell’ASP, cui pure l’istanza era inoltrata, il diritto di
accesso viene limitato agli atti come sopra indicati sub b), il Comune
provvederà all’ostensione di quanto indicato sub a) ed eventualmente, per
quanto concerne gli atti menzionati sub b), nei limiti di quanto in suo
possesso. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di pertinenza urbanistica non
coincide con il concetto di pertinenza civile: ai fini
edilizio-urbanistici è, infatti, pertinenza il manufatto
privo di autonoma destinazione e di autonomo valore, che non
incide sul carico urbanistico, che presenta ridotte
dimensioni e che non altera in modo significativo l’assetto
del territorio.
Tale non è sicuramente una piscina interrata, sia per gli
importanti lavori di scavo che la sua realizzazione comporta
(nel caso di specie, la vasca ha dimensioni di m.
14,70x7,00, è di forma semicircolare con diametro di m. 2,60
e ha profondità che va da un minimo di m. 1,50 a un massimo
di m. 1,80: doc. 6 di parte resistente), sia perché non è
elemento necessario ai fino del completamento di un’unità
immobiliare avente destinazione residenziale.
---------------
Non si può nemmeno accedere alla tesi di parte ricorrente
per cui la piscina assolverebbe anche a funzioni di tutela
idraulica, operando quale vasca di contenimento: non è
questa la ragione per cui la piscina è stata costruita e,
comunque, per fungere da vasca di contenimento –ammesso che
ne abbia le caratteristiche– dovrebbe essere tenuta sempre
vuota, cosa che verosimilmente non è nelle intenzioni di chi
la ha realizzata.
---------------
Configurandosi l’atto sanzionatorio di un illecito edilizio
quale atto vincolato, lo stesso non può essere afflitto da
eccesso di potere, e, giusta quanto dispone l’articolo
21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, non può essere annullato
per violazione delle garanzie partecipative, posto che in
concreto non avrebbe potuto assumere un contenuto diverso.
Inoltre, presentandosi l’ordinanza qui impugnata quale atto
plurimotivato, ovverosia che si regge su di una pluralità di
autonome ragioni tra loro indipendenti (segnatamente, la
mancanza del titolo autorizzatorio edilizio, la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica e il vincolo di
inedificabilità assoluta), è sufficiente che sia fondata
anche una sola delle motivazioni addotte
dall’Amministrazione a sostegno della decisione assunta,
perché l’ordinanza stessa sia legittima.
Ora, per quanto osservato in precedenza in ordine
all’assenza del necessario titolo edilizio e della
necessaria autorizzazione paesaggistica, l’ordine di
demolizione è legittimo ed è stato adottato dall’Autorità
(il Comune), preposto, ai sensi dell’articolo 27 D.P.R. n.
380/2001 alla repressione degli abusi edilizi.
---------------
I signori Ve.Gi. e Ve.An. impugnano, chiedendone
l’annullamento, l’ordinanza comunale e gli atti presupposti
in epigrafe compiutamente individuati, con i quali,
relativamente all’immobile, sito in Comune di Parabiago -
località ..., è stato intimato agli stessi, nella rispettiva
qualità di proprietario (il primo) e di responsabile
dell’abuso (il secondo), la demolizione della piscina, della
recinzione e delle annesse opere di finitura (segnatamente,
la pavimentazione della piscina, gli impianti per il
funzionamento della piscina, le opere murarie di
contenimento), e il ripristino dello stato dei luoghi,
previa presentazione di progetto concordato con l’Agenzia
Interregionale per il Fiume Po – A.I.PO..
Il provvedimento è così motivato:
(a) le opere sono state realizzate in assenza di titolo edilizio;
(b) le opere sono state realizzate in assenza di autorizzazione
paesaggistica ex D.Lgs. n. 42/2004 e L.R. Lombardia n.
12/2005, necessaria, in quanto essi insistono su area
ubicato entro i 150 m. dal fiume Olona;
(c) le opere sono state realizzate in area assoggettata a vincolo
di inedificabilità, di tipo idrogeologico, in quanto
ricompresa nella fascia A del PAI.
...
Viene all’esame di questo Tribunale amministrativo
l’ordinanza n. 3698/2010 con la quale il Comune di Parabiago
ha ordinato ai signori Ve.Gi. e Ve.An. la demolizione della
piscina, della recinzione e delle annesse opere di finitura
(segnatamente, la pavimentazione della piscina, gli impianti
per il funzionamento della piscina, le opere murarie di
contenimento), e il ripristino dello stato dei luoghi,
previa presentazione di progetto concordato con l’Agenzia
Interregionale per il Fiume Po – A.I.PO..
Il ricorso è infondato.
Innanzitutto, va considerato che il concetto di pertinenza
urbanistica non coincide con il concetto di pertinenza
civile: ai fini edilizio-urbanistici è, infatti, pertinenza
il manufatto privo di autonoma destinazione e di autonomo
valore, che non incide sul carico urbanistico, che presenta
ridotte dimensioni e che non altera in modo significativo
l’assetto del territorio (cfr., C.d.S., Sez. IV, sentenza n.
4887/2017).
Tale non è sicuramente una piscina interrata (cfr. TAR
Campania–Napoli, Sez. VII, sentenza n. 6117/2017), sia per
gli importanti lavori di scavo che la sua realizzazione
comporta (nel caso di specie, la vasca ha dimensioni di m.
14,70x7,00, è di forma semicircolare con diametro di m. 2,60
e ha profondità che va da un minimo di m. 1,50 a un massimo
di m. 1,80: doc. 6 di parte resistente), sia perché non è
elemento necessario ai fino del completamento di un’unità
immobiliare avente destinazione residenziale (cfr., TAR
Puglia–Lecce, Sez. I, sentenza n. 1446/2016).
In secondo luogo, in quanto nuova costruzione, non solo la
realizzazione di una piscina interrata presuppone il
rilascio del permesso di costruire, ma –ove inserita in un
contesto vincolato (come nel caso di specie)- essa è anche
insuscettibile di accertamento postumo di compatibilità
paesaggistica (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. VII, sentenza
n. 1503/2017), posto che la sanatoria prevista del comma 4
dell’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004 non si applica in
ipotesi di aumento del volume o delle superfici utili.
D’altro canto, non si può nemmeno accedere alla tesi di
parte ricorrente per cui la piscina assolverebbe anche a
funzioni di tutela idraulica, operando quale vasca di
contenimento: non è questa la ragione per cui la piscina è
stata costruita e, comunque, per fungere da vasca di
contenimento –ammesso che ne abbia le caratteristiche–
dovrebbe essere tenuta sempre vuota, cosa che verosimilmente
non è nelle intenzioni di chi la ha realizzata.
Peraltro, configurandosi l’atto sanzionatorio di un illecito
edilizio quale atto vincolato (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez.
II-quater, sentenza n. 3678/2018), lo stesso non può essere
afflitto da eccesso di potere (cfr., TAR Friuli Venezia
Giulia, sentenza n. 83/2017), e, giusta quanto dispone
l’articolo 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, non può
essere annullato per violazione delle garanzie
partecipative, posto che in concreto non avrebbe potuto
assumere un contenuto diverso (cfr., TAR Campania–Napoli,
Sez. III, sentenza n. 2141/2018).
Inoltre, presentandosi l’ordinanza qui impugnata quale atto
plurimotivato, ovverosia che si regge su di una pluralità di
autonome ragioni tra loro indipendenti (segnatamente, la
mancanza del titolo autorizzatorio edilizio, la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica e il vincolo di
inedificabilità assoluta), è sufficiente che sia fondata
anche una sola delle motivazioni addotte
dall’Amministrazione a sostegno della decisione assunta,
perché l’ordinanza stessa sia legittima (cfr., ex
plurimis, TAR Lombardia–Milano, Sez. II, sentenza n.
565/2018).
Ora, per quanto osservato in precedenza in ordine
all’assenza del necessario titolo edilizio e della
necessaria autorizzazione paesaggistica, l’ordine di
demolizione è legittimo ed è stato adottato dall’Autorità
(il Comune), preposto, ai sensi dell’articolo 27 D.P.R. n.
380/2001 alla repressione degli abusi edilizi. Sicché le
ulteriori censure dedotte dai ricorrenti sarebbero già di
per sé improcedibili per carenza di interesse (cfr., C.d.S.,
Sez. V, sentenza n. 2960/2018).
In ogni caso, il Comune ha documentato (docc. 2 e 8
fascicolo di parte resistente) che i manufatti di cui si
discute ricadono in fascia A del Piano di Assetto
Idrogeologico - PAI, ovverosia in area assoggettata a
vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’articolo
29 delle relative NTA (doc. 12 fascicolo di parte
resistente), e dunque anche le ulteriori doglianze avanzate
dai signori Vezzini non sono meritevoli di accoglimento.
In definitiva, il ricorso è infondato e per questo viene
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.08.2018 n. 1962 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Procedura
di mobilità di personale fra amministrazioni
diverse.
Appartengono alla
giurisdizione del giudice ordinario le
controversie aventi ad oggetto la mobilità
relativa al trasferimento del dipendente
pubblico tra enti del medesimo comparto o
tra enti di comparti diversi, configurandosi
la stessa come cessione del contratto di
lavoro che si verifica nel corso di un
rapporto già instaurato, tale da non
determinare la costituzione di un nuovo
rapporto di pubblico impiego o una nuova
assunzione, ma comportando solo la
modificazione soggettiva del rapporto di
lavoro già in atto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 03.08.2018 n. 1943 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
La controversia riguarda una procedura di
mobilità per passaggio diretto di personale
fra amministrazioni diverse, ex art. 30
d.lgs. n. 165/2001, che si distingue dalle
procedure concorsuali per le assunzioni
poiché, nel primo caso a differenza che
nell’altro, non viene in rilievo la
costituzione di un nuovo rapporto lavorativo
ma una mera modificazione soggettiva del
rapporto di lavoro preesistente e, quindi,
una cessione del contratto.
In siffatte evenienze, giurisprudenza ormai
costante ravvisa la giurisdizione del
giudice ordinario (cfr., sezioni unite della
Cassazione, sentenza n. 11800 del 12.05.2017, Cons. Stato, sez. V, 10.04.2017,
n. 1683; TAR Lazio, Roma, III-quater, 05.07.2018, n. 7466; TAR Sicilia,
Palermo, Sez. I, Sent. 26.03.2018, n.
695; TAR Calabria Catanzaro Sez. II, Sent.
20.09.2017, n. 1430), avendo chiarito
che appartengono a detta giurisdizione le
controversie aventi ad oggetto la mobilità
relativa al trasferimento del dipendente
pubblico tra enti del medesimo comparto o
tra enti di comparti diversi, configurandosi
la stessa come cessione del contratto di
lavoro che si verifica nel corso di un
rapporto già instaurato, tale da non
determinare la costituzione di un nuovo
rapporto di pubblico impiego o una nuova
assunzione, ma comportando solo la
modificazione soggettiva del rapporto di
lavoro già in atto.
Nel caso di specie, è indubbio che si tratti
di un trasferimento e non di una assunzione,
atteso quanto previsto nell’avviso pubblico,
ove si fa riferimento esplicito, fra
l’altro, al “nulla osta al trasferimento
rilasciato dall’Azienda di appartenenza”,
alla necessità di “determinare in accordo
con l’Amministrazione di appartenenza, la
data di decorrenza del trasferimento”,
chiarendosi poi espressamente che “la
mobilità non comporta novazione del rapporto
di lavoro”.
Per tutte le ragioni che precedono, quindi,
il ricorso in epigrafe specificato deve
essere dichiarato inammissibile per difetto
di giurisdizione del giudice adito,
trattandosi di controversia riservata alla
cognizione del giudice ordinario, davanti al
quale il processo potrà essere proseguito
con le modalità e nei termini di cui
all'art. 11 c.p.a.. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Limiti
del sindacato giurisdizionale nel caso di
esercizio della discrezionalità tecnica.
Il TAR Milano
ricostruisce i diversi orientamenti in
merito alla tematica relativa ai limiti del
sindacato giurisdizionale nel caso di
esercizio della discrezionalità tecnica e
aderisce alla più recente giurisprudenza
amministrativa, secondo cui il controllo
giurisdizionale, al di là dell'ormai
sclerotizzata antinomia sindacato
forte/sindacato debole, deve attestarsi
sulla linea di un controllo che, senza
ingerirsi nelle scelte discrezionali della
Pubblica autorità, assicuri la legalità
sostanziale del suo agire, per la sua
intrinseca coerenza anche e soprattutto in
materie connotate da un elevato tecnicismo, senza, cioè, poter far luogo
a sostituzione di valutazioni in presenza di
interessi la cui cura è dalla legge
espressamente delegata ad un certo organo
amministrativo, sicché ammettere che il
giudice possa auto-attribuirseli
rappresenterebbe quanto meno una violazione
delle competenze, se non addirittura del
principio di separazione tra i poteri dello
Stato.
Questo
orientamento appare idoneo a declinare il
principio di effettività della tutela
giurisdizionale nello specifico settore
delle valutazioni tecniche, pur senza
trasformare il controllo in un’indebita
sovrapposizione del giudizio espresso
dall’organo di verifica del corretto
esercizio della legalità sostanziale a
quello effettuato dal competente plesso
amministrativo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.07.2018 n. 1875 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.3. Appare, altresì, infondata l’eccezione
della parte resistente e della parte
interveniente secondo cui i ricorsi riuniti
investirebbero valutazioni di merito
dell’Amministrazione.
La censura concerne,
invero, la tematica relativa ai limiti del
sindacato giurisdizionale nel caso di
esercizio della discrezionalità tecnica
sulla quale appare opportuno tracciare le
coordinate generali all’interno delle quali
si inserirà l’esame dei vari motivi di
ricorso che investono il tema in esame.
2.3.1. Sul punto, è noto come l’originaria
impostazione che ammette un sindacato di
carattere meramente estrinseco e, come tale,
diretto al riscontro di elementi sintomatici
di uno scorretto esercizio del potere (quali
il difetto di motivazione, l’illogicità
manifesta e l’errore di fatto) cede il passo
(pur non senza significative eccezioni,
come, ad esempio, Consiglio di Stato, A.P.,
03.02.2014, n. 8, in tema di
valutazione della congruità delle offerte)
alla teorica che ammette un controllo di
tipo intrinseco volto a consentire la
verifica diretta della correttezza del
criterio tecnico utilizzato e del
procedimento applicativo seguito (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. VI, 22.03.2008,
n. 2449, Id., sez. IV 09.04.1999, n.
601).
2.3.2. Tale teorica registra, tuttavia, una
divergenza in ordine all’intensità del
sindacato espresso nella dicotomia
forte/debole: per un primo orientamento
deve, infatti, ammettersi la sostituzione
della valutazione tecnica operata in sede
processuale a quella condotta
dall’Amministrazione sul solo presupposto
dell’opinabilità di quest’ultima; per il
secondo orientamento, al contrario, il
sindacato sulla discrezionalità tecnica non
può sfociare nella sostituzione
dell'opinione del Giudice a quella espressa
dall'organo dell'Amministrazione.
Quest’ultimo
orientamento ammette, quindi, oltre che un
sindacato estrinseco sulla discrezionalità
tecnica, attuato mediante massime di
esperienza appartenenti al sapere comune e
finalizzato a ripercorrere l'iter logico
seguito dall'Amministrazione, un controllo
intrinseco che consente al Giudice di
avvalersi di regole e di conoscenze tecniche
appartenenti alla stessa scienza
specialistica ed ai modelli di giudizio
applicati dalla P.A., finalizzato a
verificare direttamente l'attendibilità
delle operazioni tecniche sotto il profilo
della loro correttezza, quanto a criterio
tecnico e a procedimento applicativo,
potendo il Giudice utilizzare per tale
controllo sia il tradizionale strumento
della verificazione che la c.t.u. (cfr.,
ex multis, TAR per la Lombardia – sede di
Milano, sez. IV, 31.01.2017, n. 233).
2.3.3. Tale contrapposizione è, tuttavia,
superata da una parte della più recente
giurisprudenza amministrativa secondo cui il
controllo giurisdizionale, “al di là
dell'ormai sclerotizzata antinomia sindacato
forte/sindacato debole, deve attestarsi
sulla linea di un controllo che, senza
ingerirsi nelle scelte discrezionali della
Pubblica autorità, assicuri la legalità
sostanziale del suo agire, per la sua
intrinseca coerenza anche e soprattutto in
materie connotate da un elevato tecnicismo”
(Consiglio di Stato, sez. III, 25.03.2013, n. 1645),
senza, cioè, poter far luogo
a sostituzione di valutazioni in presenza di
interessi “la cui cura è dalla legge
espressamente delegata ad un certo organo
amministrativo, sicché ammettere che il
giudice possa auto-attribuirseli
rappresenterebbe quanto meno una violazione
delle competenze, se non addirittura del
principio di separazione tra i poteri dello
Stato” (Consiglio di Stato, sez. VI, 13.09.2012 n. 4872; cfr., inoltre,
TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7746).
Quest’ultimo orientamento –a cui il
Collegio ritiene di poter aderire– appare
idoneo a declinare il principio di
effettività della tutela giurisdizionale
nello specifico settore delle valutazione
tecniche, pur senza trasformare il controllo
in un’indebita sovrapposizione del giudizio
espresso dall’organo di verifica del
corretto esercizio della legalità
sostanziale a quello effettuato dal
competente plesso amministrativo.
Può,
pertanto, procedersi a verificare, alla luce
dei principi enunciati, l’intrinseca
coerenza dell’operato dell’Amministrazione e
la correttezza nella specificazione del
parametro di riferimento e nell’applicazione
dello stesso al caso sottoposto
all’attenzione del Collegio, valutando il
rispetto dei canoni di ragionevolezza
tecnica, di congruità scientifica e di
corretto accertamento dei presupposti di
fatto |
APPALTI: Commistione
fra requisiti soggettivi di partecipazione e
requisiti oggettivi di valutazione delle
offerte.
Il
principio che vieta nelle gare pubbliche la
commistione fra requisiti soggettivi di
partecipazione e requisiti oggettivi di
valutazione delle offerte deve essere sempre
applicato secondo criteri di
proporzionalità, ragionevolezza e
adeguatezza, non potendo negarsi la
legittimità di criteri di valutazione che
possano premiare la caratteristiche
organizzative dell’impresa in relazione
all’oggetto dell’appalto, soprattutto se
tali criteri non sono preponderanti nella
determinazione complessiva del punteggio
tecnico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IVa,
sentenza 30.07.2018 n. 1869 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1.3 Nel terzo motivo di ricorso, proposto in
via subordinata rispetto al secondo, la
ricorrente denuncia la presunta
illegittimità del criterio di cui è causa
(CAM), in quanto si tratterebbe in sostanza
di un requisito soggettivo e non di un
criterio valutativo, con conseguente
inosservanza del noto principio delle gare
pubbliche che vieta la commistione fra
requisiti soggettivi di partecipazione e
requisiti oggettivi di valutazione delle
offerte.
Sul punto deve però evidenziarsi che il
succitato principio deve essere sempre
applicato secondo criteri di
proporzionalità, ragionevolezza ed
adeguatezza, non potendo negarsi la
legittimità di criteri di valutazione che
possano premiare la caratteristiche
organizzative dell’impresa in relazione
all’oggetto dell’appalto, soprattutto se
tali criteri non sono preponderanti nella
determinazione complessiva del punteggio
tecnico.
Infatti, lo stesso codice, all’art. 95 comma
13, consente alle amministrazioni di
indicare criteri premiali per la valutazione
dell’offerta e che possono essere relativi,
oltre che ad esempio al maggior “rating” di
legalità dell’impresa, anche al “minor
impatto sulla salute e sull’ambiente”;
parimenti il comma 6 del medesimo articolo,
allorché elenca gli elementi che possono
costituire criteri valutativi, non esclude
il richiamo a caratteristiche proprie e
soggettive dell’impresa.
Anche la più recente giurisprudenza è
orientata nel senso suindicato [cfr. la
sentenza del Consiglio di Stato, sez. III,
12.07.2018, n. 4283, per cui: <<…secondo una
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
che può dirsi ormai prevalente, il principio
della netta separazione tra criterî
soggettivi di prequalificazione e criterî di
aggiudicazione della gara debba essere
interpretato cum grano salis (così,
espressamente, Cons. St., sez. IV, 25.11.2008, n. 5808) nelle procedure
relative ad appalti di servizi, consentendo
alle stazioni appaltanti, nei casi in cui
determinate caratteristiche soggettive del
concorrente, in quanto direttamente
riguardanti l’oggetto del contratto, possano
essere valutate anche per la selezione della
offerta, di prevedere nel bando di gara
anche elementi di valutazione della offerta
tecnica di tipo soggettivo, concernenti la
specifica attitudine del concorrente, anche
sulla base di analoghe esperienze pregresse,
a realizzare lo specifico progetto oggetto
di gara (v., sul punto, Cons. St., sez. V,
03.10.2012, n. 5197)>>.]
Anche l’Autorità Anticorruzione (ANAC),
nelle proprie linee guida sull’offerta
economicamente più vantaggiosa, approvate
con deliberazione n. 2/2016, ammette che la
separazione fra requisiti di partecipazione
e criteri di valutazione è ormai divenuta
meno rigida rispetto agli indirizzi
interpretativi più tradizionali.
Sono quindi possibili criteri valutativi di
carattere soggettivo, che consentano di
apprezzare meglio l’offerta, senza
l’attribuzione a tali criteri di un
carattere prevalente; in particolare
l’ulteriore delibera ANAC n. 1091/2017, resa
nell’ambito di un parere precontenzioso,
ammette la possibilità di valorizzare la
certificazione ISO 14001.
Nel caso di specie, non appare certamente
illogico o illegittimo premiare i processi
aziendali attenti all’impatto ambientale,
senza contare che il punteggio assegnato è
di soli quattro punti sui settanta
complessivi dell’offerta tecnica (cfr.
ancora il disciplinare di gara, pagina 56 di
113), quindi una misura certamente minima.
In definitiva anche il terzo motivo deve
rigettarsi. |
URBANISTICA: Sovradimensionamento
degli standard.
In sede di predisposizione di un PGT,
rispetto alla previsione di una rilevante
superficie destinata a standard,
notevolmente superiore ai parametri di
legge, il Comune deve idoneamente e
congruamente motivare sulle ragioni di tale
rilevante necessità. Invero, la destinazione
a dotazioni standard di un'area privata
incide fortemente sugli interessi del
proprietario.
E', pertanto, necessario che l'ente indichi
sempre con precisione quali attrezzature
debbano essere ivi realizzate, in modo da
consentire l'apprezzamento, da un lato,
della serietà della decisione e, da altro
lato, della consistenza degli interessi
pubblici che si intendono soddisfare a
scapito dell'interesse privato.
La motivazione rafforzata deve investire il
complesso delle previsioni urbanistiche di
sovradimensionamento e deve, quindi,
chiarire perché il Comune abbia inteso
superare i limiti minimi previsti dalla
legge.
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9,
comma 10, della l.r. n. 12/2005, i servizi e
le attrezzature private di interesse
pubblico sono qualificati come servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, conseguendone, dunque,
che le relative aree devono essere
considerate a standard
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 30.07.2018 n. 1863 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento della deliberazione
C.C. di Nerviano n. 37 del 06.04.2010
avente ad oggetto le controdeduzioni alle
osservazioni e l’approvazione definitiva
degli atti di PGT ai sensi della L.R. n.
12/2005 e dei relativi allegati, compresa la
VAS.
...
Con il ricorso all’esame del Collegio la
società istante, proprietaria di un’area di
circa 19.000 mq. in ambito urbanizzato nel
comune di Nerviano, ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il
quale il Comune medesimo ha approvato il
piano di governo del territorio e ha
controdedotto alle osservazioni presentate
dagli interessati, in relazione al sito di
sua proprietà, classificato come ambito per
servizi privati di interesse generale, con
previsione, in particolare, di strutture
sportive coperte e scoperte, dunque con una
limitata possibilità edificatoria.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha
dedotto: la violazione dell’art. 9 della
L.R. n. 12/2005 in relazione al contenuto
del Piano dei Servizi, che non
evidenzierebbe la necessità di ulteriori
attrezzature di interesse generale, ed in
specie sportive; l’eccesso di potere per
carenza di motivazione e difetto di
istruttoria delle previsioni urbanistiche in
relazione al sovradimensionamento rispetto
agli standard minimi e all’affidamento
ingenerato nella società ricorrente da
precedenti indirizzi espressi dalla stessa
amministrazione comunale; l’irragionevolezza
e illogicità manifesta delle previsioni
urbanistiche rispetto alla conformazione e
alle caratteristiche morfologiche dell’area,
interclusa fra aree a destinazione
residenziale e produttiva; l’illegittimità
della valutazione ambientale strategica (VAS)
rispetto alle disposizioni normative in
materia, eurounitarie ed interne (direttiva
2001/42/CE, artt. 11 e ss. del d.lgs. n.
152/2005, art. 4 L.R. n. 12/2005, DCR n. 351
del 13/3/2007, DGR n. 8/6420 del 27/12/2007,
DGR 10971 del 30/12/2009); la violazione
degli artt. 13, comma 8, e 20, commi 4 e 5,
della L.R. n. 12/2005 e il difetto di
istruttoria in relazione all’omissione del
rispetto dell’obbligo di trasmettere gli
atti del PGT alla Regione, perché
interessati da obiettivi prioritari di
interesse regionale e sovraregionale; la
violazione dell’art. 9 della L.R. n. 12/2005
e dell’art. 38 della L. n. 26/2003, nonché
il difetto di istruttoria, in relazione alla
mancata individuazione delle infrastrutture
nel sottosuolo mediante la predisposizione
del PUGGS (piano urbano generale dei servizi
nel sottosuolo).
...
Il Collegio ritiene fondata la censura con
la quale la società ricorrente ha dedotto
l’eccesso di potere per carenza di
motivazione e difetto di istruttoria delle
previsioni urbanistiche impugnate in
relazione al sovradimensionamento rispetto
agli standard minimi previsti dalla legge.
Più specificamente, l’istante ha lamentato
che il Comune resistente non avrebbe
rispettato l’incisivo onere di motivazione
che sussiste qualora lo strumento
urbanistico effettui un sovradimensionamento
delle aree destinate ad ospitare
attrezzature pubbliche o di interesse
pubblico o generale (cosiddette aree a
standard), prevedendone in misura maggiore
rispetto ai parametri minimi fissati
dall’art. 3 del d.M. n. 1444 del 1968 e
dall’art. 9, comma 3, della legge regionale
n. 12 del 2005, vale a dire 18 mq./abitante.
La difesa comunale, invece, ha controdedotto
premettendo, anzitutto, la generale funzione
di tutela ambientale delle previsioni
urbanistiche impugnate, che riguarderebbero
un ambito inserito tra aree edificate
residenziali e produttive e che avrebbero
costituito un idoneo compromesso per
attribuire comunque una limitata capacità
edificatoria all’area in questione senza
compromettere gli interessi generali degli
abitanti del Comune. La funzione delle
previsioni urbanistiche in questione
sarebbe, dunque, di riequilibrio ecologico.
Sulla specifica censura, l’Amministrazione
resistente assume che la disciplina
regionale stabilirebbe solo in linea di
massima gli standard minimi, lasciando la
definizione concreta degli stessi alle
previsioni degli strumenti urbanistici
generali ed attuativi.
Inoltre, i servizi privati di interesse
generale previsti dallo strumento
urbanistico impugnato in relazione all’area
della società istante non potrebbero essere
qualificati come servizi pubblici e di
interesse pubblico o generale, perché non
regolati da atto di asservimento o da
regolamento d’uso.
La tesi del Comune non convince.
Ed invero, nella fattispecie in questione la
relazione al Piano dei Servizi indica una
superficie complessiva di aree a standard
pari a 1.043.934 mq., di cui 786.957 mq. di
aree per servizi alla popolazione,
corrispondenti a 39,9 mq. per abitante, e
256.977 mq. di aree a servizio del sistema
economico (cfr. pag. 41 della relazione).
Rispetto alla previsione di tale rilevante
superficie destinata a standard,
notevolmente superiore ai parametri di
legge, il Comune intimato avrebbe dovuto
idoneamente e congruamente motivare sulle
ragioni di tale rilevante necessità, mentre
non ha fornito alcuna specifica motivazione
a riguardo.
E’ stato, in proposito, osservato che: “La
destinazione a dotazioni standard di un'area
privata incide fortemente sugli interessi
del proprietario; è, pertanto, necessario
che l'ente indichi sempre con precisione
quali attrezzature debbano essere ivi
realizzate, in modo da consentire
l'apprezzamento, da un lato, della serietà
della decisione e, da altro lato, della
consistenza degli interessi pubblici che si
intendono soddisfare a scapito
dell'interesse privato. La motivazione
rafforzata deve investire il complesso delle
previsioni urbanistiche di
sovradimensionamento e deve, quindi,
chiarire perché il Comune abbia inteso
superare i limiti minimi previsti dalla
legge” (cfr. TAR Lombardia, sez. II, 15.07.2016, nn. 1429 e 1430; 30.09.2016, n. 1766).
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9,
comma 10, della l.r. n. 12/2005,
i servizi e
le attrezzature private di interesse
pubblico sono qualificati come servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, conseguendone, dunque,
che le relative aree devono essere
considerate a standard (TAR Lombardia, sez. II, 21.12.2012, n. 3186).
Del resto, lo stesso PGT impugnato
classifica il comparto della ricorrente
quale area per l’insediamento di servizi di
interesse pubblico e generale (cfr. TAV R4
del Piano delle Regole e TAV S3.1 del Piano
dei Servizi).
E tale conclusione si ricava anche
dall’esame dell’art. 83.4 NTA del Piano
delle Regole, che al secondo comma prevede
espressamente la natura di servizio pubblico
delle attrezzature private in questione, ai
sensi dell’art. 9 succitato.
Alla luce delle suesposte considerazioni,
assorbendosi le ulteriori censure dedotte,
il ricorso va accolto e, per l’effetto, va
disposto l’annullamento dei provvedimenti
impugnati limitatamente alla parte
concernente le aree di proprietà
dell’istante, con l’obbligo del Comune
resistente di rideterminarsi in ordine alle
stesse.
La domanda di risarcimento del danno va,
invece, respinta, atteso che solo all’esito
del riesercizio della potestà pianificatoria
da parte dell’Amministrazione intimata sarà
possibile valutare il verificarsi di
un’eventuale lesione in capo alla posizione
giuridica della società istante.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per
disporre l’integrale compensazione fra le
parti delle spese di giudizio, in relazione
alla soccombenza parziale. |
APPALTI: Indicazione
in sede di offerta dei costi della
manodopera e di quelli aziendali concernenti
la sicurezza sul lavoro.
Il TAR Milano,
modificando il precedente orientamento (Sez.
I, n. 1223 del 07.05.2018 e n. 1589 del
26.06.2018), afferma che la questione
dell’onere di indicazione in sede di offerta
dei costi della manodopera (così come di
quelli aziendali concernenti la sicurezza
sul lavoro) sia stata disciplinata e risolta
dal novellato disposto normativo dell’art.
95, comma 10, del d.lgs. 50/2016 e
conseguentemente la mancata separata
indicazione nell’offerta economica dei costi
della manodopera determina un’irregolarità
non sanabile mediante il ricorso al soccorso
istruttorio oggi disciplinato dall’art. 83,
comma 9, del d.lgs. 50 del 2016, atteso che
tale istituto ammette l’esercizio della
facoltà di integrazione da parte dei
concorrenti solo in relazione alle carenze
di elementi formali della domanda, mentre,
nella specie, viene in rilievo la carenza di
un elemento sostanziale, perché attinente al
contenuto dell’offerta economica.
Pertanto, una volta accertato che tale
obbligo di indicazione è stato chiaramente
sancito dalla legge, la sua violazione
determina conseguenze escludenti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.07.2018 n. 1855 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il collegio deve prendere atto
dell’irrisolto contrasto giurisprudenziale
risultante dalle contrapposte tesi delle
parti fin qui esposte: non di meno, muovendo
dall’unico dato pacifico, e cioè che
l’offerta economica di Ko. non specificava
il costo della manodopera, deve dare
risposta alla domanda giudiziale
sottopostagli, e ciò partendo dal disposto
letterale normativo, anche nella sua
evoluzione.
Ed invero, nella versione originale, l’art.
95, comma 10, si limitava a prevedere che
“Nell'offerta economica l'operatore deve
indicare i propri costi aziendali
concernenti l'adempimento delle disposizioni
in materia di salute e sicurezza sui luoghi
di lavoro”. Dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (in specie,
dall’art. 60), lo stesso comma 10 statuisce
che: “Nell'offerta economica l'operatore
deve indicare i propri costi della
manodopera e gli oneri aziendali concernenti
l'adempimento delle disposizioni in materia
di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
ad esclusione delle forniture senza posa in
opera, dei servizi di natura intellettuale e
degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti,
relativamente ai costi della manodopera,
prima dell'aggiudicazione procedono a
verificare il rispetto di quanto previsto
all'articolo 97, comma 5, lettera d)”.
A sua volta, l’art. 97, per quanto
d’interesse, così dispone: “1. Gli operatori
economici forniscono, su richiesta della
stazione appaltante, spiegazioni sul prezzo
o sui costi proposti nelle offerte se queste
appaiono anormalmente basse, sulla base di
un giudizio tecnico sulla congruità,
serietà, sostenibilità e realizzabilità
dell'offerta. (…)
4. Le spiegazioni di cui
al comma 1 possono, in particolare,
riferirsi a: a) l'economia del processo di
fabbricazione dei prodotti, dei servizi
prestati o del metodo di costruzione; b) le
soluzioni tecniche prescelte o le condizioni
eccezionalmente favorevoli di cui dispone
l'offerente per fornire i prodotti, per
prestare i servizi o per eseguire i lavori;
c) l'originalità dei lavori, delle forniture
o dei servizi proposti dall'offerente.
5. La
stazione appaltante richiede per iscritto,
assegnando al concorrente un termine non
inferiore a quindici giorni, la
presentazione, per iscritto, delle
spiegazioni. Essa esclude l'offerta solo se
la prova fornita non giustifica
sufficientemente il basso livello di prezzi
o di costi proposti, tenendo conto degli
elementi di cui al comma 4 o se ha
accertato, con le modalità di cui al primo
periodo, che l'offerta è anormalmente bassa
in quanto: (…) c) sono incongrui gli oneri
aziendali della sicurezza di cui
all'articolo 95, comma 10 rispetto
all'entità e alle caratteristiche dei
lavori, dei servizi e delle forniture; d) il
costo del personale è inferiore ai minimi
salariali retributivi indicati nelle
apposite tabelle di cui all'articolo 23,
comma 16”.
Infine, secondo quest’ultima disposizione:
“Per i contratti relativi a lavori, servizi
e forniture, il costo del lavoro è
determinato annualmente, in apposite
tabelle, dal Ministero del lavoro e delle
politiche sociali sulla base dei valori
economici definiti dalla contrattazione
collettiva nazionale (…) Nei contratti di
lavori e servizi la stazione appaltante, al
fine di determinare l'importo posto a base
di gara, individua nei documenti posti a
base di gara i costi della manodopera sulla
base di quanto previsto nel presente comma.
I costi della sicurezza sono scorporati dal
costo dell'importo assoggettato al ribasso”.
Ebbene, dall’esame delle succitate
disposizioni normative emerge, anzitutto,
che il procedimento di valutazione
dell’anomalia dell’offerta, regolato
dall’art. 97, è stato reso dal legislatore
più celere e snello rispetto a quanto
risultasse dalle previsioni normative del
precedente codice degli appalti (artt. 86-88
d.lgs. n. 163/2006).
Tale conclusione si ricava anche dalla mera
lettura delle norme.
Ed invero, secondo le disposizioni
precedenti, e, in particolare, l’art. 88 del
d.lgs. n. 163/2006: “1. La stazione
appaltante richiede, per iscritto,
assegnando al concorrente un termine non
inferiore a quindici giorni, la
presentazione, per iscritto, delle
giustificazioni. 1-bis. La stazione
appaltante, ove lo ritenga opportuno, può
istituire una commissione secondo i criteri
stabiliti dal regolamento per esaminare le
giustificazioni prodotte; ove non le ritenga
sufficienti ad escludere l'incongruità
dell'offerta, richiede per iscritto
all'offerente le precisazioni ritenute
pertinenti.
2. All'offerente è assegnato un
termine non inferiore a cinque giorni per
presentare, per iscritto, le precisazioni
richieste.
3. La stazione appaltante, ovvero
la commissione di cui al comma 1-bis, ove
istituita, esamina gli elementi costitutivi
dell'offerta tenendo conto delle
precisazioni fornite.
4. Prima di escludere l'offerta, ritenuta
eccessivamente bassa, la stazione appaltante
convoca l'offerente con un anticipo non
inferiore a tre giorni lavorativi e lo
invita a indicare ogni elemento che ritenga
utile.
5. Se l'offerente non si presenta
alla data di convocazione stabilita, la
stazione appaltante può prescindere dalla
sua audizione”.
Ora, se la previgente normativa imponeva una
rigorosa e defatigante alternanza dialettica
tra stazione appaltante e aggiudicatario,
che la giurisprudenza aveva confermato, la
nuova disciplina propone un modello one-shot
(sebbene non vieti di svolgere ulteriori
approfondimenti), dove la stazione
appaltante esprime tutte insieme le sue
perplessità, e l’aggiudicatario offre –senza successivi affinamenti che rendano
gradualmente credibile la propria offerta–
tutte insieme le proprie giustificazioni.
Dunque, ritiene il collegio che,
conformemente alla medesima ratio normativa,
anche il senso da dare alla modifica delle
norme in tema di obbligatoria indicazione
nell’offerta economica dei costi di
sicurezza e di manodopera sia acceleratorio:
il costo della manodopera, in particolare,
che ci occupa in questa sede, deve essere
sin da subito indicato dal concorrente
nell’offerta economica separatamente, in
modo che la stazione appaltante, che l’ha a
sua volta indicato in forma specifica nei
documenti posti a fondamento della gara,
possa effettuare in via immediata la
verifica di congruità dello stesso rispetto
a quanto dalla stessa predeterminato in base
a quanto risultante dalle apposite tabelle
del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali sulla base dei valori economici
definiti dalla contrattazione collettiva
nazionale tra le organizzazioni sindacali e
le organizzazioni dei datori di lavoro
comparativamente più rappresentativi, delle
norme in materia previdenziale ed
assistenziale, dei diversi settori
merceologici e delle differenti aree
territoriali.
Nel caso in cui la stazione appaltante
individui criticità in relazione al costo
della manodopera indicato nell’offerta
economica dal concorrente, ne chiederà
subito le giustificazioni in merito, che
interverranno entro 15 giorni, permettendo
di concludere sollecitamente la valutazione
della congruità o meno di tale voce di
costo, così come di tutta l’offerta
economica.
Si raggiunge, dunque, il risultato più
celermente, del resto in linea con le
finalità semplificatorie che sottendono alla
complessiva riforma sugli appalti pubblici,
mentre in precedenza la “navette” tra
stazione appaltante e operatore economico
influiva sul procedimento di valutazione
dell’anomalia dell’offerta, allungandone la
durata e talvolta favorendo alterazioni
improprie dei valori iniziali, per adattarli
alle esigenze della legge e della realtà
economica.
Ed effettivamente, disporre sin da subito
dei costi previsti per la manodopera
dall’operatore, dallo stesso indicati in
evidenza nell’offerta economica, rende molto
più veloce e semplice l’accertamento
dell’eventuale incongruità degli stessi.
Né si oppone a tale ricostruzione il
disposto dell’ultima parte del comma 16
dell’art. 23 succitato, secondo il quale: “I
costi della sicurezza sono scorporati dal
costo dell'importo assoggettato al ribasso”,
volendo, con tale disposto, il legislatore
statuire semplicemente che gli oneri di
manodopera sono ribassabili, a differenza di
quelli di sicurezza, e, dunque, proprio per
questo avvalorando la tesi per la quale la
congruità degli stessi deve essere
immediatamente percepibile e sottoposta al
vaglio della stazione appaltante al fine del
giudizio di congruità.
Né, al fine del rispetto della ratio
normativa, può essere influente la
previsione o meno a pena di esclusione da
parte della lex specialis di gara
dell’obbligatorietà dell’indicazione dei
costi di manodopera nell’offerta economica,
atteso che dalla lettera della legge emerge
inequivocabilmente la voluntas legis dell’imperatività
di tale precetto normativo (cfr., in
particolare, l’art. 95, comma 10, per il
quale “nell'offerta economica l'operatore
deve indicare i propri costi della
manodopera…”), che deve, dunque,
considerarsi tale in ogni situazione.
Questo giudice, in conclusione –pur nella
consapevolezza dell’esistenza di
giustificate conclusioni divergenti (cfr.
Tar Lombardia-Milano, sez. I, 07.05.2018, n. 1223)-
ritiene di concordare con
la posizione giurisprudenziale fondata
sull’evoluzione del disposto normativo.
Ed invero, la succitata modifica della legge
è stata introdotta proprio al fine di
superare l’orientamento passato che si era
formato sulla mancata previsione espressa
dell’obbligo di indicazione degli oneri di
sicurezza e del costo del lavoro
nell’offerta economica, e che aveva, dunque,
permesso al Consiglio di Stato di affermare
che: “per le gare bandite in data anteriore
all'entrata in vigore del nuovo Codice dei
contratti pubblici e delle concessioni,
nelle ipotesi in cui l'obbligo di
indicazione separata dei costi di sicurezza
aziendale non sia stato specificato dalla
legge di gara, e non sia in contestazione
che dal punto di vista sostanziale l'offerta
rispetti i costi minimi di sicurezza
aziendale” (ma lo stesso era da considerarsi
valido per i costi della manodopera)
“l'esclusione del concorrente non può essere
disposta se non dopo che lo stesso sia stato
invitato a regolarizzare l'offerta dalla
stazione appaltante nel doveroso esercizio
dei poteri di soccorso istruttorio” (Cons.
Stato, A.P., 27.07.2016, n. 19).
Tale orientamento si era affermato, inoltre,
anche in relazione all’esame della questione
da parte della Corte di Giustizia UE a
seguito di rinvio pregiudiziale ai sensi
dell’articolo 267 TFUE, che aveva così
statuito: “il principio della parità di
trattamento e l’obbligo di trasparenza, come
attuati dalla direttiva 2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di lavori, di forniture e di
servizi, devono essere interpretati nel
senso che ostano all’esclusione di un
offerente dalla procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto
offerente, dell’obbligo di indicare
separatamente nell’offerta i costi aziendali
per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui
mancato rispetto è sanzionato con
l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara
o dalla normativa nazionale, bensì emerge da
un’interpretazione di tale normativa e dal
meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima
istanza, le lacune presenti in tali
documenti” (Corte di Giustizia UE sez. VI,
ordinanza 10.11.2016 (causa
C-162/16)).
Ritiene, dunque, il collegio -ma la
conclusione si ricava anche dalla lettura
della succitata sentenza resa in adunanza
plenaria, che esplicita l’orientamento
diverso solo “per le gare bandite in data
anteriore all'entrata in vigore del nuovo
Codice dei contratti pubblici e delle
concessioni”- che la questione dell’onere
di indicazione in sede di offerta dei costi
della manodopera (così come di quelli
aziendali concernenti la sicurezza sul
lavoro) sia stata disciplinata e risolta dal
novellato disposto normativo dell’art. 95,
comma 10, del d.lgs. 50/2016, più volte
citato, chiaramente interpretabile secondo
la sua lettera ed applicabile ratione
temporis anche alla procedura concorsuale in
questione (cfr., nello stesso senso, TAR
Umbria, 17.05.2017, n. 390, riguardo
alla mancata indicazione degli oneri di
sicurezza aziendali nell’ambito di
un’offerta economica formulata in una
procedura negoziata).
Ed invero, la mancata separata indicazione
nell’offerta economica dei costi della
manodopera determina un’irregolarità non
sanabile mediante il ricorso al soccorso
istruttorio oggi disciplinato dall’art. 83
comma 9, del d.lgs. 50 del 2016, atteso che
tale istituto ammette l’esercizio della
facoltà di integrazione da parte dei
concorrenti solo in relazione alle carenze
di elementi formali della domanda, mentre,
nella specie, viene in rilievo la carenza di
un elemento sostanziale, perché attinente al
contenuto dell’offerta economica (cfr. TAR
Umbria, 17.05.2017, n. 390; TAR
Toscana, sez. I, 10.02.2017, n. 217;
TAR Molise 09.12.2016, n. 513;
TAR Campania, Napoli, sez. III, 03.05.2017, n. 2358).
Per le gare indette all'indomani
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del
2016, dunque, non vi sono più i presupposti
per ricorrere al soccorso istruttorio in
caso di mancata o incerta indicazione degli
oneri di cui all'articolo 95, comma 10,
atteso che il nuovo Codice ha
definitivamente rimosso ogni possibile
residua incertezza sulla sussistenza di tale
assoluto obbligo.
Pertanto, una volta accertato che tale
obbligo di indicazione è stato chiaramente
sancito dalla legge, la sua violazione
determina conseguenze escludenti.
Ed invero, come è stato di recente affermato
dal Consiglio di Stato: “l’inadeguata
indicazione degli oneri per la sicurezza cc.dd. interni o aziendali” (ma lo stesso è
per gli oneri di manodopera) “non lede solo
interessi di ordine dichiarativo o
documentale, ma si pone ex se, in contrasto
con i doveri di salvaguardia dei diritti cui
presiedono le previsioni di legge, che
impongono di approntare misure e risorse
congrue per preservare la loro sicurezza e
la loro salute” (cfr. Cons. Stato, sez. V,
07.02.2018, n. 815; nello stesso senso,
28.02.2018, n. 1228; 12.03.2018, n.
1555).
La nuova disciplina fissa, dunque, un
obbligo legale inderogabile a carico dei
partecipanti alla gara pubblica, restando
ininfluente che gli atti della procedura non
dispongano espressamente al riguardo ed
operando piuttosto il meccanismo dell'eterointegrazione
con l'obbligo discendente dalla norma
primaria.
Neppure non può ammettersi il soccorso
istruttorio previsto dall'art. 83, comma 9,
del d.lgs. n. 50 del 2016 per: “la mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e del documento di
gara unico europeo di cui all'articolo 85,
con esclusione di quelle afferenti
all'offerta tecnica ed economica”, atteso
che gli oneri di sicurezza aziendali e gli
oneri di manodopera concernono l'offerta
economica e, per la loro finalità di tutela
della sicurezza del lavoro, ne costituiscono
elemento essenziale (cfr., riguardo agli
oneri di sicurezza interni, TAR Campania,
Salerno, sez. I, 05.01.2017, n. 34 e
TAR Veneto, sez. I, 21.02.2017, n.
182).
L’infondatezza del primo motivo dedotto,
come è stato acclarato, determina che
l’esclusione dal lotto 1 di Del Vecchio
risulti pienamente legittima per tale,
autonoma e vincolata, causa, rendendo
superfluo l’esame delle ulteriori doglianze.
Ne deriva l’inammissibilità per carenza di
legittimazione attiva delle censure proposte
avverso l’aggiudicazione della gara alla
controinteressata.
Ed invero: “la situazione legittimante
costituita dalla partecipazione alla
procedura costituisce la condizione
necessaria per acquisire la legittimazione
al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che
radica la legittimazione al ricorso non è
instaurata dal solo fatto storico della
iniziale partecipazione alla gara,
indipendentemente dalla successiva
esclusione, oppure dall'accertamento della
sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia
partecipato alla gara può quindi essere
impedita dall'inoppugnabilità dell'atto di
esclusione perché non impugnato, o perché
giudicato immune dai vizi denunciati dalla
parte interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione
di fatto alla gara non è sufficiente per
attribuire la legittimazione al ricorso: la
situazione legittimante costituita
dall'intervento nel procedimento selettivo
deriva infatti, secondo l'Adunanza Plenaria
(n. 4/2011), da una qualificazione di
carattere normativo, che postula il positivo
esito del sindacato sulla ritualità
dell'ammissione del soggetto ricorrente alla
procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta
alcuna legittimazione a contestare gli esiti
della gara o comunque il suo svolgimento al
concorrente escluso dalla gara, per il quale
l'atto di esclusione non sia stato in
qualche modo rimosso" (Cons. Stato, sez. V,
09.07.2012, n. 3994; nello stesso senso, cfr., fra le tante, Cons. di Stato, sez. IV,
nn. 4180/2016, 3688/2016, 1560/2016).
Ne consegue, altresì, l’improcedibilità per
sopravvenuta carenza d’interesse del ricorso
rubricato nel RG al n. 585/2018, atteso che
l’aggiudicazione del lotto 1 al Consorzio
ricorrente è da ritenersi pienamente
efficace.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il
ricorso n. 961/2018 va in parte respinto e
per il resto va dichiarato inammissibile,
mentre il ricorso n. 585/2018 va dichiarato
improcedibile.
Sussistono giusti motivi per disporre
l’integrale compensazione fra tutte le parti
delle spese di giudizio, atteso che è emerso
un evidente contrasto giurisprudenziale
sulla questione di diritto sottesa alla
decisione della presente vertenza, che
costituisce una grave ed eccezionale ragione
per disporre la compensazione.
Ed invero, come è stato di recente affermato
dalla Corte Costituzionale: “Va dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 92,
comma 2, c.p.c. nella parte in cui non
prevede che il giudice, in caso di
soccombenza totale, possa non di meno
compensare le spese tra le parti,
parzialmente o per intero, anche qualora
sussistano altre analoghe gravi ed
eccezionali ragioni, oltre quelle
nominativamente indicate” (Corte
Costituzionale, 19.042018, n. 77). |
EDILIZIA PRIVATA: L'agricoltore
non può restringere la strada.
Il sindaco può ordinare la rimozione urgente degli impedimenti posizionati
sulla sede stradale dal privato per evitare il passaggio dei camion e dei
mezzi pesanti. Anche se la strada in questione è privata ma a uso pubblico.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con la
sentenza 25.07.2018 n. 1801.
Un agricoltore esasperato dal passaggio di mezzi pesanti davanti a casa ha
posizionato due grossi massi sul ciglio stradale limitando la sezione da 2,5
metri a quasi la metà. Contro questa decisione unilaterale il primo
cittadino ha adottato una ordinanza urgente di ripristino che è stata
impugnata dall'agricoltore davanti al Tribunale amministrativo. Ma senza
successo.
A seguito di ripetuti sopralluoghi dei tecnici comunali, infatti, si è
potuto accertare inequivocabilmente che la riduzione della larghezza della
carreggiata è stata adottata dal privato in barba alle più elementari regole
di sicurezza della circolazione.
Quindi ha fatto bene il primo cittadino a ordinare con urgenza al privato il
ripristino della circolazione. E soprattutto la rimozione urgente dei grossi
massi posizionati appositamente a margine della carreggiata (articolo
ItaliaOggi Sette del 20.08.2018).
---------------
MASSIMA
Deve premettersi che, come risulta dalle difese comunali, l’area
nell’ambito della quale insiste il fondo del ricorrente è stata interessata
negli ultimi anni dal rilascio di alcuni titoli abilitativi alla costruzione
di immobili.
Contestualmente, si sono verificati episodi di restringimento della
carreggiata della strada che percorre la suddetta area di sedime, larga
circa due metri e cinquanta, fino a restringerla notevolmente, per impedire
il transito ai mezzi di trasporto dei materiali di costruzione.
Dai verbali di sopralluogo versati in atti risulta, invero, che la
carreggiata è stata portata, in seguito ai suddetti episodi di ostruzione,
finanche alla larghezza di soli metri 1.80.
Deve, inoltre, darsi atto dell’esecuzione dell’ordinanza di rimozione da
parte del ricorrente in seguito alla reiezione dell’istanza cautelare dallo
stesso proposta.
Tanto premesso, il collegio ritiene che le censure dell’istante non colgano
nel segno.
Ed invero, l’ordinanza impugnata trova il suo fondamento proprio nei
verbali di sopralluogo succitati, dei quali l’istante è stato posto a
conoscenza, l’ultimo dei quali è stato redatto il 15.04.2009 e nell’ambito
del quale viene attestato un significativo restringimento della carreggiata
stradale da 2,25 metri a 1,80/1,90 metri, dunque ulteriore rispetto ai
precedenti verbali redatti nell’anno 2008 e tale da non consentire più la
sicura circolazione dei veicoli.
Emerge, dunque, la certa sussistenza dei presupposti per l’esercizio dei
poteri sindacali, costituita dall’urgenza di provvedere per ristabilire la
sicura circolazione veicolare.
L’esercizio di tali poteri è stato, in ogni caso, preceduto dall’emissione
dei succitati verbali di sopralluogo, posti a conoscenza dell’istante, che
attestano, dunque, anche la sicura infondatezza delle censure di violazione
delle garanzie procedimentali dedotte dall’interessato.
Dai suddetti accertamenti emerge, inoltre, inequivocabilmente, altresì
l’infondatezza delle censure di difetto dei presupposti, di istruttoria e di
motivazione, oltre di tutte le altre figure di eccesso di potere e di
violazione di legge dedotte dall’istante.
L’operato dell’Amministrazione intimata risulta, dunque, improntato alla
perfetta legittimità.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va respinto. |
URBANISTICA: Violazione
del principio di perequazione urbanistica.
E' degna di accoglimento
la censura rivolta contro un PGT, con la
quale parte ricorrente si duole della
violazione del principio di perequazione
urbanistica integrata con la scelta del
Comune di gravare esclusivamente l’area
della ricorrente del “costo” necessario per
realizzare il pubblico interesse della
tutela ambientale e paesaggistica.
Invero, come si evince dall’esame degli artt.
11 della L.R. n. 12/2005 e 2.1.3 della
deliberazione di G.R. 29.12.2005, n. 1861,
il principio della perequazione urbanistica
è definito quale strumento di gestione del
piano, incentrato su un’equa ed uniforme
distribuzione di diritti edificatori
indipendentemente dalla localizzazione delle
aree per attrezzature pubbliche e dei
relativi obblighi nei confronti del Comune.
Sebbene non sussista un obbligo di
previsione di un sistema urbanistico
perequativo o compensativo, la tendenza è in
tal senso, in adesione a politiche
urbanistiche fondate su scelte operative
volte a rendere i proprietari delle aree
coinvolte compartecipi delle determinazioni,
oltre che basate su una sempre più equa
ripartizione del peso derivante dai vincoli
imposti ai privati, anche di tipo
conformativo.
L’istituto della perequazione ha, dunque la
finalità di eliminare le diseguaglianze che
la pianificazione tradizionale produce fra
proprietari di aree aventi caratteristiche
simili, tendendo a realizzare un’equa
distribuzione dei diritti edificatori tra
tutte le proprietà ricomprese all’interno
dei medesimi ambiti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 25.07.2018 n. 1800 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il Collegio ritiene, altresì, degna di
accoglimento la censura con la quale la
società istante si duole della violazione
del principio di perequazione urbanistica
integrata con la scelta del Comune di
gravare esclusivamente l’area della
ricorrente del “costo” necessario per
realizzare il pubblico interesse della
tutela ambientale e paesaggistica.
Ed invero, come si evince dall’esame degli
artt. 11 della L.R. n. 12/2005 e 2.1.3 della
deliberazione di G.R. 29.12.2005, n. 8/1861,
il principio della perequazione urbanistica
è definito quale strumento di gestione del
piano, incentrato su un’equa ed uniforme
distribuzione di diritti edificatori
indipendentemente dalla localizzazione delle
aree per attrezzature pubbliche e dei
relativi obblighi nei confronti del Comune.
È stato, in proposito, affermato dalla
giurisprudenza di questo Tribunale che:
“sebbene non sussista un obbligo di
previsione di un sistema urbanistico
perequativo o compensativo, la tendenza è in
tal senso, in adesione a politiche
urbanistiche fondate su scelte operative
volte a rendere i proprietari delle aree
coinvolte compartecipi delle determinazioni,
oltre che basate su una sempre più equa
ripartizione del peso derivante dai vincoli
imposti ai privati, anche di tipo conformativo” (TAR
Lombardia, sez. IV, 11.07.2014, n.
1842).
L’istituto della perequazione ha, dunque:
“la finalità di eliminare le diseguaglianze
che la pianificazione tradizionale produce
fra proprietari di aree aventi
caratteristiche simili” (TAR Lombardia,
sez. II, 11.06.2014, n. 1543),
tendendo
a realizzare un’equa distribuzione dei
diritti edificatori tra tutte le proprietà ricomprese all’interno dei medesimi ambiti
(TAR Toscana, sez. I, 23.02.2017,
n. 288).
Nella fattispecie all’esame del Collegio
emerge, invece, come il Comune resistente
abbia del tutto omesso di osservare il
principio di perequazione urbanistica.
Alla luce delle suesposte considerazioni,
assorbendosi le ulteriori censure dedotte,
il ricorso va accolto e, per l’effetto, va
disposto l’annullamento dei provvedimenti
impugnati limitatamente alla parte
concernente le aree di proprietà
dell’istante, con l’obbligo del Comune
resistente di rideterminarsi in ordine alle
stesse. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 38 DPR 380/2001 deve essere interpretato
nel senso della non ammissibilità dell’effetto sanante per
vizi che non sono in alcun modo riconducibili
all'espressione “vizi delle
procedure amministrative” alle quali si riferisce
espressamente la norma, ma a vizi sostanziali non
emendabili.
---------------
La giurisprudenza ha precisato che è l’irrogazione della
sanzione pecuniaria ad essere subordinata ad una motivata
valutazione del dirigente del competente ufficio comunale,
da assumere previa adeguata istruttoria, e che l’obbligo di
un'espressa motivazione è pertanto circoscritto alle sole
ipotesi in cui occorre giustificare il ricorso all'opzione
residuale dell'irrogazione delle sanzioni pecuniarie, perché
la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può essere applicata
nelle sole ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato
risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente
verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a
serio rischio la residua parte legittimamente assentita.
---------------
E' onere del privato allegare elementi utili far risultare
quantomeno verosimile un’oggettiva impossibilità della
riduzione in pristino.
---------------
Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione
dell’art. 38 del DPR 06.06.2001, n. 380, relativo agli
atti da adottare relativamente alle costruzioni realizzate a
seguito di un titolo edilizio annullato, che avrebbe dovuto
trovare applicazione, secondo la prospettazione proposta, in
luogo dell’ordinanza di remissione in pristino.
La norma prevede che in caso di annullamento del permesso,
qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione,
la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria.
La doglianza deve essere respinta, perché l’annullamento dei
titoli edilizi è avvenuto non per vizi procedimentali, ma
per vizi sostanziali non emendabili, ovvero perché è stato
autorizzato un intervento edilizio di nuova costruzione che
non poteva essere realizzato in quanto in contrasto con uno
specifico divieto dello strumento urbanistico ed in
violazione delle distanze.
In particolare è stato accertato che l’intervento non
costituiva una ristrutturazione, ma una nuova costruzione
avente una configurazione planivolumetrica diversa rispetto
all’edificio demolito e successivamente ricostruito, vietata
dall’art. 35 delle norme tecniche di attuazione allegate al
piano regolatore, che non consente incrementi di volume
nella zona B1.
La fattispecie rientra pertanto entro la categoria di opere
che la giurisprudenza è ferma nel ritenere non sanabili,
perché l’art. 38 deve essere interpretato nel senso della
non ammissibilità dell’effetto sanante per vizi che non sono
in alcun modo riconducibili all'espressione “vizi delle
procedure amministrative” alle quali si riferisce
espressamente la norma, ma a vizi sostanziali non emendabili
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.06.2016, n. 2631;
Consiglio di Stato, sez. VI, 09.05.2016, n. 1861;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.10.2013, n. 5115; Tar
Veneto, Sez. II, 26.01.2015, n. 69; Corte
Costituzionale, 11.06.2010, n. 209).
Parimenti priva di fondamento è la censura di difetto di
motivazione in merito alla mancata applicazione della
sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.
Infatti la giurisprudenza ha precisato che è l’irrogazione
della sanzione pecuniaria ad essere subordinata ad una
motivata valutazione del dirigente del competente ufficio
comunale, da assumere previa adeguata istruttoria, e che
l’obbligo di un'espressa motivazione è pertanto circoscritto
alle sole ipotesi in cui occorre giustificare il ricorso
all'opzione residuale dell'irrogazione delle sanzioni
pecuniarie (ex pluribus cfr. Tar Abruzzo, Pescara, Sez. I,
26.05.2016, n. 195; Tar Veneto, Sez. II, 21.04.2016,
n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 10.03.2016 n.
1397; Tar Molise, 29.01.2016 n. 39; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.04.2015 n. 2137), perché la fiscalizzazione
dell’abuso edilizio può essere applicata nelle sole ipotesi
in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e
nel contempo risulti obiettivamente verificato che la
demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la
residua parte legittimamente assentita.
Pertanto nel caso di specie non era necessaria una specifica
motivazione per disporre la demolizione.
Peraltro va anche osservato che dalla documentazione versata
in atti non sono riscontrabili elementi idonei a dimostrare
l’impossibilità di procedere alla riduzione in pristino o
l’esigenza di conservazione dell’immobile tali da
giustificare l’irrogazione della sanzione pecuniaria.
Premesso che è onere del privato allegare elementi utili far
risultare quantomeno verosimile un’oggettiva impossibilità
della riduzione in pristino (cfr. Tar Molise, 29.01.2016, n. 39; Tar Veneto, Sez. II, 21.04.2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. II,
06.06.2014, n. 5716; Tar
Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.09.2015, n. 4289), la
censura circa la mancata applicazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria deve pertanto
essere respinta.
Quanto alla dedotta mancata valutazione dell’aspettativa
ingenerata in capo alla ricorrente a seguito del rilascio
dei titoli edilizi annullati, va osservato che in realtà è
la ratio della disposizione di cui all’art. 38 del DPR
06.06.2001, n. 380, ad essere ispirata alla tutela di
quanti vengano colpiti da un’abusività sopravvenuta che
nella specifica considerazione del legislatore si traduce
nella previsione di una forma di tutela -ove possibile e al
ricorrere delle condizioni prestabilite- dell’affidamento
riposto dall’autore dell’intervento sulla presunzione di
legittimità e comunque sull’efficacia del titolo assentito.
Ciò non implica tuttavia che l’Amministrazione, in sede di
applicazione della norma, debba farsi carico della tutela
dell’aspettativa dell’interessato, dato che deve limitarsi
ad applicare la stessa entro i confini ed i presupposti
delineati dal legislatore.
Nessun rimprovero può pertanto essere mosso al Comune per
non aver valutato in modo specifico l’aspettativa ingenerata
dal rilascio del titolo annullato.
Il primo motivo deve pertanto essere respinto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.07.2018 n. 824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'’art. 30 del d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito
in legge 09.08.2013 n. 98, nell’eliminare l'obbligo del
rispetto della sagoma strutturale preesistente “non ha
portata retroattiva intanto in quanto dà luogo ad una
diversa composizione funzionale del concetto di
ristrutturazione si da ampliarne, in modo del tutto nuovo,
il contenuto materiale” e “si può poi escludere che tale
norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma
le caratteristiche di interpretazione autentica”, atteso che
la disposizione “non ha introdotto norme di condono né di sanatoria
edilizi e non è suscettibile di applicazione a fattispecie
antecedenti alla sua entrata in vigore, non essendo munita
di efficacia retroattiva”.
---------------
Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale la
ricorrente sostiene che la nuova nozione di ristrutturazione
di cui all’art. 30 del decreto legge 21.06.2013, n. 69,
convertito in legge 09.08.2013, n. 98, che qualifica come
ristrutturazione anche gli interventi che comportano una
modifica della sagoma, deve ritenersi applicabile anche agli
interventi edilizi realizzati antecedentemente alla sua
entrata in vigore perché un tale principio è stato affermato
dall’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35 del 12.03.2013.
In primo luogo va osservato che la questione è inconferente
nel caso di specie.
Infatti l’accoglimento del ricorso straordinario è stato
determinato non solo dall’impossibilità di qualificare come
ristrutturazione l’intervento a causa della diversa sagoma
dell’edificio realizzato a seguito della demolizione di
quello precedente, ma anche per l’aumento del volume.
Poiché anche nella norma modificata, al fine di poter
qualificare come ristrutturazione un intervento edilizio,
permane il requisito della stessa volumetria di quello
preesistente, è evidente che l’intervento realizzato che ha
comportato la sopraelevazione di due piani e quindi un
aumento di volume, non può essere qualificato come
intervento di ristrutturazione, ma deve essere qualificato
come intervento di nuova costruzione.
Il dato, chiaramente evincibile dalla documentazione versata
in atti, può essere agevolmente desunto anche dalle
conclusioni della seconda verificazione disposta dal
Consiglio di Stato in sede di appello avverso la sentenza
Tar Veneto, Sez. II, 06.02.2014, n. 150 (cfr. doc. 2
allegato alle difese dei controinteressati pagg. 13 e 14).
Inoltre per completezza va anche soggiunto che la tesi
secondo cui alla nuova nozione di ristrutturazione avrebbe
portata retroattiva è infondata.
Infatti la norma invocata, come condivisibilmente affermato
in giurisprudenza (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, ord.
05.11.2015 n. 2342) nell’eliminare l'obbligo del
rispetto della sagoma strutturale preesistente “non ha
portata retroattiva in tanto in quanto dà luogo ad una
diversa composizione funzionale del concetto di
ristrutturazione si da ampliarne, in modo del tutto nuovo,
il contenuto materiale” e “si può poi escludere che tale
norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma
le caratteristiche di interpretazione autentica”, atteso che
la disposizione (cfr. Tar Marche, Sez. I, 09.10.2014, n.
880) “non ha introdotto norme di condono né di sanatoria
edilizi e non è suscettibile di applicazione a fattispecie
antecedenti alla sua entrata in vigore, non essendo munita
di efficacia retroattiva”.
Inoltre, contrariamente a quanto dedotto dalla parte
ricorrente, è priva di rilievo l’ordinanza della Corte
Costituzionale n. 35 del 12.03.2013.
Con tale ordinanza la Corte si è limitata a restituire gli
atti al giudice a quo perché l’oggetto del giudizio era la
legittimità costituzionale o meno della legge della Regione
Lombardia rispetto alla norma statale, costituente parametro
interposto del giudizio di costituzionalità, che ha subito
modificazioni nelle more della definizione del giudizio, ma
non ha sancito la retroattività della norma.
Anzi, il giudice a quo successivamente a questa ordinanza ha
sollevato nuovamente la medesima questione proprio sul
presupposto della non retroattività della norma sopravvenuta
e la Corte Costituzionale con sentenza 20.10.2016, n.
226, ha dichiarato l’incostituzionalità della norma
regionale in ragione della non retroattività dello ius
superveniens costituito dalla norma statale.
In definitiva il ricorso r.g. n. 714 del 2016 deve essere
respinto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.07.2018 n. 824 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per individuare la natura precaria di un'opera, si deve
seguire non il criterio strutturale, ma il criterio
funzionale, per cui un'opera se è realizzata per soddisfare
esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del
regime proprio delle opere precarie anche quando le opere
sono state realizzate con materiali facilmente amovibili.
Condivisibile giurisprudenza ha
osservato che “per principio consolidato, per individuare la
natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui
un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non
sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle
opere precarie anche quando le opere sono state realizzate
(il che nel nostro caso non è) con materiali facilmente
amovibili.
Non possono essere quindi considerati manufatti precari,
destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli
destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di
talché l'alterazione del territorio non può essere
considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Questa Sezione ha poi
anche affermato che la “precarietà” dell'opera postula un
uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua
stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto
al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e
contingenti, ma permanenti nel tempo”.
Inoltre, “tali opere debbono però essere “immediatamente”
rimosse al cessare della necessità.
La normativa in questione ha, peraltro, meglio precisato che
tali opere debbono “comunque” essere rimosse entro un
termine non superiore a novanta giorni. Nel senso, cioè, che
ove le esigenze temporanee permangano oltre tale termine,
gli interessati debbono munirsi di un idoneo titolo
edilizio, che potrà essere, a sua volta, anch’esso
temporaneo. In sintesi, le opere dirette a soddisfare
esigenze “obiettive” e “contingibili e temporanee” sono oggi legislativamente considerate come attività libere, ma
debbono essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla
loro realizzazione, a meno che gli interessati non chiedano,
al fine di mantenerle per un tempo maggiore, un idoneo
titolo edilizio.
Né, come si è detto, può ritenersi che il riferimento al
termine di novanta giorni sia riconducibile al momento in
cui le opere debbono essere rimosse una volta cessata la
particolare necessità che ne aveva determinato la
realizzazione”.
---------------
Rientrano nella previsione delle
norme urbanistiche e richiedono il rilascio di concessione
edilizia non solo i manufatti tradizionalmente compresi
nelle attività murarie, ma anche le opere di ogni genere con
le quali si intervenga sul suolo o nel suolo, senza che
abbia rilevanza giuridica il mezzo tecnico con cui sia stata
assicurata la stabilità del manufatto, che può essere
infisso o anche appoggiato al suolo, in quanto la stabilità
non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la
perpetuità della funzione ad essa assegnata ma si estrinseca
nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni
non provvisori, ossia nell’attitudine ad una utilizzazione
che non abbia il carattere della precarietà, cioè non sia
temporanea e contingente.
Del resto, risulta incontestato che le opere di cui
all’impugnata ordinanza di demolizione siano state mantenute
dai ricorrenti ben oltre il termine di novanta giorni
espressamente previsto dal citato art. 6, comma 2, lett.
e-bis), del D.P.R. 380/2001, ciò ad ulteriore riprova del
fatto che le stesse non possano assolutamente ritenersi
destinate ad un uso limitato nel tempo, per soddisfare fini
specifici e temporanei.
---------------
Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è
infondato nel merito e va pertanto respinto.
Ed invero, è noto come che l’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del
D.P.R. 380/2001 espressamente preveda che possano essere
realizzate senza alcun titolo edilizio esclusivamente “le
opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e
temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità e, comunque, entro un termine non superiore
a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori
all'amministrazione comunale”.
La norma testé richiamata, pertanto, qualifica come attività
libere esclusivamente le opere dirette a soddisfare esigenze
“obiettive” e “contingenti e temporanee”,
purché le stesse
vengano effettivamente rimosse entro novanta giorni dalla
loro realizzazione.
Al riguardo, la condivisibile giurisprudenza ha al riguardo
osservato che “per principio consolidato, per individuare la
natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il
criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui
un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non
sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle
opere precarie anche quando le opere sono state realizzate
(il che nel nostro caso non è) con materiali facilmente
amovibili (fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016). Non possono
essere quindi considerati manufatti precari, destinati a
soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli destinati
ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante (Consiglio di Stato, Sez.
VI, n. 4116 del 04.09.2015). Questa Sezione ha poi
anche affermato che la “precarietà” dell'opera postula un
uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua
stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto
al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e
contingenti, ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato,
Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016 cit.)” ( Cons. di Stato,
sez. VI, n. 795/2017).
Inoltre, “tali opere debbono però essere “immediatamente”
rimosse al cessare della necessità.
La normativa in questione ha, peraltro, meglio precisato che
tali opere debbono “comunque” essere rimosse entro un
termine non superiore a novanta giorni. Nel senso, cioè, che
ove le esigenze temporanee permangano oltre tale termine,
gli interessati debbono munirsi di un idoneo titolo
edilizio, che potrà essere, a sua volta, anch’esso
temporaneo. In sintesi, le opere dirette a soddisfare
esigenze “obiettive” e “contingibili e temporanee” sono oggi legislativamente considerate come attività libere, ma
debbono essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla
loro realizzazione, a meno che gli interessati non chiedano,
al fine di mantenerle per un tempo maggiore, un idoneo
titolo edilizio.
Né, come si è detto, può ritenersi che il riferimento al
termine di novanta giorni sia riconducibile al momento in
cui le opere debbono essere rimosse una volta cessata la
particolare necessità che ne aveva determinato la
realizzazione” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 23/05/2017
n. 2438).
Ciò posto, appare evidente come nella fattispecie che occupa
l’impugnato provvedimento si palesi legittimo, posto che le
opere colpite dall’ingiunta demolizione, pur se destinate a
servire l'esecuzione del cantiere ed a tal fine
espressamente previste nella richiesta di permesso di
costruire a suo tempo presentata dai ricorrenti, non possono
assolutamente qualificarsi alla stregua di manufatti
precari, considerato che le stesse non sono destinate a
soddisfare esigenze meramente temporanee, come del resto
comprovato anche dal fatto che nel caso di specie risulta
addirittura presentata, in data 05.02.2015, “proroga” della S.C.I.A. per il completamento degli interventi di cui al
rilasciato permesso di costruire n. 10 del 14.02.2011, alla
cui realizzazione i manufatti in questione sarebbero
funzionali; appare, pertanto, evidente come i manufatti di
cui all’ingiunta demolizione sicuramente non possono
considerarsi alla stregua di opere precarie destinate a
soddisfare esigenze meramente temporanee, e pertanto
inidonei a determinare una mutazione durevole dell'assetto
territoriale comunale.
Per quanto sin qui osservato, pertanto, non può fondatamente
sostenersi, come fanno i ricorrenti nel primo motivo di
ricorso, che le opere in questione dovrebbero comunque
considerarsi come manufatti precari, atteso il loro
carattere di strutture facilmente amovibili, ed in quanto
tali sottratte al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, il Tribunale si limita a richiamare la
condivisibile giurisprudenza che ha chiaramente affermato
che “rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e
richiedono il rilascio di concessione edilizia non solo i
manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie,
ma anche le opere di ogni genere con le quali si intervenga
sul suolo o nel suolo, senza che abbia rilevanza giuridica
il mezzo tecnico con cui sia stata assicurata la stabilità
del manufatto, che può essere infisso o anche appoggiato al
suolo, in quanto la stabilità non va confusa con
l’irremovibilità della struttura o con la perpetuità della
funzione ad essa assegnata ma si estrinseca nell’oggettiva
destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori,
ossia nell’attitudine ad una utilizzazione che non abbia il
carattere della precarietà, cioè non sia temporanea e
contingente” (cfr. Cass. pen. sez. III, 07.06.2006).
Del resto, risulta incontestato che le opere di cui
all’impugnata ordinanza di demolizione siano state mantenute
dai ricorrenti ben oltre il termine di novanta giorni
espressamente previsto dal citato art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. 380/2001,
ciò ad ulteriore riprova del fatto che le stesse non possano
assolutamente ritenersi destinate ad un uso limitato nel
tempo, per soddisfare fini specifici e temporanei (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 23.07.2018 n. 4907 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di repressione degli
abusi edilizi (ordine di demolizione e ogni altro
provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della p.a.,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera
dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge.
Ciò comporta che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera descrizione e
rappresentazione del carattere illecito dell’opera
realizzata, né è necessaria una previa comparazione
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è
in re ipsa, con l’interesse del privato proprietario del
manufatto.
---------------
Parimenti infondato si palesa, a parere del Collegio anche
il secondo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti si
dolgono che l’ordinanza impugnata non contenga un’adeguata
motivazione in relazione al concreto ed attuale interesse
urbanistico leso, ed alla sua prevalenza rispetto
all’interesse privato alla conservazione dei manufatti in
questione per tutto il tempo necessario alla realizzazione
dell’intervento edilizio assentito con il permesso di
costruire n. 11 del 2011.
A tale ultimo riguardo, il Tribunale si limita a richiamare
la prevalente e condivisibile giurisprudenza amministrativa
che afferma che «il provvedimento di repressione degli abusi
edilizi (ordine di demolizione e ogni altro provvedimento sanzionatorio) costituisce atto dovuto della p.a.,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera
dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge; ciò comporta che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera descrizione e
rappresentazione del carattere illecito dell’opera
realizzata, né è necessaria una previa comparazione
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è
in re ipsa, con l’interesse del privato proprietario del
manufatto» (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 20.07.2011, n. 4254; Consiglio di Stato, sez. V, sent.
07.09.2009, n. 5229; Consiglio di Stato, sez. IV, sent.
14.05.2007, n. 2441; Consiglio di Stato, sez. V, sent.
29.05.2006, n. 3270) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 23.07.2018 n. 4907 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 31, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 individua tra
i destinatari dell'ingiunzione di rimozione o di demolizione
di abusi edilizi, anche il proprietario; in questa
determinazione va interpretata una precisa scelta del
legislatore, la cui ratio va individuata nel fatto che il
proprietario è il solo soggetto legittimato ad intervenire
sull'immobile e ad eliminare così un abuso anche in
precedenza realizzato; per questo, il proprietario non può
sottrarsi a siffatto obbligo ed addossare l'esclusiva
responsabilità a terzi o al precedente proprietario; d'altro
canto, spetta pur sempre al proprietario il diritto di
rivalersi, sul piano civilistico, nei confronti
dell'effettivo autore della trasformazione abusiva.
Allo stesso
modo, in modo simmetrico, l'acquirente di un immobile
succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive
attive e passive che facevano capo al precedente
proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa
l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del
diniego di sanatoria sia dell'ingiunzione di demolizione
successivamente impartito, che precede nel tempo il
contratto traslativo, in suo favore, della proprietà, senza
che possano assumere rilevanza, al fine di sottrarsi
all'obbligo di demolizione e di rimessa in pristino stato,
le eventuali posizioni di buona fede, a nulla rilevando che
l'interessato acquisti il semplice possesso o ne abbia la
detenzione, posto che il bene immobile rientra nella sua
disponibilità.
Nella specie pertanto va riconosciuto che il ricorrente, sia
pure nella qualità di esercente la potestà nei confronti del
figlio minore, nudo proprietario degli immobili abusivi,
assume quindi la responsabilità, ai fini della demolizione,
delle opere abusive che sono state ivi realizzate.
Peraltro, la qualifica di "responsabile dell'abuso edilizio"
non riguarda solo chi ha materialmente realizzato il
manufatto abusivo, ma si estende necessariamente anche a chi
ha la "materiale disponibilità" dell'immobile sul quale
insistono le opere abusive.
L’ordine di demolizione, infatti, non ha natura
sanzionatoria, non è un provvedimento diretto a sanzionare
un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è
un atto di tipo ripristinatorio cioè ha la funzione di
eliminare le conseguenze della violazione edilizia,
attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi
che avviene attraverso la rimozione delle opere abusive.
Infatti la giurisprudenza è costante nel ritenere che
l'ordine di demolizione debba essere rivolto nei confronti
di chi abbia la disponibilità della opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che la abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell'ordine di demolizione.
Il presupposto del provvedimento amministrativo è la
realizzazione di un'opera in assenza di concessione; opera
che deve essere eliminata per ripristinare il corretto
assetto del territorio, sicché l'ordine di demolizione va
rivolto a che abbia la attuale disponibilità del bene
abusivo indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
---------------
1. Con ricorso iscritto al n. 11/2018 -OMISSIS- in proprio e
quale genitore esercente la potestà sul minore -OMISSIS-
impugnavano, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza n.
497/2017 prot. n. 48208 del 26.09.2017 notificata
l’11.10.2017 avente ad oggetto ingiunzione di pagamento
della sanzione amministrativa pecuniaria di € 8.337,50 ai
sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001 per
la mancata demolizione della tettoia scoperta in legno, del
cancello metallico e delle opere murarie relative
all’accesso carrabile e pedonale di cui all’ordine di
ripristino n. 272/2017 prot. n. 24850 del 23.05.2017.
...
2. Preliminarmente va respinta poiché infondata
l’eccezione di difetto di legittimazione passiva opposta
rispetto al minore ricorrente quale destinatario del
provvedimento impugnato ed estraneo all’abuso.
A ben vedere l’ordine di demolizione prot. n. 272 del
23.05.2017 dalla cui inottemperanza è scaturita la sanzione
pecuniaria impugnata è stato correttamente ingiunto al
minore -OMISSIS- nonché alla ricorrente anche nella qualità
di genitore esercente la potestà sul minore medesimo.
Del pari irrilevante si appalesa la circostanza relativa
all’estraneità all’abuso, in quanto commesso dal -OMISSIS-
quale progettista e committente dei lavori, la
giurisprudenza amministrativa ha chiarito che
l'amministrazione comunale ha il potere di sanzionare anche
i proprietari o possessori ad altro titolo i quali, pur non
essendo autori degli abusi, hanno incautamente ricevuto il
bene pur in presenza di irregolarità edilizie. Per questa
ragione non possono invocare l'incolpevole affidamento.
Non
a caso, l'art. 31, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 individua tra
i destinatari dell'ingiunzione di rimozione o di demolizione
di abusi edilizi, anche il proprietario; in questa
determinazione va interpretata una precisa scelta del
legislatore, la cui ratio va individuata nel fatto che il
proprietario è il solo soggetto legittimato ad intervenire
sull'immobile e ad eliminare così un abuso anche in
precedenza realizzato; per questo, il proprietario non può
sottrarsi a siffatto obbligo ed addossare l'esclusiva
responsabilità a terzi o al precedente proprietario; d'altro
canto, spetta pur sempre al proprietario il diritto di
rivalersi, sul piano civilistico, nei confronti
dell'effettivo autore della trasformazione abusiva (ex multis, Tar Potenza, 22.01.2015, n. 57).
Allo stesso
modo, in modo simmetrico, l'acquirente di un immobile
succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive
attive e passive che facevano capo al precedente
proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa
l'abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del
diniego di sanatoria sia dell'ingiunzione di demolizione
successivamente impartito, che precede nel tempo il
contratto traslativo, in suo favore, della proprietà (Cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781), senza
che possano assumere rilevanza, al fine di sottrarsi
all'obbligo di demolizione e di rimessa in pristino stato,
le eventuali posizioni di buona fede, a nulla rilevando che
l'interessato acquisti il semplice possesso o ne abbia la
detenzione, posto che il bene immobile rientra nella sua
disponibilità (cfr. TAR Basilicata, 24/03/2016, n. 280).
Nella specie pertanto va riconosciuto che il ricorrente, sia
pure nella qualità di esercente la potestà nei confronti del
figlio minore, nudo proprietario degli immobili abusivi,
assume quindi la responsabilità, ai fini della demolizione,
delle opere abusive che sono state ivi realizzate.
Peraltro, la qualifica di "responsabile dell'abuso edilizio"
non riguarda solo chi ha materialmente realizzato il
manufatto abusivo, ma si estende necessariamente anche a chi
ha la "materiale disponibilità" dell'immobile sul quale
insistono le opere abusive (cfr. Tar Sicilia, Palermo,
sez. II, 01/04/2015, n. 808).
L’ordine di demolizione, infatti, non ha natura
sanzionatoria, non è un provvedimento diretto a sanzionare
un comportamento illegittimo da parte del trasgressore, ma è
un atto di tipo ripristinatorio cioè ha la funzione di
eliminare le conseguenze della violazione edilizia,
attraverso la riduzione in pristino dello stato dei luoghi
che avviene attraverso la rimozione delle opere abusive.
Infatti la giurisprudenza è costante nel ritenere che
l'ordine di demolizione debba essere rivolto nei confronti
di chi abbia la disponibilità della opera abusiva,
indipendentemente dal fatto che la abbia concretamente
realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non per la legittimità
dell'ordine di demolizione.
Il presupposto del provvedimento amministrativo è la
realizzazione di un'opera in assenza di concessione; opera
che deve essere eliminata per ripristinare il corretto
assetto del territorio, sicché l'ordine di demolizione va
rivolto a che abbia la attuale disponibilità del bene
abusivo indipendentemente dal fatto di averlo realizzato.
Nella specie parte ricorrente non ha dedotto la propria
estraneità all’abuso non risultando proposto gravame avverso
l’ordine di demolizione presupposto, né ha dimostrato di non
avere la materiale disponibilità del bene.
L’eccezione sotto il duplice profilo va quindi disattesa (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.07.2018 n. 248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va esclusa ogni responsabilità a carico dei
ricorrenti mancando la volontarietà dell’inottemperanza
all’ordine di demolizione presupposto rispetto alla sanzione
pecuniaria impugnata.
Invero, parte ricorrente dimostrato in atti che la mancata
esecuzione, in
parte qua, dell’ordine di demolizione è dipesa da un
impedimento assoluto costituito dal decreto di sequestro
preventivo dei beni oggetto dell’ordine di ripristino emesso
dal G.i.p. del Tribunale, sin da data
anteriore alla notifica dell’ordine di demolizione.
La giurisprudenza anche più rigorosa (sul punto, ex plurimis,
Cons. Stato, IV, 06.03.2012, n. 12609 secondo cui
l’esistenza di un sequestro penale non costituisce
impedimento di “natura assoluta” all’esecuzione di un ordine
di demolizione sul presupposto che il destinatario possa
comunque attivarsi sollecitando il dissequestro presso
l’Autorità Giudiziaria) ammette tuttavia, quale “prova
contraria”, che si dimostri di aver attivato tutti gli strumenti
predisposti dall’ordinamento per sottrarre l’immobile
abusivo al vincolo esistente e provvedere al ripristino
dell’ordine giuridico violato.
Nella specie una siffatta prova “liberatoria” è stata
allegata al giudizio dal momento che parte ricorrente ha
dimostrato di aver inoltrato in data ... istanza di
dissequestro dichiarando ivi di voler ottemperare all’ordine
di demolizione ingiunto dal Comune riferendolo a
tutti i beni oggetto di ripristino, ed il G.i.p. ha accolto
solo in parte l’istanza autorizzando la sola demolizione
dell’immobile principale, sotto la vigilanza della Polizia
Municipale.
---------------
1. Con ricorso iscritto al n. 11/2018 -OMISSIS- in proprio e
quale genitore esercente la potestà sul minore -OMISSIS-
impugnavano, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza n.
497/2017 prot. n. 48208 del 26.09.2017 notificata
l’11.10.2017 avente ad oggetto ingiunzione di pagamento
della sanzione amministrativa pecuniaria di € 8.337,50 ai
sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del d.p.r. n. 380/2001 per
la mancata demolizione della tettoia scoperta in legno, del
cancello metallico e delle opere murarie relative
all’accesso carrabile e pedonale di cui all’ordine di
ripristino n. 272/2017 prot. n. 24850 del 23.05.2017.
...
2. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto avendo parte
ricorrente dimostrato in atti che la mancata esecuzione, in
parte qua, dell’ordine di demolizione è dipesa da un
impedimento assoluto costituito dal decreto di sequestro
preventivo dei beni oggetto dell’ordine di ripristino emesso
dal G.i.p. del Tribunale di Vasto il 22.02.2017, sin da data
anteriore alla notifica dell’ordine di demolizione del
05.06.2017.
La giurisprudenza anche più rigorosa (sul punto, ex plurimis,
Cons. Stato, IV, 06.03.2012, n. 12609 secondo cui
l’esistenza di un sequestro penale non costituisce
impedimento di “natura assoluta” all’esecuzione di un ordine
di demolizione sul presupposto che il destinatario possa
comunque attivarsi sollecitando il dissequestro presso
l’Autorità Giudiziaria) ammette tuttavia, quale “prova
contraria”, che dimostri di aver attivato tutti gli strumenti
predisposti dall’ordinamento per sottrarre l’immobile
abusivo al vincolo esistente e provvedere al ripristino
dell’ordine giuridico violato.
Nella specie una siffatta prova “liberatoria” è stata
allegata al giudizio dal momento che parte ricorrente ha
dimostrato di aver inoltrato in data 23.06.2017 istanza di
dissequestro dichiarando ivi di voler ottemperare all’ordine
di demolizione ingiunto dal Comune di Vasto riferendolo a
tutti i beni oggetto di ripristino, ed il G.i.p. ha accolto
solo in parte l’istanza autorizzando la sola demolizione
dell’immobile principale, sotto la vigilanza della Polizia
Municipale di Vasto.
Di qui l’esclusione di ogni responsabilità a carico dei
ricorrenti mancando la volontarietà dell’inottemperanza in
parte qua all’ordine di demolizione presupposto rispetto
alla sanzione pecuniaria impugnata da cui deriva
l’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento del
provvedimento impugnato (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.07.2018 n. 248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Termine
di proposizione del ricorso avverso un
permesso di costruire.
In ordine ai criteri di
verifica della tempestività del ricorso con
particolare riguardo all'impugnazione di un
permesso di costruire, va ribadito
l’orientamento secondo il quale l’inizio dei
lavori segna il dies a quo della tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti
l'an della edificazione (cioè laddove si
sostenga che nessun manufatto poteva essere
edificato sull'area), mentre laddove si
contesti il quomodo (distanze, consistenza
ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con
il completamento dei lavori ovvero con il
grado di sviluppo degli stessi, ove renda
palese l'esatta dimensione, consistenza,
finalità, dell'erigendo manufatto, ferma
restando la possibilità, da parte di chi
solleva l'eccezione di tardività, di
provare, anche in via presuntiva, la
concreta anteriore conoscenza del
provvedimento lesivo in capo al ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.07.2018 n.
1747 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.2. Il Collegio ritiene di aderire a quanto
affermato dal Consiglio di Stato in ordine
ai criteri di verifica della tempestività
del ricorso, onde verificarne la
ricevibilità, con particolare riguardo
all'ambito dell'attività edilizia (cfr., in
termini, Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.03.2017, n. 998).
L’inizio dei lavori segna il
dies a quo
della tempestiva proposizione del ricorso
laddove si contesti l'an della edificazione
(cioè laddove si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato
sull'area), mentre laddove si contesti il
quomodo (distanze, consistenza ecc.) il
dies
a quo va fatto coincidere con il
completamento dei lavori ovvero con il grado
di sviluppo degli stessi, ove renda palese
l'esatta dimensione, consistenza, finalità,
dell'erigendo manufatto, ferma restando la
possibilità, da parte di chi solleva
l'eccezione di tardività, di provare, anche
in via presuntiva, la concreta anteriore
conoscenza del provvedimento lesivo in capo
al ricorrente (cfr.,
ex plurimis, Consiglio
di Stato, Sez. IV, 21.03.2016 n. 1135;
Consiglio di Stato, Sez. IV 28.10.2015,
n. 4910 e n. 4909; Sez. IV, 22.12.2014
n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si
conformano sostanzialmente all'insegnamento
dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011
sviluppandone i logici corollari).
In particolare è stato affermato che:
a) il termine per impugnare il permesso di
costruire decorre dalla piena conoscenza del
provvedimento, che -fatte salve le
precisazioni di seguito esposte- si intende
realizzata al completamento dei lavori, a
meno che sia data prova di una conoscenza
anticipata; una simile prova va addossata a
chi eccepisce la tardività del ricorso, e
può essere desunta anche da elementi
presuntivi che evidenzino la potenziale
lesione portata all'interesse del
ricorrente; in quest'ambito assume un ruolo
importante l'eventuale presenza del cartello
dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia;
b) l'obbligo di esposizione del cartello dei
lavori, penalmente sanzionato, è posto a
presidio, anche secondo la giurisprudenza
penale, della esigenza di consentire ad
eventuali controinteressati di far valere le
proprie doglianze innanzi all'autorità
amministrativa (cfr., Cass. pen., Sez. III,
22.05. 2012, n. 40118).
La presenza del
cartello, pertanto, costituisce un indizio
grave preciso e concordante ai fini della
integrazione della prova presuntiva della
conoscenza del provvedimento da parte del
ricorrente;
c) la richiesta di accesso non è idonea
ex
se a far differire i termini di proposizione
del ricorso in quanto la data del permesso
di costruire pubblicata sul cartello di
cantiere fissa la decorrenza del termine
entro il quale deve essere presentata
l'impugnativa; termine che non può essere
dilazionato dalla richiesta di accesso agli
atti.
Ed infatti, se da un lato deve essere
assicurata al vicino la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto
illegittimo, dall'altro lato deve parimenti
essere salvaguardato l'interesse del
titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato
senza indugio e non irragionevolmente
differito nel tempo, così determinando una
situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contraria ai principi ordinamentali. |
EDILIZIA PRIVATA:
Risultando ancora pendente il ricorso
straordinario proposto dal ricorrente avverso il
provvedimento di diniego del condono edilizio, discende che
fino alla definizione del predetto ricorso nessun atto
sanzionatorio può essere legittimamente adottato, stante il
rapporto di stretta e immediata consequenzialità tra il
diniego di condono e il correlato atto di demolizione.
Invero, l’Amministrazione ha il dovere di astenersi, sino
alla definizione del procedimento attivato per il rilascio
della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa
repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del
titolo abilitativo in sanatoria, sicché il Comune ha
l’obbligo di attendere la conclusione in senso sfavorevole
al richiedente del procedimento di condono prima di adottare
l’atto sanzionatorio.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza n. 151 del 12.11.2007,
prot. n. 41514, afferente alla pratica edilizia n.
140C/2004, con la quale il Dirigente del Settore Territorio
del Comune di Brugherio ha ordinato la demolizione di una
struttura seminterrata in cemento armato, coperta con solaio
in predalles, costruita sull’area di proprietà del
ricorrente e realizzata in ampliamento dell’adiacente unità
abitativa di residenza, sita in Brugherio, Via ... n. 47,
nonché di ripristinare lo stato dei luoghi, recuperando
l’originaria destinazione dell’uso agricolo dell’area di cui
al fg. 25, mapp. 40.
...
1. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
2. A prescindere dalla fondatezza delle censure contenute
nel gravame, va evidenziato che, allo stato, risulta ancora
pendente il ricorso straordinario proposto dal ricorrente
avverso il provvedimento di diniego del condono del
21.01.2007, prot. 3031.
Ne discende che fino alla definizione del predetto ricorso,
nessun atto sanzionatorio può essere legittimamente
adottato, stante il rapporto di stretta e immediata
consequenzialità tra il diniego di condono e il correlato
atto di demolizione (cfr. Consiglio di Stato, VI,
29.11.2016, n. 5028).
Tale questione è stata espressamente considerata in sede di
adozione dell’ordinanza n. 2263/2008, resa dalla Quarta
Sezione del Consiglio di Stato con riguardo al presente
giudizio, giacché a giustificazione della riforma della
pronuncia cautelare di primo grado, che aveva
originariamente rigettato l’istanza di sospensione, è stata
posta proprio “la pendenza del ricorso avverso il diniego
di condono, del quale la demolizione costituisce atto
conseguente”.
Ciò appare in linea con la costante giurisprudenza
amministrativa, secondo la quale l’Amministrazione ha il
dovere di astenersi, sino alla definizione del procedimento
attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da
ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il
rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, sicché il
Comune ha l’obbligo di attendere la conclusione in senso
sfavorevole al richiedente del procedimento di condono prima
di adottare l’atto sanzionatorio (cfr. ex multis, TAR
Lazio, Roma, II-bis, 13.04.2017, n. 4582; TAR Campania,
Napoli, IV, 13.03.2017, n. 1438; VII, 11.01.2017, n. 280; in
argomento anche TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n.
1487).
3. In ragione di quanto evidenziato in precedenza e
assorbendo le ulteriori censure, il ricorso deve essere
accolto, con il conseguente annullamento dell’ordinanza n.
151 del 12.11.2007, prot. n. 41514, afferente alla pratica
edilizia n. 140C/2004 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.07.2018 n. 1746 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Reperimento
di aree a standard in caso di mutamento
della destinazione originaria.
La realizzazione di
edifici commerciali richiede il reperimento
di aree a standard in misura adeguata alla
nuova destinazione d’uso e, in base all’art.
51, commi 2 e 4, della L.R. n. 12/2005, è
necessaria una quantità di aree pari alla
sola differenza tra la destinazione
originaria e quella sopravvenuta.
Le aree a standard già cedute in base a
precedenti operazioni edilizie si
consolidano e sono, quindi, computabili nel
nuovo livello di standard richiesto, una
volta che la s.l.p. insediata sia
riconvertita nella nuova destinazione d’uso
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.07.2018 n. 753 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Sulle aree a standard
19. La realizzazione di edifici commerciali
richiede il reperimento di aree a standard
in misura adeguata alla nuova destinazione
d’uso.
In proposito, occorre sottolineare
che in base all’art. 51, commi 2 e 4, della LR
12/2005 è necessaria una quantità di aree
pari alla sola differenza tra la
destinazione originaria e quella
sopravvenuta. Le aree a standard già cedute
in base a precedenti operazioni edilizie si
consolidano e sono quindi computabili nel
nuovo livello di standard richiesto, una
volta che la SLP insediata sia riconvertita
nella nuova destinazione d’uso.
20. L’atto unilaterale d’obbligo allegato
alla deliberazione giuntale n. 100/2016
prevede (art. 4) la cessione al Comune del
mappale n. 211, per una superficie pari a
1.097,80 mq. Secondo i ricorrenti, tale area
avrebbe dovuto essere ceduta ancora dal
precedente proprietario, e dunque non
potrebbe essere computata come nuovo
standard.
21. In realtà, la cessione del mappale n.
211 non era prevista dalla lottizzazione
disciplinata dalle convenzioni urbanistiche
dell’08.07.1999 e del 06.06.2003
(PL8), in quanto, come risulta dalla
documentazione prodotta dalla controinteressata il 18.11.2016, la
superficie del suddetto mappale (che in
origine era ricompresa nel più ampio mappale
n. 41) era esterna a tale lottizzazione (v.
cartografie doc. 18-19).
La cessione era
invece prevista dalla concessione edilizia
del 2001 riguardante la piscina, rilasciata
al medesimo soggetto attuatore del PL8 (v.
cartografia doc. 17). Più precisamente, una
parte della superficie che ora forma il
mappale n. 211 corrispondeva alle aree a
standard (874,75 mq) destinate a parcheggi,
percorsi pedonali e allargamento della sede
stradale (v. cartografie doc. 20-20.a).
Tali
aree non sono mai state formalmente
trasferite al Comune. Dopo il fallimento del
precedente proprietario, la controinteressata ha acquisito il mappale n.
211 con il vincolo di effettuarne la
cessione al Comune. L’atto unilaterale
d’obbligo ha quindi una doppia finalità: da
un lato, il completamento della cessione del
vecchio standard pari a 874,75 mq, utile
anche per la nuova destinazione d’uso,
dall’altro il reperimento delle ulteriori
aree a standard necessarie per la nuova
destinazione d’uso.
Tali aree sono state
individuate nella residua superficie del mappale n. 211 (223,05 mq) e
nell’asservimento a uso pubblico di un altro
terreno (1.252,95 mq).
22. Il Comune nella deliberazione giuntale
n. 124/2016 sembra qualificare anche il
mappale n. 211 come area a standard da
cedere in base alle convenzioni urbanistiche
relative al PL8.
È però verosimile che la
predetta deliberazione confonda le due
operazioni edificatorie (PL8 e piscina),
considerandole in modo unitario in quanto la
controparte privata era sempre la stessa.
La
distinzione è invece importante, perché lo
standard della piscina si consolida a favore
di On.It. srl, e deve essere sottratto
alla quantità di aree a uso pubblico da
reperire in seguito al cambio di
destinazione d’uso. |
TRIBUTI: La
Cassazione detta il decalogo (non esaustivo) che salva i contribuenti dalle
sanzioni. Definita l’incertezza normativa. Colpa scusabile con contrasti
normativi o dottrinali.
La Cassazione detta un vero e proprio decalogo per identificare l’incertezza
normativa che salva il contribuente dal pagamento delle sanzioni fiscali.
Fra i parametri individuati, la poca chiarezza delle norme, giurisprudenza e
prassi contrastanti. Perfino posizioni eterogenee in dottrina possono
fungere da esimente.
Lo ha sancito la Suprema Corte -Sez. V civile- che, con la
sentenza 12.07.2018 n. 18405, ha accolto il
ricorso di una società condannata a versare le maggiori Ires e Irap e
relative sanzioni per un calcolo sbagliato delle rimanenze.
Non pagherà dunque l'ammenda l'impresa che aveva mal valutato tali
rimanenze, falsando così il calcolo dell'imponibile delle imposte sui
redditi.
Infatti per gli Ermellini, contrariamente a quanto sostenuto da Ctp e Ctr di
Roma, vi era una grande incertezza normativa.
Per la prima volta il Supremo collegio individua dei concetti per lungo
tempo rimasti magmatici e confusi.
In sentenza si legge infatti che l'essenza del fenomeno dell'incertezza
normativa oggettiva si può rilevare attraverso una serie di fatti indice,
che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo, e che
sono stati individuati a titolo di esempio e, quindi, non esaustivamente in
dieci regole fondamentale: la prima, la difficoltà d'individuazione
delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite
previsioni di legge (è senz'altro il caso più diffuso e più facile per il
contribuente da provare); la seconda, la difficoltà di confezione
della formula dichiarativa della norma giuridica; la terza, la
difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa
individuata; la quarta, la mancanza di informazioni amministrative o
nella loro contraddittorietà; la quinta, la mancanza di una prassi
amministrativa o nell'adozione di prassi amministrative contrastanti; la
sesta, la mancanza di precedenti giurisprudenziali; la settima,
la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari
accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei giudici comuni, di un
intervento chiarificatore della Corte costituzionale; l'ottava, il
contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; la
nona, il contrasto tra opinioni dottrinali; la decima, l'adozione
di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma
implicita preesistente.
In questa motivazione la Cassazione, prima di arrivare a queste regole più
chiare e definite e che tracciano una strada più sicura per chiedere
l'esenzione dalle sanzioni, aveva ricordato che per «incertezza normativa
oggettiva tributaria» deve intendersi la situazione giuridica oggettiva,
che si crea nella normazione per effetto dell'azione di tutti i formanti del
diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione
normativa, e che è caratterizzata dall'impossibilità, esistente in sé e
accertata dal giudice, d'individuare con sicurezza e univocamente, al
termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma
giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.
In poche parole, l'incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione
diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto come
emerge dal dlgs 18.12.1997, n. 472, art. 6 che distingue in modo netto le
due figure dell'incertezza normativa oggettiva e dell'ignoranza (pur
ricollegandovi i medesimi effetti) e perciò l'accertamento di essa è
esclusivamente demandata al giudice e non può essere operato dalla
amministrazione.
La Cassazione ha chiuso il capitolo sanzioni sulla vicenda esaminata. Ha
infatti accolto il motivo nel merito e annullato su quel punto la cartella (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spese
legali del dipendente a carico del Comune se non c'è conflitto di interessi.
Il Comune è tenuto a risarcire le spese legali di un dipendente coinvolto in
un processo penale esclusivamente se non ci sono conflitti di interessi tra
le parti.
Questo il significativo principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
11.07.2018 n. 18256.
La vicenda
La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui un dipendente
comunale era stato imputato per i reati di falsità commesse nella
registrazione nel registro cronologico di una ordinanza contingibile e
urgente nella sua qualità di addetta all'ufficio protocollo del Comune.
Poiché la lavoratrice era stata assolta, i giudici di merito avevano
riconosciuto il dovere da parte del Comune di risarcire le spese legali
sostenute dalla dipendente. Contro queste sentenze ha proposto ricorso il
Comune. E la Corte gli ha dato ragione richiamando l'articolo 28 del
contratto 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle regioni e
autonomie locali applicabile alla fattispecie “ratione temporis”.
La norma dispone che l'ente, anche a tutela dei propri diritti e interessi,
ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o
penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente
connessi all'espletamento del servizio e dell'adempimento dei compiti di
ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto
di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento,
facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento. In caso
di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave l'ente
ripete dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni
stato e grado del giudizio.
La disposizione è strutturata in modo che l'obbligo del datore di lavoro
abbia a oggetto non già il rimborso al dipendente dell'onorario corrisposto
a un difensore di sua fiducia, ma l'assunzione diretta degli oneri di difesa
sin dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore di comune
accordo. L'obbligo, peraltro, è subordinato all'esistenza di ulteriori
condizioni perché l'assunzione diretta della difesa del dipendente è imposta
all'ente locale solo nei casi in cui, non essendo ipotizzabile un conflitto
di interessi, attraverso la difesa del dipendente incolpato, il datore di
lavoro pubblico agisca anche a tutela dei propri diritti e interessi.
La spiegazione
Quella fornita dai Supremi giudici è una spiegazione del tutto logica in
quanto non si vede il motivo per il quale l'ente locale si dovrebbe far
carico di spese legali inerenti un reato che il dipendente ha commesso
contro il soggetto giuridico stesso per il quale lavora, evidenziando così
un palese conflitto di interessi che preclude il rimborso anche se il
processo dovesse concludersi con l'assoluzione del dipendente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.07.2018). |
APPALTI: Commissione
di gara costituita da un numero pari di
commissari.
Il Consiglio di Stato dà
continuità, anche nella vigenza dell’art. 77
d.lgs. n. 50 del 2016, all’orientamento
maturato in relazione all’art. 84 d.lgs. n.
163 del 2006, in relazione al quale la
prevalente giurisprudenza ritiene la regola
alla cui stregua la Commissione di gara deve
essere costituita da un numero dispari di
commissari non espressione di un principio
generale, immanente nell'ordinamento, tale
da determinare l'illegittimità della
costituzione di un collegio avente un numero
pari di componenti, essendo numerose le
ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che
amministrativi, che operano (o che
occasionalmente possono operare) in
composizione paritaria.
----------------
La commissione
giudicatrice di gare d'appalto è un collegio
perfetto, che deve operare, in quanto tale,
in pienezza della sua composizione e non con
la maggioranza dei suoi componenti, con la
conseguenza che le operazioni di gara
propriamente valutative, come la fissazione
dei criteri di massima e la valutazione
delle offerte, non possono essere delegate a
singoli membri o a sottocommissioni.
Nondimeno, per evidenti esigenze di
funzionalità,
il principio è temperato per
cui non è indispensabile la piena
collegialità quando occorra effettuare
attività preparatorie, istruttorie o
strumentali, destinate, come tali, a
refluire nella successiva e definitiva
valutazione dell’intero consesso.
In concreto,
l’attitudine meramente
strumentale dell’attività delegabile o
affidabile a sottocommissioni dovrà avere,
in difetto di criteri identificativi o
discretivi di ordine materiale o
sostanziale, la duplice caratteristica (a un
tempo necessaria e sufficiente):
a) di essere, ex ante e in abstracto, suscettibile di
potenziale verifica a posteriori da parte
del plenum;
b) di essere, ex post e in concreto, effettivamente acquisita alla
valutazione collegiale piena, in termini di
controllo, condivisione ed approvazione.
---------------
MASSIMA
2.- Con un primo mezzo, è dedotta violazione
e falsa applicazione dell’art. 84, comma 2,
d.lgs. 163 del 2006 e dell’art. 77, comma 2,
d.lgs. n. 50 del 2016, una a difetto del
presupposto e contraddittorietà: avrebbe
errato la sentenza nell’assumere violata la
detta disposizione, nella parte in cui
imporrebbe che la Commissione di gara fosse
necessariamente costituita da un numero
dispari di commissari.
2.1.- La censura è fondata.
In effetti, la sentenza appellata:
a) premette che, dalla documentazione versata agli atti della
causa, era dato, in punto di fatto, di
ricavare che la Commissione di gara fosse,
nella vicenda in esame, composta da due
Consiglieri di Gestione della Fondazione
(dott. Ga. ed arch. Ap.) e da due
Conservatori del Museo Archeologico “Eno Bellis” e della Pinacoteca “Alberto Martini”
(dott.ssa Ma. e dr.ssa Bo.), per un totale
di quattro componenti;
b) osserva che, in questo modo, sarebbe stata violata la regola
dell’art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163 del
2006 (“ora riproposta dall’art. 77, comma
2, del d.lgs. n. 50/2016”), alla cui
stregua la Commissione di gara avrebbe
dovuto essere costituita da un numero
dispari di commissari, non superiore a
cinque;
c) si mostra consapevole del (difforme) orientamento
giurisprudenziale, maturato nella vigenza
del d.lgs. n. 163 del 2006, per cui la
violazione della regola non è tale da
implicare l’illegittimità della costituzione
di un collegio con un numero pari di
componenti: nondimeno se ne discosta
assumendo che il precetto –similmente
presente all’art. 21, comma 5, l. n. 109 del
1994 e poi ribadito dall’art. 84, comma 2,
d.lgs. n. 163 del 2006– sarebbe stato
riaffermato “categoricamente –e senza
deroghe di sorta–“ dall’art. 77, comma
2, d.lgs. n. 50 del 2016, al quale la
procedura non avrebbe, perciò, potuto
sottrarsi;
d) ribadisce che la regola risponderebbe all’obiettivo di garantire
il computo del quorum strutturale e
soddisfare le necessità di funzionamento del
principio maggioritario, in coerenza con il
principio in base al quale i collegi
perfetti (com’è, pacificamente, una
commissione di gara) sono sempre composti da
un numero dispari di membri.
2.2.- Osserva il Collegio che la
composizione numerica della Commissione
giudicatrice è stata, in progresso di tempo,
positivamente disciplinata e con continuità,
nei sensi della previsione di un numero
dispari di componenti, per un massimo di
cinque.
Invero, la regola:
a) era già codificata dall’art. 4 r.d. 08.02.1923, n. 422
(Emendamenti al D.L.Lgt. 06.02.1919, n. 107,
recante norme per l'esecuzione delle opere
pubbliche, e al R.D. 12.02.1922, n. 214) che
–con esclusivo riferimento alla
aggiudicazione mediante appalto concorso–
prevedeva, per la “valutazione degli
elementi economici e tecnici delle offerte”,
la costituzione di una “Commissione di 3
o 5 membri da nominarsi di volta in volta
dalla Amministrazione stessa” (sempre
che
non si fosse trattato di lavori, alla
direzione dei quali fosse già “preposta
una speciale Commissione tecnica”);
b) veniva riproposta –con estensione all’“affidamento delle
concessioni mediante licitazione privata”,
sul comune presupposto della imposizione del
criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa– dall’art. 2, commi 4 e 5, l. n.
109 del 1994 (Legge quadro in materia di
lavori pubblici), che prevedeva “un
numero dispari di componenti non superiore a
cinque”;
c) veniva confermata –con più lata generalizzazione a tutte le
ipotesi di contratti da aggiudicare mediante
il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa– dall’art. 84, comma 2, d.lgs.
n. 163 del 2006 (Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE);
d) è stata, infine, ripetuta –con più vasto ambito di operatività,
corrispondente alla dequotazione del
criterio di aggiudicazione secondo il prezzo
più basso– dall’art. 77, comma 2, d.lgs. n.
50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici).
2.3.- Se –nella successione nel tempo delle
varie fonti- la norma è rimasta testualmente
immutata, non è conferente l’assunto
dell’appellata sentenza, che valorizza
un’attitudine pretesamente categorica e
perentoria della sola formulazione di cui
all’ultima disposizione nel tempo, per
desumerne un’implicita soluzione di
continuità a fronte dell’orientamento
maturato vigenti le disposizioni precedenti
(e, segnatamente, l’art. 84, comma 2, d.lgs.
n. 163/2006).
Invero, l’assunto avrebbe potuto avere
plausibilità solo nel quadro di un’ipotetica
discontinuità dell’ambito operativo ed
applicativo della norma: per contro, la
previsione è rimasta costantemente ed
uniformemente operante in tutti i casi in
cui –trattandosi di aggiudicare il contratto
con il criterio quali-quantitativo
dell’offerta economicamente più vantaggiosa–
si renda necessario il ricorso a specifiche
competenze tecniche per il congiunto
apprezzamento dei profili tecnici ed
economici delle offerte.
Nemmeno il già evidenziato recente favor
legislativo per il criterio in questione (a
scapito del prezzo più basso) immuta la
conclusione, valendo solo ad estendere, in
fatto, i casi di necessaria designazione di
una Commissione.
2.4.- Ne discende che –non essendo dato
rinvenire, in diritto, ragioni per
articolare difforme lettura di simile
disposizione– va data continuità, anche
nella vigenza dell’art. 77 d.lgs. n. 50 del
2016, all’orientamento maturato in relazione
all’art. 84 d.lgs. n. 163 del 2006: in
relazione al quale la prevalente
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
ritiene la regola non “espressione di un
principio generale, immanente
nell'ordinamento, tale da determinare
l'illegittimità della costituzione di un
collegio avente un numero pari di
componenti, essendo numerose le ipotesi di
collegi, sia giurisdizionali che
amministrativi, che operano (o che
occasionalmente possono operare) in
composizione paritaria” (cfr. Cons.
Stato, V, 26.07.2016, n. 3372; Id., III,
03.10.2013, n. 4884; Id., III, 11.07.2013,
n. 3730).
Vero è che si tratta di orientamento non
unanime (implicitamente in senso difforme,
tra le più recenti, Cons. Stato, V,
23.06.2016, n. 2812; Id. V, 28.07.2014, n.
4017). Nondimeno, il relativo (e potenziale)
contrasto non appare, nel caso in esame, né
rilevante né decisivo, posto che (in
concreto) la Commissione risulta avere
come che sia deciso all’unanimità dei
componenti.
Invero, quand’anche si conceda, contro le
esposte premesse, che la composizione
numerica dispari per sé risponda al
principio di buon andamento e funzionalità
dell’azione amministrativa, resterebbe fermo
che la violazione del canone “p[otrebbe]
essere dedotta, per il principio di
conservazione degli atti giuridici, non
astrattamente, ma solo [quando avesse]
concretamente inciso sulle decisioni assunte
dalle commissioni stesse, cioè [quando
venissero] lamentati o si [fossero]
verificati dissensi comportanti lesioni
concrete degli interessi dei soggetti
giuridici nei confronti dei quali le
commissioni abbiano operato” (cfr..
Cons. Stato, V, 31.10.2012, n. 5563):
con il
che, in buona sostanza, avuto riguardo alla
concretezza e specificità dell’interesse ad
agire quale effettiva condizione
dell’azione, la violazione delle regole di
formazione della commissione potrebbe essere
dedotta solo le quante volte avesse
concretamente (e non potenzialmente) inciso
sugli interessi della parte che se ne
assumesse pregiudicata.
Ciò che deve, per l’appunto, per definizione
escludersi nei casi in cui –essendo maturata
una decisione unanime– il rivendicato numero
dispari dei componenti non abbia in qualche
modo prefigurato un’effettiva attitudine
discretiva, tale da lasciar ipotizzare un
esito valutativo difforme da quello
effettivamente reso (cfr., in fattispecie
contermine, Cons. Stato, III, 11.07.2013, n.
3730).
3.- Sotto distinto e concorrente profilo, la
sentenza appellata ha stimato che
l’affidamento alle due Sottocommissioni, in
cui era suddivisa la Commissione, del
compito di valutare, rispettivamente, le
offerte economiche e le offerte tecniche,
integrasse violazione dei principi in tema
di funzionamento dei collegi perfetti, in
base ai quali gli stessi sono tenuti ad
operare con l’interezza dei propri membri,
dovendo le decisioni essere assunte dal
plenum.
3.1.- L’assunto non regge alle giuste
doglianze dell’appello.
Non è, invero, in discussione il principio
-che va ribadito- per cui
la commissione
giudicatrice di gare d'appalto è un collegio
perfetto, che deve operare, in quanto tale,
in pienezza della sua composizione e non con
la maggioranza dei suoi componenti, con la
conseguenza che le operazioni di gara
propriamente valutative, come la fissazione
dei criteri di massima e la valutazione
delle offerte, non possono essere delegate a
singoli membri o a sottocommissioni
(cfr.
Cons. giust. amm. sic., 21.07.2008, n. 661;
Cons. Stato, V, 22.10.2007, n. 5502; Id., VI,
02.02.2004, n. 324).
Nondimeno, per evidenti esigenze di
funzionalità,
il principio è temperato per
cui non è indispensabile la piena
collegialità quando occorra effettuare
attività preparatorie, istruttorie o
strumentali, destinate, come tali, a
refluire nella successiva e definitiva
valutazione dell’intero consesso
(cfr. Cons.
Stato, V, 25.01.2011, n. 513; Id., IV,
05.08.2005, n. 4196).
In concreto,
l’attitudine meramente
strumentale dell’attività delegabile o
affidabile a sottocommissioni dovrà avere,
in difetto di criteri identificativi o
discretivi di ordine materiale o
sostanziale, la duplice caratteristica (a un
tempo necessaria e sufficiente):
a) di essere, ex ante e in abstracto, suscettibile di
potenziale verifica a posteriori da parte
del plenum;
b) di essere, ex post e in concreto, effettivamente
acquisita alla valutazione collegiale piena,
in termini di controllo, condivisione ed
approvazione.
Nel caso di specie, in effetti, risulta
dalla documentazione in atti che la
Commissione, a composizione piena, preso
atto di quanto predisposto dalle due
sottocommissioni e svolta, in merito, un’“approfondita
discussione”, ha determinato, in adesiva
conformità, i punteggi definitivi da
attribuire alle imprese offerenti: con ciò
mostrando di far propri, in autonomia e
nell’esercizio del proprio discrezionale
apprezzamento, gli esiti dell’attività
preparatoria dispiegata dalle costituite
sottocommissioni.
4.- Le esposte considerazioni, che assorbono
ogni ulteriore profilo critico (ivi,
segnatamente, inclusi i motivi rimasti
assorbiti e devolutivamente reiterati in
seconde cure ex art. 101 Cod. proc. amm.),
inducono al complessivo accoglimento
dell’appello ed alla integrale riforma della
sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.07.2018 n. 4143 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dipendenti
del fisco, curiosare è un reato.
Effettua il reato di accesso abusivo al sistema informatico il dipendente
dell'Agenzia delle entrate, che, pur dotato delle credenziali, acceda nel
sistema per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di
accesso gli è stata attribuita.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la
sentenza 04.07.2018 n. 30085.
In tali casi, evidenziano i giudici di legittimità, rimangono irrilevanti,
ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità, che abbiano
soggettivamente motivato l'ingresso del dipendente nel sistema, essendo
invece dirimente l'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in
ordine all'uso dello stesso.
Per quanto di interesse, il dipendente dell'Amministrazione finanziaria
ricorreva in Cassazione, lamentando, tra le altre, violazione dell'art. 416
c.p., poiché i giudici d'appello non avevano dato risposta circa l'assenza
di prove del delitto associativo. Il ricorrente sosteneva infatti di aver
indicato più dati probatori, dai quali sarebbe emersa la mancanza di
significativi rapporti con gli altri presunti associati.
Lo stesso lamentava poi anche la violazione dell'art 615-ter c.p., in
particolare laddove era stato trascurato che il ricorrente era autorizzato
ad accedere senza limiti, mediante la propria password, al sistema
informatico dell'Ente. Secondo la Corte il ricorso era infondato. La Corte
del merito aveva infatti descritto compiutamente gli elementi di prova a
carico del ricorrente, con particolare riferimento a conversazioni
intercettate, durante le quali gli interlocutori avevano parlato, in modo
esplicito, dell'attività di accesso ai sistemi informatici, al fine di
acquisire dati economici o personali dei soggetti di riferimento.
Infine, la Corte rileva l'estraneità all'elemento oggettivo del reato di cui
all'art. 615-ter c.p., delle ragioni che hanno spinto il soggetto agente ad
accedere ed a trattenersi nel sistema protetto, essendo comunque, nel caso
di specie, anche agevole constatare come l'accesso da parte dell'imputato
fosse avvenuto per fini illeciti, in quanto tali, sicuramente estranei allo
svolgimento delle funzioni del suo ufficio, in relazione alle quali
l'ingresso al sistema informatico gli era consentito (articolo
ItaliaOggi del 14.08.2018).
---------------
MASSIMA
3. In diritto, la difesa ha contestato la sussistenza del carattere
abusivo dell'accesso al sistema informatico, essendo l'imputato dotato delle
credenziali d'accesso, in quanto dipendente dell'agenzia delle entrate.
3.1 Al riguardo, però, occorre ribadire la consolidata posizione della
giurisprudenza che, più volte nella sua più autorevole composizione, ha
affermato che integra il delitto previsto dall'art.
615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico
ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo
abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare
di un sistema informatico o telematico protetto, per delimitarne l'accesso,
acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee
rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita
(Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017 Ud. -dep. 08/09/2017- Rv. 271061).
3.2 Si deve aggiungere che, in tali casi, rimangono,
invece, irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le
finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema,
essendo dirimente l'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in
ordine all'uso dello stesso (Cass.,
sez. un., 27.10.2011, n. 4694).
Con la decisione ora menzionata, infatti, le Sezioni Unite
hanno voluto evidenziare l'estraneità all'elemento oggettivo del reato di
cui all'art.
615-ter c.p., delle ragioni che hanno spinto ad accedere ed a
trattenersi nel sistema protetto il soggetto agente, il quale non può
ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi "sia allorquando violi
i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare
del sistema, sia allorquando ponga in essere operazioni di natura
ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione
alle quali l'accesso era a lui consentito".
3.3 Applicando tali principi al caso di specie è agevole constatare come
l'accesso da parte dell'imputato sia avvenuto per fini illeciti e, in quanto
tali, sicuramente estranei allo svolgimento delle funzioni del suo ufficio
ed in relazione alle quali l'ingresso al sistema informatico gli era
consentito. |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
ovvero di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, non cagiona illegittimità dell’ordinanza
di demolizione, la quale cede unicamente e temporaneamente
la sua efficacia a seguito della presentazione della
predetta istanza; l’efficacia è destinata a riespandersi ove
il Comune definisca negativamente la domanda di sanatoria
respingendola, per cui in caso di rigetto –anche tacito–
dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione
riacquista efficacia.
Secondo
pacifica giurisprudenza, la presentazione di un’istanza
di accertamento di conformità ovvero di sanatoria ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, non cagiona
illegittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale cede
unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito
della presentazione della predetta istanza; l’efficacia è
destinata a riespandersi ove il Comune definisca
negativamente la domanda di sanatoria respingendola, per cui in caso di rigetto –anche tacito–
dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione
riacquista efficacia.
Invero, “alla fattispecie
dell’accertamento di conformità non può applicarsi la
sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i
condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985,
come richiamato dalle successive disposizioni di cui
all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della
legge n. 326 del 2003” in quanto “A seguito della
presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985, n. 47 (attuale art. 36 del d.P.R. n. 38 del
2001) non perde efficacia l’ingiunzione di demolizione
precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una
specifica previsione normativa, come quella contenuta negli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985 con riferimento alle
domande di condono edilizio”.
Il Consiglio di Stato ha confermato tale orientamento
condivisibilmente individuandone anche la ratio, consistente
nell’evitare di rimettere alla volontà del privato colpito
dall’ordinanza di demolizione il potere di determinare de
facto, per via della propugnata elusione del provvedimento
demolitorio mediante la mera presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità e la conseguente necessità che il
Comune, in caso di rigetto della stessa, debba adottare un
nuovo provvedimento, la paralisi del provvedimento di
demolizione, equivalente a un sostanziale annullamento di
essa.
Ha infatti efficacemente chiarito che l’opposto orientamento
“si è formato in tema di condono ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente consente, a
determinate condizioni, e per un limitato potere di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi”, ragioni per ci tali
principi non possono essere estesi al caso di specie, in
cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia i sensi di una norma
che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce
doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla
base di una disciplina preesistente per cui “Sostenere
che…nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito,
dell’istanza di accertamento di conformità,
l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di
demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un
soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
Ancor più di recente il Giudice d’appello ha stabilito
che “da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di
primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza
per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide
sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l’efficacia, ma soltanto
sospendendone temporaneamente gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il
risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se
l’istanza è rigettata, decorrendo il relativo termine di
adempimento dalla conoscenza del diniego”.
Questa Sezione ha confermato la ricostruita esegesi,
precisando che “La validità o l'efficacia dell'ordine di
demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità.
Tale orientamento appare più aderente alle disposizioni e
alla ratio del sistema normativo in tema di repressione e
sanzione degli abusi edilizi, sistema nel quale non è
individuabile alcuna previsione, nemmeno implicita, dalla
quale desumere che l'istanza di accertamento di conformità
produca un effetto caducante sull'ordine di demolizione.
Sicché l'efficacia di tale ordine rimane soltanto sospesa e
quiescente fino alla conclusione del procedimento di
sanatoria per conformità”.
Più di recente ha ribadito
che “la presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità non inficia la legittimità dell’ordinanza di
demolizione, la quale dismette unicamente e temporaneamente
la sua efficacia a seguito della presentazione dell’istanza
di conservazione, efficacia destinata a riespandersi ove il
Comune riscontri negativamente la domanda di sanatoria
respingendola”.
Rimarca anche il Collegio che a norma dell’art. 36,
comma 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si
pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di
conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende
respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio significativo sub specie di c.d. silenzio-diniego o
silenzio rigetto a cui il legislatore annette natura ed
effetti di provvedimento di rigetto dell’istanza, con tutto quanto
ne consegue ovverosia, in sintesi, sul piano sostanziale la
cessazione dello stato di quiescenza dell’ordinanza di
demolizione adottata relativamente alle opere oggetto
dell’accertamento di conformità, quiescenza che perdura solo
fino a quando il Comune non si sia pronunciato sull’istanza,
espressamente o tacitamente.
---------------
2.1. La doglianza è infondata alla luce di pacifica
giurisprudenza, poiché la presentazione di un’istanza di
accertamento di conformità ovvero di sanatoria ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. 6.6.2001, n. 380, non cagiona
illegittimità dell’ordinanza di demolizione, la quale cede
unicamente e temporaneamente la sua efficacia a seguito
della presentazione della predetta istanza; l’efficacia è
destinata a riespandersi ove il Comune definisca
negativamente la domanda di sanatoria respingendola (TAR
Campania–Napoli, Sez. II, 14.09.2009, n. 4961; Cons. di
Stato, Sez. IV, 19.02.2008, n. 849 ord.; TAR Campania–Napoli, Sez. III,
05.12.2012, n. 4941; ID, 17.05.2012, n.
2787), per cui in caso di rigetto –anche tacito–
dell’istanza stessa, la pregressa ordinanza di demolizione
riacquista efficacia (in tal senso, da ultimo TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 28.01.2013 n. 651; ID,
05.12.2012, n. 4941).
Giova evidenziare che il delineato avviso è stato enunciato
anche da altri Tribunali: “alla fattispecie
dell’accertamento di conformità non può applicarsi la
sospensione dei procedimenti sanzionatori prevista per i
condoni a partire dall’art. 44 della legge n. 47 del 1985,
come richiamato dalle successive disposizioni di cui
all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art. 32 della
legge n. 326 del 2003” in quanto “A seguito della
presentazione della domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985, n. 47 (attuale art. 36 del d.P.R. n. 38 del
2001) non perde efficacia l’ingiunzione di demolizione
precedentemente emanata, poiché a tal fine occorrerebbe una
specifica previsione normativa, come quella contenuta negli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985 con riferimento alle
domande di condono edilizio” (TAR Lazio–Roma, Sez. I–quater,
02.03.2012, n. 2165).
Il Consiglio di Stato ha confermato tale orientamento
condivisibilmente individuandone anche la ratio, consistente
nell’evitare di rimettere alla volontà del privato colpito
dall’ordinanza di demolizione il potere di determinare de
facto, per via della propugnata elusione del provvedimento
demolitorio mediante la mera presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità e la conseguente necessità che il
Comune, in caso di rigetto della stessa, debba adottare un
nuovo provvedimento, la paralisi del provvedimento di
demolizione, equivalente a un sostanziale annullamento di
essa.
Ha infatti efficacemente chiarito che l’opposto orientamento
“si è formato in tema di condono (Cons. di Stato, Sez., VI,
26.03.2010, n. 1750) ossia di richiesta che trova il suo
fondamento in una norma di carattere legislativo, che,
innovando alla disciplina urbanistica vigente consente, a
determinate condizioni, e per un limitato potere di tempo,
la sanatoria degli abusi commessi”, ragioni per ci tali
principi non possono essere estesi al caso di specie, in
cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia i sensi di una norma
che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce
doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla
base di una disciplina preesistente per cui “Sostenere
che…nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito,
dell’istanza di accertamento di conformità,
l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di
demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un
soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.05.2014, n. 2307).
Ancor più di recente il Giudice d’appello, richiamando la
persuasività della decisione ora riportata, ha stabilito,
confermando la sentenza della Sezione n. 1211 del 26.02.2014,
che “da tutto ciò consegue la correttezza della sentenza di
primo grado nella parte in cui si richiama la giurisprudenza
per cui l’istanza di accertamento di conformità non incide
sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l’efficacia, ma soltanto
sospendendone temporaneamente gli effetti fino alla
definizione, espressa o tacita, dell’istanza, con il
risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se
l’istanza è rigettata, decorrendo il relativo termine di
adempimento dalla conoscenza del diniego” (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 02.02.2015, n. 466).
Questa Sezione ha confermato la ricostruita esegesi,
precisando che “La validità o l'efficacia dell'ordine di
demolizione non risulta pregiudicata dalla successiva
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità.
Tale orientamento appare più aderente alle disposizioni e
alla ratio del sistema normativo in tema di repressione e
sanzione degli abusi edilizi, sistema nel quale non è
individuabile alcuna previsione, nemmeno implicita, dalla
quale desumere che l'istanza di accertamento di conformità
produca un effetto caducante sull'ordine di demolizione.
Sicché l'efficacia di tale ordine rimane soltanto sospesa e
quiescente fino alla conclusione del procedimento di
sanatoria per conformità” (TAR Campania-Napoli, Sez.
III, 07.09.2015, n. 4392).
Più di recente ha ribadito
che “la presentazione di un’istanza di accertamento di
conformità non inficia la legittimità dell’ordinanza di
demolizione, la quale dismette unicamente e temporaneamente
la sua efficacia a seguito della presentazione dell’istanza
di conservazione, efficacia destinata a riespandersi ove il
Comune riscontri negativamente la domanda di sanatoria
respingendola” (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
24.10.2017 n. 4943).
2.2. Rimarca anche il Collegio che a norma dell’art. 36,
comma 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si
pronunci espressamente sull’istanza di accertamento di
conformità entro sessanta giorni, la stessa si intende
respinta.
Si forma, cioè, sulla domanda, una tipica fattispecie di
silenzio significativo sub specie di c.d. silenzio-diniego o
silenzio rigetto a cui il legislatore annette natura ed
effetti di provvedimento di rigetto dell’istanza (TAR
Lazio-Latina, 09.10.2006 n. 1044; TAR Campania-Napoli, Sez. II, 12.07.2013 n. 3644), con tutto quanto
ne consegue ovverosia, in sintesi, sul piano sostanziale la
cessazione dello stato di quiescenza dell’ordinanza di
demolizione adottata relativamente alle opere oggetto
dell’accertamento di conformità, quiescenza che perdura solo
fino a quando il Comune non si sia pronunciato sull’istanza,
espressamente o tacitamente.
Nel caso di specie l’istanza del 29.04.2010 è da considerare
respinta per silentium dal Comune, conseguendone
l’irrilevanza della stessa (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 04.07.2018 n. 4420 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'immobile abusivo, del sedime e della relativa area di
pertinenza, costituendo un effetto automatico della mancata
ottemperanza alla ordinanza di ingiunzione della
demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica,
pertanto, scelte di tipo discrezionale, con la conseguenza
che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i
suddetti presupposti, non incombe all'amministrazione alcun
peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura
dell'acquisizione
---------------
3. Con la seconda censura si lamenta che l’intervenuta
demolizione del manufatto avrebbe privato l’acquisizione del
suo presupposto basilare e ulteriormente il difetto di
motivazione.
Quanto alla prima doglianza va osservato che il fatto che
rileva ai fini dell’acquisizione è la demolizione spontanea
dell’immobile, ove intervenuta oltretutto nel termine
dilatorio di novanta giorni dalla notifica dell’ordinanza.
Alcuna rilevanza può invece annettersi ad una demolizione
eseguita da un terzo e nella specie alla Procura della
Repubblica e oltretutto oltre il termine di novanta giorni.
Quanto alla seconda doglianza si rammenta che l’ordinanza di
acquisizione come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi
essendo un atto vincolato non richiede l’espressione di
alcuna motivazione.
Si è in tal senso, infatti, di recente puntualizzato che
“L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'immobile abusivo, del sedime e della relativa area di
pertinenza, costituendo un effetto automatico della mancata
ottemperanza alla ordinanza di ingiunzione della
demolizione, ha natura meramente dichiarativa e non implica,
pertanto, scelte di tipo discrezionale, con la conseguenza
che, ai fini della sua adozione, una volta avveratisi i
suddetti presupposti, non incombe all'amministrazione alcun
peculiare obbligo di motivazione in ordine alla misura
dell'acquisizione” (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 11.07.2016 n. 1877).
In definitiva, alla luce di quanto osservato il ricorso si
presenta infondato e va pertanto respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 04.07.2018 n. 4420 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità
del proprietario nell’abuso edilizio
effettuato da terzi.
Anche in caso di
detenzione legittimamente concessa dal
proprietario a terzi, per l’esclusione del
proprietario dalla responsabilità nell’abuso
edilizio effettuato da terzi, prescindendo
dall’effettivo riacquisto della materiale
disponibilità del bene, si ritiene
necessario un comportamento attivo, da
estrinsecarsi in diffide o in altre
iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore.
Occorre cioè che il proprietario si sia
adoperato, una volta venutone a conoscenza,
per la cessazione dell’abuso, al fine di
evitare l’applicazione di una norma che, in
caso di omessa demolizione dell’abuso,
prevede che l’opera abusivamente costruita e
la relativa area di sedime siano, di
diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a
tal fine un comportamento meramente passivo
di adesione alle iniziative comunali
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.06.2018 n. 1626 -
commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
In merito ai destinatari dell’ordine di
demolizione l’art. 31 del DPR 380/2001 prevede
al secondo comma, che <<Il dirigente o il
responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale
difformità dal medesimo, ovvero con
variazioni essenziali, determinate ai sensi
dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e
al responsabile dell’abuso la rimozione o la
demolizione, indicando nel provvedimento
l’area che viene acquisita di diritto, ai
sensi del comma 3>>.
La norma è chiara quindi nel parificare un
rapporto di fatto ad uno di diritto
nell’individuazione dei destinatari
dell’ordine di demolizione, in
considerazione del carattere reale della
sanzione edilizia, da poco riconfermata dal
Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria,
sentenza 17/10/2017 n. 9).
Infatti
l’Adunanza Plenaria ha chiarito che
il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un
immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto,
non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della
legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso neanche nell’ipotesi in
cui l’ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento
non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
Ancora più chiaramente la giurisprudenza ha
affermato che il presupposto per l’adozione
di un’ordinanza di ripristino non coincide
con l'accertamento di responsabilità
storiche nella commissione dell'illecito, ma
è correlato all’esistenza di una situazione
dei luoghi contrastante con quella
codificata nella normativa urbanistico
–edilizia, e all’individuazione di un
soggetto il quale abbia la titolarità a
eseguire l’ordine ripristinatorio: il
proprietario, in virtù del suo diritto
dominicale; sicché in modo legittimo la
misura ripristinatoria è posta a carico, non
solo dell'autore dell'illecito, ma anche del
proprietario del bene e dei suoi aventi
causa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza
28.07.2017 n. 3789).
La giurisprudenza riconferma quindi che il
destinatario della sanzione demolitoria è
l’autore dell’abuso ed il titolare attuale
del bene.
Dai documenti agli atti risulta che la
ricorrente ha ottenuto l’affitto del fondo
agricolo con annesso fabbricato rurale da
Be.Gr., la cui proprietà è però
contestata sia dal Comune, il quale
qualifica dante causa ed avente causa quali
occupanti abusivi. Anche il proprietario
individuato nel provvedimento, cioè Fo.La.Tr. srl contesta la proprietà
del dante causa e del possessore attuale. La
società, dai documenti presentati dal Comune
e non contestati dalla ricorrente, afferma
di aver acquistato il bene nel 1973 ma di
non aver mai avuto la materiale
disponibilità del bene oltre ad essere stata
destinataria di un’azione di usucapione, i
cui esiti non sono noti e di essere
attualmente proprietaria.
E’ chiaro quindi che la ricorrente è
detentrice del bene a titolo derivativo per
averlo acquisito dal precedente detentore o
possessore nel 2001. A ciò si aggiunge che
nel ricorso nega in sostanza di essere
autrice dell’abuso, sostenendo l’anteriorità
della costruzione agli obblighi di
richiedere il permesso di edificare nel
Comune di Trezzo e quindi anche alla sua
detenzione.
Occorre quindi chiarire se la realità della
sanzione edilizia comporti che l’ordine di
demolizione possa essere notificato oltre
che ai successori del proprietario anche ai
successori dell’autore dell’abuso e quindi
se, nel caso in questione, la notifica
effettuata alla ricorrente possa valere a
radicare la sua legittimazione a ricorrere.
La risposta non può che essere negativa
perché la giurisprudenza afferma che,
anche
in caso di detenzione legittimamente
concessa dal proprietario a terzi, per
l’esclusione del proprietario dalla
responsabilità nell’abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall’effettivo
riacquisto della materiale disponibilità del
bene, si ritiene necessario un comportamento
attivo, da estrinsecarsi in diffide o in
altre iniziative di carattere ultimativo nei
confronti del conduttore (“che si sia
adoperato, una volta venutone a conoscenza,
per la cessazione dell’abuso”: tra le tante
in tal senso, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948),
al fine di evitare
l’applicazione di una norma che, in caso di
omessa demolizione dell’abuso, prevede che
l’opera abusivamente costruita e la relativa
area di sedime siano, di diritto, acquisite
gratuitamente al patrimonio del Comune, non
bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle
iniziative comunali (Consiglio di Stato,
Sezione VI, con sentenza del 04.05.2015
n. 2211).
E’ chiaro quindi che l’intrasmissibilità
della posizione di autore dell’abuso si
connette con l’obbligo del proprietario di
attivarsi nei confronti del detentore a
qualsiasi titolo del bene nei termini dati
dall’ordinanza di demolizione al fine di
fare eliminare l’abuso o di rientrare nel
possesso del bene ed eliminarlo lui stesso,
pena l’acquisizione del bene al patrimonio
comunale.
A ciò si aggiunge che il ricorso proposto da
colui che ha un diritto asseritamente
dipendente da quello del proprietario, in
quanto diretto alla conservazione di beni
che appartengono ad altri, dev’essere
notificato anche al proprietario, cose che
nel caso in questione non si è verificata.
In definitiva quindi il ricorso va
dichiarato inammissibile per difetto di
legittimazione ad agire e per difetto di
corretta instaurazione del contraddittorio. |
EDILIZIA PRIVATA: Le
insegne senza limiti da impianto. Pubblicità.
L'insegna di esercizio posizionata parallelamente al senso di marcia dei
veicoli non deve rispettare tutte le normali distanze previste dal codice
stradale. Ma non potrà essere comunque troppo vistosa, ingombrante e
particolare per essere autorizzata.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la
sentenza
28.06.2018 n. 3974.
Un'attività produttiva si è vista revocare dall'Anas la precedente
autorizzazione al posizionamento di una insegna di esercizio perché
installata a una distanza inferiore ai 250 metri previsti dal codice
stradale per gli incroci. Contro questa determinazione l'interessato ha
proposto con successo censure al collegio.
E i giudici di palazzo Spada
hanno confermato le conclusioni del Tar, ovvero che la revoca non è corretta
perché le distanze richiamate dall'Anas non si applicano per le insegne di
esercizio posizionate parallelamente al senso di marcia dei veicoli.
Lo stabilisce l'art. 51/5° del regolamento stradale. Ma sempre che
l'impianto non risulti interferente con la sicurezza e la regolarità della
circolazione stradale per scelte dimensionali e di colore troppo originali e
vistose, conclude il collegio (articolo
ItaliaOggi del 18.08.2018).
---------------
MASSIMA
6. In via preliminare, occorre ricordare che ai sensi
dell’art. 23, comma 7, del d.lgs. n. 285 del 1992, lungo le autostrade, le
strade extraurbane principali ed i relativi accessi è ammessa
l’installazione (oltre che di cartelli indicatori di servizi), soltanto di
insegne di esercizio, necessarie ai fini della normale attività aziendale in
quanto atte a consentire alla clientela di individuare agevolmente il punto
di accesso ai locali dell’impresa
(cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.06.2007, n. 3782).
Per insegna di esercizio va intesa l’insegna che risulti
installata sulla sede dell’attività per individuare l’azienda nella sua
dislocazione fisica, e che non contenga alcun elemento teso a pubblicizzare
l’attività produttiva dell’impresa, limitandosi soltanto a segnalare la
denominazione dell’impresa medesima, nel rispetto del dettato dell’art. 47
del d.P.R. n. 495 del 1992, quanto a dimensioni e luminosità.
Per quanto riguarda l’ubicazione lungo le strade, e relative fasce di
pertinenza, secondo la disposizione recata dall’art. 51, comma 5, del più
volte citato d.P.R. n. 495 del 1992 «Le norme di cui ai
commi 2 e 4, e quella di cui al comma 3, lettera c), non si applicano per le
insegne di esercizio, a condizione che le stesse siano collocate
parallelamente al senso di marcia dei veicoli in aderenza ai fabbricati
esistenti o, fuori dai centri abitati, ad una distanza dal limite della
carreggiata, non inferiore a 3 m, ed entro i centri abitati alla distanza
fissata dal regolamento comunale, sempre che siano rispettate le
disposizioni dell'articolo 23, comma 1, del codice».
6.1. Tenuto conto del regime di deroga di cui usufruiscono le insegne di
esercizio, ed anche a non voler considerare il tenore letterale della
disposizione che si è testé riportata, la tesi che l’Anas ha riproposto in
appello, relativa alla necessaria complementarità tra il requisito del
parallelismo e quello della distanza, non ha chiaro riscontro né sul piano
logico né quello sistematico.
Sul piano logico, non è in particolare condivisibile l’affermazione secondo
cui l’interpretazione letterale renderebbe inutile il requisito del
parallelismo, previsto dalla prima parte della disposizione in esame,
risultando idonea a regolare ogni possibile ipotesi esclusivamente la
seconda parte del comma 5.
E’ infatti evidente che le insegne di esercizio collocate
parallelamente al senso di marcia, in aderenza ai fabbricati esistenti, non
pongono alcun particolare problema di sicurezza (non diversamente, almeno,
da quanto possano fare le facciate degli edifici cui aderiscono) in quanto
la loro peculiare posizione, almeno in astratto, non interferisce con la
visuale degli utenti della strada.
La prima parte del comma 5 ha quindi una evidente, autonoma e specifica
applicazione.
Il requisito della distanza minima è invece richiesto per
le insegne di esercizio che non presentino tali caratteristiche ed ha
l’evidente fine di assicurare una fascia di rispetto idonea ad evitare
intralcio o disturbo alla circolazione.
In ogni caso, la disposizione richiama anche, quale formula di chiusura, il
rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 23, comma 1, del codice della
strada, secondo cui compete comunque all’ente gestore della strada di
valutare, in concreto, se, pur in presenza delle condizioni che in astratto
consentono la deroga, le insegne di esercizio non presentino eventualmente “dimensioni,
forma, colori, disegno e ubicazione” tali da ingenerare confusione con
la segnaletica stradale, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della
strada o distrarne l’attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza
della circolazione.
Tuttavia, nel caso di specie, il provvedimento impugnato non si fonda su una
valutazione, in concreto, dell’ubicazione dell’insegna di esercizio, bensì
soltanto su una interpretazione del regolamento di attuazione del codice
della strada la quale, come già accennato, non ha riscontro nemmeno sul
piano sistematico.
Va infatti soggiunto che propria la presenza delle altre disposizioni
richiamate dall’Anas –in cui il requisito del parallelismo si aggiunge a
quello della distanza– è indice del fatto che il legislatore ha
consapevolmente disciplinato la specifica e distinta fattispecie qui in
esame, al chiaro scopo di contemperare l’esercizio dell’attività aziendale
con le esigenze della circolazione, fatta in ogni caso salva la concreta
verifica dello stato dei luoghi a tutela degli utenti della strada.
7. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere
respinto. |
PUBBLICO IMPIEGO: Di
rigore il regolamento sui compensi agli avvocati.
È obbligatorio adottare il regolamento previsto dall'art. 9 del dl n.
90/2014 sulla disciplina dei compensi da corrispondere agli avvocati
pubblici a seguito di sentenze favorevoli per la p.a..
Questo è quanto ha sancito il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III con la
sentenza 27.06.2018 n. 1460.
La controversia ha per oggetto il ricorso promosso da due dipendenti della
Regione Siciliana con qualifica di funzionario direttivo-avvocato, in
servizio presso l'ufficio legislativo e legale della presidenza della
regione. Con tale ricorso avevano impugnato il silenzio tenuto dalla
presidenza della regione, dal Dipartimento funzione pubblica e personale e
dall'ufficio legislativo e legale, sull'istanza trasmessa via Pec volta a
ottenere l'adozione del regolamento previsto dall'art. 9 del dl n. 90/2014.
I ricorrenti avevano lamentato l'inerzia mantenuta dall'Amministrazione
regionale e avevano chiesto l'annullamento del silenzio e la condanna
all'adozione di tale atto.
Il Tar siciliano accoglie il ricorso e condanna l'amministrazione ad
adottare il provvedimento approvativo del regolamento sopra citato.
Non può che essere ritenuto illegittimo, infatti, il silenzio serbato dalla
regione in ordine all'istanza avanzata: con il regolamento previsto
dall'art. 9 del dl n. 90/2014 sono stabilite le modalità e la misura
attraverso le quali sarà possibile procedere alla corresponsione dei
compensi professionali nelle ipotesi indicate dalla norma primaria; e la
norma primaria «disciplina il rapporto tra regolamenti degli enti e
contrattazione collettiva e la devoluzione agli stessi dei criteri di
riparto fra il personale delle avvocature dei compensi professionali, nonché
dei criteri di riparto degli affari consultivi o contenziosi».
Ne consegue che, secondo i giudici amministrativi, la mancata adozione del
regolamento costituisce un chiaro inadempimento del precetto legislativo
contenuto nell'art. 9, comma 8, sopra citato. In applicazione dell'art. 2
della legge n. 241/1990, grava quindi in capo all'Amministrazione l'obbligo
di avviare e concludere il relativo procedimento (articolo
ItaliaOggi Sette del 13.08.2018).
---------------
MASSIMA
A. – Con il ricorso in esame, gli odierni istanti -dipendenti della
Regione Siciliana con qualifica di funzionario direttivo-avvocato, in
servizio presso l'Ufficio Legislativo e Legale della Presidenza della
Regione- hanno impugnato il silenzio asseritamente serbato dalla Presidenza
della Regione, dal Dipartimento Funzione Pubblica e Personale e dall’Ufficio
Legislativo e Legale, sull’istanza trasmessa via pec il 20.04.2017 volta ad
ottenere l’adozione del regolamento previsto dall'art. 9 del d.l. n.
90/2014.
Si dolgono dell’inerzia mantenuta dall’Amministrazione regionale, chiedendo
l’annullamento del silenzio e la condanna all’adozione di tale atto;
chiedendo contestualmente la nomina del commissario ad acta e la
condanna al pagamento delle spese di lite.
B. – Si sono costituiti in giudizio la Presidenza della Regione Siciliana e
l’Assessorato regionale delle Autonomie locali e della Funzione Pubblica,
depositando documentazione.
C. – Con ordinanza n. 870/2018 sono stati chiesti documentati chiarimenti
alla resistente Amministrazione regionale, con particolare riguardo
all’attività finora svolta dai competenti Uffici al fine di dare compiuta
applicazione al citato art. 9 del d.l. n. 90/2014; con successivo deposito
di documentazione da parte dell’Ufficio Legislativo e Legale della
Presidenza della Regione.
Quindi, alla camera di consiglio del giorno 12.06.2018, presenti i difensori
delle parti, come da verbale, il ricorso è stato posto in decisione.
D. – Il ricorso è fondato.
I due ricorrenti -dipendenti della Regione Siciliana con qualifica di
funzionario direttivo-avvocato, in servizio presso l'Ufficio Legislativo e
Legale della Presidenza- hanno impugnato il silenzio mantenuto
dall’Amministrazione regionale sull’istanza, trasmessa il 20.04.2017, volta
a ottenere l’adozione del regolamento previsto dall’art. 9 del d.l. n.
90/2014, il quale nella versione oggi vigente, stabilisce, ai commi 3, 5, 6
e 8, che “…3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle
spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite
tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi
gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità
stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai
sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La
parte rimanente delle suddette somme e' riversata nel bilancio
dell'amministrazione.
(…) 5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici
e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al
primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al
rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che
tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali. I
suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di
assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile
attraverso sistemi informatici, secondo principi di parità di trattamento e
di specializzazione professionale.
6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi
compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni
pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale
dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base
alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello
stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente
stanziamento relativo all'anno 2013. Nei giudizi di cui all'articolo 152
delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e
disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18.12.1941, n. 1368,
possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme
regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti
dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il
corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013.
(…) 8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate
successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. I commi
3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si
applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti
collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In
assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 01.01.2015, le
amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere
compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni
stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato”.
Dall’esame della disciplina appena riportata emerge che, con il regolamento
in interesse, sono stabilite le modalità e la misura attraverso le quali
sarà possibile procedere alla corresponsione dei compensi professionali
nelle ipotesi indicate dalla norma primaria; e la norma primaria “…disciplina
il rapporto tra regolamenti degli enti e contrattazione collettiva e la
devoluzione agli stessi dei criteri di riparto fra il personale delle
avvocature dei compensi professionali, nonché dei criteri di riparto degli
affari consultivi o contenziosi…” (cfr. C.G.A., Adunanza delle Sezioni
riunite del 21.02.2017, parere n. 382).
Ne consegue che la mancata adozione del regolamento costituisce un chiaro
inadempimento del precetto legislativo contenuto nell’art. 9, co. 8, su
riportato; e che, in applicazione dell’art. 2 della l. n. 241/1990, grava in
capo all’Amministrazione l’obbligo di avviare e concludere il relativo
procedimento (in tal senso, v.: TAR Campania, Napoli, Sez. V,
07.07.2017, n. 3673; TAR Toscana, Sez. I, 09.03.2017, n. 355; TAR Sicilia, Sez. II,
06.06.2016, n. 1361).
Deve precisarsi, sotto tale profilo, che l’Ufficio Legislativo e Legale
della Presidenza della Regione, in adempimento all’ordine istruttorio di cui
all’ordinanza n. 870/2018, ha depositato documentazione dalla quale si
evince un primo tentativo, nel mese di giugno 2015, di redazione del
regolamento in attuazione del su riportato art. 9; nonché, a seguito della
proposizione del ricorso in esame, l’istituzione di un tavolo tecnico al
fine di pervenire alla predisposizione di un nuovo schema di Regolamento,
auspicabilmente entro un mese dall’insediamento, previsto per il 15 aprile
scorso (cfr. nota prot. n. 9355 del 7 maggio 2018 e l’allegata disposizione
n. 7014 del 07.04.2018).
A tale disposizione di servizio non risulta dagli atti di causa -né
l’Amministrazione lo ha documentato- che abbia fatto seguito tale attività.
Poiché non emerge, allo stato, alcun indice significativo del superamento
dell’inerzia -né risulta che sia stata definita, per tale specifico
oggetto, la contrattazione con le rappresentanze sindacali- deve essere
dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione
regionale.
Conseguentemente, va ordinato alla Presidenza della Regione Siciliana e
all’Ufficio Legislativo e Legale, ciascuno per quanto di rispettiva
competenza, di provvedere all’adozione del regolamento di cui all’art. 9, co. 8, del d.l. n. 90/2014 nel termine di centoventi giorni dalla
comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione, a cura di parte, della
presente sentenza.
Per l’ipotesi di ulteriore inerzia oltre il termine assegnato, va nominato
commissario ad acta il Segretario Generale dell’Assemblea Regionale
Siciliana, con facoltà di delega ad altro funzionario in servizio presso la
medesima struttura dotato di adeguata competenza, il quale, su istanza di
parte ricorrente, darà seguito agli adempimenti conseguenti alla presente
sentenza nell’ulteriore termine di centoventi giorni; con onere per la
relativa attività a carico della Presidenza della Regione. |
APPALTI: Gara, impresa esclusa se c'è rinvio a giudizio.
È legittimo escludere da una gara un'impresa a causa del solo rinvio a
giudizio dell'amministratore della società.
Lo ha affermato il TAR
Campania-Napoli, Sez. VII, con la
sentenza
26.06.2018 n. 4271, che ha stabilito che il
provvedimento di rinvio a giudizio emesso nell'ambito di un procedimento
penale a carico degli amministratori di un'impresa legittima l'esclusione
dalla gara anche in assenza di una pronuncia definitiva.
La sentenza ha una sua rilevanza in quanto riguarda una fattispecie (oggetto
di rinvio a giudizio) in cui si sarebbe configurato un tentativo di
influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante.
Si tratta evidentemente di un reato che incide gravemente sulla integrità e
affidabilità del concorrente e che ha determinato una lettura fortemente
estensiva della disciplina vigente in tema di cause di esclusione per
illecito professionale (articolo 80, comma 5, lettera c), del codice appalti).
In altre parole, il Tar ha ritenuto che il provvedimento di rinvio a
giudizio, pur non avendo alcun carattere di definitività in merito al
procedimento penale in corso, fosse di per sé sufficiente ad integrare
un'ipotesi di grave illecito professionale, sia pure in assenza di una
sentenza di condanna, al limite anche non definitiva.
Secondo i giudici
l'esclusione per gravi illeciti professionali si può fondare anche su
elementi che, anche se in via ancora presuntiva, configurano un
comportamento che non compatibile con la partecipazione alla gara. Una
lettura non molto dissimile da quella fornita dall'Anac con le linee guida
in materia di grave illecito professionale. In concreto, poi, la valutazione
della rilevanza del fatto oggetto di rinvio a giudizio viene lasciata alla
discrezionalità della stazione appaltante, che ovviamente avrà il compito di
fornire adeguata e congrua motivazione della scelta compiuta.
Nel caso esaminato dai giudici queste considerazioni assumono un rilevo
ancora maggiore in relazione al fatto che il procedimento penale in corso e
il decreto di rinvio a giudizio si riferiscono all'affidamento dello stesso
servizio oggetto della gara in corso e che la stazione appaltante coinvolta
nell'episodio è la stessa che ha disposto l'esclusione (articolo
ItaliaOggi del 24.08.2018).
---------------
MASSIMA
6. - Parte ricorrente ritiene che il mero decreto che dispone il rinvio
a giudizio non sia atto idoneo a legittimare l’esclusione dalla gara per
grave illecito professionale, non potendosi desumere dallo stesso elementi
idonei a minare l’affidabilità del concorrente, tanto più che mai nessun
addebito è stato rivolto alla ricorrente nello svolgimento del servizio
durante l’esecuzione del precedente contratto di appalto, pure prorogato,
per effetto della cui scadenza è stata indetta la gara oggetto del presente
giudizio.
Gli assunti di parte ricorrente non sono condivisibili.
6.1. - Ai sensi dell’art. 80, co. 5, lett. c), del d.lvo n. 50/2016 “Le stazioni
appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un
operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un
suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: … la
stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si
è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la
sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze
nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che
ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una
condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di
influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante
o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il
fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili
di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione
ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento
della procedura di selezione”.
6.2. - I più recenti arresti giurisprudenziali in materia, come ammesso
anche dalla ricorrente, depongono nel senso che –anche al di là dei casi in
cui ricorra una fattispecie tipizzata dall’art. 80, co. 5, lett. c) (illecito
professionale che abbia dato luogo ad una risoluzione o ad altra sanzione giudizialmente “confermata”)–
residua in capo alla S.A. il potere di
operare una valutazione discrezionale sulla gravità dell’illecito, fornendo
adeguata motivazione sulla incidenza dell’inadempimento sull’affidabilità
del concorrente.
In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato (in relazione a fattispecie
in cui l’esclusione era stata motivata in base a “mere” negligenze poste in
essere dal concorrente in ordine alle quali sussisteva “una situazione di
conflittualità e di reciproche contestazioni”, ma difettavano gli effetti
legali tipici escludenti previsti dall’art. 80) che ha statuito quanto
segue:
- “l’elencazione dei gravi illeciti professionali rilevanti
contenuta nella lettera c) del comma 5 dell’art. 80 è meramente
esemplificativa, per come è fatto palese sia dalla possibilità della
stazione appaltante di fornirne la dimostrazione <<con mezzi adeguati>>, sia
dall’incipit del secondo inciso (<<Tra questi (id est, gravi illeciti
professionali) rientrano: […]>>) che precede l’elencazione;
- quest’ultima, oltre ad individuare, a titolo esemplificativo,
gravi illeciti professionali rilevanti, ha anche lo scopo di alleggerire
l’onere della stazione appaltante di fornirne la dimostrazione con <<mezzi
adeguati>>;
[..omissis ..]
- né le linee guida né il parere citato [parere
03.11.2016,
col n. 2286, n.d.r.] (e neanche il successivo, reso da questo Consiglio di
Stato il 25.09.2017, n. 2042/2017) smentiscono l’interpretazione
sopra enunciata, per la quale il pregresso inadempimento rileva a fini
escludenti, qualora assurga al rango di <<grave illecito professionale>>,
tale da rendere dubbia l’integrità e l’affidabilità dell’operatore
economico, anche se non abbia prodotto gli effetti risolutivi, risarcitori o
sanzionatori tipizzati.
Pertanto, è rimessa alla discrezionalità della
stazione appaltante la valutazione della portata di pregressi inadempimenti
che non abbiano (o non abbiano ancora) prodotto questi effetti specifici; in
tale eventualità, però, i correlati oneri di prova e di motivazione sono ben
più rigorosi ed impegnativi rispetto alle ipotesi esemplificate nel testo di
legge e nelle linee guida”
(Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 1299 del
02.03.2018 e sent. 3592 dell’11.06.2018; vedasi anche TAR Lazio, sez. III,
08.03.2018 n. 2668, TAR Campania, sez. I, 11.04.2018 n. 2390, Sez. VIII,
05.06.2018, n. 3691 e, 18.06.2018, n. 4015).
6.3. - Analogamente, le Linee Guida n. 6 dell’Anac, già nel testo precedente
l’aggiornamento operato col provvedimento dell’11.10.2017, prevedevano
che:
a) «rilevano quali cause di esclusione ai sensi dell'art. 80, comma 5,
lettera c) del codice gli illeciti professionali gravi tali da rendere
dubbia l'integrità del concorrente, intesa come moralità professionale, o la
sua affidabilità, intesa come reale capacità tecnico professionale, nello
svolgimento dell'attività oggetto di affidamento» (2.1.);
b) «al ricorrere
dei presupposti di cui al punto 2.1, la stazione appaltante deve valutare,
ai fini dell'eventuale esclusione del concorrente, i comportamenti idonei ad
alterare illecitamente la par condicio tra i concorrenti oppure in qualsiasi
modo finalizzati al soddisfacimento illecito di interessi personali in danno
dell'amministrazione aggiudicatrice o di altri partecipanti, posti in
essere, volontariamente e consapevolmente dal concorrente» (2.1.2.1.);
c)
«rilevano, a titolo esemplificativo: 1. quanto all'ipotesi legale del
«tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della
stazione appaltante, gli atti idonei diretti in modo non equivoco a
influenzare le decisioni della stazione appaltante in ordine: 1.1 alla
valutazione del possesso dei requisiti di partecipazione; 1.2 all'adozione
di provvedimenti di esclusione; 1.3 all'attribuzione dei punteggi»
(2.1.2.2.);
d) «nei casi più gravi, i gravi illeciti professionali posti in
essere nel corso della procedura di gara possono configurare i reati di cui
agli articoli 353, 353-bis e 354 del codice penale. Pertanto, al ricorrere
dei presupposti previsti al punto 2.1, la stazione appaltante deve valutare,
ai fini dell'eventuale esclusione del concorrente, i provvedimenti di
condanna non definitivi per i reati su richiamati. I provvedimenti di
condanna definitivi per detti reati configurano, invece, la causa di
esclusione prevista dall'art. 80, comma 1, lettera a) del codice»
(2.1.2.5.).
Dal quadro normativo si desume che l’illecito professionale deve essere
posto in essere dal concorrente e va valutato globalmente con riguardo alla
posizione e agli interessi di questo (TAR Lazio, sez. III, sent. n.
2668/2018, cit.).
7. - Alla luce di queste premesse, il provvedimento di esclusione dalla gara
della società cooperativa ricorrente risulta immune dalle censure articolate
in ricorso.
7.1. - Nel caso in esame, come risulta dal verbale gravato, l’esclusione
risulta disposta a conclusione dell’esperimento di apposita istruttoria, nel
corso della quale è stata coinvolta anche l’Anac, che ha rimesso la
valutazione dei fatti alla S.A., e si è svolta anche l’audizione della
ricorrente.
Più specificamente, la Commissione ha ritenuto di attribuire rilevanza “al
decreto di rinvio a giudizio emesso dalla Procura della Repubblica di Torre
Annunziata R.G.N.R. 357/2016 e n. R.G. G.I.P. 3291/2016 per i fatti non
determinati e riconducibili agli illeciti professionali gravi (ex. Art 353
c.p., Tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della
stazione appaltante Comune di Sorrento), tenuto conto che tale situazione è
congiunta all’ulteriore rilevante circostanza che la gara di cui trattasi
concernente l’affidamento del medesimo servizio a cui si riferisce il
decreto di rinvio a giudizio, ossia il trasporto scolastico, ed è indetta
dalla medesima stazione appaltante, che, in entrambi i casi, è il Comune di
Sorrento”.
7.2. - Se ne desume che l’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione
si appunta sui comportamenti univocamente idonei, tali da non richiedere,
secondo i principi sopra esposti e ritenuti applicabili alla vicenda in
esame, a monte l’accertamento mediante un provvedimento giudiziale
definitivo.
Deve ritenersi ragionevole la valutazione compiuta dalla stazione appaltante
in ordine all’esistenza, per la nuova gara, di un illecito professionale
escludente collegato alle condotte serbate da soggetti appartenenti alle
compagini sociali riferite allo svolgimento del medesimo servizio di
trasporto scolastico oggetto della gara in questione.
I fatti riferiti, che coinvolgono tra gli altri l’amministratore delegato e
il legale rappresentante delle cooperativa, sono stati ritenuti idonei a
configurare l’ulteriore ipotesi non elencata dall’art. 80, comma 5, d.lgs.
50/2016, in quanto in grado di incidere negativamente sulla integrità e/o
affidabilità del concorrente in rapporto allo specifico contratto (trasporto
scolastico) da affidare proprio da parte del Comune di Sorrento.
Nell’economia funzionale della previsione e in assenza di puntuali indici
normativi contrari, i comportamenti valutabili in termini di illecito
professionale non possono essere ristretti soltanto a quelli posti in essere
in occasione della gara de qua, ben potendo invece –come nel caso di specie– essere valutate come sintomatiche della mancanza di integrità e
affidabilità anche condotte violative della trasparenza poste in essere con
riguardo a identico precedente servizio svolto dalla società cooperativa
ricorrente nei confronti del medesimo Comune.
7.3. - Né l’intervenuta revoca delle misure cautelari, che pure erano state
adottate nei confronti del legale rappresentante e dell’amministratore della
società cooperativa ricorrente, può ritenersi idonea a far ritenere viziata
la disposta esclusione, considerato il procedimento penale in corso e
soprattutto i fatti da cui esso è scaturito. Occorre, peraltro, tener anche
conto del fatto che i tempi processuali non sono ordinariamente compatibili
con la sollecita esigenza di escludere dalle procedure ad evidenza pubblica
soggetti non (o non più) affidabili.
7.4. - Inconferente risulta poi il richiamo alla disposta proroga del
precedente contratto d’appalto, limitato ad un circoscritto arco temporale e
fondato sulla condivisibile necessità di assicurare la prosecuzione del
regolare svolgimento del servizio di trasporto nell’anno scolastico in
corso. La motivazione trova conferma nella nota prot- 588583 inviata ad Anac
il 29.12.2017, in cui Comune evidenzia che, nonostante tutto, procederà in
regime di prorogatio al fine di garantire la continuità del servizio.
8. - In definitiva, il provvedimento gravato appare sufficientemente e
plausibilmente motivato, alla luce del quadro normativo di riferimento, in
relazione alla sussistenza dell’illecito professionale considerato che ha
reso dubbia l’integrità e l’affidabilità della società cooperativa, anche
tenuto conto della stretta correlazione esistente tra i fatti oggetto del
procedimento penale e l’oggetto della gara in atto, cosicché il ricorso deve
essere respinto. |
TRIBUTI: Imu
soft ma con la residenza. Sentenza della CTP di
Sondrio.
Le agevolazioni per l'Imu spettano a condizione che nell'abitazione
principale il contribuente abbia, oltre alla dimora abituale, anche la
residenza anagrafica.
Sono le motivazioni che si leggono nella
sentenza 26.06.2018 n. 76/2/2018 emessa dalla Sez. II della
Commissione tributaria provinciale di Sondrio.
La vicenda riguarda degli avvisi di accertamento Imu per gli anni dal 2012
al 2015 notificati al contribuente; il Comune, in assenza di residenza
anagrafica, non aveva ritenuto spettanti le agevolazioni Imu richieste dallo
stesso contribuente e aveva notificato la maggior pretesa. Opponendo gli
accertamenti, il ricorrente assumeva di aver dimostrato la residenza «di
fatto» nell'immobile, condizione che lo poneva tra gli aventi diritto alle
agevolazioni delle imposte locali al pari dei residenti iscritti
all'anagrafe dei residenti.
La Commissione provinciale di Sondrio ha rigettato il ricorso e confermato
la debenza dell'imposta. I giudici provinciali osservano come, ai fini
dell'applicazione dell'Imu, il concetto di abitazione principale sia
inserito nell'articolo 13, comma 2, del decreto legge n. 201/2011 (decreto
Monti) il quale dispone che «per abitazione principale si intende
l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica
unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare
dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente».
Quindi affinché un immobile possa essere considerato abitazione principale,
sono necessarie tre condizioni: I) il possesso/proprietà o altro titolo
reale quale ad esempio l'usufrutto o il diritto di abitazione; II) la
residenza anagrafica; III) la dimora abituale intesa come elemento che
sussiste continuativamente nel tempo.
Ne deriva che, l'elemento di novità, rispetto al passato, è che il concetto
di «abitazione principale» sia legato all'ulteriore requisito (oltre a
quello della dimora abituale) rappresentato dalla residenza anagrafica.
Il collegio aggiunge che in effetti, la congiunzione «e» della parte finale
dell'articolo 13, comma 2, del dl n. 201/2011 ( ) nel quale il possessore e
il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente
(...) non lascia spazio a una interpretazione letterale diversa da quella
che, secondo la norma, i requisiti della dimora abituale e della residenza
anagrafica non siano tra di loro alternativi, ma debbano sussistere
entrambi. Rigettando il ricorso, la Ctp ha compensato tra le parti le spese
di lite.
---------------
Il principio
Ai fini dell’agevolazione Imu oltre alla dimora abituale
nell’immobile, è indispensabile la residenza anagrafica di diritto; in
precedenza, l’Ici subordinava l’agevolazione alla dimora abituale,
tollerando (in alcuni casi) la residenza di fatto (articolo
ItaliaOggi del 22.08.2018). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: La
revisione dei prezzi degli appalti opera solo se prevista dai documenti di
gara.
La revisione dei prezzi negli appalti pubblici di servizi e forniture non è
obbligatoria in base al codice dei contratti pubblici, ma è applicabile
dalle stazioni appaltanti sia agli appalti nei settori ordinari che a quelli
nei settori speciali.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
19.06.2018 n.
3768 ha analizzato le differenze tra il quadro di
regolamentazione della revisione nel vecchio codice e nel nuovo, esaminando
la differente portata applicativa dell'art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 e
dell'art. 106 del d.lgs. n. 50/2016.
I giudici amministrativi hanno evidenziato, infatti, come la disposizione
nel quadro ordinamentale previgente costituisse norma imperativa non
suscettibile di essere derogata in via pattizia, ed è integratrice della
volontà negoziale difforme secondo il meccanismo dell'inserzione automatica
in base agli articoli 1419, comma 2, e 1339 del codice civile.
Nell'analisi viene ad essere rilevato che, invece, nel nuovo codice degli
appalti, la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente
disciplina, ma opera solo se prevista dai documenti di gara e questo
comporta l'inapplicabilità della giurisprudenza formatasi sul vecchio art.
115, sulla natura imperativa e sull'inserimento automatico delle clausole
relative alla revisione prezzi e alla loro sostituzione delle clausole
contrattuali difformi.
L'art. 106, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016, alla lettera a) stabilisce
infatti che i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori
speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento
se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state
previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e
inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi.
Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché
le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento
alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti. Tali clausole
non possono peraltro apportare modifiche che avrebbero l'effetto di alterare
la natura generale del contratto o dell'accordo quadro.
La formulazione della disposizione del nuovo codice dei contratti pubblici
prefigura quindi in capo alle stazioni appaltanti una facoltà e non un
obbligo di inserimento della clausola di revisione dei prezzi, delineando un
quadro applicativo flessibilizzabile dalle amministrazioni, che possono
tener conto di vari fattori (ad es. la durata limitata dell'appalto o il suo
sviluppo in un settore con una dinamica di prezzi stabilizzati).
Il Consiglio di stato evidenzia come un'ulteriore differenza tra la
disciplina recata tra i due codici si rilevi in ordine all'applicabilità
della revisione prezzi anche ai “settori speciali”, che era esclusa nel
regime recato dal d.lgs. n. 163/2006 ed è invece ora ammessa dall'art. 106
del d.lgs. n. 50/2016.
Qualora la stazione appaltante decida di prevedere la clausola di revisione
prezzi, è necessario che consideri le finalità dell'istituto che da un lato
è volto a salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e
servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al
rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità
sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del
fornitore di farvi compiutamente fronte, dall'altro ad evitare che il
corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel
corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è
avvenuta la stipulazione del contratto.
Peraltro, l'inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo,
che deve essere sviluppata con un'istruttoria condotta dai competenti organi
tecnici dell'amministrazione (il direttore dell'esecuzione e il rup), non
comporta anche il diritto all'automatico aggiornamento del corrispettivo
contrattuale, ma soltanto che l'amministrazione proceda agli adempimenti
istruttori normativamente sanciti, valutando se sussistano effettivamente le
condizioni per l'applicazione del meccanismo revisionale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.07.2018).
---------------
MASSIMA
9. – Ritiene il Collegio di dover svolgere alcune considerazioni
preliminari.
Devono essere innanzitutto riaffermati alcuni principi, già espressi nella
propria recente giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. III,
09.01.2017
n. 25), secondo cui:
- l'art. 6, comma 4, della L. n. 537 del 1993, come novellato dall'
art. 44 della L. n. 724 del 1994, prevede che “tutti i contratti pubblici ad
esecuzione periodica o continuativa devono recare una clausola di revisione
periodica del prezzo pattuito”;
- tale disposizione, ora recepita nell'art. 115 del codice dei
contratti pubblici (D.Lgs. n. 163 del 2006) per quanto riguarda gli appalti
di servizi o forniture, costituisce norma imperativa non suscettibile di
essere derogata in via pattizia, ed è integratrice della volontà negoziale
difforme secondo il meccanismo dell'inserzione automatica (artt. 1419, comma
2, e 1339 c.c.) (Cons. Stato, Sez. V 16/06/2003 n. 3373);
- la finalità dell’istituto è da un lato quella di salvaguardare
l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche
amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione
qualitativa, a causa dell'eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni
stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente
fronte (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
07.05.2015 n. 2295; Consiglio
di Stato, Sez. V, 20.08.2008 n. 3994), dall’altro di evitare che il
corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel
corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è
avvenuta la stipulazione del contratto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.04.2014 n. 2052; Sez. III
04.03.2015 n. 1074; Sez. V 19.06.2009 n. 4079);
- nel rapporto tra la revisione dei prezzi previsti dall’art. 1664,
comma 1, c.c. e quella pubblicistica prevista dall’art. 115 del D.Lgs.
163/2006 sussiste un rapporto di specialità, e pertanto, nell’ambito dei
contratti pubblici non può applicarsi la normativa civilistica che ha natura
dispositiva, essendo rimessa alla volontà delle parti;
- l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica
del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti
organi tecnici dell’amministrazione, non comporta anche il diritto
all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che
l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente
sanciti;
- in tal senso si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza (Cons.
Stato, Sez. V, 22.12.2014, n. 6275 e 24.01.2013 n. 465),
rilevando che la posizione dell'appaltatore è di interesse legittimo, quanto
alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati
dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale
riconosciuta alla stazione appaltante (Cass. SS.UU. 31.10.2008 n.
26298), che deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse
dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio
di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato;
- per compiutezza espositiva è opportuno rilevare che,
nel nuovo
codice degli appalti, la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina (applicabile
ratione temporis alla presente
controversia), ma opera solo se prevista dai documenti di gara. Ciò comporta
l’inapplicabilità della giurisprudenza, già richiamata, sulla natura
imperativa e sull’inserimento automatico delle clausole relative alla
revisione prezzi e alla loro sostituzione delle clausole contrattuali
difformi;
- ulteriore differenza tra la disciplina recata tra i due codici si
rinviene in ordine all’applicabilità della revisione prezzi anche ai
“settori speciali”, che era esclusa nel regime recato dal D.Lgs. n. 163/2006
ed è invece ora ammessa dall’art. 106 del D.Lgs. n. 50/2016.
10. - Sempre in via preliminare è opportuno richiamare la sentenza della
Corte di Giustizia UE del 19.04.2018, C 152/17, che ha definito la
questione pregiudiziale proposta dalla Quarta Sezione di questo Consiglio di
Stato richiamata dall’appellante nella propria memoria difensiva.
La Corte europea ha rilevato che:
- da nessuna disposizione della direttiva 2004/17/CE, emerge che
quest’ultima debba essere interpretata nel senso che essa osta a norme di
diritto nazionale, quale il combinato disposto degli articoli 115 e 206 del
d.lgs. n. 163/2006, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo
l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati dalla
medesima direttiva, dal momento che quest’ultima non impone agli Stati
membri alcun obbligo specifico di prevedere disposizioni che impongano
all’ente aggiudicatore di concedere alla propria controparte contrattuale
una revisione al rialzo del prezzo dopo l’aggiudicazione di un appalto;
- nemmeno i principi generali sottesi alla direttiva 2004/17/CE e,
segnatamente, il principio di parità di trattamento e l’obbligo di
trasparenza che ne deriva, sanciti dall’articolo 10 di tale direttiva,
ostano a siffatte norme;
- al contrario, non si potrebbe escludere che una revisione del
prezzo dopo l’aggiudicazione dell’appalto possa entrare in conflitto con
tale principio e con tale obbligo (v., per analogia, sentenza del 07.09.2016, C 549/14, Finn Frogne, punto 40);
- come rilevato dalla Commissione nelle osservazioni scritte, il
prezzo dell’appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella
valutazione delle offerte da parte di un ente aggiudicatore, così come nella
decisione di quest’ultimo di attribuire l’appalto a un operatore; tale
importanza emerge peraltro dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i
criteri relativi all’aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 55,
paragrafo 1, della direttiva 2004/17. In tali circostanze, le norme di
diritto nazionale che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo
l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale
direttiva sono piuttosto idonee a favorire il rispetto dei suddetti
principi;
- in conclusione, la direttiva 2004/17/CE e i principi generali ad
essa sottesi devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a
norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale,
che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di
appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva.
10.1 - I principi espressi dalla Corte di Giustizia UE consentono di
risolvere le questioni prospettate nell’atto di appello in merito alla
incompatibilità della normativa nazionale, che nega la revisione dei prezzi
per talune tipologie di contratti di servizi, con quella europea. |
APPALTI: Artificioso
frazionamento. C’è abuso di ufficio. Sentenza della Cassazione.
In caso di artificioso frazionamento di un appalto il responsabile del
procedimento è imputabile per il reato di abuso d'ufficio.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 11.06.2018 n. 26610.
Era accaduto che, frazionando artificiosamente un intervento, il
responsabile unico del procedimento affidasse i lavori attraverso la
procedura del cottimo fiduciario, omettendo l'applicazione della procedura
di cui al comma 8 dell'art. 125 del testo allora vigente (2010) del codice
dei contratti pubblici.
In particolare l'appalto, avente ad oggetto i lavori di rifacimento del
lucernaio di un capannone, era stato suddiviso in cinque distinti
interventi, tre dei quali dell'importo di euro 40 mila e due di importo
inferiore, uno corrispondente a euro 25 mila e l'altro di euro 34 mila. Si
era quindi proceduto ad affidamento dei lavori con la procedura del cottimo
fiduciario, senza procedere neppure alla consultazione di almeno altre
quattro ditte.
La Cassazione ha confermato che è stato puntualmente ricostruito il rapporto
di conoscenza dell'imputato con l'amministratore della società che aveva
eseguito, nel medesimo capannone, lavori di ampliamento ed il procedimento
di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori.
La macroscopica illegittimità della procedura, si legge nella sentenza,
denota per la Suprema corte, a chiare lettere, l'elemento soggettivo del
dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come
conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo
primario da costui perseguito.
Questa condotta risulta inequivocabilmente orientata a procurare il
vantaggio patrimoniale alla società assegnataria dei lavori, finalità
rispetto alla quale non rileva la circostanza che la ditta avesse poi
direttamente eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria
contestazione, solo una parte mentre la parte restante era stata affidata in
subappalto alla Im..
Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla
macroscopica illegittimità dell'atto (articolo
ItaliaOggi del 17.08.2018).
---------------
MASSIMA
3. Anche il secondo motivo di ricorso non è fondato.
Deve escludersi, sulla scorta della ricostruzione compiuta nella sentenza
impugnata ed in quella di primo grado che il ricorrente sia stato
condannato, in violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., per un fatto
diverso da quello che aveva costituito oggetto di addebito nella originaria
contestazione, benché le sentenze di merito diano diffusamente atto che,
durante l'istruttoria dibattimentale, era emerso, in relazione al vizio di
violazione di legge che inficiava la procedura di scelta del contraente
seguita per l'affidamento dei lavori, un aspetto, cioè che l'importo di tre
degli ordinativi non consentiva di procedere all'affidamento diretto dei
lavori.
Tale vizio, tuttavia, non aveva costituito oggetto di contestazione e, men
che mai, è stato oggetto di addebito con le decisioni che avevano affermato
la penale responsabilità del Pi..
3.2 Per come è dato evincere dalla sentenza impugnata, An.Pi. è stato
ritenuto responsabile del reato di abuso di ufficio perché, al fine di
procurare un indebito vantaggio patrimoniale alla Ed., aveva,
artificiosamente frazionato, in accordo con il defunto amministratore della
società che aveva inviato i corrispondenti preventivi, l'appalto avente ad
oggetto i lavori di rifacimento del lucernaio di un capannone,
suddividendoli in cinque distinti interventi, tre dei quali dell'importo di
euro 40.000,00 e due di importo inferiore, uno corrispondente ad euro
25.000,00 e l'altro di euro 34.000, così procedendo ad affidamento dei
lavori con la procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure alla
consultazione di almeno altre quattro ditte.
Secondo il ricorrente, invece, dall'istruttoria dibattimentale era emerso
che il vizio che inficiava la procedura di scelta del contraente era
ravvisabile nella circostanza che anche per l'appalto di lavori di importo
pari a 40.000,00 euro -e non solo superiori a detto importo- era d'obbligo
procedere a gara, vizio, questo, che non aveva costituito oggetto di
contestazione e rispetto al quale erano risultate elusive le risposte alle
deduzioni difensive contenute nella sentenza impugnata ed in quella di primo
grado.
3.3. Ritiene il Collegio, sulla scorta dei profili di illegittimità
individuati nelle sentenze di merito in relazione alla descritta procedura,
che deve escludersi siano stati addebitati al ricorrente vizi della
procedura diversi ed ulteriori rispetto a quelli che avevano costituito
oggetto dell'originaria contestazione e che, in ogni caso, la valutazione
compiuta dai giudici del merito, quanto alla configurabilità del delitto di
abuso ascrittogli, è operata in conseguenza di una valutazione logica del
materiale processuale e senza alcun rilevante errore di diritto circa gli
elementi costitutivi essenziali del fatto, ai fini della sua sussunzione
nella fattispecie incriminatrice, con la conseguenza che la Corte di
Cassazione non può compiere un diverso apprezzamento dei dati fattuali
venendo, altrimenti, vulnerato il principio dell'autonomia esclusiva del
convincimento in fatto del giudice di merito.
4. Per mera completezza, ed in aggiunta ai rilievi testé svolti, ritiene il
Collegio che può perfino dubitarsi, a livello epistemologico, che
l'ulteriore aspetto di illegittimità denunciato dal ricorrente -cioè, che
l'importo di tre dei cinque ordinativi rendeva obbligatorio procedere a
gara- sia tale da connotare il fatto originariamente contestato in termini
di fatto diverso -men che mai in termini di fatto nuovo-, non trattandosi di
aspetto tale da ingenerare il dubbio che il fatto materiale ascritto
all'imputato si sia svolto in tempi, in luoghi o con modalità difformi a
quelle descritte nell'imputazione e tenuto conto, altresì, che la violazione
dell'obbligo di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, non
si verifica quando l'accusa venga precisata o integrata con le risultanze di
atti acquisiti al processo, e quando la modifica, rispetto all'accusa
originaria, non abbia in alcun modo menomato le possibilità di difesa (Sez.
2, n. 18868 del 10/02/2012 - dep. 17/05/2012, Osmenaj, Rv. 252822), e, in
particolare, quando il fatto ritenuto in sentenza, quantunque diverso da
quello contestato, sia stato prospettato dallo stesso imputato, atteso che,
avendo in tal caso il medesimo imputato apprestato la necessaria difesa in
relazione alla diversa prospettazione del fatto volontariamente offerta.
5. Corrisponde all'osservanza di precise regole nella valutazione delle
prove, di completezza e logicità della motivazione, l'iter argomentativo
posto a fondamento della sentenza impugnata con riguardo alla individuazione
e sussistenza dell'ingiusto vantaggio patrimoniale che, quale diretta
conseguenza della condotta abusiva, i giudici di appello hanno individuato
nell'avere procurato alla Ed. una commessa alla quale l'impresa non aveva
alcun diritto.
Nella sentenza (cfr. pag. 11) è stato puntualmente ricostruito il rapporto
di conoscenza dell'imputato con l'amministratore della società Ed. (nel
frattempo deceduto) che aveva eseguito, nel medesimo capannone, lavori di
ampliamento ed il procedimento di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori
-oggetto di contestazione- che veniva seguito personalmente dall'imputato,
nella qualità, a partire dal sopralluogo eseguito nel mese di luglio 2009,
per verificare le infiltrazioni, sopralluogo al quale aveva fatto seguito,
in mancanza di una previsione di spesa dei lavori da eseguire, la
presentazione, da parte della società, dei preventivi che, ritoccati
nell'importo ridotto a quarantamila euro, vennero poi posti a base degli
ordini di lavoro che, pur investendo un intervento sostanzialmente e
funzionalmente unitario (cioè il rifacimento del tetto del capannone)
risultavano, senza alcuna apparente ragione, senza alcuna ragionevole
giustificazione e in contrasto con le previsioni recate dall'art. 125, comma
13, del Codice degli appalti, artificiosamente frazionati (la costruzione
del ponteggio per la esecuzione dei lavori, oggetto del primo ordine; lo
smontaggio dei pannelli di copertura del tetto, oggetto del secondo; la
fornitura e posa in opera dei strutture, oltre alla pitturazione trasporto a
discarica del materiale di risulta, il terzo, quarto e quinto ordine) allo
scopo di sottoporli alla disciplina delle acquisizioni in economia, ovvero
attraverso la procedura del cottimo fiduciario, così in concreto seguita.
6. La macroscopica illegittimità della procedura seguita,
secondo le corrette valutazioni dei giudici del merito,
denota a chiare lettere l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia
la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e
immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui
perseguito ( Sez. 6, n. 35859 del
07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e
altri, Rv. 249706) e risulta inequivocabilmente orientata a
procurare il vantaggio patrimoniale alla società assegnataria dei lavori,
finalità rispetto alla quale non rileva la circostanza che la ditta avesse
poi direttamente eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria
contestazione, solo una parte mentre la parte restante era stata affidata in
subappalto alla Im.. Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento
dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo
essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto
(Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma e altri, Rv. 272331).
7. Come noto ai fini del perfezionamento del reato di abuso
d'ufficio assume rilievo il concreto verificarsi (reale o potenziale) di un
ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi
atti a se stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi
atti procurano a terzi (Sez. 6, n.
36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
È, quindi, necessario che sussista la cosiddetta doppia
ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, perché
connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di
vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo
regolante la materia e nel caso
comprovato dal favoritismo accordato alla Ed. assicurandole l'appalto,
frazionato in cinque ordinativi, e con l'intenzione di arrecarle un
vantaggio, evitando la gara. |
COMPETENZE
GESTIONALI - TRIBUTI: Liti
fiscali, solo il sindaco rappresenta il comune.
Spetta solo al sindaco il potere di rappresentare il comune nel processo
tributario, come ricorrente o come parte resistente. I dirigenti comunali
non hanno alcun potere di agire o di resistere in giudizio in mancanza di
un'espressa previsione contenuta nello statuto dell'ente locale.
Lo ha stabilito la commissione tributaria regionale di Palermo, VIII Sez.,
con la sentenza 11.06.2018 n. 2439.
Secondo la commissione regionale, per espressa previsione statutaria del
comune di Sciacca, «spetta al sindaco la competenza e l'autorità a stare
in giudizio come attore o come convenuto e quindi anche innanzi alla
giurisdizione tributaria». Lo statuto comunale «non riconosce in
alcun modo ai dirigenti la facoltà di agire e/o resistere in giudizio».
Pertanto, «non sussistendo in detto statuto un espresso rinvio per poter
legittimamente affidare la rappresentanza a stare in giudizio ai dirigenti,
nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, solo il sindaco ha
l'esclusiva titolarità di detto potere di rappresentanza».
Il principio affermato non può essere condiviso e i giudici d'appello non
avrebbero dovuto dichiarare inammissibile il ricorso proposto
dall'amministrazione comunale. La questione della rappresentanza processuale
degli enti locali ha formato in passato oggetto di dibattito, fino a che non
è stata risolta per via normativa.
In effetti l'articolo 3-bis della legge 88/2005 ha modificato l'articolo 11,
comma 3, del decreto legislativo 546/1992, prevedendo che la rappresentanza
dell'ente locale nel processo tributario spetta anche ai dirigenti
dell'ufficio tributi. Per gli enti privi di questa figura, entra in gioco il
titolare di posizione organizzativa.
Quindi, l'amministrazione nei cui confronti è proposto il ricorso può stare
in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio, ovvero, per gli enti
locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare di posizione
organizzativa. Considerato che vi è un espressa previsione di legge, della
quale i giudici non tengono affatto conto, non è necessario che la
rappresentanza venga riconosciuta da una norma statutaria. Ai funzionari e
dirigenti, poi, può essere conferito con una delega ad hoc anche il
potere di assistere l'ente in giudizio.
Va ricordato che la disciplina processuale impone l'obbligo dell'assistenza
tecnica solo per le parti private ricorrenti, diverse dalle amministrazioni
pubbliche (agenzie fiscali, enti locali) o di chi agisce per loro conto
(società concessionarie). Per i funzionari che assistono in giudizio gli
enti impositori gli onorari devono essere rapportati ai compensi previsti
per gli avvocati (articolo
ItaliaOggi del 14.08.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione,
l’assenza breve non salva dalla condanna.
Gli assenteisti della pubblica amministrazione non possono invocare la
«tenuità del fatto» per evitare la condanna quando le loro uscite
ingiustificate sono poche, o brevi, o comunque non provocano un disservizio
grave all’ufficio.
C’è questa motivazione alla base della sentenza
22.05.2018 n. 22972, Sez. II penale, con cui la Corte di Cassazione ha respinto i
ricorsi di 26 dipendenti dell’Asl di Brindisi che avevano subito condanne
fra i sette mesi e i due anni a seconda dei casi.
Fra le ragioni di difesa invocate dai dipendenti, e respinte dai giudici di
legittimità, c’erano anche le caratteristiche di molte assenze, limitate
secondo i diretti interessati nella durata e nella frequenza. Ma per la
Cassazione non c’è nulla da fare.
Le assenze ingiustificate, si legge nelle 90 pagine con cui i ricorsi sono
stati respinti, producono comunque all’amministrazione «un danno economico
diretto che, per quanto minimo, non è comunque inconsistente e quindi non
può far ritenere la condotta del tutto inoffensiva»; anche perché il fatto
che il danno possa essere «minimo» non significa che sia anche
«impercettibile», e le regole non ammettono una “soglia di tolleranza” sotto
la quale le pene possano essere abbuonate.
A favore dei dipendenti non depone nemmeno il fatto che l’ufficio
continuasse a operare anche in loro assenza, proprio grazie alla strategia
con cui venivano organizzate le uscite con l’obiettivo di «lucrare minimi ma
ripetuti benefici e facendo attenzione a non rendere evidenti (per esempio
durante gli orari di laboratorio con i pazienti nei corridoi) i ritardi e
gli allontanamenti».
L’ufficio può funzionare anche quando qualcuno è
assente, tagliano corto i magistrati, altrimenti «per assurdo nessun
lavoratore potrebbe beneficiare dei congedi ordinari e straordinari»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2018). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Gare
d’appalto sopra soglia, la scelta di non reinvitare il gestore uscente è la
regola.
È legittima la decisione della stazione appaltante di avviare una procedura
negoziata sopra soglia, ai sensi dell’articolo 63 del Codice degli appalti,
senza invitare il precedente gestore, al fine di ampliare le concrete
possibilità di aggiudicazione della nuova gara da parte delle altre imprese
concorrenti.
È questo il principio affermato dal TAR Lazio-Roma,
Sez. I, con la
sentenza 21.05.2018 n. 5621.
Il caso
Nel 2012 il Senato della Repubblica aveva aderito alla convenzione Consip
per il Facility Management per gli immobili (cosiddetta convenzione FM3) con
scadenza prevista al 31.10.2016. Dopo la scadenza del contratto così
affidato, nelle more dell’aggiudicazione della nuova convenzione (cosiddetta
convenzione FM4), il Senato aveva riaffidato direttamente il contratto
all’impresa originariamente individuata da Consip, mediante l’adozione di
una serie di provvedimenti di proroga.
Ed infatti, il Consiglio di
Presidenza del Senato, ritenendo opportuno proseguire l'acquisizione di beni
e servizi attraverso il sistema centralizzato di gestione della spesa che la Consip assicura alle Pubbliche amministrazioni, aveva autorizzato le proprie
strutture a verificare la convenienza economica dell'adesione alla nuova
Convenzione Consip FM4 in corso di aggiudicazione e, nel frattempo, aveva
disposto una serie di affidamenti in proroga a favore del gestore uscente.
Nel maggio 2017, tuttavia, il Senato della Repubblica, considerato che la
nuova procedura indetta da Consip non si era ancora conclusa, aveva ritenuto
opportuno «avviare una o più procedure ad evidenza pubblica per
l’acquisizione dei servizi di facility management», ed aveva pertanto
autorizzato le proprie strutture ad espletare una o più procedure ristrette
da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
riservandosi di valutare la convenienza di aderire alla nuova Convenzione se
aggiudicata prima del completamento delle procedure indette autonomamente.
A tali procedure non era stato tuttavia invitato il gestore uscente -originariamente individuato quale aggiudicatario della convenzione Consip-
il quale aveva pertanto proposto ricorso al Tar Lazio, lamentando che la
stazione appaltante non avrebbe potuto in via automatica omettere l’invito
del precedente affidatario «a fronte di una normativa che pone sullo stesso
piano i principi di concorrenza e di rotazione».
La decisione
Con la pronuncia in rassegna, tuttavia, il Tar Lazio rigetta il ricorso
proposto dal gestore uscente, ritenendo che legittimamente, a fronte di ben
quattro proroghe tecniche disposte direttamente a favore dell’impresa
ricorrente, la stazione appaltante aveva optato, ricorrendone i presupposti,
per l’avvio di una procedura negoziata ex articolo 63 Dlgs n. 50/2016, in
coerenza con il principio di rotazione «che governa l’aggiudicazione degli
appalti nell’ipotesi del ricorso alla procedura negoziata» (sul punto viene
richiamato Consiglio di Stato n. 4125/2017).
In tal modo, infatti, era stata
evitata la possibile cristallizzazione di relazioni esclusive tra la
stazione appaltante ed il precedente gestore ed erano state ampliate le
possibilità concrete di aggiudicazione in capo agli altri concorrenti
(Consiglio di Stato n. 5854/2017).
Secondo la pronuncia in rassegna, in particolare, corollario del principio
di rotazione è il carattere eccezionale dell’invito all’affidatario uscente,
con la conseguenza che la stazione appaltante non è tenuta ad indicare una
specifica motivazione per escluderlo dal novero degli operatori invitati
alla nuova procedura negoziata, non trattandosi di una scelta di carattere
sanzionatorio quanto piuttosto dell'esigenza di evitare il consolidamento di
rendite di posizione in capo al medesimo gestore uscente, la cui posizione
di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il
pregresso affidamento.
Secondo la pronuncia in rassegna, il principio di concorrenza e di massima
partecipazione si esplica essenzialmente consentendo ad operatori economici,
diversi da quelli fino a quel momento coinvolti, di accedere ad appalti di
durata necessariamente limitata per il verificarsi di situazioni non
prevedibili. Di tale eccezionale situazione la società ricorrente, peraltro,
si era avvantaggiata per circa un anno e mezzo e non aveva pertanto titolo a
dolersi di una scelta che offra analoga opportunità ad altro operatore,
posto che ciò non comportava alcun giudizio in merito al servizio svolto
dall’impresa uscente.
Il rispetto del principio di rotazione –conclude il Tar Lazio– non è poi
previsto solo dall’articolo 36 del Dlgs n. 50/2016 per i contratti sotto
soglia, ma deve trovare applicazione in ogni caso di ricorso alla procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un bando indetta ai sensi
dell’articolo 63 del medesimo decreto legislativo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.05.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Licenziabile
il dirigente che non raggiunge gli obiettivi.
La Cassazione prova a spiegare meglio il confine tra responsabilità
dirigenziale e disciplinare (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 31.10.2017). Il problema maggiore nasce, infatti, dal
licenziamento disposto per «inosservanza delle direttive imputabili al
dirigente» che potrebbe, a primo acchito, far pensare a una responsabilità
di tipo prevalentemente disciplinare.
Secondo, invece, la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la
sentenza
09.05.2018 n. 11161) questa inosservanza
potrebbe rientrare a pieno titolo in quella dirigenziale, tutte le volte che
la violazione delle direttive ricevute sia direttamente collegata al
raggiungimento del risultato programmato rispetto a quello realizzato. In
quest'ultimo caso il dirigente, dimostrandosi inadatto allo svolgimento
delle mansioni di particolare rilevanza per l'ente, potrebbe essere revocato
dal suo incarico fino, nei casi di gravità maggiore, a disporne il recesso
dal rapporto di lavoro.
Il caso
A seguito di valutazioni negative sui risultati prodotti da un dirigente,
l'ente ha avviato la procedura del licenziamento per responsabilità
dirigenziale particolarmente grave e reiterata con successivo recesso dal
rapporto di lavoro. L'impugnazione del licenziamento disciplinare secondo il
dirigente è stata respinta sia dal Tribunale di primo grado che dalla Corte
di Appello, i quali hanno confermato le responsabilità dirigenziali e
ritenuto legittimo il recesso dal rapporto di lavoro.
Insiste, allora, in
Cassazione il dirigente, contro l'errore dei giudici di appello che
avrebbero qualificato le responsabilità di tipo esclusivamente dirigenziale
e non disciplinare, da cui discenderebbe la violazione della procedura
prevista dall'articolo 55-bis del Dlgs 165/2001 che assorbe anche le
responsabilità di tipo dirigenziali.
La conferma della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità la responsabilità dirigenziale è
disciplinata dall'articolo 21 del Dlgs 165/2001 che, nel suo testo
originario, consentiva alla Pa di revocare l'incarico dirigenziale in
presenza del mancato raggiungimento degli obiettivi, per giungere, in caso
di inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente, a
legittimare il recesso dal rapporto di lavoro nei casi di maggiore gravità.
Successivamente l’articolo è stato modificato, prima con la legge 145/2001,
tenendo distinta la responsabilità dirigenziale da quella disciplinare, per
arrivare da ultimo con le modifiche del Dlgs 150/2009 secondo cui la
responsabilità dirigenziale dovrà essere accertata secondo il sistema di
misurazione e valutazione adottato dall'ente, mantenendo sempre salva la
responsabilità disciplinare.
Con questi interventi, secondo la Cassazione, il legislatore ha voluto
tenere distinte le due responsabilità, la prima quella dirigenziale
caratterizzata dalla incapacità del dirigente di raggiungere il risultato
programmato, a prescinde da condotte realizzate in violazione di singoli
doveri del suo ufficio; la seconda, quella disciplinare, essenzialmente
indirizzata alla valutazione dei suoi comportamenti (diligenza, perizia,
lealtà, correttezza e buona fede tanto nel proprio diretto agire quanto
nell'esercizio dei poteri di direzione e vigilanza sul personale
sottoposto).
Pertanto, in presenza di gravi e ripetute violazioni, il dirigente sarà
rimosso in via definitiva sia qualora il rapporto fiduciario sia leso dalla
incapacità dello stesso a conseguire i risultati dell'ente, sulla base di
oggettive verifiche e misurazione dei suoi risultati, sia qualora i
comportamenti tenuti siano tali da incrinare il rapporto di lealtà e di
correttezza che gli sono richiesti nell'assolvimento del suo rapporto
contrattuale.
Se questa è la linea di demarcazione, allora anche
l'inosservanza delle direttive dell'ente imputabili al dirigente, assumerà
valenza solo disciplinare nella ipotesi in cui l'amministrazione ritenga che
la violazione in sé, dell'ordine e della direttiva, si collochi all'interno
di un inadempimento contrattuale, viceversa dovrà, invece, essere ricondotta
alla responsabilità dirigenziale qualora la violazione abbia inciso
negativamente sulle prestazioni richieste al dirigente.
Per i giudici di Piazza Cavour, nel caso di specie, va confermata la
responsabilità dirigenziale in quanto certificata in modo oggettivo
dall'esito negativo delle verifiche effettuate sui risultati del dirigente
posti in violazione delle direttive dell'ente che hanno giustificato il
recesso dal rapporto di lavoro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.05.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO
IMPIEGO: Abuso
d’ufficio al sindaco che revoca in anticipo l'incarico di posizione
organizzativa.
Al di fuori delle ipotesi tipizzate dalla legge, dal contratto o dal
regolamento degli uffici e dei servizi, il sindaco che dispone la revoca
anticipata dell'incarico di posizione organizzativa, del responsabile dei
servizi finanziari, commette il reato di abuso d’ufficio.
Sono le conclusioni della
sentenza
04.05.2018 n. 19519 della Corte di
Cassazione, Sez. IV
penale.
La vicenda
Il sindaco di un piccolo Comune, in prospettiva di una ristrutturazione
dell'apparato organizzativo che potesse condurre a una razionalizzazione
della spesa, ha proceduto alla revoca anticipata dell'incarico del
responsabile del servizio finanziario assumendone ad interim le funzioni.
Il
responsabile estromesso ha denunciato il sindaco per violazione delle norme
legislative, contrattuali e regolamentari con una risoluzione anticipata
dell'incarico in mancanza dei presupposti. Il responsabile, infatti, ha
lamentato che il provvedimento ha procurato un danno ingiusto, per perdita
del trattamento economico, oltre che asseritamente punitivo.
Dopo la condanna per abuso d’ufficio da parte del tribunale successivamente
confermata in Corte d’appello, il sindaco ha proposto ricorso in Cassazione
evidenziando l'errore in cui erano incorsi i giudici per non avere
adeguatamente valutato che il provvedimento di revoca avrebbe condotto a un
contenimento della spesa pubblica espressamente previsto da altra norma di
legge (articolo 53, comma 23, legge n. 388 del 2000) per i piccoli Comuni.
La conferma della Suprema Corte
Secondo la Cassazione, integra il reato di abuso d’ufficio non solo la
condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano
l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla
realizzazione di un interesse che collide con quello per il quale il potere
è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione.
In tema di revoca dell'incarico dirigenziale disposto nel caso di specie dal
sindaco, l'atto diviene strumento attraverso il quale si realizza il reato.
Infatti, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, la revoca era
stata disposta dal sindaco prima della modifica del modello organizzativo
che conferiva ai membri dell'organo esecutivo, per un possibile risparmio
della spesa, la titolarità della conduzione degli uffici. In altri termini,
l'atto di revoca proprio perché privo di effettiva motivazione in quanto
disposto prima dell'adozione di un atto organizzativo, mostra la sua
obbligatoria distanza dal paradigma legislativo e/o contrattuale.
Caduta, pertanto, la motivazione organizzativa, la revoca dell'incarico
sarebbe stata legittima solo qualora fosse stata conforme all'articolo 109
del Dlgs 267/2000, dove è stabilito che la revoca prima della scadenza degli
incarichi dirigenziali intervenga, tra l'altro, in caso di inosservanza
delle direttive del sindaco o di mancato raggiungimento, alla fine di ogni
anno finanziario, degli obiettivi assegnati o per responsabilità
particolarmente grave e reiterata o nei casi disciplinati dai contratti
collettivi di lavoro.
Avendo, pertanto, agito il sindaco al di fuori delle
ipotesi tipizzate e, quindi, in violazione di legge, ha avuto un
comportamento che definisce l'elemento soggettivo quale dolo di abuso
secondo l’articolo 323 del codice penale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2018).
---------------
MASSIMA
4. La deduzione è altresì irrilevante.
In tema di abuso d'ufficio, la violazione di legge cui fa
riferimento l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico
ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma
anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse
collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un
vero e proprio sviamento della funzione
(Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia, Rv. 254124).
Ove l'abuso di ufficio si realizzi per adozione di un atto
di revoca, l'atto diviene strumento attraverso il quale si realizza il
comportamento costituente reato perseguendosi per il primo l'intento di
recare un danno obiettivamente ingiusto, qual è per l'appunto la revoca di
incarico, a cui si accompagnano negative implicazioni economiche, funzionali
e di immagine connesse, al di fuori dei casi consentiti.
L'estraneità dell'atto dallo schema legale tipico si pone in tal caso di
intensità tale da sconfinare in 'comportamento' per l'assenza dei
presupposti di fatto che consentono di ravvisare nel primo l'azione della
Pubblica amministrazione (Sez. 6,
n. 19135 del 02/04/2009, Palascino, Rv. 243535; Id., n. 37172 del
11/06/2008, Gatto, Rv. 240932).
Fermi gli indicati principi, vero è che la questione della tempestività
della delibera di giunta in ordine alla diversa organizzazione dell'apparato
comunale, comunque non posta tempestivamente nel giudizio di merito, non
viene trattata come capace di rivelare o escludere le ragioni vendicative
che del decreto di revoca dell'incarico dirigenziale avrebbero sostenuto
l'adozione.
La Corte di appello ragiona invero, conformando in tal modo il proprio
giudizio a quello del giudice di primo grado, sulla illegittimità del
decreto di revoca nella rilevata insussistenza al momento della sua adozione
di un provvedimento organizzativo che, in quanto cronologicamente
precedente, della revoca legittimasse l'adozione.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso di
ufficio, l'esigenza di dotare la compagine amministrativa locale di una
diversa organizzazione con attribuzione, ai fini di contenimento della
spesa, ai componenti dell'organo esecutivo della responsabilità degli uffici
e dei servizi e del potere di adottare atti anche di natura
tecnico-gestionale, ai sensi dell'art. 53, comma 23, d.lgs. n. 267 del 2000,
vale a giustificare per l'art. 109 d.lgs. n. 267 del 2000, la revoca del
dirigente ai servizi in precedenza nominato se ed in quanto la delibera di
adozione del diverso modello preceda la revoca stessa.
Non può infatti diversamente valere la mera intenzione enunciata dal
pubblico amministratore nel provvedimento di revoca del dirigente di
dotarsi, in futuro, del nuovo modello organizzativo.
Il contenimento della spesa deve invero poter essere documentato ogni anno,
con apposita delibera, in sede di approvazione del bilancio, evidenza
espressiva, ai fini dello scrutinio dell'abuso di ufficio, della mancanza di
una intenzione di malevolenza nell'adozione dell'atto di revoca che resta
così giustificato dall'obiettivo fine del contenimento della spesa pubblica,
verificabile per aperto confronto tra costi originari e risparmi conseguiti.
La necessità che la diversa scelta organizzativa preceda e non segua la
revoca ex art. 109 d.lgs. cit. vale a sottrarre quest'ultima ad ogni
apprezzamento di strumentalità rispetto al diverso fine emulativo delle
posizioni del dirigente revocato ed ove rimasta inosservata integra quel
rilevante distacco dall'atto tipico che dello stesso rivela la natura di
comportamento illegittimo, estraneo all'azione della pubblica
amministrazione.
Le evidenziate circostanze, chiare nella motivazione adottata dalla Corte di
merito, restano quindi inammissibilmente contestate in ricorso per una
pretesa adozione del diverso atto organizzativo in un'epoca che, seppure
successiva, sarebbe comunque rimasta prossima al decreto di revoca in tal
modo ancora sostenendo, si assume, la legittimità dell'atto nella sua
necessitata esigenza di contenimento della spesa pubblica.
5. A fronte della richiamata ricostruzione della illegittimità dell'atto
degradato in comportamento, in ogni caso l'elemento intenzionale del
contestato reato resta pure in modo inefficace contrastato là dove in
ricorso si deduce che la stessa persona offesa, escussa in sede
dibattimentale in primo grado, avrebbe riferito di una propria intenzione di
candidarsi nella lista avversaria rispetto a quella del sindaco Fi.
nell'anno 2010 e quindi solo successivamente all'intervenuta revoca del
novembre del 2009.
Si tratta invero di un parcellizzato richiamo, in ricorso, alle
dichiarazioni rese in sede di esame testimoniale dall'offeso che non vale a
sottrarre concludenza alla diversa e piena affermazione, contenuta
nell'impugnata sentenza, dell'esistenza dell'estremo soggettivo del
contestato reato per un più ampio quadro di prova in cui convergono
univocamente anche le dichiarazioni del teste Ma., non attinte da critica, e
per le quali il sindaco avrebbe rivelato l'intenzione di addivenire a revoca
dell'incarico nella registrata frattura del rapporto di fiducia con l'Ab..
In ogni caso, rispetto a siffatta cornice, all'interno della quale in modo
pregnante è definito l'elemento soggettivo, la pure dedotta vicinanza
temporale tra revoca e diverso atto organizzativo non vale ad escludere il
dolo di abuso ex art. 323 cod. pen. e lascia anche per tale profilo
inefficacemente e quindi inammissibilimente proposto il ricorso. |
PUBBLICO
IMPIEGO: La
Pa paga i danni biologici se, dopo l’incarico di posizione organizzativa, demansiona il lavoratore.
L’amministrazione non può escludere dai propri compiti di responsabilità il
lavoratore che torni al suo posto dopo aver ricoperto una posizione
organizzativa. E, se da questa circostanza deriva una sofferenza psicologica
il datore di lavoro pubblico è tenuto a pagare il danno biologico.
Così la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
26.04.2018 n.
10138 ha respinto il ricorso proposto dall’Inps.
Il danno
L’Istituto sosteneva che dalla consulenza tecnica era emerso che il
lavoratore aveva tendenza naturale -a prescindere dal lavoro- a cadere in
una malattia psichica. Quindi il demansionamento non è stato l’origne del
malessere, secondo l’Inps, che insisteva per affermare che il nesso di
causalità tra comportamento datoriale e il danno patito dal lavoratore non
era stato dimostrato.
Ma la tendenza naturale -spiega la Cassazione- non
significa che la malattia si sarebbe sviluppata in assenza dell’illegittima
posizione in cui si era venuto a trovare il lavoratore sul luogo di lavoro.
E che ben poteva il giudice di merito, una volta accertato il comportamento
dequalificante dell’Inps intravederci il nesso causale e concludere per la
piena responsabilità datoriale secondo il principio dell’equivalenza delle
concause.
La squalifica
La Cassazione dà totalmente torto all’Inps che sosteneva che, una volta
revocato l’incarico di posizione organizzativa, il dipendente non avrebbe
subito alcun demansionamento poiché nel suo ambito di lavoro era prassi che
i dipendenti nello svolgere una pratica facessero tutti i compiti a essa
attinenti, anche se inferiori al proprio inquadramento formale. Circostanza
di fatto che, però, non esclude affatto la responsabilità per il singolo
demansionamento e per la conseguente sofferenza psicologica del diretto
interessato.
Chiarisce, infine la Cassazione che il dipendente in questione, formalmente
inserito nell’area C con posizione C4, era investito dalla legge e dalle
norme contrattuali di compiti di responsabilità e di autonomia a prendere
decisioni in situazioni di emergenza. Quindi la variazione peggiorativa,
secondo i giudici, era innegabile poiché il dipendente si era trovato di
fatto spogliato del proprio ruolo di responsabile per essere stato posto
alle dipendenze di altri dovendo rispondere ad altro responsabile, per di
più appartenente a un’area di livello inferiore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI -
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Niente
abuso d’ufficio per il sindaco che nomina il segretario a capo dei vigili
urbani.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza
20.04.2018 n. 17991,
ha accolto il ricorso di un sindaco e del segretario di un Comune che non
dovranno neppure risarcire le parti civili perché i fatti a loro addebitati
non costituiscono reato.
La vicenda
Il caso è caratterizzato da un lungo contenzioso tra il sindaco e il
segretario comunale da una parte, e una dipendente dall'altra.
In particolare tra una dipendente (parte civile) risultata vincitrice di un
concorso bandito dal Comune per la copertura del posto di comandante della
polizia municipale e assunta con quella qualifica con contratto a tempo
indeterminato, e l’amministrazione si erano verificati dei dissapori a causa
di indebite pressioni esercitate sulla stessa dipendente.
La cosa sfociò nel
licenziamento della dipendente, licenziamento dichiarato illegittimo dal
giudice del lavoro che ordinò la reintegra nel posto di lavoro della donna,
mai eseguita dal Comune. Il sindaco intanto aveva nominato un'altra persona
a capo della polizia municipale. Per questo i giudici del merito hanno
condannato sindaco e segretario generale per il reato di abuso d'ufficio;
avverso la sentenza sfavorevole i due imputati sono ricorsi in Cassazione.
La decisione
La valutazione dei giudici di merito cade nell'equivoco, secondo i giudici
di legittimità, in quanto considera violata una norma dell'ordinamento di
polizia locale, dettata per l'istituzione e l’organizzazione dei corpi e dei
servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
La Cassazione
osserva come la normativa nazionale e regionale stabilivano, come
riconosciuto dalla sentenza della Corte d’appello, che nel caso in esame non
risulta istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la
dipendente era nominata capo del settore, ma non responsabile del servizio
di polizia municipale, rientrando questa nomina nelle competenze del sindaco
a norma dell'articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000 e dell'articolo 8 del
regolamento comunale: e infatti, il sindaco aveva nominato responsabile
della polizia municipale il segretario comunale che dava esecuzione alle
delibere di Giunta con la quale venivano individuati i responsabili dei
servizi dell'ente.
Da questa ricostruzione discende la non necessaria coincidenza delle
funzioni di comandante della polizia municipale e di responsabile del
servizio, prevista solo per il comandante del Corpo di polizia municipale
dall'articolo 7 della legge 65/1986, e l'erronea impostazione del
ragionamento dei giudici di merito
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2018).
---------------
MASSIMA
3. Nel merito i ricorsi sono fondati.
L'impostazione dei giudici di merito poggia su un equivoco di fondo ovvero
sulla istituzione del Corpo di polizia municipale nel comune di Sperlonga,
al quale si aggiungono la non corretta distinzione tra competenze del
comandante di polizia municipale e responsabilità del servizio e
l'interpretazione delle norme regolamentari, statutarie e regionali, come
riconosciuto nelle sentenze prodotte dai difensori dei ricorrenti.
Va peraltro, evidenziato che la stessa persona offesa ha ammesso di non aver
mai ottenuto la nomina di responsabile del servizio di polizia municipale,
essendo le competenze affidate al segretario comunale, al quale spettava la
gestione delle risorse finanziarie, limitandosi ella alla gestione delle
spese ordinarie; ha anche ammesso di aver continuato ad esercitare sino al
licenziamento le funzioni di comandante della polizia municipale.
Sia l'art. 7 della legge n. 65/1986 che l'art. 2, comma 2, della legge
regionale n. 20/1990 stabilivano che "i comuni, che destinano almeno
sette addetti al servizio di polizia locale, possono istituire il Corpo di
polizia municipale" ed anche l'art. 12, comma 1, della legge regionale
n. 1/2005 lo ribadisce, ma, come riconosciuto dalla sentenza della Corte di
appello di Roma, Sezione lavoro, presso il comune di Sperlonga non risulta
istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la d.ssa
Ci. era nominata capo del settore, ma non responsabile del servizio di
polizia municipale, rientrando tale nomina nelle competenze del sindaco a
norma dell'art. 50, comma 10, d.lgs. 267/2000 e dell'art. 8 del regolamento
comunale: ed infatti, il Cu. aveva nominato responsabile della polizia
municipale il segretario comunale con il provvedimento del 30.01.2001 in
atti, che dava esecuzione alle delibere di Giunta del 23.01.2001 con la
quale venivano individuati i responsabili dei servizi dell'ente secondo le
previsioni degli artt. 7 e 8 del regolamento degli uffici e dei servizi,
approvato con delibera n. 41 del 20.02.1998.
Da tale ricostruzione discende la non necessaria
coincidenza delle funzioni di comandante della polizia municipale e di
responsabile del servizio, prevista solo per il comandante del Corpo di
polizia municipale dall'art. 7 l. 65/1986, e l'erronea impostazione del
ragionamento dei giudici di merito.
Pur non potendosi negare che sino al momento in cui si verificarono le
frizioni tra i vertici comunali e la persona offesa, alla stessa era stato
consentito di esercitare attribuzioni, poi assunte dal responsabile del
servizio, e che tale comportamento dell'amministrazione aveva creato nella
Ci. un legittimo affidamento ed il convincimento di essere stata esautorata
dei propri poteri, innescando una sequenza di provvedimenti ed un insanabile
contrasto, sfociato nel licenziamento, ritenuto legittimo anche dai giudici
di secondo grado, come già detto, la linea di condotta
tenuta dall'amministrazione non risulta in contrasto con il quadro normativo
ricostruito in precedenza.
Analogamente deve escludersi l'illegittimità della delibera n. 76 del
03.05.2005 di adozione del nuovo regolamento comunale, che riorganizzava la
struttura dell'ente con l'istituzione di aree, accorpando nell'Area III,
Servizi al cittadino, il servizio di polizia municipale, e ne attribuiva la
presponsabilità ad un funzionario di vertice, come riconosciuto dal
Consiglio di stato nella sentenza n. 6065 del 2008, che ha sancito la
legittimità dell'atto riorganizzativo degli uffici e dei servizi comunali,
escludendone il contrasto con lo statuto comunale.
A fronte del giudicato amministrativo, già i giudici di primo grado avevano
escluso, in linea con la sentenza del giudice amministrativo, la violazione
dell'art. 30 dello statuto comunale ed anche dell'art. 110 TUEL, ma avevano
ravvisato un profilo di illegittimità nell'attribuzione al capo area, in
aggiunta ai poteri di direzione e vigilanza della stessa, della
responsabilità del servizio di polizia locale con mansioni e compiti propri
del comandante, in violazione dell'art. 12, lett. c), della legge regionale
n. 1/2005, e tale valutazione ha trovato concordi i giudici di appello.
A differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, tale valutazione non
integra la violazione del giudicato amministrativo, essendo stato
individuato un profilo di illegittimità non valutato in tale sede e ciò è in
linea con l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo il quale
al giudice penale è preclusa la valutazione della legittimità dei
provvedimenti amministrativi che costituiscono il presupposto dell'illecito
penale qualora sul tema sia intervenuta una sentenza irrevocabile del
giudice amministrativo, ma tale preclusione non si estende ai profili di
illegittimità, fatti valere in sede penale, che non siano stati dedotti ed
effettivamente decisi in quella amministrativa (Sez. 3, n. 44077 del
18/07/2014, Scotto Di Clemente, Rv. 260612).
Tuttavia, la valutazione dei giudici di merito ricade nell'equivoco indicato
in precedenza, in quanto considera violata una norma dell'ordinamento di
polizia locale, dettato per l'istituzione ed organizzazione dei corpi e dei
servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
Il tema è diffusamente trattato nelle sentenze di primo e di secondo grado
emesse dai giudici del lavoro, ai quali la persona offesa aveva chiesto di
dichiarare l'illegittimità della dequalificazione e del demansionamento
subiti con riassegnazione delle funzioni di comandante della polizia
municipale. Muovendo dalla legittimità del regolamento, riconosciuta dal
giudice amministrativo, e dall'inequivoco tenore dell'art. 42 del
regolamento, che attribuisce al capo dell'area III, Servizi al cittadino, la
responsabilità del servizio di polizia locale e ne individua in modo
specifico le attribuzioni, tra le quali rientrano l'emanazione degli ordini
di servizio e la gestione del personale mediante assegnazione alle unità
operative secondo le specifiche necessità, i giudici hanno ritenuto
infondata la domanda della Ci. di riassegnazione alle mansioni di
responsabile del servizio di polizia municipale, ribadendo la distinzione
tra le funzioni di responsabile del servizio e di comandante della polizia
locale, funzioni queste che l'istante aveva continuato ad esercitare.
Alla luce della ricostruzione che precede e delle sentenze emesse dal
giudice amministrativo e dai giudici dei lavoro, che la confermano,
devono ritenersi insussistenti gli elementi costitutivi degli abusi
di ufficio contestati, fondati su un'erronea interpretazione delle norme e
della situazione di fatto esaminata.
Ne consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché i
fatti reato ascritti ai ricorrenti non sussistono e la revoca delle
statuizioni civili adottate a carico degli stessi. |
APPALTI: Illegittima
la commissione di gara costituita senza specificare i criteri di nomina.
La
sentenza
19.04.2018 n. 431
del TAR Veneto, Sez. I, fornisce alle stazioni appaltanti
importanti indicazioni sulla corretta costituzione delle commissioni di gara
nel periodo transitorio ovvero prima della costituzione dell'albo dei
commissari (articolo 78 del nuovo codice dei contratti).
In particolare, il
giudice si sofferma sulla pretesa necessità che la commissione sia composta
da commissari esterni, sulla predeterminazione dei criteri di nomina e,
infine, sulla presidenza dell'organo collegiale.
I criteri per la nomina dei commissari
La prima censura mossa dall'appaltatore ha riguardato la presunta violazione
dell'articolo 77, commi 1 e 3, del Dlgs 50/2016, alla «luce del quale i
membri delle commissioni devono essere scelti tra soggetti esperti nella
materia oggetto di gara, non appartenenti alla stazione appaltante».
Questa
prima doglianza viene respinta dal giudice il quale ritiene che -nelle more
dell'approvazione dell'Albo nazionale obbligatorio dei membri delle
commissioni giudicatrici- non trovi applicazione la disciplina
dell’articolo 77, ma operi invece il regime transitorio prevista
dall’articolo 216, comma 12. Per questo, la commissione di gara deve essere
nominata dal soggetto competente a effettuare la scelta dell'affidatario
secondo regole di competenza e trasparenza individuate da ciascuna stazione
appaltante.
Il secondo aspetto di censura è che la stazione appaltante avrebbe proceduto
con la nomina dei commissari «senza alcuna forma di predeterminazione dei
criteri di trasparenza e competenza». In questo caso, il rilievo viene
condiviso dal giudice che riscontra che una puntuale individuazione dei
criteri di competenza e trasparenza adottati nella scelta dei commissari non
è riscontrabile nemmeno nel corpo dello stesso provvedimento di nomina.
La determinazione di nomina, infatti, non riportava alcuna autonoma e
specifica motivazione in ordine alle ragioni di scelta dei membri della
commissione, ma si limita a indicare i nominativi dei soggetti individuati.
Di per sé, prosegue la sentenza, la mera allegazione dei curricula dei
commissari al provvedimento non costituisce «valida e sufficiente modalità
di predeterminazione dei concreti criteri di trasparenza e competenza per la
nomina dei commissari, o sostituire integralmente la motivazione delle
scelte operate dalla stazione appaltante, la cui ragion d’essere deve essere
comunque resa palese».
La presidenza della commissione
Dirimente è anche il terzo motivo sollevato dal ricorrente focalizzato sul
fatto che la commissione non risultava presieduta da un dirigente. Secondo
il giudice, nel periodo di regime transitorio, fino cioè alla approvazione
dell’albo nazionale dei membri delle commissioni giudicatrici secondo
l’articolo 78 del Dlgs 50/2016, deve trovare applicazione -in mancanza di
una specifica regolamentazione interna- la disciplina dettata dall’articolo
84 del Dlgs 163/2006. Non solo, anche in questo caso nel provvedimento di
nomina la stazione appaltante ha omesso l'indicazione di ragioni oggettive
in grado di giustificare la mancata nomina di un dirigente quale presidente
della commissione.
La nomina di un dirigente nel ruolo di presidente della commissione di gara,
secondo il giudice, costituisce diretta espressione del criterio di
competenza sul quale fondare la nomina delle commissioni giudicatrici,
criterio sancito espressamente dalle norme vigenti e comunque ricavabile
dagli stessi principi generali di sistema, in quanto «regola volta a
garantire il più adeguato svolgimento delle operazioni di valutazione delle
offerte».
Effettivamente, il tratto distintivo tra l'attuale sistema transitorio di
gestione delle commissioni di gara e quello fondato sull'albo dei commissari
è costituito dalla circostanza che l'organo valutatore dovrà essere
presieduto necessariamente da un soggetto esterno alla stazione appaltante
che potrebbe essere anche un funzionario (esperto iscritto all'albo) non
dirigente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.04.2018).
---------------
MASSIMA
1. In via del tutto preliminare, si deve dare atto della sussistenza
dell’interesse ad agire della ricorrente, posto che -per orientamento
giurisprudenziale consolidato- i soggetti che hanno
partecipato legittimamente ad una gara, oltre a far valere l’interesse
finale all’aggiudicazione dell’appalto, ben possono far valere un interesse
strumentale alla riedizione della procedura di gara nell’ambito della quale
abbiano una ragionevole possibilità di ottenere l’utilità richiesta
(Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 20.11.2015, n. 5296;
Id. sez. IV, 20.04.2016, n. 1560).
Nel caso di specie, l’eventuale illegittimità della nomina della commissione
giudicatrice, la mancata predeterminazione di sub-criteri di valutazione
analitici ovvero la carente motivazione delle valutazioni svolte con
riferimento all’offerta tecnica si ripercuoterebbero sulla legittimità della
procedura di gara nel suo complesso, rendendo dunque concreto ed attuale
l’interesse della ricorrente alla verifica dei sopra descritti profili di
censura.
1.1. Sempre in via preliminare, inoltre, si rileva che non può costituire
oggetto di esame -né assumere alcun rilievo ai fini della decisione- la
presunta carenza di requisiti da parte della ricorrente per lo svolgimento
di corsi di formazione che costituivano oggetto dell’appalto, denunciata
dalla controinteressata Sqs, posto che tale rilievo è stato prospettato in
modo del tutto irrituale nella memoria depositata in vista dell’udienza del
21.03.2018; si rivela peraltro del tutto superflua ogni più approfondita
considerazione, in questa sede, circa la necessità di far valere tale
doglianza tramite ricorso incidentale ovvero tramite ricorso proposto ai
sensi dell’art. 120, comma 2-bis, D.lgs. 50/2016.
2. Nel merito il ricorso è fondato, con riferimento ad entrambi i motivi
prospettati dalla ricorrente in via principale.
2.1. Con il primo motivo la ricorrente contesta l’illegittima
composizione della commissione di gara, sotto i distinti profili che di
seguito si prendono in esame.
- Con riferimento al primo profilo di censura dedotto,
fondato sulla presunta violazione dell’art. 77, commi 1 e 3, del D.lgs.
50/2016, alla luce del quale i membri delle commissioni devono essere scelti
tra soggetti esperti nella materia oggetto di gara, non appartenenti alla
stazione appaltante, il motivo non merita accoglimento.
A dire della ricorrente la norma citata dovrebbe trovare applicazione per
tutte le procedure di gara indette sotto la vigenza del nuovo codice
appalti, a prescindere dalla attuale inoperatività dell’istituendo Albo
nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici, di cui
al successivo art. 78.
Al contrario,
deve ritenersi che -nelle more dell’approvazione dell’Albo
nazionale obbligatorio dei membri delle commissioni giudicatrici di cui
all’art. 78 del D.lgs. 50/2016- non trovi applicazione la disciplina di cui
all’art. 77, ma operi invece il regime transitorio di cui all’art. 216,
comma 12, a mente del quale “Fino alla adozione della disciplina in
materia di iscrizione all’Albo di cui all’art. 78, la commissione
giudicatrice continua ad essere nominata dall’organo della stazione
appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del
contratto, secondo regole di competenza e trasparenza individuate da
ciascuna stazione appaltante”.
Ad oggi, pertanto, non può dirsi ancora operante un obbligo per le stazioni
appaltanti di individuare i membri delle commissioni giudicatrici tra
soggetti esperti esterni alla stessa
(cfr., ex plurimis, TAR Veneto,
sez. III, 15.01.2018, n. 40; TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 04.10.2017, n.
10034).
- Con riferimento al secondo profilo di censura, con il
quale il ricorrente contesta la violazione della norma contenuta nel
succitato art. 216, comma 12, del D.lgs. 50/2016, invece, la censura merita
accoglimento, poiché la nomina della commissione da parte di Sistemi
Territoriali risulta essere avvenuta senza alcuna forma di predeterminazione
dei criteri di trasparenza e competenza da parte della stazione appaltante.
Segnatamente, si deve in primo luogo escludere che -avendo la procedura di
gara in esame un importo a base d’asta superiore alla soglia di rilevanza
comunitaria- l’individuazione di tali criteri possa rinvenirsi nel
regolamento richiamato da Si.Te., dal momento che lo stesso risulta essere
stato adottato in attuazione dell’art. 36, comma 8, del D.lgs. 50/2016 e si
riferisce, pertanto, esclusivamente alle procedure di gara sotto soglia.
In secondo luogo, anche laddove -in astratta ipotesi- si ritenesse di poter
applicare il richiamato regolamento, la norma in esso contenuta,
specificatamente volta a regolare la composizione delle commissioni di gara,
in realtà nulla dice in ordine ai criteri di competenza e trasparenza che
devono improntare l’azione amministrativa nella scelta dei commissari, ma ha
un contenuto del tutto generico e pertanto irrilevante ai fini che qui
interessano.
In terzo luogo, tale regolamento non è affatto richiamato -nemmeno in via
analogica- nel provvedimento con il quale sono stati nominati i commissari e
non può pertanto costituirne un presupposto.
In quarto luogo, una puntuale individuazione dei criteri di competenza e
trasparenza adottati nella scelta dei commissari non è riscontrabile nemmeno
nel corpo dello stesso provvedimento di nomina, poiché esso non contiene
alcuna autonoma e specifica motivazione in ordine alle ragioni di scelta dei
membri della commissione, ma si limita a indicare i nominativi dei soggetti
individuati. Si deve escludere, peraltro, che la mera allegazione dei
curricula di tali soggetti al provvedimento possa costituire di per sé
valida e sufficiente modalità di predeterminazione dei concreti criteri di
trasparenza e competenza per la nomina dei commissari, o sostituire
integralmente la motivazione delle scelte operate dalla stazione appaltante,
la cui ragion d’essere deve essere comunque resa palese.
In conclusione, con riferimento al secondo profilo di censura sollevato,
il
provvedimento di nomina della commissione risulta illegittimo, in quanto
adottato in assenza di qualsiasi predeterminazione dei criteri di
trasparenza e competenza e del tutto privo di un proprio specifico contenuto
motivazionale.
- Risulta fondato anche il terzo profilo di censura
sollevato dalla ricorrente con riferimento alla commissione giudicatrice,
con il quale si lamenta la mancata nomina di un dirigente come presidente.
Infatti, nel periodo di regime transitorio, fino cioè alla
approvazione dell’albo nazionale dei membri delle commissioni giudicatrici
di cui all’art. 78 del D.lgs. 50/2016, deve trovare applicazione -in
mancanza di una specifica regolamentazione interna- la disciplina dettata
dall’art. 84 del D.lgs. 163/2006. L’applicabilità del regime previgente in
materia di nomina e composizione delle commissioni giudicatrici è del resto
confermato proprio dal tenore letterale del già citato art. 216, comma 12,
del D.lgs. 50/2016, secondo il quale “… la commissione giudicatrice
continua ad essere nominata dall’organo della stazione appaltante competente
ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto …”
(cfr., ex plurimis, TAR Veneto, sez. III, 15/01/2018, n. 40, TAR
Liguria, sez. II, 21.12.2017, n. 970; TAR Lazio, Roma, sez. I-quater,
04.10.2017, n. 10034).
Come sopra dimostrato, nel caso di specie non può del resto trovare
applicazione -come vorrebbe parte resistente- la generica disciplina
contenuta nel già citato regolamento, adottato dalla stazione appaltante per
gli appalti sotto soglia; deve al contrario ritenersi operante proprio il
regime di cui all’art. 84 del D.lgs. 163/2006.
Il comma 3 dell’art. 84, segnatamente, prevede che “La commissione è
presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e, in caso di
mancanza in organico, da un funzionario della stazione appaltante incaricato
di funzioni apicali”.
Con riferimento al caso di specie, invece, costituisce circostanza
incontestata che il presidente della commissione non possiede la qualifica
di dirigente; né Si.Te. ha mai contestato la presenza nel proprio organico
di figure dirigenziali preposte ai settori interessati dalla procedura di
gara.
Non sono quindi nemmeno state addotte dalla resistente particolari ragioni
oggettive che giustifichino la mancata nomina di un dirigente quale
presidente della commissione.
A ciò si aggiunga che la nomina di un dirigente nel ruolo di presidente
della commissione di gara costituisce diretta espressione del più volte
richiamato criterio di competenza sul quale fondare la nomina delle
commissioni giudicatrici, criterio sancito espressamente dalle norme vigenti
e comunque ricavabile dagli stessi principi generali di sistema, in quanto
regola volta a garantire il più adeguato svolgimento delle operazioni di
valutazione delle offerte. |
TRIBUTI: Pubblicità,
arredi valutati unitariamente.
Gli elementi di arredo degli esercizi commerciali soggetti all'imposta
comunale sulla pubblicità possono essere considerati mezzi di una promozione
veicolata unitariamente: quello che rileva è il collegamento strumentale
inscindibile fra i vari elementi e l'unicità del contenuto.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione -Sez. V civile- con l'ordinanza
18.04.2018 n. 9492, esaminando il ricorso presentato da un esercente contro
il metodo di calcolo del tributo su sedie, ombrelloni, tavolini e cestini,
riportanti una scritta pubblicitaria.
Secondo la Suprema Corte, che ha confermato la pronuncia dei giudici di
secondo grado, la superficie imponibile va determinata con una diversa
valutazione «logico-spaziale» del complesso degli arredamenti.
La società ricorrente aveva impugnato l'atto impositivo emesso dal comune,
ritenendo che l'ente avesse illegittimamente applicato la previsione
dell'art. 7, dlgs n. 507 del 1993, che, al primo comma, prevede «l'imposta
sulla pubblicità si determina in base alla superficie della minima figura
piana geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario
indipendentemente dal numero dei messaggi in esso contenuti», mentre al
secondo comma stabilisce che «le superfici inferiori ad un metro quadrato
si arrotondano per eccesso al metro quadrato e le frazioni di esso, oltre il
primo, a mezzo metro quadrato; non si fa luogo ad applicazione d'imposta per
superfici inferiori a trecento centimetri quadrati.»
Secondo il concessionario della pubblicità tutte le sedie, ombrelloni,
tavolini e cestini erano dotati di un'autonoma funzionalità, stante anche la
loro amovibilità, e ciascun elemento era idoneo a divulgare un messaggio
pubblicitario; non ricorreva, a suo giudizio, la diversa ipotesi di cui
all'art. 5, comma 7, dlgs n. 507 del 1993, secondo cui «i festoni di
bandierine e simili nonché i mezzi di identico contenuto, ovvero riferibili
al medesimo soggetto passivo, collocati in connessione tra loro si
considerano, agli effetti del calcolo della superficie imponibile, come un
unico mezzo pubblicitario».
La Corte di cassazione, invece, ha condiviso l'operato dei giudici di
secondo grado che avevano considerato ciascun «gruppo di quattro sedie ed
un ombrellone» come «entità autonoma», ai fini impositivi, «in
quanto tutti gli ombrelloni del posto di ristoro recavano la stessa
indicazione pubblicitaria».
Gli Ermellini hanno ritenuto legittimo considerare l'insieme del messaggio
pubblicitario di ciascun blocco e su quest'ultima complessiva superficie
calcolare le esenzioni e le imposte.
L'ordinanza è in linea con il principio, già affermato dalla Corte di
cassazione, per cui, «in tema di imposta sulla pubblicità, l'art. 7,
comma 5, del dlgs n. 507 del 1993, che riproduce sostanzialmente il
contenuto dell'ultimo comma dell'art. 17 del dpr n. 639 del 1972, considera
come un unico mezzo pubblicitario, agli effetti del calcolo della superficie
imponibile, una pluralità di messaggi che presentino un collegamento
strumentale inscindibile fra loro ed abbiano identico contenuto, anche se
non siano tutti collocati in un unico spazio o in un'unica sequenza»
(Cass. n. 23567/2009, n. 16315/2013, n. 22322/2014) (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
APPALTI:
Selezione delle tipologie di prodotti da valutare dopo
l’apertura delle offerte tecniche.
Il limite dell’apertura delle offerte
assume nelle gare pubbliche una latitudine molto ampia,
preclusiva della fissazione di inediti criteri di giudizio
ovvero di modalità di valutazione delle offerte che non
siano mera esplicitazione di regole procedurali già fissate:
l’ampia portata del divieto è volta ad intercettare
l’altrettanto esteso rischio che la regolarità del
procedimento valutativo e l'oggettiva imparzialità del
risultato possano essere compromessi dalla sola possibilità
di conoscenza delle offerte e dalla conformazione delle
modalità di valutazione ai caratteri specifici delle offerte
conosciute.
La ratio della cesura temporale coincidente con
l’apertura delle buste contenente le offerte tecniche è
dunque quella di evitare che l’acquisita conoscenza delle
offerte possa costituire elemento potenzialmente deviante
dei giudizi e dell’operato della Commissione, consentendole
di plasmare criteri o parametri specificativi adattandoli ai
caratteri peculiari delle offerte, conosciute o conoscibili,
sì da sortire un effetto potenzialmente premiante nei
confronti di una o più imprese.
Una alterazione di tale
tipo non può escludersi che possa realizzarsi anche
attraverso una capziosa selezione delle tipologie di
prodotti da valutare, poiché anche in tal caso viene in
gioco una “modalità” di valutazione, ovvero una scelta che
implica il restringimento o la focalizzazione del giudizio
su un più selezionato ambito di elementi in gara
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
2. Anche il terzo motivo è meritevole di accoglimento.
2.1. Si tratta di censura chiaramente determinata nei suoi
elementi costitutivi e ricalcata su affermazioni di
principio già vagliate dalla giurisprudenza (Ad, Plen.
13/2011). Va quindi respinta l’eccezione di inammissibilità
per genericità della doglianza sollevata dalla parte
controinteressata con memoria del 19.3.2018.
2.2. Nel merito, dalla lettura dei verbali di gara si evince
che la Commissione: nella seduta pubblica del 05.07.2015
(di cui al verbale n. 1) ha aperto la busta B
(documentazione tecnica) per effettuarne un “esame volto
alla elencazione della documentazione tecnica depositata” e
per “constatarne la regolarità”; nella successiva seduta
riservata del medesimo 5 luglio, ha convenuto sulla
opportunità di valutare (sottoponendoli al “protocollo
prove”) solo i prodotti corrispondenti ai nn. 3, 8, 16, 18,
19, 24, 25, 28, 29, 32, 33, 50, 51, 63, 64 e 68; infine,
nella “seduta riservata” del 10.07.2017, ha deciso di
“consultare le schede tecniche dei prodotti (…)”.
2.3. Da tale modus agendi, l’appellante desume la consumata
violazione dei principi generali di imparzialità e
trasparenza, sotto lo specifico profilo per cui la
fissazione dei criteri selettivi e delle modalità di
valutazione delle offerte deve sempre precedere l’apertura
delle buste contenenti le offerte medesime, ovvero deve
essere effettuata in una fase anteriore alla conoscenza dei
contenuti tecnici di dette offerte.
2.4. La doglianza è fondata.
È pacifico, innanzitutto, che la scelta dei prodotti da
valutare sia stata orientata dal duplice criterio della
taglia e del livello di assorbenza: i numeri di prodotti
selezionati come valutabili riflettono queste due
caratteristiche.
2.5. Per vagliare la legittimità di tale operazione occorre
ricordare che il limite dell’apertura delle offerte assume
nelle gare pubbliche una latitudine molto ampia, preclusiva
della fissazione di inediti criteri di giudizio ovvero di
modalità di valutazione delle offerte che non siano mera
esplicitazione di regole procedurali già fissate: l’ampia
portata del divieto è volta ad intercettare l’altrettanto
esteso rischio che la regolarità del procedimento valutativo
e l'oggettiva imparzialità del risultato possano essere
compromessi dalla sola possibilità di conoscenza delle
offerte e dalla conformazione delle modalità di valutazione
ai caratteri specifici delle offerte conosciute (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. V, 20.04.2012, n. 2343).
2.6. La ratio della cesura temporale coincidente con
l’apertura delle buste contenente le offerte tecniche è
dunque quella di evitare che l’acquisita conoscenza delle
offerte possa costituire elemento potenzialmente deviante
dei giudizi e dell’operato della Commissione, consentendole
di plasmare criteri o parametri specificativi adattandoli ai
caratteri peculiari delle offerte, conosciute o conoscibili,
sì da sortire un effetto potenzialmente premiante nei
confronti di una o più imprese.
Una alterazione di tale tipo non può escludersi che possa
realizzarsi anche attraverso una capziosa selezione delle
tipologie di prodotti da valutare, poiché anche in tal caso
viene in gioco una “modalità” di valutazione, ovvero una
scelta che implica il restringimento o la focalizzazione del
giudizio su un più selezionato ambito di elementi in gara.
2.7. Nel caso di specie, le risultanze di causa non
consentono di accertare se la differenza di taglia e di
livello di assorbenza possa avere privilegiato una offerta
sulle altre, così da incidere sugli esiti del confronto tra
prodotti: trattasi, in ogni caso, di questione irrilevante,
posto che l’obiettivo del divieto in questione è proprio
quello di evitare il solo potenziale e astratto pericolo di
inquinamento del corretto incedere del procedimento
valutativo; e questo potenziale pericolo nel caso de quo non
è fugato da evidenze chiare e inequivoche circa l’effettiva
invarianza delle caratteristiche tecnico-qualitative dei
prodotti al variare delle taglie sottoposte a giudizio.
2.8. Non convince neppure l'ulteriore eccezione della difesa
delle resistenti, volta a porre in evidenza che la
valutazione delle offerte tecniche è intervenuta solo nella
seduta del 10.07.2017 e che nella precedente seduta del
5 luglio la Commissione si era limitata ad accertare
l’elenco della documentazione tecnica allegata dai singoli
concorrenti, sicché, essendo rimasta inviolata la segretezza
del contenuto delle offerte, non si potrebbe giustificare
alcun sospetto sulla imparzialità dei successivi giudizi
valutativi.
In dissenso da tale considerazione occorre innanzitutto
osservare che, per quanto risulta dai verbali di gara, la
commissione, una volta aperte le buste, ne ha compiuto un
“esame”, sia pure volto alla elencazione dei documenti
allegati, di cui comunque è stata presa una sommaria
visione. Dunque, la traccia testuale dei documenti di gara
depone a favore di una prematura acquisizione di conoscenza
da parte della Commissione del contenuto delle offerte
tecniche.
In ogni caso, è dirimente osservare che l'attentato ai
principi di imparzialità e trasparenza si verifica già con
l'apertura delle buste, ossia con la mera possibilità di
conoscenza delle offerte tecniche da parte della
commissione, essendo ininfluente che quest'ultima ne abbia
avuto effettiva contezza. Difatti, sulla base della già
esaminata logica di preventiva anticipazione del rischio di
alterazione dell’esito della gara, il mancato adempimento
procedurale della preventiva fissazione delle modalità di
valutazione dell'offerta è in sé idoneo ad inficiare tutti
gli atti della procedura selettiva a prescindere
dall'effettiva lesione patita dai concorrenti, trattandosi
di regola posta a tutela di beni (la parità di trattamento
tra operatori economici, ma anche l'interesse pubblico alla
trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa) la
cui lesione è difficilmente apprezzabile ex post a seguito
dell'apertura delle buste (cfr. in tal senso Cons. Stato,
Ad. Plen., 28.07.2011, n. 13).
3. Conclusivamente, risultano fondati il primo e il
terzo
motivo di appello.
Ne consegue che, assorbite le ulteriori
censure, in riforma della sentenza impugnata, va disposto
l’accoglimento del ricorso di primo grado, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati, la caducazione integrale della procedura di gara e la
dichiarazione di inefficacia dell’accordo quadro nelle more
stipulato con la parte aggiudicataria, sia pure
limitatamente alle prestazioni ancora da eseguire.
4. L’istanza risarcitoria avanzata dalla parte appellante
non può invece essere accolta, sia perché mancante della
dimostrazione dell’asserito danno da ritardo (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 13.11.2017, n. 5197); sia perché la caducazione degli atti di gara e la riedizione della
procedura selettiva appaiono misure acconce a garantire
piena soddisfazione all’interesse pretensivo dedotto in
giudizio (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 16.04.2018 n. 2258
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
il TAR apre al soccorso istruttorio oltre i termini se il problema è solo
formale.
È di sicuro rilievo la
sentenza
12.04.2018 n. 752
del TAR Sicilia-Catania, Sez. I, in tema di integrazione della documentazione di gara –relativamente alla cauzione provvisoria– avvenuta oltre il termine concesso
dalla stazione appaltante.
Pronuncia che si pone in senso opposto rispetto
all'orientamento che ritiene il termine del soccorso istruttorio integrativo
perentorio a pena di esclusione se la richiesta non viene effettuata
tempestivamente.
Il caso
Il caso sottoposto al giudice siciliano riguarda l'errata prestazione della
garanzia provvisoria che, invece di essere distinta/ripartita per i 5 lotti
messi in gara, veniva rilasciata cumulativamente. L'integrazione da parte
dell'appaltatore interessato –sollecitato attraverso il soccorso
istruttorio integrativo– era avvenuta oltre i 10 giorni concessi dalla
stazione appaltante. Per questo fatto il ricorrente ne ha chiesto
l'estromissione e ha impugnava gli atti di gara innanzi al giudice.
La decisione
La questione posta dal ricorrente impone alla sezione un confronto con il
proprio recente precedente in cui lo stesso giudice siciliano (della sezione
IV, con la sentenza n. 382/2018 sul Quotidiano degli enti locali e della Pa
del 27 febbraio) –secondo anche l'orientamento consolidato– ha affermato
la perentorietà del termine assegnato per integrare le carenze documentali
dell'appaltatore.
Secondo questo precedente, una volta che il responsabile unico abbia
assegnato un termine per adempiere –rafforzandolo con il riferimento
all’esclusione– non è più consentita una ulteriore dilazione in quanto,
così facendo, verrebbe violato il principio della par condicio tra i
competitori.
Il giudice non ha disconosciuto, evidentemente, il precedente ma ha
evidenziato una sostanziale differenza tra il caso specifico –in cui si
trattava di integrare i documenti con la produzione di una certificazione in
ordine ai servizi prestati e dichiarati nella documentazione amministrativa
della gara, ai fini della prova della capacità economico/finanziaria– e
l'ipotesi attuale in cui il requisito di gara (la produzione delle cauzioni
provvisorie) risultava ampiamente soddisfatto sia pure in modo non corretto.
Infatti, l'importo delle cauzioni invece che ripartito in relazione a
ciascun lotto era stato disposto cumulativamente.
In sostanza la stazione appaltante risultava ampiamente garantita e, non
solo, la stessa carenza –si legge nella sentenza– è riferita da un
elemento (la cauzione provvisoria) che «non può comunque di per sé
determinare l'esclusione dalla gara». In questo senso la giurisprudenza ha
affermato che «la cauzione provvisoria non assume la configurazione di un
requisito di ammissione alla gara, che deve essere già posseduto entro il
termine di presentazione delle offerte, ma costituisce una garanzia di
serietà dell'offerta e di liquidazione preventiva e forfettaria del danno,
in caso di mancata sottoscrizione del contratto di appalto imputabile al
concorrente a titolo di dolo o colpa e/o di esclusione dalla gara per
l'assenza dei requisiti di ammissione alla gara». Di estromissione si sarebbe
potuto legittimamente parlare nel caso in cui la carenza avesse riguardato
la cauzione definitiva.
Quindi, se pur è vero che l'aggiudicataria ha integrato oltre il termine
concesso, si era in presenza di una carenza irrisoria in quanto meramente
formale visto che, anche cumulativamente, la cauzione risultava prestata per
i vari lotti dell'appalto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.05.2018).
---------------
MASSIMA
La questione posta all’esame del Collegio concerne la perentorietà del
termine per il soccorso istruttorio e l’essenzialità della cauzione
provvisoria.
Il Collegio non ignora che questo stesso Tribunale, di recente (cfr. TAR
Catania, IV, 16.02.2018, n. 382), si è espresso per la perentorietà del
termine di soccorso istruttorio.
La detta decisione, però, riguardava la diversa questione relativa alla
richiesta di certificazione in ordine ai servizi prestati e dichiarati nella
documentazione amministrativa della gara, ai fini della prova della capacità
economico-finanziaria.
La parte interessata, per altro, in quel caso non aveva esitato la richiesta
nei termini prescritti, sicché il seggio di gara, illegittimamente, secondo
la predetta decisione, aveva concesso un ulteriore termine.
Nel caso di specie, viene in rilievo un adempimento che, per quanto sarà
subito chiarito, non può comunque di per sé determinare l’esclusione dalla
gara.
Invero, il motivo di estromissione di parte ricorrente consiste nella
mancata indicazione, in conformità al dictum previsto nel
disciplinare di gara, nella cauzione provvisoria dei singoli importi
previsti per la garanzia relativa ai singoli 5 lotti alla cui assegnazione
la ricorrente ha inteso partecipare, mentre risulta ivi inserito il corretto
ammontare complessivo (quale somma degli stessi).
In ogni caso, la parte ricorrente si è tempestivamente attivata per esitare
quanto richiesto con soccorso istruttorio attivato dal seggio di gara,
incaricando il garante a regolarizzare la cauzione provvisoria nel senso
sopra indicato.
Ed invero, la dichiarazione resa dal garante pur risultata errata, è stata
regolarizzata, conformemente a quanto richiesto in sede di soccorso
istruttorio, successivamente ai dieci giorni prescritti.
Ciò posto, va premesso (cfr. TAR Basilicata, I, 27.07.2017, n. 531) che
sia <<il previgente combinato disposto di cui
agli artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, D.Lg.vo n. 163/2006, sia il
vigente art. 83, comma 9, D.Lg.vo n. 50/2016 non contemplano la suddetta
condizione della già avvenuta costituzione della cauzione provvisoria alla
data di presentazione dell’offerta e la Giurisprudenza
(cfr. Sentenza TAR Lazio Sez. III-ter n. 8143 del 10.06.2015, confermata
dalla Sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato n. 1377 del
06.04.2016) ha statuito che ... la cauzione provvisoria non
assume la configurazione di un requisito di ammissione alla gara, che deve
essere già posseduto entro il termine di presentazione delle offerte, ma
costituisce una garanzia di serietà dell’offerta e di liquidazione
preventiva e forfettaria del danno, in caso di mancata sottoscrizione del
contratto di appalto imputabile al concorrente a titolo di dolo o colpa e/o
di esclusione dalla gara per l’assenza dei requisiti di ammissione alla gara>>.
Del resto, così come la previgente disciplina, l’art. 93
del codice degli appalti, mentre nulla dice in ordine alla garanzia
provvisoria, al comma 8 espressamente stabilisce che <<l'offerta è
altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore,
anche diverso da quello che ha rilasciato la garanzia provvisoria, a
rilasciare la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui
agli articoli 103 e 104, qualora l'offerente risultasse affidatario. Il
presente comma non si applica alle microimprese, piccole e medie imprese e
ai raggruppamenti temporanei o consorzi ordinari costituiti esclusivamente
da microimprese, piccole e medie imprese>>.
Deriva già in linea di principio l’assoluta integrabilità
dell’omissione denunziata dal seggio di gara, in quanto non relativa alla
garanzia per l’esecuzione del contratto, la cui mancanza soltanto determina
l'esclusione automatica.
Ciò posto, vero è che il comma 9 dell’art. 83 del codice
degli appalti sancisce la perentorietà del termine per il soccorso
istruttorio, per cui è condivisibile che l’introduzione di una deroga,
mediante previsione di un termine ulteriore, importi la violazione del
principio della par condicio, essendosi consentito ad alcuni dei
concorrenti di integrare la produzione di atti o documenti dopo la scadenza
dei termini fissati (Cons. Stato,
sez. V, 21.11.2017 n. 5382).
Nel caso di specie, però, non può dirsi che, a monte, non
sussista la necessaria garanzia, posto che la cauzione prestata, pur non
suddivisa per i singoli lotti così come richiesto dal disciplinare di gara,
comunque è stata prestata per l’intero, sicché l’Amministrazione, comunque,
è certamente garantita nel caso di mancata stipula di tutti i lotti.
In altri termini, la carenza da sanare appare per lo più meramente formale,
essendo comunque salva la garanzia dell’Amministrazione, sicché la
precisazione prevista e richiesta, più che un carattere integrativo della
documentazione (comunque non prevista a pena di esclusione) assume un
carattere confermativo di una produzione documentale già esistente.
La circostanza, unita alla pronta risposta della parte interessata, consente
un ulteriore termine per il soccorso istruttorio, in quanto non integrativo,
ma meramente confermativo di una circostanza deducibile dal documento già
presente.
Consegue l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della impugnata
esclusione della ricorrente. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Licenziamento
disciplinare legittimo anche se la condanna penale non è definitiva.
Nulla osta al licenziamento disciplinare del dipendente pubblico in
relazione agli stessi fatti per i quali sia intervenuta condanna penale non
ancora passata in giudicato.
A stabilirlo la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la
sentenza
05.04.2018 n. 8410.
Il caso
Il contenzioso riguardava un impiegato dell'ispettorato del lavoro
destituito dal servizio per una vicenda per cui con sentenza emessa in primo
grado con il rito abbreviato, era stato riconosciuto colpevole di
concussione continuata, poiché abusando dei propri poteri e della qualifica
rivestita, si era fatto consegnare somme di denaro dai gestori di due
esercizi commerciali prospettando loro la possibilità di evitare i controlli
sulla posizione lavorativa del personale dipendente.
I giudici hanno respinto il ricorso dell'interessato che aveva chiesto la
sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del giudizio penale
visto che la sentenza di condanna per concussione non era ancora passata in
giudicato al momento dell'adozione del provvedimento espulsivo da parte
dell'Amministrazione.
Procedimento disciplinare e procedimento penale
Il legislatore, per effetto dell'articolo 55-ter del Dlgs 165/2001
introdotto dall'articolo 69 del Dlgs 150/2009, ha modificato i rapporti tra
procedimento disciplinare e penale nel pubblico impiego privatizzato,
stabilendo che il procedimento disciplinare che riguarda fatti in relazione
ai quali procede l'Autorità giudiziaria è proseguito e concluso anche in
pendenza del procedimento penale.
Questa norma di rango primario prevale su
eventuali diverse previsioni della contrattazione collettiva: lo si ricava
inequivocabilmente dall’articolo 55, comma 1, dello stesso Dlgs 165/2001
dove statuisce che le disposizioni normative in tema di responsabilità
disciplinare dei pubblici dipendenti «costituiscono norme imperative, ai
sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del
codice civile», come tali prevalenti sulla disciplina di fonte pattizia.
Ciò
sta a significare che la Pa –salvi i casi di particolare complessità
dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente o quando all'esito del
procedimento non disponga di elementi sufficienti per irrogare la sanzione
disciplinare, i soli casi nei quali può sospendere il procedimento
disciplinare fino al termine di quello penale– deve procedere e completare
il procedimento disciplinare, allo scopo di pervenire in tempi rapidi a
stabilire se permangano le basi del rapporto fiduciario con il dipendente e
a sanzionare, anche con l'espulsione, quello risultato infedele.
In questo schema, il meccanismo finalizzato ad evitare «conflitti di
giudicato» con il più garantito processo penale risulta rovesciato rispetto
al passato (quando era ancora applicabile l'articolo 117 del Dpr 3/1957 che
stabiliva l'opposto principio del divieto di avvio di un procedimento
disciplinare in pendenza di quello penale): il procedimento disciplinare
procede di regola autonomamente, senza sospensione, ma se il procedimento
penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che
riconosce l'insussistenza del fatto, la non commissione da parte del
dipendente o la liceità del fatto stesso, il procedimento disciplinare si
riapre, su istanza dell'interessato, e l'atto conclusivo viene conformato
all'esito del processo penale; specularmente accade in caso di archiviazione
del procedimento disciplinare e di conclusione del processo penale con
sentenza irrevocabile di condanna: questa volta è la stessa Pa a riaprire il
procedimento penale per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del
processo penale.
In questo assetto, è dunque pienamente legittimo che la Pa, di norma tenuta
a instaurare e proseguire il procedimento disciplinare parallelamente al
procedimento penale, possa anche far propri gli esiti, ancorché
interlocutori, del processo penale, ivi comprese, come in questo caso,
sentenze non definitive fondate per giunta su acquisizioni probatorie non
sottoposte al vaglio critico del dibattimento (in quanto emesse in esito a
giudizio abbreviato, peraltro liberamente scelto dall'interessato), potendo
la parte pur sempre contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti
così acquisiti in sede penale.
La novità della riforma Madia
A conferma indiretta di questa possibilità vi è anche la recentissima
modifica apportata all’articolo 55-ter del Dlgs 165/2001 con uno dei decreti
della riforma Madia per cui adesso si prevede espressamente che il
procedimento disciplinare che sia stato invece sospeso in pendenza di
vicenda giudiziaria per mancanza di elementi sufficienti per irrogare la
sanzione disciplinare possa essere riattivato dalla Pa senza attendere la
conclusione del processo penale, sulla scorta anche di un provvedimento
giurisdizionale non definitivo, qualora essa entri in possesso di elementi
sufficienti per terminare il procedimento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2018).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso è infondato.
4. Il primo motivo sostanzialmente verte su un presunto obbligo della
Pubblica Amministrazione di sospendere il procedimento disciplinare in
attesa dell'esito definitivo di quello penale. Tale tesi non trova alcun
riscontro nella disciplina che regola la fattispecie in esame.
Il procedimento disciplinare, avviato il 10.03.2011, è regolato dall'art.
55-ter D.Lgs., introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009 (c.d. riforma
Brunetta); tale è la norma applicabile, che -com'è noto- ha inciso sul
sistema delle fonti che regolano il procedimento disciplinare nel pubblico
impiego privatizzato, operando la riaffermazione del primato della fonte
legislativa rispetto al ruolo prima prevalente della contrattazione
collettiva.
L'art. 40, co. 1, ultima parte D.Lgs. n. 165/2001 prevede infatti che "nelle
materie relative alle sanzioni disciplinari,.. .la contrattazione collettiva
è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge";
inoltre, l'art. 55, primo comma, del medesimo D.Lgs. attribuisce carattere
di "norme imperative" alle "disposizioni del presente articolo 0,
di quelli seguenti", con sostituzione automatica delle clausole
contrattuali difformi rispetto alle previsioni legislative, in base agli
artt. 1339 e 1419 cod. civ. testualmente richiamati.
4.1. Tanto premesso, l'art. 55-ter introdotto dalla riforma del 2009, nel
testo allora vigente (ora oggetto del D.Lgs. n. 25.05.2017, n. 75, art. 14),
dispone, al primo comma, che "Il procedimento disciplinare, che abbia ad
oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità
giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento
penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all'articolo 55-bis,
comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per
le infrazioni di maggiore gravità, di cui all'articolo 55-bis, comma 1,
secondo periodo, l'ufficio competente, nei casi di particolare complessità
dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito
dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare
l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare
fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la
sospensione o altri strumenti caute/ari nei confronti del dipendente".
5. La regola generale così introdotta è quella della
autonomia dei due procedimenti (quello disciplinare e quello penale); la
norma contempla la possibilità della sospensione (dunque facoltativa e non
obbligatoria) come eccezione, nei casi di maggiore gravità (ossia per fatti
sanzionabili con misure superiori alla sospensione fino a 10 gg.) e nei
limiti in cui ricorrano casi di particolare complessità e qualora
l'istruttoria disciplinare non abbia consentito di acquisire elementi
sufficienti alla contestazione.
5.1. La sentenza impugnata muove, dunque, da una corretta interpretazione
della normativa che regola la fattispecie, atteso che non è rinvenibile
nell'art. 55-ter D.Lgs. n. 165/01, che disciplina i rapporti tra
procedimento disciplinare e procedimento penale, alcun obbligo di
sospensione del primo in attesa della definizione del secondo.
6. Neppure esiste una disposizione che imponga alla
Pubblica Amministrazione di procedere ad un'autonoma istruttoria ai fini
della contestazione disciplinare. La Pubblica Amministrazione è, infatti,
libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere
che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed
indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari
al proprio dipendente e ben può avvalersi dei medesimi atti, in sede
d'impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti
(Cass. n. 5284 del 2017, Cass. n. 19183 del 2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sì
della Cassazione al licenziamento di chi abusa dei permessi «104».
Sì al licenziamento disciplinare del dipendente pubblico che abusa,
illegittimamente usufruendo di assenze retribuite dal lavoro, dei permessi a
lui riconosciuti in base alla legge 104.
La Corte di
Cassazione -Sez. VI civile- ha così
respinto -con l’ordinanza 04.04.2018 n. 8209- il ricorso di una
dipendente di un’Azienda sanitaria locale.
L’inutile difesa
La lavoratrice -“infedele”, almeno secondo i giudici di merito- voleva far
emergere la tenuità del fatto e la sproporzione dell’irrogazione della
massima sanzione disciplinare subita e contro cui ricorreva inutilmente.
Ancora impugnando il licenziamento disciplinare in Cassazione, dopo aver
avuto torto per due gradi di giudizio di merito, la dipendente pubblica
voleva far emergere l’illegittima applicazione della sanzione più grave a
fronte della singolarità dell’episodio e del proprio stato psicologico
«precario» nel periodo dei fatti contestati.
Inoltre, metteva all’indice la
sentenza di merito per nullità, in quanto priva di una anche concisa
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione: affermava
in particolare la ricorrente in Cassazione che i giudici di appello hanno
sic et simpliciter affermato di applicare l’orientamento maggioritario in
Cassazione sull’abuso dei diritti riconosciuti dalla legge 104/1992, ma se
ne sarebbero discostati sul piano della continuità o meno della condotta,
che in questa caso sarebbe stata al limite episodica.
La lavoratrice,
infatti, oltre a negare il singolo episodio che le è costato il
licenziamento lamentava anche la non presa in considerazione dell’attività
lavorativa pregressa su cui non emergevano comportamenti scorretti.
L’orientamento drastico
La Corte di cassazione in maniera breve boccia i rilievi espressi col
ricorso, rispondendo che il giudice di appello avrebbe fatto legittimamente
espresso richiamo all’orientamento dei giudici di legittimità in vicende di
simile tenore. Infatti, precisa la Cassazione, che si tratta di principio di
diritto che ha portata generale e non presuppone la reiterazione del
comportamento. E che legittimamente il giudice di merito ha dato preminenza
al fatto “acclarato” dell’abuso del diritto, contro le difese espresse dalla
parte, non facendo venir meno l’elemento della gravità della condotta.
Gravità che i giudici hanno fatto emergere in particolare dando prevalenza
all’elemento soggettivo della condotta e non a quello quantitativo nel
tempo. In effetti l’elemento soggettivo rilevante veniva individuato nella
«perdurante ipotesi di dolo»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.04.2018). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Appalti
sotto soglia: illegittima la partecipazione del gestore uscente se la deroga
al principio di rotazione non è motivata.
Con la
sentenza
03.04.2018 n. 2079, la Sez. V del
Consiglio di Stato ha nuovamente affrontato la questione della
partecipazione ad una gara per un appalto sotto soglia e sul rispetto del
cosiddetto principio di rotazione, che prevede l’obbligo per le stazioni
appaltanti di non invitare il gestore uscente.
La pronuncia in commento si è espressa sulla ratio e sulla portata
della applicazione di tale regola nel contesto della procedura ad evidenza
pubblica, con particolare attenzione alle motivazioni che l’Amministrazione
procedente deve rendere per derogare al principio in esame.
L’approfondimento
Il Consiglio ha affermato che il rispetto del cosiddetto principio di
rotazione ha una valenza tale da evitare il consolidamento di rendite di
posizione in capo al gestore uscente, soprattutto nei mercati in cui il
numero di agenti economici attivi non è elevato.
Questa visione -supportata da un orientamento piuttosto consolidato-
costituisce la conferma dell’attenzione delle Corti al rischio del
consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita
anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in
precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio.
Il caso
I fatti traggono spunto dalla indizione di una procedura negoziata per
l’affidamento in regime di concessione di servizi, alla quale è stata
ammessa anche la società -ora appellante- gestore uscente del servizio
oggetto della gara. Il Tar adito sotto questo profilo ha annullato i
provvedimenti di ammissione della società appellante. Il Consiglio di Stato
è stato chiamato a pronunciarsi sulle censure mosse dall’appellante, la cui
argomentazione riguarda principalmente tematiche di irricevibilità e/o
inammissibilità delle domande proposte dalla società ricorrente in primo
grado.
La sentenza
Il Collegio è pervenuto alla decisione che, nel caso di specie, è legittimo
l’annullamento dei provvedimenti di ammissione della società appellante, in
quanto la procedura ad evidenza pubblica oggetto di contestazione è tra le
procedure sotto soglia comunitaria con modalità negoziata, come prevista
dall’articolo 36, comma 2, lett. b), Dlgs n. 50 del 2016, che soggiace al
rispetto del cosiddetto principio di rotazione.
I Giudici di Palazzo Spada hanno precisato che tale principio di rotazione
-oltre ad avere una solida base normativa– ha forti radici anche nella
giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato che si è più volte espresso
sull’esistenza di un obbligo per le stazioni appaltanti di non invitare il
gestore uscente, nelle gare di lavori, servizi e forniture negli appalti
cosiddetti sotto soglia, al fine di evitare il consolidamento di rendite di
posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva
soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento),
soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è
elevato.
Il Consiglio di Stato ha, quindi, ritenuto coerente con la lettera della
legge l’affermazione di un obbligo per l’Amministrazione appaltante di
procedere ad una valutazione sulla presenza di puntuali motivazioni per le
quali non sia possibile prescindere dall’invito del gestore uscente. In caso
contrario, l’ammissione del gestore uscente nell’appalto soglia soglia alla
nuova procedura indetta per il medesimo servizio risulta essere illegittima
e contraria al disposto dell’articolo 36, comma 2, lett. b), Dlgs n. 50 del
2016.
La quinta Sezione del Consiglio di Stato ha dunque respinto il ricorso
dell’appellante, confermando le valutazioni già espresse dal primo Tribunale
adito in merito alla legittimità dell’annullamento dei provvedimenti di
ammissione della società appellante, in quanto tali provvedimenti sono
contrari al rispetto del cosiddetto principio di rotazione.
Conclusioni
È illegittima una procedura negoziata sotto soglia indetta da una stazione
appaltante alla quale abbia partecipato il gestore uscente; in tal caso
infatti l’Amministrazione stessa, in applicazione del principio di
rotazione, avrebbe dovuto escludere dal proseguimento della gara il gestore
uscente, ovvero, in alternativa, invitarlo, motivando puntualmente le
ragioni per le quali ha ritenuto di non poter prescindere dall’invito
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
---------------
MASSIMA
- Rilevato che il TAR ha annullato i provvedimenti
impugnati in tale sede dall’appellata In. s.c.p.a. per violazione del
principio di rotazione, caducando quindi sia l’invito che l’ammissione al
prosieguo della gara di Si. e Am. s.p.a., in quanto gestore uscente;
- Ritenuto che la determina dirigenziale n. 463
del 22.06.2017 del Comune di Follonica prevede di dare corso ad una
procedura sotto soglia comunitaria con modalità negoziata, come prevista
dall’art. 36, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 50/2016, che soggiace al rispetto
del cd. principio di rotazione;
- Ritenuto che tale principio è stato già ritenuto
dalla giurisprudenza di questo Consiglio in termini di obbligo per le
stazioni appaltanti di non invitare il gestore uscente, nelle gare di
lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”, al fine
di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore
uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni
acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui
il numero di agenti economici attivi non è elevato
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; Consiglio di Stato,
Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125);
- Ritenuto che tale principio è volto a tutelare
le esigenze della concorrenza in un settore, quello degli appalti “sotto
soglia”, nel quale è maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a
livello locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte di
singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della
fornitura o del servizio;
- Ritenuto che nella fase di manifestazione di interesse non era
possibile né era attuale e concreto alcun interesse della società appellata
In. ad impugnare, con conseguente infondatezza dell’eccezione di
irricevibilità e/o inammissibilità del ricorso di In. dinanzi al TAR;
- Ritenuto che, con la pubblicazione sul profilo del Committente,
in data 29.09.2017, del Verbale n. 1 delle operazioni di gara del
28.09.2017, nel rispetto dei due giorni previsti dall’art. 29, comma 1,
secondo periodo d.lgs. n. 50/2016, comunicato via PEC alla ricorrente In. si
è verificata la condizione prevista dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., il
quale individua nella data di pubblicazione dell’atto di ammissione, ex art.
29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, il dies a quo di proposizione del
ricorso, o comunque nel giorno in cui l’atto stesso è reso in concreto
disponibile, secondo la nuova formulazione dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n.
50/2016, introdotta dall’art. 19 d.lgs. n. 56/2017;
- Ritenuto che le disposizioni di cui all’art. 172
d.lgs. n. 50/2016 prevedono espressamente che i concedenti debbano
perseguire “l’obiettivo di assicurare la concorrenza effettiva”, in
ossequio all’art. 30 del medesimo d.lgs., che richiama espressamente il
principio di libera concorrenza, rispetto al quale è sicuramente funzionale
il principio di rotazione di cui si controverte;
- Ritenuto che, in applicazione del principio di
rotazione il Comune di Follonica avrebbe dovuto escludere dal proseguimento
della gara il gestore uscente odierno appellante, ovvero, in alternativa,
invitarlo motivando puntualmente le ragioni per le quali riteneva di non
poter prescindere dall’invito, motivazione che in nessun modo è
rintracciabile nel caso di specie;
- Ritenuto, pertanto, che l’appello debba essere respinto e che le
spese seguano la soccombenza; |
ENTI LOCALI - VARI: Giochi, chi sbaglia chiude.
La multa non basta se le sale violano gli orari. Cds:
i comuni possono sospendere la licenza in caso di reiterate violazioni.
I comuni sono legittimati a limitare gli orari di funzionamento degli
apparecchi da gioco, ma soprattutto hanno la facoltà di revocare o
sospendere l'autorizzazione delle sale che non rispettano tali limiti. La
mera sanzione pecuniaria, infatti, non è uno strumento sufficientemente
dissuasivo nei confronti dei gestori di sale gioco che potrebbero essere
facilmente indotti ad assumersi il rischio di pagare una multa tutto sommato
tenue, continuando a violare le ordinanze dei sindaci.
È quanto ha stabilito la V Sez. del Consiglio di Stato (presidente
Carlo Saltelli, estensore Raffaele Prosperi) nella
sentenza
28.03.2018 n. 1933, che ha respinto l'appello della società In.Ga. srl,
titolare di una sala bingo a Mantova.
Alla società, il cui ricorso era già
stato bocciato dal Tar Lombardia, era stato ordinato dal comune uno stop di
cinque giorni al funzionamento degli apparecchi, in seguito a ripetute
violazioni della disciplina comunale sugli orari di apertura delle sale da
gioco.
Secondo la sentenza riportata da Agipronews, i poteri sanzionatori
«pesanti» previsti dalla legge, generalmente attribuiti alle Questure,
possono essere affidati anche ai comuni «in presenza di violazione delle
discipline specifiche che attengono alla tutela degli interessi pubblici
diversi da quello dell'ordine e della sicurezza».
Nel caso di specie la In.Ga. era stata multata quattro volte per la
violazione dei limiti orari disposti per la prevenzione della ludopatia
(l'attività è concessa dalle 9 alle 12 e dalle 18 alle 23) prima di essere
sanzionata con la sospensione della licenza per cinque giorni. Una sanzione
che palazzo Spada ha definito «significativa, adeguata, proporzionata e
idonea a garantire un reale effetto di deterrenza e il carattere di
afflittività, contemperando in modo non irragionevole l'interesse
sanzionatorio dell'autorità sindacale e il principio della libertà di
iniziativa economica».
Per il Consiglio di stato, infatti, la possibilità di
fermare l'attività di una sala diventa fondamentale per garantire il
rispetto dei regolamenti. «A nessuno sfugge che, se tutto si riducesse e si
limitasse alla sanzione pecuniaria, sarebbe agevolata una logica
strettamente economica del rapporto costi/benefici».
In questo modo, «il titolare di sala giochi o degli apparecchi con vincite
in denaro sarebbe facilmente indotto ad assumere il rischio e il
relativamente tenue costo per la violazione dell'ordinanza sindacale (a
norma del Tuel per le violazioni dei regolamenti comunali e provinciali si
applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 25 a 500 euro ndr),
consistente nel solo pagare la sanzione amministrativa, a fronte di un più
elevato guadagno derivante dall'utilizzo della sala gioco o dal
funzionamento degli apparecchi da gioco».
Deve quindi essere «riconosciuta
la necessità» che la ripetuta violazione dei limiti orari «sia accompagnata
da una misura ulteriore e diversa dalla sanzione pecuniaria: una misura,
cioè, di cura diretta dell'interesse pubblico, che prescinda dal soggetto e
che guardi all'oggetto, e che vada ad incidere direttamente e immediatamente
sull'attività sospendendola per un tempo ragionevole, adeguato e idoneo» (articolo
ItaliaOggi del 29.03.2018). |
ENTI LOCALI - VARI: Ztl,
discriminatorie eccezioni pro affittuari.
Il comune che consente l'accesso in deroga alla zona a traffico limitato
solo ai titolari di un contratto di locazione di un immobile anche se non
residenti discrimina rispetto ai proprietari non residenti. Dunque
l'amministrazione locale dovrà modificare tempestivamente i criteri generali
per il rilascio delle autorizzazioni assimilando i dimoranti non abituali in
affitto a quelli in proprietà.
Lo ha chiarito il TAR Umbria, Sez. I,
con la
sentenza 28.03.2018 n. 182.
Il comune di Spoleto ha modificato i criteri di accesso alla zona a traffico
limitato ammettendo alla zona tutelata del borgo oltre ai residenti anche i
dimoranti non abituali muniti di un contratto di locazione di un immobile
posizionato nel centro storico.
Contro questa determinazione il proprietario
di un immobile situato nell'area del Duomo, ma non residente, ha proposto
con successo censure al collegio.
Il proprietario non residente di un
manufatto situato nella zona medievale del borgo di Don Matteo deve godere
degli stessi diritti del titolare di un contratto di locazione, anche egli
non residente. Entrambi i soggetti sono infatti in possesso di un diritto
reale di godimento (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.04.2018).
---------------
MASSIMA
1. È materia del contendere la legittimità degli atti in forza dei quali
il Comune di Spoleto ha modificato l’accesso alla zona a traffico limitato
del centro storico, impedendo all’odierno ricorrente di poter accedere con
la propria autovettura ad un immobile di sua proprietà sito in piazza ... n.
8, sul presupposto che gli unici legittimati sarebbero, oltre ai residenti i
dimoranti non abituali.
2. Ritiene preliminarmente il Collegio di dover rilevare l’improcedibilità
del gravame principale per difetto di interesse, atteso che a seguito
dell’adozione dell’atto impugnato per motivi aggiunti con il quale
l’amministrazione comunale ha definitivamente negato il rilascio del
permesso z.t.l., il ricorrente non potrebbe ricavare alcuna utilità
dall’eventuale annullamento dei precedenti atti inerenti il procedimento di
revoca delle autorizzazioni z.t.l. di cui alla determina dirigenziale n. 947
del 01.10.2015, trattandosi peraltro di permessi venuti a scadere
naturalmente in data 17.07.2016.
3. Ciò premesso si può passare in esame il ricorso per motivi aggiunti il
quale appare fondato e va accolto relativamente alla doglianza a mezzo della
quale si lamenta che il Comune di Spoleto abbia reinterpretato a proprio
piacimento la stessa definizione di dimorante non abituale di cui alle
ordinanze nn. 6 e 47 del 2015, intendendo tale solo colui che abbia un
contratto di locazione ad uso privato su un immobile ricadente nella z.t.l.
a prescindere dalla residenza.
4. Al riguardo è sufficiente rilevare che l’odierno
ricorrente, in qualità di proprietario di immobile sito nel centro storico
si trovi in una situazione sostanzialmente identica a quella del titolare di
contratto di locazione, essendo entrambi in possesso di un diritto reale di
godimento seppur in base a titoli diversi (la proprietà il primo e la
locazione il secondo).
5. Ne consegue che una lettura costituzionalmente orientata
e coerente con la natura intrinseca del diritto reale di godimento in
contestazione, imponga che le ordinanze comunali nn. 6 e 47 del 2015, lungi
dall’essere annullate, debbano essere correttamente reinterpretate nel senso
di consentire l’accesso alla z.t.l. anche a chi sia titolare di tale diritto
di godimento indipendentemente dal titolo (contratto o proprietà piena) su
cui esso si fondi.
6. Le ragioni che precedono impongono dunque l’accoglimento della domanda di
annullamento del diniego impugnato per motivi aggiunti previo assorbimento
delle altre censure proposte. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Se
è mancata la rotazione non va provata la posizione di privilegio del
pregresso affidatario.
Nel caso di violazione del principio di rotazione –per invito del pregresso
affidatario del contratto-, il ricorrente non è tenuto a dimostrarne la
«posizione di vantaggio» lesiva della par condicio. La posizione
privilegiata del pregresso affidatario, infatti, è presunta dallo stesso
Legislatore.
In questi termini si esprime la
sentenza
26.03.2018 n.
354 del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, che afferma l'applicabilità del principio di
rotazione anche al procedimento di selezione di cooperative sociali di tipo
B.
La vicenda
Il ricorrente ha lamentato la violazione del principio di rotazione
constatato che la stazione appaltante invitava al procedimento di selezione
«semplificato» anche il precedente gestore del servizio (nel caso specifico
si trattava di appalto del servizio di pulizia di un Comune). Secondo le
difese della stazione appaltante, la censura era da respingere in quanto il
procedimento era diretto a selezionare una cooperativa di tipo B e quindi
attraverso un procedimento «escluso» dall'ambito applicativo del Codice.
Il
giudice respinge questa prima motivazione rilevando che pur vero che il
riferimento normativo principale è costituito –nel caso di specie–
dall'articolo 5 della legge 381/1991, è altresì vero che la stazione
appaltante, però, utilizzando il procedimento semplificato di cui
all'articolo 36 del Codice ha inteso autovincolarsi con riferimento ai vari
principi (e norme) che presidiano i procedimenti contrattuali ordinari.
L'utilizzo di procedimenti aperti e la rotazione
Altra questione eccepita dalla stazione appaltante è che, in ogni caso,
negli inviti a partecipare al procedimento di «gara» il Rup non aveva
indicato alcuna limitazione. Pertanto, tutti i soggetti interessati potevano
far richiesta di essere invitati. E, in effetti, tutte le imprese che hanno
manifestato interesse sono state invitate alla procedura, ma solo quattro
(tra cui la precedente affidataria) hanno presentato offerta. Operando in
questo modo, secondo la stazione appaltante, il principio di rotazione non
sarebbe stato violato visto che alle stesse conclusioni giunge l'Anac con la
recente rimodulazione delle linee guida n. 4 (in tema di affidamento nel
sotto soglia).
Anche questo ragionamento, con statuizione estremamente rilevante per gli
sviluppi futuri, viene non ritenuto persuasivo da parte del giudice. La
sostanza è che se anche attraverso un avviso pubblico –senza limitazione
sulla partecipazione– la stazione appaltante invita «automaticamente» anche
il pregresso affidatario, senza alcuna motivazione con riferimento alla
situazione particolare del mercato, il principio di rotazione verrebbe
praticamente vanificato creando delle indubbie posizioni di vantaggio dei
precedenti gestori. Infine, e non appare questione di poco conto, il giudice
puntualizza che il ricorrente non è tenuto provare la posizione di
privilegio del pregresso affidatario come invece riteneva la stazione
appaltante.
È evidente, si legge in sentenza, «che quest'ultima circostanza risulta
essere del tutto ininfluente, in quanto il principio non tende a escludere
la partecipazione di colui che abbia già ottenuto l'affidamento del
contratto precedentemente, ma solo a impedire che possa essere avvantaggiato
il gestore che continuerebbe nell'esecuzione del servizio senza soluzione di
continuità». Come ha chiarito la giurisprudenza, prosegue il giudice
lombardo, «l'applicazione del principio impone, in assenza di elementi che
ne giustifichino comunque la chiamata, l'esclusione dalla sola prima gara
successiva alla scadenza del contratto».
E il vantaggio, ovvero la posizione di privilegio del precedente
affidatario, «è in sé e deriva dal fatto di avere piena conoscenza reale e
diretta delle peculiarità del servizio e, quindi, dei costi e delle
possibilità di ottenere delle economie di scale, nonché di quelle che sono
le specifiche necessità della stazione appaltante che possono consentire di
formulare un'offerta maggiormente soddisfacente per le esigenze della
stazione appaltante e, dunque, apprezzabile sul piano tecnico».
Del resto è lo stesso Legislatore «a presumere che il gestore uscente sia
portatore di una posizione privilegiata, la quale potrebbe essere superata
solo attraverso una puntuale motivazione, da parte della stazione
appaltante, della reiterazione del suo invito anche alla gara immediatamente
successiva alla scadenza del contratto. Motivazione che, nella fattispecie,
è stata integralmente omessa». Per ciò stesso gli atti di aggiudicazione
sono stati annullati
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.04.2018).
---------------
MASSIMA
Ravvisata l’ammissibilità del ricorso, si può, quindi, passare all’esame
del merito delle questioni dedotte.
A tal fine appare opportuno chiarire che la particolarità della gara in
questione è rappresentata dal fatto che essa è preordinata alla selezione
della cooperativa di tipo B, con cui stipulare una convenzione ai sensi del
comma 1 dell’art. 5 della legge 381/1991.
Ciò implica l’applicazione di una
normativa del tutto particolare, che prevede la possibilità per gli enti
pubblici, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della
Pubblica Amministrazione, di stipulare convenzioni con cooperative sociali
che svolgono attività di cui all’art. 1, comma 1, lett. B), della legge n.
381/1991 e s.m.i., per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli
socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato, al netto dell’I.V.A.,
sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia
di appalti pubblici purché tali convenzioni siano finalizzate a creare
opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all’art. 4, comma
1.
Ciò premesso, il Comune ha, però, espressamente optato per condurre la gara
ai sensi dell’art. 36, comma 2 del d.lgs. 50/2016, con aggiudicazione con
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e ha precisato,
nell’invito, che “L’affidamento è soggetto alle norme e condizioni previste
dal d.lgs. 50/2016 (di seguito denominato anche codice) e relative norme di
attuazione, ove richiamate, dal d.lgs. n. 82/2005, dalle relative regole
tecniche e dai provvedimenti adottati dal DigitPA/Agenzia per l’Italia
Digitale, dalle condizioni di accesso ed utilizzo del sistema di
intermediazione telematica Sintel, dalle disposizioni previste dalla
presente lettera d’invito-disciplinare, dal Capitolato Speciale, oltre che,
per quanto non regolato dalle clausole e disposizioni suddette, dalle norme
del Codice Civile e dalle altre disposizioni di legge nazionali vigenti in
materia di contratti di diritto privato, nonché dalle leggi nazionali e
comunitarie vigenti nella materia, espressamente richiamate.”.
La stazione appaltante si è, dunque, autovincolata alla conduzione della
gara secondo le ordinarie regole di cui all’art. 36 del codice dei contratti
e, conseguentemente, al rispetto dei principi di cui esse sono espressione,
tra cui, in particolare, per quanto di interesse, quello di “rotazione”.
Del resto, lo stesso art. 5 della legge 381/1991, pur ammettendo la
possibilità di stipulare convenzioni in deroga alla ordinaria disciplina in
materia di contratti della pubblica amministrazione, all’ultimo comma
dell’art. 5, espressamente recita “Le convenzioni di cui al presente comma
sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad
assicurare il rispetto dei princìpi di trasparenza, di non discriminazione e
di efficienza”.
Il principio di rotazione, sebbene non espressamente menzionato dalla legge
derogataria, può, comunque, ritenersi essere precipitato ed espressione di
quello di non discriminazione: il principio generale in questione non pare,
dunque, poter trovare deroga per la particolarità della procedura,
finalizzata a selezionare una cooperativa sociale per la stipula di una
convenzione strumentale ad una prestazione di servizi, che produca anche
l’effetto di favorire soggetti svantaggiati.
Al contrario, anche la normativa speciale che regola l’utilizzo di tale
particolare strumento sembra tendere a garantire la possibilità a tutti i
soggetti operanti nel particolare settore, non tanto o non solo in un’ottica
di tutela della concorrenza, bensì dell’estensione dei suoi benefici a
quanti più soggetti possibile (sia in termini di cooperative coinvolte, che
di soci lavoratori delle stesse), come risulterà più chiaro dalle
conclusioni che saranno tratte nel prosieguo.
Accertato che la scelta del Comune di provvedere alla gestione
esternalizzata del servizio di pulizia dei locali comunali avvalendosi di
cooperative sociali che favoriscono l’inserimento nel mondo lavorativo di
soggetti disabili e a rischio di emarginazione presenti nella comunità
locale, non preclude, in linea di principio l’applicazione del principio di
rotazione dei soggetti da invitare alla procedura di selezione, si può,
quindi, passare alla verifica della legittimità della sua mancata
applicazione nella fattispecie concreta.
La lettera c) del secondo comma dell’art. 36 del codice degli appalti,
espressamente richiamato nell’invito, prevede che la procedura deve
svolgersi: “c) per i lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e
inferiore a 1.000.000 di euro, mediante procedura negoziata con
consultazione di almeno quindici operatori economici, ove esistenti, nel
rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, individuati sulla base di
indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici. L'avviso sui
risultati della procedura di affidamento, contiene l'indicazione anche dei
soggetti invitati;”.
Secondo la tesi della ricorrente, anche laddove si volesse escludere
l’effetto espulsivo automatico, la mancanza di motivazione dell’ammissione
del gestore uscente inficerebbe effettivamente la legittimità del
procedimento.
Secondo il Comune, ciò che, però, impedirebbe di ricondurre la fattispecie
in esame all’ambito di applicazione del principio di rotazione sarebbe la
circostanza per cui, nell’individuare i soggetti da invitare alla gara non
sarebbe stata effettuata alcuna scelta tra gli operatori che hanno
manifestato interesse alla partecipazione, tutti sollecitati alla
presentazione dell’offerta.
La ratio del principio sarebbe, secondo il Comune, dunque, quella di
garantire che tutti gli interessati possano partecipare.
Ciò in linea con le sentenze TAR Toscana, sez. II, 12.06.2017, n. 816, per
cui il principio di rotazione è servente e strumentale a quello di
concorrenza, sicché non può disporsi l’estromissione del gestore uscente
allorché ciò finisca per ridurre la concorrenza, e TAR Veneto, sez. I,
26.05.2017, n. 515, secondo cui: <<…per unanime giurisprudenza proseguita
anche sotto il vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, il principio
di "rotazione" degli operatori economici da invitare nelle procedure
negoziate svolte in base all'art. 36 del d.lgs. n. 50/2016, pur essendo
funzionale ad assicurare un certo avvicendamento delle imprese affidatarie,
non ha una valenza precettiva assoluta per le stazioni appaltanti, sì che, a
fronte di una normativa che pone sullo stesso piano i principi di
concorrenza e di rotazione, la prevalente giurisprudenza si è ripetutamente
espressa nel senso di privilegiare i valori della concorrenzialità e della
massima partecipazione, per cui in linea di massima non sussistono ostacoli
ad invitare anche il gestore uscente del servizio a prendere parte al nuovo
confronto concorrenziale (in questi termini: Consiglio di Stato, Sez. VI,
28.12.2011, n. 6906; TAR Napoli, II, 08.03.2017 n. 1336; TAR Lazio, Sez. II,
11.03.2016 n. 3119).
Pertanto, "ove il procedimento per l'individuazione del
contraente si sia svolto in maniera essenzialmente e realisticamente
concorrenziale, con invito a partecipare alla gara rivolto a più imprese,
ivi compresa l'affidataria uscente, e risultino rispettati sia il principio
di trasparenza che quello di imparzialità nella valutazione delle offerte,
può dirsi sostanzialmente attuato il principio di rotazione, che non ha una
valenza precettiva assoluta, per le stazioni appaltanti, nel senso di
vietare, sempre e comunque, l'aggiudicazione all'affidatario del servizio
uscente. Se, infatti, questa fosse stata la volontà del legislatore, sarebbe
stato espresso il divieto in tal senso in modo assoluto" (TAR Napoli, II,
27.10.2016 n. 4981)>>.
Andando a leggere la recente pronuncia del Consiglio di Stato n. 5854 del
2017, però, si evince, come, invece, il principio in esame trovi fondamento
nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo
al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle
informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei
mercati in cui il numero di agenti economici attivi non sia elevato.
Quindi, posto che il principio di rotazione è stato affermato allo scopo di
evitare posizioni di privilegio in capo al gestore uscente, se esso dovesse
essere inteso nel senso che quest’ultimo possa sempre e comunque essere
invitato, la previsione non avrebbe alcun senso. Né sarebbe idoneo ad
attribuirgli significato il mero fatto di invitare altri soggetti, oltre ad
esso (il che è frutto del diverso principio per cui non può esservi
l’affidamento diretto senza almeno un confronto concorrenziale), per cui
l’interpretazione che potrebbe rappresentare l’equo contemperamento dei due
principi (rotazione e massima concorrenza) pare essere quella che ammette
l’invito anche del gestore uscente, purché ciò trovi motivazione nella
presenza di particolari condizioni che debbono essere esplicitate nel
provvedimento che individua le ditte da invitare.
È pur vero che, come sostenuto dal Comune, la linea guida ANAC n. 4 limita
l’applicazione del principio di rotazione ai soli casi in cui la stazione
appaltante eserciti limitazioni al numero di operatori da invitare: ciò che
è accaduto anche nella fattispecie, a prescindere dal fatto che poi, delle
ditte individuate solo quattro abbiano manifestato interesse e siano state
tutte invitate. È casuale, dunque, nella fattispecie, che tutte le ditte
interessate siano state invitate e non frutto della scelta di fare ricorso a
una procedura aperta, il che escluderebbe la necessità dell’applicazione del
principio in parola.
In sintesi, se la ratio del principio di rotazione è quella di escludere
posizioni di rendita in capo al gestore uscente, l’invito di quest’ultimo
alla gara lo violerebbe comunque, a prescindere dal numero di soggetti
invitati tra quelli che hanno manifestato interesse a partecipare alla
procedura ristretta e non aperta.
Mutatis mutandis, anche in relazione alle cooperative potrebbe esservi un
interesse meritevole di tutela, che non è tanto quello di garantire la
concorrenza, quanto quello di evitare che taluni soggetti esercitino una
sorta di monopolio, precludendo ad altri di poter aver accesso al mercato.
Se, dunque, lo scopo finale è quello di consentire il reinserimento
lavorativo degli occupati per il tramite delle cooperative, l’escludere una
sorta di riserva a favore del gestore uscente sarebbe meritevole di tutela
anche alla luce del fatto che la dottrina ha chiarito che proprio al fine di
favorire l’alternanza, la durata della convenzione deve essere limitata nel
tempo (“La finalità del reinserimento lavorativo deve essere coniugata con
la necessità che la durata delle convenzioni non superi un limite temporale
ragionevole, avuto riguardo all’oggetto della convenzione medesima. Le
amministrazioni, pertanto, devono definire adeguatamente la durata delle
convenzioni, affinché non sia di fatto preclusa ad altre cooperative la
possibilità di presentare domanda di convenzionamento, nonché verificare che
gli obiettivi stabiliti siano effettivamente perseguiti ed attuati.”).
Né può essere rilevante quanto affermato dal Comune in ordine al fatto che
non sarebbe stato provato alcun privilegio del gestore uscente e che anche
la ricorrente ha gestito il medesimo servizio per il Comune di Viadana dal
1998 al 2010.
È evidente che quest’ultima circostanza risulta essere del tutto
ininfluente, in quanto il principio non tende a escludere la partecipazione
di colui che abbia già ottenuto l’affidamento del contratto precedentemente,
ma solo a impedire che possa essere avvantaggiato il gestore che
continuerebbe nell’esecuzione del servizio senza soluzione di continuità.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza, infatti, l’applicazione del
principio impone, in assenza di elementi che ne giustifichino comunque la
chiamata, l’esclusione dalla sola prima gara successiva alla scadenza del
contratto.
Il vantaggio, peraltro, è in sé e deriva dal fatto di avere piena conoscenza
reale e diretta delle peculiarità del servizio e, quindi, dei costi e delle
possibilità di ottenere delle economie di scale, nonché di quelle che sono
le specifiche necessità della stazione appaltante che possono consentire di
formulare un’offerta maggiormente soddisfacente per le esigenze della
stazione appaltante e, dunque, apprezzabile sul piano tecnico.
Del resto è lo stesso legislatore a presumere che il gestore uscente sia
portatore di una posizione privilegiata, la quale potrebbe essere superata
solo attraverso una puntuale motivazione, da parte della stazione
appaltante, della reiterazione del suo invito anche alla gara immediatamente
successiva alla scadenza del contratto. Motivazione che, nella fattispecie,
è stata integralmente omessa.
Ne deriva l’accoglimento del ricorso, con conseguente caducazione degli atti
impugnati.
Deve, invece, essere respinta la domanda risarcitoria, sia in forma
specifica, che per equivalente.
Quanto alla prima richiesta, poiché non risulta essere ancora intervenuta la
formale aggiudicazione della gara, la caducazione dei provvedimenti
impugnati non può che comportare la modifica della graduatoria e la
rinnovazione delle fasi conclusive della gara per l’individuazione
dell’aggiudicatario, escludendo da esse la partecipazione del gestore
uscente-odierna controinteressata.
Il diritto al risarcimento del danno per equivalente, invece, non può essere
riconosciuto, in quanto il danno subito non solo non è stato provato, ma
nemmeno specificamente individuato e quantificato nel corso del giudizio. |
APPALTI SERVIZI: Non
è illegittimo il bando in caso di omessa indicazione del valore della
concessione.
La mancata indicazione del valore della concessione rende illegittimo il
bando esclusivamente nel caso in cui tale omissione, da sola, impedisca la
consapevole formulazione dell’offerta. L’obbligo di indicare il valore della
concessione, prescritto dall’articolo 167 Dlgs n. 50 del 2016, è
finalizzato, infatti, a garantire la concorrenzialità e il regolare
svolgimento del confronto competitivo.
Ne deriva che, qualora l’Amministrazione non sia in grado di ottemperare
alla predetta prescrizione, è sufficiente che fornisca tutti gli elementi
conosciuti e utili affinché i concorrenti possano ricavarne il potenziale
fatturato derivante dalla gestione del servizio e così formulare un’offerta
seria e consapevole.
Tanto è stato stabilito dalla III Sez. del TAR Veneto con la
sentenza
26.03.2018 n. 348.
Inoltre, dall’esame della pronuncia in commento si desume che il bando di
gara è immediatamente impugnabile esclusivamente nel caso cui l’omessa
individuazione del valore stimato della concessione impedisca la libera
partecipazione alla gara ovvero la corretta e consapevole elaborazione della
proposta economica.
Al contrario, se tale omissione non ostacola l’elaborazione dell’offerta,
l’impugnazione autonoma del bando di gara è inammissibile per difetto di
interesse.
I fatti di causa
In una gara, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, per la gestione dei distributori automatici e dei bar ubicati
all’interno delle strutture ospedaliere, la stazione appaltante ometteva di
indicare nel bando il fatturato stimato.
All’esito della procedura il secondo in graduatoria adiva il Tar Veneto
lamentando l’illegittimità del bando di gara e chiedendo, per gli effetti,
l’annullamento dello stesso.
Più nel dettaglio, il ricorrente denunciava la violazione dell’articolo 167,
comma 1, del Dlgs n. 50 del 2016 che prescrive l’indicazione del valore
stimato delle concessioni nei bandi di gara, affermando che l’omessa
indicazione, provocando una situazione di «estrema incertezza» nella
formulazione dell’offerta, costituisce causa di annullamento di tutti gli
atti di gara.
Posizione del Tar
Con la sentenza n. 348 del 26.03.2018, il Tar Veneto, al fine di proporre
la soluzione indicata con i paragrafi che precedono, traccia il seguente
iter logico argomentativo.
Il Collegio, preliminarmente, ricorda che il bando va impugnato unitamente
agli atti che di esso fanno applicazione, in quanto solo in quel momento
diventa attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva
dell’interessato.
È, invece, immediatamente e autonomamente impugnabile il bando quando le
clausole impediscono la partecipazione alla gara di un potenziale
concorrente ovvero quando ostacolano una corretta e consapevole elaborazione
della proposta economica, tale da rendere impossibile le valutazioni di
opportunità in ordine alla partecipazione alla gara pubblica.
Procedendo poi alla risoluzione della problematica proposta con il ricorso,
posto che l’azione processuale è stata presentata a seguito
dell’aggiudicazione, il Giudice amministrativo individua due possibili
strade:
a) se la mancata enucleazione, da parte dell’Amministrazione, del valore
della concessione ha effettivamente impedito al ricorrente di formulare
un’offerta seria e consapevole, allora il dedotto vizio sarebbe irricevibile
per tardività, in quanto doveva essere denunciato immediatamente;
b) se, invece, ha comunque consentito di proporre un’offerta consapevole,
allora la censura è inammissibile per difetto di interesse.
Quest’ultima è la soluzione accolta dal Giudice adito per dirimere il caso
controverso, in quanto, dall’esame degli atti di causa, è emerso che
l’Amministrazione ha fornito dati sufficienti per poter valutare la
convenienza economica del contratto e consentire così una partecipazione
consapevole alla gara.
Conclusioni
Il Giudice veneto formula, così, un’interpretazione dell’articolo 167 e
precisa che l’indicazione del valore stimato della concessione rappresenta
un requisito essenziale per la legittimità della gara; tuttavia, laddove la
stazione appaltante non sia in grado di ottemperare alla predetta
prescrizione per motivi oggettivi (perché, per esempio, il servizio viene
affidato per la prima volta), è sufficiente che fornisca gli elementi
conosciuti (e cioè, per esempio, le indicazioni circa il potenziale bacino
di utenza) dai quali i concorrenti, operatori del settore, possano
pacificamente trarre il potenziale fatturato derivante dalla gestione del
servizio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.04.2018). |
APPALTI: Offerta
economicamente più vantaggiosa, la riparametrazione va sempre prevista nel
bando.
Nella valutazione dell'offerta con il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, la facoltà per la stazione appaltante di procedere alla
riparametrazione dei punteggi va sempre prevista nel bando di gara.
Diversamente, la Pa non ha alcun obbligo di applicarla.
Il Consiglio di Stato -con la
sentenza
23.03.2018 n. 1845, Sez.
V-
affronta e risolve in modo definitivo la questione della cosiddetta doppia
riparametrazione (volta a ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi
qualitativi e quantitativi previsti dalla griglia di valutazione indicata
nel bando), smentendo allo stesso tempo che dalle diverse pronunce di
Palazzo Spada fossero emersi orientamenti discordanti.
L'occasione per fare
chiarezza sul punto è offerta da una sentenza del Tar Sardegna, impugnata in
appello.
La controversia
La controversia è sorta dopo l'aggiudiciazione di un appalto di lavori
stradali mandato in gara dalla Provincia di Sassari con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Il raggruppamento di imprese
risultato perdente ha sostenuto che, in base al disciplinare di gara, «la
doppia (o tripla) riparametrazione riferita ai macro-criteri fosse
ontologicamente insita nel prescelto "metodo aggregativo compensatore",
quale condizione indispensabile per conservare la corretta proporzione tra i
criteri di valutazione e i pesi rivestiti nell'individuazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa».
Nel ricorso, il raggruppamento ha poi
sostenuto che l'applicazione anche di una sola riparametrazione avrebbe
consentito l'aggiudicazione della gara; e che tale riparametrazione fosse
«imposta» dalla lex specialis di gara.
I ricorrenti hanno poi sostenuto che esista un orientamento del Consiglio di
Stato definito nel ricorso "prevalente" che considera la doppia riparametrazione insita nel metodo aggregativo compensatore. A sostegno di
questa tesi citano la sentenza del Consiglio di Stato, Terza sezione, del 16.03.2016, n. 1048. Di conseguenza, ci sarebbero altre pronunce con
orientamento diverso, rendendo necessaria una rimessione all'Adunanza
Plenaria.
Il chiarimento di Palazzo Spada
Nella pronuncia i giudici della Quinta sezione chiariscono la questione
«senza che sia necessaria la rimessione all'Adunanza Plenaria, auspicata
dalle appellanti».
La questione di diritto, scrivono i giudici, «va risolta nel senso che per
le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa nessuna
norma di carattere generale impone alle stazioni appaltanti di attribuire
alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione, la
quale deve essere espressamente prevista dalla legge di gara». Nel caso in
questione, nei documenti di gara non contengono «alcuna esplicita clausola»
in questo senso.
I giudici ricordano anche che il principio è affermato anche dalle linee
guida n. 2 dell'Anac (Offerta economicamente più vantaggiosa) là dove si
prevede la mera facoltà per la stazione appaltante di procedere alla
riparametrazione dei punteggi, a condizione che la stessa sia prevista nel
bando di gara.
Infine, sulla questione, si esclude che in seno al Consiglio di Stato ci
siano orientamenti difformi. Tanto per cominciare, la sentenza citata dai
ricorrenti (n. 1048/2018) riguardava un caso «in cui la doppia parametrazione
era prevista nella legge di gara».
L'orientamento, dunque è uno solo, ed è affermato -tra l'altro- da varie
pronunce (V, 27.01.2016 n. 266 e id. 30.01.2017 n. 373; V 12.06.2017, n. 2811 e n. 2852; III, 20.07.2017, n. 3580)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.04.2018). |
APPALTI: Anche
nella mini-gara il regolamento locale vincola l’azione dell’Ente.
I percorsi per l’individuazione degli operatori economici con cui procedere
ad affidamento diretto entro i 40mila euro non devono essere sviluppati
secondo particolari formalità. Ma quando la stazione appaltante decide di
autovincolarsi, deve rispettare le regole che ha definito per la procedura
selettiva.
Il TAR Piemonte, Sez. I, con la
sentenza
22.03.2018 n. 353 ha
chiarito la logica di semplificazione che sottende alle procedure delineate
dall’articolo 36, comma 2, lettera a), del Dlgs 50/2016.
I giudici amministrativi hanno precisato che gli affidamenti diretti, anche
se preceduti da una consultazione tra più operatori, sono contraddistinti da
informalità e dalla possibilità per la stazione appaltante di negoziare le
condizioni contrattuali intavolando con vari operatori trattative parallele.
Le operazioni svolte per individuare l’operatore economico, pertanto,
possono essere realizzate con modalità molto semplici e consentono di
sviluppare interazioni con più soggetti per acquisire le informazioni
necessarie.
La sentenza evidenzia che negli affidamenti diretti non c’è obbligo di
utilizzare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a fronte
della deroga esplicita introdotta dal Dlgs 56/2017: per gli affidamenti di
valore inferiore ai 40mila euro le stazioni appaltanti possono utilizzare il
prezzo più basso, e se decidono di fare ricorso al criterio del rapporto
qualità-prezzo non sono tenuti a rispettare le regole dell’articolo 95
(quindi possono disattendere la ripartizione dei pesi tra parte tecnica ed
economica definita dal comma 10-bis).
Il caso
I giudici amministrativi hanno sviluppato l'analisi in relazione
all'affidamento di un servizio di ristorazione interna di valore limitato
(10.000 euro su due anni) indetto da un istituto scolastico con lettera di
invito trasmessa agli operatori economici che avevano manifestato interesse
sulla base di un precedente avviso pubblico.
La disciplina di gara prevedeva che il servizio sarebbe stato aggiudicato
con l'offerta economicamente più vantaggiosa, con attribuzione di cinquanta
punti alla parte tecnica e degli altri cinquanta alla parte economica.
La stazione appaltante non ha, tuttavia, sviluppato correttamente la
mini-gara, non procedendo all'apertura in seduta pubblica delle offerte e
non fornendo ai soggetti invitati alcuna informazione sull'esito del
percorso selettivo.
La decisione
La sentenza ha chiarito che quando l'amministrazione si vincola
all'effettuazione di una procedura selettiva per un affidamento della fascia
di soglia entro i 40.000 euro deve rispettare la lex specialis che ha
definito e che ha reso nota agli operatori mediante a lettera di invito. Nel
caso esaminato, la disciplina di gara prevedeva esplicitamente il
riferimento all'articolo 95 del codice dei contratti pubblici per la
valutazione delle offerte, determinando quindi l'assoggettamento della
ripartizione dei pesi tra parte tecnica e parte economica alle misure
definite dal comma 10-bis della disposizione (rispettivamente settanta e
trenta) e comportando conseguentemente l'illegittimità della scelta
effettuata dall'amministrazione (cinquanta e cinquanta).
La sentenza del Tar Piemonte evidenzia quindi la rilevanza dell'autovincolo,
che obbliga la stazione appaltante che definisce regole specifiche per gli
affidamenti di valore entro i 40.000 euro ad attenersi alle stesse, senza
possibilità di fruire delle semplificazioni che invece il quadro normativo
del codice prefigura per gli affidamenti diretti in tale fascia di valore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018).
---------------
MASSIMA
10. Risulta invero manifestamente fondato il primo dei motivi di
ricorso, a mezzo del quale parte ricorrente censura il mancato rispetto dei
principi di pubblicità e trasparenza, violati per il fatto che nessuna delle
operazioni di gara, e segnatamente l’apertura delle buste contenenti la
documentazione amministrativa, l’offerta tecnica e l’offerta economica,
risulta essere stata effettuata nel corso di seduta pubblica.
11. Va chiarito, a miglior comprensione di quanto infra si dirà, che
il fatto che una stazione appaltante ricorra all’“affidamento
diretto” non significa che essa sia esonerata dal rispetto dei principi
generali di pubblicità e trasparenza, stante il chiarissimo disposto
contenuto nell’art. 36 comma 1 del D. L.vo 50/2016, il quale stabilisce che
“L’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto dei
principi di cui agli articoli 30 comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del
principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da
assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese,
piccole e medie imprese…”.
12. Come, poi, la Sezione ha già avuto modo di chiarire (sentenza n. 1324
del 07.12.2017) “I principi di pubblicità e trasparenza
che governano la disciplina comunitaria e nazionale, richiamati dall’art. 30
d.lgs. 50/2016, implicano che le fasi salienti debbano essere effettuate in
seduta pubblica, qualsiasi sia la tipologia di procedura: la pubblicità
investe tutte quelle operazioni della commissione di gara (tra cui
l’apertura della documentazione e delle offerte), attraverso cui si
effettuano le operazioni di “accoppiamento” tra partecipanti e offerte e
controllo del contenuto della documentazione richiesta”.
13. Ciò chiarito, è evidente che ove pure la gara per cui è
causa dovesse effettivamente qualificarsi come procedura finalizzata a
pervenire ad un affidamento diretto, ciò non escluderebbe la necessità di
rispettare i principi di pubblicità e trasparenza, che si declinano
–come dianzi ricordato– anche nella necessità di effettuare
in seduta pubblica taluni adempimenti, tra i quali l’apertura delle buste
contenenti le offerte tecniche ed economiche, ciò che nel caso di specie
pacificamente non è avvenuto, nonostante l’autovincolo al rispetto dei
principi di trasparenza e pubblicità enunciato nell’avviso pubblico indetto
dall’Istituto scolastico.
14. La acclarata fondatezza del primo motivo di ricorso, avente portata di
per sé assorbente, dovrebbe comportare l’annullamento di tutti gli atti di
gara a partire dal momento di apertura delle buste; tuttavia, tenuto conto
del fatto che le buste contenenti le offerte economiche sono state ormai
aperte, che in ossequio a consolidato orientamento di giurisprudenza si
impone la retrocessione del procedimento alla fase di presentazione delle
offerte e che dunque la gara deve praticamente essere nuovamente celebrata
quasi dall’inizio, reputa il Collegio che nella specie sussista l’interesse
del ricorrente alla disamina del secondo motivo di ricorso, dal cui
accoglimento conseguirebbe l’annullamento della lettera di invito ma anche,
correlativamente, la tutela dell’interesse del ricorrente a che la gara
venga reiterata nel rispetto della legislazione vigente ed emendata dai vizi
denunciati. |
APPALTI: Annotazioni
di illeciti professionali nel Casellario Informatico.
Le annotazioni di illeciti professionali
nel casellario informatico ex art. 213, comma 10, del d.lgs.
n. 50/2016 non hanno effetto automaticamente escludente, ma
sono rimesse alle valutazioni delle singole stazioni
appaltanti, che ne possono stabilire la gravità con riguardo
al livello di affidabilità richiesto nelle gare di
rispettiva competenza (cfr. anche l’interpretazione dell’ANAC
esposta nelle Linee Guida n. 6, punto 6.2).
La tecnica di redazione delle annotazioni assume notevole
importanza, in quanto orienta le valutazioni delle stazioni
appaltanti; sotto questo profilo, incombe alle imprese
interessate l’onere di chiedere che gli episodi annotati
siano cancellati o ridimensionati, in modo da prevenire
contestazioni in sede di gara; tuttavia, la dimostrazione
della correttezza professionale può comunque essere fornita
nell’interlocuzione con le singole stazioni appaltanti,
quando siano chiesti chiarimenti sugli episodi annotati
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulle cause di incompatibilità
11. Iniziando dagli ultimi due motivi di ricorso,
focalizzati sul difficile rapporto tra la ricorrente e il RUP, si ritiene che la segnalazione all’ANAC non sia
equiparabile alla grave inimicizia da cui deriva l’obbligo
di astensione. Nello svolgimento dei compiti riguardanti la
conduzione delle procedure di gara e la gestione dei
contratti di appalto è possibile che i singoli funzionari
debbano assumere decisioni sfavorevoli a una determinata
impresa, anche formulando valutazioni negative sul
comportamento tenuto e sulla qualità del lavoro svolto.
Tuttavia, la contrapposizione dovuta alla differenza di
ruoli è perfettamente normale, e necessaria in
un’organizzazione pubblica ben funzionante. Sarebbe quindi
poco ragionevole se ne derivasse ogni volta l’obbligo di
astensione, con il rischio di arrivare dopo poco tempo al
blocco dell’attività degli uffici per mancanza di funzionari
non coinvolti in precedenza.
12. In questo quadro,
i conflitti interpersonali sono tanto
inevitabili quanto irrilevanti.
Nessun appaltatore può
accettare con leggerezza dai funzionari pubblici
osservazioni che mettano in dubbio la propria capacità o
correttezza professionale, ma non è possibile legittimare
attraverso l’enfatizzazione dello scontro polemico la
creazione di cause di incompatibilità che non abbiano una
base oggettiva in un reale conflitto di interessi.
L’eccesso
di critica, come ogni altra forma di mancanza di
correttezza, può avere rilievo tra i sintomi di sviamento
del potere, ma non nella forma dell’incompatibilità e
dell’obbligo di astensione.
13. Nello specifico, il fatto che lo stesso funzionario,
dopo aver segnalato all’ANAC il comportamento tenuto dalla
ricorrente nello svolgimento dei lavori del centro sportivo,
abbia assunto decisioni favorevoli alla stessa in ordine
alla partecipazione ad altre gare e alla proroga di
contratti in corso dimostra la mancanza di un animus
persecutorio.
Non sarebbe però corretto dedurne che, se non
vi è avversione preconcetta, subentrerebbe automaticamente
una contraddizione, o un vizio di perplessità dell’azione
amministrativa.
Il rilievo dei fatti segnalati,
indipendentemente da chi li abbia segnalati, passa sempre
per un approfondimento in concreto, che talvolta può
giustificare decisioni di segno contrario rispetto ad altri
appalti. Per chiarire questi profili è necessario affrontare
i primi due motivi di ricorso, incentrati sulla segnalazione
di un episodio specifico.
Sull’annotazione di illeciti professionali
14. Le annotazioni di illeciti professionali nel Casellario
Informatico ex art. 213, comma 10, del Dlgs. 50/2016 non hanno
effetto automaticamente escludente, ma sono rimesse alle
valutazioni delle singole stazioni appaltanti, che ne
possono stabilire la gravità con riguardo al livello di
affidabilità richiesto nelle gare di rispettiva competenza.
Su questa frontiera si colloca anche l’interpretazione dell’ANAC
esposta nelle Linee Guida n. 6 (punto 6.2).
15. La tecnica di redazione delle annotazioni assume
notevole importanza, in quanto orienta le valutazioni delle
stazioni appaltanti. Sotto questo profilo, incombe alle
imprese interessate l’onere di chiedere che gli episodi
annotati siano cancellati o ridimensionati, in modo da
prevenire contestazioni in sede di gara.
Tuttavia, la
dimostrazione della correttezza professionale può comunque
essere fornita nell’interlocuzione con le singole stazioni
appaltanti, quando siano chiesti chiarimenti sugli episodi
annotati.
16. Nello specifico, l’annotazione, oltre a contenere
l’avvertimento circa l’assenza di automatici effetti
escludenti, precisa correttamente che il recesso deciso
dalla stazione appaltante dipende da una scelta autonoma, e
dunque non deve essere messo in relazione con l’episodio
segnalato.
Pertanto, non si è realizzata la fattispecie
tipica descritta nell’art. 80, comma 5-c, del Dlgs. 50/2016
(ossia una carenza nell’esecuzione che abbia causato la
risoluzione anticipata del contratto, non contestata in
giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero
all’origine di una condanna risarcitoria).
17. Rimane però la possibilità di qualificare l’episodio tra
i gravi illeciti professionali sulla base di una valutazione
discrezionale della stazione appaltante, che qui coincide
con l’amministrazione segnalante. Il Comune dispone quindi
di una perfetta conoscenza della situazione di fatto, e su
questa deve basare le sue argomentazioni, senza potersi
limitare a un semplice rinvio all’annotazione, che finirebbe
per produrre una motivazione circolare.
Sulla rilevanza dell’episodio annotato
18. In concreto, non sembra che l’episodio annotato possa
configurare un grave illecito professionale. Indubbiamente,
l’avvio anticipato dei lavori, con opere in cemento armato,
quando in realtà era stato autorizzato solo l’approntamento
del cantiere e non era ancora stato consegnato al RUP il
progetto esecutivo, costituisce un inadempimento
contrattuale.
Parimenti, non sembra giustificabile la
resistenza manifestata nei confronti della sospensione dei
lavori, circostanza che ha costretto il Comune a reiterare
l’ordine di chiusura del cantiere. La stazione appaltante
non ha però risolto il contratto in conseguenza di questi
fatti, e ha anzi accettato i lavori, una volta che questi
sono stati ripresi ed eseguiti.
È stata anche disposta la
liquidazione del corrispettivo, con alcune riserve contabili
che qui non rilevano. Lo stesso ritardo nella consegna del
progetto esecutivo può essere ridimensionato, in quanto è
rimasto contenuto in pochi giorni, e non vi sono poi state
contestazioni sui calcoli strutturali.
19. In altri termini, la gravità iniziale dell’inadempimento
si è progressivamente stemperata, e alla fine è stata
riassorbita in un’esecuzione utile del rapporto
contrattuale. Pertanto, l’episodio annotato non è
sufficiente da solo a sostenere un giudizio di
inaffidabilità con effetti escludenti. Potrebbe invece
rilevare in futuro, all’interno di una valutazione più
ampia, qualora si sommasse ad altri episodi problematici
nell’esecuzione di nuovi contratti.
Conclusioni
20. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento del provvedimento di esclusione.
21. L’effetto conformativo della pronuncia determina
l’obbligo del Comune di riammettere definitivamente la
ricorrente alla gara, procedendo poi ai restanti adempimenti
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.03.2018 n. 321
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: La
mini-gara non può premiare il radicamento territoriale dell’affidatario
uscente.
Le stazioni appaltanti non possono utilizzare nelle procedure sottosoglia
criteri fondati sul radicamento territoriale che favoriscano l'affidatario
uscente, perché se combinati con il principio di rotazione determinano
un'indebita posizione di rendita che contrasta con il principio di
concorrenza.
I criteri contestati
Il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
21.03.2018 n. 320 è tornato sulle
problematiche interpretative del principio definito dall'articolo 36 del
Codice dei contratti pubblici, chiarendo che l'operatore economico che
nell'anno precedente è risultato affidatario dello stesso servizio oggetto
di una nuova mini-gara deve saltare il primo affidamento successivo, in
ragione della posizione di vantaggio acquisita rispetto agli altri
concorrenti.
L'interpretazione dei giudici amministrativi si configura come
particolarmente rigorosa, in quanto rapportata a un caso nel quale alla
deroga al principio di rotazione la stazione appaltante ha associato un
criterio di valutazione delle offerte tale da valorizzare in modo rilevante
i rapporti sussistenti con il territorio.
La procedure selettiva, infatti, è
stata impostata prevedendo negli atti di gara un’ulteriore restrizione della
platea dei concorrenti derivante dall'attribuzione all'offerta tecnica di rilevantissimi punteggi in ragione del radicamento costante degli operatori
economici nel territorio della stazione appaltante, nonché dell'impiego nel
servizio di personale proveniente dal contesto locale.
Restrizione illegittima
Questi criteri, fondati su preferenze legate a operatori del territorio,
inficiano la gara fin dall'origine, in quanto comportano l'illegittima
restrizione del principio di concorrenza, riducendo la platea dei soggetti
potenzialmente interessati a un numero limitato di operatori economici. Il
profilo è stato analizzato più volte dalla giurisprudenza e da interventi
dell'Anac, ma nella sentenza del Tar Veneto viene evidenziato come gli
aspetti discriminatori risultino potenziati dalla mancata applicazione della
rotazione.
La combinazione tra la deroga all'applicazione del principio di
rotazione e gli elementi di preferenza territoriale realizza infatti
un'illegittima rendita anticoncorrenziale di posizione, in contrasto con i
principi di libera concorrenza e di non discriminazione, e in violazione
degli articoli 4, 30 e 36 del Dlgs 50/2016.
Le conseguenze operative
Le amministrazioni quindi devono evitare di introdurre nelle procedure
selettive elementi di favore per l'operatore economico derivanti dalla sua
relazione maturata con il territorio, che potrà essere fatta valere con
criteri di valutazione finalizzati a far emergere le capacità di inserirsi
in un sistema di rete (ad esempio sollecitando l'illustrazione di
metodologie organizzative).
In questa prospettiva, la corretta applicazione
del principio di rotazione evita che la posizione di rendita (ad es. in
relazione alla disponibilità di informazioni derivante dalla gestione
precedente del servizio) possa comportare un vantaggio nel confronto
competitivo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.04.2018). |
TRIBUTI: Tasse,
niente sanzioni per un giorno di ritardo.
La Ctr della Toscana ha
stabilito che un ritardo di 24 ore non può avere intento elusivo e quindi il
contribuente non deve essere punito.
Il
ritardo di un solo giorno nel pagamento del tributo è sintomatico di assenza
di intenzionalità e pertanto non può essere sanzionato.
Così ha stabilito la Ctr della Toscana con la sentenza 08.03.2018 n. 470/9/2018.
Evidenziano i
giudici che un tale minimo ritardo non può inferirsi a una volontà elusiva,
essendo determinata unicamente da mera occasionalità.
Appare dunque illogico
che sia sanzionata una circostanza non sorretta dall'elemento psicologico
doloso e rientrante in una mera colpa lievissima, a cui il contribuente ha
posto rimedio nel più breve tempo possibile, senza concreto danno erariale.
Nella specie, proposto ricorso davanti alla Ctp, questa lo rigettava,
rilevando l'incontestato ritardo nel versamento. Proponeva quindi appello il
contribuente, ribadendo la sua buona fede e l'irrilevanza del ritardo.
La Ctr riteneva l'appello fondato, evidenziando che il sistema tributario tiene
ormai in conto il ravvedimento del contribuente, come testimoniato dalle
norme che consentono di ritenere irrilevante il lieve inadempimento. Giova
infatti osservare che, in presenza di errori o ritardi di «lieve» entità,
l'errore scusabile è riconosciuto anche dalla stessa Agenzia, per esempio,
in caso di tardivo o carente versamento della prima rata, o di quelle
successive.
Tanto si desume dalla Circ. 02.08.2013, n. 27, in cui si
valorizza l'istituto dell'errore scusabile in sede di acquiescenza
all'avviso di accertamento e dalla circ. 19.03.2012, n. 9, in cui si
legge che «Qualora le somme versate siano lievemente inferiori a quelle
dovute per un errore del contribuente che, anche oltre il termine di legge,
abbia successivamente sanato l'errore, l'Ufficio valuta l'opportunità di
ritenere valido il pagamento Le stesse valutazioni possono essere effettuate
nel caso di lieve ritardo nel versamento da parte del contribuente o di
altre minime irregolarità.».
E infine bisogna tenere anche presente quanto
disposto dal dlgs n. 159/2015 e dall'art. 15-ter del dpr n. 602/1973, secondo
cui, in caso di «lieve inadempimento» e, specificatamente, in caso di
tardivo versamento della prima rata non superiore a 7 giorni, il
contribuente può evitare la decadenza della rateazione adottata e delle
sanzioni ridotte al 10% (articolo
ItaliaOggi del 20.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 143
del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso
i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di
acque pubbliche.
Orbene, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in
caso di costruzioni o di recinzioni, fisse o amovibili,
delle distanze prescritte rispetto al canale o all’argine di
un torrente o fiume, si prospetta una situazione incidente
in maniera diretta e immediata sulla regolamentazione delle
acque pubbliche, con conseguente diretta incidenza del
provvedimento de quo sul regolare regime delle stesse, il
che implica la giurisdizione del Tribunale superiore delle
acque pubbliche, atteso il carattere inderogabile della
tutela all’uopo apprestata dall’ordinamento.
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa
riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto
nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma
1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione
dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque
superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano
una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà,
sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo
piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il
requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico
interesse.
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco
delle acque pubbliche, la controversia non rientra
nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero ribadito il principio affermato
in giurisprudenza e condiviso secondo cui appartiene alla
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la
controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità
comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione
della fascia di rispetto di dieci metri dal piede
dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d.
25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché
emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul
regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha
carattere inderogabile in quanto informata alla ragione
pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento
delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque
scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
---------------
Risultando indubbio il contenuto del provvedimento
censurato, che non contesta alcun abuso di natura edilizia,
ma rileva la difformità di quanto realizzato rispetto
all’autorizzazione idraulica, il mancato rispetto delle
distanze ed è stato determinato proprio da una segnalazione
dell’Ufficio del Genio Civile che aveva rilevato la presenza
di opere suscettibili di creare impedimenti al deflusso
della acque lungo la valletta, alla stregua di tali principi
il ricorso in esame, va dichiarato inammissibile per difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo
affermarsi la competenza del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, dinanzi al quale il processo potrà essere
riassunto nei termini di rito.
---------------
Oggetto del ricorso in esame è il provvedimento con il quale
l’amministrazione comunale di Nembro è intervenuta a
sanzionare, mediante l’ordine di rimozione, una serie di
opere consistenti nella realizzazione di recinzioni
collocate lungo il tratto della valletta demaniale
denominata Rio Lujo.
Dette opere risultano essere state realizzate in difformità
rispetto a quanto prescritto dal Genio Civile di Bergamo in
occasione del rilascio dell’autorizzazione, parzialmente in
sanatoria, per quanto riguarda le recinzioni correnti lungo
il corso della valletta in corrispondenza con i mappali di
proprietà dei ricorrenti, non rispettando le distanze
imposte dalla circolare adottata dal Servizio del Genio
Civile in applicazione del disposto di cui all’art. 96 del
R.D. 523/1904, insistendo su tale tratto della valletta così
da costituire un pericolo per il normale deflusso delle
acque, oltre a intercludere e occupare aree demaniali.
L’ordine di rimozione impartito dal Comune con i
provvedimenti impugnati è conseguenza della espressa
segnalazione effettuata dal Servizio di Vigilanza della
Comunità Montana Valle Seriana che aveva rilevato la
presenza di recinzioni ostruenti la valletta, nonché della
comunicazione effettuata il 17.08.2000 dalla Direzione
Generale del Genio Civile di Bergamo.
Ciò premesso, occorre considerare che, ai sensi dell’art.
143 del R.D. n. 1775/1933, appartengono alla cognizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche i ricorsi avverso
i provvedimenti presi dall’amministrazione in materia di
acque pubbliche.
Orbene, laddove venga rilevata la mancata osservanza, in
caso di costruzioni o, come nella specie, di recinzioni,
fisse o amovibili, delle distanze prescritte rispetto al
canale o all’argine di un torrente o fiume, si prospetta una
situazione incidente in maniera diretta e immediata sulla
regolamentazione delle acque pubbliche, con conseguente
diretta incidenza del provvedimento de quo sul regolare
regime delle stesse, il che implica la giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche, atteso il
carattere inderogabile della tutela all’uopo apprestata
dall’ordinamento (Cass., S.U., 12/05/2009, n. 10845; TAR
Toscana, III, 06/04/2010, n. 938; TAR Campania, Napoli, VIII,
07/12/2009, n. 8602).
Tale conclusione resta valida anche se il canale cui fa
riferimento l’impugnato diniego, non risulta iscritto
nell’elenco delle acque pubbliche. Infatti l’art. 1, comma
1, della legge n. 36/1994 (vigente al momento dell’adozione
dell’atto impugnato), secondo cui tutte le acque
superficiali e sotterranee sono pubbliche e rappresentano
una risorsa utilizzata in base a criteri di solidarietà,
sposta la pubblicità delle acque sul regime di utilizzo
piuttosto che sul regime di proprietà, restando fermo il
requisito della concreta utilizzabilità per uso di pubblico
interesse (Cass., I, 11/01/2001, n. 315; Corte
Costituzionale, 19/07/1996, n. 259).
Pertanto, anche a prescindere dall’iscrizione nell’elenco
delle acque pubbliche, la controversia non rientra
nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
A tale riguardo, va invero, ribadito il principio affermato
in giurisprudenza e condiviso dalla Sezione (cfr. Tar
Piemonte, I, n. 427/2013), secondo cui appartiene alla
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
prevista dall'art. 143 del r.d. 11.12.1933, n. 1775, la
controversia relativa ai provvedimenti assunti dall'autorità
comunale in ragione dell'edificazione di opere in violazione
della fascia di rispetto di dieci metri dal piede
dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), del r.d.
25.07.1904, n. 523; detto provvedimento, infatti, ancorché
emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul
regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha
carattere inderogabile in quanto informata alla ragione
pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento
delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque
scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici
(Cass. civ. Sez. Unite, 12.05.2009 n. 10845; Cons. Giustizia
Amministrativa Sicilia 26.05.2010, n. 740; Cons. Stato, sez.
IV, 22.06.2011, n. 3781; TAR Lazio Roma, sez. II-quater
24.04.2012, n. 3740).
Risultando indubbio il contenuto del provvedimento
censurato, che non contesta alcun abuso di natura edilizia,
ma rileva la difformità di quanto realizzato rispetto
all’autorizzazione idraulica, il mancato rispetto delle
distanze ed è stato determinato proprio da una segnalazione
dell’Ufficio del Genio Civile che aveva rilevato la presenza
di opere suscettibili di creare impedimenti al deflusso
della acque lungo la valletta, alla stregua di tali principi
il ricorso in esame, va dichiarato inammissibile per difetto
di giurisdizione del giudice amministrativo, dovendo
affermarsi la competenza del Tribunale superiore delle acque
pubbliche, dinanzi al quale il processo potrà essere
riassunto nei termini di rito (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 18.12.2017 n. 1461 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Su
di un’area esterna privata risultante di fatto e da sempre
interessata dal pubblico passaggio consegue il formarsi, per dicatio ad patriam, di una servitù di pubblico passaggio, in
quanto destinata senza soluzione di continuità alla libera
circolazione pedonale da parte della comunità
indifferenziata dei cittadini (uti cives).
---------------
In generale, va ricordato che l’istituto della dicatio ad
patriam è notoriamente costituito dal comportamento del
proprietario di un bene che mette spontaneamente e in modo
univoco il bene medesimo a disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo
della costituzione della servitù di uso pubblico ovvero
attraverso l'uso del bene da parte della collettività
indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo
necessario all'usucapione (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 12.08.2002, n. 12167, nonché Cons. Stato, Sez. V, 24.05.2007, n. 2618 e 28.06.2004, n. 4778, tutte nel senso
della necessità al riguardo dei requisiti inderogabili della
volontarietà e della continuità, in assenza dei quali la
giurisprudenza esclude tale modalità di costituzione della
servitù di uso pubblico).
Ciò posto, va rilevato che, in assenza di atti formali
costituitivi della servitù di uso pubblico, ogni altra
circostanza –come ad esempio l'eventuale iscrizione di una
strada nell'elenco delle vie gravate da uso pubblico o
l’iscrizione, come nella specie, nell'inventario dei beni
immobili del Comune-
non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma pone una
presunzione di pubblicità dell'uso che è superabile con la
prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza
di un diritto di godimento da parte di coloro che sono al
riguardo legittimati mediante un'azione negatoria di
servitù.
Conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di
diritti di uso pubblico su una strada privata, quando
consista nell’oggetto principale del giudizio, è devoluta
alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che essa
investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di
diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune medesimo; né
diversamente accade per l'accertamento dei presupposti
dell'anzidetto istituto della dicatio ad patriam, parimenti
rientrante nell'ambito della giurisdizione del giudice
ordinario.
Il giudice amministrativo, invece, ai sensi dell’art. 8 del
Cod. proc. amm., può e deve risolvere la questione del
carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché –come nella fattispecie- la sussistenza di una servitù di
uso pubblico sulla strada privata -eventualmente costituita
anche mediante dicatio ad patriam- allorquando sia
richiesto di risolverla non già come questione principale,
sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come
questione preliminare ad altra, ovvero alla questione,
dedotta in via principale -e all'evidenza rientrante nella
sua giurisdizione- concernente la legittimità di un
provvedimento del tipo di quello qui impugnato.
---------------
2.6. Con il quarto motivo, lettera A, la ricorrente affronta
la questione della natura giuridica dei luoghi in questione.
Parte ricorrente esclude l’esistenza di siffatta
qualificazione pubblica dell’area, mentre Roma Capitale
assume la natura pubblica dell’area esterna all’edificio
vincolato, soggetta ab immemorabilia al pubblico passaggio e
assoggettata alla regolamentazione comunale in materia di
occupazione di suolo pubblico e Cosap. Roma capitale,
inoltre, fa risalire la natura pubblica dell’area al Motu
Proprio di Pio IX del 01.10.1947 e alla sua iscrizione
nell’inventario dei beni demaniali.
Sul punto, il collegio non può che rinviare ai precedenti
della Sezione, i quali hanno in più occasioni accertato che
l’area esterna all’edificio risulta di fatto e da sempre
interessata dal pubblico passaggio, contrariamente a quanto
sostenuto dalla società, con conseguente formarsi, per
dicatio ad patriam, di una servitù di pubblico passaggio, in
quanto destinata senza soluzione di continuità alla libera
circolazione pedonale da parte della comunità
indifferenziata dei cittadini (uti cives).
L’area, in
assenza di qualsivoglia ostacolo o chiusura volta a denotare
una eventuale volontà del proprietario contraria
all’utilizzo indifferenziato del bene ai fini della
circolazione pedonale, consente invece da sempre il transito
pedonale all’interno della stessa consistente nell’affaccio
terrazzato sui resti del Foro di Traiano, come documentato
dall’Amministrazione, costituente la prosecuzione del
marciapiede di via del Foro di Traiano, area contigua alla
sede stradale e destinata al transito pedonale, tale da
determinare l’assoggettamento della stessa alla disciplina
della D.C.C. n. 75 del 2010.
In generale, va ricordato che l’istituto della dicatio ad
patriam è notoriamente costituito dal comportamento del
proprietario di un bene che mette spontaneamente e in modo
univoco il bene medesimo a disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo
della costituzione della servitù di uso pubblico ovvero
attraverso l'uso del bene da parte della collettività
indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo
necessario all'usucapione (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 12.08.2002, n. 12167, nonché Cons. Stato, Sez. V, 24.05.2007, n. 2618 e 28.06.2004, n. 4778, tutte nel senso
della necessità al riguardo dei requisiti inderogabili della
volontarietà e della continuità, in assenza dei quali la
giurisprudenza esclude tale modalità di costituzione della
servitù di uso pubblico).
Ciò posto, va rilevato che, in assenza di atti formali
costituitivi della servitù di uso pubblico, ogni altra
circostanza –come ad esempio l'eventuale iscrizione di una
strada nell'elenco delle vie gravate da uso pubblico o
l’iscrizione, come nella specie, nell'inventario dei beni
immobili del Comune di Roma (matricola Ibu VBL 12589 del
Libro A beni demaniali, come da nota prot. n. 18805 del
09.07.2009 del Dipartimento III/Politiche del Patrimonio)-
non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma pone una
presunzione di pubblicità dell'uso che è superabile con la
prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza
di un diritto di godimento da parte di coloro che sono al
riguardo legittimati mediante un'azione negatoria di
servitù.
Conseguentemente, la controversia circa la sussistenza di
diritti di uso pubblico su una strada privata, quando
consista nell’oggetto principale del giudizio, è devoluta
alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che essa
investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di
diritti soggettivi, dei privati ovvero del Comune medesimo
(cfr. Cass. Civ., SS.UU., 17.03.2010, n. 6406); né
diversamente accade per l'accertamento dei presupposti
dell'anzidetto istituto della dicatio ad patriam, parimenti
rientrante nell'ambito della giurisdizione del giudice
ordinario (cfr. sul punto Cass. Civ., SS.UU., 18.03.1999,
n. 158).
Il giudice amministrativo, invece, ai sensi dell’art. 8 del
Cod. proc. amm., può e deve risolvere la questione del
carattere pubblico ovvero privato di una strada, nonché –come nella fattispecie- la sussistenza di una servitù di
uso pubblico sulla strada privata -eventualmente costituita
anche mediante dicatio ad patriam- allorquando sia
richiesto di risolverla non già come questione principale,
sulla quale pronunciarsi con efficacia di giudicato, ma come
questione preliminare ad altra, ovvero alla questione,
dedotta in via principale -e all'evidenza rientrante nella
sua giurisdizione- concernente la legittimità di un
provvedimento del tipo di quello qui impugnato (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV,
07.09.2006 n. 5209).
Orbene, dall'analisi della documentazione versata in atti
non si rinvengono elementi di fatto sufficienti per
escludere che sull’area de qua si sia formato il diritto di
godimento (passaggio pubblico) a favore della collettività.
Gli elementi portati a supporto dei fatti affermati in
ricorso dalla società -l’adiacenza dell’area allo stabile
condominiale e la natura vincolata del palazzo; l’essere
area priva di sbocchi e destinata alle esigenze del
ristorante che, in base al Regolamento condominiale, può
avere accesso solo dall’esterno e non anche dall’androne del
Palazzo; il rilascio della concessione in sanatoria su
alcuni abusi edilizi; lo status di negozio storico del
ristorante– non sono sufficienti e idonei a comprovare il
diritto del ristorante stesso ad occupare l’area ad esso
prospiciente.
Assumono invece rilevanza il fatto notorio del
pubblico passaggio sull’area e gli ulteriori indici di prova
forniti dall’Amministrazione che dimostrano che l’area è
stata di fatto messa a disposizione della collettività
indifferenziata da sempre e che non ne è stato sottratto
alla stessa il suo uso pubblico, comportando l'assunzione da
parte del bene delle caratteristiche analoghe a quelle di un
bene demaniale, con conseguente assoggettamento alla
disciplina in materia di Osp e di Cosap di cui alla
regolamentazione comunale: proprio lo strumento della
concessione Osp e del pagamento del canone consente di
compensare la diminuzione dell’utilitas di passaggio (pur
sempre consentito) subita dalla collettività per la presenza
degli arredi collocati sull’area e sono atti che
contemperano altresì i distinti interessi pubblici e privati
convergenti nella stessa fattispecie (viabilità pedonale,
tutela architettonica, libera attività imprenditoriale,
esercizio del diritto di proprietà) .
Ne consegue, che l’impugnata determinazione si regge su
congruenti presupposti di fatto, come accertati dalla
Polizia locale, che hanno determinato la correttezza
dell’adozione della stessa da parte dell’Amministrazione
alla luce della normativa regolamentare in materia di
occupazione di suolo pubblico e dell’art. 3, comma 16 della
legge n. 94 del 2009 e delle conseguenti misure applicative,
per cui deve escludersi la fondatezza dei rilievi in ordine
ai rubricati vizi di eccesso di potere per difetto di
istruttoria, insussistenza ed erroneità dei presupposti,
contraddittorietà.
Ininfluente, inoltre, ai fini della questione della non
abusività della occupazione di suolo pubblico è la
circostanza che l’area in parola sia stata oggetto di
domanda di concessione in sanatoria, nel 1986, con
riferimento alla installazione del tendone in plastica e
stoffa. Tale sanatoria infatti, che risulta in vero
rilasciata ma che l’amministrazione ha dichiarato di voler
annullare in via di autotutela in quanto costituente il
risultato di un errore materiale, non può in alcun modo
legittimare anche l’occupazione di suolo pubblico, per la
quale occorre altro e specifico provvedimento.
Ugualmente, anche l’esistenza del riconoscimento di negozio
storico non ha effetti sul piano della legittimazione della
occupazione di suolo pubblico
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 17.03.2017 n. 3634 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI REGIONALI: Il
diritto di accesso di un consigliere regionale al verbale
del Consiglio di amministrazione di una società controllata
dalla Regione non può essere negato o condizionato, se ed in
quanto la richiesta di accesso ha ad oggetto atti che
possano essere d’utilità all’espletamento del mandato del
consigliere, anche al fine di permettere di valutare a
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione.
Non può valere come limitazione di tale diritto la
previsione, di cui all’art. 2422 Cod. civ., che attribuisce
in modo esplicito ai soli soci il diritto di esaminare i
libri delle deliberazioni assembleari.
---------------
Invero, il Collegio ritiene applicabili anche alla
fattispecie di cui è causa i principi già elaborati dalla
giurisprudenza amministrativa con riferimento al diritto di
accesso attribuito ai consiglieri comunali e provinciali
dall’art. 43, comma 2, del T.U. Enti locali - d.lgs. n.
267/2000 (secondo cui: “I consiglieri comunali e provinciali
hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del
comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi
sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati
dalla Legge”).
In particolare, la giurisprudenza ha chiarito che:
- il diritto (soggettivo pubblico) codificato da tali disposizioni
è direttamente funzionale non tanto ad un interesse
personale del consigliere, quanto alla cura di un interesse
pubblico connesso al mandato conferito;
- i consiglieri hanno un non condizionato diritto di accesso a
tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento
del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di
valutare -con piena cognizione- la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un
voto consapevole sulle questioni di competenza del
Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio
stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale; il diritto di accesso
riconosciuto ai consiglieri, pertanto, ha una ratio diversa
da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai
documenti amministrativi che è riconosciuto a chiunque sia
portatore di un “interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (cfr.
gli art. 22 e ss. della l. n. 241 del 1990);
- la finalizzazione dell’accesso all’espletamento del mandato
costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante
l’accesso ed il fattore che ne delimita la portata; le
disposizioni richiamate, infatti, collegano l’accesso a
tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo
svolgimento dei compiti del singolo consigliere e alla sua
partecipazione alla vita politico-amministrativa dell’Ente;
- a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto a
motivare la richiesta, né l’Ente ha titolo per sindacare il
rapporto tra la richiesta di accesso e l’esercizio del
mandato, altrimenti gli organi dell’amministrazione
sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l’ambito del
controllo sul proprio operato;
- il diritto di avere dall’Ente tutte le informazioni che siano
utili all’espletamento del mandato non incontra alcuna
limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto
il consigliere è vincolato all’osservanza del segreto;
- gli unici limiti all’esercizio di tale diritto si rinvengono nel
fatto che l’esercizio del diritto stesso avvenga in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
dell’Ente e che non si sostanzi in richieste assolutamente
generiche o meramente emulative, fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto di accesso dei consiglieri
---------------
1. La ricorrente, consigliere regionale della Regione
Lombardia, ha presentato alla Giunta regionale istanza di
accesso agli atti ai sensi dell’art. 112 del Regolamento
generale del Consiglio regionale, volta ad acquisire, tra
l’altro, copia del verbale della seduta del 17.03.2016
del Consiglio di Amministrazione di Arexpo S.p.A., società a
partecipazione mista pubblico-privata (le cui quote di
partecipazione, all’epoca dei fatti di causa, erano di
proprietà della Regione Lombardia e del Comune di Milano,
nell’eguale misura pari al 34,67%, nonché dell’Ente
autonomo Fiera Internazionale di Milano, in misura pari al
27,66% e, per il restante 3%, della Città Metropolitana di
Milano e del Comune di Rho).
L’interessata, avendo ricevuto dalla Regione soltanto copia
del verbale in questione contenente “omissis” che, a suo
dire, lo rendono illeggibile e incomprensibile, ha
successivamente rivolto la stessa istanza –anche a seguito
di indicazione in tal senso da parte della Regione-
direttamente ad Arexpo S.p.A. Quest’ultima, tuttavia, ha
negato l’accesso richiesto, ribadendo tale decisione pur
dopo che l’interessata ha esperito ricorso, con esito
favorevole, al Difensore regionale della Lombardia. Da
ultimo, inoltre, Arexpo S.p.A. ha negato l’accesso anche al
solo ordine del giorno del verbale di cui è causa, contenuto
nella prima pagina dello stesso.
La ricorrente, quindi, con l’odierno ricorso (notificato
anche alla Regione e al Difensore regionale, entrambi non
costituiti) chiede:
- che venga annullato il provvedimento di diniego e disposta
l’ostensione della documentazione richiesta;
- che sia accertato e dichiarato il diritto dell’interessata
a ottenere copia integrale del verbale richiesto,
comprensivo dell’ordine del giorno;
- che sia ordinata ad Arexpo S.p.A. l’esibizione dei
documenti in questione, mediante visione e/o estrazione di
copia;
- che Arexpo S.p.A. sia condannata alla rifusione delle
spese del giudizio.
...
2.1.2.2. Ciò posto, risulta dirimente, ai fini della
decisione, l’inequivoco tenore testuale delle disposizioni
contenute nell’art. 13, comma 5, dello Statuto della Regione
Lombardia e nell’art. 112, comma 1, del Regolamento generale
del Consiglio regionale della Lombardia.
Il citato art. 13, comma 5, dello Statuto regionale
stabilisce, infatti, che “I consiglieri, secondo le
procedure stabilite dal regolamento generale, hanno diritto
di esercitare l’iniziativa delle leggi e di ogni altro atto
di competenza del Consiglio, di formulare interrogazioni,
interpellanze e mozioni, di ottenere direttamente dagli
uffici regionali, da istituzioni, enti, aziende o agenzie
regionali, dalle società e fondazioni partecipate dalla
Regione, informazioni e copia di atti e documenti utili
all’esercizio del loro mandato sui quali sono tenuti al
segreto nei casi previsti dalla legge”.
L’art. 112, comma 1, del Regolamento generale del Consiglio
regionale della Lombardia, inoltre, dispone che “Ai sensi
dell’art. 13, comma 5, dello Statuto i consiglieri regionali
ottengono direttamente dagli uffici regionali, da
istituzioni, enti, aziende o agenzie regionali, dalle
società e fondazioni partecipate dalla Regione, informazioni
e copia di atti e documenti utili all’esercizio del loro
mandato, sui quali sono tenuti al segreto nei casi previsti
dalla legge”.
Le norme richiamate, dunque, attribuiscono espressamente ai
consiglieri regionali il diritto di accedere ad atti e
documenti delle società partecipate dalla Regione –senza
che possa attribuirsi alcun rilievo, nel silenzio della
norma, all’entità di tale partecipazione– ritenuti utili
all’esercizio del loro mandato.
2.1.2.3. Al riguardo, il Collegio ritiene applicabili anche
alla fattispecie di cui è causa i principi già elaborati
dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento al
diritto di accesso attribuito ai consiglieri comunali e
provinciali dall’art. 43, comma 2, del T.U. Enti locali -
d.lgs. n. 267/2000 (secondo cui: “I consiglieri comunali e
provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del
proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi
specificamente determinati dalla Legge”).
In particolare, la giurisprudenza (C.d.S., Sez. V, n.
5879/2005) ha chiarito che:
- il diritto (soggettivo pubblico) codificato da tali
disposizioni è direttamente funzionale non tanto ad un
interesse personale del consigliere, quanto alla cura di un
interesse pubblico connesso al mandato conferito;
- i consiglieri hanno un non condizionato diritto di accesso
a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all’espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione,
nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio, e per promuovere, anche
nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano
ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; il
diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri, pertanto, ha
una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto
di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a
chiunque sia portatore di un “interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso” (cfr. gli art. 22 e ss. della l. n. 241 del
1990);
- la finalizzazione dell’accesso all’espletamento del
mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto
legittimante l’accesso ed il fattore che ne delimita la
portata; le disposizioni richiamate, infatti, collegano
l’accesso a tutto ciò che può essere effettivamente
funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo
consigliere e alla sua partecipazione alla vita
politico-amministrativa dell’Ente;
- a differenza dei soggetti privati, il consigliere non è
tenuto a motivare la richiesta, né l’Ente ha titolo per
sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e
l’esercizio del mandato, altrimenti gli organi
dell’amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi
stessi l’ambito del controllo sul proprio operato (C.d.S.,
Sez. V, n. 528/1996; id., n. 940/2000, id., n. 5109/2000);
- il diritto di avere dall’Ente tutte le informazioni che
siano utili all’espletamento del mandato non incontra alcuna
limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto
il consigliere è vincolato all’osservanza del segreto
(C.d.S., n. 940/2000, cit.; C.d.S., Sez. V, n. 2716/2004);
- gli unici limiti all’esercizio di tale diritto si
rinvengono nel fatto che l’esercizio del diritto stesso
avvenga in modo da comportare il minor aggravio possibile
per gli uffici dell’Ente e che non si sostanzi in richieste
assolutamente generiche o meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere
attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto di accesso dei consiglieri (C.d.S.,
Sez. IV, n. 846/2013).
2.1.2.4. Sotto diverso profilo, non è condivisibile
l’assunto di Arexpo S.p.A., secondo cui costituirebbero un
limite normativo all’accesso dei consiglieri regionali le
previsioni contenute nell’art. 2422 c.c. La norma in
questione, infatti, si limita ad attribuire ai soci il
“diritto di esaminare i libri indicati nel primo comma,
numeri 1) e 3) dell’art. 2421 c.c.” (ossia il libro dei soci
e il libro delle adunanze e delle deliberazioni delle
assemblee), senza che da ciò possa desumersi un generale
divieto che ad altri soggetti (nella specie i consiglieri
regionali) venga attribuito da altre norme (nella specie
dello Statuto regionale e del Regolamento generale del
Consiglio regionale) il diritto di accedere ad altri atti
societari (nella specie i verbali del consiglio di
amministrazione della società).
2.1.2.5. Alla luce delle disposizioni e dei principi
enunciati deve ritenersi sussistente il diritto di accesso
della ricorrente all’ordine del giorno del verbale del 17.03.2016 del Consiglio di Amministrazione di Arexpo S.p.A.
2.2. Ciò considerato, il ricorso deve essere in parte
dichiarato irricevibile e in parte accolto, con conseguente
condanna della società Arexpo S.p.A. a rilasciare, mediante
estrazione di copia, la documentazione richiesta dalla
ricorrente con l’istanza in data 18 ottobre 2016
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. I,
sentenza 17.03.2017 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha chiarito che il cambiamento di
destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non
costituisce una attività del tutto libera e priva di
vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni
previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio
nel singolo comune.
Una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di
principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative
di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti
locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione
di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed
ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile
pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
---------------
Il ricorso è infondato e va respinto.
1. Il fabbricato di cui si discute, sito nel Comune di La
Loggia tra la Strada ... n. 53 e la via ... n. 2,
è stato edificato verso la fine degli anni ’80 dai
ricorrenti Se.Si. e Ol.Br. su un’area a
destinazione produttiva di loro proprietà, in forza della
concessione edilizia n. 67/87.
La concessione edilizia, in conformità alla destinazione
urbanistica dell’area, qualificata come area “PR4 Impianti
Produttivi di Riordino”, aveva assentito l’edificazione di
un fabbricato ad uso industriale composto, per ciò che
rileva, da un ampio locale al pian terreno (primo fuori
terra) da destinare ad “esposizione”, e da tre distinti
locali al primo piano (secondo fuori terra) a servizio
dell’attività industriale, da destinare rispettivamente ad
abitazione del proprietario del fabbricato produttivo, ad
abitazione del custode del fabbricato e ad ufficio
dell’attività produttiva.
2. Gli accertamenti svolti dall’amministrazione comunale nel
luglio del 2013 hanno rilevato -per ciò che attiene al
presente giudizio– che l’appartamento al primo piano fuori
terra, assentito come “uffici” del fabbricato produttivo, è
stato alienato dai ricorrenti (con atto pubblico del 27.09.1991) ai signori Bu.Se. e Sa.Lo.,
che l’hanno acquistato come abitazione principale e
dichiarando di volersi avvalere delle agevolazioni fiscali
previste per la “prima casa”; la medesima destinazione è
stata poi mantenuta anche in occasione del successivo atto
di trasferimento, avvenuto nel 1998, dai signori Bu. e
Sa. ai sig.ri Gi. e Qu., anche in tal caso
senza alcun vincolo di servizio (uffici) con il fabbricato
industriale; e lo stesso è avvenuto nel 2006 in occasione
del terzo e ultimo trasferimento in favore degli attuali
proprietari, sig. Ga.; peraltro, il cambio abusivo di
destinazione d’uso da “industriale” a “residenziale
indipendente” era già avvenuto in occasione del primo dei
tre trasferimenti.
3. Considerato che l’immobile si colloca su un’area del
territorio comunale che ha destinazione urbanistica
“produttiva” e che la concessione edilizia n. 67/87 aveva
assentito l’edificazione di un fabbricato interamente ed
esclusivamente “ad uso industriale”, ne consegue che del
tutto correttamente l’amministrazione ha ordinato il
ripristino dell’originaria destinazione d’uso produttiva,
qualificando l’intervento come ristrutturazione edilizia e
applicando l’art. 33 del D.lgs. n. 380/2001.
4. Con i primi tre motivi, i ricorrenti sostengono che
l’amministrazione non avrebbe potuto ordinare la riduzione
in pristino, sul rilievo che:
- il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie
non sarebbe stato soggetto a concessione edilizia in base
della disciplina vigente all’epoca delle vendite; così come
non lo sarebbe attualmente, al di fuori del centro storico
cittadino, in base alla disciplina del Testo Unico
dell’Edilizia;
- le opere interne accertate dall’amministrazione non
costituirebbero ristrutturazione edilizia ma manutenzione
ordinaria, non avendo determinato aumento di superficie e di
volume, né modifica di parti strutturali;
- non ci sarebbe stata alcuna modifica di destinazione d’uso
rilevante dal punto di vista urbanistico, dal momento che la
trasformazione da “uffici” a “residenziale indipendente”
sarebbe avvenuta all’interno di una unità immobiliare di
volumetria inferiore a 700 mc, ex art. 48 L.R. n. 56/1977, nel
testo vigente nel 1991, che per tali mutamenti non
richiedeva la concessione edilizia.
5. Osserva il collegio che le censure dei ricorrenti non
possono essere condivise, dal momento che utilizzano
argomenti non conferenti al caso di specie.
5.1. I principi richiamati dai ricorrenti si attagliano
esclusivamente ad ipotesi di mutamenti funzionali di
destinazione d’uso realizzati nel rispetto delle previsioni
urbanistiche di zona, benché in assenza di un titolo
abilitativo: sicché, in tali ipotesi, la sanzione pecuniaria
punisce l’assenza del titolo, ma non legittima alcun abuso,
anzi presuppone la compatibilità urbanistica anche della
nuova destinazione d’uso. Nel caso di specie, invece, il
fabbricato industriale assentito dall’amministrazione è
stato in concreto adibito, in gran parte, ad un uso
“residenziale” incompatibile con la destinazione
“produttiva” dell’area urbanistica.
5.2. La tesi di parte ricorrente, portata alle sue estreme
conseguenze, condurrebbe alla inaccettabile conclusione per
cui chiunque, liberamente o pagando tuttalpiù una semplice
sanzione pecuniaria, sarebbe legittimato a stravolgere le
linee di pianificazione dettate dall’amministrazione,
mutando a proprio piacimento la destinazione urbanistica di
un determinato sito o di parte di esso.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di
opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera
e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione
di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel
territorio nel singolo comune. Una diversa soluzione, non
solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità
sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad
assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio,
con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato sez. I, 25.05.2012 n. 759; Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n.
4102; 03.01.1998, n. 24; Cons. Stato, V, 28.05.2010,
n. 3420; in senso analogo, anche la prima sezione di questo
Tribunale nella sentenza n. 1110 del 19.10.2012).
In tale contesto, ritiene il collegio che l’intervento
dell’amministrazione sia stato doveroso e conforme ai
principi
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 08.03.2017 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di
riduzione in pristino costituisce misura ripristinatoria e
non sanzione afflittiva, e dunque non soggiace al principio
di irretroattività della legge, essendo volta essenzialmente
e prioritariamente a ristabilire il preesistente assetto con
l'eliminazione dell'opera abusivamente realizzata o dell’uso
abusivamente modificato.
---------------
L’eventuale impossibilità giuridica o materiale di eseguire
un provvedimento amministrativo attiene esclusivamente alla
fase di esecuzione del provvedimento stesso, e quindi non
può condurre al suo annullamento, non integrando un vizio di
legittimità dell’atto.
Ma soprattutto, la notifica dell’ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino al responsabile dell’abuso anche
nel caso in cui questi abbia medio tempore perso la
disponibilità giuridica e materiale del bene si giustifica
alla luce di quanto previsto dall’art. 33, comma 1, del
D.P.R. n. 380/2001, ultimo periodo secondo cui, in caso di
inottemperanza dell’ordinanza di ripristino da parte dei
“responsabili dell’abuso", l’ordinanza stessa “è eseguita a
cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso”.
Ciò significa che, nel caso di specie, quand’anche i
ricorrenti non dovessero riuscire ad eseguire l’ordinanza
impugnata per l’opposizione degli attuali proprietari
–peraltro destinatari anch’essi dello stesso provvedimento
in qualità di proprietari, e in quanto tali tenuti per legge
ad un obbligo di collaborazione– il provvedimento potrebbe
essere eseguito direttamente dal Comune, addebitandone le
spese ai ricorrenti.
---------------
6. Con il quarto motivo, i ricorrenti hanno lamentato la
violazione del principio di irretroattività delle sanzioni
amministrative, argomentando dal fatto che in base alla
disciplina edilizia vigente alla data degli asseriti abusi,
gli interventi di mera modifica funzionale della
destinazione d’uso senza opere non erano sanzionabili con la
demolizione, ma solo in forma pecuniaria.
Anche tale censura non può essere condivisa.
L’ordine di
riduzione in pristino costituisce misura ripristinatoria e
non sanzione afflittiva, e dunque non soggiace al principio
di irretroattività della legge, essendo volta essenzialmente
e prioritariamente a ristabilire il preesistente assetto con
l'eliminazione dell'opera abusivamente realizzata o dell’uso
abusivamente modificato.
In ogni caso, anche all’epoca dei contestati abusi era
vigente –in quanto implicita nel sistema normativo– la
sanzione ripristinatoria per il caso di mutamenti funzionali
di destinazione d’uso realizzati in difformità dalla
destinazione urbanistica delle aree interessate.
...
7.2. Infine, con il quinto motivo, i ricorrenti hanno
lamentato l’impossibilità giuridica di adempiere al
provvedimento impugnato, non avendo essi, allo stato, la
disponibilità giuridica e materiale dell’alloggio in
questione.
Anche quest’ultima censura non può essere condivisa.
Intanto, l’eventuale impossibilità giuridica o materiale di
eseguire un provvedimento amministrativo attiene
esclusivamente alla fase di esecuzione del provvedimento
stesso, e quindi non può condurre al suo annullamento, non
integrando un vizio di legittimità dell’atto.
Ma soprattutto, la notifica dell’ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino al responsabile dell’abuso anche
nel caso in cui questi abbia medio tempore perso la
disponibilità giuridica e materiale del bene si giustifica
alla luce di quanto previsto dall’art. 33, comma 1, del D.P.R.
n. 380/2001, ultimo periodo secondo cui, in caso di
inottemperanza dell’ordinanza di ripristino da parte dei
“responsabili dell’abuso", l’ordinanza stessa “è eseguita a
cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso”.
Ciò significa che, nel caso di specie, quand’anche i
ricorrenti non dovessero riuscire ad eseguire l’ordinanza
impugnata per l’opposizione degli attuali proprietari –peraltro destinatari anch’essi dello stesso provvedimento in
qualità di proprietari, e in quanto tali tenuti per legge ad
un obbligo di collaborazione (TAR Toscana, sez. III, 13.02.2017, n. 234)–
il provvedimento potrebbe essere eseguito direttamente dal
Comune, addebitandone le spese ai ricorrenti
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 08.03.2017 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti
terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è
riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>,
ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra
l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori,
quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione
del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Non è
pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il
pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il
danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione
della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non
conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide
se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio
urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo
del territorio, a cui fanno necessario riferimento i
titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati
comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi.
Si considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di
chi, come i ricorrenti, proprietari di un immobile
confinante a quello oggetto dell’intervento contestato, ha
interesse a ché il vicino edifichi regolarmente anche in
presenza di una lesione potenziale o eventuale.
---------------
Per poter applicare la regola della distanza minima di dieci
metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e
richiamata dalle norme tecniche di attuazione del Comune è
necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono,
di cui almeno una deve essere finestrata.
E ciò si desume inequivocabilmente dal disposto normativo
che si riferisce testualmente alla distanza minima assoluta
“tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
---------------
1.- Con ricorso notificato in data 20.07.2016 e
depositato il 16.09.2016 Ez.Ve., Et.Ve.,
Ci.Ve., premesso di essere proprietari di un
immobile ad uso abitativo sito in Giulianova Lido alla via
... n. 65, contraddistinto al catasto fabbricati
del suddetto Comune al foglio 9, part. 513, sub 3, sub 5,
sub 2, confinante, sul lato Nord, con il Parco degli
Eucalipti, chiedono l’annullamento del provvedimento
dirigenziale 10.03.2016, n. 9770, con il quale il Comune
di Giulianova ha rilasciato a Ga.Ma.
l’autorizzazione unica per la realizzazione, all’interno del
Parco degli Eucalipti (Parco Franchi) di un chiosco da
adibire ad attività di somministrazione di alimenti e
bevande, su un’area rilasciata in concessione di mq 99,74,
individuata in catasto al foglio 9, mappale 22, confinante
con la proprietà dei ricorrenti.
Ad avviso dei ricorrenti il provvedimento impugnato sarebbe
illegittimo per i seguenti motivi:
I) violazione delle norme imperative di legge in materia di
distanza tra gli edifici dal confine; eccesso di potere
sotto vari profili;
II) violazioni del regolamento comunale recante il piano
chioschi;
III) violazione della prescrizione normativa in materia di
altezza massima dei chioschi;
IV) contrasto tra l’atto di assegnazione del chiosco a
Ga.Ma. del 20.05.2013, n. 667 e il
successivo provvedimento di assegnazione del chiosco 20.01.2014, n. 14, con cui, in accoglimento dell’istanza
dell’interessato, la localizzazione del chiosco era spostata
sul limite est del parco, al confine con il lungomare;
V) violazione di legge, violazione del p.r.g. comunale, in
relazione alle prescrizioni imposte per la zona F4.
2.-Il Comune di Giulianova, costituitosi in giudizio per
resistere al ricorso, ne chiede il rigetto affermando
l’infondatezza del gravame nel merito.
...
6.- In via preliminare, il Comune eccepisce
l’inammissibilità del ricorso, affermando che si verte in
materia afferente alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
L’eccezione è palesemente infondata.
Oggetto del ricorso è un provvedimento autorizzatorio, che
incide sull’uso del territorio, sicché è proprio la
riconducibilità della materia in questione alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133,
comma 1, lett. f, c.p.a.) che radica e conferma la
giurisdizione di questo giudice.
6.1.- Va pure confutata l’eccezione del Comune di
inammissibilità del ricorso per difetto di interesse,
sull’assunto che i ricorrenti non hanno partecipato alla
procedura ad evidenza pubblica per l’assegnazione in
concessione di uno spazio di area pubblica per
l’installazione del chiosco nel Parco Franchi.
Per pacifica giurisprudenza la legittimazione dei soggetti
terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è
riconosciuta in base al criterio cosiddetto della <<vicinitas>>,
ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra
l’immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori,
quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione
del preesistente assetto urbanistico ed edilizio. Non è
pertanto necessario dimostrare da parte dei ricorrenti il
pregiudizio della situazione soggettiva protetta, perché il
danno è ritenuto sussistente in re ipsa per la violazione
della normativa edilizia, in quanto ogni edificazione non
conforme alla normativa e agli strumenti urbanistici incide
se non sulla visuale, quanto meno sull’equilibrio
urbanistico del contesto e l’armonico e ordinato sviluppo
del territorio, a cui fanno necessario riferimento i
titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati
comunque in prossimità a quelli interessati dagli abusi. Si
considera, pertanto, attuale e concreto l'interesse di chi,
come i ricorrenti, proprietari di un immobile confinante a
quello oggetto dell’intervento contestato, ha interesse a
ché il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una
lesione potenziale o eventuale (tra le tante: Consiglio di
Stato sez. VI 21.03.2016 n. 1156; Consiglio di Stato sez.
VI 09.05.2016 n. 1861).
7.- Passando all’esame del ricorso nel merito, con il primo
motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 2.7.5,
comma 4, delle N.T.A., che, per le zone F4 (aree per spazi
pubblici attrezzati a parco), ove rientra il parco degli
eucalipti, le destinazioni d’uso ammesse sono, tra le altre,
“le attrezzature complementari e di supporto”, purché però
la distanza di tali strutture dai confini sia pari almeno a
5 metri, requisito che, però, nel caso di specie non
risulterebbe rispettato perché il basamento del chiosco,
sporgente di un metro rispetto al limite della parete finestrata di nuova realizzazione, sarebbe posizionato ad
una distanza di metri 4,18 (4,10 come risulta dalla perizia
di parte dell’ing. Si.Ma.) rispetto al confine.
La
parete finestrata del chiosco, invece, sarebbe collocata ad
una distanza di metri 9,05 dell’edificio dei ricorrenti.
E’ inoltre dedotta la violazione dell’art. 9 del d.m.
1444/1968, riprodotto nelle N.T.A. (art. 1.6.4, comma 2) del
Comune di Giulianova, che impone che gli edifici di nuova
costruzione vadano costruiti ad una distanza di 10 metri.
7.1.- Il motivo è infondato.
La tesi di parte ricorrente muove dall’erroneo presupposto
che la distanza minima dal confine andava calcolata con
riferimento al limite esterno della pedana.
Invero, per poter applicare la regola della distanza minima
di dieci metri posta dall'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n.
1444 e richiamata dalle norme tecniche di attuazione del
Comune di Giulianova (art. 1.6.4 che a sua volta riferisce
il computo della distanza alle “pareti finestrate”) è
necessaria l'esistenza di due pareti che si contrappongono,
di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato
sez. IV 31.03.2015 n. 1670; conferma TAR Calabria,
Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014). E ciò si desume
inequivocabilmente dal disposto normativo che si riferisce
testualmente alla distanza minima assoluta “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
7.1.1.- Nella specie, non potendo configurare il basamento
come una “parete finestrata” il rispetto della distanza
minima tra costruzioni andava quindi verificato non con
riferimento alla piattaforma del chiosco, ma con riferimento
alla parete del chiosco, rispetto alla quale, come si desume
dallo schema grafico allegato alla stessa relazione tecnica
di parte ricorrente redatta dall’ing. Si.Ma., era
rispettata la distanza minima di 10 metri tra pareti
finestrate.
7.1.2.- Con riferimento alla violazione dell’art. 2.7.5,
comma 4, delle N.T.A., che, per le zone F4 (aree per spazi
pubblici attrezzati a parco), ove rientra il parco degli
eucalipti secondo quanto risulta dalla relazione tecnica
illustrativa del responsabile del procedimento del Comune di
Giulianova redatta il 12.01.2015, le destinazioni d’uso
ammesse sono, tra le altre, “le attrezzature complementari e
di supporto”, purché però la distanza di tali strutture dai
confini sia pari almeno a 5 metri.
Ora, dalle perizie di parte versata in atti è agevole
rilevare la palese infondatezza della censura.
Sia dalla perizia di parte ricorrente redatta dall’ing.
Ma., che calcola la distanza tra il chiosco e il confine
in metri 5,10 sia dalla perizia dell’ing. Di.Va.,
depositata dal controinteressato, il quale, con l’ausilio di
strumentazione satellitare, calcola la medesima distanza dal
confine in metri 5,16, si desume che il chiosco è stato
realizzato nel rispetto della distanza minima di 5 metri dal
confine (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 23.02.2017 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
termine per impugnare un permesso di costruire decorre dalla data in cui si
renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato
la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria
posizione giuridica. In base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 cod. civ., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività
dell'impugnazione.
--------------- Per costante giurisprudenza, il termine per impugnare un permesso di costruire decorre dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica (Cons. Stato, sez. IV,
05.01.2011, n. 18; Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Cons. Stato, sez. V, 18.09.1998, n. 1310; 30.03.1998 n. 381 e 14.01.1991, n. 11; sez. VI, 10.06.2003, n 3265; sez. VI, 14.03.2002, n. 1533; Cons. Stato, sez. V,
03.03.2004, n. 1022; TAR Napoli Campania sez. VII, 22.02.2012, n. 885; TAR Perugia Umbria sez. I, 02.02. 2012, n. 34). In base agli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, ex art. 2697 cod. civ., la dimostrazione della tardività del ricorso e, quindi, della pregressa piena conoscenza degli elementi essenziali dell'atto in capo al destinatario, deve essere fornita da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione (cfr. fra le tante Consiglio di Stato, sez. IV, 05/06/2013, n. 3101). Nel caso di specie, né l’amministrazione comunale né la controinteressata hanno fornito la prova della piena conoscenza del titolo edilizio in data antecedente l’esercizio del diritto di accesso alla pratica edilizia, da parte della Im.Po. s.r.l., avvenuto in data 14.01.2013. La data di rilascio del titolo non assume, invero, alcun rilievo; ugualmente, la mera conoscenza della circostanza che sia stata presentata una pratica edilizia non importa conoscenza del rilascio del titolo abilitativo e del suo contenuto. Né l’amministrazione ha provato che la ricorrente abbia avuto conoscenza del permesso di costruire n. 47/2011 del 13.12.2012, per avere esercitato il diritto d’accesso in data antecedente il 14.01.2013: la sentenza di questo Tribunale n. 988 del 23.2.2012, con cui è stato accolto il ricorso proposto dalla Im.Po. s.r.l. per l’accesso alla pratica edilizia n. 47/2011, non può avere ordinato l’accesso ad un documento che la p.a. ha adottato il 13.12.2012 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.02.2014 n. 446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.08.2018 |
ã |
Ci
risiamo:
alla
Consulta, nuovamente, la legge urbanistica della
Lombardia! |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge della Regione Lombardia
sulle aree che accolgono attrezzature religiose.
---------------
Religione – Edifici di culto – Lombardia - Apertura di
alcuna attrezzatura religiosa – Art, 72, comma 1 e 2, l.reg. n. 12 del 2005 – Necessità del Piano delle attrezzature
religiose – Violazione artt. 2, 3 e 19 Cost. – Rilevanza e
non manifesta infondatezza.
E’ rimessa alla Corte
costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost.,
la questione di legittimità costituzionale relativa all’art.
72, commi 1 e 2, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel
testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1,
comma 1, lett. c), l.reg. 03.02.2015, n. 2, nella parte in
cui stabilisce che –in assenza o comunque al di fuori delle
previsioni del Piano delle attrezzature religiose– non sia
consentita l’apertura di alcuna attrezzatura religiosa, a
prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato
dalla specifica opera (1).
---------------
(1) In particolare, il
comma 1 dell’art. 72, l.reg. Lombardia
11.03.2005, n. 12 stabilisce che “Le aree che accolgono
attrezzature religiose o che sono destinate alle
attrezzature stesse sono specificamente individuate nel
piano delle attrezzature religiose, atto separato facente
parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e
disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le
istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di
cui all'art. 70”. Il successivo comma 2 aggiunge, poi,
che “L'installazione di nuove attrezzature religiose
presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto
piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura
religiosa da confessioni di cui all'art. 70”.
Dalla lettura di tali previsioni, ad avviso del Tar,
discende che:
- la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa
deve trovare necessariamente previsione in un apposito Piano
comunale, costituente un atto separato facente parte del
Piano dei Servizi (art. 72, comma 1), che a sua volta è
l’atto, componente il Piano di Governo del Territorio,
deputato ad “assicurare una dotazione globale di aree per
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale,
le eventuali aree per l'edilizia residenziale pubblica e da
dotazione a verde, i corridoi ecologici e il sistema del
verde di connessione tra territorio rurale e quello
edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree
urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul
territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e
previste”, in base a quanto previsto dall’art. 9 della
stessa l. reg. n. 12 del 2005;
- in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa” è
realizzabile (art. 72, comma 1) e, anche dopo l’approvazione
del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori
delle aree a ciò specificamente destinate (comma 1),
indipendentemente dalla circostanza che si tratti: di
edifici di culto o di altre attrezzature religiose, secondo
l’ampia definizione di cui all’art. 71, comma 1, della legge
regionale; di attrezzature necessarie per assicurare la
dotazione di standard di urbanizzazione secondaria di
insediamenti esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi di
culto che privati cittadini chiedano liberamente di poter
realizzare, al fine di professare collettivamente la propria
religione; di strutture di grandi dimensioni, destinate a
determinare un largo afflusso di fedeli, ovvero di semplici
sale di culto, dedicate a una frequentazione limitata a
poche decine di persone; di edifici realizzati a iniziativa
pubblica o con contributi pubblici, ovvero a iniziativa del
tutto privata.
Secondo il Tar tali previsioni sono di dubbia legittimità
costituzionale in quanto preordinano una completa e assoluta
programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature
religiose”, in funzione delle “esigenze locali”
–rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune– a
prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere,
e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di
un pubblico più o meno esteso, introducendo così un
controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle
esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine
all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio
del culto (o anche di semplici attività culturali a
connotazione religiosa).
A giudizio del Tar l’equivoco di fondo da cui muove
l’impostazione seguita dal legislatore regionale è che le “attrezzature
religiose”, delle quali gli edifici di culto sono una
species, debbano essere trattate solo ed esclusivamente
quali opere di urbanizzazione secondaria (art. 71, comma 2),
da inserirsi nel contesto urbano mediante un apposito Piano
comunale che ne stabilisce sia la localizzazione che il
dimensionamento (art. 72, commi 1 e 2). E ciò prescindendo
dalle caratteristiche del singolo intervento, dalla
circostanza che tali attrezzature siano o non siano
strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di
standard urbanistici funzionale a un dato insediamento
residenziale, e persino dalla destinazione di tali opere a
una più o meno estesa fruizione pubblica.
Tale impostazione, tuttavia, finisce per determinare
l’accentramento in capo all’Amministrazione locale della
scelta in ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra le
varie confessioni religiose dei luoghi di culto che si
prevede di aprire sul territorio, senza consentire, al di
fuori di tale rigida predeterminazione, avocata alla mano
pubblica, neppure la realizzazione, a iniziativa privata e
in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di
modeste sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si fonda l’intera
architettura della disciplina regionale lombarda in materia
di edifici di culto consiste nell’individuazione di una
corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose
di interesse comune”, di cui all’art. 71, comma 1,
costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature
religiose” di cui all’art. 72, di modo che tutte tali
attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali
opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria
previa programmazione comunale.
E ciò a prescindere dalla circostanza che il loro
inserimento nel territorio debba essere effettivamente
preordinato dall’Amministrazione, al fine di assicurare la
proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione
secondaria a servizio di insediamenti residenziali, ovvero
che si tratti di libere iniziative di enti religiosi,
comunità di fedeli o gruppi di cittadini, al solo scopo di
assicurare ai fedeli che intendano praticare un dato culto
di disporre di un luogo idoneo a praticarlo collettivamente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.08.2018 n. 1939 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
1. L’Associazione Culturale Ma. ha impugnato
la determinazione del Responsabile del
Servizio lavori pubblici, territorio e
ambiente del Comune di Castano Primo con la
quale è stato annullato il permesso di
costruire n. 17/2015, rilasciato alla stessa
Associazione il 15.01.2016.
Ha, inoltre, censurato il rapporto della
Polizia locale di Castano Primo del
09.11.2016, richiamato nel provvedimento di
annullamento.
2. L’Associazione ricorrente è diretta, in
base all’atto costitutivo e dallo statuto, a
perseguire i seguenti scopi:
“a)
mantenere e valorizzare le tradizioni
culturali e religiose dei Paesi d’origine
dei Musulmani residenti nel territorio del
Castanese, rafforzare il legame di
fratellanza umana con i cittadini locali
attraverso lo scambio culturale, la
collaborazione sociale, la vicinanza civile
all’interno di un quadro di rispetto e di
integrazione, in accordo con i valori della
Repubblica Italiana e nel pieno rispetto
delle leggi e dei regolamenti vigenti.
b) far rivivere gli insegnamenti del Profeta
(Sunna) e la Rivelazione Divina (Corano).
c) promuovere una condotta morale che porti
alla pratica del bene.
d) organizzare e facilitare viaggi di studio
e di pellegrinaggio (Mecca-Medina).
e) organizzare e facilitare le procedure di
sepoltura dei Musulmani anche presso il
paese d’origine.
f) organizzare corsi e manifestazioni o
eventi per la promozione della cultura
musulmana e le lingue e tradizioni del paese
di origine degli associati”.
Secondo quanto risulta agli atti del
giudizio, con istanza depositata il
09.01.2013, l’Associazione ha chiesto al
Comune di Castano Primo un “Parere
preventivo all’esercizio dell’attività di
culto” presso gli “immobili siti in
Castano Primo, Via ... n. 1”.
Nell’istanza si evidenziava, tra l’altro,
che il complesso immobiliare era costituito
“da n. 2 fabbricati a uso residenziale,
n. 2 fabbricati a uso deposito, n. 1
fabbricato a uso autorimessa oltre ad area
di pertinenza” e che tale complesso –che
in caso di parere positivo sarebbe stato
ristrutturato– ricadeva in zona urbanistica
B 3.1 “residenziale di completamento
edilizio del tessuto urbano consolidato”.
L’istanza è stata riscontrata dal Comune con
la nota del 22.03.2013, con la quale è stato
reso parere favorevole all’utilizzazione
richiesta dall’Associazione, in
considerazione della localizzazione degli
immobili nella zona urbanistica B 3.1 “dove
la destinazione principale è quella
residenziale e le attrezzature culturali,
che rientrano nella fattispecie dei “servizi
alla persona” compatibili con la residenza,
sono quindi ammissibili”.
Il Comune precisava, inoltre, che “Per
poter utilizzare in tal senso gli immobili
prescelti, è necessario pertanto inoltrare
richiesta di idoneo titolo abilitativo
tendente al mutamento della destinazione
d’uso, adottando tutte le specifiche
prescrizioni impartite dalla normativa
vigente. Nella redazione dell’istanza, dovrà
essere posta particolare attenzione al
reperimento dei Posti Auto interni al lotto,
nelle quantità previste all’art. 12 della
N.T.A. del Piano delle Regole, inerenti la
nuova destinazione d’uso (servizi alla
persona). Dovranno essere inoltre computati
e successivamente versati i contributi
relativi agli Oneri di Urbanizzazione dovuti
in relazione alla trasformazione dell’uso da
“residenziale” a “servizi alla persona
compatibili”, secondo le vigenti tariffe”.
Stante il parere preventivo favorevole del
Comune, l’Associazione ha quindi dato corso,
il 28.10.2013, all’acquisto del complesso
immobiliare di Via ... n. 1.
L’Associazione ha poi ottenuto, il
24.07.2015, l’autorizzazione paesaggistica “per
la realizzazione di ampliamento edificio
esistente con cambio di destinazione d’uso
da residenza a servizio alla persona”, e
ha quindi domandato, il 20.08.2015, il
permesso di costruire, che è stato
effettivamente rilasciato il 15.01.2016.
A ciò è seguita, il 05.07.2016, la
presentazione della comunicazione di inizio
dei lavori.
E’ poi avvenuto che il Comune ha manifestato
dubbi all’Associazione in ordine
all’effettiva possibilità di destinare il
complesso immobiliare di Via ... n. 1
all’esercizio del culto. Si sono, quindi,
tenuti una serie di incontri con i
rappresentanti dell’Associazione, la quale
ha stabilito spontaneamente, in questa fase,
di sospendere i lavori dal 13.10.2016,
dandone comunicazione all’Amministrazione.
Gli approfondimenti svolti hanno, infine,
condotto il Comune all’adozione del
provvedimento del 13.03.2017, impugnato nel
presente giudizio, con il quale è stato
disposto l’annullamento d’ufficio del
permesso di costruire n. 17/2015 del
15.01.2016.
3. Le motivazioni della determinazione
assunta dall’Amministrazione, illustrate nel
corpo dell’atto, evidenziano, in
particolare, che:
- il Comune ha appurato che l’intervento edilizio è preordinato
alla realizzazione di un’attrezzatura
religiosa, ai sensi dell’articolo 71 della
legge regionale 11.03.2005, n. 12, come si
evince: dalle finalità dell’Associazione
Culturale Ma.; dagli elementi
architettonici, quali la nicchia orientata a
Sud-Est (ossia in direzione della Mecca);
dalla distribuzione interna dei locali, che
sono formati da una sala principale al piano
terra e da un blocco di servizi igienici al
piano interrato, questi ultimi servizi
chiaramente preordinati alle pratiche
propedeutiche alle funzioni religiose del
rito musulmano (si tratterebbe, in altri
termini, delle vasche per le abluzioni
rituali); dalle stesse dichiarazioni rese
dall’Associazione nel procedimento di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica,
dalle quali risulta chiaramente la volontà
di attuare la destinazione a luogo di culto;
- la realizzazione di un tale intervento edilizio, diretto allo
svolgimento non occasionale anche di
attività di culto, ricade nella categoria
urbanistica prevista dall’articolo 71, comma
1, lett. b) e c-bis), della legge regionale
n. 12 del 2005; categoria per la cui
attuazione è richiesta la preventiva
approvazione del Piano delle attrezzature
religiose di cui all’articolo 72, comma 1,
della medesima legge regionale;
- allo stato, il Comune di Castano Primo non è dotato di tale
Piano, per cui il permesso di costruire è
stato rilasciato “in assenza di un iter
procedurale atto a garantire la trasparenza
degli atti assunti attraverso meccanismi di
partecipazione e consultazione della
cittadinanza”;
- “la situazione viabilistica dell’area di cui sopra, come
emerge nel rapporto della Polizia locale del
09.11.2016, n. prot. 2269, non è
idonea, né allo stato e neppure anche con le
misure indicate nel rapporto stesso, a
sopportare il carico di traffico e di
posteggio indotto dall’affluenza di persone
in relazione alla pratica del culto”;
- l’annullamento del titolo edilizio “non risponde ad un mero
ripristino della legalità formale violata,
bensì ad un concreto interesse pubblico
diretto ad impedire l’esercizio di
un’attività di culto, per sua natura aperta
ad un numero indeterminato di destinatari,
in un’area inidonea per le sue ridotte
dimensioni, inserita in una zona altamente
residenziale, inadatta per le condizioni
viabilistiche di contorno e per la carenza
di parcheggio”;
- i lavori sono stati sospesi dall’Associazione e “anche per
tale ragione non può dirsi consolidato alcun
affidamento in favore dell’Associazione Ma.,
consapevole dei profili di illegittimità del
permesso di costruire esposti nel corso di
incontri con i rappresentanti
dell’Amministrazione comunale”.
4. Nel censurare il provvedimento comunale,
la ricorrente ha allegato i seguenti
motivi:
I) violazione dell’articolo 72, comma 8, della legge regionale n.
12 del 2005 e dell’articolo 11 delle
disposizioni sulla legge in generale, nonché
eccesso di potere per travisamento dei fatti
e difetto di istruttoria e di motivazione;
ciò in quanto il complesso immobiliare della
ricorrente rientrerebbe tra le “attrezzature
religiose esistenti” al 06.02.2015,
ossia alla data in cui è entrata in vigore
la legge regionale 03.02.2015, n. 2, che ha
modificato la legge regionale n. 12 del
2005, introducendo il Piano delle
attrezzature religiose; conseguentemente, la
realizzazione dell’intervento oggetto del
permesso di costruire non sarebbe
subordinato all’approvazione dell’apposito
Piano, ma beneficerebbe dell’esenzione dalla
nuova disciplina, secondo quanto ora
disposto dall’articolo 72, comma 8, della
legge regionale n. 12 del 2005; in
particolare, la natura di attrezzatura
religiosa esistente deriverebbe dal fatto
che l’Associazione Culturale Ma. sarebbe
presente sul territorio di Castano Primo sin
dal 2007 e avrebbe trasferito la propria
sede nel complesso di Via Friuli n. 1 dal
28.10.2013;
...
IV) difetto di motivazione, violazione dei principi di
proporzionalità e di non aggravamento,
nonché contraddittorietà manifesta; ciò in
quanto la legge regionale dovrebbe essere
interpretata nel senso che la previa
approvazione del Piano delle attrezzature
religiose dovrebbe essere richiesta soltanto
per la realizzazione di strutture di grandi
dimensioni, ma non anche per quelle di
modesta entità, quale quella oggetto del
permesso di costruire rilasciato in favore
della ricorrente; il provvedimento di
annullamento del permesso di costruire,
subordinando la realizzazione della
destinazione richiesta al Piano delle
attrezzature religiose, si porrebbe in
contraddizione con le determinazioni
precedentemente assunte dal Comune, con il
principio costituzionale di buon andamento
dell’amministrazione e con il divieto di
aggravamento del procedimento
amministrativo; peraltro, la ricorrente
avrebbe anche inutilmente rappresentato al
Comune la propria disponibilità a
incrementare le aree da destinare a
parcheggio all’interno del lotto di
proprietà; il provvedimento di annullamento
sarebbe, perciò, immotivato, irragionevole e
sproporzionato rispetto all’interesse
pubblico al ripristino della legalità
violata;
V) incostituzionalità dell’articolo 72, comma 5,
della legge regionale n. 12 del 2005 e
contrasto della disposizione regionale con
la normativa europea; ciò in quanto il
predetto comma 5, come sostituito
dall’articolo 1 della legge regionale n. 2
del 2015, stabilirebbe la mera facoltà
discrezionale dei Comuni, e non l’obbligo,
di prevedere la realizzazione di edifici di
culto attraverso l’apposito Piano delle
attrezzature religiose; risulterebbero,
quindi, violati gli articoli 2, 3, 8, 19, 20
e 117 della Costituzione, nonché con
l’articolo 118, primo comma, della
Costituzione; sarebbe violata anche la
direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000, che
attua il principio della parità di
trattamento fra le persone,
indipendentemente dalla razza e dall’origine
etnica, comprendendo tra le libertà
fondamentali il diritto alla libertà di
associazione e il diritto all’accesso ai
beni e ai servizi: in quest’ultimo ambito
rientrerebbe l’edilizia religiosa, in quanto
preordinata alla fornitura di un servizio;
...
5. Si è costituito il Comune di Castano
Primo, insistendo per il rigetto del
ricorso.
6. In esito alla camera di consiglio fissata
per la trattazione cautelare della causa, la
Sezione ha emesso l’ordinanza n. 780 del
20.06.2017, con la quale ha disposto la
fissazione dell’udienza pubblica, ritenendo
che il ricorso ponesse questioni di
particolare complessità, da vagliare in sede
di merito, anche in considerazione della
possibilità di ravvisare profili di dubbio
sulla compatibilità costituzionale delle
previsioni dell’articolo 72 della legge
regionale n. 12 del 2005, laddove
dall’applicazione delle relative
disposizioni deriva il divieto
incondizionato di aprire nuovi luoghi di
culto in assenza dell’apposito Piano delle
attrezzature religiose approvato dal Comune.
7. All’udienza pubblica fissata la causa è
stata, infine, trattenuta in decisione.
8. Il Collegio anticipa sin
d’ora di ritenere che tutti i motivi di
ricorso siano infondati, a eccezione del
quinto, la cui soluzione impone di
sollevare innanzi alla Corte costituzionale
la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge
regionale 11.03.2005, n. 12, nel testo
risultante dalle modifiche apportate
dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della
legge regionale 03.02.2015, n. 2, sotto i
profili e per le ragioni che si
illustreranno più oltre.
9. La trattazione del ricorso richiede,
peraltro, una breve premessa ricostruttiva
della cornice normativa entro la quale si
inquadra la presente controversia.
9.1 La legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo
del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione
del territorio”), un Titolo IV dedicato
alle “Attività edilizie specifiche”.
Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III
–composto dagli articoli 70-73 della legge–
detta “Norme per la realizzazione di
edifici di culto e di attrezzature destinate
a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo
stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature
di interesse comune per servizi religiosi”,
come definite all’articolo 71, comma 1,
della legge regionale, “costituiscono
opere di urbanizzazione secondaria ad ogni
effetto” (così il comma 2 dello stesso
articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di
tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1,
stabiliva, nel suo tenore originario, prima
delle modifiche apportate dalla legge
regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei
Servizi –che è uno degli atti di cui si
compone il Piano di Governo del Territorio–
dovesse specificamente individuare,
dimensionare e disciplinare “le aree che
accolgono attrezzature religiose, o che sono
destinate alle attrezzature stesse”, e
ciò “sulla base delle esigenze locali,
valutate le istanze avanzate dagli enti
delle confessioni religiose di cui
all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in
particolare, negli “enti
istituzionalmente competenti in materia di
culto della Chiesa Cattolica” (articolo
70, comma 1) e negli “enti delle altre
confessioni religiose come tali qualificate
in base a criteri desumibili
dall’ordinamento ed aventi una presenza
diffusa, organizzata e stabile nell’ambito
del comune (...), ed i cui statuti esprimano
il carattere religioso delle loro finalità
istituzionali e previa stipulazione di
convenzione tra il comune e le confessioni
interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che,
indipendentemente dalla dotazione di
attrezzature religiose esistenti, “nelle
aree in cui siano previsti nuovi
insediamenti residenziali, il piano dei
servizi, e relative varianti, assicura nuove
aree per attrezzature religiose, tenendo
conto delle esigenze rappresentate dagli
enti delle confessioni religiose di cui
all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per
la realizzazione di attrezzature religiose
di interesse sovracomunale (articolo 71,
comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature
tra gli enti interessati, questa doveva
essere operata “in base alla consistenza
ed incidenza sociale delle rispettive
confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino
all’approvazione del Piano dei Servizi, la
realizzazione di nuove attrezzature per i
servizi religiosi fosse “ammessa
unicamente su aree classificate a standard
nei vigenti strumenti urbanistici generali e
specificamente destinate ad attrezzature per
interesse comune” (così il comma 4-bis
dell’articolo 71, introdotto dall’articolo
1, comma 1, lett. hhh), della legge
regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta
tuttora) disposizioni relative alle modalità
di finanziamento della realizzazione di
attrezzature religiose da parte di ciascun
comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito
incisive modifiche a seguito dell’entrata in
vigore della legge regionale 03.02.2015, n.
2; modifiche che –si anticipa sin d’ora–
sono state in parte colpite da una
dichiarazione di incostituzionalità, per
effetto della sentenza della Corte
costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato
in modo significativo la disciplina dettata
dall’articolo 70, in tema di individuazione
degli enti delle confessioni religiose
deputati a realizzare attrezzature religiose
sul territorio comunale. Tali soggetti sono
stati, infatti, individuati, oltre che negli
enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti
delle altre confessioni religiose con le
quali lo Stato ha già approvato con legge la
relativa intesa ai sensi dell'articolo 8,
terzo comma, della Costituzione” (nuovo
articolo 70, comma 2) e negli enti delle
ulteriori confessioni religiose, non
firmatarie di intesa, in presenza di
determinati requisiti specifici (articolo
70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa
cattolica è stato, peraltro, previsto che
l’applicazione delle previsioni in materia
di attrezzature di interesse religioso sia
subordinata alla stipulazione di “una
convenzione a fini urbanistici con il comune
interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di
una Consulta regionale, nominata con
provvedimento della Giunta regionale,
deputata al “rilascio di parere
preventivo e obbligatorio sulla sussistenza
dei requisiti” per l’accreditamento
presso i Comuni degli enti di confessioni
religiose che non abbiano stipulato intese
con lo Stato, al fine della realizzazione di
attrezzature religiose (articolo 70, comma
2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente
modificata la disciplina relativa alla
localizzazione delle attrezzature religiose,
contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito,
anzitutto, che “Le aree che accolgono
attrezzature religiose o che sono destinate
alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature
religiose, atto separato facente parte del
piano dei servizi, dove vengono dimensionate
e disciplinate sulla base delle esigenze
locali, valutate le istanze avanzate dagli
enti delle confessioni religiose di cui
all'articolo 70” (articolo 72, comma 1).
Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto
alla medesima procedura di approvazione dei
piani componenti il PGT” (articolo 72,
comma 3) e deve prevedere una serie di
contenuti specifici (articolo 72, comma 7),
consistenti in prescrizioni di dotazioni di
servizi (lett. a), b) e d), del comma 7),
caratteristiche costruttive delle
attrezzature religiose (lett. e), f) e g)
del comma 7) e apposite distanze tra le
strutture da destinare alle diverse
confessioni religiose, sulla base delle
distanze minime stabilite dalla Giunta
regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L'installazione
di nuove attrezzature religiose presuppone
il piano di cui al comma 1; senza il
suddetto piano non può essere installata
nessuna nuova attrezzatura religiosa da
confessioni di cui all'articolo 70”
(articolo 72, comma 2). E, in questa
prospettiva, la legge regionale dispone pure
che “I comuni che intendono prevedere
nuove attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle
attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della legge
regionale recante "Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per
servizi religiosi".”, ossia la stessa legge
n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il
piano è approvato unitamente al nuovo PGT”
(articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature
religiose introdotte dalla legge regionale
n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale, con
la sentenza n. 63 del 2016, in esito al
giudizio in via d’azione promosso dal
Presidente del Consiglio dei Ministri contro
la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato
fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19
e 117, secondo comma, lettera c), della
Costituzione, le questioni di legittimità
costituzionale aventi ad oggetto:
- l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che
gli enti delle confessioni religiose che non
hanno stipulato un’intesa con lo Stato
avrebbero dovuto possedere al fine di
accedere alla possibilità di realizzare
attrezzature religiose;
- l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di
un’apposita Consulta regionale lo scrutinio
in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la
fondatezza delle questioni con le quali si
prospettava la violazione della competenza
esclusiva statale in materia di ordine
pubblico e sicurezza, di cui all’articolo
117, secondo comma, lettera h), della
Costituzione ad opera delle previsioni
contenute:
- all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale,
ove si prevedeva che, nel corso del
procedimento per la predisposizione del
Piano delle attrezzature religiose,
venissero acquisiti “i pareri di
organizzazioni, comitati di cittadini,
esponenti e rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di
questura e prefettura al fine di valutare
possibili profili di sicurezza pubblica,
fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
- all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il
Piano dovesse prevedere, per le attrezzature
religiose, “la realizzazione di un
impianto di videosorveglianza esterno
all’edificio, con onere a carico dei
richiedenti, che ne monitori ogni punto di
ingresso, collegato con gli uffici della
polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece,
toccato –in quanto non sottoposta allo
scrutinio di legittimità costituzionale–
l’architettura del sistema prefigurato dalla
legge regionale n. 2 del 2015 al fine
dell’insediamento sul territorio delle
attrezzature religiose e, in particolare, la
necessaria subordinazione della
realizzazione di tali attrezzature
all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente
evidenziato che non formava oggetto del
giudizio “l’art. 72, comma 1, della
stessa legge regionale n. 12 del 2005, il
quale ricollega alla valutazione delle
«esigenze locali», previo esame delle
diverse istanze confessionali, la
programmazione urbanistica delle
attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre,
dichiarato manifestamente inammissibile, per
inconferenza del parametro evocato –ossia
l’articolo 117, secondo comma, lett. l),
della Costituzione– la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 72,
comma 5, della legge regionale n. 12 del
2005, ove si stabilisce che i Comuni che
intendano prevedere nuove attrezzature
religiose debbano approvare il relativo
Piano entro diciotto mesi dall’entrata in
vigore della legge e che, in mancanza, si
provveda unitamente al nuovo Piano di
Governo del Territorio.
10. Premessa questa ricostruzione del quadro
giuridico di riferimento, può passarsi
all’esame delle questioni prospettate con il
ricorso.
11. Come detto, il Comune di Castano Primo
ha annullato in autotutela il permesso di
costruire rilasciato in favore
dell’Associazione Culturale Ma.,
riscontrando che le opere assentite
consistevano nella realizzazione di un
edificio destinato al culto e che il titolo
edilizio era stato emesso, tuttavia, senza
procedere preventivamente all’approvazione
dell’apposito Piano delle attrezzature
religiose, prescritto dall’articolo 72 della
legge regionale n. 12 del 2005, come
modificato dalla legge regionale n. 2 del
2015.
12. Con il primo motivo, la
ricorrente ha contestato la sussistenza
stessa del predetto profilo di illegittimità
del permesso di costruire. In particolare,
l’Associazione ha richiamato l’articolo 72,
comma 8, della legge regionale n. 12 del
2005, ove si stabilisce che “Le
disposizioni del presente articolo non si
applicano alle attrezzature religiose
esistenti alla entrata in vigore della legge
recante "Modifiche alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) - Principi per la pianificazione
delle attrezzature per servizi religiosi".”,
ossia la legge n. 2 del 2015, entrata in
vigore il 06.02.2015.
12.1 Secondo la ricorrente, la destinazione
ad attrezzature religiose dell’edificio di
Via ... n. 1 sarebbe stata attuata
precedentemente all’entrata in vigore della
legge ora richiamata, poiché l’Associazione
sarebbe presente sul territorio di Castano
Primo sin dal 2007 e avrebbe trasferito la
propria sede nel complesso di Via ...i n. 1
dal 28.10.2013. Inoltre, la destinazione dei
locali a sede dell’Associazione, fin da
epoca precedente all’intervento di
ristrutturazione, risulterebbe anche dalle
tavole allegate alla domanda di rilascio del
permesso di costruire, sulle quali nulla
l’Amministrazione avrebbe obiettato.
Conseguentemente, tale destinazione, in
quanto preesistente, rientrerebbe tra quelle
escluse dall’ambito di applicazione della
legge regionale sopravvenuta.
12.2 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi
che, nel fare salve le “attrezzature
religiose esistenti”, l’articolo 72,
comma 8, della legge regionale n. 12 del
2005 non può aver avuto riguardo se non alle
strutture giuridicamente esistenti con la
predetta destinazione, e non anche agli
immobili destinati ad attività di culto in
via di mero fatto e senza un apposito
titolo.
E ciò tanto più tenuto conto che, sin da
prima della novella del 2015, la legge
regionale n. 12 del 2005 reca un’apposita
previsione secondo la quale “I mutamenti
di destinazione d'uso di immobili, anche non
comportanti la realizzazione di opere
edilizie, finalizzati alla creazione di
luoghi di culto e luoghi destinati a centri
sociali, sono assoggettati a permesso di
costruire” (così l’articolo 52, comma
3-bis, aggiunto dall’articolo 1, comma 1,
lett. m) della legge regionale 14.07.2006,
n. 12).
12.3 Nel caso oggetto del presente giudizio,
è incontroverso che la modifica della
destinazione del complesso immobiliare di
Via ... n. 1 sia avvenuta giuridicamente
solo a seguito del permesso di costruire n.
17/2015 del 15.01.2016. Ne deriva che, a
prescindere dall’eventuale utilizzazione di
fatto dei fabbricati, tale destinazione non
può essere ritenuta preesistente al
06.02.2015.
12.4 Da ciò il rigetto della censura.
...
14. Vanno quindi esaminate, per ragioni di
ordine logico, le censure prospettate nella
prima parte del quarto motivo di
impugnazione, laddove l’Associazione
ricorrente contesta ancora, sotto altro
profilo, la sussistenza del vizio di
legittimità del permesso di costruire
riscontrato dal Comune.
14.1 La ricorrente sostiene, in particolare,
che l’articolo 72 della legge regionale n.
12 del 2005 andrebbe interpretato nel senso
che la previa approvazione del Piano delle
attrezzature religiose sarebbe richiesta
solo per le strutture di grandi dimensioni,
ma non anche per quelle di modesta entità,
quale la sede dell’Associazione Culturale
Ma..
14.2 L’interpretazione proposta dalla
ricorrente non può, tuttavia, essere
accolta, in quanto si pone in contrasto con
il chiaro e inequivocabile tenore della
legge.
L’articolo 72, infatti, si
riferisce alle “attrezzature religiose”,
senza alcuna specificazione ulteriore, e il
comma 2 del predetto articolo afferma
espressamente –come sopra detto– che
l’installazione di nuove attrezzature
religiose “presuppone” l’apposito
Piano e che “senza il suddetto piano non
può essere installata nessuna nuova
attrezzature religiosa da confessioni di cui
all’articolo 70”.
La lettera della legge non lascia dubbi,
perciò, in ordine alla concreta portata
delle sue previsioni, le quali sono
inequivocabilmente dirette a stabilire un
divieto rivolto indiscriminatamente nei
confronti di qualsivoglia “attrezzatura
religiosa”, che si tratti di un luogo di
culto destinato ad attirare grandi flussi di
fedeli o di una modesta sala di preghiera.
14.3 In questo senso, le censure di
violazione dei principi di proporzionalità,
di non aggravamento del procedimento
amministrativo e di buon andamento
dell’Amministrazione non colgono nel segno,
poiché il provvedimento assunto dal Comune
risulta fondato sull’unica interpretazione
consentita della legge regionale.
Tali considerazioni assumono invece rilievo,
come meglio si dirà nel prosieguo, al fine
di corroborare i dubbi che il Collegio nutre
in ordine alla legittimità costituzionale
delle disposizioni contenute all’articolo 72
della legge regionale n. 12 del 2005, nei
sensi di cui si dirà più oltre.
15. Alla luce delle censure sin qui
scrutinate, il provvedimento di autotutela
assunto dal Comune risulta, dunque,
correttamente fondato sul presupposto
dell’illegittimità del permesso di costruire
n. 17/2015, poiché è effettivamente
riscontrabile un contrasto del titolo
edilizio con le previsioni di legge
regionale più volte richiamate.
...
18. Fin qui, tutti i motivi di ricorso
trattati, a giudizio del Collegio, non
meritano accoglimento.
Rimane, tuttavia, da
scrutinare il quinto motivo, con il
quale l’Associazione ricorrente lamenta
l’illegittimità costituzionale dell’articolo
72 della legge regionale n. 12 del 2005,
nonché il contrasto della stessa previsione
con la direttiva 2000/43/CE del 29.06.2000
(“Direttiva del Consiglio che attua il
principio della parità di trattamento fra le
persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica”).
18.1 Al riguardo, deve anzitutto escludersi
che possa ravvisarsi un profilo di
incompatibilità della disciplina normativa
con la direttiva ora richiamata.
In disparte ogni altra considerazione, deve
infatti osservarsi che il campo di
applicazione della direttiva è limitato agli
ambiti indicati all’articolo 3.
Secondo la ricorrente, l’edilizia religiosa
sarebbe preordinata alla fornitura di un “servizio”.
Con tale affermazione, la parte
implicitamente richiama la fattispecie di
cui al comma 1, lett. h), del suddetto
articolo 3, ove si afferma che la direttiva
si applica “all'accesso a beni e servizi
che sono a disposizione del pubblico e alla
loro fornitura, incluso l'alloggio”.
Il riferimento, tuttavia, non è da ritenere
pertinente, atteso che lo stesso articolo 3
reca disposizioni operanti “Nei limiti
dei poteri conferiti alla Comunità”, e
quindi trova applicazione con riferimento
alla sola dimensione del mercato unico
europeo; dimensione che non presenta alcuna
attinenza con l’esercizio delle libertà
religiose. In questa prospettiva, il termine
“servizi”, contenuto nella locuzione
sopra riportata, va perciò inteso in senso
strettamente economico e non può,
conseguentemente, includere l’edilizia
religiosa, né comunque le condizioni per
l’esercizio di un culto.
Ne deriva che non si pone neppure il
problema di verificare l’effettiva
compatibilità della disciplina di legge
regionale con la direttiva, questione
peraltro dedotta dalla ricorrente in termini
del tutto generici e apodittici.
18.2 Il Collegio ritiene, invece, di dover
condividere i dubbi sulla legittimità
costituzionale dell’articolo 72 della legge
regionale n. 12 del 2005, nei sensi e nei
limiti che si esporranno di seguito, e di
dover quindi rimettere la soluzione delle
relative questioni alla Corte
costituzionale.
18.3 Va, conseguentemente, rinviata
all’esito del giudizio della Corte anche la
domanda di risarcimento del danno, pure
proposta dall’Associazione ricorrente.
19. Il Collegio dubita, in
particolare, della compatibilità
dell’articolo 72, commi 1 e 2, della legge
regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12,
nel testo risultante dalle modifiche
apportate dall’articolo 1, comma 1, lett.
c), della legge regionale 03.02.2015, n. 2,
con gli articoli 2, 3 e 19 della
Costituzione.
20. In punto di rilevanza delle questioni di
legittimità costituzionale, il Collegio
evidenzia che sono stati trattati e ritenuti
non meritevoli di accoglimento tutti i
motivi di impugnazione proposti dalla parte,
a eccezione del tema della legittimità
costituzionale delle previsioni di legge
regionale applicate dal Comune.
Conseguentemente, la decisione della causa
dipende esclusivamente dalla soluzione della
questione attinente alla legittimità
costituzionale delle previsioni
dell’articolo 72 della legge regionale n. 12
del 2005, sulla cui base è stato assunto il
provvedimento di autotutela censurato nel
presente giudizio.
Il suddetto motivo di censura è rilevante,
atteso che le ragioni di interesse pubblico
all’annullamento, che –come sopra
illustrato– il Comune ha indicato nel
provvedimento impugnato non sono da sole
sufficienti a sorreggere l’eliminazione del
permesso di costruire già rilasciato in
favore della ricorrente. L’esercizio del
potere di autotutela richiede, infatti, ai
sensi dell’articolo 21-nonies della legge n.
241 del 1990, anzitutto l’illegittimità del
provvedimento annullato. E, come detto,
l’accertamento di tale profilo riposa
esclusivamente nella soluzione delle
questioni di legittimità costituzionale
prospettate nei confronti della legge
regionale.
Da tali questioni dipende, perciò, l’esito
del giudizio.
21. Sempre in punto di rilevanza, il
Collegio deve prendere in considerazione la
portata della legge regionale 25.01.2018, n.
5, recante “Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di
disposizioni di legge.”, pubblicata nel
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia
del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2
–dedicato alla “Abrogazione di leggi”–
la previsione secondo la quale “A
decorrere dall’entrata in vigore della
presente legge sono o restano abrogate:
...b) le seguenti leggi o disposizioni
operanti modifiche alla legislazione
regionale... 69) L.R. 03.02.2015, n. 2
(Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio)
- Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione
della legge regionale n. 2 del 2015, che
–come più volte ripetuto– ha novellato la
legge regionale n. 12 del 2005, dettando la
disciplina applicata dal provvedimento
impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale
previsione possa influire sulla rilevanza
delle questioni di legittimità
costituzionale che si intendono rimettere
alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il
provvedimento impugnato nel presente
giudizio è precedente alla legge regionale
n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va
valutata in base al quadro normativo vigente
al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale
abrogatrice sopravvenuta non potrebbe
comunque far venire meno la rilevanza delle
questioni di legittimità costituzionale
relative al testo della legge n. 12 del
2005, nella formulazione in vigore quando è
stato rilasciato il permesso di costruire
annullato, e anche al tempo della
determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che
la legge regionale n. 5 del 2018 abbia
modificato l’articolo 72 della legge
regionale n. 12 del 2005, il quale è da
ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore
risultante dalle modificazioni apportate
dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore
regionale è stata, infatti, di mero riordino
legislativo, come risulta chiaramente
dall’articolo 1 della legge regionale n. 5
del 2018, ove, nell’indicare le finalità
dell’intervento normativo, si enuncia che “La
presente legge opera interventi di
manutenzione e razionalizzazione tecnica
dell'ordinamento regionale attraverso
interventi abrogativi di leggi o di
disposizioni di legge. Per tutte le
disposizioni oggetto di abrogazione sono
fatti salvi gli effetti secondo quanto
previsto dall'articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua
volta, che “Sono fatti salvi gli effetti
prodotti o comunque derivanti dalle leggi e
dalle disposizioni abrogate dalla presente
legge, comprese le modifiche apportate ad
altre leggi. Restano pertanto confermate, in
particolare, le autorizzazioni, le
variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro
effetto giuridico, economico o finanziario
prodotto o comunque derivante dalle
disposizioni in materia di bilancio, nonché
le variazioni testuali apportate alla
legislazione vigente dalle leggi abrogate
dalla presente legge, ove non superate da
integrazioni, modificazioni o abrogazioni
disposte da leggi intervenute
successivamente. Trova inoltre applicazione,
per le leggi di cui all'articolo 3, anche
quanto previsto dall'articolo 24, comma 2,
della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso
eliminare le leggi enumerate –tra le quali
la legge n. 2 del 2015– intese
esclusivamente quali atti fonte, ossia quali
“veicoli” delle modificazioni
apportate ad altre leggi; “veicoli”
che hanno sostanzialmente esaurito i loro
effetti con l’introduzione stessa delle
novelle. Le leggi modificate non sono state,
invece, toccate dall’intervento di riordino,
il quale non ha inteso apportare alcuna
variazione sostanziale al corpus legislativo
regionale.
21.3 Deve, perciò, confermarsi la rilevanza
delle questioni di legittimità
costituzionale che si passa a esporre.
22. Come detto, il Collegio dubita della
legittimità costituzionale dell’articolo 72,
commi 1 e 2, della legge regionale n. 12 del
2015, come modificata dalla legge regionale
n. 2 del 2015.
22.1 In particolare,
il comma 1
dell’articolo 72 stabilisce che “Le aree
che accolgono attrezzature religiose o che
sono destinate alle attrezzature stesse sono
specificamente individuate nel piano delle
attrezzature religiose, atto separato
facente parte del piano dei servizi, dove
vengono dimensionate e disciplinate sulla
base delle esigenze locali, valutate le
istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all'articolo 70”.
Il successivo comma 2 aggiunge, poi, che “L'installazione
di nuove attrezzature religiose presuppone
il piano di cui al comma 1; senza il
suddetto piano non può essere installata
nessuna nuova attrezzatura religiosa da
confessioni di cui all'articolo 70”.
22.2
Dalla lettura di tali previsioni,
discende che:
- la realizzazione di ogni e qualsivoglia attrezzatura religiosa
deve trovare necessariamente previsione in
un apposito Piano comunale, costituente un
atto separato facente parte del Piano dei
Servizi (articolo 72, comma 1), che a sua
volta è l’atto, componente il Piano di
Governo del Territorio, deputato ad
“assicurare una dotazione globale di aree
per attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico e generale, le eventuali aree per
l'edilizia residenziale pubblica e da
dotazione a verde, i corridoi ecologici e il
sistema del verde di connessione tra
territorio rurale e quello edificato, nonché
tra le opere viabilistiche e le aree
urbanizzate ed una loro razionale
distribuzione sul territorio comunale, a
supporto delle funzioni insediate e
previste”, in base a quanto previsto
dall’articolo 9 della stessa legge regionale
n. 12 del 2005;
- in assenza del suddetto Piano, nessuna “attrezzatura religiosa”
è realizzabile (articolo 72, comma 1) e,
anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna
attrezzatura è realizzabile al di fuori
delle aree a ciò specificamente destinate
(comma 1), indipendentemente dalla
circostanza che si tratti: di edifici di
culto o di altre attrezzature religiose,
secondo l’ampia definizione di cui
all’articolo 71, comma 1, della legge
regionale; di attrezzature necessarie per
assicurare la dotazione di standard di
urbanizzazione secondaria di insediamenti
esistenti o da realizzare, ovvero di luoghi
di culto che privati cittadini chiedano
liberamente di poter realizzare, al fine di
professare collettivamente la propria
religione; di strutture di grandi
dimensioni, destinate a determinare un largo
afflusso di fedeli, ovvero di semplici sale
di culto, dedicate a una frequentazione
limitata a poche decine di persone; di
edifici realizzati a iniziativa pubblica o
con contributi pubblici, ovvero a iniziativa
del tutto privata.
22.3 Secondo l’avviso del Collegio,
le
suddette previsioni sono di dubbia
legittimità costituzionale, come meglio si
dirà nel prosieguo, in quanto preordinano
una completa e assoluta programmazione
pubblica della realizzazione di “attrezzature
religiose”, in funzione delle “esigenze
locali” –rimesse all’apprezzamento
discrezionale del Comune– a prescindere
dalle caratteristiche in concreto di tali
opere, e persino della loro destinazione
alla fruizione da parte di un pubblico più o
meno esteso, introducendo così un controllo
pubblico totale, esorbitante rispetto alle
esigenze proprie della disciplina
urbanistica, in ordine all’apertura di
qualsivoglia spazio destinato all’esercizio
del culto (o anche di semplici attività
culturali a connotazione religiosa).
22.4 Va, invece, evidenziato che non è
specificamente rilevante nel presente
giudizio l’eventuale illegittimità
costituzionale del comma 5 dello stesso
articolo 72, ove si stabilisce che “I
comuni che intendono prevedere nuove
attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle
attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della legge
regionale recante "Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per
servizi religiosi". Decorso detto termine il
piano è approvato unitamente al nuovo PGT”.
La suddetta disposizione potrebbe apparire
di dubbia legittimità costituzionale,
laddove indica come meramente facoltativa
l’adozione del Piano delle attrezzature
religiose entro il termine di diciotto mesi
dall’entrata in vigore della legge regionale
n. 2 del 2015, stabilendo che, superato tale
termine, all’approvazione del Piano si
provveda soltanto in occasione della nuova
pianificazione comunale.
Nella presente controversia si fa questione,
tuttavia, dell’annullamento in autotutela di
un permesso di costruire rilasciato prima
del decorso del termine di diciotto mesi
dall’entrata in vigore della legge regionale
n. 2 del 2015, ossia in un momento in cui il
Comune di Castano Primo sarebbe stato ancora
in termini per sospendere l’iter di rilascio
del titolo edilizio e adottare il Piano
deputato all’inserimento sul territorio di
nuove attrezzature religiose. Non è perciò
idonea a influire sull’esito del giudizio la
specifica questione attinente
all’obbligatorietà o facoltatività del
suddetto piano e alle conseguenze della sua
mancata adozione entro il predetto termine
di diciotto mesi.
Anche laddove il Piano fosse stato
obbligatorio, infatti, il Comune sarebbe
stato in tempo per adottarlo e, quindi, il
permesso di costruire rilasciato prima dei
diciotto mesi sarebbe comunque illegittimo.
23. Così perimetrato l’ambito delle
questioni rilevanti, in relazione alla
portata delle disposizioni regionali che si
sottopongono allo scrutinio della Corte
costituzionale, deve passarsi a illustrare
compiutamente le ragioni per le quali si
ritengono tali questioni non manifestamente
infondate.
23.1 A giudizio del Collegio, l’equivoco di
fondo da cui muove l’impostazione seguita
dal legislatore regionale è che le “attrezzature
religiose”, delle quali gli edifici di
culto sono una species, debbano
essere trattate solo ed esclusivamente quali
opere di urbanizzazione secondaria (articolo
71, comma 2), da inserirsi nel contesto
urbano mediante un apposito Piano comunale
che ne stabilisce sia la localizzazione che
il dimensionamento (articolo 72, commi 1 e
2). E ciò prescindendo dalle caratteristiche
del singolo intervento, dalla circostanza
che tali attrezzature siano o non siano
strettamente necessarie ad assicurare la
dotazione di standard urbanistici funzionale
a un dato insediamento residenziale, e
persino dalla destinazione di tali opere a
una più o meno estesa fruizione pubblica.
23.2 Che sia così, e che nessun’altra
interpretazione della legge regionale sia
consentita, in base alla lettera e alla
ratio delle previsioni di legge, si
evince chiaramente dalla circostanza che
l’articolo 71, comma 1, riferendosi alle
“attrezzature religiose di interesse
comune”, include tra tali attrezzature tutti
gli edifici aventi una determinata
destinazione urbanistica –edifici di culto,
abitazioni di ministri di culto, attività di
formazione religiosa, sedi di associazioni
culturali connotate da finalità religiose– a
prescindere dalle caratteristiche in
concreto di tali opere e dalla loro
specifica preordinazione al fine di
assicurare la richiesta dotazione di opere
di urbanizzazione secondaria in favore di un
dato insediamento.
E tale necessaria lettura della legge
regionale è ulteriormente comprovata dalla
circostanza che tale previsione si salda con
quella dell’articolo 72, comma 2, laddove,
nell’introdurre il nuovo Piano delle
attrezzature religiose, si stabilisce che “nessuna
nuova attrezzatura religiosa” possa
essere installata in assenza del Piano.
Infine, l’interpretazione ora evidenziata,
oltre a essere l’unica compatibile con la
lettera e con la ratio della legge
regionale, è anche quella accolta nella
prassi amministrativa, fondata sulla
circolare regionale 20.02.2017, n. 3 (“Indirizzi
per l’applicazione della legge regionale
03.02.2015, n. 2 «Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (legge per il
governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per
servizi religiosi»”, pubblicata sul BURL,
Supplemento ordinario, 22.02.2017, n. 8).
23.3 Tale impostazione, tuttavia, finisce
per determinare l’accentramento in capo
all’Amministrazione locale della scelta in
ordine a tempi, luoghi e distribuzione tra
le varie confessioni religiose dei luoghi di
culto che si prevede di aprire sul
territorio, senza consentire, al di fuori di
tale rigida predeterminazione, avocata alla
mano pubblica, neppure la realizzazione, a
iniziativa privata e in aree comunque idonee
dal punto di vista urbanistico, di modeste
sale di preghiera.
In altri termini, il presupposto su cui si
fonda l’intera architettura della disciplina
regionale lombarda in materia di edifici di
culto consiste nell’individuazione di una
corrispondenza biunivoca tra le
“attrezzature religiose di interesse
comune”, di cui all’articolo 71, comma 1,
costituenti opere di urbanizzazione
secondaria, e le “attrezzature religiose” di
cui all’articolo 72, di modo che tutte tali
attrezzature sono trattate allo stesso modo,
ossia quali opere di urbanizzazione
secondaria soggette alla necessaria previa
programmazione comunale. E ciò a prescindere
dalla circostanza che il loro inserimento
nel territorio debba essere effettivamente
preordinato dall’Amministrazione, al fine di
assicurare la proporzionata dotazione di
standard di urbanizzazione secondaria a
servizio di insediamenti residenziali,
ovvero che si tratti di libere iniziative di
enti religiosi, comunità di fedeli o gruppi
di cittadini, al solo scopo di assicurare ai
fedeli che intendano praticare un dato culto
di disporre di un luogo idoneo a praticarlo
collettivamente.
24.
Il Collegio è dell’avviso che tale
impostazione collida anzitutto con
l’articolo 19 della Costituzione.
24.1 Secondo l’insegnamento della Corte
costituzionale, “Con l'art. 19 il
legislatore costituente riconosce a tutti il
diritto di professare la propria fede
religiosa, in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di
esercitare in privato o in pubblico il
culto, col solo e ben comprensibile, limite
che il culto non si estrinsechi in riti
contrari al buon costume. La formula di tale
articolo non potrebbe, in tutti i suoi
termini, essere più ampia, nel senso di
comprendere tutte le manifestazioni del
culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto
forma e condizione essenziale del suo
pubblico esercizio, l'apertura di templi ed
oratori e la nomina dei relativi ministri.”
(sentenza n. 59 del 1958).
Proprio con riferimento alla legge regionale
della Lombardia n. 12 del 2005, come
modificata dalla legge regionale n. 2 del
2015, la Corte ha poi ribadito il proprio
costante insegnamento, evidenziando che “Il
libero esercizio del culto è un aspetto
essenziale della libertà di religione” e
che “L’apertura di luoghi di culto, in
quanto forma e condizione essenziale per il
pubblico esercizio dello stesso, ricade
nella tutela garantita dall’art. 19 Cost.,
il quale riconosce a tutti il diritto di
professare la propria fede religiosa, in
qualsiasi forma, individuale o associata, di
farne propaganda e di esercitare in privato
o in pubblico il culto, con il solo limite
dei riti contrari al buon costume.”
(sentenza n. 63 del 2016).
24.2 Ciò posto, non si intende ovviamente
negare –né si dubita– che la Regione,
nell’esercizio della propria potestà
legislativa in materia di “governo del
territorio”, attribuitale dall’articolo 117,
terzo comma, della Costituzione, possa
dettare una disciplina legislativa
specificamente dedicata all’inserimento
urbanistico delle attrezzature religiose e
degli edifici di culto. Questo aspetto è
stato affermato dalla Corte, tra l’altro,
nella richiamata sentenza n. 63 del 2016.
La Corte ha, tuttavia, rimarcato che la
legislazione regionale in materia di
edilizia del culto “trova la sua ragione
e giustificazione –propria della materia
urbanistica– nell’esigenza di assicurare uno
sviluppo equilibrato ed armonico dei centri
abitativi e nella realizzazione dei servizi
di interesse pubblico nella loro più ampia
accezione, che comprende perciò anche i
servizi religiosi” (sentenza n. 195 del
1993, richiamata dalla sentenza n. 63 del
2016) e che “Non è, invece, consentito al
legislatore regionale, all’interno di una
legge sul governo del territorio, introdurre
disposizioni che ostacolino o compromettano
la libertà di religione” (sentenza n. 63
del 2016).
24.3 Come detto, l’articolo 72, commi 1, 2 e
5 della legge regionale n. 12 del 2005
istituiscono un sistema nel quale le
attrezzature religiose di qualsivoglia
natura, inclusi i luoghi di culto, devono
essere necessariamente realizzati nelle aree
e negli immobili stabiliti dal Comune, al
quale spetta, per questa via, ogni
discrezionalità in ordine all’apertura di
luoghi di culto, pubblici o privati, sul
proprio territorio.
Deve, inoltre, ricordarsi che, in base al
comma 1 dell’articolo 72, il dimensionamento
e la disciplina di tali attrezzature sono
stabilite dal Comune “sulla base delle
esigenze locali”. Locuzione, questa, su cui
anche la Corte ha richiamato l’attenzione,
nella sentenza n. 63 del 2016, pur
evidenziando che la previsione del comma 1
dell’articolo 72 non era stata sottoposta al
suo sindacato.
24.3.1 Ora, l’impostazione seguita dal
legislatore regionale non porrebbe dubbi di
compatibilità con l’articolo 19 della
Costituzione, ad avviso del Collegio, se il
Piano delle attrezzature religiose
intervenisse al solo scopo di censire le
attrezzature esistenti aperte al pubblico,
verificare il fabbisogno di ulteriori
attrezzature, e provvedere conseguentemente.
In questi termini, la previsione sarebbe
effettivamente ragionevole e funzionale allo
scopo di assicurare l’adeguata dotazione di
edifici di culto a servizio degli
insediamenti residenziali, che è compito
propriamente rientrante tra quelli demandati
al Piano dei Servizi. In questa prospettiva,
sarebbe anche ragionevole il dimensionamento
delle attrezzature religiose in base alle
esigenze riscontrate localmente. La stessa
Corte costituzionale ha, infatti, affermato
che, “come è naturale allorché si
distribuiscano utilità limitate, quali le
sovvenzioni pubbliche o la facoltà di
consumare suolo”, nella ponderazione rimessa
al Comune “si dovranno valutare tutti i
pertinenti interessi pubblici e si dovrà
dare adeguato rilievo all’entità della
presenza sul territorio dell’una o
dell’altra confessione, alla rispettiva
consistenza e incidenza sociale e alle
esigenze di culto riscontrate nella
popolazione” (sentenza n. 63 del 2016).
24.3.2 La disciplina regionale, tuttavia, si
spinge oltre tale obiettivo, stabilendo che
–in assenza o comunque al di fuori delle
previsioni del Piano delle attrezzature
religiose– non sia consentita l’apertura di
alcuna attrezzatura religiosa, a prescindere
dal contesto e dal carico urbanistico
generato dalla specifica opera.
Per questa via, si determina un ostacolo di
fatto al libero esercizio del culto, poiché
la possibilità di esercitare collettivamente
e in forma pubblica i riti non contrari al
buon costume –garantita dalla Costituzione–
viene a essere subordinata alla
pianificazione comunale e, quindi, al
controllo pubblico.
Ciò, secondo l’avviso del Collegio,
determina un’indebita limitazione della
libertà di religione, perché:
- è fisiologico che la programmazione comunale intervenga
necessariamente con cadenze periodiche
pluriennali (quelle tipiche della
pianificazione); circostanza, questa, che di
per sé determina un differimento nella
possibilità di soddisfare le esigenze di
culto della collettività;
- come detto, il Piano dei Servizi è deputato a operare il
dimensionamento delle attrezzature
religiose, in base alla situazione del
contesto, e non garantisce la previsione di
luoghi di culto per tutti gli enti di
confessioni religiose o per le singole
comunità di fedeli.
Tuttavia, la libertà di esercizio collettivo
del culto, assicurata dall’articolo 19 della
Costituzione, non può risentire in termini
così stringenti della programmazione
urbanistica, né è assicurata soltanto ai
culti dotati di una determinata
rappresentatività in ambito locale. Al
contrario, la Costituzione garantisce
l’esercizio pubblico del culto, con il solo
limite del rispetto del buon costume, anche
una comunità composta da pochi fedeli (come
nel caso oggetto del presente giudizio, ove
si fa questione della sede di
un’Associazione religiosa cui aderiscono
circa sessanta famiglie).
25. Né potrebbe ritenersi che le limitazioni
all’apertura di luoghi di culto stabilite
dalla legge regionale siano sorrette
adeguatamente dallo scopo di assicurare il
corretto inserimento sul territorio delle
attrezzature religiose.
A giudizio del Collegio, le previsioni
normative sopra richiamate appaiono,
infatti, eccedenti rispetto allo scopo, in
modo tale da far emergere anche la
violazione dei fondamentali canoni di
ragionevolezza, proporzionalità e non
discriminazione posti dall’articolo 3 della
Costituzione.
25.1 Deve, infatti, tenersi presente che il
comma 7 dell’articolo 72 ha stabilito quali
caratteristiche costruttive debbano avere le
attrezzature religiose e quali dotazioni
aggiuntive di parcheggi debbano essere
assicurate, in proporzione alle dimensioni
della struttura (v. lett. d).
A ciò deve aggiungersi che, in linea di
principio, gli edifici religiosi sono
funzionali all’insediamento abitativo e,
quindi, dovrebbero essere in linea di
massima realizzabili negli ambiti urbani ove
è previsto l’insediamento della funzione
residenziale, o in ambiti prossimi, ferma
restando la potestà del Comune di stabilire
limitazioni, anche in funzione delle
dimensioni della struttura, tenuto conto del
contesto locale, nei suoi diversi aspetti
(viabilità, parcheggi, e via dicendo).
Tutte le previsioni costruttive e di
inserimento urbanistico delle attrezzature
religiose ben possono, tuttavia –sulla base
delle indicazioni contenute nella legge
regionale– trovare adeguata previsione
nelle ordinarie prescrizioni degli strumenti
urbanistici. E ciò tenuto conto anche della
circostanza che l’apertura di un edificio di
culto, da un punto di vista di assetto del
territorio, appare non differire
sensibilmente dalla realizzazione di altri
luoghi di aggregazione sociale, quali
palestre, case di cura, scuole, centri
culturali non aventi finalità religiose, e
simili. Per tali diverse strutture non è,
tuttavia, stabilita un’analoga rigida
programmazione comunale.
In termini più espliciti, si evidenzia che
la natura di “opere di urbanizzazione
secondaria” è comune –ad esempio– alle
scuole. Anche per le scuole la relativa
dotazione minima deve essere prevista nel
Piano dei Servizi. Ciò, tuttavia, non
preclude ai privati la possibilità di aprire
liberamente ulteriori scuole e istituti
d’istruzione privati, nell’esercizio della
libertà costituzionale di insegnamento,
purché nel rispetto di tutte le previsioni
di piano atte ad assicurare il corretto
inserimento di tali strutture nel contesto
urbanistico. Non è, invece, previsto che i
privati debbano attendere, a tal fine,
l’approvazione di un apposito Piano, volto a
dimensionare, canalizzare e predeterminare
completamente e rigidamente la
localizzazione delle scuole e, per questa
via, il contenuto dell’intera offerta
scolastica sul territorio comunale, persino
laddove si tratti dell’apertura di un corso
limitato a poche decine o a qualche
centinaio di iscritti.
Il differente trattamento riservato, sotto
questo profilo, alle attrezzature religiose
appare, perciò, del tutto ingiustificato e
discriminatorio, rispetto a quello riservato
ad altre attrezzature comunque destinate
alla fruizione pubblica, potenzialmente
idonee a generare un impatto analogo, o
persino maggiore, nel contesto urbanistico.
E tale trattamento è tanto più sperequato,
ove si consideri che la legge regionale n.
12 del 2005 è informata, in linea di
massima, al principio del favor verso il
libero insediamento delle destinazioni d’uso
compatibili con la destinazione di zona,
salve le esclusioni stabilite dallo
strumento urbanistico (cfr. articoli 51 e
10, comma 3, lett. f), della legge regionale
n. 12 del 2005).
25.2 In definitiva, secondo l’avviso del
Collegio,
l’avocazione al Comune
dell’integrale programmazione della
localizzazione e del dimensionamento delle
attrezzature religiose finisce per eccedere
gli scopi propri della disciplina
dell’assetto del territorio comunale,
producendo, di fatto, effetti simili
all’autorizzazione governativa all’apertura
dei luoghi di culto, prevista dall'articolo
1 del regio decreto 28.02.1930, n. 289, già
dichiarato costituzionalmente illegittimo
dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 59 del 1958.
26.
La violazione degli articoli 3 e 19
della Costituzione, sotto i profili ora
detti, ridonda anche nella lesione dei
diritti inviolabili della persona, tutelati
dall’articolo 2 della Costituzione (v. Corte cost., sentenza n. 195 del 1993), stante la
centralità del credo religioso quale
espressione della personalità dell’uomo,
tutelata nella sua affermazione individuale
e collettiva.
27. Per tutte le ragioni esposte,
questo
Tribunale ritiene rilevanti e non
manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale sopra illustrate.
Va, conseguentemente, disposta la
sospensione del giudizio e la rimessione
delle predette questioni alla Corte
costituzionale, ai sensi dell’articolo 23
della legge 11.03.1953, n. 87.
Deve essere rinviata, infine, all’esito
della pronuncia della Corte anche la
trattazione della domanda di risarcimento
del danno, come sopra detto, nonché la
decisione in ordine alle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo
Regionale per la Lombardia (Sezione
Seconda), non definitivamente pronunciando
sul ricorso, come in epigrafe proposto:
- respinge in parte il ricorso, limitatamente a quanto indicato in
motivazione;
- rimette alla Corte costituzionale le questioni
di legittimità costituzionale illustrate in
motivazione, relative all’articolo 72, commi
1 e 2, della legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12, nel testo risultante
dalle modifiche apportate dall’articolo 1,
comma 1, lett. c), della legge regionale
03.02.2015, n. 2, per contrasto con gli
articoli 2, 3 e 19 della Costituzione;
- dispone, conseguentemente, la sospensione del giudizio;
- riserva alla sentenza definitiva ogni pronuncia in ordine agli
ulteriori profili, nonché in ordine alla
regolazione delle spese del giudizio. |
|
Se un fabbricato è paesaggisticamente vincolato
laddove:
● il P.R.G./P.G.T., sostanzialmente, dispone che “non sono
ammesse demolizioni con successive ricostruzioni, se
non specificamente concesso” ovverosia, ai sensi
della specifica normativa urbanistica stante il
valore paesaggistico dell’originario edificio, non
può essere interamente demolito e successivamente
ricostruito, e
● l'immobile è ugualmente (ed abusivamente) demolito/ricostruito
nell'ambito di una rilasciata concessione edilizia
per lavori di ristrutturazione edilizia,
cosa succede al titolo edilizio de quo,
nonché al fabbricato medesimo, in relazione ai
disposti in materia edilizio-urbanistica
(DPR n. 380/2001)
ed anche paesaggistica
(D.Lgs. n. 42/2004)? |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l’utilizzo della locuzione “decadenza” nel
contestato provvedimento comunale, il Collegio rileva che,
al di là del nomen iuris, sia ben chiara la volontà del
Comune di ritenere il titolo abilitativo rilasciato venuto
meno per inesistenza sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che
“il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e
scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato
ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello
tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è
incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con
la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione
e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe
una costruzione solo apparentemente simile a quella
originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un
falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto
stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura
storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste
più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione
giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato
legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto totalmente
abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art.
3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli
interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria del manufatto preesistente che, ove eseguiti in
assenza di permesso di costruire o in totale difformità,
danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33 d.P.R. n.
380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione pecuniaria di
cui al secondo comma dello stesso anziché all’ingiunzione di
demolizione di cui all’art. 31 del testo unico per gli
interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in
totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico
vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione
dell’edificio esistente- e la costruzione di altro
manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria
(identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal
provvedimento in contestazione), come detto, determinano una
ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di
tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non
può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma
deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente
abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia di
tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel d.lgs.
n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004), la
normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha
assunto una portata generale e prevalente rispetto alla
pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni
culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia
urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli
ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e
del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono
ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui
all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art.
3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001
riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la
demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la
ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma
anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare
applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non
sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a
vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello
stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene
vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e
volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione
edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo
periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia
incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece,
come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura
perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal
caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato
dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze
di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
---------------
L’intervento posto in essere, come
detto, si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in
nuova volumetria) -diversa da quella originaria che
costituiva oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente
abusiva, essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza
dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo
rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge
regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985
né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli
interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con
variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in
contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata,
sia al momento della realizzazione sia al momento della
domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il
quale dispone che il permesso in sanatoria può essere
ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie
inesistente, costituisce condicio sine quanon per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli
appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una
costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle
vigenti al momento della definizione dell’istanza,
rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da
questo Collegio.
---------------
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004
stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta
la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che
l’intervento realizzato ha comportato la indebita
demolizione di un edificio che, per espressa previsione
delle norme urbanistiche comunali non poteva essere
distrutto in quanto bene di valore ambientale-architettonico
da tutelare, il manufatto eretto deve considerarsi
totalmente abusivo e, quindi, costituente nuova volumetria,
sicché la fattispecie fuoriesce dal perimetro applicativo
della norma richiamata, contenuta nel codice dei beni
culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il
fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura
tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e,
una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto
distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid
novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un volume
completamente nuovo in zona vincolata, con conseguente
inapplicabilità della norma che consente l’accertamento
della compatibilità paesaggistica.
---------------
L’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto
della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in
termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di
sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del
d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e
dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non
essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive
che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici”.
---------------
... per la
riforma della
sentenza 01.07.2011 n. 1113 del TAR VENETO, Sez.
II.
...
Le doglianze, che affrontano le problematiche centrali
dell’intera controversia, non possono essere condivise.
2.1 Con decreto ministeriale 20.12.1965, la zona in cui è
compreso l’immobile in discorso, di proprietà degli
appellanti, sita nel territorio del Comune di Creazzo
(Vicenza), è stata dichiarata di notevole interesse pubblico
ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497 (“protezione
delle bellezze naturali”).
L’art. 26 delle NTA al PRG del
Comune di Creazzo è rubricato “Beni culturali –
insediamenti urbani e rurali con caratteristiche ambientali
ed architettoniche” ed al primo comma dispone che [la
zona] “è costituita dalle parti del territorio
interessate da insediamenti urbani e rurali, comprendenti
aggregazioni edilizie, singoli edifici e manufatti che
rivestono carattere storico-artistico o di particolare
pregio ambientale”.
Il secondo comma del detto art. 26 prevede che “in tali
ambiti il P.R.G. si attua per intervento edilizio diretto,
secondo le prescrizioni delle schede urbanistiche riferite
ad ogni singolo immobile o complesso di immobili, in deroga
alle norme della zona territoriale omogenea della quale
fanno parte”.
Per quanto più specificamente interessa in questa sede, la
parte finale del comma 4 indica che “non sono ammesse
demolizioni con successive ricostruzioni, se non
specificamente concesso”.
La scheda relativa all’edificio n. 114, di proprietà degli
appellanti, quale tipo di intervento ammesso prevede: “demolizione
dell’accessorio sul lato ovest e riduzione della sporgenza
del poggiolo a cm. 50 con eliminazione dei pilastri.
Ampliamento e sopraelevazione dell’edificio ad Ovest in
continuità di quello ad Est”.
Di talché, non sussiste dubbio che l’edificio di proprietà
dei signori Lo. e Pe., quale bene rientrante in una zona
paesaggisticamente tutelata, ai sensi della specifica e non
contestata normativa urbanistica, non avrebbe potuto essere
interamente demolito e successivamente ricostruito.
La concessione ad eseguire l’attività edilizia rilasciata
dal Comune di Creazzo in data 20.09.2001 ha avuto ad oggetto
i lavori di ristrutturazione con ampliamento e
sopraelevazione di un fabbricato residenziale in via Po.,
con esecuzione delle opere come richieste secondo gli
allegati grafici di progetto che, debitamente vistati, fanno
parte integrante della concessione e, comunque, nel rispetto
delle leggi, dei regolamenti vigenti, delle condizioni e
prescrizioni tutte contenute nel provvedimento abilitativo e
negli atti allegati.
Gli stessi appellanti hanno rappresentato che la concessione
prevedeva il mantenimento di due tratti delle pareti sud e
nord (oltre a quella est, condivisa con un edificio attiguo
e di proprietà di un soggetto terzo) ed hanno specificato
che per la parti che sarebbero risultate ammalorate, era
stata consentita la sostituzione mediante la tecnica c.d.
del “cuci e scuci”.
Il Collegio rileva in primo luogo che la suddetta tecnica
del “cuci e scuci” è una tecnica di riparazione (o
consolidamento) delle lesioni di murature e consiste nella
sostituzione delle parti ammalorate di muratura mediante
rifacimento con materiale nuovo e, quindi, non può trarsi
dalla previsione del possibile utilizzo di tale tecnica,
come pure sembrano adombrare gli appellanti nei loro scritti
difensivi, una facoltà di demolizione e ricostruzione, del
tutto esclusa invece dalla strumentazione urbanistica così
come dal provvedimento concessorio.
Pertanto, mentre la parete ovest poteva essere demolita per
effettuare il richiesto ampliamento, non sussiste alcun
dubbio che le pareti nord e sud (oltre la est condivisa con
edificio attiguo) non potessero essere demolite e
ricostruite perché ciò era vietato sia dalla concessione
edilizia “a valle” sia dagli strumenti urbanistici di
governo del territorio “a monte”.
Parimenti, non sussiste dubbio sul fatto che la tutela
paesaggistica non riguarda solo l’elemento naturalistico
della collina, ma anche, come riportato nell’art. 26 delle
NTA al PRG, aggregazioni edilizie, singoli edifici e
manufatti che rivestono carattere storico-artistico o di
particolare pregio ambientale.
Di talché, può ritenersi certo che un’istanza presentata
dall’avente titolo volta ad ottenere la concessione per
demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto –così come
materialmente avvenuto, con creazione di un nuovo manufatto-
non avrebbe potuto trovare accoglimento in quanto non
ammessa dal piano regolatore generale per il valore
paesaggistico dell’originario edificio.
L’art. 76, comma 8, della L.R. Veneto n. 61 del 1985 dispone
che, “anche in deroga ad altre leggi regionali, ai
regolamenti e alle previsioni degli strumenti urbanistici,
il Sindaco è autorizzato a rilasciare le concessioni o le
autorizzazioni per la ricostruzione di edifici o di loro
parte o comunque di opere edilizie o urbanistiche,
integralmente o parzialmente distrutti a seguito di eventi
eccezionali o per cause di forza maggiore”.
La norma, nel fare riferimento ad eventi eccezionali o a
cause di forza maggiore, circoscrive la propria operatività
ad eventi che siano al contempo imprevedibili ed inevitabili
e, quindi, nemmeno in parte riconducibile alla iniziativa
degli interessati. Nello stesso senso va inteso il
riferimento alla fattispecie della “distruzione”
dell’edificio, ossia ad un evento dovuto a cause esterne
rispetto all’azione dei proprietari e come tale nettamente
distinto rispetto alla demolizione effettuata dagli stessi.
La contestuale presenza della imprevedibilità e della
inevitabilità, nel caso di specie, non è stata dimostrata e
non è rinvenibile.
Nella memoria e consulenza tecnica redatta dall’ing. Pa.Ro.,
in data 22.05.2003, su incarico dei signori Lo. e Pe., è
indicato, a pag. 5, che “il fabbricato in questione, così
come si presenta ai giorni nostri, è stato oggetto di una
ristrutturazione complessiva per la parte originaria, dove
progressivamente è stata sostituita la parte povera di
parametro murario senza alcun elemento di pregio … e
successivamente fedelmente ricostruita, fino al completo
rinnovo dell’organismo edilizio”, per cui la demolizione
e ricostruzione sembra essere frutto di una scelta, sia pure
originata da una valutazione tecnica, non certo di un evento
al contempo imprevedibile ed inevitabile.
Inoltre, dalla perizia statica redatta dal direttore dei
lavori ing. Gu. Da. Ve., incaricato dai signori Lo. e Pe.,
asseverata in data 17.07.2003, a pag. 5 si legge che “stante
le condizioni sopra accennate, ai fini della stabilità
dell’intera struttura, non risultava proponibile né
realizzabile, in concreto, un intervento di recupero
conservativo delle parti di muratura non previste da
demolizione”.
In definitiva, deve ritenersi che, già prima dell’inizio dei
lavori, fosse stata accertata –o fosse comunque accertabile-
l’impossibilità o l’inopportunità di eseguire il progetto
come assentito dal provvedimento abilitativo.
Tuttavia, gli interessati hanno provveduto ad effettuare la
vietata demolizione e ricostruzione dell’intero manufatto
senza avere preventivamente avanzato istanza di variante
(istanza che, come più volte detto, non avrebbe potuto
trovare accoglimento in applicazione degli strumenti
urbanistici in vigore), tanto che l’intervenuta demolizione
e ricostruzione è stata accertata dall’Ufficio Tecnico con
sopralluogo in data 05.02.2003 e l’istanza di variante è
stata integrata il successivo 05.03.2013.
In conclusione, dal quadro sopra descritto, emerge con
nitidezza che nessun accadimento eccezionale né alcun evento
imprevedibile e inevitabile aveva imposto la vietata
demolizione dell’intero manufatto e che, di conseguenza,
tale decisione, sia pure supportata da considerazioni
tecniche, è stata assunta dagli interessati che hanno messo
l’amministrazione dinanzi al “fatto compiuto”.
D’altra parte, la sentenza del Tribunale di Vicenza, Sezione
Penale, n. 850 del 2008, nell’escludere il valore
scriminante delle circostanze afferenti alla salvaguardia
della incolumità del cantiere e alla irreparabilità della
situazione dei manufatti, che sarebbero state, secondo la
prospettazione di parte, alla base della decisione di far
abbattere i muri vecchi e di ricostruirne i nuovi, ha
indicato che “la situazione di crollo parziale e di non
recuperabilità non è dimostrata, come non è dimostrato
perché non potessero essere attivate procedure di
salvaguardia e di restauro, certo costoso più della
demolizione, ma ben possibile come la comune esperienza del
recupero dei beni storici insegna. Anche i testi … che
materialmente hanno eseguito le demolizioni nulla hanno
detto circa pericoli od altro; hanno riferito della
condizione del muro, normale, e dell’ordine ricevuto … di
demolirlo. Nessun panico, nessuna situazione drammatica che
imponeva drastiche misure”.
Ne consegue la insussistenza dei presupposti per
l’applicazione alla fattispecie dell’art. 76, comma 8, della
L.R. Veneto n. 61 del 1985 (norma che, comunque, riconosce
al Sindaco una mera facoltà di autorizzare l’intervento, e
non un obbligo).
2.2 Per quanto concerne l’utilizzo della locuzione “decadenza”
nel contestato provvedimento dell’amministrazione comunale
del 31.10.2003, il Collegio rileva che, al di là del
nomen iuris, sia ben chiara la volontà del Comune di
ritenere il titolo abilitativo venuto meno per inesistenza
sopravvenuta dell’oggetto.
L’amministrazione, infatti, ha correttamente evidenziato che
“il fabbricato originario oggetto di tutela ambientale e
scheda Beni Culturali, non esiste più, mentre il fabbricato
ricostruito si può considerare una falso rispetto a quello
tutelato” e che “la conservazione di un edificio vincolato è
incompatibile anche da un punto di vista del buon senso con
la falsificazione dell’edificio mediante totale demolizione
e ricostruzione dello stesso, poiché in tal caso si avrebbe
una costruzione solo apparentemente simile a quella
originaria degna di tutela, che in realtà costituisce un
falso storico, atto che in sé snatura di fatto il concetto
stesso di tutela”.
In sostanza, il manufatto originario, nella sua architettura
storica che costituiva l’oggetto della tutela, non esiste
più, sicché non può dar vita ad alcuna ricostruzione
giuridicamente titolata ed il nuovo manufatto è stato
legittimamente (rectius: doverosamente) ritenuto
totalmente abusivo.
Per tale ragione, l’ipotesi esula da quella di cui all’art.
3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 che tra gli
interventi di “ristrutturazione edilizia” comprende
quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria del manufatto preesistente che, ove
eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale
difformità, danno luogo alle conseguenze di cui all’art. 33
d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, alla sanzione
pecuniaria di cui al secondo comma dello stesso anziché
all’ingiunzione di demolizione di cui all’art. 31 del testo
unico per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali.
La demolizione di un bene vincolato –ove lo specifico
vincolo precluda in assoluto l’integrale demolizione
dell’edificio esistente- e la costruzione di altro
manufatto, sia pure in ipotesi con la stessa volumetria
(identità del nuovo volume, peraltro, smentita dal
provvedimento in contestazione), come detto, determinano una
ontologica differenza tra il manufatto originario oggetto di
tutela, che non c’è più, ed il manufatto successivo, che non
può essere considerato una ricostruzione del precedente, ma
deve ritenersi completamente nuovo e, quindi, totalmente
abusivo per l’assenza del necessario permesso di costruire.
D’altra parte, l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che “restano ferme le disposizioni in materia
di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel
d.lgs. n. 490 del 1999” (ed ora nel d.lgs. n. 42/2004),
la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico e le altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia. La tutela del paesaggio, quindi, ha
assunto una portata generale e prevalente rispetto alla
pianificazione urbanistica, per cui la tutela dei beni
culturali e del paesaggio, aggiungendosi a quella in materia
urbanistica ed edilizia, può legittimamente porre vincoli
ulteriori.
In definitiva, le prescrizioni a tutela dei beni culturali e
del paesaggio, per il loro valore vincolante, non possono
ritenersi derogate dalle classificazioni definitorie di cui
all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr. Cons. Stato, IV,
07.04.2015, n. 1764).
Né a diverse conclusioni può condurre il rilievo che l’art.
3, comma 1, lett. d), ultimo periodo, d.lgs. n. 380/2001
riconduca alla nozione di ristrutturazione anche la
demolizione e ricostruzione di beni vincolati, laddove la
ricostruzione avvenga con identità non solo di volume ma
anche di sagoma; tale previsione, infatti, può trovare
applicazione solo quando lo specifico vincolo apposto non
sia diretto a preservare l’identità storica del bene e a
vietare a tal fine proprio l’integrale demolizione dello
stesso.
In altri termini, la demolizione e ricostruzione di un bene
vincolato, anche se effettuata con identità di sagoma e
volume, si pone fuori dal concetto di ristrutturazione
edilizia consentita dall’art. 3, comma 1, lett. d), ultimo
periodo, d.lgs. n. 380/2001 quando lo specifico vincolo sia
incompatibile con la demolizione del bene e postuli, invece,
come nella fattispecie in esame, la conservazione delle mura
perimetrali originali o di parti di esse, prevalendo in tal
caso, in base al generale criterio di coordinamento fissato
dal citato art. 1, comma 2, d.P.R. n. 380/2001, le esigenze
di tutela del bene nella sua identità storica fatte valere
ai sensi del d.lgs. n. 42/2004.
Le considerazioni sopra esposte non solo attestano
l’infondatezza delle doglianze proposte dagli appellati
avverso le statuizioni con cui il giudice di primo grado ha
respinto l’azione di annullamento proposta con il ricorso
introduttivo del giudizio, ma sono anche alla base
dell’infondatezza delle ulteriori censure proposte nella
presente sede di appello.
3. I signori Lo. e Pe., con riferimento alle statuizioni con
cui in primo grado è stata respinta l’azione di annullamento
contenuta nel primo atto di motivi aggiunti, hanno sostenuto
che l’affermazione contenuta nel provvedimento di diniego
dell’istanza di sanatoria -secondo cui nessun rilievo
potrebbe essere attribuito a quanto disposto dalla adottata
variante al PRG giacché l’intervento sarebbe in contrasto
con il PRG vigente- sarebbe viziata dalla erronea e falsa
applicazione dell’art. 97 della L.R. 61/1985.
Il descritto provvedimento del 31.10.2003, impugnato con
l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha
respinto, per violazione dell’art. 97, comma 3, L.R. Veneto
n. 61 del 1985 e dell’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001,
l’istanza di variante in sanatoria alla concessione edilizia
presentata in data 30.06.2003.
Con successivo provvedimento in data 13.12.2004, impugnato
presso il TAR con un primo atto di motivi aggiunti, il
Comune di Creazzo ha confermato il diniego di sanatoria
espresso in data 31.10.2013 a seguito di istanza di riesame
presentata dagli interessati in data 31.12.2003 ed integrata
in data 21.04.2004 e in data 13.08.2004.
A prescindere dalla eccezione di inammissibilità della
censura formulata dall’amministrazione comunale in quanto
l’atto sarebbe meramente confermativo del precedente
diniego, la doglianza è senz’altro infondata in quanto
l’intervento posto in essere dagli appellanti, come detto,
si concreta in una nuova costruzione (e, quindi, in nuova
volumetria) -diversa da quella originaria che costituiva
oggetto del vincolo paesaggistico- totalmente abusiva,
essendo venuta meno, per sopravvenuta inesistenza
dell’oggetto, la concessione edilizia a suo tempo
rilasciata.
Di talché, non può trovare applicazione né la norma di legge
regionale di cui all’art. 97, comma 3, L.R. n. 61 del 1985
né la norma di legge statale di cui all’art. 36, comma 1,
d.P.R. n. 380 del 2001.
Infatti, la norma regionale prevede la sanabilità degli
interventi eseguiti in assenza o in totale difformità o con
variazioni essenziali dalla concessione, purché “non in
contrasto con la disciplina urbanistica vigente o adottata,
sia al momento della realizzazione sia al momento della
domanda”.
Analogamente, l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il
quale dispone che il permesso in sanatoria può essere
ottenuto se l’intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità, nel caso di specie
inesistente, costituisce condicio sine quanon per il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex
multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017,
n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons.
Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
La c.d. sanatoria giurisprudenziale richiamata dagli
appellanti, invece, secondo cui potrebbe essere sanata una
costruzione non conforme alle norme urbanistiche-edilizie
vigenti al momento della costruzione, ma conforme a quelle
vigenti al momento della definizione dell’istanza,
rappresenta una tesi ampiamente recessiva e non condivisa da
questo Collegio.
In ogni caso, detta tesi non è applicabile alla fattispecie
in esame sia perché la variante urbanistica invocata dagli
appellanti -la quale, per il provvedimento di diniego
contestato, è comunque difforme dalla sanatoria richiesta-
era stata adottata ma non approvata, per cui non costituiva,
alla data di emanazione dell’atto, normativa vigente, sia
perché, come evidenziato dall’amministrazione nella propria
memoria difensiva, la variante è stata modificata in sede di
approvazione (deliberazione di Giunta Regionale n. 3462 del
07.11.2016).
4. Gli appellanti hanno contestato le statuizioni della
sentenza con cui sono state respinte le censure proposte
avverso il diniego di accertamento di compatibilità
paesaggistica.
In particolare, gli interessati, evidenziando ancora una
volta l’erronea impostazione iniziale del Comune che aveva
dichiarato la decadenza del titolo edilizio, ritengono di
avere correttamente rappresentato come l’intervento, quanto
a volumi e superfici, aveva pienamente rispettato le
autorizzazioni edilizia e ambientale.
Le doglianze non sono persuasive.
L’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004
stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta
la compatibilità paesaggistica per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Per tutto quanto già in precedenza osservato, ribadito che
l’intervento realizzato ha comportato la indebita
demolizione di un edificio che, per espressa previsione
delle norme urbanistiche comunali, ormai inoppugnabili, non
poteva essere distrutto in quanto bene di valore
ambientale-architettonico da tutelare, il manufatto eretto
deve considerarsi totalmente abusivo e, quindi, costituente
nuova volumetria, sicché la fattispecie fuoriesce dal
perimetro applicativo della norma richiamata, contenuta nel
codice dei beni culturali e del paesaggio.
In altri termini, il vincolo paesaggistico riguardava il
fabbricato originario, quale testimonianza dell’architettura
tradizionale degli insediamenti nella collina di Creazzo, e,
una volta venuto meno l’immobile tutelato in quanto
distrutto, il nuovo immobile, che costituisce un aliquid
novi e non è più oggetto di tutela, rappresenta un
volume completamente nuovo in zona vincolata, con
conseguente inapplicabilità della norma che consente
l’accertamento della compatibilità paesaggistica.
5. Con riferimento alle ultime doglianze, relative alle
statuizioni della sentenza di primo grado che hanno respinto
l’azione di annullamento, proposta con i terzi motivi
aggiunti, avverso il diniego delle istanze di condono
edilizio presentate dagli interessati, è sufficiente
richiamare ancora una volta l’attenzione sul fatto che, a
differenza di quanto prospettato dagli appellanti,
l’intervento, in quanto totalmente abusivo perché frutto
della demolizione di un immobile tutelato, è valutabile in
termini di superficie e di volume.
Tale opera abusiva, di conseguenza, non è suscettibile di
sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del
d.l. 30.09.2003, n. 269 conv. in legge n. 326 del 2003 e
dell’art. 3, comma 3, L.R. Veneto n. 21 del 2004, non
essendo comunque suscettibili di sanatoria le opere abusive
che “d) siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela […] dei beni ambientali e paesistici […] qualora
istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza
o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli
strumenti urbanistici” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.07.2018 n. 4690 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
Sulla sanzione pecuniaria
(di importo compreso tra
2.000,00 € e 20.000,00 €)
ex art. 31, comma 4-bis, DPR n. 380/2001. |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n.
380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione pecuniaria è sempre
inflitta nella misura massima, senza alcun margine di
discrezionalità circa la sua graduazione, nel caso di abusi
realizzati "sulle aree e sugli edifici" di cui all'art. 27,
comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè solo su quelle
"aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle tipologie
vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella
summenzionata disposizione, vale a dire:
1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità";
2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962,
n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni"
(relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di
aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di
"Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a
"vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti
a limitazioni nella loro utilizzazione";
4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n.
1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924,
n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel
Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26
del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895,
che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L.
22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni culturali e
ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n.
352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del
paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs.
n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di
quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per
le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii.;
7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
---------------
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di ragionevolezza e proporzionalità della entità della
sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree
e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria
“ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro
20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del
2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio
in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe
la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente)
la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione
legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente
realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia
nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione
di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente
agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed
in quei particolari (e circoscritti) "edifici"
specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso
D.P.R. n. 380 del 2001”.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 292 del 17.09.2015
con cui il comune di Avellino -sportello unico per
l'edilizia- ha ingiunto al ricorrente il pagamento di una
sanzione amministrativa ai sensi dell'art. 31, comma 4-bis,
del d.p.r. 380/2001.
...
1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità del
provvedimento n. 292 del 17.09.2015 con cui il comune di
Avellino ha rilevato la mancata ottemperanza da parte del
responsabile dell’ordine di demolizione n. 43 del 2015
emesso per la rimozione di opere edilizie realizzate sine
titulo ed ha ingiunto il pagamento di una sanzione
amministrativa pari ad euro 20.000 ai sensi dell'art. 3,
comma 4-bis, del d.p.r. 380/2001.
Trattasi, nella specie, di opere realizzate senza titolo in
area sottoposta a vincolo paesaggistico.
...
4.2 Con la formulata censura di illegittimità costituzionale
dell’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. 380 del 2001, il
ricorrente deduce, sostanzialmente, che tale norma -in
combinato disposto con l'art. 27, comma 2, dello stesso
Testo Unico-, assoggettando alla sanzione pecuniaria massima
di Euro 20.000,00 tutti gli abusi commessi "sulle aree e
sugli edifici di cui al comma 2 dell'art. 27" del D.P.R.
n. 380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e
della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero
presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui
predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive
dimensioni delle opere (nel caso in esame, trattasi di “baracca
in lamiera di 12 mq.”)-, contrasterebbe con i principi
costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza.
A tale proposito il Collegio intende confermare il giudizio
di infondatezza della prospettata censura ribadendo quanto
già espresso nella sentenza n. 103 del 16.01.2017 nella
quale è stato precisato che: “In base all'art. 31, comma
4- bis, del D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. la sanzione
pecuniaria è sempre inflitta nella misura massima, senza
alcun margine di discrezionalità circa la sua graduazione,
nel caso di abusi realizzati "sulle aree e sugli edifici" di
cui all'art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, cioè
solo su quelle "aree" e su quegli "edifici" ricadenti nelle
tipologie vincolistiche specificamente e tassativamente
indicate nella summenzionata disposizione, vale a dire:
1) "aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità";
2) aree "destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962,
n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni"
(relativa a "Disposizioni per favorire l'acquisizione di
aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare");
3) "aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267" (recante disposizioni in materia di
"Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani"), ossia aree sottoposte a
"vincolo per scopi idrogeologici" ovvero boschi "sottoposti
a limitazioni nella loro utilizzazione";
4) aree "appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n.
1766" (rubricata "Conversione in legge del R.D. 22.05.1924,
n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel
Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica l'art. 26
del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D. 16.05.1926, n. 895,
che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R.D.L.
22.05.1924, n. 751"), ossia gravate da usi civici;
5) "aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" ("Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni culturali e
ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 08.10.1997, n.
352"), ed attualmente le corrispondenti aree di cui al D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 ("Codice dei beni culturali e del
paesaggio", a seguito dell'abrogazione espressa del D.Lgs.
n. 490 del 1999 , operata dall'art. 184 del D.Lgs.
22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai sensi di
quanto disposto dall'art. 183 dello stesso Decreto);
6) "opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii. "o su beni di interesse archeologico, nonché per
le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490" e
ss.mm.ii.;
7) "aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato".
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di ragionevolezza e proporzionalità della entità della
sanzione di Euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se "realizzati sulle aree
e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato".
Difatti, come condivisibilmente osservato in sede pretoria
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, Sent., 12/07/2016, n. 1105)
“ciò che viene sanzionato -nella misura massima di Euro
20.000,00- dall'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380 del
2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione dell'abuso edilizio
in sé considerato (nel qual caso, evidentemente, rileverebbe
la consistenza e l'entità dello stesso), bensì (unicamente)
la mancata spontanea ottemperanza all'ordine di demolizione
legittimamente impartito dalla P.A. per opere abusivamente
realizzate in zona vincolata, che è condotta (omissiva)
identica, sia nel caso di abusi edilizi macroscopici, sia
nell'ipotesi di più modesti abusi edilizi: il disvalore (ex
se rilevante) "colpito" è l'inottemperanza all'ingiunzione
di ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente
agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) "aree" ed
in quei particolari (e circoscritti) "edifici"
specificamente indicati nell'art. 27, comma 2, dello stesso
D.P.R. n. 380 del 2001”.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità
costituzionale dell'art. 31, comma 4-bis, del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con
l'art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico- si appalesa
manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate”.
5. Per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso è
infondato e va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 06.07.2018 n. 1045 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e
ss.mm.ii. dispone che “L'autorità competente, constatata
l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga
una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso
tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in
caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui
al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a
rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre
irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella
misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa
la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle aree
e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su quegli “edifici”
ricadenti nelle tipologie vincolistiche specificamente e
tassativamente indicate nella summenzionata disposizione,
vale a dire:
1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme
urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità”;
2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge
18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed
integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire
l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica
e popolare”);
3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di
“Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a
“vincolo per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti
a limitazioni nella loro utilizzazione”;
4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927,
n. 1766” (rubricata “Conversione in legge del R.D.
22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi
civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484, che modifica
l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del R.D.
16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati
dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia gravate
da usi civici;
5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490” (“Testo
unico delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L.
08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le corrispondenti aree
di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice dei beni
culturali e del paesaggio”, a seguito dell’abrogazione
espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata dall'art. 184 del
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal 01.05.2004, ai
sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello stesso
Decreto);
6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento
nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o
dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi
degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e
ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché per
le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490” e
ss.mm.ii.;
7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato”.
---------------
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione
di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle aree
e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella
misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione
dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso,
evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea
ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente
impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel
caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante)
“colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di ripristino
(legittimamente impartita dalla P.A.) inerente agli abusi in
quelle particolari (e circoscritte) “aree” ed in quei
particolari (e circoscritti) “edifici” specificamente
indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n.
380/2001.
---------------
0. - Il ricorso è infondato nel merito e va respinto, così
come manifestamente infondata è la questione di legittimità
costituzionale prospettata dalla ricorrente, per le
motivazioni di seguito riportate.
1. - Osserva la Sezione che il gravame si basa,
essenzialmente, sulla censura di illegittimità
costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 (inserito dall'art. 17, comma 1, lett.
q-bis del D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164), in combinato
disposto con l’art. 27, comma 2, dello stesso D.P.R. n.
380/2001.
Difatti, ad avviso del Collegio, alcun eccesso di potere è
imputabile, nel caso di specie, al civico Ente resistente,
posto che quest’ultimo si è limitato ad irrogare
(doverosamente e correttamente) la sanzione pecuniaria nella
misura massima di euro 20.000,00, facendo applicazione
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e
ss.mm., (testualmente) “in ragione del sistema
vincolistico dell’area”, atteso -come pure
condivisibilmente rilevato dal Comune di Nardò- il carattere
obbligatorio e vincolato della sanzione pecuniaria di cui al
novellato art. 31, comma 4-bis, del T.U. Edilizia n.
380/2001 nell’ipotesi in cui ricorrano -come nella
fattispecie in esame- i relativi (stringenti e tassativi)
presupposti: si tratta, infatti, di abuso realizzato (come
già evidenziato nella parte “Fatto”) in “zona già
sottoposta a Vincolo Paesaggistico di cui al D.M. del
04.09.1975 … ovvero attualmente compresa nel P.P.T.R.
adottato con D.G.R. n. 1435 del 02.08.2013” - così
l’ordinanza n. 94/2015).
L’impugnazione dell’ordinanza n. 94 del 25.02.2015 è, poi,
irricevibile per tardività (e, comunque, la relativa
impugnazione è proposta solo in via tuzioristica -“ove
occorra”-, senza prospettare alcuno specifico vizio
della stessa). Peraltro, non risulta (agli atti del
giudizio) che alcun gravame sia stato azionato neppure
avverso il (presupposto) diniego di sanatoria edilizia ex
Lege n. 47/1985.
1.1 - Ciò premesso, osserva la Sezione che la ricorrente
deduce, sostanzialmente, che l’art. 31, comma 4-bis, del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto
con l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico-,
assoggettando alla sanzione pecuniaria massima di €
20.000,00 tutti gli abusi commessi “sulle aree e sugli
edifici di cui al comma 2 dell’art. 27” del D.P.R. n.
380/2001 -senza tenere conto della relativa consistenza e
della concreta lesività degli stessi, sulla base del mero
presupposto oggettivo di essere stati realizzati sui
predetti edifici ed aree ed a prescindere dalle effettive
dimensioni delle opere (nel caso in esame, l’immobile misura
“soli mq 37 per un volume pari a 111,48 mc”)-,
contrasterebbe con i principi costituzionali di
proporzionalità e ragionevolezza, nonché con il principio di
uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della stessa Carta
Fondamentale (assimilando, quoad poenam, una gamma di
comportamenti che possono assumere natura ed entità
estremamente variabile).
La previsione di una “pena in misura fissa”
contrasterebbe, inoltre, con il diritto di difesa di cui
all’art. 24 della Costituzione, nonché con i principi
inerenti alla funzione giurisdizionale di cui agli artt. 101
e 102 della Costituzione ed alla funzione rieducativa della
pena di cui al successivo art. 27, primo e terzo comma
(essendo del tutto irragionevole l’automatismo “legislativo”
della sanzione stessa). La sanzione nella misura fissa di
euro 20.000,00, poi, risulterebbe, da un lato,
eccessivamente gravosa nel caso di abusi di piccole
dimensioni, dall’altro non potrebbe sortire alcuna efficacia
dissuasiva rispetto ad immobili abusivi di enormi
dimensioni.
1.2 - La questione di legittimità costituzionale
prospettata, sia pure suggestivamente argomentata, è, ad
avviso del Collegio, manifestamente infondata.
L’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii.
dispone che “L'autorità competente, constatata
l'inottemperanza” (all’ingiunzione di demolizione), “irroga
una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso
tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre
misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in
caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui
al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a
rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre
irrogata nella misura massima”.
La sanzione pecuniaria, quindi, è sempre inflitta nella
misura massima, senza alcun margine di discrezionalità circa
la sua graduazione, nel caso di abusi realizzati “sulle
aree e sugli edifici” di cui all’art. 27, comma 2, del
D.P.R. n. 380/2001, cioè solo su quelle “aree” e su
quegli “edifici” ricadenti nelle tipologie
vincolistiche specificamente e tassativamente indicate nella
summenzionata disposizione, vale a dire:
1) “aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità”;
2) aree “destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad
interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla
legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed
integrazioni” (relativa a “Disposizioni per favorire
l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica
e popolare”);
3) “aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto
30.12.1923, n. 3267” (recante disposizioni in materia di
“Riordinamento e riforma della legislazione in materia di
boschi e di terreni montani”), ossia aree sottoposte a “vincolo
per scopi idrogeologici” ovvero boschi “sottoposti a
limitazioni nella loro utilizzazione”;
4) aree “appartenenti ai beni disciplinati dalla legge
16.06.1927, n. 1766” (rubricata “Conversione in legge
del R.D. 22.05.1924, n. 751, riguardante il riordinamento
degli usi civici nel Regno, del R.D. 28.08.1924, n. 1484,
che modifica l'art. 26 del R.D. 22.05.1924, n. 751, e del
R.D. 16.05.1926, n. 895, che proroga i termini assegnati
dall'art. 2 del R.D.L. 22.05.1924, n. 751”), ossia
gravate da usi civici;
5) “aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490”
(“Testo unico delle disposizioni legislative in materia
di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1
della L. 08.10.1997, n. 352”), ed attualmente le
corrispondenti aree di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (“Codice
dei beni culturali e del paesaggio”, a seguito
dell’abrogazione espressa del D.Lgs. n. 490/1999, operata
dall'art. 184 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, a decorrere dal
01.05.2004, ai sensi di quanto disposto dall'art. 183 dello
stesso Decreto);
6) “opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati
monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge
o dichiarati di interesse particolarmente importante ai
sensi degli articoli 6 e 7 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490”
e ss.mm.ii. “o su beni di interesse archeologico, nonché
per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a
vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del titolo II del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490”
e ss.mm.ii.;
7) “aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto
elevato” (pertanto, destituita di ogni fondamento appare
la prospettazione operata dalla ricorrente -v. pagg. 12 e 13
del ricorso introduttivo-, a mente della quale,
sostanzialmente, il richiamo all’art. 27, comma 2, di cui al
citato art. 31, comma 4-bis del D.P.R. n. 380/2001,
comporterebbe l’applicazione della sanzione pecuniaria
massima non solo agli abusi realizzati in aree ed immobili
rientranti nei prefati sistemi vincolistici, ma anche “in
tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici”).
Orbene, considerato il corretto ambito di applicazione delle
su riportate disposizioni normative, non si ravvisa, ad
avviso del Tribunale, la denunciata violazione dei principi
di uguaglianza e proporzionalità della entità della sanzione
di euro 20.000,00 in relazione ad abusi edilizi non
macroscopici (come nella specie), se “realizzati sulle
aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato”.
Difatti, -a ben vedere- ciò che viene sanzionato -nella
misura massima di euro 20.000,00- dall’art. 31, comma 4-bis,
del D.P.R. n. 380/2001 e ss.mm.ii. non è la realizzazione
dell’abuso edilizio in sé considerato (nel qual caso,
evidentemente, rileverebbe la consistenza e l’entità dello
stesso), bensì (unicamente) la mancata spontanea
ottemperanza all’ordine di demolizione legittimamente
impartito dalla P.A. per opere abusivamente realizzate in
zona vincolata, che è condotta (omissiva) identica, sia nel
caso di abusi edilizi macroscopici, sia nell’ipotesi di più
modesti abusi edilizi: il disvalore (ex se rilevante)
“colpito” è l’inottemperanza all’ingiunzione di
ripristino (legittimamente impartita dalla P.A.) inerente
agli abusi in quelle particolari (e circoscritte) “aree”
ed in quei particolari (e circoscritti) “edifici”
specificamente indicati nell’art. 27, comma 2, dello stesso
D.P.R. n. 380/2001.
In definitiva, la sollevata censura di illegittimità
costituzionale dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 e ss.mm.ii. -in combinato disposto con
l’art. 27, comma 2, dello stesso Testo Unico– si appalesa
manifestamente infondata, per le ragioni innanzi illustrate.
2. - Per tutto quanto innanzi esposto, il presente ricorso
deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 12.07.2016 n. 1105 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il titolo edilizio si perfeziona
indipendentemente dalla corresponsione degli oneri di
urbanizzazione, come si ricava anche dal tenore dell’art.
42, comma 3, della l.r. n. 12/2005 (“la quota relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al comune entro trenta giorni successivi alla
presentazione della denuncia di inizio attività, fatta salva
la facoltà di rateizzazione”).
Del resto l’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede
l’applicazione di una sanzione pecuniaria rapportata
all’entità del contributo in caso di mancato pagamento e per
il suo ritardo, con la possibilità per i Comuni di tutelarsi
mediante la riscossione coattiva (anche se con riferimento
al permesso di costruire).
Ciò risulta avallato, oltre che dal dato normativo –art. 44,
comma 13, della legge regionale n. 12 del 2005 [“L’ammontare
dell’eventuale maggior somma va sempre riferito ai valori
stabiliti dal comune alla data (…) di presentazione della
denuncia di inizio attività”]–, altresì dalla giurisprudenza
maggioritaria, secondo la quale il momento su cui appuntare
l’affidamento della parte istante è quello della
presentazione della denuncia, che coincide con il momento
perfezionativo per consolidazione postuma e non in quello in
cui la stessa acquisterebbe efficacia, trovandosi al
cospetto non di un provvedimento amministrativo tacito o
implicito, ma semplicemente di un atto del privato, cui va
applicata la disciplina legislativa vigente al momento della
presentazione della denuncia alla Pubblica Amministrazione.
---------------
Conseguenza di quanto evidenziato in precedenza è
l’inapplicabilità alla denuncia di inizio attività della
normativa sopravvenuta alla sua presentazione, anche in
relazione agli aggiornamenti delle tariffe riguardanti gli
oneri, trattandosi di una modalità abilitativa alla
realizzazione dell’intervento edilizio la cui disciplina
risulta impermeabile ai mutamenti normativi successivi.
---------------
2.2. Pertanto, va stabilito se il mancato tempestivo
versamento degli oneri e dei contributi di urbanizzazione
abbia impedito il perfezionamento del titolo edilizio e se
in sede di riscossione degli oneri avrebbe dovuto essere
applicata la normativa vigente in quel momento oppure quella
in vigore all’atto di presentazione del titolo.
In primo luogo va evidenziato che il titolo edilizio si
perfeziona indipendentemente dalla corresponsione degli
oneri di urbanizzazione, come si ricava anche dal tenore
dell’art. 42, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005
(“la quota relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al comune entro trenta giorni successivi alla
presentazione della denuncia di inizio attività, fatta salva
la facoltà di rateizzazione”).
Del resto l’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede
l’applicazione di una sanzione pecuniaria rapportata
all’entità del contributo in caso di mancato pagamento e per
il suo ritardo, con la possibilità per i Comuni di tutelarsi
mediante la riscossione coattiva (anche se con riferimento
al permesso di costruire, cfr. TAR Lombardia, Milano, II,
14.11.2017, n. 2173).
Ciò risulta avallato, oltre che dal dato normativo –art. 44,
comma 13, della legge regionale n. 12 del 2005 [“L’ammontare
dell’eventuale maggior somma va sempre riferito ai valori
stabiliti dal comune alla data (…) di presentazione della
denuncia di inizio attività”]–, altresì dalla
giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale il momento su
cui appuntare l’affidamento della parte istante è quello
della presentazione della denuncia, che coincide con il
momento perfezionativo per consolidazione postuma e non in
quello in cui la stessa acquisterebbe efficacia, trovandosi
al cospetto non di un provvedimento amministrativo tacito o
implicito, ma semplicemente di un atto del privato, cui va
applicata la disciplina legislativa vigente al momento della
presentazione della denuncia alla Pubblica Amministrazione
(cfr. Consiglio di Stato, IV, 13.05.2013, n. 2593;
04.09.2012, n. 4669; TAR Lombardia, Milano, II, 04.03.2016,
n. 434; 16.06.2014, n. 1578).
Conseguenza di quanto evidenziato in precedenza è
l’inapplicabilità alla denuncia di inizio attività della
normativa sopravvenuta alla sua presentazione, anche in
relazione agli aggiornamenti delle tariffe riguardanti gli
oneri, trattandosi di una modalità abilitativa alla
realizzazione dell’intervento edilizio la cui disciplina
risulta impermeabile ai mutamenti normativi successivi (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 13.052013, n. 2593).
Nella fattispecie oggetto del presente contenzioso, la
d.i.a. presentata dalla ricorrente in data 03.11.2005, in
quanto completa di tutti gli elementi costitutivi, risulta
certamente efficace e, di conseguenza, in aderenza ai sopra
citati orientamenti giurisprudenziali non può essere
assoggettata al regime tariffario –più oneroso– introdotto
con la sopravvenuta deliberazione consiliare n. 2 del
25.01.2006 (all. 3 del Comune).
Pertanto, ferma restando la possibilità per gli Uffici
comunali di applicare nel termine prescrizionale le
pertinenti sanzioni per l’omesso o ritardato pagamento di
cui all’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, nessun
aggiornamento tariffario, rispetto alla disciplina in vigore
alla data del 03.11.2005, poteva essere imposto alla
società ricorrente.
2.3. Va, da ultimo, chiarito che il precedente
giurisprudenziale citato dalla difesa del Comune –TAR Lazio,
Roma, II-bis, 20.12.2017, n. 12542– oltre a non essere in
linea con l’orientamento, in precedenza richiamato, che
appare assolutamente maggioritario, si riferisce ad una
dichiarazione di inefficacia della d.i.a., mentre nella
questione oggetto di scrutinio è stato chiesto soltanto il
pagamento del contributo di costruzione in misura maggiore
rispetto a quanto calcolato dalla parte istante, sul
presupposto implicito della perdurante efficacia della
d.i.a. (i cui lavori peraltro sono stati conclusi, con
l’ottenimento dell’agibilità: all. 14 e 15 al ricorso),
seppure a posteriori contraddittoriamente negato (cfr. nota
del 13.12.2007, punto 3: all. 2 del Comune).
2.4. In conclusione, deve essere affermata la fondatezza
della scrutinata censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.03.2018 n. 730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Codice
contratti pubblici: regolamento su incentivi.
Il testo del regolamento incentivi (ai sensi dell'art. 113,
comma 2, del codice dei contratti pubblici) elaborato da
Itaca (l'istituto per l'innovazione e la trasparenza degli
appalti e la compatibilità ambientale) è stato approvato
dalla Conferenza delle Regioni e della Province autonome
nella seduta del 26.07.2018.
●
ordine del giorno Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome seduta ordinaria del 26.07.2018
●
Schema di Regolamento recante "disciplina per la
corresponsione degli incentivi per le funzioni tecniche
previsti dall'art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016"
(tratto da e link a www.regioni.it). |
SICUREZZA LAVORO: LA
VALUTAZIONE DEL MICROCLIMA - L’esposizione al caldo e al
freddo: quando è un fattore di discomfort; quando è un
fattore di rischio per la salute (INAIL,
luglio 2018). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Modalità di fruizione dei permessi di cui all’articolo 33
della legge n. 104/1992 e del congedo straordinario di cui
all’articolo 42, comma 5, del D.lgs n. 151/2001. Chiarimenti
(INPS,
messaggio 07.08.2048 n. 3114 - link a www.inps.it). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Manifestazioni pubbliche: precisazioni sull'attivazione e
l'impiego del volontariato di protezione civile
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della
Protezione Civile,
nota 06.08.2018 n. 45427 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Nuova Circolare MIT-CSLLPP illustrativa delle NTC 2018
(Consiglio Nazionale degli Ingeneri,
circolare 01.08.2018 n. 273). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: appalto illecito ed inadempienze retributive e
contributive – indicazioni operative al personale di
vigilanza (Ispettorato Nazionale del Lavoro,
circolare 11.07.2018 n. 10/2018). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Da Lio,
Demolizione di un edificio: solo e soltanto rifiuti?
(06.08.2018 - link a www.tuttoambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: DOSSIER
SEMPLIFICAZIONI - Edilizia, Procedure amministrative,
Paesaggio: mappa delle semplificazioni (ANCE,
25.07.2018). |
APPALTI:
M. Mancini, L’ESCLUSIONE
DALLE GARE PER GRAVE ILLECITO PROFESSIONALE - Le indicazioni
dell’ANAC e della giurisprudenza (ANCE,
17.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Deroghe
agli standard urbanistici ed edilizi ai sensi dell'art.
2-bis del DPR 380/2001: quadro attuativo regionale
(ANCE, 22.01.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Cappelletti,
La Grande Camera della Corte EDU deposita l’attesa sentenza
in tema di confisca obbligatoria per lottizzazione abusiva.
In breve, gli approdi raggiunti (28.06.2018
- link a www.giurisprudenzapenale.com), |
A.N.AC. |
INCARICHI
PROGETTUALI: Professionisti,
bandi trasparenti. Disciplinare tipo per evitare anomalie negli atti di
gara. Le regole Anac per l’affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura oltre i 100 mila euro.
Approvato il bando-tipo Anac per l'affidamento di
servizi di ingegneria e architettura oltre i 100 mila euro, con procedura
aperta e aggiudicazione con l'offerta economicamente più vantaggiosa;
previste indicazioni ispirate a trasparenza e concorrenza per evitare le
anomalie degli atti di gara.
È questa la natura dell'articolato Bando tipo n. 3 predisposto dall'Autorità
nazionale anticorruzione (delibera
31.07.2018 n. 723
del Consiglio dell'Autorità, pubblicata sul sito Anac il 3 agosto) relativo
agli incarichi di servizi di ingegneria e architettura. Il provvedimento è
di fatto è un vero e proprio disciplinare-tipo in considerazione del fatto
che è nel disciplinare e non nel bando che si concentrano le esigenze più
avvertite dalle stazioni appaltanti di orientamento e standardizzazione;
entrerà in vigore 15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Il disciplinare prende in considerazione la sola procedura aperta di cui
all'art. 60 del codice dei contratti pubblici, con applicazione del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità prezzo, di cui all'art. 95, comma 2, del Codice.
Sarà applicabile alle procedure di affidamento bandite dalle amministrazioni
che operano nei settori ordinari e nel settore dei beni culturali, mentre
nei settori speciali, alla luce di quanto previsto dagli articoli 8 e 114,
commi 1 e 2, il disciplinare-tipo non è vincolante per gli enti
aggiudicatori ma è obbligatorio per le amministrazioni aggiudicatrici quando
affidano servizi e forniture non connesse con le attività di cui agli
articoli da 115 a 121 del Codice (acqua, energia e trasporti).
L'Anac precisa anche che «in caso di gara telematica le stazioni
appaltanti apporteranno le opportune modifiche al testo».
Il disciplinare è corredato di due allegati, volti a declinare e suggerire
alle stazioni appaltanti possibili criteri qualitativi per l'individuazione
dell'offerta economicamente più vantaggiosa (all. 1), nonché a fornire un
corrispondente schema di presentazione per l'offerta tecnica (all. 2),
nonché di una nota illustrativa e infine da una relazione Air che motiva le
scelte effettuate rispetto alle osservazioni degli stakeholders che hanno
partecipato alla consultazione pubblica. Il Bando tipo n. 3 «sarà oggetto
di una ulteriore verifica di impatto della regolazione, a dodici mesi dalla
pubblicazione in G.U.».
Per il calcolo dei corrispettivi (utile anche a stabilire se l'affidamento è
oltre i 100 mila euro) le stazioni appaltanti devono compilare una tabella
fornendo il dettaglio degli elementi utilizzati per il calcolo, in relazione
al tipo di incarico.
La nota illustrativa al disciplinare precisa poi che nel caso in cui le
stazioni appaltanti, dopo avere stimato l'importo dei lavori sulla base del
progetto di fattibilità realizzato all'interno, si trovino nella condizione
di dover rivedere il costo dell'opera nel corso dell'esecuzione
dell'incarico di progettazione, possono ricorrere alla clausola di cui
all'art. 106, comma 1, lett. a) che disciplina le modifiche contrattuali in
sede di esecuzione del contratto, ma a condizione che nel disciplinare siano
regolate portata, natura e condizioni delle modifiche.
Non sono invece applicabili istituti, quali il rinnovo del contratto e
quello della proroga tecnica. Fra gli elementi di interesse l'introduzione
di un limite, non previsto nel codice, per il massimale della polizza Rc
professionale (sostitutiva del requisito del fatturato): non si potrà
chiedere un importo superiore al 10% del valore dell'opera; non ammesse le
polizze ad hoc (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
INCARICHI PROGETTUALI: Bando-tipo
n. 3 - Disciplinare di gara per l’affidamento con procedura
aperta di servizi di architettura e ingegneria di importo
pari o superiore a € 100.000 con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior
rapporto qualità/prezzo (delibera
31.07.2018 n. 723 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Oggetto:
modalità di avvio dei procedimenti di verifica del possesso
dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco di cui all’art.
192 del d.lgs. n. 50/2016 e s.m.i.
(Comunicato
del Presidente 31.07.2018 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Pubblicato il Comunicato del Presidente con il quale si
forniscono modalità di avvio dei procedimenti di verifica
del possesso dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco
delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei
confronti di proprie società in house (art. 192 del d.lgs.
n. 50/2016 e s.m.i.). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Regolamento
sull’esercizio del potere dell’Autorità di richiedere il
riesame dei provvedimenti di revoca o di misure
discriminatorie adottati nei confronti del Responsabile
della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT)
per attività svolte in materia di prevenzione della
corruzione
(delibera
18.07.2018 n. 657 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Illegittimo
obbligare il sopralluogo ante gara. L'Anticorruzione
risponde a diverse segnalazioni ricevute.
Nelle procedure negoziate è illegittima la clausola che impone
obbligatoriamente il sopralluogo prima della fase di gara e quindi della
presentazione delle offerte.
Lo afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il
comunicato del presidente 18.07.2018, Raffaele Cantone, con cui
risponde a diverse segnalazioni trasmesse all'Anac.
Le segnalazioni riguardavano, in particolare, casi in cui nelle procedure
negoziate le stazioni appaltanti avevano previsto, a carico degli operatori
economici, l'effettuazione del sopralluogo come tassativa condizione da
soddisfare già nella preliminare fase della manifestazione di interesse (ad
esempio a seguito di avviso di indagine di mercato), ai fini dell'eventuale
invito alla procedura di gara.
Per l'Anac, in termini generali, il sopralluogo obbligatorio è ammissibile
laddove l'oggetto del contratto abbia una stretta e diretta relazione con le
strutture edilizie (in tale senso anche il disciplinare-tipo n. 1-2017, al
paragrafo 14 della nota illustrativa). Infatti l'articolo 79, comma 2, del
codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016) prevede che i termini di
ricezione delle offerte tengano conto dell'eventualità che le stesse possano
essere presentate soltanto previa visita dei luoghi di pertinenza per
l'esecuzione dell'appalto.
Ciò premesso, l'Anac chiarisce che la scelta di prevedere il sopralluogo
obbligatorio preliminare, ossia in un momento antecedente alla fase di gara
(e quindi alla formulazione delle offerte) non risulta legittima. In primo
luogo perché «fuoriesce dal perimetro applicativo della disposizione
recata dal predetto articolo 79, comma 2, che collega il sopralluogo alla
formulazione delle offerte».
In secondo luogo perché «determina, in violazione dei principi di
proporzionalità e libera concorrenza, un significativo ostacolo per gli
operatori economici, sotto il profilo organizzativo e finanziario, alla
competizione per l'affidamento degli appalti pubblici, considerata peraltro
la possibilità che gli operatori economici non ricevano l'invito o decidano
comunque di non presentare offerta».
Quindi il sopralluogo deve essere strettamente funzionale alla presentazione
delle offerte e solo in questi casi può essere richiesto secondo le modalità
indicate nel disciplinare-tipo (o «bando-tipo») 1-2017. In particolare l'Anac
ha specificato che il sopralluogo potrà essere effettuato da un
rappresentante legale, procuratore o da un direttore tecnico del concorrente
o da soggetto diverso munito di delega e che il delegato non debba essere
necessariamente un dipendente dell'operatore economico.
Per le modalità di svolgimento del sopralluogo, nel bando-tipo si evidenzia
che rientra nella discrezionalità della stazione appaltante fissare la
calendarizzazione del sopralluogo, nel rispetto della par condicio e
dell'anonimato dei partecipanti (vietato il sopralluogo collettivo).
L'Anac sottolinea poi che occorre garantire la massima partecipazione alla
gara e quindi: evitare di fissare date di sopralluogo troppo vicine alla
data di pubblicazione del bando e garantire un lasso di tempo, dopo lo
svolgimento del sopralluogo, congruo per la formulazione dell'offerta,
evitando di fissare date troppo vicine al termine finale per la
presentazione dell'offerta (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
APPALTI:
Commissari esterni, albo al via. Obbligatori per lavori sopra 1
mln e servizi oltre 221.000. Le istruzioni operative
dell’Anac. Iscrizioni dal 10 settembre con quota da 160 euro.
Da metà gennaio 2019 (termine di scadenza delle offerte)
gli appalti pubblici da aggiudicare con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa (Oepv) dovranno essere aggiudicati da
commissari esterni alla stazione appaltante. Per i commissari, l'iscrizione
all'albo gestito dall'Anac scatterà dal 10.09.2018. Ammonta a 160 euro la
somma da versare per l'iscrizione all'albo. L'obbligo di commissari esterni
varrà per gli appalti di lavori oltre un milione di euro e di servizi e
forniture oltre i 221 mila euro della soglia Ue, oltre che per gli appalti
«particolarmente complessi». Sono queste le indicazioni che ha fornito l'Anac
con il comunicato del presidente Raffaele Cantone recante le istruzioni
operative per l'iscrizione all'Albo nazionale obbligatorio dei commissari di
gara e per l'estrazione dei commissari.
È quindi al via uno dei pilastri attorno al quale è stato impostato il
codice degli appalti pubblici e che rappresenta una delle importanti
scommesse anche sotto il profilo della trasparenza degli affidamenti, tema
toccato questa settimana dal ministro delle infrastrutture, Danilo Toninelli,
intervenuto al senato e alla camera sulle linee programmatiche del suo
dicastero.
Le istruzioni operative per l'iscrizione all'Albo nazionale obbligatorio dei
commissari di gara e per l'estrazione dei commissari attraverso
l'applicativo predisposto per la gestione dei relativi processi, seguono
quanto previsto disposto dagli articoli 77 e 78 del Codice dei contratti
pubblici, nonché dalle Linee guida n. 5, in esito alla delibera n. 648
adottata dal Consiglio dell'Autorità il 18.07.2018.
L'Anac (Istruzioni operative per l’iscrizione all’Albo nazionale
obbligatorio dei commissari di gara e per l’estrazione dei commissari (Comunicato
del Presidente 18.07.2018) rende quindi noto di avere messo a punto un
applicativo, reso disponibile nella sezione servizi del portale
www.anticorruzione.it per gestire l'iscrizione all'Albo (possibile in ogni
momento dell'anno, pagando 160 di quota di iscrizione), il procedimento di
estrazione e la gestione dell'Albo.
Nel comunicato si invitano quindi i candidati in possesso dei requisiti di
esperienza, di professionalità e di onorabilità previsti dalle Linee guida
n. 5 a iscriversi all'Albo, a partire dal 10 settembre, utilizzando
l'applicativo, autocertificando, ai sensi del decreto del presidente della
repubblica 28.12.2000 n. 445, il possesso dei requisiti.
Sarà però necessario avere un dispositivo per la firma digitale, un
indirizzo Pec e credenziali username e password rilasciate dal sistema
dell'Autorità. Ogni anno, entro il 31 gennaio, ai fini del mantenimento
dell'iscrizione, oltre al pagamento della tariffa di iscrizione se dovuta,
l'esperto dovrà confermare tramite l'applicativo la permanenza dei requisiti
dichiarati (o l'intenzione di cancellarsi. Sarà poi la stazione appaltante a
richiedere sempre tramite l'applicativo, la lista di esperti tra cui
sorteggiare, ai sensi del dell'articolo 77, comma 3, del codice dei
contratti pubblici, i componenti esterni della commissione.
L'Anac, tramite l'applicativo, previa verifica delle informazioni inserite,
fornirà alla stazione appaltante richiedente la lista degli esperti
estratti, seguendo alcuni criteri indicati nelle istruzioni (esperienza,
numero di incarichi ricevuti) assicurando casualità di estrazione con un «servizio
esterno di randomizzazione».
L'Albo sarà quindi operativo, per le gare i cui bandi prevedano termini di
scadenza della presentazione delle offerte a partire dal 15.01.2019. Da tale
data, l'Anac intende superato il periodo transitorio di cui all'articolo
216, comma 12, primo periodo, del Codice dei contratti pubblici (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
APPALTI: Incarichi,
ribasso senza limiti. Finirebbero per ridurre la concorrenza sul prezzo. Una
delibera dell’Anac in materia di affidamento di attività di architettura e
ingegneria.
Il limite al ribasso nell'aggiudicazione di
incarichi per lo svolgimento di attività di ingegneria e architettura è
illegittimo in quanto limita la concorrenza sull'elemento prezzo e di fatto
orienta a priori l'entità del ribasso stesso.
È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il
Parere di Precontenzioso 27.06.2018 n. 610 - rif. PREC 250/17/S per una istanza di
parere relativa ad una procedura negoziata per l'affidamento di un incarico
professionale emesso da una centrale unica di committenza per un affidamento
del valore di 82 mila euro avente ad oggetto la prestazione di servizi
tecnici di architettura e ingegneria consistenti nella redazione del
progetto definitivo-esecutivo e nella direzione dei lavori, da affidarsi con
il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (Oepv) ma con un
ribasso massimo fissato al 50% dell'importo a base di gara.
La ragione addotta dalla centrale di committenza per difendere la scelta di
fissare un limite alle offerte economiche pari al 50% del valore stimato
dell'appalto era attinente alla necessità di salvaguardare la corretta
applicazione dei Ccnl.
L'Anac censura la scelta dell'amministrazione richiamando una pronuncia del
Consiglio di stato (la n. 2912 del 28.06.2016 della quinta sezione) che
aveva già affermato l'illegittimità del limite di ribasso che «introduce
un'inammissibile limite alla libertà degli operatori economici di formulare
la proposta economica sulla base delle proprie capacità organizzative e
imprenditoriali, pregiudicando, sino di fatto ad annullarlo, il confronto
concorrenziale sull'elemento prezzo».
In quel caso il limite era fissato al 12% e la motivazione era stata la
stessa del bando oggetto della delibera ma i giudici avevano specificato che
le stessa salvaguardia poteva essere realizzata attraverso lo strumento
dell'esclusione delle offerte anormalmente basse.
Ma il Consiglio di stato aveva anche espresso considerazioni negative sulla
norma dell'allora vigente regolamento del codice appalti (l'art. 266, comma
1, lettera c), che prevedeva l'obbligo per le stazioni appaltanti di
indicare nei bandi di gara un limite ai ribassi sul prezzo): «detta
disposizione», diceva il Consiglio di stato, «presenta profili di
dubbia legittimità, connessi alla violazione dei ricordati principi in
materia di tutela della concorrenza e della libertà di iniziativa economica».
In realtà già con le linee guida 1-2016 sull'affidamento dei servizi di
ingegneria e architettura l'Anac aveva eliminato l'obbligo di indicazione
del limite di ribasso, in precedenza già ritenuto contrario ai principi del
Trattato in tema di libera concorrenza.
Nella delibera di giugno l'Autorità chiarisce di nuovo il concetto: «di
fatto viene annullato il confronto concorrenziale sul prezzo, in
contraddizione con il criterio di aggiudicazione prescelto, ovvero quello
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, il cui scopo è invece quello di
ottenere da ogni singolo concorrente un'offerta che contemperi la qualità
massima delle prestazioni con il prezzo più basso possibile in relazione
alle proprie capacità aziendali, organizzative e imprenditoriali».
Entrando poi nel merito, l'Anac specifica anche che «fissando una
percentuale massima di ribasso ammesso, la Stazione appaltante «suggerisce»
già a priori quale ritiene essere il prezzo migliore e così spinge tutti i
concorrenti a formulare un'offerta economica ridotta del 50% rispetto alla
base d'asta o, quantomeno, ad approssimarsi quanto più possibile. E infatti
8 concorrenti su 17 (ma due sono stati esclusi) avevano offerto proprio il
ribasso del 50%, uno il ribasso del 49,5%, e tutti gli altri ribassi
comunque molto elevati, ovvero compresi tra il 27,54 e il 41%» (articolo
ItaliaOggi del 20.07.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’Autorità:
le piccole dimensioni del comune non giustificano un’applicazione soft delle
norme.
Mini enti nel mirino dell’Anac. Non possono sottrarsi ad adottare misure
anticorruzione.
L'Anac mette nel mirino i piccoli comuni, imponendo loro
l'adozione di misure di prevenzione della corruzione anche alternative alla
rotazione del personale.
Con la recente
delibera 13.06.2018 n. 555,
l'Authority guidata da Raffaele Cantone opera una stretta sui mini-enti, a
partire della stessa delimitazione della categoria. Secondo l'Anac, «la
costante osservazione delle realtà locali ha fatto rilevare come moltissime
amministrazioni adducono, a giustificazione dei propri inadeguati
comportamenti, le piccole dimensioni del Comune. Tale definizione
costituisce, spesso, la linea di confine tra un'applicazione piena del piano
nazionale anticorruzione e un'applicazione soft ovvero tra un comportamento
virtuoso ed uno omissivo».
Per ostacolare questa prassi, la delibera
ridefinisce la nozione stessa di «piccolo comune», che in base al Pna del
2016 includeva tutti gli enti con meno di 15.000 abitanti, abbassando
l'asticella a 5.000. Ciò sulla base di quanto previsto dalla l. 158/2017
recante «misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni» che,
all'art. 1, comma 2, definisce come tali quelli con popolazione residente
fino a 5.000 abitanti.
In considerazione di ciò, conclude Anac, non si ritiene possa considerarsi
piccolo un comune di poco meno di 15.000 abitanti (14.352), adeguatamente
strutturato ed organizzato, che conta circa 30 dipendenti e 9 posizioni
organizzative.
In tali casi, quindi, è necessario adottare apposite misure alternative,
così indicate a titolo esemplificativo:
- per le istruttorie più delicate nelle aree a rischio, promuovere
meccanismi di condivisione delle fasi procedimentali prevedendo di
affiancare al funzionario istruttore un altro funzionario, in modo che,
ferma restando l'unitarietà della responsabilità del procedimento, più
soggetti condividano le valutazioni degli elementi rilevanti per la
decisione finale dell'istruttoria;
- utilizzare il criterio della cosiddetta «segregazione delle
funzioni», che consiste nell'affidamento delle varie fasi di procedimento
appartenente a un'area a rischio a più persone, avendo cura di assegnare la
responsabilità del procedimento ad un soggetto diverso dal dirigente cui
compete l'adozione del provvedimento finale.
A tal fine, dovrebbero
attribuirsi a soggetti diversi compiti relativi a: a) svolgimento
d'istruttorie e accertamenti; b) adozione di decisioni; c) attuazione delle
decisioni prese; d) effettuazione delle verifiche.
L'amministrazione deve,
inoltre, dare luogo alla fondamentale misura della formazione dei dipendenti
per garantire che sia acquisita da parte degli stessi la qualità delle
competenze professionali e trasversali necessarie per dare alla rotazione in
senso stretto (articolo
ItaliaOggi del 24.07.2018). |
APPALTI: Gare
telematiche, offerte da inviare con anticipo. Il malfunzionamento del
sistema determina la sospensione.
In
una gara telematica il rischio di rete e il rischio tecnologico impongono al
concorrente di attivarsi per tempo per l'invio dell'offerta; il
malfunzionamento del sistema imputabile al gestore determinano la necessaria
sospensione e la proroga dei termini.
Lo
ha affermato l'Anac nel
Parere di Precontenzioso 06.06.2018 n. 537 - rif. PREC 101/18/F.
Era accaduto che un concorrente non fosse riuscito a partecipare alla
procedura telematica di affidamento di un contratto pubblico a causa
dell'impossibilità di trasmettere nei termini l'offerta, per via delle
dimensioni dei file da caricare sulla piattaforma, superiori ai limiti
massimi consentiti dal sistema.
Il concorrente, che ha formulato istanza di precontenzioso più di un anno
fa, aveva sostenuto che del vincolo tecnico non fosse stata data evidenza
nei documenti messi a disposizione del fornitore, né sul portale Mepa
«Acquisti in rete», né da parte della stazione appaltante. Soltanto
contattando il call center dedicato il fornitore aveva invece potuto
apprendere che le dimensioni dei file che costituiscono l'offerta non
possono superare complessivamente i 13 mb. Tali circostanze, ad avviso del
concorrente, avrebbero dovuto imporre alla stazione appaltante la necessità
di annullare la procedura o, in alternativa, di riaprire il termine per la
presentazione delle offerte.
Al riguardo veniva risposto che la segnalazione del concorrente era stata
comunque tardiva (effettuata il giorno successivo alla scadenza fissata per
la presentazione delle offerte) e che non si era proceduto alla segnalazione
tecnica al gestore del sistema e alla proroga del termine di presentazione
delle offerte al fine di non ledere la par condicio tra i
concorrenti.
L'Anac dirime la questione partendo da quanto affermato dalla giurisprudenza
che ha affermato che a fronte degli indiscutibili vantaggi, le gare
telematiche scontino tuttavia un rischio di rete, dovuto alla presenza di
sovraccarichi o di cali di performance della rete, ed un rischio tecnologico
dovuto alle caratteristiche dei sistemi operativi utilizzati dagli
operatori.
Risponde, quindi, al principio di autoresponsabilità l'onere di colui che
intende prendere parte alla gara di attivarsi in tempo utile per prevenire
eventuali inconvenienti che, nei minuti immediatamente antecedenti alla
scadenza del termine, gli impediscano la tempestiva proposizione
dell'offerta (come avvenuto: scadenza alle ore 12, tentativo di risposta
alla richiesta di offerta alle 11,30 e caricamento alle 11,45, non
riuscito).
Rimangono salvi, ha detto l'Autorità, i malfunzionamenti del sistema
imputabili al gestore della piattaforma (ad esempio fermi del sistema o
mancato rispetto dei livelli di servizio): in questi casi scatta la
responsabilità di quest'ultimo e la necessità di riconoscere una sospensione
o proroga del termine per la presentazione delle offerte, come peraltro ora
espressamente previsto dall'art. 79, comma 5-bis, del dlgs. 50/2016.
Nel caso esaminato, ha rilevato l'Anac, l'istante aveva iniziato le
operazioni di invio dell'offerta in un momento eccessivamente a ridosso
della scadenza e se si fossero riaperti i termini si sarebbe violata la par
condicio (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Affidamento concessioni, in gara progetto definitivo.
La concessione di lavori pubblici è affidabile ponendo a base di gara il
progetto di fattibilità tecnico-economica o il progetto definitivo.
È quanto
ha affermato l'Anac con la
delibera 09.05.2018 n. 437 con la quale si
fornisce risposta a diverse richieste di chiarimento in ordine al livello di
progettazione necessario per l'affidamento di una concessione. L'intervento
giunge in un momento in cui non è stato ancora emanato (è in corso l'iter
dei pareri) il decreto che deve definire i contenuti dei tre livelli di
progettazione.
La delibera parte dall'analisi del contenuto della concessione di lavori che
può avere per oggetto: «L'esecuzione di lavori ovvero la progettazione
esecutiva e l'esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la
progettazione esecutiva e l'esecuzione di lavori a uno o più operatori
economici riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di
gestire le opere oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un
prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo
legato alla gestione delle opere». Da ciò la conseguenza che
l'amministrazione concedente avrebbe due scelte: porre a base di gara un
progetto di fattibilità tecnico-economica (l'ex preliminare) o un progetto
definitivo.
Il codice, rispetto al principio generale dell'affidamento dei lavori sulla
base del progetto esecutivo, ha previsto una eccezione per l'appalto
integrato (ammesso, dopo il decreto 56/2017, sulla base del progetto
definitivo in casi di netta prevalenza di elementi tecnologici o
innovativi), ma non ha ben chiarito su quale livello progettuale si debbano
affidare i lavori in caso di concessione.
Le specifiche sul livello progettuale da porre a base di gara sono state
invece previste per le altre forme derogatorie del principio generale
(affidamento sull'esecutivo): è il progetto di fattibilità tecnico-economica
per la locazione finanziaria, per il Ppp, per le opere di urbanizzazione,
mentre è il progetto definitivo per il contraente generale e infine è sulla
base del solo capitolato prestazionale che si affida il contratto di
disponibilità di cui all'articolo 188 del codice.
L'Autorità ha risolto in via interpretativa la questione con la necessità di
dover fare riferimento alla definizione di concessione di lavori e quindi:
«La mancata specificazione, a differenza di quanto fatto al comma 1-bis
dell'art. 59 ove si parla espressamente di progettazione esecutiva, lascia
presupporre che il legislatore abbia inteso far riferimento alla possibilità
di affidare, congiuntamente all'esecuzione, non solo la progettazione
esecutiva ma anche la progettazione definitiva».
Inoltre, per l'Anac la possibilità di affidare la concessione di lavori
ponendo a base di gara il progetto di fattibilità tecnica ed economica e
demandando la redazione del progetto definitivo al concessionario, è
rilevabile anche da ulteriori disposizioni normative come l'articolo 165 ove
si afferma che la sottoscrizione del contratto di concessione è possibile
solo a seguito dell'approvazione del progetto definitivo (comma 3) e che in
alcuni casi di risoluzione del contratto le spese relative alla
progettazione definiva non sono oggetto di rimborso (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
APPALTI: Avvalimento permanente, valido.
Ammissione a termine, fino a nuove regole di qualificazione.
L'avvalimento permanente è ammesso fino a quando non saranno varate le nuove
regole sulla qualificazione delle imprese.
È questo forse il più rilevante
chiarimento contenuto nella guida di 23 pagine sulla disciplina dell'avvalimento
e del soccorso istruttorio messa a punto dall'Anac che ha riunito le
massime
di precontenzioso emesse nel 2017 (aprile 2018) su richiesta di operatori economici e
amministrazioni. Molti i temi sviscerati e raccolti organicamente dall'Anac.
Si prende le mosse dalla natura del contratto di avvalimento e dal profilo
della determinatezza o determinabilità dell'oggetto del contratto di
avvalimento ai sensi di quanto previsto dall'art. 89, comma 1, del codice
dei contratti. Su questo punto, premessa l'insufficienza di una semplice
dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria che «non può in alcun
modo essere considerata come una forma atipica di contratto di avvalimento»,
legittimando quindi l'esclusione del concorrente, l'Autorità ha anche
affermato che seppure occorre che il contratto sia determinato e
determinabile, si possono ritenere presenti questi elementi «se l'oggetto
del contratto, pur non essendo puntualmente determinato, sia tuttavia
agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento».
Bocciata dall'Anac anche ogni forma di limitazione contrattuale della
responsabilità riferita ai «soli requisiti di cui è carente l'impresa ausiliata», in violazione del principio di piena responsabilità solidale tra
concorrente e ausiliaria nei confronti della stazione appaltante in
relazione a tutte le prestazioni contrattuali. Altro capitolo toccato dall'Anac
è quello dei requisiti di carattere generale, fra cui la regolarità
contributiva che, se mancante nell'impresa ausiliaria, legittima
l'esclusione nelle fattispecie avvalimento permanente in quanto mina la
garanzia della pubblica amministrazione sulla solidità e solvibilità
finanziaria del contraente.
E proprio sull'avvalimento permanente, adesso escluso dal correttivo del
decreto 50, l'Anac ha precisato che fino all'emissione delle nuove regole
sul sistema di qualificazione delle imprese, potrà essere ancora utilizzato.
Sui requisiti di carattere speciale, con riferimento all'idoneità
professionale, l'Anac ha confermato che l'iscrizione in registri deve
intendersi strettamente collegato alla capacità soggettiva dell'operatore
economico e pertanto non può formare oggetto di avvalimento.
Per la certificazione di qualità l'Anac ha ricordato che dopo un
orientamento restrittivo (non cedibile la certificazione di qualità) si è
spostata su una linea più flessibile che ammette l'avvalimento ma «a
condizione che l'ausiliaria metta a disposizione dell'ausiliata l'intera
organizzazione aziendale, comprensiva di tutti i fattori della produzione e
di tutte le risorse che le hanno consentito di acquisire la certificazione».
Sul cosiddetto avvalimento di garanzia (prestito del requisiti di fatturato)
l'Anac ha ricordato che «è necessario che dal contratto di avvalimento
emerga, in modo determinato o determinabile e non quale semplice forma di
stile, l'impegno dell'avvalsa sia a diventare un garante dell'impresa
ausiliata sul versante economico-finanziario sia a vincolarsi
finanziariamente nei confronti della stazione appaltante».
Nella parte relativa al soccorso istruttorio sono stati invece trattati
profili riguardanti l'applicazione dell'istituto alle seguenti fattispecie:
cause tassative di esclusione, sanzione pecuniaria, irregolarità
dell'offerta tecnica ed economica (integrazione del contenuto dell'offerta,
mancata sottoscrizione dell'offerta, oneri di sicurezza aziendali),
dichiarazione del possesso dei requisiti di carattere generale,
dichiarazione del possesso dei requisiti di carattere speciale, avvalimento,
soccorso istruttorio successivo all'aggiudicazione, cauzione provvisoria e
contributo integrativo all'Autorità (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
APPALTI: Responsabile
unico, anche per l’Anac la decisione sulle incompatibilità spetta alla
stazione appaltante.
La questione della presidenza della commissione di gara da parte del
responsabile unico del procedimento, non riesce a trovare –nel nostro
ordinamento– un definitivo e univoco inquadramento. Ora, secondo il parere con
il
Parere di Precontenzioso 01.03.2018 n. 193 - rif. PREC 36/18/S
espresso dall'Anac, è compito della
stazione appaltante valutare se il Rup si trovi o meno in situazioni di
incompatibilità non potendolo qualificare automaticamente come
incompatibile.
La vicenda
Nell'istanza di precontenzioso, un appaltatore aveva censurato –ritenendo
gli atti illegittimi– la composizione della commissione di gara in ragione
del fatto che il Rup «svolgeva le funzioni di Presidente in violazione
dell'articolo 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016».
La stazione appaltante (una centrale di committenza) ha replicato che la
posizione del responsabile unico del procedimento quale presidente
dell'organo collegiale non crea in automatico nessuna incompatibilità
considerato che «tra le funzioni di Rup e quelle di componente di
commissione, (…) la prima non attiene a compiti di controllo ma soltanto a
compiti di verifica interna della correttezza del procedimento».
Il parere
Una importante novità emerge dal parere dell'Anac considerato che, ora,
l'autorità anticorruzione introduce una nuova considerazione rispetto al
problema dell'incompatibilità. Come noto, fin dalle linee guida n. 3/2016,
la posizione dell'Anac risultava abbastanza radicale nel ritenere il
responsabile unico assolutamente incompatibile e «vietando» la possibilità
per lo stesso di assumere il ruolo di presidente della commissione di gara
(come anche nelle recenti modifiche delle linee guida).
Questo rigore è venuto stemperandosi in seguito alle prese di posizione del
Consiglio di Stato (con il parere n. 1903/2016) e, soprattutto, con le
modifiche introdotte dal decreto legislativo correttivo n. 56/2017 che –modificando il comma 4 dell'articolo 77 del codice dei contratti- ammette
la possibilità che il responsabile unico possa far parte della commissione
di gara secondo le determinazioni autonome della stazione appaltante. La
nuova disposizione non può trovare applicazione al caso in esame e la
vicenda dell'incompatibilità può essere decisa solo in base a una attenta
analisi della stazione appaltante.
La novità della posizione, pertanto, è che la soluzione proposta si pone
come posizione intermedia nel senso che l'Anac ammette che l'incompatibilità
non è automatica ma, d'altra parte, non può neppure escludersi. Quindi, la
stazione appaltante è chiamata a fare una valutazione in concreto sulla
reale capacità del Rup di condizionare l'esito della gara.
Quale elemento istruttorio, in ausilio a questa valutazione, l'Anac però
puntualizza il fatto che, nel caso di specie, il Rup «ha indetto la
procedura di gara, ha approvato la documentazione ed ha adottato la
determinazione di nomina della commissione, assumendone la presidenza».
Fornendo, quindi, preziose indicazioni circa il ruolo «decisorio» avuto dal
responsabile unico del procedimento nella procedura contrattuale. Ruolo
decisorio che, secondo la giurisprudenza –ma anche secondo la stessa Anac-
dovrebbe determinare l'incompatibilità di funzioni del Rup anche presidente
della commissione di gara (Tar Emilia Romagna–Bologna, sezione II,
sentenza n. 675/2015).
Il parere, pertanto, si conclude senza una presa di posizione netta
ritenendo l'Anac che «spetti alla stazione appaltante valutare la
sussistenza di un'incompatibilità in concreto a carico del RUP relativamente
allo svolgimento della funzione di Presidente della commissione di gara,
verificando la capacità di incidere sul processo formativo della volontà
tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l'esito»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2018). |
APPALTI: Affidamenti
in autocertificazione. Metodi contro la turbativa d’asta per valutare
l’anomalia. Chiarimento dell’Anac alle stazioni appaltanti: ammessa per
importi inferiori a 5 mila euro.
Documento di gara unico europeo (Dgue) applicabile
sempre per affidamenti diretti fino a 20 mila euro ma sotto 5mila euro è
ammessa anche l'autocertificazione; principio di rotazione da applicare
complessivamente a tutti gli affidamenti della stazione appaltante, ancorché
organizzata in più articolazioni; ribassi identici da considerare unici ai
fini dell'anomalia solo in determinati casi.
Sono questi alcuni dei principali chiarimenti forniti dall'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) su alcuni punti delle linee guida n. 4
relative alle procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo
inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria aggiornate con la
delibera 01.03.2018 n. 206.
Un primo elemento considerato riguarda come devono essere trattate le
offerte con identico ribasso ai fini della soglia di anomalia (un'unica
offerta che si applica a tutte le offerte, o solo a quelle comprese nelle
«ali»?).
Per l'Anac, in ossequio alla giurisprudenza, la regola del trattamento
unitario delle offerte con identico ribasso, secondo la prevalente
giurisprudenza si applica alle offerte poste a cavallo o all'interno delle
«ali».
La regola poi si applica sia quando sia stato sorteggiato uno dei metodi
(cosiddetto antiurbativa) di cui alle lettere a), b), e) dell'articolo 97,
comma 2, del codice dei contratti pubblici, mentre in tutte le restanti
ipotesi (metodo di cui alle lettere c) o d) dell'articolo 97, comma 2, del
codice dei contratti pubblici (ovvero offerte residue a seguito del taglio
delle ali), le offerte con identico ribasso vanno mantenute distinte ai fini
della soglia di anomalia.
Sull'applicazione del principio di rotazione nelle stazioni appaltanti
dotate di una pluralità di articolazioni organizzative, l'Autorità ha
precisato che «deve tendenzialmente essere applicata in modo unitario,
avendo cioè a riguardo gli affidamenti complessivamente attivati e da
attivare nell'ambito della stazione appaltante». Così facendo, ha sostenuto
l'Autorità, si rispetta il dettato dell'articolo 36 del codice «che non
distingue in relazione alla presenza di articolazioni interne» ed è «più
aderente all'impronta centralizzante ed efficace presidio nei confronti del
divieto di artificioso frazionamento delle commesse».
Soltanto dove vi sia
una stazione appaltante (ad esempio ministero, ente pubblico nazionale) che
presenti, in ragione della complessità organizzativa, articolazioni,
stabilmente collocate per l'amministrazione di determinate porzioni
territoriali (ad esempio, Direzione regionale-centrale) ovvero per la
gestione di una peculiare attività, strategica per l'ente, dotate di
autonomia in base all'ordinamento interno, si potrà derogare alla regola
generale.
Con riguardo agli affidamenti diretti e all'applicazione documento di gara
unico europeo (Dgue) viene chiarito che per importo fino a 5mila euro le
stazioni possono acquisire, indifferentemente, il Dgue oppure
un'autocertificazione ordinaria. Per gli affidamenti diretti di importo fino
a 20mila euro è invece necessario acquisire il Dgue. Queste regole si
applicano, ha detto l'Anac, «a tutti gli affidamenti sopra considerati, a
prescindere da una soglia minima di spesa». Il Dgue può essere riutilizzato
per successive procedure di affidamento, a condizione che gli operatori
economici confermino la perdurante validità delle precedenti attestazioni,
includendo l'indicazione del nuovo cig (codice identificativo gara).
Infine, nei casi di applicazione dell'articolo 103, comma 11, primo periodo
del codice dei contratti pubblici, se la stazione appaltante opta per
esonerare l'affidatario dall'obbligo di presentare la garanzia definitiva, è
necessario prevedere un miglioramento del prezzo di aggiudicazione ma
occorre darne adeguata motivazione (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
APPALTI: Sul
principio di rotazione l’Anac affida la decisione alle stazioni appaltanti.
Con la
delibera
01.03.2018 n. 206, l'Anac ha formalmente approvato le nuove
linee guida n. 4 in tema di acquisizione di appalti di lavori, servizi e
forniture nell'ambito sottosoglia comunitario con affinamento della
disciplina sulla alternanza (la rotazione) tra imprese.
L'aspetto, probabilmente, di maggior rilievo operativo attiene alla conferma
–rispetto a quanto già declinato nella proposta approvata nel mese di
dicembre e trasmessa per il parere al Consiglio di Stato (parere n.
361/2018)– di una disciplina interna della stazione appaltante che
regolamenti, tra gli altri, l'applicazione del principio di rotazione.
Un regolamento interno
Le linee guida confermano il divieto «di norma» di re-invito del vecchio affidatario o degli appaltatori già invitati al precedente appalto
«semplificato» nei casi –e questa è una novità rispetto alla bozza di
dicembre (che si esprimeva in termini di commessa analoga o uguale)- «in
cui i due affidamenti, quello precedente e quello attuale, abbiano ad
oggetto una commessa rientrante nello stesso settore merceologico, ovvero
nella stessa categoria di opere, ovvero ancora nello stesso settore di
servizi».
La stazione appaltante, però, può disciplinare l'applicazione del principio
di rotazione, escludendola, sia nel caso in cui «apra» alla partecipazione
al mercato senza limiti sia nel caso in cui, con un regolamento, introduca
il sistema delle fasce di importo. In particolare, secondo l'Anac il
regolamento potrebbe essere o quello di contabilità oppure un documento
specifico che disciplini le procedure di affidamento di appalti di
forniture, servizi e lavori. Da un punto di vista pratico, l'ultima
soluzione pare quella più congeniale, considerato che gli aspetti da
disciplinare, per dare omogeneità all'azione amministrativa contrattuale,
sono in realtà diversi e l'esigenza di un atto regolamentare appare davvero
fondata per evitare comportamenti eterogenei dei vari Rup.
La rotazione, pertanto verrebbe applicata «solo in caso di affidamenti
rientranti nella stessa fascia» di importo relativamente allo stesso settore
merceologico interessato.
L'Anac precisa l'esigenza che risulti effettiva una «differenziazione tra
forniture, servizi e lavori» con adeguata motivazione «in ordine alla scelta
dei valori di riferimento delle fasce».
Per i lavori, i valori possono tenere conto delle soglie previste dal
sistema unico di qualificazione degli esecutori di lavori.
Sono vietati naturalmente comportamenti arbitrari «con riferimento agli
affidamenti operati negli ultimi tre anni solari» quali «arbitrari
frazionamenti delle commesse o delle fasce; ingiustificate aggregazioni o
strumentali determinazioni del calcolo del valore stimato dell'appalto;
alternanza sequenziale di affidamenti diretti o di inviti agli stessi
operatori economici; affidamenti o inviti disposti, senza adeguata
giustificazione, ad operatori economici riconducibili a quelli per i quali
opera il divieto di invito o affidamento, ad esempio per la sussistenza dei
presupposti di cui all'articolo 80, comma 5, lettera m del Codice dei
contratti pubblici». Ovvero nel caso di collegamento riscontrato –finalizzato a condizionare l'affidamento– tra imprese.
Altri aspetti da regolamentare
Nello stesso regolamento, la stazione appaltante avrà cura di indicare «una
quota significativa minima di controlli a campione da effettuarsi in ciascun
anno solare (…) nonché le modalità di assoggettamento al controllo e di
effettuazione dello stesso». Previsione collegata alla nuova semplificazione
dei controlli sui requisiti negli affidamenti entro i 20mila euro.
Nello stesso documento una disciplina ad hoc deve essere dedicata ai
microacquisti, soprattutto rispetto all'affidamento diretto, che può essere
sinteticamente motivato nell'ambito di acquisti entro mille euro proprio con
richiamo al regolamento. Un po' come accadeva con il vecchio regolamento
delle acquisizioni in economia che esigeva l'indicazione dei
beni/servizi/lavori e i limiti d’importo.
Nello stesso regolamento, per evitare l'adozione di una moltitudine di atti,
le stazioni appaltanti possono disciplinare anche le dinamiche da adottare
nell'avvio e svolgimento delle indagini di mercato «eventualmente distinte
per fasce di importo, anche in considerazione della necessità di applicare
il principio di rotazione», le modalità di costituzione e revisione
dell'elenco degli operatori economici, distinti per categoria e fascia di
importo e i i criteri di scelta dei soggetti da invitare «a presentare
offerta a seguito di indagine di mercato o attingendo dall'elenco degli
operatori economici propri o da quelli presenti nel Mercato»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2018). |
APPALTI: Più concorrenza negli appalti.
L'affidamento diretto, o il reinvito, dovrà essere motivato. Le
linee guida Anac raccomandano il rispetto del principio di rotazione degli
incarichi.
Maggiore
rotazione degli incarichi per appalti pubblici di rilevanza nazionale;
verifiche anche per gli affidamenti diretti sotto i 20.000; rispetto dei
principi Ue per gli affidamenti nei settori «speciali».
Sono questi alcuni
dei punti toccati dalle linee guida Anac n. 4 sulle procedure per
l'affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di
importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, aggiornate con la
delibera
01.03.2018 n. 206, che entreranno in vigore 15 giorni dopo la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. L'aggiornamento è dovuto alle
disposizioni introdotte dal primo decreto correttivo (dlgs 56/2017) del
codice dei contratti pubblici.
Nelle linee guida si precisa innanzitutto che si applicano agli affidamenti
di lavori, servizi e forniture posti in essere dalle stazioni appaltanti
operanti nei settori ordinari e che le imprese pubbliche e i soggetti
titolari di diritti speciali ed esclusivi per gli appalti di lavori,
forniture e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria, rientranti
nell'ambito definito dei settori speciali (acqua, energia e trasporti)
«applicano la disciplina stabilita nei rispettivi regolamenti, la quale,
comunque, deve essere conforme ai principi dettati dal Trattato Ue».
Restano fermi, dice l'Anac, gli obblighi di utilizzo di strumenti di
acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti
disposizioni in materia di contenimento della spesa nonché la normativa
sulla qualificazione delle stazioni appaltanti e sulla centralizzazione e
aggregazione della committenza.
Le stazioni appaltanti potranno sempre, discrezionalmente, ricorrere alle
procedure ordinarie anziché a quelle dell'articolo 36 codice appalti.
Per gli affidamenti «di interesse transfrontaliero certo» le stazioni
appaltanti adottano le procedure di gara adeguate e utilizzano mezzi di
pubblicità atti a garantire in maniera effettiva ed efficace l'apertura del
mercato alle imprese estere.
Al fine di evitare il frazionamento artificioso degli appalti le
amministrazioni dovranno sempre applicare le disposizioni sul calcolo
dell'importo a base di gara di cui all'articolo 35 del codice dei contratti
pubblici. Lo stesso meccanismo di calcolo si dovrà applicare anche per le
opere da realizzarsi a scomputo degli oneri di urbanizzazione di cui
all'articolo 36, comma 3 e 4 del codice dei contratti pubblici,
indipendentemente se si tratta di lavori di urbanizzazione primaria o
secondaria, fatto salvo quanto previsto dal decreto del presidente della
repubblica n. 380/2001.
Per quel che riguarda il principio di rotazione degli affidamenti e degli
inviti l'Anac chiarisce che andrà applicato alle procedure rientranti nel
medesimo settore merceologico, categorie di opere e settore di servizi di
quelle precedenti, nelle quali la stazione appaltante opera limitazioni al
numero di operatori economici selezionati.
I regolamenti interni potranno prevedere fasce, suddivise per valore, sulle
quali applicare la rotazione degli operatori economici.
Il rispetto del principio di rotazione espressamente fa sì che l'affidamento
o il reinvito al contraente uscente abbiano carattere eccezionale e
richiedano un onere motivazionale più stringente. L'affidamento diretto o il
reinvito all'operatore economico invitato in occasione del precedente
affidamento, e non affidatario, dovrà essere sempre motivato.
In merito alla verifica dei requisiti degli affidatari le linee guida
prevedono, per gli affidamenti diretti di importo fino a 20.000,00 euro,
procedure con notevoli semplificazioni ma se si accerta l'inesistenza dei
requisiti dichiarati la stazione appaltante è legittimata ad incamerare la
cauzione
(articolo
ItaliaOggi del 16.03.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Incarichi, prezzo più pesante.
Passa da 20 a 30 punti il valore dell'elemento economico. Le
novità delle Linee guida Anac sugli affidamenti dei servizi di ingegneria e
architettura.
Limite
massimo di 30 punti per il prezzo negli affidamenti di servizi di ingegneria
e architettura; più concorrenza per gli incarichi di verifica dei progetti;
requisito sul personale riferito soltanto ai «Full time equivalent» (Fte);
limite a 10 anni per i tre progetti che il concorrente espone come prova
della sua professionalità.
Sono queste alcune delle novità contenute
nell'aggiornamento delle linee guida n. 1/2016 dell'Autorità nazionale anticorruzione
(non vincolanti) che il Consiglio ha varato con la
delibera 21.02.2018, n. 138, depositata in questi giorni.
Il provvedimento
dell'Autorità presieduta da Raffaele Cantone non è ancora in vigore perché
occorrerà attendere 15 giorni dopo la pubblicazione sulla gazzetta
ufficiale. La delibera adegua le linee guida che le stazioni appaltanti
operanti nei settori ordinari generalmente applicano per affidare incarichi
di progettazione, direzione lavori, altri servizi tecnici, compresi quelli
inerenti le verifiche dei progetti e che sono in vigore da ottobre 2016.
La nuove versione contiene in particolare diverse modifiche dettate dal
decreto 56/2017 (il primo decreto correttivo del codice appalti) recepisce i
contenuti del Comunicato del presidente Anac del 14.12.2016 (che ha
inserito anche i servizi di supporto fra le referenze utilizzabili) e di
altre linee guida (ad esempio le n. 4 sugli affidamenti sotto la soglia Ue
dei 211.000 euro).
Una delle modifiche del decreto 56/2017 che impatta sulle
linee guida è quella inerente il punteggio massimo che può essere attribuito
al prezzo: si passa da 20 a 30 così previsto dall'articolo 95, comma 10-bis
del codice. A seguito di questa modifica è stato ridotto di 5 punti (da 30 a
25) il punteggio minimo attribuibile all'elemento «professionalità» e alla
parte metodologica dell'offerta (con il massimo sempre fisso a 50).
Importanti novità anche per i tre progetti che i concorrenti possono
presentare in gara per dimostrare (nell'offerta tecnica) la loro
«professionalità», con una limitazione significativa agli ultimi 10 anni.
Tutto da verificare l'impatto di questa novità soprattutto in alcuni settori
dove si è intervenuti raramente (per esempio le dighe). Di rilievo anche la
modifica introdotta per i servizi di verifica dei progetti per i quali la
richiesta del requisito del fatturato globale non riguarda più le sole
verifiche ma anche la progettazione o la direzione lavori; sempre per le
verifiche, poi, si amplia l'arco temporale delle referenze dei servizi
analoghi (di verifica ma anche di progettazione e direzione lavori), da 5 a
10 anni.
In ordine ai requisiti per il personale, le nuove linee guida
dispongono di fare riferimento alle «risorse a tempo pieno (Full time equivalent, Fte)» e, per le unità minime di tecnici che devono essere
richieste a professionisti singoli o associati si prevede che si possano
comprendere in tali unità i dipendenti, consulenti a partita Iva (sempre
espressi come risorse a tempo pieno) che fanno capo al professionista o allo
studio associato. Viene resa più agevole la dimostrazione della presenza del
geologo nella compagine dell'offerente, facendo riferimento anche ai
dipendenti e ai consulenti con partita Iva che fatturino più del 50% a
favore del concorrente.
Per gli affidamenti diretti (fino a 20.000 euro)
occorrerà una determina a contrarre che «in forma semplificata» riporti
l'oggetto dell'incarico, il calcolo analitico dell'importo «ove possibile»,
il nominativo dell'affidatario e le motivazioni dell'affidamento e
l'accertamento dei requisiti «ove richiesti»
(articolo
ItaliaOggi del 14.03.2018). |
APPALTI: Legittimo dividere i lotti per favorire il mercato. Delibera Anac sulle procedure di affidamento di un appalto
È
legittimo che una stazione appaltante, per una procedura di affidamento
articolata in più lotti, vincoli i concorrenti a presentare offerte a un
numero limitato di lotti e sempre nella stessa forma giuridica (individuale
o associata); la previsione ha la finalità di tutelare la concorrenza
Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione con il
Parere di Precontenzioso 07.02.2018 n. 96 - rif. PREC 4/18/S (Oggetto:
Istanza presentata dalla SO.GE.SI. S.p.A. – Gara comunitaria centralizzata a
procedura aperta finalizzata all’acquisizione del servizio di lavanolo
occorrente alle Aziende Sanitarie della Regione Lazio – 8 lotti - Importo a
base di gara: 133.762.389,05.000 euro - S.A.: Regione Lazio) che affronta il tema della partecipazione ad una
procedura di affidamento di un appalto suddiviso in più lotti. Nel caso
affrontato la stazione appaltante aveva proceduto alla suddivisione
dell'appalto in più lotti distinti ponendo un limite alla partecipazione a
un numero massimo di lotti.
In particolare la stazione appaltante, nel rispondere all'Anac, aveva
precisato che gli atti di gara stabilivano un limite massimo di tre lotti
aggiudicabili ad un medesimo concorrente e che la clausola prevedeva anche
l'obbligo per il concorrente di presentarsi sempre nella stessa forma
individuale o associata e nella medesima composizione.
Con particolare riferimento a questa seconda precisazione sempre la stazione
appaltante aveva chiarito che la finalità era stata quella di «consentire
l'effettivo rispetto del limite, precludendo la possibilità ai singoli
operatori di eludere il richiamato limite di lotti aggiudicabili,
presentandosi quale concorrenti in forme giuridiche diversificate ovvero in
differenti composizioni, a salvaguardia della concorrenza».
Nella delibera l'Autorità fa presente che nella Nota illustrativa al bando
tipo n. 2/2017 («Schema di disciplinare di gara, Procedura aperta per
l'affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture nei settori
ordinari sopra soglia comunitaria con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto
qualità/prezzo»), è precisato che nel caso di una suddivisione dell'appalto
in lotti distinti in cui la stazione appaltante ponga limiti alla
partecipazione a un numero massimo di lotti, la stessa, «per evitare
l'elusione del limite di partecipazione, potrà prevedere la partecipazione
nella medesima o in diversa forma ai concorrenti per tutti i lotti in gara,
a condizione che sia rispettato il limite di partecipazione previsto».
Già nel bando-tipo veniva quindi prevista la possibilità di vincolare i
concorrenti a partecipare nella stessa forma giuridica il che, dice l'Anac,
consente di «evitare l'ipotesi in cui, per esempio, previsto il limite di
partecipazione a massimo due lotti, il raggruppamento temporaneo di imprese
partecipi, a due di quattro lotti banditi e la singola impresa facente parte
del Rti presenti offerta per un terzo lotto dei quattro messi in gara». Se
ciò fosse ammesso, nota l'Anac, si consentirebbe una coincidenza, seppure
parziale, tra i soggetti aggiudicatari dei due lotti contendibili come
limite massimo e un terzo lotto, di fatto aggirando, in tal modo, il limite
alla partecipazione.
Da qui la conclusione che è legittimo stabilire in un bando non soltanto un
limite massimo alla partecipazione ai lotti, ma anche vincolare i
concorrenti a partecipare alla gara in una determinata e non modificabile
forma giuridica (individuale o associata) (articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sì ai gruppi unipersonali. Se statuto e
regolamento non li vietano. La materia è affidata all’autonomia
organizzativa dei consigli.
Un consigliere fuoriuscito da altro gruppo
preesistente può costituire un gruppo unipersonale, nel caso in cui l'ente
non abbia disciplinato la fattispecie con specifiche norme regolamentari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge,
ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano
diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3,
art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
Nel caso di specie, lo statuto del comune si limita a stabilire che i
consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare,
specificando, altresì, che anche nel caso in cui nella lista sia eletto un
solo consigliere, questi costituisce un gruppo autonomo.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ribadisce il
contenuto dello statuto in materia di costituzione dei gruppi, ma non
disciplina l'eventuale formazione di nuovi gruppi scaturenti da movimenti
successivi.
Tuttavia, le disposizioni regolamentari prevedono che il consiglio comunale
prenda atto, nella prima seduta utile, «della costituzione, designazione
ed ogni successiva variazione dei gruppi consiliari», ammettendo, così,
implicitamente, la possibilità di modifiche nei gruppi come discendenti
dall'esito delle elezioni, senza però declinarne le modalità.
Considerato che la materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito
dell'autonomia organizzativa dei consigli riconosciuta dal citato art. 38
del Testo unico sugli enti locali (dlgs n. 267/2000), la soluzione alle
relative problematiche dovrebbe essere trovata dallo stesso consiglio, anche
valutando l'opportunità di adottare apposite modifiche regolamentari.
Appare, comunque, corretta nella fattispecie in esame, la posizione
dell'amministrazione locale che la ritiene invece possibile, a seguito
dell'esercizio dell'attività di interpretazione delle proprie norme
nell'ambito dell'autonomia che le viene riconosciuta dall'ordinamento, non
sussistendo una esplicita disposizione statutaria o regolamentare che
impedisca la formazione di nuovi gruppi (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, prefetti in campo. Se il
presidente non convoca l’assemblea. Anche la
trattazione di semplici questioni attiene ai poteri dell’organo
Ai sensi dell'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, in quali
casi viene attivato il potere sostitutivo del prefetto?
Nella fattispecie in esame, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno
depositato presso il comune una mozione e una interrogazione contestualmente
alla istanza di convocazione del consiglio, ai sensi dell'art. 39, comma 2,
del decreto legislativo n. 267/2000 e, a causa del mancato riscontro della
richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del
potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che le
interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente devono essere
iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima
adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione.
Inoltre, la medesima fonte normativa stabilisce che la convocazione
richiesta ex art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun
argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di
deliberazione».
Il sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari,
sostiene che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei
consiglieri non possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo
ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema
di deliberazione».
Ciò stante, l'orientamento che vede riconosciuto e definito dal legislatore
«il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio
medesimo» come «diritto» è ormai ampiamente consolidato (sentenza
Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124). Peraltro, il diritto ex
art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di
venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso
avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto
legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non
poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi
verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i
consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo
l'indirizzo prevalente, al presidente del consiglio spetta solo la verifica
formale della richiesta e il prescritto numero di consiglieri, non potendo
comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è, infatti, da tempo espressa affermando
che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un
quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero
di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta
allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso
potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996
).
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea
decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del
giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne
debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce,
sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, sez. 1, 04.02.2004,
n. 124).
Nondimeno, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e
regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di
presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di
sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative
risposte, che devono comunque essere fornite entro 30 giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non fosse diretta a
provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in
essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi
dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri
nella competenza del consiglio comunale in qualità di «organo di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione
di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2
del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di
deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la
trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2,
dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva
adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla
applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto
legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla
convocazione del richiesto consiglio comunale.
Con specifico riferimento al caso in esame, l'ente potrebbe valutare
l'opportunità di modificare la normativa regolamentare dal momento che la
stessa, limitando all'esame delle «deliberazioni» la possibilità di accedere
all'istituto previsto dall'art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro
dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
APPALTI:
Avviso pubblico per indagine mercato o per procedura
negoziata semplificata.
Domanda
L’ufficio deve
avviare una procedura negoziata (ai sensi dell’art. 36 del
codice dei contratti, comma 2, lett. b), per
l’aggiudicazione di un servizio. Il RUP vorrebbe procedere
con la predisposizione di un avviso pubblico destinato a
conoscere le condizioni (e gli appaltatori) che il mercato
può esprimere.
Si stava valutando, però, la possibilità di pubblicare un
avviso che consenta agli interessati di presentare
direttamente la domanda di partecipazione alla gara.
A tal proposito sarebbe possibile avere un chiarimento sulla
differenza sostanziale tra avviso per indagine di mercato e
avviso a manifestare interesse (ad esempio anche sui
contenuti essenziali)?
Risposta
Il RUP, secondo la
propria discrezionalità e conoscenza tecnica –salvo
specifiche direttive de responsabile del servizio o
declinate in atti interni della stazione appaltante (ad
esempio un regolamento interno che regola l’attività
contrattuale nel sotto soglia nel rispetto di quanto
indicato dall’ANAC e nell’articolo 36 del codice dei
contratti)– prima della predisposizione degli atti del
procedimento contrattuale vero e proprio (e l’avviso a
manifestare interesse a partecipare ad una competizione è
uno di questi e, come si dirà, in qualche modo vincola già
la stazione appaltante a differenza di una semplice “indagine”
di mercato) può gestire il procedimento nel modo che ritenga
maggiormente opportuno (sotto il profilo tecnico).
Pertanto, in fase propedeutica potrebbe valutare di
effettuare o una indagine di mercato o anche delle
consultazioni preventive. Sia la prima, e soprattutto la
seconda (per le implicazioni su eventuali/possibili
conflitti di interessi), può avvenire tramite avviso
pubblico.
L’avviso pubblico, diretto a sondare il mercato per
conoscere la realtà pratica e le potenziali condizioni
contrattuali, pur essendo radicalmente diverso da un avviso
a manifestare interesse (o a richiedere già la presentazione
di offerte per partecipare ad una competizione) deve avere
dei requisiti minimi già indicato dall’ANAC con le linee
guida n. 4 recentemente adeguate con la deliberazione n.
206/2018.
Come sottolinea l’ANAC, l’avviso per l’indagine di mercato
deve essere pubblicato sul profilo di committente, nella
sezione “amministrazione trasparente” sotto la
sezione “bandi e contratti”, o ricorre ad altre forme
di pubblicità.
La durata della pubblicazione è stabilita in ragione della
rilevanza del contratto, per un periodo minimo
identificabile in quindici giorni, salva la riduzione del
suddetto termine per motivate ragioni di urgenza a non meno
di cinque giorni.
L’avviso di avvio dell’indagine di mercato deve indicare
almeno:
1 .il valore dell’affidamento,
2. gli elementi essenziali del contratto,
3. i requisiti di idoneità professionale,
4. i requisiti minimi di capacità economica/finanziaria e le
capacità tecniche e professionali richieste ai fini della
partecipazione,
5. il numero minimo ed eventualmente massimo di operatori che
saranno invitati alla procedura,
6. i criteri di selezione degli operatori economici,
7. le modalità per comunicare con la stazione appaltante.
L’ipotesi appena riportata è quella relativa ad una
formalizzazione corretta dell’indagine di mercato ma è
chiaro che la stessa può avere –purché corretta ed
oggettiva– anche un grado di maggior semplificazione. Si
pensi alla attività di indagine svolta sui mercati
elettronici soprattutto per affidamenti infra i 40mila euro.
Nel momento in cui il RUP avvia l’indagine di mercato, dovrà
chiaramente esplicitare che tale attività è finalizzata ad
una verifica sulle potenzialità presenti nel mercato senza
alcune vincolo per la stazione appaltante. Nel senso che
questa potrebbe anche decidere di non procedere con la
procedura negoziata o procedere con la redazione di un
procedimento ad evidenza pubblica. Oppure, considerata la
moltitudine di realtà produttive sul mercato anche
determinarsi a fissare dei criteri di estrazione piuttosto
che procedere con un invito massivo.
Nel caso di avviso/bando in cui il RUP intenda “superare”
la prima fase di indagine e far partecipare al procedimento
tutti i soggetti –in possesso dei requisiti– interessati
(che vengono, pertanto, invitati, a presentare direttamente
la domanda di partecipazione con la produzione di una vera e
propri proposta), è chiaro che l’avviso avrà il contenuto di
un bando vero e proprio con riferimenti alla base d’asta ed
alle ipotesi di esclusione/soccorso istruttorio integrativo
e via discorrendo.
La necessità di chiarire distintamente le due fasi
procedurali ovvero la “semplice” indagine di mercato
(che non vincola la stazione appaltante) da un momento “negoziale”
e proprio come una avviso a presentare direttamente le
offerte o anche alla richiesta di presentazione delle
offerte con una lettera di invito (che normalmente segue
all’avviso di indagine di mercato) –che invece vincola la
stazione appaltante obbligandola a concludere il
procedimento– ha un rilevanza sostanziale.
Questa differenza, in particolare, emerge da una recente
sentenza del Tar Campania, Napoli, sez. V, n. 4611/2018.
La stazione appaltante procedeva con la pubblicazione, sul
proprio portale di “un avviso di indagine di mercato”,
manifestando chiaramente l’intenzione di esperire una
procedura negoziata, senza previa pubblicazione di bando di
gara, ai sensi dell’art. 63, comma 2, lettera b), del DLgs
n. 50/2016, per l’affidamento della fornitura di materiale
medico/sanitario.
In realtà poi, discrezionalmente, decideva di non procedere
nonostante le richieste di presentare offerta con delle
specifiche lettere di invito.
In sentenza si è precisato che la stazione appaltante non
può discrezionalmente declassare/derubricare la propria
attività amministrativa e, come nel caso di specie,
qualificare una procedura negoziata vera e propria –a cui ha
fatto seguito anche la lettera di invito a presentare
offerta– come una semplice escussione/verifica delle
condizioni di mercato.
Nella stessa lettera d’invito, rileva il giudice, “si
precisava che il plico avrebbe dovuto contenere due distinte
“Buste”, siglate e firmate sui lembi di chiusura, delle
quali una contenente la “documentazione amministrativa” e
l’altra “l’offerta economica”, e che la ditta avrebbe dovuto
indicare anche il tempo massimo di validità dell’offerta
(non inferiore a 180 giorni) nonché i tempi di consegna
della fornitura”.
Ne consegue che “l’Amministrazione avrebbe dovuto
concludere il procedimento avviato con un provvedimento
espresso che desse conto delle eventuali ragioni ostative al
mancato perfezionamento della procedura ovvero del mancato
affidamento della fornitura in favore della ricorrente”.
Per come strutturato, il procedimento, caratterizzato da una
prima fase esplorativa –con richiesta di manifestazione di
interesse a partecipare alla successiva competizione– e da
una lettera di invito a presentare offerta in plico
sigillato, non v’è dubbio che in questo modo si sia dato
inizio ad una gara, con conseguente necessità di
definizione/conclusione “con un provvedimento finale
espresso, in base ai principi generali stabiliti dall’art. 2
della L. n. 241 del 1990”.
Pertanto, la stazione appaltante viene intimata –oltre alla
condanna al pagamento delle spese di giudizio– a riavviare
il procedimento giungendo anche all’adozione di un
provvedimento espresso e quindi, a concludere la procedura
avviata nel rispetto dei canoni di buona fede e lealtà
amministrativa (01.08.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Termine dilatorio per la stipulazione del contratto e
sospensione feriale dei termini processuali.
Stante l’assenza di un’espressa
disposizione, il termine dilatorio previsto dall’art. 32, c.
9, del D.Lgs. 50/2016 non subisce alcuna proroga o
sospensione per effetto della sospensione feriale dei
termini processuali contemplata dall’art. 54, c. 2, del
D.Lgs. 104/2010, la quale, peraltro, non inibisce la
proposizione dei ricorsi dinanzi al tribunale amministrativo
regionale durante il periodo considerato.
Il Comune, considerando che l’art. 32, comma 9, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, dispone che il contratto non
può essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio
dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di
aggiudicazione [1]
e rilevando che detto termine è stato coordinato con il
termine per il ricorso giurisdizionale di trenta giorni al
fine di evitare la stipulazione del contratto in pendenza di
giudizio, chiede di conoscere se il suddetto termine di
trentacinque giorni rimanga sospeso dal 1° agosto al 31
agosto di ciascun anno.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si fornisce risposta negativa.
Occorre, infatti, rilevare che, stante l’assenza di
un’espressa disposizione al riguardo, il termine dilatorio
(cd. stand still) previsto dall’art. 32, comma 9, del
D.Lgs. 50/2016 non subisce alcuna proroga o sospensione per
effetto della sospensione feriale dei termini processuali
contemplata dall’art. 54, comma 2 [2],
del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104, la quale,
peraltro, non inibisce la proposizione dei ricorsi dinanzi
al tribunale amministrativo regionale durante il periodo
considerato. [3]
---------------
[1] Si rammenta che ai sensi del comma 10 del medesimo
art. 32 il termine dilatorio di cui trattasi non si applica,
tra gli altri, agli affidamenti di lavori di importo
inferiore a 150.000 euro, nonché agli affidamenti di
forniture e servizi sottosoglia.
[2] «I termini processuali sono sospesi dal 1° agosto al 31
agosto di ciascun anno.».
[3] Cfr. parere ANCI del 22.08.2011, reperibile sul sito
www.ancirisponde.ancitel.it (27.07.2018 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni di garanzia. Per verifiche e controlli sull'attività
di governo. La presidenza deve essere attribuita a un consigliere di
opposizione.
È legittima la convocazione della Commissione garanzia e controllo comunale,
richiesta da un comitato di cittadini, per verificare l'eventuale violazione
delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di
carburanti nel territorio comunale?
La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di
legge o di regolamento, ovvero agli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie
(previste per legge come, per esempio, la commissione elettorale comunale) e
commissioni facoltative (come le commissioni consiliari permanenti ex art.
38 del dlgs n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione e
il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le
istituisce e, quindi, alle previsioni statutarie e regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto comunale stabilisce solo che i
presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo
sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione;
inoltre prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e
consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi
particolari, demandando al consiglio la composizione, l'organizzazione, le
competenze, i poteri e la durata delle stesse.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le
commissioni di inchiesta e dispone che le commissioni con funzioni di
garanzia e di controllo «effettuino verifiche sull'attività di governo,
sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e
sugli obiettivi raggiunti».
Le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero
considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del
medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato
dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs.
n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza
nell'affidamento della presidenza della commissione permanente a un
consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale
di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti,
nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente
agli uffici comunali.
Considerato che lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di
istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire
«particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie
relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere, in
particolare, sulla competenza di tali organismi, poiché l'attività della
commissione garanzia e controllo dovrà limitarsi alle verifiche
sull'attività di governo (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Regole per il referendum. Se previsto
nello Statuto va regolamentato. I cittadini devono
sensibilizzare il comune affinché provveda.
Può essere dichiarato ammissibile il referendum comunale proposto da un
cittadino, in assenza di specifica disciplina regolamentare di dettaglio,
specificamente prevista dallo Statuto comunale? Potrebbe sanare tale
mancanza l'eventuale approvazione del regolamento da parte del consiglio
comunale, con la previsione di norme transitorie per lo svolgimento della
citata consultazione referendaria, ferma restando la verifica
dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un organismo che
sostituisca l'abrogato difensore civico?
Il nostro ordinamento favorisce la partecipazione diretta del cittadino
nella vita delle istituzioni locali.
L'Italia ha, invero, fatto propri i principi della Carta europea
dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa
convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439.
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino
trovano una loro concretizzazione nel dlgs n. 267/2000 e, indipendentemente
dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario
e non meramente facoltativo dello statuto.
Un rinvio allo statuto è previsto dall'art. 8, comma 3, del citato decreto
legislativo n. 267/2000, circa la previsione di forme di consultazione della
popolazione, nonché delle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e
proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi
per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle
garanzie per il loro tempestivo esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum
anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che (comma 4) devono
comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di partecipazione, il
referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e
facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve, però, essere
compiutamente disciplinato dal regolamento.
Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito regolamento
comunale la disciplina delle modalità operative del referendum, fornendo
peraltro una serie di indicazioni di dettaglio che dovrebbero essere
recepite dal medesimo regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di stato, sez. I,
08.07.1998, n. 464, reso, su richiesta dell'amministrazione dell'Interno, in
relazione a una fattispecie analoga e il cui orientamento è stato
successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato, sez. IV, con la
sentenza n. 3769/2008, si prospetta, infatti, in funzione complementare e
integrativa rispetto alle previsioni statutarie, tanto da rendere
inapplicabile l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello stesso.
La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia ritiene, infatti, che
debba essere la fonte regolamentare a «prevedere le varie fasi nelle quali
si articola la consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei
risultati», inclusi i sistemi con cui sindacare l'ammissibilità della
consultazione.
Pertanto, i cittadini interessati all'approvazione del regolamento dovranno
sensibilizzare l'ente affinché proceda al riguardo, poiché le previsioni
dello statuto non consentono alcun margine discrezionale da parte
dell'amministrazione.
Ferma restando l'ammissibilità dell'adozione di un regolamento attuativo per
consentire (con specifiche norme transitorie) anche il regolare espletamento
della procedura già avviata, deve essere comunque garantito ai promotori
l'effettivo esercizio entro i termini previsti dallo statuto.
Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le norme
transitorie, in assenza delle modifiche statutarie, devono comunque essere
coerenti con le disposizioni di tale ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a), della legge 23.12.2009, n.
191, pur avendo soppresso la figura del difensore civico comunale, ha
stabilito che le relative funzioni possono essere attribuite, mediante
convenzione, al difensore civico della provincia (articolo
ItaliaOggi del 20.07.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Par condicio in comune. Uguali opportunità per entrambi i sessi.
Il principio vale anche per i municipi con meno di 3.000 abitanti.
In tema di parità di genere, quale disciplina deve essere applicata, nella
composizione della giunta comunale, ad un ente locale con popolazione
inferiore a 3.000 abitanti?
Affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere, la legge n.
56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha previsto, per i soli comuni con
popolazione superiore ai 3.000 abitanti, il quorum del 40%. Per i
comuni al di sotto di tale soglia demografica resta vigente, invece, l'art.
6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale disposizione prevede che gli statuti comunali e provinciali
stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e
donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli
organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli
enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Nella specie, la legge n. 215 del 2012 ha modificato la norma citata
sostituendo il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha
aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non
elettivi» (art. 1, comma 1); l'art. 1, comma 2, di tale legge, inoltre,
ha previsto l'obbligo, per gli enti locali, di adeguare i propri statuti e
regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del Tuoel. entro
sei mesi dall'entrata in vigore della stessa legge.
Peraltro, l'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha
modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo
che il sindaco ed il presidente nella provincia nominano i componenti della
giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e
uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi». Tale normativa va
letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge
costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al
principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella sopraindicata fascia demografica,
pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati
articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e
nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto
legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e
dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a
rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di
pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. Se il regolamento è in contrasto va
disapplicato. Cosa fare quando le due fonti normative dicono cose diverse.
Affinché possa essere considerata valida una seduta del consiglio comunale,
convocata in seconda convocazione, come deve essere determinato il quorum
strutturale?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la
determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che
tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che,
limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere
escluso.
Nel caso di specie, il regolamento di organizzazione e funzionamento del
consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio
comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14
consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute
siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati,
escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla
modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione
dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti
nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in
ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e conformemente anche
all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla
legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), prevalendo la norma statutaria,
la disposizione regolamentare deve essere disapplicata.
Al fine di comporre l'evidenziata discrasia, deve considerarsi, pertanto,
opportuno un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate
dalle citate fonti di autonomia locale (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri senza gruppo. Chi si autoesclude resta fuori dalle
commissioni.
È corretta la sostituzione, all'interno di una commissione consiliare
consultiva, di una consigliera comunale che ha dichiarato la propria
indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, disposta con atto
del presidente del consiglio comunale?
Nel caso di specie la consigliera comunale, dichiarando la propria
indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è sostanzialmente
avvalsa della facoltà, prevista dallo statuto comunale, che consente di «non
appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non
ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi
dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle
elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute
le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente, i gruppi autonomi,
invece, possono essere costituiti, solo se formati da almeno tre
consiglieri.
Inoltre lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e
della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio
proporzionale, e il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di
designare i propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti; per
di più stabilisce che i consiglieri possono fare parte di più di una
commissione e prevede che le sostituzioni siano demandate al singolo
capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste
dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta
istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono
disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il
più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna
di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto. Quanto al rispetto
del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il
legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto.
Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle
commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di
pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a
garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia (con l'eccezione della
sentenza contraria del Tar Puglia Lecce n. 516/2013) stabilisce che il
criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni
commissione, la presenza di ciascun gruppo, anche se formato da un solo
consigliere, presente in consiglio (si veda Tar Lombardia Brescia 04.07.1992
n. 796; Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal consiglio di stato il quale
con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da
consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi,
il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può
prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un
rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di
proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar
Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun
componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza
politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al
numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al
consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella
commissione interessata».
Premesso che teoricamente la consigliera, qualora facente parte di un gruppo
unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare a tutte le commissioni,
dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni
regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la
costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione
all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso
complessivo.
Tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in ordine alla facoltà
concessa dallo statuto comunale di escludersi da ogni gruppo, il concreto
esercizio del diritto di autoesclusione da parte del consigliere comunale
impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di essere designato
all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di designare
rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato esclusivamente ai
capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei consiglieri facenti
parte di un gruppo.
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della
struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri
diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la
costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista
presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la
costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri,
condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie
esaminata (articolo
ItaliaOggi del 30.03.2018). |
NEWS |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA: Volontari
con le mani legate. Negli eventi non possono fermare mezzi e persone.
Circolare della Protezione civile sull’impiego di personale nelle
manifestazioni di paese.
Nelle manifestazioni di paese è frequente l'impiego
di soggetti volontari riconoscibili da pettorine, divise e mezzi attrezzati.
Ma se si tratta di volontari della protezione civile d'ora in poi sarà più
difficile vedere soggetti in divisa impegnati nel controllo del traffico e
di vigilanza fisica delle aree dove si svolgono gli eventi. Queste attività
infatti ora sono specificamente vietate per tutte le organizzazioni di
volontariato di protezione civile.
Lo ha evidenziato il Dipartimento
della protezione civile con la
nota 06.08.2018 n. 45427 di prot..
L'impiego di personale volontario per la realizzazione di manifestazioni
pubbliche è ormai divenuta un'attività ordinaria, specialmente alla luce
delle severe recenti prescrizioni in tema di safety e security. Ma
per il personale che presta servizio di protezione civile il riferimento
normativo nazionale è rappresentato dal decreto legislativo n. 1/2018 che
sulla materia delle attività da svolgere è molto selettivo.
Specifica infatti questo provvedimento che il personale che svolge servizio
di protezione civile in occasione di eventi programmati e programmabili può
assicurare solo un supporto marginale limitatamente ad aspetti di natura
organizzativa e di supporto alla popolazione. Senza mai interferire con i
servizi che attengono alle forze di polizia. L'intervento dei volontari
della protezione civile nelle pubbliche manifestazioni a parere del
Dipartimento si può espletare anche in ambiti non riconducibili a scenari
tipici di protezione civile.
In questo caso il volontario può legittimamente svolgere le funzioni
richieste dall'organizzatore dell'evento contemplate dall'oggetto
associativo. L'organizzazione di volontariato in tale ipotesi non interviene
in qualità di struttura operativa del servizio nazionale di protezione
civile dunque è libera di inviare il proprio personale se lo consente lo
statuto. Ma senza impiego di loghi e stemmi di protezione civile per non
confondere gli osservatori. L'intervento tipico dei volontari di protezione
civile però è rappresentato dagli eventi dove l'organizzazione partecipa in
qualità di struttura operativa del servizio nazionale. Si tratta degli
eventi a rilevante impatto locale, attivati con il necessario supporto della
regione.
Il volontario in questo caso, specificamente formato e dotato di idonei
dispositivi di protezione, potrà fornire assistenza e informazione alla
popolazione. Con tutti i limiti previsti dalla legge in relazione alla sua
qualifica. Resta infatti totalmente precluso al volontariato anche in questo
caso svolgere servizi di viabilità e regolazione del traffico veicolare. E i
volontari della protezione civile non possono neppure occuparsi delle altre
attività di controllo del territorio come il servizio di controllo accessi,
i servizi di vigilanza ed osservazione, la protezione delle aree interessate
dall'evento e l'adozione di impedimenti fisici al transito dei veicoli con
interdizione dei percorsi di accesso (articolo
ItaliaOggi dell'11.08.2018). |
APPALTI: Un
Codice appalti concertato. Limiti ai ribassi, compensi, soft law, linee
guida Anac.
Limite ai ribassi sul prezzo, compensi dei commissari di gara, possibili
deroghe al principio dell'affidamento dei lavori sulla base del progetto
esecutivo, riflessione sulla soft law e sulle linee guida Anac. E ancora,
affidamenti in house, qualificazione delle stazioni appaltanti e delle
imprese di costruzioni, rivisitazione delle attività incentivabili per i
tecnici delle pubbliche amministrazioni.
Sono alcuni dei temi più caldi che saranno al centro, fino al 10 settembre,
della consultazione on-line (http://consultazioni.mit.gov.it)
lanciata dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti Danilo Toninelli
per «un futuro intervento di riforma del Codice dei Contratti pubblici»
che, peraltro il premier Conte in conferenza stampa mercoledì scorso ha
confermato sarà pronta per il mese di settembre.
La consultazione è centrata su 29 «primi temi di riflessione»,
separatamente proposti col riferimento ad argomenti indicati sinteticamente,
preceduti dalla puntuale indicazione del riferimento normativo all'interno
del Codice. Si tratta di argomenti che costituiscono altrettanti punti di
emersione di criticità più urgenti rilevate durante la costante opera di
monitoraggio effettuata dal ministero nei primi due anni di vigenza del
Codice, ovvero segnalate nel tempo al ministero da un'ampia platea di
stakeholders.
Sostanzialmente già la scelta dei temi offre indicazioni importanti su come
si concretizzerà il «primo intervento» sul decreto 50/2016, in attesa
di una riforma più ampia. Buona parte degli argomenti sono stati
approfonditamente discussi ed esaminati già all'epoca della legge delega,
primo fra tutti quello della cosiddetta «soft law».
Assai delicato è il tema del cosiddetto «appalto integrato»
(affidamento all'impresa della progettazione esecutiva e della realizzazione
dell'opera) oggi possibile nei settori speciali (acqua, energia e trasporti)
e in limitati casi (complessità tecnologica o innovativa dei lavori). Il
ministero intende verificare se siano «possibili deroghe all'obbligo di
appaltare sempre i lavori sulla base di un progetto esecutivo».
Altrettanto delicato è il tema del cosiddetto in house orizzontale (una
società pubblica controllata da un ente pubblico affida attività a un'altra
società controllata dallo stesso ente) argomento sul quale si ipotizza una «disciplina
più ristrettiva» rispetto alla normativa europea e alla giurisprudenza
della Corte di giustizia che richiedono solo la sussistenza del controllo
analogo e non anche l'attività prevalente del soggetto controllato.
Per quanto riguarda il Rup (responsabile del procedimento) si punta a
riconsiderare la disciplina della nomina e dei requisiti «anche con
riferimento al livello professionale del medesimo». Rimanendo nel
settore della pubblica amministrazione, sotto osservazione sembra essere
anche il tema della qualificazione delle stazioni appaltanti con il
conseguente obbligo dell'iscrizione in un apposito elenco «senza
distinzione dei relativi ambiti di pertinenza e, indifferentemente, per
tutte le fasi relative al procedimento (programmazione, affidamento ed
esecuzione)».
Sotto osservazione anche la norma che fissa al 30% il ribasso massimo sul
prezzo, criticata in passato dall'Antitrust come contraria alle norme Ue e
la disciplina sull'incentivo ai tecnici delle pubbliche amministrazioni (2%
del valore dell'opera) in merito alle «attività incentivabili».
Sul tema della qualificazione delle imprese l'attenzione si appunta
sull'esperienza maturata negli anni precedenti per i lavori eseguiti e
soprattutto sull'arco temporale di riferimento che da più parti si chiede di
ampliare in ragione della crisi del settore delle costruzioni. Una
riflessione viene chiesta anche sull'eventuale sistema «alternativo»
di qualificazione delle imprese, oggi basato sulle Soa e un capitolo
specifico, con diversi punti da discutere, viene riservato anche al
subappalto.
Sotto esame anche la disciplina dei commissari di gara, sia per le modalità
di nomina, sia per i compensi (il dm Mit è stato peraltro sospeso dal Tar
Lazio).
Un altro tema delicato è quello dell'obbligo di ricorso all'avvalimento per
i consorzi stabili che intendono utilizzare i requisiti di consorziate che
non eseguono le prestazioni, aspetto spesso criticato in passato (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non
va adottato alcun atto di recepimento del nuovo Ccnl.
Non va adottato alcun atto di recepimento del Ccnl 21.05.2018,
immediatamente vincolante e da attuare al più presto.
Molte amministrazioni locali stanno subordinando l'applicazione delle
disposizioni del Ccnl Funzioni locali a deliberazioni di giunta, il cui
oggetto è il recepimento oppure il dare mandato agli uffici di attuare le
previsioni contrattuali. Si tratta, però, di atti da un lato inutili,
dall'altro illegittimi.
Sul piano strettamente amministrativo, il recepimento è un atto normativo
che esprime la volontà di far entrare, in un certo ordinamento, disposizioni
di una normativa di un ordinamento diverso dal proprio, con o senza
modifiche ed adattamenti. Naturalmente, occorre disporre di un potere di
regolazione interna autonoma molto forte ed ampio. Non a caso, propriamente
sono le Nazioni aderenti alla Ue a recepire le direttive di quest'ultima,
nei casi regolati dal Trattato. Gli enti locali non dispongono di un
ordinamento proprio, indipendente e, quindi, non hanno nulla da recepire.
In particolare, la cosa vale per il contratto collettivo nazionale di
lavoro, che va solo attuato, adempiendo ad obbligazioni immediatamente
vincolanti. Sul punto, l'articolo 2 del Ccnl 21/05/2018 è chiarissimo: al
comma 2 dispone che «gli effetti decorrono dal giorno successivo alla data
di stipulazione, salvo diversa prescrizione del presente contratto.
L'avvenuta stipulazione viene portata a conoscenza delle amministrazioni
mediante la pubblicazione nel sito web dell'Aran e nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana». E il successivo comma 3 aggiunge che «gli
istituti a contenuto economico e normativo con carattere vincolato ed
automatico sono applicati dalle amministrazioni entro trenta giorni dalla
data di stipulazione di cui al comma 2».
Come si nota, il Ccnl enuncia esplicitamente la propria forza auto
esecutiva. L'efficacia delle disposizioni non è condizionata a nessun atto
provvedimentale di nessun genere. L'Aran ha stipulato con le parti sociali
in diretta ed immediata rappresentanza delle amministrazioni locali, sicché
non occorre nessuna deliberazione di nessun organo politico come atto di
recepimento o di espresso mandato all'apparato tecnico di attuare le
previsioni contrattuali. Per altro, all'inutilità di questi atti si può
aggiungere anche, come rilevato sopra, un'illegittimità anche pericolosa.
Infatti, subordinare l'applicazione del contratto a iniziative regolative
interne per un verso vìola il principio di non aggravamento del procedimento
amministrativo posto dalla legge 241/1990. Ma, a meglio vedere, nemmeno si
verte in tema di procedimento amministrativo, perché si tratta di rapporti
di lavoro contrattualizzati. Rinviare l'attuazione del Ccnl a inutili e
illegittimi atti di recepimento determina immediatamente e semplicemente
inadempimento alle obbligazioni contrattuali, che a sua volta potrebbe
scatenare iniziative di risarcimento o di riconoscimento di comportamenti
anti sindacali.
Le amministrazioni locali debbono, dunque, correre ad applicare senza
indugio alcuno le previsioni del Ccnl, che sono sostanzialmente tutte auto
esecutive, con la sola eccezione della disciplina speciale demandata alla
contrattazione decentrata (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
programmazione dei fabbisogni vale solo dal triennio 2019-2021.
Nessun divieto di assunzione scatterà nel 2018 per le
amministrazioni che abbiano adottato i piani di fabbisogno del personale
prima della pubblicazione delle linee di indirizzo della Funzione Pubblica.
Sulla Gazzetta Ufficiale 173 del 27.07.2018 è stato pubblicato il decreto
del ministero della funzione pubblica 08.05.2018, che approva le «Linee
di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da
parte delle amministrazioni pubbliche», previste dagli articoli 6 e
6-ter, del dlgs 165/2001.
Presso molte amministrazioni è scattato l'allarme: infatti, ai sensi
dell'articolo 22, comma 1, del dlgs 75/2017 si verifica la condizione perché
si applichi il divieto di assunzione incombente su chi non abbia adottato la
programmazione dei fabbisogni secondo quanto stabilito le linee di
indirizzo. Trascorsi 60 giorni dalla pubblicazione in G.U. il divieto
risulterà operativo.
Molte amministrazioni, quindi, si stanno precipitando a definire il nuovo
sistema della programmazione, anche in assenza di schemi e moduli operativi,
per evitare di incappare nel blocco derivante dalla mancata attuazione
dell'obbligo imposto dalla legge. Tuttavia, si tratta di un allarme a vuoto,
almeno per quegli enti che abbiano già adottato la programmazione dei
fabbisogni per il 2018 con provvedimenti antecedenti al 27 luglio.
Il nuovo sistema della programmazione dei fabbisogni introdotto lo scorso
anno dalla riforma Madia, infatti, vale solo per il futuro e, quindi, per la
programmazione del triennio 2019-2021, attualmente oggetto degli atti di
pianificazione generali, consistenti, per gli enti locali, nell'adozione del
Documento unico di programmazione (Dup), nel quale far confluire tale
programmazione. A meno di situazioni patologiche, gli enti hanno già
programmato le assunzioni connesse al 2018 e hanno provveduto quando le
linee di indirizzo non erano vigenti.
Applicando il principio tempus regit actum, quindi, gli atti di
programmazione «vecchia maniera» non possono considerarsi adottati in
violazione di linee di indirizzo non efficaci. Quindi, le assunzioni
effettuate nel 2018 attuando le programmazioni già adottate non sono nulle e
non sono soggette al divieto previsto dall'articolo 6, comma 6, del dlgs
165/2001, che scatterà, invece, solo per le assunzioni previste per il 2019.
Del resto, sul punto sono molto chiare le stesse linee di indirizzo: nel
paragrafo 2.3 «sanzioni», infatti, precisano che il divieto di assumere
«scatta sia per il mancato rispetto dei vincoli finanziari e la non corretta
applicazione delle disposizioni che dettano la disciplina delle assunzioni,
sia per l'omessa adozione del Piano triennale dei fabbisogni e degli
adempimenti previsti dagli articoli 6 e 6-ter, comma 5, del decreto
legislativo n. 165 del 2001», per poi sottolineare che se «in sede di prima
applicazione il divieto di cui all'articolo 6, comma 6, del dlgs 165/2001
decorre dal sessantesimo giorno dalla pubblicazione delle presenti linee di
indirizzo» occorre tenere presente comunque che «sono fatti salvi, in ogni
caso, i piani di fabbisogno già adottati» (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Valutazione
ex post per le grandi opere. Vanno giudicati obiettivi e funzionalità degli
interventi.
Valutazione ex post sulle grandi opere già prevista
dal 2017, anche su quelle in corso di esecuzione; valutabili il
conseguimento degli obiettivi, la funzionalità dell'intervento e il servizio
offerto alla collettività, la comparazione di impatti diretti e indiretti.
Saranno questi i parametri per effettuare la valutazione costi-benefici
sulle grandi opere di cui dovranno tenere conto il nuovo capo della
Struttura tecnica di missione, Alberto Chiovelli e gli altri consulenti
nominati dal ministro Danilo Toninelli (primo fra tutti il professore Marco
Ponti) alla luce delle linee guida ministeriali del 2017 predisposte
dall'allora capo della struttura Ennio Cascetta e varate dall'ex ministro
Delrio.
Le linee guida Mit affrontano il problema «a monte», a partire dalla
definizione del Dpp (Documento di programmazione pluriennale), ma prevedono
anche che i ministeri siano «obbligati a procedere sistematicamente
all'attività di valutazione ex-post, con l'obiettivo di misurare l'impatto
delle opere realizzate e di verificare l'eventuale scostamento dagli
obiettivi e dagli indicatori previsti nella fase di programmazione e
progettazione».
Quindi, per le opere in corso, il Dpp può essere soggetto ad aggiornamenti
annuali debitamente motivati. Questo per le opere nuove, ma come è noto il
ministro Toninelli ha annunciato in questi giorni che la valutazione sarà
effettuata anche per le opere in corso di realizzazione, quelle con le
cosiddette «obbligazioni giuridiche vincolanti».
In questo caso può essere utile ricordare che le linee guida approvate da
Delrio precisano espressamente che «è prevista la possibilità di
effettuare una valutazione anche di opere in via di realizzazione o non
entrate ancora in funzione. In tal caso, l'attività valutativa da svolgere
assumerà più i connotati di valutazione in itinere e sarà focalizzata
prevalentemente sull'avanzamento dei lavori, secondo i dati di monitoraggio».
In generale le linee guida prevedono che le attività di valutazione ex
post devono riguardare «singole opere pubbliche, ovvero, qualora
utile e pertinente, raggruppamenti di opere accomunate da legami funzionali,
settoriali e territoriali» e sono finalizzate a «misurare i risultati
e l'impatto di opere pubbliche collaudate funzionanti, nonché l'economicità
della loro realizzazione e l'efficienza della loro implementazione».
Dal punto di vista metodologico, il tipo di valutazione dipende dal momento
in cui interviene (ad es. se l'opera è stata o meno realizzata) e dipende
della tipologia di opera in esame. Sono possibili i seguenti livelli di
analisi:
- verifica della realizzazione (l'oggetto dell'analisi è il grado
di conseguimento degli obiettivi di realizzazione fisica, finanziaria e
procedurale); verifica dei risultati (si guarda all'effettiva funzionalità
dell'intervento e il livello di servizio effettivamente fornito alla
collettività);
- valutazione degli impatti attraverso la comparazione tra gli
impatti diretti e indiretti (riconducibili all'opera realizzata) previsti in
fase di valutazione ex ante e gli stessi impatti stimati al momento
dell'analisi;
- infine ripetizione della valutazione ex ante: una nuova
analisi e la verifica dell'appropriatezza dei processi di analisi, quella
che potrebbe portare al blocco di qualche grande opera (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Permessi mensili di festa e di notte
Permessi mensili anche nei festivi e di notte. I tre giorni di congedo
mensili, a disposizione dei lavoratori che prestano assistenza a familiari
disabili (art. 33, legge 104/1992), infatti, possono essere fruiti anche di
domenica e di notte, se rientranti in turni di lavoro. Inoltre, se il turno
è notturno e la prestazione si svolge a cavallo di due giorni, il permesso è
comunque considerato per un giorno solo.
Lo precisa l'Inps nel
messaggio 07.08.2018 n. 3114.
Lavoro a turno e notturno.
Le precisazioni arrivano in seguito a richiesta di chiarimenti relative,
appunto, alle modalità di calcolo dei permessi ex legge n. 104/1992 nei casi
in cui l'orario di lavoro sia organizzato in turni. Per lavoro a turni,
ricorda l'Inps, s'intende ogni forma di orario di lavoro diverso dal normale
(che è giornaliero), potendo comprendere anche il lavoro notturno e quello
festivo (come le domeniche). Poiché l'art. 33 della legge n. 104/1992
prevede la fruizione di permessi mensili «a giornata», indipendentemente
dall'orario di lavoro, l'Inps precisa che:
a) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di
turni con giornata di lavoro di domenica;
b) i permessi possono essere fruiti anche in corrispondenza di
turni con orario di lavoro notturno;
c) in caso di lavoro notturno svolto a cavallo di due giorni
solari, la prestazione resta riferita a un unico turno di lavoro e anche il
permesso è considerato per un solo giorno.
Nuova formula per il part-time.
Nei rapporti di lavoro a part-time i permessi vanno riproporzionati in
ragione dell'orario di lavoro ridotto. Semplice è il caso relativo al
part-time orizzontale, perché i permessi spettano con riferimento agli
effettivi giorni (ridotti) di lavoro; più articolato, invece, è il caso del
part-time di tipo verticale o quello di tipo misto, per i quali l'Inps
fornisce la formula di calcolo ai fini del riproporzionamento dei tre giorni
di permesso mensili, quando l'attività lavorativa è limitata ad alcuni
giorni del mese. La formula è data dal prodotto di 3 (i giorni di permesso
mensili) e il rapporto tra:
• «orario medio settimanale teoricamente eseguibile dal lavoratore
part-time» e
• «orario medio settimanale teoricamente eseguibile a tempo pieno».
Un esempio; applicando la formula a un lavoratore a part-time con orario
medio settimanale di 18 ore in un'azienda che applica un orario di lavoro
medio settimanale a tempo pieno pari a 38 ore, si ottiene: (18/38) x 3 =
1,42 che arrotondato all'unità inferiore, in quanto frazione inferiore allo
0,50, dà diritto a 1 giorno di permesso mensile. Altro esempio; applicando
la formula a un lavoratore a part-time con orario medio settimanale di 22
ore in un'azienda che applica un orario di lavoro medio settimanale a tempo
pieno di 40 ore, si ottiene: (22/40) x 3 = 1,65 che arrotondato all'unità
superiore, in quanto frazione superiore allo 0,50, dà diritto a 2 giorni di
permesso mensili.
Cumulo permessi con congedo straordinario.
Ribadendo che è possibile cumulare, nello stesso mese purché in giornate
diverse, i periodi di congedo straordinario e i giorni di permessi mensili,
l'Inps precisa che il cumulo può esserci anche senza soluzione di continuità
dell'astensione del lavoro, senza necessità cioè che ci sia una ripresa del
lavoro tra la fruizione dei due tipi di permessi.
Cumulo altri permessi 104.
Invece l'Inps precisa che la fruizione dei tre giorni di permesso mensili,
del prolungamento del congedo parentale e delle ore di riposo (cosiddetto
allattamento) alternative al prolungamento del congedo parentale deve
intendersi alternativa e non cumulativa nell'arco del mese (articolo
ItaliaOggi dell'08.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Detrazioni
on-line. Da settembre sito Enea operativo.
RISTRUTTURAZIONI/ Comunicazioni per il 50%.
Sarà on-line a settembre il sito Enea dedicato alla
trasmissione dei dati degli interventi di ristrutturazione edilizia ammessi
alle detrazioni fiscali del 50%. La sperimentazione della piattaforma
informatica per la comunicazione all'Enea dei lavori ordinari di
ristrutturazione sta per terminare. Per gli interventi già finiti ci
saranno, tre mesi di tempo per fare la comunicazione. Il termine dei 90
giorni decorrerà dalla data di messa on-line della piattaforma.
Questo è quanto si legge nella nota
Enea dei giorni scorsi sulla definizione delle specifiche tecniche del sito
e la sua messa on-line per la presentazione delle domande per usufruire
delle detrazioni fiscali del 50%.
Questo adempimento -ricorda l'Enea- ha la finalità di monitorare e
quantificare il risparmio energetico annuo conseguito e consuntivarlo in
ambito Europeo. Ricordiamo che con la legge 27/12/2017 n. 205 (legge
bilancio 2018) è stato introdotto l'obbligo di inviare all'Enea una
comunicazione per ottenere la detrazione del 50% sugli interventi di
ristrutturazione edilizia che consentono anche di conseguire un risparmio
energetico.
Fino all'anno passato, all'Enea andava inviata soltanto la documentazione
necessaria per ottenere l'ecobonus sugli interventi di riqualificazione
energetica degli edifici. La legge del 27.12.2017 n. 205 (legge di bilancio
2018), ha prorogato le detrazioni fiscali per gli interventi di
efficientamento energetico nella misura del 65% fino al 31.12.2018 e per gli
interventi realizzati su parti comuni di edifici condominiali (nella misura
del 65, 70,75, 80 e 85%), sino al 31.12.2021.
La detrazione deve essere ripartita in dieci rate annuali rispettando i
seguenti step:
• il pagamento deve essere effettuato con bonifico bancario o
postale (a meno che l'intervento non sia realizzato nell'ambito
dell'attività d'impresa);
• per la riqualificazione di edifici esistenti è necessario
acquisire la certificazione energetica dell'immobile, qualora introdotta
dalla Regione o dall'ente locale, ovvero, negli altri casi, di un «attestato
di qualificazione energetica», predisposto da un professionista abilitato;
• bisogna trasmettere all'Enea, entro 90 giorni dal termine dei
lavori e con modalità telematiche, la scheda informativa degli interventi
realizzati e copia dell'attestato di qualificazione energetica. Non vanno
inviate all'Enea asseverazione, relazioni tecniche, fatture, copia di
bonifici, piantine, documentazione varia;
• è necessaria l'asseverazione di un tecnico abilitato o la
dichiarazione resa dal direttore dei lavori. È sufficiente, invece,
l'attestazione di partecipazione ad un apposito corso di formazione in caso
di autocostruzione dei pannelli solari (articolo
ItaliaOggi del 04.08.2018). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Condanne
cancellate dalla fedina penale dopo cento anni. I PROVVEDIMENTI IN MATERIA
DI CASELLARIO, ORDINAMENTO PENITENZIARIO E SPESE DI GIUSTIZIA.
Certificati del casellario selettivi a disposizione della pubblica
amministrazione: conterranno le informazioni pertinenti al singolo
procedimento. Passa a cento anni il termine cancellare le condanne dalla
fedina penale, mentre i carichi sono eliminati alla morte dell'interessato.
È quanto prevede uno schema di decreto legislativo approvato ieri dal
consiglio dei ministri in via preliminare, che unifica in un unico modello
(certificato «del casellario») i tre tipi di certificati attualmente
previsti (generale, penale e civile).
Il provvedimento attua la legge delega 103/2017 e dispone la revisione della
disciplina del casellario giudiziale.
Il provvedimento interviene su diverse materie e il filo rosso è quello
della minimizzazione delle informazioni relative a episodi negativi sul
conto delle persone.
Ci sono interessi confliggenti: quello alla conoscenza delle notizie su
gravi fatti di allarme sociale e quello alla possibilità di rifarsi una
vita.
Lo schema di decreto legislativo stabilisce nuovi equilibri.
A favore della rieducazione e del reinserimento si pongono alcune
disposizioni sulla eliminazione sul non inserimento di alcuni provvedimenti
giudiziali che hanno un connotato fortemente clemenziale.
L'altro aspetto, che si pone in questa scia, è la scelta di fare certificati
ad hoc in relazione alle verifiche che la pubblica amministrazione è
chiamata a fare, di volta in volta, sulla onorabilità delle persone: qui si
limita la circolarità delle notizie a quelle rilevanti per accertare un
particolare spettro di moralità in relazione alle esigenze di un particolare
procedimento.
Vediamo più analiticamente le disposizioni del provvedimento approvato in
prima lettura dal governo.
TEMPO LIMITE. Si
interviene sui tempi di conservazione massima dei dati. Quelli relativi ai
carichi pendenti vengono tenuti fino alla morte della persona.
I dati relativi alle condanne, invece, sono conservati per cento anni dalla
nascita. Non è una diminuzione, anzi è una dilatazione dei tempi (attestati
oggi agli ottanta anni di età dell'interessato), che, però è stato scelto in
quanto. Così facendo, ci si allinea agli altri ordinamenti europei.
CERTIFICATI SELETTIVI.
Si distinguono in casi in cui la pubblica amministrazione ha necessità del
casellario generale: questo capita quando non è possibile individuare a
priori le iscrizioni rilevanti e pertinenti rispetto a un determinato
procedimento amministrativo. In tale caso la pubblica amministrazione
procedente continuerà ad acquisire il certificato generale.
Negli altri casi, invece, le pubbliche amministrazioni possono ottenere solo
il certificato elettivo, che riporta le sole iscrizioni pertinenti alle
singole finalità perseguite nello specifico procedimento.
L'accertamento della moralità selettiva implica una diminuzione dell'effetto
negativo delle iscrizioni al casellario e costringerà anche a verificare,
caso per caso, quali siano le informazioni rilevanti.
Le innovazioni previste sono anche di carattere organizzativo, in quanto si
prevede che le pubbliche amministrazioni potranno avere accesso diretto e
gratuito previa stipulazione di una convenzione con il ministero della
giustizia.
ELIMINAZIONI. Si
eliminano dal casellario giudiziale i provvedimenti di minor disvalore e
cioè quelli applicativi della non punibilità per tenuità del fatto.
Nel caso specifico il fatto particolarmente tenue merita una clemenza
giudiziale, che viene estesa anche alle conseguenti iscrizioni negative nel
casellario.
Lo schema di decreto legislativo esclude dalla iscrizione nel casellario
anche i provvedimenti relativi alla messa in prova dell'imputato. Esclusa
l'iscrizione anche in caso di rescissione del giudicato.
CERTIFICATO UNICO.
Si individua un unico tipo di certificato che unifica i tre tipi attualmente
previsti: generale, penale e civile. Il certificato unico si chiamerà
semplicemente «certificato del casellario».
AVVERTENZA UE.
Nel certificato va inserita un'avvertenza per indicare se esistano condanne
in ambito europeo. Questo per la completezza delle certificazioni.
ALTRI PROVVEDIMENTI.
Il Consiglio dei ministri ha approvato in via preliminare anche lo schema di
decreto legislativo in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario
(legge delega 103/2017); lo schema di decreto legislativo in materia di
armonizzazione della disciplina delle spese di giustizia, con riferimento
alle spese per le prestazioni obbligatorie e funzionali alle operazioni di
intercettazione (sempre in attuazione della legge 103/2017) (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Licenze
a due vie per le notifiche. Ai corrieri privati permessi nazionali,
regionali o cumulativi. Il decreto dello Sviluppo
economico che liberalizza i servizi postali su multe e atti giudiziari.
Stop al monopolio di Poste italiane. I privati potranno ambire a licenze
individuali speciali per notificare atti giudiziari e multe stradali. O
anche per la mera notifica dei verbali. Mentre non viene richiesta alcuna
licenza speciale a chi effettuerà la mera attività di trasporto. Le licenze
potranno essere nazionali o regionali, a seconda dei limiti territoriali
entro cui il titolare di permesso sarà abilitato e erogare il servizio. Gli
aspiranti corrieri, però, dovranno soddisfare una selva di requisiti di
onorabilità, professionalità e affidabilità per incassare la licenza. Oltre
che sottostare a obblighi, sia nei confronti del personale dipendente, sia
in relazione alla qualità del servizio offerto. Vincoli in violazione dei
quali, scatteranno diffide, sospensioni e revoche della licenza speciale.
A disciplinare gli step della liberalizzazione è un decreto del ministro
dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, in corso di registrazione alla
Corte dei Conti (si veda ItaliaOggi del 21/07/2018). Provvedimento che segue
alla delibera Consob n. 77/18 sulla liberalizzazione dei servizi postali.
C'è di più. Il decreto Mise prevede sanzioni di tipo pecuniario, secondo il
regime disegnato dal dlgs 261/1999 (attuativo della direttiva 97/67/CE), per
due genere di violazioni:
- chi eserciterà l'attività di notifica postale di atti giudiziari e verbali
senza licenza rischierà una stangata da 5 mila e 150 mila euro;
- invece, l'operatore che violerà gli obblighi dettati ai titolari di
licenza dal nuovo decreto, rischierà una multa tra 5 mila e 100 mila euro.
Andiamo con ordine, partendo dal dicastero, titolare al rilascio delle
licenze. Le domande per il titolo abilitativo dovranno essere inoltrate al
ministero dello Sviluppo economico, su moduli predefiniti da un disciplinare
Consob. Via Veneto, in base ai dettami del medesimo disciplinare, rilascerà
o meno le licenze. A richiedere il permesso speciale, però, potrà essere
anche un operatore capogruppo di un'aggregazione di più operatori postali
titolari di licenza speciale. Questo collettore sarà a tutti gli effetti
responsabile unico della fornitura del servizio di notifica in base alla
licenza
Affidabilità.
Per il rilascio della licenza, il decreto Mise chiede ai
privati di produrre una fideiussione da 100 mila euro per le attività di
notifica su tutto il territorio nazionale, e da 20 mila euro per la licenza
regionale. Qualora, però, sia richiesto il rilascio di più licenze
regionali, la fideiussione richiesta non potrà superare quota 100 mila euro.
In più, i candidati dovranno esibire bilanci depositati al registro imprese,
con un fatturato globale negli ultimi due esercizi da minimo un mln di euro
per la licenza nazionale. E da minimo 200 mila euro per la richiesta di
licenza regionale.
Professionalità.
Su questo fronte, il decreto Mise chiede esperienza. Da
dimostrare su quanto maturato in fatto di notifiche nell'ultimo biennio.
Come? Attraverso i bilanci. Da essi dovrà emergere che: l'attività svolta
nel settore postale in fatto di invii certificati e registrati non sia
inferiore al 10% del fatturato totale. E che almeno il 10% dei ricavi
provenga da attività svolte mediante messi notificatori, per conto della
p.a. (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Sagre
senza vincoli ma aumentano le responsabilità del primo cittadino.
Semplificazione delle misure di sicurezza per le sagre e le manifestazioni
pubbliche con vincoli meno stringenti rispetto a quelli introdotti un anno
fa.
Semplificazione delle misure di sicurezza per le sagre e le manifestazioni
pubbliche con vincoli meno stringenti rispetto a quelli introdotti un anno
fa. Ora la palla passa ai sindaci che avranno più libertà di manovra nel
valutare se una manifestazione presenta caratteristiche di rischio o meno.
Saltano le valutazioni tabellari per l'analisi del rischio ma risulterà
obbligatorio contare il numero esatto degli spettatori anche negli eventi
rischiosi anche se a titolo gratuito.
Lo prevede la
nota 18.07.2018 n. 11001/1/110/(10) di prot. del Ministero
dell'interno, contenente le nuove linee guida sul contenimento del rischio
in manifestazioni con peculiari condizioni di criticità.
La precedente circolare del 28.07.2017 aveva introdotto una serie di
prescrizioni molto complesse a tutela della sicurezza degli eventi in luoghi
pubblici, a partire da una valutazione standardizzata dei rischi con la
compilazione di una tabella con parametri molto rigidi e con prescrizioni
severe in materia di antincendio e gestione dell'emergenza.
Le nuove linee guida contenute nella circolare del 18.07.2018 hanno
l'obiettivo di introdurre una sensibile semplificazione procedurale per le
manifestazioni pubbliche. La classificazione dei rischi correlati a un
evento non deve più essere fatta mediante una valutazione tabellare, ma
verificando le criticità connesse alla tipologia della manifestazione, alla
conformazione del luogo e al numero e alle caratteristiche dei partecipanti.
Ed è esclusivamente agli eventi che presentano condizioni di particolare
criticità che si applicano le nuove linee guida ministeriali, che abbandona
la classificazione in base al livello di rischio (basso/medio/alto). Se, per
motivi diversi dal safety, si rende necessario istituire percorsi separati
di accesso all'area e di deflusso del pubblico, occorre che i varchi
utilizzati come ingressi abbiano caratteristiche idonee ai fini dell'esodo
in caso di emergenza oppure che il sistema di esodo sia completamente
indipendente dai varchi d'ingresso.
La densità massima di affollamento è fissata pari a 2 persone al metro
quadro, con un deflusso di 250 persone/modulo. I varchi di allontanamento
non devono essere inferiore a tre e vanno collocati in posizione
contrapposta. La larghezza minima dei varchi e delle vie di allontanamento
non deve essere inferiore a 2,40 m. Cambiano le regole per la suddivisione
della zona in settori. Sale a 10 mila persone la quota fino alla quale non è
richiesta la separazione.
I settori devono essere distinti i tra di loro mediante l'interposizione di
spazi liberi in cui è vietato lo stazionamento di pubblico ed automezzi non
in emergenza aventi larghezza non inferiore a 5 metri e devono essere
previsti attraversamenti presidiati in ragione di uno ogni 10 m. Non è più
richiesto il posizionamento di un estintore ogni 200 mq.: le nuove linee
guida prevedono soltanto un congruo numero di estintori portatili, di
adeguata capacità estinguente, in posizioni controllate, mentre nell'area
del palco possono essere aggiunti estintori carrellati. Soltanto per le
manifestazioni dinamiche in spazi limitati è imposta la disponibilità di un
estintore ogni 100 mq.
Il servizio di vigilanza antincendio è imposta solo nel caso in cui
l'affluenza prevista sia di oltre 20 mila persone. Per la gestione delle
emergenze deve essere contemplato un congruo numero di postazioni per le
comunicazioni di emergenza. Inoltre si dovrà prevedere, in loco, un centro
di coordinamento per la gestione della sicurezza che consenta, altresì, le
comunicazioni tra gli enti presenti e tra questi ultimi e l'organizzazione.
Per l'assistenza all'esodo, l'instradamento e il monitoraggio dell'evento,
l'organizzatore della manifestazione deve avvalersi di operatori di
sicurezza, che possono essere soggetti iscritti ad associazioni di
protezione civile riconosciute oppure il personale in quiescenza già
appartenente alle forze dell'ordine, alle forze armate, ai vigili urbani, ai
vigili del fuoco, al servizio sanitario, per i quali sia stata attestata
l'idoneità psicofisica, ovvero altri operatori in possesso di adeguata
formazione in materia.
Per la lotta all'incendio, vanno impiegati addetti, formati con corsi di
livello C (rischio alto) ai sensi del dm 10.03.1998 e abilitati ai sensi
dell'art. 3 della legge n. 609/1996 (articolo
ItaliaOggi del 20.07.2018). |
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: Più
semplice raccordare bilanci e appalti.
L'ottavo decreto correttivo della nuova contabilità (dlgs
118/2011) punta rendere più semplice il raccordo fra il bilancio e gli
appalti di lavori pubblici.
Il testo, licenziato mercoledì scorso dalla Commissione Arconet e in attesa
di pubblicazione, introduce numerose novità, soprattutto per quanto concerne
l'impatto contabile della progettazione e della realizzazione delle opere.
In primo luogo, viene disciplinata la registrazione del livello minimo di
progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma
triennale e nell'elenco annuale. Parliamo, quindi, di opere di taglio pari o
superiore a 100 mila euro: in tali casi, le spese di progettazione devono
essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera
cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di
progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario
che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup)
individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione
è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
In ogni caso, la progettazione «esterna» deve essere spesata al titolo II,
mentre quella interna a Titolo I o al Titolo II a seconda della natura
economica della spesa: ad esempio, gli stipendi al personale sono
classificati tra le spese di personale (Titolo I), mentre l'acquisto di
macchinari necessari è classificato tra gli «Impianti e Macchinari» (Titolo
II).
A seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto
dall'art. 21 del dlgs. 50/2016, gli interventi sono inseriti nel programma
triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo
II del bilancio di previsione nel rispetto del principio della competenza
finanziaria potenziata. In particolare, nei casi in cui la copertura di tali
spese risulti costituita da entrate esigibili nel medesimo esercizio in cui
sono esigibili le spese correlate, nel bilancio di previsione gli
stanziamenti di entrata e di spesa sono iscritti distintamente con
imputazione ai singoli esercizi di esigibilità.
Nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate
esigibili anticipatamente rispetto all'esigibilità delle spese correlate,
nel bilancio di previsione è iscritto il fondo pluriennale vincolato di
spesa. Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito dell'avvio del
procedimento di spesa, e sono via via impegnati a seguito della stipula dei
contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la
realizzazione dell'intervento. Anche gli impegni sono imputati contabilmente
nel rispetto del principio della competenza finanziaria potenziata. Non
rileva più, quindi, il momento dell'aggiudicazione dei lavori (tranne che
nei casi di esecuzione anticipata), ma quella della stipula dei diversi
contratti.
Per gli interventi di valore stimato inferiore a 100 mila euro, invece, la
spesa può essere stanziata in bilancio senza dover attendere l'inserimento
degli interventi nel programma triennale dei lavori pubblici. La spesa di
progettazione riguardante i livelli successivi a quello minimo richiesto per
l'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è
registrata nel titolo secondo della spesa, con imputazione agli stanziamenti
riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che
di progettazione esterna.
Gli incentivi per funzioni tecniche ex art. 113 del dlgs. 50/2016 sono
registrati nel medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori ai
sensi del comma 5-bis e come confermato dalla si delibera Corte dei conti n.
6/Sezaut/2018/Qmig del 10.04.2018 (articolo
ItaliaOggi del 20.07.2018). |
APPALTI: Il
programma lavori nel Dup. Assieme a quello sulle forniture va predisposto
entro il 31/7. Il Documento approvato dal consiglio
entro fi ne anno sarà considerato il testo definitivo.
Con il decreto del Mit n. 14/2018 sono state approvate le procedure per la
redazione e pubblicazione dei programmi pluriennali dei lavori e servizi
pubblici e dei relativi elenchi e aggiornamenti annuali.
Fino all'esercizio in corso erano previsti termini per la redazione dello
schema di programma (30/9), per la sua adozione (15/10) e la sua
approvazione (con il bilancio), previa pubblicazione dello schema per almeno
sessanta giorni per acquisire eventuali osservazioni; le disposizioni
relative sono però venute meno per effetto delle abrogazioni disposte sia
dal codice dei contratti che dal successivo «correttivo», così come non è
più in vigore il dm 24.10.2014, espressamente abrogato dal dm n. 14/2018.
Per la redazione ed approvazione del programma triennale delle opere
pubbliche e del programma delle forniture si deve oggi fare riferimento al
secondo periodo del comma 1 dell'art. 21 del codice dei contratti, il quale
espressamente dispone che detti programmi sono approvati, per gli enti
locali, in base alle norme che disciplinano la programmazione
economico-finanziaria degli enti.
La programmazione degli enti locali.
Ne consegue che le modalità attuative stabilite con il nuovo dm n. 14/2018
debbono essere lette ed applicate in coerenza con l'ordinamento degli enti
locali, che ne individua come segue gli strumenti e le scadenze: a) il
Documento unico di programmazione (Dup), da presentare al Consiglio entro il
31 luglio di ciascun anno; b) l'eventuale nota di aggiornamento del Dup, da
presentare al Consiglio entro il 15 novembre di ogni anno; c) lo schema di
bilancio di previsione finanziario, da presentare al Consiglio entro il 15
novembre di ogni anno, e che deve essere da quest'ultimo approvato entro il
31 dicembre.
I programmi settoriali nel Dup.
Il recente decreto del Mef del 18.05.2018 ha disposto che i documenti di
programmazione settoriale, tra i quali i programmi dei lavori pubblici e
delle forniture, si considerano approvati senza necessità di ulteriori
deliberazioni, in quanto contenuti nel Dup.
Può pertanto concludersi che: 1) la elaborazione di detti programmi deve
rispettare la tempistica scansionata per il Dup, e quindi gli stessi vanno
predisposti entro il 31 luglio; 2) i programmi vanno inseriti nel Dup, e di
tale documento seguono i tempi e la natura: conseguentemente il documento
predisposto dalla giunta entro il 31 luglio è da considerare quale schema
adottato (del Dup, del programma dei lavori e del programma delle
forniture), mentre il documento che il consiglio andrà ad approvare
definitivamente entro il 31 dicembre sarà il testo definitivo di tali
documenti.
La pubblicazione e la consultazione.
In sostituzione delle forme di pubblicazione precedentemente previste, il
codice dispone che i programmi dei lavori e delle forniture siano
pubblicati, oltre che nel sito informatico del Mit e dell'Osservatorio dei
contratti pubblici, nel sito informatico dell'ente e segnatamente nella
sezione «Amministrazione trasparente»; la presentazione di eventuali
osservazioni da parte di cittadini e soggetti terzi non è più
obbligatoriamente prevista, essendo stata ridotta ad una facoltà che ogni
singola amministrazione potrebbe consentire (art. 5, comma 5, del dm
14/2018) (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
disabili senza concorso. In caso di inerzia l’avviamento al lavoro fatto dai
Cpi. Circolare con i chiarimenti sul collocamento
obbligatorio nelle pubbliche amministrazioni.
L'assunzione di disabili nelle pubbliche amministrazioni può avvenire anche
senza concorso. In caso d'inerzia delle p.a., infatti, l'avvio al lavoro
verrà fatto dal centro per l'impiego, attingendo alle graduatorie del
collocamento.
Lo spiega la circolare n. 7571/2018 a firma congiunta di ministero del
lavoro, Anpal e funzione pubblica, che illustra le nuove norme sul
collocamento obbligatorio nelle p.a. (legge n. 68/999) dopo la riforma del
dlgs n. 75/2017. Come le aziende, anche le p.a. devono inviare un prospetto
informativo annuale (quello del 2017 entro il 15 settembre) e, in caso di
scopertura della quota di riserva, hanno 60 giorni per comunicare tempi e
modalità (concorsi, etc.) di assunzione a copertura della riserva. In caso
di mancata osservanza di tali norme, sarà il centro per l'impiego ad
arruolare i disabili.
La riforma. Le p.a., al pari delle aziende, sono tenute ad assumere disabili
nella c.d. quota di riserva fissata per legge nelle seguenti misure:
• 1 lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti;
• 2 lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
• 7% dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti.
Il dlgs n. 75/2017 ha introdotto l'art. 39-quater al dlgs n. 165/2001, per
dettare nuove regole sul collocamento obbligatorio, che prevedono due
adempimenti a carico delle p.a.: a) l'invio del prospetto informativo; b)
l'invio della comunicazione di copertura.
Il prospetto informativo. Il primo obbligo consiste nell'invio di un
prospetto annuale, entro il 31 gennaio di ogni anno, con riferimento alla
situazione occupazionale al 31 dicembre precedente. Mentre le aziende non
devono inviare il prospetto se, nell'anno precedente, non ci sono stati
mutamenti di occupazione, le p.a. invece devono sempre e comunque inviare il
prospetto a prescindere, cioè, dalla modifica della situazione
occupazionale. Poiché il termine per l'invio del prospetto del 2017 è
scaduto (il 28 febbraio, perché prorogato), la circolare fissa la nuova
scadenza al 15 settembre.
La comunicazione di copertura. Il secondo adempimento consiste dell'invio
della comunicazione con tempi e modalità per la copertura dell'eventuale
quota di riserva. A tanto sono tenute solo le p.a. che hanno inviato il
prospetto informativo (primo adempimento) dal quale è risultata una
scopertura della quota di riserva. La comunicazione va fatta entro 60 giorni
(quindi entro il 1° marzo di ogni anno), on-line, tramite una nuova procedura
disponibile dal 23 luglio. Le p.a. che hanno scoperture per il 2017 devono
fare la comunicazione entro il 15 settembre.
Assunzione automatica. La nuova disciplina, infine, prevede che, in caso di
mancata osservanza delle nuove norme o di mancato rispetto dei tempi da
parte delle p.a., i centri per l'impiego avviino numericamente i lavoratori
disabili attingendo dalle graduatoria vigenti con profilo professionale
generico. Ciò avverrà, in particolare, nelle p.a. che:
• non hanno inviato il prospetto informativo;
• hanno inviato il prospetto informativo con scopertura delle quote
di riserva ma non hanno inviato la successiva comunicazione;
• hanno inviato prospetto informativo e comunicazione, ma non hanno
rispettato i tempi per la copertura della quota di riserva.
In tutti i casi, prima di procedere all'automatica assunzione, il centro per
l'impiego inviterà la p.a. ad adempiere, dando tempo 30 giorni (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Lavori
stradali, recupero doc. Requisiti chiari per riabilitare a bene il fresato
d'asfalto. A mettere nero su bianco le regole end of
waste è il ministero dell’ambiente con decreto.
Nuove e più semplici regole, in vigore dal 03.07.2018, per riabilitare
allo stato di veri e propri beni i rifiuti costituiti dai residui d'asfalto
derivanti dalla fresatura della pavimentazione stradale. Con l'entrata in
vigore del nuovo decreto ministeriale sulla «cessazione della qualifica di
rifiuto di conglomerato bituminoso» a sancire l'uscita dei residui dalla
stringente normativa è il rispetto di precisi criteri tecnici di recupero
attestati dal gestore dell'impianto di trattamento attraverso una propria
certificazione.
Il contesto normativo. Le nuove regole sul cosiddetto «end of waste»
arrivano con il decreto del Minambiente 28.03.2018 n. 69 (pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 18.06.2018 n. 139) attuativo dell'articolo
184-ter del dlgs 152/2006 ai sensi del quale un rifiuto cessa di essere
tale, quando è stato sottoposto a un'operazione di recupero e soddisfi i
criteri specifici, da adottarsi (mediante regolamenti del ministero
dell'ambiente, nel caso di assenza di regole comunitarie) nel rispetto delle
seguenti condizioni:
- la sostanza o l'oggetto è comunemente utilizzato per scopi
specifici;
- esiste un mercato o una domanda;
- la sostanza o l'oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli
scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti sui
prodotti;
- il loro utilizzo non porterà a impatti complessivi negativi su
ambiente o salute.
Ai sensi dello stesso articolo 184-ter del dlgs 152/2006 i decreti che
stabiliscono criteri end of waste per specifiche tipologie di rifiuto si
sostituiscono, mandandole in soffitta, alle relative vecchie norme sulle
materie prime seconda previste dagli storici regolamenti.
L'end of waste del fresato d'asfalto. Pedissequamente alle regole Ue per
altre tipologie di rifiuti, le nuove norme nazionali ex dm 69/2018
stabiliscono:
- le caratteristiche che devono avere i rifiuti candidabili alla
riabilitazione (ossia l'input del processo di trattamento);
- le caratteristiche che deve avere il materiale che esce da tale
processo (ossia l'output del trattamento);
- i riutilizzi ammissibili;
- il momento del passaggio dallo status di rifiuto a quello di end
of waste;
- la documentazione che formalizza tale passaggio;
- gli altri adempimenti a carico di produttori dell'end of waste
(ossia, i titolari degli impianti di recupero autorizzati a processare gli
specifici rifiuti).
In particolare, l'input deve essere costituito da conglomerato bituminoso,
ossia dal rifiuto costituito dalla miscela di inerti e leganti bituminosi
identificata con il codice Eer 17.03.02 proveniente da:
- operazioni di fresatura a freddo degli strati di pavimentazione
realizzate in conglomerato bituminoso;
- demolizione di pavimentazioni realizzate in conglomerato
bituminoso.
L'assenza di materiale diverso dal rifiuto citato deve essere «verificata»
dall'impianto di produzione dell'output, a tal fine dotato di procedura di
accettazione dei residui anche tramite controllo visivo, umano o non, per
effettuare controlli su ogni lotto in entrata (3mila metri cubi). L'output
del processo di trattamento deve invece essere costituito da «granulato di
conglomerato bituminoso» (ossia il conglomerato bituminoso che ha cessato di
essere rifiuto ex 184-ter del Codice ambientale e dm in parola), rispettoso
dei limiti massimi di concentrazione di determinate sostanze chimiche in
elenco (da accertarsi tramite test e analisi conformi al dettato del dm) e
rispondente a determinate caratteristiche prestazionali.
Il conglomerato
cessa di essere rifiuto ed è qualificato «granulato» nel momento in cui
rispetta tutti i seguenti criteri (e, dunque, rispetto alla disciplina
uscente, prima di essere effettivamente riutilizzato): è conforme alle
citate specifiche di input ed output; risponde agli standard Uni En 13108-8
(serie da 1-7) o Uni En 13242 in funzione degli scopi specifici (previsti
dal dm) cui è destinato.
Gli scopi specifici cui il granulato è destinabile sono esclusivamente i
seguenti:
- per miscele bituminose prodotte con sistema di miscelazione a
caldo nel rispetto della norma Uni En 13108 (serie da 1-7);
- per miscele bituminose prodotte con sistema di miscelazione a
freddo;
- per produzione di aggregati per materiali non legati con leganti
idraulici per l'impiego nella costruzione di strade, in conformità a Uni En
13242 ad esclusione dei recuperi ambientali.
Il rispetto di tutti i suddetti criteri deve essere attestato da una
«dichiarazione di conformità» redatta ex dpr 445/2000, dal produttore dell'eow
al termine del processo produttivo di ciascun lotto, notificata alle
Autorità competenti, conservata presso la sede dell'impianto.
Ad eccezione delle imprese che adottano un sistema di gestione ambientale
Emas o Iso, gli stessi produttori sono altresì obbligati a conservare per
cinque anni presso la sede un campione di granulato di ogni lotto ai fini
della verifica di conformità ai citati criteri.
Dall'entrata in vigore del dm (ossia dal 03.07.2018) i produttori di
granulato di conglomerato bituminoso (evidentemente coincidenti con i
gestori degli impianti già autorizzati alla loro produzione in base
all'uscente regime) possono continuare la loro attività senza soluzione di
continuità a condizione che entro 120 giorni (ossia entro il 31.10.2018) provvedano ad aggiornare, alla luce della nuova disciplina, la
comunicazione alla Provincia ex articolo 216 dlgs 152/2006 per le attività
di recupero rifiuti, oppure ove spetti ad avanzare istanza di aggiornamento
dell'Aia ex Parte II del dlgs 152/2006 o dell'autorizzazione alla gestione
rifiuti ex Parte IV dlgs 152/2006. Nelle more di tale adeguamento il
granulato prodotto può essere utilizzato se ha le caratteristiche previste
dal nuovo decreto come attestate mediante la descritta «dichiarazione di
conformità».
Le esclusioni. Precisa il nuovo dm 69/2018 che resta escluso dalla sua
disciplina «il conglomerato bituminoso qualificato come sottoprodotto» ex
articolo 184-bis del dlgs 152/2006.
In base alla distinzione concettuale ex articolo del Codice ambientale
citato è infatti «un sottoprodotto e non un rifiuto» (e dunque non ha
bisogno di essere sottoposto a operazioni di recupero per tornare ad essere
giuridicamente un ordinario bene) qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa
tutte le seguenti condizioni (che a differenza dei criteri generali end of
waste non hanno bisogno per essere operative di essere declinati da
specifici atti normativi):
- è originato da un processo di produzione (dunque, non di
demolizione) di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario
non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
- è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso
dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione,
da parte del produttore o di terzi;
- la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza
alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
- l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto
soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti
i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a
impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
---------------
All'orizzonte prescrizioni più stringenti.
Le nuove regole nazionali sulla cessazione della qualifica di rifiuto del
conglomerato bituminoso potrebbero però ben presto essere già oggetto di
revisione alla luce delle ultime novità normative del Legislatore
comunitario.
Il dm 69/2018 che le reca è infatti, come ricordato, fondato sui criteri
generali ex articolo 184-ter del dlgs 152/2006, il quale a sua volta
costituisce attuazione pedissequa delle regole end of waste ex articolo 6
della direttiva 2008/98/Ce.
Dal 04.07.2018 il tenore dei criteri end of waste ex direttiva 2008/98/Ce
è però cambiato in virtù delle modifiche apportate dalla nuova direttiva
2018/851/Ue, uno dei quatto atti del cosiddetto «Pacchetto economia
circolare», pubblicati sulla Guue del 14.06.2018 e da attuarsi entro il 05.07.2020.
Tra le novità alle quali dovrà plausibilmente essere adeguata la disciplina
nazionale vi sono più stringenti prescrizioni per gli operatori dell'end of
waste, laddove viene introdotto l'obbligo di assicurare che il materiale
recuperato rispetti fin dall'inizio la normativa applicabile in materia di
sostanze chimiche e prodotti collegati (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Molti
enti in panne sull'installazione di chioschi e dehor.
Molti enti in panne sull'installazione di chioschi e dehor Molti comuni
ancora in panne sui regolamenti per l'installazione di dehor, chioschi e
gazebo a servizio di pubblici esercizi di somministrazione al pubblico di
alimenti bevande o di attività commerciali con consumo sul posto.
L'assenza
di regolamento, proprio nel periodo dell'anno in cui si registra un picco
nella presentazione delle istanze di installazione da parte degli operatori
del settore interessati, mette a rischio la possibilità di ottenere
l'autorizzazione, creando in questo modo danni all'economia del comparto. Un
regolamento comunale ad hoc rappresenta la soluzione più opportuna e
doverosa, come peraltro segnalato da una circolare Mibac del 03.03.2014,
per contemperare i diversi interessi in gioco, da un lato la libertà di
iniziativa economica degli imprenditori e dall'altro la razionale e oculata
gestione delle aree pubbliche.
Nel regolamento, allora, dovranno in primo
luogo essere disciplinati tutti gli endoprocedimenti necessari per
l'acquisizione dei pareri facenti capo agli enti o uffici a vario titolo
interessati, prodromici al rilascio del provvedimento unico autorizzativo
per l'installazione del gazebo di competenza dello sportello unico attività
produttive del comune. E cioè: concessione di suolo pubblico con pagamento
del relativo canone di occupazione; permesso di costruire ex dpr 380/2001;
autorizzazione paesaggistica semplificata ex dpr 31/2017 - punto B 26), nei
casi previsti, ovvero parere ex art. 21 dlgs 42/2004, nei casi previsti Scia
sanitaria presso il Sian dell'Asl per l'ampliamento della superficie di
vendita; autorizzazione sismica ex artt. 93 e 94, dpr 380/2001; parere del
settore polizia locale in ordine alla viabilità; parere del settore
patrimonio del comune.
In secondo luogo, saranno individuati i soggetti
legittimati all'installazione e cioè: pubblici esercizi di somministrazione
di alimenti e bevande; esercizi di vicinato del settore alimentare
(macellerie, pescherie, salumerie, gastronomie), purché il comune non abbia
contingentato in base al dl 201/2011 zone e aree del territorio in cui
limitare il numero massimo di autorizzazioni rilasciabili per l'apertura di
bar e ristoranti; panifici; imprenditori agricoli.
E ancora il regolamento
dovrà prevedere: dimensioni di ingombro della struttura; i materiali e i
colori utilizzabili; il periodo massimo di installazione; il canone di
occupazione di suolo pubblico; gli oneri incombenti ai titolari per es. in
materia di tutela monumentale; allegati scritto-grafici alla domanda di
installazione; modelli di strutture distinti per zone della città (per es.
centro storico e periferia); sanzioni in caso di violazioni.
Saranno invece
esentati dalla necessità di conseguire titolo edilizio espresso e
autorizzazione paesaggistica (e dunque godranno di un regime semplificato)
strutture meramente ornamentali o con funzione di riparo dal sole come
tende, pergotende, ombrelloni, pedane, sedie e tavolini (articolo
ItaliaOggi del 06.07.2018). |
ENTI LOCALI: Controllate,
assunzioni libere. Scaduto il 30 giugno l'obbligo di attingere agli esuberi.
Lo ricorda l'Associazione nazionale comuni italiani con una
nota sulla riforma Madia.
Assunzioni più libere nelle società
a controllo pubblico. Il 30 giugno scorso, infatti, è scaduto il termine che
imponeva a tali soggetti di attingere dall'elenco del personale in esubero
per effetto della riforma «Madia».
Lo ricorda l'Anci, con una nota che
segnala che le controllate pubbliche possono nuovamente reclutare nuovo
personale a tempo indeterminato previa procedura di selezione ad evidenza
pubblica.
L'art. 25, comma 1, del dlgs 175/2016 ha stabilito che, entro il 30.09.2017, le società a controllo pubblico dovessero effettuare una ricognizione
del personale in servizio, al fine di individuare eventuali eccedenze, anche
in relazione alle scelte effettuate dalle amministrazioni pubbliche
controllanti ai sensi dell'art. 24 (mantenimento della partecipazione,
cessione, ovvero scioglimento e messa in liquidazione della società).
Per
agevolare il ricollocamento del personale eccedentario, fino al 30.06.2018 era imposto di effettuare nuove assunzioni a tempo indeterminato solo
attingendo i nominativi dall'elenco del personale in esubero gestito dalla
regione di competenza. La violazione di questa disposizione avrebbe
comportato la nullità dei rapporti di lavoro instaurati e costituito una
grave irregolarità ai sensi dell'art. 2409 del codice civile.
Solo nel caso
in cui le società avessero necessità di individuare profili infungibili
inerenti a specifiche competenze non disponibili nell'elenco regionale, le
stesse potevano essere autorizzate dalla regione di competenza e,
successivamente, dall'Anpal, a effettuare procedure di assunzione proprie.
La scadenza del 30 giugno è stata ribadita anche dall'art. 4 del decreto 09.11.2017, attuativo delle succitate disposizioni.
Ora tali vincoli sono
venuti meno, ma rimangono vigenti, ricorda la nota Anci, le altre norme in
materia di assunzioni di personale, fra cui l'art. 19 del dlgs 175, che
prevede, fra l'altro, l'obbligo per le società pubbliche di definire criteri
e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi,
anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità (articolo
ItaliaOggi del 04.07.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pausa
pranzo più lunga. Nuovo contratto/non mancano
polemiche.
Pausa pranzo più lunga per i
dipendenti di regioni ed enti locali, ma non tutti festeggiano. Fra gli
scontenti, vi sono sia coloro che accorciavano i tempi per uscire prima la
sera, sia gli amministratori preoccupati per i maggiori oneri da sostenere
per i buoni pasto.
L'art. 26 del Ccnl firmato lo scorso 21 maggio dispone, al comma 1, che
«Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il
personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di
almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della
eventuale consumazione del pasto». In precedenza, molti enti consentivano un
break più breve, di 10 minuti, in applicazione dell'art. 8, comma 2 del dlgs
66/2003.
La materia è molto delicata, perché coinvolge diritti dei lavoratori, che
però spesso sono i primi a chiedere un intervallo più breve, che consenta
loro di anticipare l'uscita serale. Da qui, i primi tentativi di aggirare la
nuova clausola.
Come riporta il sito della Delfino&Partners, vi è chi sostiene che l'obbligo
di fruire della pausa sarebbe strettamente connesso alla durata
dell'ordinario orario di lavoro che il dipendente è tenuto a osservare in
ciascuna giornata, escludendo perciò dal computo eventuali prestazioni di
lavoro straordinario. Ma ciò pare in contrasto con il tenore della
previsione contrattuale, che impone la mezz'ora ogniqualvolta «la
prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore», senza distinzione
alcuna, quindi, tra lavoro ordinario e lavoro straordinario.
Altri, invece, pensano che il diritto a fruire della pausa sia un diritto
disponibile, un diritto, cioè, di cui il dipendente può liberamente disporre
(accorciandone la durata o rinunciandovi addirittura). Ma ciò non è
corretto: come chiarito diverse volte dall'Aran, l'interruzione
dell'attività lavorativa costituisce un diritto indisponibile per il
lavoratore, così come per esempio il diritto alle ferie o al riposo
settimanale, poiché essa assolve alla necessità di sicurezza e igiene della
collettività e non solo del lavoratore stesso Per tale motivo non è
consentita la rinuncia né in forma espressa né in forma tacita attraverso il
non esercizio del diritto che non è disponibile da parte del lavoratore,
perciò irrinunciabile.
Per quanto concerne, invece, la questione del buono pasto, bisogna
evidenziare che spetta al singolo ente, in relazione al proprio assetto
organizzativo e alle risorse disponibili, oltre che la decisione se attivare
o meno il servizio mensa o il buono pasto sostitutivo, definire
autonomamente la disciplina di dettaglio sulle modalità di erogazione del
ticket, tenendo conto ovviamente delle implicazioni finanziarie delle
diverse scelte.
Sussiste, pertanto, un autonomo spazio decisionale che ogni amministrazione
può utilizzare in relazione alla particolare natura di talune prestazioni di
lavoro, stabilendo regole e condizioni per la fruizione del buono pasto, ivi
compresa l'entità delle prestazioni minime antimeridiane e pomeridiane a tal
fine richieste al personale (articolo
ItaliaOggi del 04.07.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nuova
carta d'identità ai Raee. Dai citofoni alle prolunghe: più prodotti con
regole doc. Dal ministero dell’ambiente le
indicazioni sul passaggio al catalogo aperto dei tecnorifiuti.
Sono rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, e quindi da
gestire secondo le peculiari norme: citofoni, monopattini elettrici,
prolunghe e avvolgicavo a fine vita. Non sono invece Raee, ma comunque
rifiuti da amministrare secondo le generali regole: cucine a gas con
accensione elettrica, fusibili, automatismi per cancelli, ascensori e
carrelli elevatori elettrici di cui i detentori si disfano.
A fare chiarezza
sul confine tra tecno-rifiuti e altri residui è il Minambiente, che con una
Guida dello scorso maggio 2018 illustra la logica sottesa alla normativa di
settore in vista del 15.08.2018, data di entrata in vigore del cd.
catalogo aperto dei Raee che comporterà un allargamento delle
apparecchiature che gli operatori della filiera dovranno gestire secondo le
regole ex dlgs 49/2014.
Il contesto normativo. Con le «indicazioni operative per la definizione
dell'ambito di applicazione ''aperto'' del dlgs 49/2014» datate 08.05.2018 il dicastero illustra le conseguenze dell'allargamento della disciplina Raee («open scope») previsto dagli articoli 2 e 3 del decreto in parola, in
virtù dei quali le regole per la gestione dei tecno-rifiuti si applicano dal
15.08.2018 a tutte le apparecchiature elettriche ed elettroniche a fine
vita che non sono espressamente escluse.
Due i parametri per accertare se un bene a fine vita debba o meno essere
gestito come Raee: punto di partenza è la verifica della sua compatibilità o
meno con la definizione di (rifiuto di) apparecchiatura elettrica ed
elettronica ex articolo 4 del dlgs 49/2014; in caso positivo, la tappa
successiva è la verifica della sua presenza o meno tra le tipologie di
apparecchiature che l'articolo 3 dello stesso decreto espressamente esclude
dal campo di applicazione delle norme sui tecno-rifiuti.
Quali prodotti diventano Raee.
In base all'articolo 4 del dlgs 49/2014 sono Raee: «le apparecchiature
elettriche o elettroniche che sono rifiuti ai sensi dell'articolo 183, comma
1, lettera a), del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, inclusi tutti
i componenti, sottoinsiemi e materiali di consumo che sono parte integrante
del prodotto al momento in cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o
l'obbligo disfarsene».
Le indicazioni del Minambiente fanno innanzitutto
luce sulla nozione di apparecchiature elettriche o elettroniche, che ai
sensi di altro punto dello stesso articolo 4 sono «le apparecchiature che
dipendono, per un corretto funzionamento, da correnti elettriche o da campi
elettromagnetici e le apparecchiature di generazione, trasferimento e
misurazione di queste correnti e campi e progettate per essere usate con una
tensione non superiore a 1.000 volt per la corrente alternata e a 1.500 volt
per la corrente continua».
Al riguardo il Minambiente precisa che sono tali i dispositivi che
necessitano di elettricità per svolgere le funzioni base per le quali sono
stati costruiti e che, dunque, in caso di interruzione di correnti/campi non
possono più eseguirle.
Dunque, se l'assenza/interruzione di elettricità inibisce solo funzioni di
supporto, l'apparecchiatura non è una Aee, dunque non diventa a fine vita un
Raee (pur dovendo essere gestita come rifiuto secondo altre regole).
Tra le apparecchiature che, in base a tale ratio, non sono Aee la Guida
Minambiente indica quelle che hanno bisogno di scintilla elettrica solo in
fase di avvio, come falciatrici a benzina, cucine a gas con accensione
elettronica, caldaie a gas con supporto di controllo elettrico.
In merito alle specifiche tre categorie di Aee di cui alla citata
definizione il documento ministeriale chiarisce che trattasi di
apparecchiature di generazione di segnali di tensione, trasferimento di
segnali elettrici, rilevazione ed analisi dei segnali, nei parametri
indicati.
Preziosi i chiarimenti sulle componenti delle Aee. Al riguardo il dicastero
illustra come le componenti parti integranti dell'Aee nel momento in cui
diventa rifiuto sono anch'esse Raee pur se aggiunte (assemblate) all'Aee
successivamente alla fabbricazione e provenienti da altri produttori (come
gli hard disk alloggiati ex post nel computer); ragione per cui vanno di
conseguenza gestite unitamente al Raee principale e secondo le proprie
caratteristiche.
Le componenti che, invece, non sono parti integranti della Aee nel momento in cui questa diventa rifiuto: se sono beni che possono
volgere una loro funzione propria, autonoma e indipendente dell'Aee di
riferimento sono essere stesse delle Aee (è il caso degli hard disk dotati
di «case» che li mettono in grado di svolgere le loro funzioni anche fuori
dal pc; prolunghe, avvolgicavo; apparecchi inverter autonomi); se, invece,
sono prodotti che non possono svolgere una funzione autonoma senza essere
assemblati ad una Aee, una volta a fine vita non costituiscono Raee, fermo
restando che devono sempre essere correttamente gestiti come rifiuti (tra
questi rientrano cavi elettrici privi di connettori per il cablaggio,
fusibili, automatismi per cancelli, schede inverter per monitor).
E quali restano fuori dalla speciale disciplina.
Come accennato, non soggiacciono alla disciplina ex dlgs 49/2014 sui Raee
sia i beni che non soddisfano la definizione di Raee più sopra esposta, sia
quelli che (pur rispondendo a tale nozione) sono espressamente esclusi dal
campo di applicazione della particolare disciplina dall'articolo 4 del dlgs
49/2014.
La Guida del ministero dell'ambiente fornisce indicazioni sia sulle
apparecchiare già espressamente escluse dalla citata disciplina Raee sin dal
suo esordio sia quelle che lo saranno a partire dal 15.08.2018.
Tra le prime, il ministero illustra la portata della deroga a favore delle
apparecchiature progettate e installate specificamente come parte di
dispositivi che non sono Aee, purché possano svolgere la propria funzione
solo in quanto parti di tale apparecchiatura. A titolo di esempio il
dicastero chiarisce in merito che rientrano nella norma (e quindi godono
dell'esclusione dal regime Raee) i navigatori satellitari parti integrati
nelle auto, mentre non vi rientrano (e quindi diventano Raee) i navigatori
satellitari che possono essere utilizzati anche senza vettura così come i
citofoni che possono essere smontati da un impianto e rimontati in un altro
per funzionare.
In relazione, invece, alle nuove categorie di apparecchiature espressamente
escluse dal regime Raee a partire dal 15.08.2018, la Guida ministeriale
chiarisce che: gli «utensili industriali fissi di grandi dimensioni»
coincidono con quelli di peso maggiore di 2 tonnellate e volume uguale o
superiore a 15625 metri cubi; tra le installazioni fisse di grandi
dimensioni rientrano ascensori e impianti di risalita; tra le macchine
mobili non stradali destinate ad uso professionale (oggetto di deroga)
rientrano carrelli elevatori elettrici, spazzatrici stradali, tagliaerba
professionali.
Non godono invece della deroga al regime Raee riservata ai «mezzi di
trasporto di persone o di merci, esclusi i veicoli elettrici a due ruote non
omologati» gli hoverboards, i segways, i monopattini elettrici e, in quanto
mezzo di svago e non di trasporto, le automobili per bambini.
Gli obblighi per la filiera.
L'incremento delle Aee che a fine vita dovranno essere gestite come Raee
impegnerà ulteriormente ogni soggetto della filiera. Tra questi, lo
ricordiamo, i produttori di Aee, chiamati dal dlgs 49/2014 al conseguimento
obiettivi minimi di recupero e riciclaggio dei relativi rifiuti;
finanziamento dei sistemi di gestione Raee (e iscrizione al relativo
Registro nazionale dei soggetti obbligati al) con sostentamento economico di
meccanismi di raccolta, trasporto e trattamento dei rifiuti; denuncia
annuale Mud delle Aee immesse sul mercato; informazione soggetti interessati
su corretta gestione Aee a fine vita e relativa funzionale etichettatura.
Ai distributori Aee (produttori o meno delle stesse) competono invece:
ritiro gratuito «uno contro uno» e «uno contro zero», ricorrendone
presupposti, di Raee domestici o «dual use»; connessi oneri tecnici per
deposito; organizzazione del relativo trasporto presso centri di raccolta o
impianti di trattamento (se svolto in proprio, con obbligo d'iscrizione Albo
gestori, seppur in via semplificata); tracciamento dei rifiuti (con tenuta
documentazione ad hoc per carico/scarico e trasporto).
Per i produttori di Raee gli obblighi coincidono invece con corretto
deposito e conferimento in via differenziata dei tecno-rifiuti; sui gestori
di impianti di trattamento Raee gravano invece (oltre ad oneri autorizzativi
generali): tracciamento analitico dei rifiuti in entrata destinati al
recupero e dei materiali generati in uscita; adeguamento alle migliori
tecniche di trattamento; comunicazione annuale dei dati quali/quantitativi
dei Raee gestiti (tramite Mud) (articolo
ItaliaOggi Sette del 02.07.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Il
nuovo contratto complica le tabelle di equiparazione.
Il nuovo contratto per le funzioni locali, firmato lo scorso 21 maggio con
efficacia dal giorno successivo, interviene con due distinte norme (articolo
12 e 64) sul sistema di classificazione professionale del personale.
Si tratta di un intervento che, a ben vedere, va a complicare l'applicazione
delle tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai
contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del
personale non dirigenziale disciplinati d al Dpcm 26.06.2015.
Il mantenimento delle quattro categorie
L'articolo 12, comma 2, del contratto 21.05.2018 prevede che il sistema
di classificazione del personale del comparto funzioni locali resti
articolato in quattro categorie, denominate rispettivamente A, B, C e B.
L’accesso a queste categorie è unico e corrisponde alla posizione economica
iniziale di ciascuna categoria, fatta eccezione per la categoria B, le cui
posizioni di accesso restano B.1 e B.3.
La disposizione contrattuale, forse per pressioni da parte sindacale, si
discosta dall'atto di indirizzo del comitato di settore del 05.10.2017 il
quale, al paragrafo 2.2 prevedeva che, al fine di favorire la flessibilità
organizzativa e rimuovere impedimenti ai processi di mobilità di personale
sia interna che esterna, una riduzione da quattro a sole tre categorie.
La compressione delle categorie di inquadramento del personale dipendente
del comparto funzioni locali avrebbe sicuramente consentito un allineamento
con gli altri comparti di contrattazione che già da tempo hanno un
suddivisione su tre aree funzionali, come nel caso del comparto funzioni
centrali.
Le nuove progressioni economiche orizzontali
L'articolo 64, comma 3, del contratto 21.05.2018 ha previsto
l'istituzione di nuove quattro nuove figure apicali in corrispondenza delle
categorie A, B, C e D (A.6, B.8, C.6 e D.7), a cui si accede mediante
progressione economica a carico delle risorse stabili del Fondo.
Come rileva
la Corte dei conti, a sezioni riunite in sede di controllo, nella delibera
n. 6/SSRRCO/CCN/18 con la quale ha certificato positivamente il contratto,
«l'istituzione delle nuove figure apicali finisce, inoltre, per generare
elementi di discriminazione fra i comparti, in quanto non prevista per il
comparto delle Funzioni Centrali ed attribuita in modo circoscritto (solo
per le aree “funzionali”) nel comparto Istruzione e ricerca. Ne consegue il
rischio di alimentare eventuale contenzioso di tipo contrattuale».
Conclusioni
Nel contesto delineato, il nuovo contratto del comparto funzioni locali più
che eliminare alcune criticità che sono sorte nell'applicazione delle
tabelle di equiparazione ne ha generate altre, come ha evidenziato la Corte
dei conti.
Lo stesso Dpcm 26.06.2015 è oggetto di aggiornamento in caso di rinnovo
dei contratti nazionali di lavoro della pubblica amministrazione.
A questo punto non ci resta che attendere gli sviluppi. Nel frattempo, nel
caso di inquadramento del dipendente a seguito di mobilità
intercompartimentale, appare più corretto attenersi scrupolosamente ai
criteri definiti nell'articolo 2 del Dpcm 26.06.2015, utilizzando le
tabelle allegate quale strumento di supporto in alcuni casi non vincolante
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.05.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Con
le nuove regole lavoro aggiuntivo anche nel part-time verticale.
L'articolo 12 del Dlgs 80/2015, pur precisando che le disposizioni sul
lavoro a tempo parziale si applicano anche alla Pa, ha tuttavia stabilito
alcune eccezioni, quelle riferite alla disciplina del lavoro supplementare
in assenza del contratto collettivo (articolo 6, comma 2); la regola delle
clausole elastiche collegate alla modifica della collocazione temporale e
all'aumento delle ore (articolo 6, comma 6) e, infine, l'apparato
sanzionatorio (articolo 10).
Il nuovo contratto, all'articolo 55, disciplina
ora, per le funzioni locali, il lavoro supplementare mutuando le indicazioni
essenzialmente previste dal Dlgs 81/2015.
Lavoro aggiuntivo o supplementare
Va evidenziato che il lavoro supplementare, inserito all'articolo 55 del
contratto, corrisponde al lavoro aggiuntivo previsto dall'articolo 6 del
contratto del 14.09.2000, con differenze sia qualitative sia
quantitative.
Mentre il lavoro aggiuntivo del precedente contratto poteva essere svolto
solo dal personale con part-time orizzontale, nel nuovo articolo 55 il
lavoro supplementare è esteso anche al part-time verticale.
Il lavoro supplementare estende la percentuale ammissibile, prima prevista
nel limite del 10% dell'orario a tempo parziale (calcolato su base mensile
con utilizzazione per più di una settimana), al 25% ma con un tetto massimo
di 36 ore settimanali, lasciando identica la maggiorazione della paga oraria
globale pari al 15%.
Cambia anche la penalizzazione da parte del datore di
lavoro che utilizzi il lavoro aggiuntivo o supplementare in eccedenza del
limite: nel precedente contratto la maggiorazione oraria subiva un’impennata
del 50%, con le nuove disposizioni la maggiorazione è limitata al 25%. Nel
precedente contratto, inoltre, era lasciata la possibilità di autorizzare lo
straordinario restando ferme le stesse maggiorazioni orarie previste per il part-time orizzontale.
La spesa sostenuta per le maggiorazioni corrisposte ai dipendenti a tempo
parziale resta contabilizzata nei limiti della capienza dello stanziamento
del lavoro straordinario.
I periodi di utilizzazione
Sui periodo di utilizzo, mentre l'articolo 6 del contratto 14.09.2000
ne limita la durata a non più di un mese -prevedendo in presenza di un
abuso prolungato al comma 7 quanto segue: «Il consolidamento nell'orario di
lavoro, su richiesta del lavoratore, del lavoro aggiuntivo o straordinario,
svolto in via non meramente occasionale, avviene previa verifica
sull'utilizzo del lavoro aggiuntivo e straordinario per più di sei mesi
effettuato dal lavoratore stesso»- il nuovo articolo 55 nulla stabilisce sul
possibile consolidamento dell'orario, lasciando intendere che non vi è
alcuna possibilità da parte del dipendente di chiedere in via definitiva la
stabilizzazione dell'orario espletato anche in caso di periodi prolungati di
utilizzazione.
In considerazione del necessario accordo tra le parti, resta intatta la
possibilità, da parte del lavoratore, di rifiutare lo svolgimento di
prestazioni di lavoro supplementare per comprovate esigenze lavorative, di
salute, familiari o di formazione professionale.
Anche al di fuori del lavoro supplementare, trova ancora applicazione la
possibilità di svolgere lavoro straordinario, tutte le volte che siano
richieste per motivate esigenze di servizio, ore aggiuntive sia rispetto
all'orario a tempo parziale sia in caso di superamento delle 36 ore
settimanali in caso di accordo sul lavoro supplementare
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2018). |
ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Dagli
incentivi tecnici ai risparmi da razionalizzazione, le voci fuori dal tetto
del fondo accessorio.
Non tutte le voci che costituiscono il fondo delle risorse decentrate sono
rilevanti ai fini dell’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone di
contenere il trattamento accessorio complessivo nel tetto di quello
dell'anno 2016.
La giurisprudenza della Corte dei conti e le interpretazioni
della Ragioneria generale dello Stato hanno chiarito nel tempo quali somme
sono da neutralizzare per effettuare un omogeneo calcolo di verifica.
Incentivi per funzioni tecniche
La deliberazione n. 6/2018 della Sezione Autonomie, che ha finalmente
escluso dal limite gli incentivi per funzioni tecniche (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 30 aprile), permette quindi di
tirare le fila e avere un quadro completo per bene operare anche alla luce
dell'obbligo di revisione della costituzione del fondo che seguirà al nuovo
contratto delle funzioni locali.
Economie da razionalizzazione
Tra le principali voci escluse dal limite troviamo le economie derivanti dai
piani di razionalizzazione eventualmente adottati dagli enti in base al Dl
98/2011: fino il 50% di questi risparmi possono essere «girati» al fondo.
Attenzione, però: per la Sezione Autonomie della Corte dei conti si possono
escludere dal limite solo se i dipendenti hanno avuto un ruolo determinate
per impegno e dedizione nel raggiungimento degli obiettivi di risparmio
(deliberazione n. 34/2016).
A pagina 167 della circolare n. 19/2017, la Ragioneria generale dello Stato
esclude le «risorse conto terzi individuale e collettivo» ottenute con
l'applicazione dell'articolo 43, comma 3, della legge 449/1997 – articolo
15, comma 1, lettera d). La stessa RgS, ma con la circolare n. 16/2012,
aveva escluso dai tetti dell'allora articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010
i compensi per Istat rimborsati agli enti per le attività di censimento.
Finanziamenti europei
Come sempre, quando si parla di limiti alla spesa di personale, vengono
esclusi gli incrementi del fondo a carico di finanziamenti europei. È ormai
orientamento consolidato, sia da parte della Corte dei conti sia della RgS,
la neutralizzazione, ai fini del confronto del trattamento accessorio con
l'anno 2016, sia dei risparmi dei fondi degli anni precedenti sia dei
risparmi derivanti da minori spese sul fondo del lavoro straordinario.
Compensi dell'avvocatura interna
L'elenco delle esclusioni prosegue con i compensi dell'avvocatura interna.
Per la RgS non si conteggiano i compensi professionali legali in relazione a
sentenze favorevoli all'Amministrazione con rimborso delle spese legali
dalla parte soccombente; la Corte dei conti sembra, invece, più favorevole a
un esclusione totale di queste somme.
Somme per progettazioni interne
Rimanendo nel campo delle specifiche disposizioni di legge, solo dal 2018,
ovvero da quanto è entrata in vigore la modifica all'articolo 113 del Dlgs
50/2016, si possono escludere dal limite i trattamenti correlati agli
incentivi per funzioni tecniche; da «sempre», invece, sono escluse le somme
per progettazioni interne secondo il Dlgs 163/2006.
Nuovo contratto
Ed eccoci al nuovo contratto. Dal 2019 è previsto l'incremento della parte
stabile del fondo delle risorse decentrate per una somma di 83,20 euro per
ciascun dipendente presente al 31.12.2015. L'importo, comporterà,
appunto, un aumento del budget a disposizione per la contrattazione
integrativa, ma la dichiarazione congiunta proposta in sede di
«errata-corrige» al contratto ne conferma, invece, l'esclusione dai tetti di
spesa previsti dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.05.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Giochi,
scale e pergolati liberi. Dai pannelli solari ai barbecue: i 58 interventi
possibili.
Dodici categorie e 58 tipi di interventi: sono i numeri dell'edilizia libera
e leggera, slegata da un titolo edilizio, ma vincolata alla conformità ai
piani regolatori. L'elenco è sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 07.04.2018, in allegato al decreto
02.03.2018.
L'elenco del decreto del 03.03.2018 sviluppa le categorie di intervento
previste dall'articolo 6 del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001). Tra
le voci dell'elenco, i primi 25 casi di attività edilizia libera riguardano
le manutenzioni straordinarie.
Stanno alla libertà del proprietario la pavimentazione interna ed esterna,
la messa a norma dell'impianto elettrico e degli altri impianti (gas,
igienico e idro-sanitario), l'installazione di un impianto di
climatizzazione.
Altrettanto per la realizzazione di intercapedini, locali tombati, vasche di
raccolta acque.
Per l'importanza che hanno per il risparmio energetico, stanno nella casella
dell'edilizia libera le opere relative a pannelli solari, fotovoltaici e
generatori microeolici.
Arredo da giardino (dai barbecue alle fontane), gazebi non infissi al suolo,
giochi per i bambini, pergolati, ripostigli per attrezzi, sbarre, manufatti
per lo stallo di biciclette, tende ed elementi divisori riempiono la
categoria delle aree ludiche. Anche roulotte, camper, case mobili e
imbarcazioni rientrano nell'attività edilizia libera, in quanto manufatti
leggeri in strutture ricreative.
Stesso risultato, ma sotto etichetta diversa (opere contingenti temporanee)
si evidenzia per gazebo, stand fieristici, servizi igienici mobili,
tensostrutture e assimilabili, elementi espositivi e aree di parcheggio
provvisorio (per tutti questi casi, il glossario in commento sottolinea la
necessità della comunicazione di inizio lavori per le opere di
installazione).
Un'altra categoria di attività edilizia libera è dedicata alla eliminazione
delle barriere architettoniche: dalla installazione di ascensori e
montacarichi, rampe, apparecchi sanitari e impianti igienici e idro-sanitari
e dispositivi sensoriali.
La stessa appartenenza alle attività edilizia libera è registrata per i
movimenti terra, come la manutenzione e gestione di terreni agricoli,
vegetazione spontanea, e impianti di irrigazione e drenaggio finalizzati
alla regimazione e uso dell'acqua in agricoltura.
Attività contigua (sempre libera) è quella della installazione di serre (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.04.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli
incentivi ai vigili non evitano i tetti di spesa.
Le entrate da multe possono finanziare i «premi» per la Polizia locale, ma
senza superare i limiti generali per gli stipendi integrativi dei dipendenti
pubblici.
I fondi che finanziano le voci aggiuntive delle busta paga, come
spiega la riforma Madia della Pa, non possono superare il livello raggiunto
nel 2016 fino a quando non sarà completata la futuribile «riorganizzazione»
delle architetture salariali dei lavoratori della Pubblica amministrazione.
Il nuovo contratto dei dipendenti degli enti territoriali, che al momento è
solo una bozza perché attende il via libera della Corte dei conti prima del
passaggio finale in consiglio dei ministri, risolve una questione dibattuta
da anni. Questione che spesso anima polemiche locali sugli incentivi per i
vigili urbani finanziati dai verbali che gli automobilisti si trovano sul
parabrezza o nella cassetta postale. Per capire la questione, come capita
spesso quando si affrontano le regole del pubblico impiego, bisogna
addentrarsi in un dotto sistema di rimandi fra articoli e commi.
Le regole
Il punto di partenza è il Codice della strada, a quell'articolo 208 che da
anni prevede anche un obbligo per i Comuni di spiegare in dettaglio quanti
degli incassi che vengono raccolti dalle multe finiscono in manutenzione e
in interventi di miglioramento della sicurezza stradale. Questo passaggio è
rimasto inattuato per l'eterna assenza del decreto del ministero delle
Infrastrutture che avrebbe dovuto indicare le modalità di rendicontazione,
ma lo stesso articolo del Codice fa rientrare fra i progetti di
potenziamento della sicurezza stradale anche gli incentivi alla Polizia
locale.
Il nuovo contratto (articolo 67, comma 3, lettera i. per i diretti
interessati) conferma la previsione, ma aggiunge che gli obiettivi legati
alla distribuzione dei premi devono essere contenuti nel piano della
performance di ogni ente locale. In pratica, quindi, il meccanismo rientra a
pieno titolo fra i «progetti speciali» che nei Comuni possono determinare
incentivi in busta paga fin dal contratto del 1999, e non nei bonus previsti
da «specifiche disposizioni di legge».
Le conseguenze
Una distinzione dall'aspetto bizantino, ma dalle importanti conseguenze
pratiche. Perché gli incentivi per i progetti speciali rientrano nel limite
generale che impedisce ai fondi integrativi di superare i livelli raggiunti
nel 2016, limite dal quale sono invece esclusi solo i premi regolati dalle
«specifiche disposizioni».
Sul punto, anche le indicazioni arrivate dalla
Corte dei conti sono chiare, e non permettono di puntare su deroghe dettate
da interpretazioni più o meno “alternative”. Anche perché il principio che
guida la magistratura contabile è quello di premiare sempre le letture più
restrittive quando si tratta di fissare i confini delle eccezioni alle
regole che limitano la spesa pubblica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, i «funzionari» complicano la contrattazione.
La questione del finanziamento delle posizioni organizzative con imputazione
al bilancio anziché al fondo delle risorse decentrate sta assumendo
connotati surreali.
Quella che avrebbe dovuto essere una manovra per
favorire le relazioni sindacali rischia di creare maggiori contrasti in sede
di contrattazione decentrata. L’idea non sarebbe sbagliata, ma purtroppo
l’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone di non superare l’importo
del trattamento accessorio del 2016 complica non poco le cose.
Il finanziamento
Ad oggi, negli enti con la dirigenza le posizioni organizzative sono
finanziate dal fondo del salario accessorio. Con l’entrata in vigore del
contratto nazionale delle Funzioni Locali, il nuovo fondo verrà costituito
al netto di queste risorse; il che significa che i valori della retribuzione
di posizione e di risultato verranno finanziati direttamente dal bilancio
come accade, da sempre, negli enti senza la dirigenza. Di fatto, in sede di
prima applicazione, si verrà a costituire un budget delle posizioni
organizzative pari a quello che gli enti hanno destinato alla stessa
finalità nell’anno 2017.
Il problema è che gli enti dovranno considerare entrambi gli aggregati
all’interno del tetto del salario accessorio del 2016 e le disposizioni
contrattuali non prevedono automatismi sul passaggio delle risorse da un
budget all’altro.
Le possibili situazioni
In concreto potrebbero verificarsi tre situazioni diverse. All’interno
dell’ente si mantengono le stesse quote del punto di partenza. Ipotizziamo
che il limite del 2016 sia pari a 150 e che l’ente abbia destinato nel 2017
un importo pari a 50 per le posizioni organizzative. Nel 2018 si dovrà
costituire un fondo di 100 e un “fondo” per le posizioni organizzative di
50. Se nel tempo questo equilibrio non cambia, non ci sono più relazioni
sindacali da porre in essere sul tema.
Un secondo caso accade quando l’amministrazione intende ridurre stabilmente
il numero delle posizioni organizzative, per esempio per una
riorganizzazione. A questo punto, ipotizziamo che il valore da destinare a
questa finalità riduca il “fondo” delle posizioni organizzative a 40. Con il
limite fissato a 150 si crea, quindi, la possibilità di aumentare il fondo
del salario accessorio di 10 fino a poter giungere a 110. Non sembra però
esserci alcun automatismo in quanto l’articolo 5 dell’ipotesi di contratto
nazionale afferma che questa movimentazione dovrà avvenire previo confronto
tra le parti sindacali anche per individuare le facoltà di incremento del
fondo dei dipendenti.
Potrebbe infine esserci la necessità di procedere in modo contrario,
aumentando il numero delle posizioni organizzative. In questo caso un
maggior costo ipotizzato di 5 porterebbe il fondo delle posizioni
organizzative a 55 con l’obbligo, per rispettare il limite di euro 150 di
andare a ridurre il fondo dei dipendenti. Questa azione diventa però
piuttosto complicata in quanto l’articolo 7 del contratto nazionale in
arrivo prevede che venga contrattata con i sindacati.
Com’è possibile vedere, in definitiva, sia in un caso sia nell’altro sarà
sempre necessario condividere le scelte anche al tavolo delle relazioni
sindacali, per tutta la durata del vincolo previsto all’articolo 23, comma 2,
del Dlgs 75/2017
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, i «funzionari» complicano la contrattazione.
La questione del finanziamento delle posizioni organizzative con imputazione
al bilancio anziché al fondo delle risorse decentrate sta assumendo
connotati surreali.
Quella che avrebbe dovuto essere una manovra per
favorire le relazioni sindacali rischia di creare maggiori contrasti in sede
di contrattazione decentrata. L’idea non sarebbe sbagliata, ma purtroppo
l’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che impone di non superare l’importo
del trattamento accessorio del 2016 complica non poco le cose.
Il finanziamento
Ad oggi, negli enti con la dirigenza le posizioni organizzative sono
finanziate dal fondo del salario accessorio. Con l’entrata in vigore del
contratto nazionale delle Funzioni Locali, il nuovo fondo verrà costituito
al netto di queste risorse; il che significa che i valori della retribuzione
di posizione e di risultato verranno finanziati direttamente dal bilancio
come accade, da sempre, negli enti senza la dirigenza. Di fatto, in sede di
prima applicazione, si verrà a costituire un budget delle posizioni
organizzative pari a quello che gli enti hanno destinato alla stessa
finalità nell’anno 2017.
Il problema è che gli enti dovranno considerare entrambi gli aggregati
all’interno del tetto del salario accessorio del 2016 e le disposizioni
contrattuali non prevedono automatismi sul passaggio delle risorse da un
budget all’altro.
Le possibili situazioni
In concreto potrebbero verificarsi tre situazioni diverse. All’interno
dell’ente si mantengono le stesse quote del punto di partenza. Ipotizziamo
che il limite del 2016 sia pari a 150 e che l’ente abbia destinato nel 2017
un importo pari a 50 per le posizioni organizzative. Nel 2018 si dovrà
costituire un fondo di 100 e un “fondo” per le posizioni organizzative di
50. Se nel tempo questo equilibrio non cambia, non ci sono più relazioni
sindacali da porre in essere sul tema.
Un secondo caso accade quando l’amministrazione intende ridurre stabilmente
il numero delle posizioni organizzative, per esempio per una
riorganizzazione. A questo punto, ipotizziamo che il valore da destinare a
questa finalità riduca il “fondo” delle posizioni organizzative a 40. Con il
limite fissato a 150 si crea, quindi, la possibilità di aumentare il fondo
del salario accessorio di 10 fino a poter giungere a 110. Non sembra però
esserci alcun automatismo in quanto l’articolo 5 dell’ipotesi di contratto
nazionale afferma che questa movimentazione dovrà avvenire previo confronto
tra le parti sindacali anche per individuare le facoltà di incremento del
fondo dei dipendenti.
Potrebbe infine esserci la necessità di procedere in modo contrario,
aumentando il numero delle posizioni organizzative. In questo caso un
maggior costo ipotizzato di 5 porterebbe il fondo delle posizioni
organizzative a 55 con l’obbligo, per rispettare il limite di euro 150 di
andare a ridurre il fondo dei dipendenti. Questa azione diventa però
piuttosto complicata in quanto l’articolo 7 del contratto nazionale in
arrivo prevede che venga contrattata con i sindacati.
Com’è possibile vedere, in definitiva, sia in un caso sia nell’altro sarà
sempre necessario condividere le scelte anche al tavolo delle relazioni
sindacali, per tutta la durata del vincolo previsto all’articolo 23, comma 2,
del Dlgs 75/2017
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.04.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, il nuovo contratto cambia il «risultato».
L'articolo 15 del nuovo contratto delle funzioni locali innova, e non poco,
il regime della retribuzione di risultato degli incaricati di posizioni
organizzativa, rispetto ai quali sono congiuntamente rideterminati i limiti
massimi e minimi (da 5.000 a 16.000).
Questa evoluzione implica
l'introduzione di alcune opportunità nella progettazione del sistema di
valutazione della performance da strutturare concretamente con la
definizione e la selezione dei criteri per la determinazione e per
l'erogazione annuale proprio della retribuzione di risultato.
Quest'ultima,
infatti, se prima era parametrizzata (tra il 10% e il 25%, a livello
potenziale) alla retribuzione di posizione spettante, ora è correlata alle
risorse complessivamente destinate all'erogazione della retribuzione di
posizione e di risultato, di cui deve rappresentare una quota non inferiore
al 20%.
La diversa impostazione prescelta consente agli enti locali di strutturare
in modo più discrezionale (e quindi coerente con lo specifico contesto
organizzativo) le modalità e gli strumenti con cui attivare la correlazione
tra la performance individuale conseguita e il trattamento retributivo di
risultato potenzialmente ed effettivamente attribuito.
Va sottolineato, in proposito, che l'approccio ora introdotto per le
posizioni organizzative riprende il modello, legato alla consistenza
complessiva del fondo, tradizionalmente vigente per la dirigenza, che non
aveva una quota di risultato puntualmente determinata in funzione della
«posizione» spettante.
La misurazione della performance individuale annuale, naturalmente, dovrà
avvenire sempre sulla base delle indicazioni dell'articolo 9 del Dlgs
150/2009, mentre potrà essere variamente modulata la correlazione
intercorrente tra (appunto) la performance realizzata e l'indennità di
risultato riconosciuta.
La logica della premialità
La scelta del contratto, infatti, mira a favorire l'attuazione di logiche
maggiormente incentivanti, dal momento che l'incidenza del risultato
(rispetto alla posizione), a maggior ragione che ora è determinata in
funzione dell'ammontare complessivo delle risorse, dovrebbe ampliare la
quota orientata alla premialità, prima potenzialmente quantificabile anche
in corrispondenza della soglia più contenuta, pari al 10% della retribuzione
di posizione.
Inoltre, il minore legame esistente rispetto alla retribuzione di posizione
spettante a ogni incaricato può favorire una distribuzione, anche a livello
potenziale, maggiormente coerente con il peso e la rilevanza degli obiettivi
specificamente assegnati a ciascuno, tenuto conto dei criteri di
ponderazione adottati nell'ambito del sistema di misurazione della
performance.
In altri termini, il peso ponderale assegnato a ogni obiettivo potrebbe
essere utilizzato (in modo più spinto e incentivante ovvero in modo più
limitato) per differenziare il valore potenziale della retribuzione di
risultato assegnato a ciascuna posizione organizzativa, ferma restando –ovviamente– la determinazione del risultato effettivamente attribuito.
Naturalmente, compete al sistema di misurazione e di valutazione della
performance stabilire concretamente le modalità, gli strumenti e le
soluzioni tecniche per realizzare i meccanismi di differenziazione della
premialità, alla luce delle specificità del contesto.
Il problema degli interim
In ordine al «risultato», peraltro, è anche importante sottolineare come il
nuovo contratto (pure in questo caso riprendendo una soluzione vigente per
la dirigenza) utilizzi lo strumento pure per risolvere l'annosa problematica
della remunerazione degli interim.
Infatti, l'accordo stabilisce ora che al lavoratore, già titolare di
incarico, a cui viene conferito un interim relativo ad altra posizione
organizzativa è attribuito un importo la cui misura può variare dal 15 al
25% del valore economico della retribuzione di posizione prevista per
l'incarico aggiuntivo.
La scelta puntuale della remunerazione da
riconoscere, entro il range predefinito, non è discrezionale ma discende da
alcuni elementi individuati dal contratto, correlati alla complessità delle
attività e del livello di responsabilità nonché al livello di conseguimento
degli obiettivi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.04.2018). |
LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO: Per
il collaudo tecnico non serve iscriversi all'albo.
Collaudi tecnico-amministrativi per le opere pubbliche senza iscrizione
all'albo per i dipendenti pubblici; obbligo di iscrizione per il collaudo
statico.
È quanto ha previsto il Consiglio superiore dei lavori pubblici che nei
giorni scorsi ha approvato lo schema di decreto del ministero delle
infrastrutture sul collaudo delle opere pubbliche, che attua l'articolo 102,
comma 8, del codice dei contratti pubblici. Si vedrà adesso se il testo sarà
siglato dal ministro Delrio.
La norma del codice dei contratti prevede che con decreto ministeriale, su
proposta del Consiglio superiore dei lavori pubblici, sentita l'Autorità
nazionale anticorruzione, siano disciplinate e definite le modalità tecniche
di svolgimento del collaudo, nonché i casi in cui il certificato di collaudo
dei lavori e il certificato di verifica di conformità possono essere
sostituiti dal certificato di regolare esecuzione.
La stessa disposizione
del codice consente fino alla data di entrata in vigore del decreto,
consente di applicare l'articolo 216, comma 16, anche con riferimento al
certificato di regolare esecuzione. Nel stesso decreto ministeriale dovranno
essere disciplinate le modalità e le procedure di predisposizione degli albi
dei collaudatori, di livello nazionale e regionale, nonché i criteri di
iscrizione secondo requisiti di moralità, competenza e professionalità.
Gli incarichi di collaudo, dal punto di vista procedurale, quando affidati
all'esterno della pubblica amministrazione, vengono trattati come i servizi
di ingegneria e architettura ma dal punto di vista dei requisiti per lo
svolgimento dell'incarico (quando svolti all'interno della pubblica
amministrazione) l'iscrizione all'albo dei collaudatori rappresenta, per il
funzionario pubblico, il requisito abilitante allo svolgimento
dell'incarico. Poi emergono delle differenze fra collaudo statico e collaudo
tecnico-amministrativo
Per l'articolo 7 della legge 05.11.1971, n. 1086 «il collaudo deve
essere eseguito da un ingegnere o da un architetto, iscritto all'albo da
almeno 10 anni, che non sia intervenuto in alcun modo nella progettazione,
direzione ed esecuzione dell'opera»; analogamente l'articolo 67, comma 2, del dpr n. 380/2006 precisa che
Per il collaudo tecnico-amministrativo era invece il dpr 207/2010 a
stabilire che «è necessaria l'abilitazione all'esercizio della professione
nonché, ad esclusione dei dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici,
l'iscrizione da almeno cinque anni nel rispettivo albo professionale».
Nello schema approvato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici sarebbe
previsto per il collaudo statico la necessità del possesso di una laurea in
ingegneria o architettura, secondo i limiti di competenza stabiliti dai
rispettivi ordinamenti professionali, e l'iscrizione all'albo professionale
da almeno dieci anni. Viceversa, per il collaudo tecnico-amministrativo, se
svolto all'interno degli uffici tecnici della pubblica amministrazione, si
richiede il possesso di un diploma di laurea ma non l'iscrizione all'Albo.
Per il dipendente pubblico basta quindi essere laureati per essere iscritti
all'albo dei collaudatori. Un trattamento differenziato rispetto ai soggetti
esterni, nonostante si tratti dello svolgimento delle stesse attività (articolo
ItaliaOggi del 30.03.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Stretta
sulla gestione dei Raee. Adempimenti ambientali moltiplicati per gli
operatori.
Dal 15.08.2018 saranno sottoposte alle speciali norme sui tecno-rifiuti
(c.d. «Raee») tutte le apparecchiature elettriche ed elettroniche («Aee»)
non espressamente escluse dal legislatore. Con lo scattare dei termini
previsti dal dlgs 49/2014 in attuazione della disciplina Ue si passerà
infatti dal numero chiuso delle Aee soggette alle particolari eco-regole a
un elenco aperto, secondo la logica di allargamento nota a livello
comunitario come «open scope».
L'estensione del campo di applicazione delle
norme sui Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) si
tradurrà in un ampliamento degli oneri a carico di tutti gli operatori della
filiera: fabbricanti e distributori di nuove apparecchiature, produttori dei
relativi rifiuti e gestori degli stessi.
L'ampliamento delle regole sui Raee.
Le regole interessano i beni che a monte soddisfano la definizione di Aee
recata dal dlgs 49/2014, il provvedimento attuativo della direttiva
2012/19/Ue sulla gestione dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche. In base all'art. 4 del suddetto dlgs 49/2014 sono Aee le
apparecchiature che dipendono per il corretto funzionamento dalla corrente
elettrica o da campi elettromagnetici nonché gli strumenti di generazione,
trasferimento e misurazione di questi con tensione entro i 1.000/1.500 volt
(in base al tipo di corrente).
A modulare il novero delle Aee soggette alle
regole su prevenzione e gestione dei relativi rifiuti sono gli artt. 2 e 3
del dlgs 49/2014, recanti rispettivamente l'ambito di applicazione delle
norme in parola e le apparecchiature dalle stesse escluse. In particolare,
l'art. 2 del dlgs 49/2014 stabilisce che: fino al 14.08.2018 le regole
sui Raee si applicano alle sole apparecchiature rientranti nelle (dieci)
categorie dell'allegato I al decreto ed elencate a (mero) titolo
esemplificativo nel successivo allegato II; dal 15.08.2018, invece, le
regole si applicano a tutte le apparecchiature, come classificate nelle
(sei) categorie dell'allegato III e (analogamente all'uscente regime)
elencate a titolo esemplificativo nel connesso allegato IV.
L'allargamento
del campo di applicazione delle regole Raee è insito nel passaggio
dall'allegato I all'allegato III, poiché da elenco classificatorio esaustivo
delle categorie delle Aee si passa a un elenco in cui la classificazione ha
solo valore sistematico. Il passaggio dall'una all'altra classificazione
reca novità anche nella forma, poiché le precedenti dieci categorie di Aee
vengono tradotte in sei più vasti insiemi, coincidenti con: apparecchi per
scambio temperatura; schermi, monitor e apparecchiature con schermi
superiori a 100 cm cubici; lampade; apparecchiature di grandi dimensioni
(tra cui elettrodomestici, computer, distributori, generatori di corrente);
apparecchiature di piccole dimensioni (con misura esterna massima non
superiore a 50 cm); piccole apparecchiature informatiche e per le
telecomunicazione (con nessuna dimensione esterna superiore ai 50 cm).
Sul
descritto campo di applicazione il successivo art. 3 del dlgs 49/2014
modella le eccezioni, stabilendo che: fino al 14.08.2018 la disciplina
sui Raee non si applica alle apparecchiature per la sicurezza nazionale, a
quelle che fanno funzionalmente parte di altre Aee escluse, alle lampade a
incandescenza; dal 15.08.2018 alle suddette esclusioni si aggiungeranno
altre sette categorie, quali le Aee destinate a essere inviate nello spazio,
gli utensili industriali e le installazioni fisse di grandi dimensioni
(tranne le apparecchiature non progettate per esserne parte), i mezzi di
trasporto di persone e merci (tranne quelli elettrici a due ruote non
omologati), le macchine mobili non stradali professionali, le Aee per
ricerca e sviluppo interaziendali, alcuni dispositivi medici.
In estrema
sintesi, dal suddetto quadro normativo deriva dunque come dal 15.08.2018
le speciali eco-regole sui tecno-rifiuti recate dal dlgs 49/2014 si
applicheranno a tutte le Aee dallo stesso provvedimento non espressamente
escluse, con un bilancio (tra inclusioni ed esclusioni) che vede al netto un
allargamento dei tecno-rifiuti sottoposti a «regime speciale».
E in base
alle rilevazioni effettuate per i singoli comparti merceologici e alle
relative informazioni veicolate dagli operatori del settore tra
apparecchiature che dal prossimo agosto 2018 saranno soggette al regime dei Raee appaio esserci stufe a pellet e caldaie, pompe e compressori,
generatori e alimentatori di energia elettrica, antenne, interruttori e
fusibili, motori e quadri elettrici, cavi elettrici, prolunghe, adattatori,
fusibili.
Conseguenze per gli operatori.
L'allargamento del novero delle Aee sottoposte alla disciplina dei
tecno-rifiuti comporta innanzitutto conseguenze per i relativi produttori di
apparecchiature. Ai sensi del dlgs 49/2914 tali sono, lo ricordiamo, le
persone fisiche o giuridiche: stabilite sul territorio nazionale o sullo
stesso rappresentate da altro soggetto che commercializzano con proprio nome
o marchio di fabbrica delle Aee (proprie o fabbricate da terzi); che
immettono professionalmente sul mercato nazionale delle Aee provenienti da
Stati Ue o extra Ue; stabilite in qualsiasi altro Stato che vendono sul
mercato nazionale italiano Aee tramite tecniche di comunicazione a distanza.
I suddetti produttori delle «debuttanti» Aee soggiaceranno a tutti gli
obblighi previsti dal suddetto dlgs 49/2914 e provvedimento connessi quali,
a titolo generale: conseguimento degli obiettivi minimi di recupero e
riciclaggio dei relativi rifiuti; iscrizione nel Registro nazionale dei
soggetti obbligati al finanziamento dei sistemi di gestione Raee ed
effettivo sostentamento economico di meccanismi di raccolta, trasporto e
trattamento; denuncia annuale Mud delle Aee immesse sul mercato;
informazione dei soggetti interessati sulla corretta gestione delle Aee una
volta a fine vita e relativa funzionale etichettatura delle stesse.
Ancora.
L'allargamento degli oneri coinvolgerà anche i distributori di Aee, quali le
persone iscritte al Registro delle imprese ex lege 580/1993 che (produttori
o meno delle stesse) rendono disponibili sul mercato (anche mediante sistemi
di vendita a distanza) le suddette apparecchiature elettriche ed
elettroniche. Per tali soggetti scatteranno infatti (ricorrendone le
condizioni generali previste dal dlgs 49/2014) gli obblighi di ritiro
gratuito «uno contro uno» e «uno contro zero» dei relativi Raee domestici o
«dual use» e il relativo trasporto presso centri di raccolta o impianti di
trattamento.
Produttori di Raee vedranno invece espandersi gli obblighi di
corretto deposito e conferimento in via differenziata dei rifiuti generati.
Per i gestori degli impianti di trattamento Raee si allargheranno gli
obblighi di tracciamento analitico dei rifiuti in entrata destinati al
recupero e materiali generati in output, di adeguamento alle migliori
tecniche per il processo dei residui, di comunicazione annuale dei dati
quali/quantitativi dei Raee gestiti (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: È
illegittima la loro presenza nelle delegazioni trattanti. Contratti locali,
fuori i politici.
Illegittima la presenza di politici nelle delegazioni trattanti di parte
pubblica chiamate alle trattative per i contratti collettivi decentrati di
lavoro.
La partecipazione degli organi politici (sindaco o assessori al personale)
alle trattative continua a costituire una chiara ed evidente violazione di
legge, anche se la preintesa del Ccnl delle funzioni locali non riproduce i
contenuti dell'articolo 10 del Ccnl 01.04.1999.
Tale norma stabiliva che «ai fini della contrattazione collettiva decentrata
integrativa, fatto salvo quanto previsto dall'art. 6, ciascun ente individua
i dirigenti (o, nel caso enti privi di dirigenza, i funzionari) che fanno
parte della delegazione trattante di parte pubblica». Una previsione posta a
chiarire, anche per via contrattuale, la corretta composizione delle
delegazioni, dando atto dell'esclusione della compagine politica.
Secondo alcuni primi interpreti, l'assenza di simile disposizione nel nuovo
Ccnl potrebbe riaprire le porte delle trattative anche a sindaci ed
assessori.
Si tratta di un dubbio, tuttavia, del tutto infondato. C'è, intanto, da
precisare che l'assenza dei politici dalle delegazioni non significa privare
gli organi di governo di poteri, necessari, di incidenza nel processo della
contrattazione. È, infatti, la giunta comunale competente a dare le
direttive alla delegazione trattante per la contrattazione e, soprattutto,
ad autorizzare la sottoscrizione della preintesa. Giocare il ruolo sia di
soggetto che programma e controlla, sia di soggetto che contratta,
costituisce un'evidente confusione di ruoli e compiti.
In ogni caso, ai fini della corretta costituzione della delegazione
trattante priva di organi politici non occorre per nulla un'esplicita
previsione contrattuale. Infatti, non può e non deve spettare alla
contrattazione, né nazionale, né decentrata, determinare la composizione
delle delegazioni trattanti di parte pubblica.
Lo si comprende agevolmente leggendo la previsione dell'articolo 40, comma
1, del dlgs 165/2001, novellato dalla riforma Madia, ai sensi del quale
«sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie [ ] afferenti alle
prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17».
L'articolo 5, comma 2, per un verso attribuisce in via esclusiva (cioè ad
esclusione dei politici) a dirigenti (e negli enti che ne sono privi, ai
responsabili di servizio) la funzione di gestione dei rapporti di lavoro.
Ma, ancora più chiara è la previsione dell'articolo 16, comma 1, lettera h),
ai sensi del quale i dirigenti «svolgono le attività [ ] di gestione dei
rapporti sindacali».
Dunque, la previsione dell'articolo 10 del Ccnl 01.04.1999 non è stata
riproposta semplicemente perché non si tratta di materia sulla quale i
contratti possono esprimersi, mentre la normativa è estremamente chiara
nell'assegnare solo ed esclusivamente alla dirigenza il compito di gestire i
rapporti sindacali, tra i quali rientrano senza il minimo dubbio le
trattative per i contratti decentrati (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Se
nevica è lo Stato a pagare. Nella p.a., in caso di assenza, stipendio senza
perdere ferie. La proposta della Corte conti
all’Aran accentua le differenze tra lavoro pubblico e privato.
Paghi lo Stato se nevica e i dipendenti pubblici non possono raggiungere il
posto di lavoro.
Così la segreteria generale della Corte dei conti (cioè la
direzione amministrativa, non i giudici) ritiene corretto regolare un evento
come la recente nevicata del 26 febbraio scorso, che paralizzò Roma,
chiedendo all'Aran di condividere la tesi con la richiesta di parere 2179
dello scorso 5 marzo. Tesi che, se accolta, porterebbe all'ennesima
fortissima divaricazione tra mondo del lavoro privato e pubblico.
La nevicata del 26 febbraio scorso impedì a molti dipendenti della Corte dei
conti di raggiungere gli uffici. Secondo la segreteria generale della Corte,
la mancata resa della prestazione lavorativa non dovrebbe incidere
negativamente sulla sfera giuridica dei lavoratori, ma va considerata
imputabile al «rischio di impresa» dell'amministrazione pubblica, prendendo
atto che l'evento atmosferico crea un danno erariale non imputabile ai
lavoratori. In sostanza, dunque, nei confronti dei lavoratori che non sono
riusciti a raggiungere il posto di lavoro, secondo la richiesta di parere,
non si dovrebbe disporre d'ufficio una riduzione delle ore di permesso
personale o dei giorni di ferie; di conseguenza, per ragioni di equità, ai
dipendenti che invece hanno comunque preso servizio andrebbe riconosciuto un
turno di riposo compensativo.
Secondo la segreteria generale della Corte dei conti non si potrebbero
estendere al lavoro pubblico le modalità di regolazione del rapporto proprie
del privato. In questo ambito, come del resto evidenziato dal ministero del
Lavoro nel parere 7 giugno 2012, n. 37/0010676 reso proprio in merito alle
conseguenze del mancato svolgimento della prestazione lavorativa a causa di
una nevicata. Nel caso del rapporto di lavoro privatistico, rileva il
Ministero «l'impossibilità sopravvenuta liberi entrambi i contraenti: il
lavoratore dall'obbligo di effettuare la prestazione e il datore
dall'obbligo di erogare la corrispondente retribuzione. Restano ferme,
tuttavia, le disposizioni dei contratti collettivi di lavoro che,
generalmente, contemplano la possibilità per il lavoratore di fruire di
titoli di assenza retribuiti connessi al verificarsi di eventi eccezionali».
Nel caso del lavoro pubblico e, specificamente per il comparto ministeri,
qualora intervenga un «factum principis», come un'ordinanza di chiusura
degli uffici pubblici, questo «impedisce modo oggettivo ed assoluto
l'adempimento della prestazione, ossia l'espletamento dell'attività
lavorativa, fermo restando l'obbligo datoriale di corrispondere la
retribuzione nelle giornate indicate».
Nel caso della nevicata del 26 febbraio, tuttavia, non vi sono stati
provvedimenti autoritativi di chiusura degli uffici. Mancherebbe, quindi,
una «forza maggiore» che abbia impedito in modo oggettivo ed assoluto la
prestazione lavorativa. Tuttavia, secondo la richiesta di parere, tale causa
di forza maggiore potrebbe essere ravvisata nella carenza, da parte della
p.a. nel suo complesso «di un dispositivo organizzativo idoneo a
fronteggiare gli stessi gravi eventi atmosferici, per consentire la
percorribilità delle strade pubbliche (a chi si reca al lavoro con i propri
mezzi di trasporto) ovvero la fruizione dei mezzi di trasporto pubblico)».
Insomma, poiché la p.a. non ha potuto garantire la percorribilità delle
strade o la fruizione completa di mezzi di trasporto, si assisterebbe ad
un'ipotesi di «danno che resta a carico del pubblico erario». Lo Stato e le
altre amministrazioni, in conseguenza della carenza di rimedi all'evento
climatico, in sostanza, dovrebbero accollarsi il costo da un lato del
riconoscimento delle assenze dei dipendenti senza ridurre loro ferie o
permessi e con diritto alla retribuzione; dall'altro il costo di un turno
(remunerato) di riposo (ovviamente in giornata lavorativa) per i dipendenti
presenti in servizio.
Secondo il parere sarebbe da «ritenere equo» che le
difficoltà a fronteggiare l'emergenza dovuta alla nevicata, tali da rendere
estremamente difficoltosa, se non impossibile, la puntuale prestazione
lavorativa, producano a carico del datore di lavoro pubblico il danno
erariale, non attribuibile alla responsabilità da inadempimento del
lavoratore.
Nell'attesa che l'Aran si esprima sulla richiesta di parere, vi è da
osservare che l'assenza di misure organizzative utili per consentire il
regolare transito nelle strade con mezzi privati o pubblici colpisce in
maniera del tutto identica lavoratori pubblici e privati. L'eventuale
accoglimento della tesi della segreteria generale della Corte dei conti pone
un non irrilevante problema di equità nei confronti del sistema privato,
colpito anch'esso dalle conseguenze delle medesime disfunzioni (articolo
ItaliaOggi del 22.03.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Portale
reclutamento, chance per la p.a. Via libera in unificata alla direttiva sui
concorsi.
Il portale del reclutamento è l'elemento di maggiore novità delle Linee
guida sulle procedure concorsuali, elaborate dalla Funzione pubblica, che
hanno ricevuto ieri il via libera dalla Conferenza unificata (nulla di
fatto, invece sulla direttiva in materia di piani dei fabbisogni per la
quale Anci e regioni hanno chiesto un supplemento di indagine ndr).
A patto di non limitarsi a essere il luogo virtuale nel quale censire le
procedure concorsuali, e quindi trasformarsi nell'ennesima baca di dati da
caricare da parte delle varie p.a., il portale potrebbe risultare
estremamente interessante come punto di contatto per l'incontro
domanda/offerta nel lavoro pubblico.
L'elemento strategico sta nella previsione di sviluppare il portale anche
per gestire le procedure concorsuali, creando utenze per ogni
amministrazione pubblica e per i candidati, conservando le informazioni
relative ai candidati, con il loro consenso, per riutilizzarle in più
procedure concorsuali, o per standardizzare moduli di domande di
partecipazione ai concorsi e presentare telematicamente le istanze. Per il
resto, le Linee guida rappresentano un riassunto di «buone pratiche» da
molto tempo già adottate. Da anni ormai, infatti, le pubbliche
amministrazioni adottano procedure concorsuali «modulari» (soli esami, soli
titoli, titoli ed esami, corso-concorso, selezione con prove di accertamento
della professionalità), a seconda del livello di professionalità da
acquisire.
Anche la preselezione da lungo tempo è divenuta una costante, specie quando
a gestire le procedure concorsuali sono amministrazioni particolarmente
ambite, per il prestigio o la collocazione territoriale.
Le Linee guida tracciano indicazioni comuni tanto per le preselezioni quanto
per le vere e proprie prove selettive: non puntare tanto sulla verifica
della conoscenza mnemonica, quanto sulla capacità di applicare le competenze
possedute a casi concreti, sul presupposto che i candidati con maggiori doti
mnemoniche non necessariamente coincidono con i più capaci sul piano
professionale.
Per questo le prove concorsuali è opportuno siano finalizzate a verificare
appunto la capacità di applicare le conoscenze possedute. Le Linee guida,
quindi, suggeriscono di non limitare le prove a «temi», ma estenderle alla
soluzione di casi concreti, come redazione di atti amministrativi o
relazioni, o calcoli di progettazione. Ma, anche questi suggerimenti si
inseriscono nel solco di prassi largamente consolidate e collaudate, poiché
da molto tempo è invalsa la consapevolezza della necessità di valutare i
concorrenti cercando di verificare il saper fare ed il saper essere, oltre
al solo sapere.
L'altro elemento di concreto interesse delle Linee guida è la spinta verso
l'accentramento delle procedure concorsuali, in analogia col medesimo
fenomeno accentratore già avviato nell'ambito degli appalti pubblici (si
veda ItaliaOggi di ieri). Così come del resto previsto dalla riforma Madia,
della quale le Linee guida sono attuative, la reale ambizione è fare sì che
le procedure concorsuali autonome, cioè gestite da singole amministrazioni,
restino solo un'ipotesi residuale.
Del resto, le amministrazioni centrali saranno obbligate ad utilizzare i
concorsi unici, allo scopo di ottenere economie di scala e razionalizzazioni
procedurali.
Le Linee guida auspicano che il processo di accentramento venga adottato
anche dalle amministrazioni autonome, come regioni, enti locali e sistema
sanitario, proprio per garantire i vantaggi organizzativi. Si suggerisce,
quindi, una via di mezzo tra il concorsone unico nazionale e la procedura
autonoma: convenzioni tra gruppi di amministrazioni che creino uffici comuni
dedicati a procedure di reclutamento attraverso le quali le p.a. aderenti
attingano a graduatorie uniche (articolo
ItaliaOggi del 22.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rinnovabili alla riforma delle autorizzazioni.
Semplificazione su tutto il territorio nazionale delle procedure
autorizzative degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e
dei dispositivi per l'efficienza energetica. In particolare, lo snellimento
procedurale riguarderà l'installazione di pompe di calore, generatori di
calore, impianti solari termici e generatori ibridi compatti.
Questo è l'obiettivo dello schema di decreto interministeriale (MiSe,
Ambiente, Beni culturali e infrastrutture) del 21.02.2018 che, in
attuazione del dlgs n. 102/2014, prova a semplificare e armonizzare gli
adempimenti per l'installazione di impianti e dispositivi tecnologici per
l'efficienza energetica e per lo sfruttamento delle fonti rinnovabili in
ambito residenziale e terziario.
Il provvedimento ha ricevuto il via libera ieri dalla Conferenza unificata e
proseguirà il suo iter verso la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Entro
120 giorni dall'entrata in vigore, le regioni e gli enti locali dovranno
adeguare la propria normativa. Decorso tale termine, le disposizioni
contenute nelle linee guida troveranno diretta applicazione. Le linee guida
indicano anche i prezzi massimi che gli enti locali possono applicare per le
procedure autorizzative degli interventi:
- 10 euro per la comunicazione inizio lavori (Cil),
- 30 euro per la procedura abilitativa semplificata (Pas),
- 50 euro per l'autorizzazione paesaggistica semplificata e ordinaria.
Entro 120 giorni dall'entrata in vigore della norma, gli enti locali
dovranno pubblicare tali costi sui propri siti web. Le norme si applicano ai
casi di nuova installazione e/o sostituzione di impianti tecnologici
destinati ai servizi di climatizzazione invernale e/o estiva e/o produzione
di acqua calda sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico
utilizzato, in funzione anche delle tipologie di lavori individuate dal
decreto ministeriale 26.06.2015.
Infine, il provvedimento introduce la figura del certificatore energetico.
Lo scopo è quello di favorire l'omogeneità nell'applicazione della
disciplina e di eliminare situazioni di possibile alterazione della
concorrenza fra le diverse aree del Paese (articolo
ItaliaOggi del 22.03.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Parametri
antisismici più stringenti. Ponti, prove doc. Una
stretta sulle costruzioni.
Stretta sulle costruzioni. Parametri più stringenti di sicurezza sismica per
l'adeguamento degli edifici esistenti; introdotti coefficienti minimi di
sicurezza per i miglioramenti statici; previste prove di carico per ponti e
strutture prefabbricate; attuazione differenziata in base all'avanzamento
della progettazione.
Sono queste alcune delle principali novità contenute nelle nuove norme
tecniche sulle costruzioni entrate in vigore ieri, trenta giorni dopo
l'avvenuta pubblicazione del decreto del ministero delle infrastrutture 17.01.2018 (in G.U. n. 42 del 20/02/2018, s.o. n. 8).
Le nuove norme
tecniche per le costruzioni (Ntc, le ultime risalivano a dieci anni fa - dm 14.01.2008) hanno lo scopo di definire i principi da applicare nella
progettazione, esecuzione e collaudo delle costruzioni e di individuare gli
elementi prestazionali degli edifici sotto il profilo della resistenza
meccanica e della loro stabilità.
Rispetto al 2008 il testo è stato semplificato e chiarito, anche a seguito
dell'impatto determinato dall'applicazione concreta delle norme tecniche nei
diversi contesti operativi. Per gli edifici esistenti è stato confermato il
principio per cui il progetto e la valutazione della sicurezza devono
«dimostrare che gli interventi non comportino una riduzione dei livelli di
sicurezza preesistenti».
In una logica di diffusa riduzione del rischio
sismico le Ntc aggiornate intervengono confermando per i nuovi edifici gli
standard precedenti. Vengono però introdotti dei coefficienti minimi di
sicurezza per miglioramenti statici che in precedenza non esistevano
(coefficiente di sicurezza 0,6, rispetto a 1 dei nuovi edifici, per edifici
scolastici di classe III e IV e per le altre costruzioni di classe inferiore
alla III, 0,1). In caso di mutamento di destinazione d'uso e di modifiche di
classe d'uso che conducano a costruzioni di classe III ad uso scolastico o
di classe IV il livello di sicurezza della costruzione viene stabilito in
0,80.
Per la progettazione in presenza di azioni sismiche viene introdotta
una parte ad hoc con la finalità di permettere alle strutture una migliore
risposta alle azioni sismiche. Per quel che riguarda i materiali e i
prodotti per uso strutturale le nuove norme tecniche considerano anche nuovi
materiali quali i cosiddetti «calcestruzzi fibrorinforzati». Le nuove Ntc
introducono. Per quanto riguarda i collaudi statici, anche delle specifiche
sulle prove di carico, con particolare attenzione alle prove di carico su
strutture prefabbricate e ponti. Vengono anche adeguate alle procedure del
servizio tecnico centrale le regole di qualificazione, certificazione ed
accettazione dei materiali e prodotti per uso strutturale.
Il decreto prevede una fase transitoria che gradua l'entrata in vigore delle
specifiche tecniche in funzione dello stato del progetto. In particolare per
le opere pubbliche o di pubblica utilità in corso di esecuzione, per i
contratti pubblici di lavori già affidati, nonché per i progetti definitivi
o esecutivi già affidati prima del 22 marzo, è previsto che si potranno
continuare ad applicare le norme tecniche del 2008 fino all'ultimazione dei
lavori ed al collaudo statico degli stessi.
In riferimento poi ai contratti
pubblici di lavori già affidati e ai progetti definitivi o esecutivi già
affidati tale facoltà è comunque esercitabile solo nel caso in cui la
consegna dei lavori avvenga entro cinque anni dalla data di entrata in
vigore delle norme tecniche per le costruzioni. Per le opere private le cui
opere strutturali siano in corso di esecuzione o per le quali sia già stato
depositato il progetto esecutivo presso i competenti uffici prima della data
di entrata in vigore delle Norme tecniche per le costruzioni (22 marzo), è
ammessa l'applicazione delle previgenti Ntc fino all'ultimazione dei lavori
e al collaudo statico degli stessi.
Il Consiglio superiore dei lavori
pubblici intanto ha reso noto che sta lavorando ad una circolare riportante
le istruzioni applicative delle Ntc, ma ha tenuto a precisare che nel
frattempo «si potranno seguire le indicazioni riportate nella precedente
circolare, per quanto non in contrasto con quanto riportato nel nuovo dm
17/01/2018». Questo mentre il servizio tecnico centrale dello stesso
Consiglio ha emesso una nota che adegua alle nuove Ntc le procedure
autorizzative di propria competenza (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
ristrutturazioni elastico. Detrazione anche se a pagare è una società
finanziaria. La guida dell’Agenzia delle entrate si sofferma sulle
caratteristiche del bonifico.
Per il bonus ristrutturazione è necessario, in linea di principio, il
pagamento con bonifico bancario e/o postale anche online. Ma se gli
interventi sono stati pagati da una società finanziaria, il contribuente che
è in possesso della ricevuta di bonifico della società finanziatrice,
completo di tutti i dati richiesti dalla legge, potrà fruire della
detrazione.
Come emerge chiaramente dalla specifica guida (febbraio 2018) dell'Agenzia
delle entrate, i contribuenti possono fruire della detrazione incrementata
del 50% su un limite massimo di 96 mila euro per unità abitativa, da
spalmare in dieci rate annuali di pari importo, a condizione che gli
interventi siano effettuati a mezzo bonifico «tracciabile», bancario e/o
postale, anche on-line, dal quale risulti la causale del versamento (si deve
far riferimento all'art. 16-bis, dpr 917/1986), il codice fiscale del
beneficiario del bonus e del codice fiscale (o partita Iva) del prestatore
d'opera, quale beneficiario del pagamento; anche le versioni on-line
presentano già impostata la specifica causale appena indicata.
Tutte le spese che, al contrario, non è possibile effettuare con la detta
modalità potranno essere assolte con le modalità ordinarie; si tratta, in
particolare, e per esempio, degli oneri di urbanizzazione, delle
concessioni, delle autorizzazioni e/o denunce, nonché delle imposte di bollo
e delle ritenute fiscali applicate agli onorari professionali, anche se tale
ultimo caso riguarda più il risparmio energetico.
Con riferimento agli interventi eseguiti sulle parti a comune degli edifici,
oltre al codice fiscale del condominio è necessaria la presenza di quello
dell'amministratore o di altro condomino che esegue il relativo pagamento.
Una particolare attenzione deve essere posta quanto vi sono più contribuenti
che sostengono la spesa per gli interventi agevolati, nel qual caso per
fruire del bonus è necessaria l'indicazione del codice fiscale di tutti i
fruitori, mentre se il bonifico viene eseguito da soggetto diverso, rispetto
a quello indicato nella disposizione di pagamento, è quest'ultimo che può
usufruire della detrazione (circ. 17/E/2015).
La guida evidenzia che sono validi, ai fini della fruizione della
detrazione, anche i bonifici eseguiti tramite conti accesi presso istituti
di pagamento ovvero imprese, non qualificate come istituti di credito, ma
autorizzate alla prestazione di detti servizi dalla Banca d'Italia;
naturalmente, in tale caso, più unico che raro, l'impresa deve garantire di
assolvere tutti gli adempimenti imposti alle banche, come il versamento
della ritenuta d'acconto, la certificazione di quest'ultima e la
trasmissione del modello sostituti.
È, infatti, per tale motivo che, per usufruire del bonus, il contribuente,
fatti salvi casi particolari, è obbligato a eseguire un bonifico
tracciabile, giacché al momento del pagamento (anche a mezzo accredito sul
c/c del beneficiario-prestatore), gli istituti di credito e le Poste
Italiane spa devono operare la ritenuta dell'8% a titolo di acconto Irpef;
si ricorda che, con apposito documento di prassi, le Entrate hanno fornito
le necessarie istruzioni (circ. 40/E/2010) e che restano indenni da ritenuta
i pagamenti delle spese e/o dei tributi versate ai comuni (oneri di
urbanizzazione, Tosap e altro), sempreché nella causale sia specificata
puntualmente la relativa motivazione (pagamento a ente comunale).
L'Agenzia delle entrate (circ. 43/E/2016) ha precisato, inoltre, che la
detrazione per gli interventi di recupero edilizio e quella per la
riqualificazione energetica spettano anche se il bonifico è incompleto e non
sia stato possibile operare la ritenuta.
In tal caso, però, è necessario che il beneficiario (l'impresa che ha
eseguito i lavori di ristrutturazione) attesti, nella dichiarazione
sostitutiva di atto notorio, di aver ricevuto le somme e di averle incluse
nella contabilità dell'impresa ai fini della loro concorrenza alla corretta
determinazione del suo reddito.
In caso di esecuzione dell'intervento mediante contratti di leasing non
sussiste l'obbligo di documentare il pagamento mediante bonifico bancario o
postale, anche se l'intervento è in capo ad un soggetto «non» titolare di
reddito d'impresa (circ. 21/E/2010).
Infine, ulteriori eccezioni alla regola del bonifico riguardano le spese
pagate tramite finanziamento di società finanziaria, poiché il contribuente
può fruire della detrazione a condizione che la società che concede il
finanziamento paghi l'impresa che ha eseguito gli interventi con bonifico
tracciabile e che il contribuente stesso si procuri la ricevuta del
pagamento eseguito dalla società a fronte della prestazione, e quelle
relative all'acquisto del box auto, in presenza di dichiarazione delle somme
nell'atto notarile e di attestazione, da parte dell'impresa cedente, che i
corrispettivi sono stati regolarmente contabilizzati (circ. 43/E/2016) (articolo
ItaliaOggi del 21.03.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorso
unico nella p.a.. Obbligatorio per le amministrazioni centrali. Direttiva
Madia oggi in Unificata. Arriva il Portale del reclutamento.
Il concorso unico sarà la via maestra di
reclutamento per gli statali. Obbligatorie per le amministrazioni centrali
dello stato, le procedure di selezione «in forma centralizzata e aggregata»
saranno «fortemente consigliate» anche per tutte le restanti amministrazioni
in quanto consentono «un'adeguata partecipazione ed economicità dello
svolgimento della procedura concorsuale e l'applicazione di criteri di
valutazione oggettivi e uniformi, tali da assicurare omogeneità qualitativa
e professionale in tutto il territorio nazionale per funzioni equivalenti».
Per i dirigenti e per il reclutamento di figure professionali comuni il
concorso unico sarà la regola. La possibilità di ricorrere a selezioni
autogestite sarà dunque «residuale». E dovrà essere motivata, soprattutto
per le piccole amministrazioni da «condizioni particolari» di urgenza ed
eccezionalità». Mentre per le amministrazioni dello stato (anche ad
ordinamento autonomo), le agenzie e gli enti pubblici non economici,
l'autonomia nell'organizzare concorsi pubblici per dirigenti e personale non
dirigenziale sarà limitata all'esigenza di acquisire specifiche
professionalità.
A riscrivere le regole dei concorsi pubblici è la direttiva del ministro
Marianna Madia che andrà oggi sul tavolo della Conferenza unificata per la
prescritta intesa.
La direttiva, prevista, dal decreto attuativo (dlgs
n. 75/2017) della riforma Madia che ha operato il restyling del T.U. sul
pubblico impiego, punta a realizzare un obiettivo ambizioso: fare in modo
che nei ruoli della pubblica amministrazione entrino solo i candidati
migliori.
I requisiti per partecipare ai concorsi pubblici potranno essere elevati
(soprattutto per la scelta di elevate professionalità riconducibili a
posizioni apicali) fino al punto di prevedere il dottorato di ricerca e la
conoscenza delle lingue dimostrato attraverso esami o certificazioni
riconosciute a livello internazionale. Tra le materie di concorso potrà
trovare spazio anche la conoscenza dell'uso delle apparecchiature e delle
applicazioni informatiche più diffuse.
E per monitorare i concorsi pubblici arriva il «Portale del reclutamento»,
un data base pronto ad essere lanciato dalla Funzione pubblica che censirà i
concorsi, le fasi di svolgimento e tutte le informazioni rilevanti relative
alle selezioni. L'obiettivo e' permettere «la consultazione in un unico
sito» delle varie selezioni. Vi «confluiranno anche le graduatorie finali» e
nel caso dei concorsi unici il sito potrà essere utilizzato per la
presentazione delle domande e il pagamento delle tasse di partecipazione.
Il concorso pubblico unico sarà organizzato dal dipartimento della Funzione
pubblica, previa ricognizione dei fabbisogni, da effettuarsi sempre ai sensi
del dlgs 75/2017 il quale chiede alle p.a. di individuare le figure
professionali effettivamente utili alle amministrazioni. Qualora le
posizioni vacanti siano tutte collocate nella medesima regione, il concorso
unico potrà essere svolto in ambito regionale
(articolo
ItaliaOggi del 21.03.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
nuovo contratto riscrive daccapo le regole sulle progressioni orizzontali.
L'articolo 16 dell'ipotesi di contratto delle funzioni locali riscrive
totalmente l'istituto delle progressioni orizzontali. Troppi pareri e
interpretazioni degli ultimi anni hanno creato non poche difficoltà nell'
applicazione dei passaggi di posizioni economiche. Il contratto, pur
lasciando comunque qualche dubbio, azzera le puntate precedenti e ne prevede
una nuova disciplina.
L’evoluzione delle regole e della prassi
Il primo cambiamento di rotta rispetto agli orientamenti consolidati lo si è
avuto con l'articolo 23 del Dlgs 150/2009 il quale, in poche righe, aveva
previsto che le progressioni economiche fossero attribuite in modo
selettivo, a una quota limitata di dipendenti, in relazione allo sviluppo
delle competenze professionali e ai risultati individuali e collettivi
rilevati dal sistema di valutazione.
Subito dopo, però, il Dl 78/2010 ha fermato tutto e quindi reso impossibile
qualsiasi passaggio fino al 31.12.2014. È solo dagli ultimi tre anni
che le progressioni hanno ripreso il via, ma nel frattempo alcune rigide
interpretazioni della Ragioneria generale dello Stato e del Dipartimento
della Funzione pubblica ne hanno ulteriormente limitato l'applicazione.
C'era, quindi, bisogno di una revisione contrattuale dell'istituto.
Decorrenza e classifica selettiva
Il primo elemento da chiarire è certamente la decorrenza ovvero la data di
inquadramento dei dipendenti nel nuovo livello economico. L'ipotesi di
contratto indica come massima retroattività il 1° gennaio dell'anno in cui
si raggiunge l'accordo e quindi si stipula il contratto integrativo in cui
sono previste le risorse. Questa data non rappresenta un obbligo quanto
piuttosto uno sbarramento oltre al quale non è possibile retrocedere.
Un altro elemento chiave di tutto il meccanismo riguarda l'individuazione
dei criteri con i quali i dipendenti vengono collocati nell'apposita
«classifica selettiva». Il punto di partenza è rappresentato, come dice
l'articolo 16 al comma 3, dalle risultanze della valutazione della
performance individuale del triennio che precede l'anno in cui è adottata la
decisione di attivare l'istituto.
Se da una parte è evidente che in caso di
mobilità si potranno parametrare le valutazioni percepite in altre
amministrazioni, non è chiaro se il contratto abbia invece voluto creare un
esclusione per i dipendenti che sono stati assunti più di recente e che non
hanno ancora i 3 anni di valutazione. Oltre ai punteggi delle pagelle si
potrà eventualmente tener conto anche dell'esperienza maturata negli ambiti
professionali di riferimento, nonché delle competenze acquisite e
certificate a seguito di processi formativi.
Numeri e scorrimento
A completamento della procedura viene ricordato che l'esito della selezione
ha una vigenza limitata solo per l'anno in cui è stata prevista
l'attribuzione della progressione economica senza, quindi, alcuna
possibilità di scorrimento in esercizi futuri. Da ultimo ecco le indicazioni
per quanto riguarda l'aspetto numerico dei dipendenti che potranno
partecipare alle procedure.
La riforma Brunetta ne aveva indicato una quota
limitata e il contratto conferma che, in ogni caso, il dipendente potrà
accedere alle progressioni orizzontali solamente se in possesso di un
periodo di permanenza minimo nella posizione economica in godimento di
ventiquattro mesi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.03.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
contrattazione integrativa si arricchisce di materie negoziali.
Il progressivo percorso di osmosi tra sistema pubblico e sistema privato,
che attiene agli schemi di contrattazione di secondo livello, la cui
attualità dell’articolazione bistratica (su due livelli) è stata
recentemente ribadita anche dalle istanze sindacali confederali, è provato
dall’affrancamento, nel contesto normativo che riguarda la preintesa delle
funzioni locali sottoscritta il 21 febbraio u.s., dalla qualificazione di
“decentrato” che tale modello relazionale oggi presenta, risultando,
pertanto, più propriamente definito esclusivamente attraverso la nozione
propria di “integrativo”; qualificazione che, a ben vedere, evoca certamente
un paradigma tipicamente privatistico e, per taluni aspetti, proprio in
funzione di tale caratterizzazione, maggiormente autonomo nelle proprie
scelte strategiche, quanto meno sotto il profilo di una maggiore estensione
dell’area contrattuale di secondo livello rispetto ad una sorta di
dipendenza da quella nazionale che il modello decentrato, giustappunto in
relazione alla logica sua propria ed alla natura dello strumento, adduceva
in termini di significativa ristrettezza dell’ambito di intervento e di
ridotta autonomia determinativa, ove la caratterizzazione decentrata lo
relegava ad una vera e propria di appendice locale di scelte altrove
assunte.
In tale percorso di avvicinamento, fatalmente, l’area negoziale integrativa
non sarebbe potuta risultare ancora confinata nel ristretto perimetro cui
l’assetto decentrato l’aveva relegata, di talché il nuovo contratto
collettivo nazionale, nello schema della richiamata intesa preliminare, si
preoccupa di allargare l’orizzonte dello strumento tipico dell’autonomia
negoziale delle parti sociali, provvedendo, in armonia con la natura e con
la qualificazione del meccanismo pattizio, ad un significativo ampliamento
delle materie oggetto di contrattazione integrativa, assecondando, in tal
modo, lo spirito dello strumento, oltre che il fondamento normativo elettivo
del contratto integrativo.
Tale allargamento è ben riscontrabile nell’azione di regolazione delle
materie rimesse allo strumento integrativo, che possono così riassumersi,
senza pretesa di esaustività, ma con un’evidente dilatazione degli spazi
consegnati all’incontro di volontà delle parti rispetto all’attuale assetto
convenzionale.
L’ambito della contrattazione integrativa
La clausola contrattuale, infatti, che si cura di assemblare le diverse
materie rassegnate al grado della contrattazione di base è rinvenibile
nell’articolo 7 del ridetto accordo preventivo, che così individua il
confine della negoziazione integrativa:
- i criteri di ripartizione delle risorse disponibili per la contrattazione
integrativa tra le diverse modalità di utilizzo;
- i criteri per l'attribuzione dei premi correlati alla performance;
- i criteri per la definizione delle procedure per le progressioni
economiche;
- l’individuazione delle misure dell’indennità correlata alle condizioni di
lavoro entro i valori minimi e massimi e nel rispetto dei criteri ivi
previsti, nonché la definizione dei criteri generali per la sua
attribuzione;
- l’individuazione delle misure dell’indennità di servizio esterno entro i
valori minimi e massimi e nel rispetto dei criteri previsti ivi previsti,
nonché la definizione dei criteri generali per la sua attribuzione;
- i criteri generali per l'attribuzione dell’indennità per specifiche
responsabilità;
- i criteri generali per l'attribuzione di trattamenti accessori per i quali
specifiche leggi operino un rinvio alla contrattazione collettiva;
- i criteri generali per l'attivazione di piani di welfare integrativo;
- l’elevazione della misura dell’indennità di reperibilità;
- la correlazione tra i compensi previsti da specifiche disposizioni di
legge e la retribuzione di risultato dei titolari di posizione
organizzativa;
- l’elevazione dei limiti di collocamento in reperibilità per il numero dei
turni previsti nel mese, anche attraverso modalità che consentano la
determinazione di tali limiti con riferimento ad un arco temporale
plurimensile;
- l’elevazione dei limiti connessi all’arco temporale preso in
considerazione per l’equilibrata distribuzione dei turni, nonché ai turni
notturni effettuabili nel mese;
- le misure concernenti la salute e la sicurezza sul lavoro;
- l’elevazione del contingente dei rapporti di lavoro a tempo parziale
ordinariamente ammessi;
- il limite individuale annuo delle ore che possono confluire nella banca
delle ore;
- i criteri per l’individuazione di fasce temporali di flessibilità oraria
in entrata e in uscita, al fine di conseguire una maggiore conciliazione tra
vita lavorativa e vita familiare;
- l’elevazione del periodo di 13 settimane di maggiore e minore
concentrazione dell’orario multiperiodale;
- l’individuazione delle ragioni che permettono di elevare, fino ad
ulteriori sei mesi, l’arco temporale su cui è calcolato il limite delle 48
ore settimanali medie;
- l’elevazione del limite massimo individuale di lavoro straordinario di 180
ore annue;
- i riflessi sulla qualità del lavoro e sulla professionalità delle
innovazioni tecnologiche inerenti l’organizzazione di servizi;
- l’incremento delle risorse attualmente destinate alla corresponsione della
retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative ove
implicante, ai fini dell’osservanza dei limiti prescritti all’entità dei
fondi, una riduzione delle risorse del fondo risorse decentrate;
- i criteri generali per la determinazione della retribuzione di risultato
dei titolari di posizione organizzativa;
- il valore dell’indennità di funzione per il personale della polizia
locale, nonché i criteri per la sua erogazione, nel rispetto dei limiti di
valore previsti.
Come si vede dalla nutrita messe di materie che vengono consegnate alla
contrattazione integrativa presso le amministrazioni del comparto, il nuovo
contratto collettivo nazionale di lavoro valorizza inequivocabilmente il
ruolo della componente sindacale al tavolo della negoziazione, tavolo che
l’era Brunetta aveva significativamente contratto a favore di una maggiore
autonomia degli enti.
Alla luce di tale ampliamento, quindi, si potrà, in prospettiva, misurare la
capacità degli enti non solo di sostenere i compiti più complessi e le
responsabilità più elevate che una contrattazione integrativa così allargata
fatalmente imporrà, ma anche di presidiare la legittimità delle scelte che a
quel tavolo dovranno essere necessariamente assunte, in presenza, dunque, di
un ruolo sindacale certamente più rafforzato, ma di una corrispondente
tutela pubblica che ne esce inevitabilmente indebolita.
Da questo modello di contrattazione, pertanto, si potrà chiaramente desumere
l’effettiva maturazione delle amministrazioni nell’esperienza negoziale di
secondo livello ad oggi condotta, sperando che gli errori del passato
possano aver insegnato qualcosa e consapevoli che uno spostamento così
consistente di ambiti negoziali a favore dello stretto confronto
contrattuale obbligherà gli enti del comparto ad una maggiore qualificazione
non solo della parte pubblica, ma, ancor più, degli organi di governo degli
enti stessi, non di rado il vero ventre molle del sistema.
Una cosa, comunque, è certa: l’impegno che attende le amministrazioni nel
corrente anno 2018 per la predisposizione delle piattaforme integrative
attuative delle nuove disposizioni contrattuali nazionali costituirà,
indubbiamente, un onere assai rilevante, che giunge, peraltro, in un momento
in cui le risorse umane degli enti sono esangui da anni di limitazioni e di
blocchi assunzionali, in disparte, poi, ogni profilo connesso alle
limitazioni degli strumenti formativi sino ad oggi inibenti, così importanti
in momenti di passaggio strumentale e di investimento culturale talmente
rilevanti come quello che dovremo affrontare
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.03.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Garante
Privacy, no all’accesso civico integrale ai provvedimenti di condanna
«fiscale».
Nel
provvedimento
25.01.2018 n. 42 del Garante della privacy, che condanna la
parte soccombente a risarcire un Comune, oggetto d’accesso civico è la copia
di tutti i provvedimenti emessi negli ultimi 5 anni dall’ente.
Il Garante premette che trattasi di documentazione che -contrariamente a
quanto sostenuto dall’istante- contiene dati personali e coinvolge controinteressati. Al riguardo, non condivide quanto afferma l’istante
secondo cui, su una richiesta di accesso civico a copia di sentenza, i
pubblici uffici non possono opporre tutela di dati personali, trattandosi di
atto pubblico.
Il Garante evidenzia che la modalità di rilascio degli atti giudiziali da
parte di cancellieri e depositari di pubblici registri è soggetta a precise
regole (per esempio il pagamento di diritti), contenute in disposizioni
processuali non derogate affatto dalla disciplina sull’accesso civico. La
fattispecie concreta risalta poiché la richiesta non è stata presentata
all’ufficio addetto alla relativa conservazione, ma al Comune, mera parte
del procedimento giudiziario.
Il Garante, inoltre, rammenta che i documenti che si ricevono a seguito di
istanza di accesso civico divengono pubblici, sebbene il loro ulteriore
trattamento vada comunque effettuato tutelando i dati personali (articolo 3,
comma 1, Dlgs 33/2013). È quindi, proprio alla luce di tale ampio regime di
pubblicità che devesi valutare se concedere accesso civico integrale.
Il Garante sulle sentenze della Cassazione
Il Garante è già intervenuto sulla questione della pubblicazione integrale
(sul web) delle sentenze (della Cassazione), chiarendo che la natura
pubblica della sentenza non implica che siano conoscibili da chiunque,
generalità e vicende personali altrui.
Dagli atti dell’istruttoria del caso in esame emerge che nei provvedimenti
sono contenute informazioni personali, come qualità di debitore,
impossibilità di restituire somme a causa di Isee basso, esistenza di
pignoramento o di decreto ingiuntivo, rateizzazione di pagamento, esistenza
di vertenze di lavoro, accordi transattivi.
Il Garante, nondimeno, precisa che la disciplina sull’accesso civico prevede
che se le tutele riguardano solo parti del documento, può essere consentito
accesso parziale (articolo 5-bis, comma 4, Dlgs 33/2013; Delibera Anac
1309/2016). Ritiene possibile, quindi, in generale, considerando che la
diffusione dei provvedimenti giurisdizionali costituisce fonte
d'accrescimento di cultura giuridica e strumento di controllo sociale (Linee
guida Garante Privacy del 02/12/2010) concedere accesso civico a sentenze
civili, oscurando tuttavia dati personali, laddove possa derivarvi
pregiudizio, sentito il controinteressato.
Il caso
Dagli atti è emerso che il Comune ha concesso accesso civico parziale,
trasmettendo al richiedente una scheda riassuntiva e anonima, contenente gli
elementi oggetto dell'interesse pubblico alla trasparenza: numero
provvedimento, autorità giudiziaria, oggetto di lite, stato dell'azione
esecutiva, eventuale riscossione.
Ciò in quanto l'ente ha ritenuto che la richiesta fosse «massiva» e
«paralizzante» per l'attività amministrativa, in considerazione dell'onerosa
attivazione della procedura di comunicazione a tutti i controinteressati.
Sul punto, il Garante ricorda che nella delibera Anac 1309/2016 è precisato
che in attuazione dei principi di necessità, proporzionalità, pertinenza e
non eccedenza, il soggetto destinatario dell'istanza, nel dare riscontro
alla richiesta di accesso generalizzato, deve scegliere le modalità meno
pregiudizievoli per i diritti dell'interessato, privilegiando l'ostensione
di documenti con l'omissione di «dati personali» presenti, soddisfacendo
così anche finalità di celerità, in quanto si può accogliere l'istanza senza
coinvolgere controinteressati.
Quando la richiesta di accesso riguarda documenti contenenti dati personali,
non necessari al raggiungimento dello scopo di controllo sociale-diffuso,
l'ente può dunque accordare accesso parziale ai documenti, oscurando dati
personali. Nel caso in esame, il Garante della privacy ha ritenuto che il
Comune che ha accolto parzialmente l’istanza, ha riscontrato la richiesta di
accesso civico in modalità conforme alla disciplina a tutela dei dati
personali.
Va precisato che i provvedimenti del Garante della privacy sono
circoscritti a profili di tutela dei dati personali, con esclusione di
qualsiasi ultronea possibile valutazione sulla legittima concessione
d’accesso civico (per esempio la richiesta massiva o meno), appannaggio
della Pa (Delibera Anac n. 1309/2016 e allegata guida all'accesso
generalizzato; Tar Lombardia, sentenza 1951/2017; Circolare del ministro per
la Semplificazione e la Pa n. 2/2017)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2018). |
APPALTI: Ribassi d'asta in due esercizi. Solo per gli enti in regola col pareggio.
Di recente è stato modificato il
punto 5.4 dell'allegato 4/2 del dlgs n.
118/2011 nella parte che riguarda i ribassi d'asta a seguito
dell'aggiudicazione della gara.
Tale modifica, prevista dall'art. 6-ter del dl n. 91/2017, convertito nella
legge n. 123/2017, permette agli enti di utilizzare, nei due esercizi
successivi, i ribassi d'asta, i quali costituiranno economie di bilancio e
confluiranno nella quota vincolata del risultato di amministrazione, solo se
non saranno utilizzati entro il secondo esercizio successivo
all'aggiudicazione.
Prima di tale modifica, era possibile utilizzare i ribassi d'asta solo entro
il 31 dicembre dell'anno di aggiudicazione della gara e non era possibile
rinviarli nel successivo esercizio tramite il Fondo pluriennale vincolato.
Pertanto, se non utilizzati entro quella data, confluivano nella quota
vincolata del risultato di amministrazione.
La novella in parola rappresenta una facoltà e non un obbligo che, ai sensi
della parte finale della disposizione normativa sopra citata, è utilizzabile
solo dagli enti che rispettano il pareggio di bilancio e non comporta
conseguenze negative sul vincolo di finanza pubblica, salvo il caso che
l'opera sia finanziata con l'indebitamento.
Tuttavia, se i ribassi d'asta confluiti nel Fpv non vengono utilizzati, in
tutto o in parte, nei due esercizi successivi, ai fini del pareggio di
bilancio, occorre ridurre il medesimo fondo in misura pari alle economie
confluite nel risultato di amministrazione, in quanto non rileva la quota
dello stesso che finanza gli impegni cancellati.
Se l'ente, nell'anno successivo a quello di aggiudicazione, non raggiunge un
saldo obiettivo positivo del pareggio di bilancio, allora non gli è
consentito usufruire dei ribassi d'asta non ancora utilizzati.
Tutto ciò impone una maggiore attenzione nella gestione contabile delle fasi
di gara, di aggiudicazione e di gestione in generale della procedura (articolo
ItaliaOggi del 16.03.2018). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori, la priorità è ricostruire.
Oltre che completare le opere pubbliche incompiute. In G.U. il decreto, in
vigore dal 24 marzo, con le istruzioni per il Programma triennale.
Priorità
massima alla ricostruzione conseguente a calamità naturali e al
completamento delle opere pubbliche incompiute.
È questo l'indirizzo dato alle amministrazioni che dovranno predisporre la
programmazione triennale dei lavori pubblici in base al decreto del
ministero delle Infrastrutture e dei trasporti 16.01.2018, n. 14
contenente il «Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione
e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del
programma biennale per l'acquisizione di forniture e servizi e dei relativi
elenchi annuali e aggiornamenti annuali», pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 57 del 09.03.2018 che entrerà in vigore il 24.03.2018.
Il provvedimento, composto da due allegati, è uno dei 64 che attuano il
codice dei contratti pubblici (in particolare si attua l'articolo 21, comma
8, del codice dei contratti pubblici) e costituirà il modello di riferimento
per le amministrazioni che, a decorrere dal 24.03.2018, data di entrata
in vigore del testo, dovranno procedere alla adozione del programma
triennale dei lavori pubblici e degli altri atti programmatori da esso
disciplinati.
Le schede dei modelli da seguire per la programmazione triennale dei lavori
(a decorrere dal periodo 2019-2021) sono costituite da sei parti:
- quadro delle risorse necessarie alla realizzazione dei lavori previsti dal
programma, articolate per annualità e fonte di finanziamento;
- elenco delle opere pubbliche incompiute;
- elenco degli immobili disponibili di cui agli articoli 21, comma 5, e 191
del codice dei contratti pubblici, ivi compresi quelli resi disponibili per
insussistenza dell'interesse pubblico al completamento di un'opera pubblica
incompiuta e con l'indicazione dei lavori ritenuti «complessi»;
- elenco dei lavori del programma con indicazione degli elementi essenziali
per la loro individuazione;
- lavori che compongono l'elenco annuale, con indicazione degli elementi
essenziali per la loro individuazione;
- elenco dei lavori presenti nel precedente elenco annuale.
Nel programma triennale dei lavori pubblici, che deve comunque indicare le
priorità, può essere inserito un lavoro anche limitatamente ad uno o più
lotti funzionali, purché con riferimento all'intero lavoro sia stato
approvato il documento di fattibilità delle alternative progettuali, ovvero,
secondo le previsioni del decreto di cui all'articolo 23, comma 3, del
codice appalti, il progetto di fattibilità tecnica ed economica,
quantificando le risorse finanziarie necessarie alla realizzazione
dell'intero lavoro.
Importante notare che devono avere la priorità i lavori di ricostruzione,
riparazione e ripristino conseguenti a calamità naturali, di completamento
delle opere incompiute, di manutenzione, di recupero del patrimonio
esistente, i progetti definitivi o esecutivi già approvati, i lavori per i
quali ricorra la possibilità di finanziamento con capitale privato
maggioritario.
Il programma triennale è redatto ogni anno, scorrendo l'annualità pregressa
e aggiornando i programmi precedentemente approvati (escludendo i lavori con
procedura di affidamento già in corso); i programmi saranno anche
modificabili nel corso dell'anno in caso di cancellazione di lavori già
previsti nell'elenco annuale (o aggiunta di lavori o anticipazione della
realizzazione di lavori).
Per forniture e servizi andrà invece compilato Per la programmazione
2019-2020) il programma biennale degli acquisti di forniture e servizi
nonché i relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali sulla base degli
schemi tipo allegati al decreto.
Il decreto n. 14 abroga il provvedimento del 24.10.2014 che rimarrà in
vigore fino al 24.03.2018
(articolo
ItaliaOggi del 13.03.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Nuove regole Ue sulla privacy, rischio sovrapposizione con le norme italiane.
Tutto cambia per la «privacy» in Europa: a maggio vedrà la prima
applicazione il nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati (Rgpd,
in inglese Gdpr, General Data Protection Regulation) che è la normativa
(nello specifico Regolamento Ue 2016/679) grazie alla quale la Commissione
europea ha inteso uniformare la protezione dei dati personali di cittadini
dell'Unione europea (ma anche dei semplici residenti nella Ue), sia
all'interno che all'esterno dei propri confini.
Il testo, pubblicato su
Gazzetta Ufficiale Europea il 04.05.2016 ed entrato in vigore il 25
maggio dello stesso anno, inizierà ad avere efficacia il 25.05.2018 in
quanto, quale regolamento, non richiede alcuna normativa di ricevimento da
parte degli stati membri. In sintesi, gli effetti saranno rilevanti per
tutti gli operatori in quanto la nuova normativa introdurrà, a livello
comunitario, strumenti importanti quali, tra gli altri, un nuovo glossario
(i dati si classificheranno in personali, genetici, biometrici e sulla
salute), il diritto alla portabilità dei propri dati ed il diritto all'oblio
che diventa diritto alla cancellazione.
Ma ancor più innovativo sarà il
riferimento alle authority, in quanto ci sarà un coordinamento europeo per
cui un cittadino leso nella privacy dall'attività di un'azienda di un altro
stato comunitario potrà agire a propria tutela semplicemente rivolgendosi al
garante della privacy del proprio paese.
E innovativo, per severità, sarà
anche il nuovo sistema sanzionatorio: potranno essere inflitti da una
semplice ammonizione scritta (nei casi di una prima mancata osservanza non
intenzionale) fino a multe pari a 20 milioni di euro o fino al 4% del volume
d'affari nei casi più gravi (oltre a pene detentive), passando anche per
formule diverse come l'assoggettamento ad accertamenti regolari e periodici
sulla protezione dei dati in azienda.
Il dilemma, a livello italiano, sarà
un tema tipico del nostro paese: la nuova normativa si accavallerà alla
preesistente normativa nazionale senza abrogarla, con tutte le ambiguità
conseguenti ed i dubbi per gli operatori in merito a quali adempimenti
reputare permanenti piuttosto che superati. In attesa degli agognati, sempre
tardivi, chiarimenti (articolo
ItaliaOggi del 13.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Condhotel, ora il mix è servito.
Al via la formula a metà tra condomini e alberghi.
Definite le condizioni per esercitare la struttura ricettiva. La parola
passa alle regioni.
Dal 21 marzo prossimo in arrivo una nuova formula ricettiva: il «condhotel».
Ossia, un esercizio alberghiero aperto al pubblico, a gestione unitaria,
composto da una o più unità immobiliari nello stesso comune, che forniscono
alloggio, servizi accessori ed eventualmente vitto, in camere destinate alla
ricettività e, in forma integrata e complementare, in unità abitative a
destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina.
Il condhotel potrà nascere sia dalla trasformazione in appartamenti di una
porzione di un albergo già esistente (non più del 40% della superficie
totale) sia dal raggruppamento a un hotel di un certo numero di appartamenti
situati nelle immediate vicinanze (200 metri lineari). La formula
permetterà, da un lato, la riqualificazione del settore alberghiero, che
conta al 31.12.2017 oltre 31 mila imprese iscritte nel registro delle
imprese, e, dall'altro, agevolerà la bonifica del mercato delle locazioni
brevi.
Quest'ultimo vede oltre 23 mila imprese iscritte nel registro
camerale. Queste novità sono state ufficializzate con il Dpcm del 22.01.2018 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
06.03.2018 n. 54) che dà
attuazione alle regole sui condhotel introdotte dal decreto «Sblocca Italia
(legge n. 164/2014). Ma per la piena operatività occorre attendere che
ciascuna regione, con proprio provvedimento, disciplini le modalità per
l'avvio e l'esercizio dei condhotel. Le regioni a statuto ordinario avranno
un anno di tempo per adeguare i loro ordinamenti al Dpcm.
Le caratteristiche. I condhotel devono avere i seguenti requisiti:
- presenza di almeno sette camere, al netto delle unità abitative a uso
residenziale, all'esito dell'intervento di riqualificazione edilizia.
Ubicati in una o più unità immobiliari inserite in un contesto unitario,
collocate nel medesimo comune, e aventi una distanza non superiore a 200
metri lineari dall'edi?cio alberghiero sede del ricevimento;
- rispetto della percentuale massima della superficie netta
delle unità abitative a uso residenziale pari al 40% del totale della
superficie netta
destinata alle camere;
- presenza di una portineria unica per tutti coloro che usufruiscono del
condhotel, sia in qualità di ospiti dell'esercizio alberghiero che di
proprietari delle unità abitative a uso residenziale. Con la possibilità di
prevedere un ingresso speci?co e separato a uso esclusivo di dipendenti e
fornitori;
- gestione unitaria e integrata dei servizi del condhotel e delle camere,
delle suite e delle unità abitative arredate destinate alla ricettività e
delle unità abitative e uso residenziale, per la durata specificata nel
contratto di trasferimento delle unità abitative a uso residenziale e
comunque non inferiore a dieci anni dall'avvio dell'esercizio del condhotel;
- rispetto della normativa vigente in materia di agibilità per le unità
abitative a uso residenziale (articolo 24 del dpr 06.06.2001, n. 380).
Il condhotel di norma si realizza dopo un intervento di riqualificazione di
un albergo esistente. La cui realizzazione comporta per l'esercizio
turistico l'acquisizione di requisiti per una classificazione superiore a
quella precedentemente attribuita di almeno una stella. All'esito
dell'intervento di riqualificazione che comporta il cambiamento di
destinazione d'uso di alcune camere, diventando residenziali, l'edificio
alberghiero deve classificarsi con almeno tre stelle.
Redazione dei contratti di compravendita. Nei contratti di compravendita
delle unità immobiliari residenziali dei condhotel bisogna indicare in modo
dettagliato l'ubicazione dell'immobile, le condizioni di godimento dei
servizi comuni e la ripartizione dei costi per le spese gestionali. I
contratti di trasferimento della proprietà delle unità abitative a uso
residenziale poste all'interno dei condhotel regolano altresì le modalità di
utilizzo delle singole unità abitative, qualora venga meno per qualunque
causa l'attività del gestore unico. Il gestore unico si impegna a garantire
ai proprietari delle unità abitative a uso residenziale, oltre alla
prestazione di tutti i servizi previsti dalla normativa vigente, ivi inclusi
quelli di cui alle rispettive leggi regionali.
L'atto di compravendita o di trasferimento della proprietà, a titolo oneroso
o gratuito, dell'unità abitativa di tipo residenziale ubicata nel condhotel,
deve essere trascritto nei registri immobiliari.
Il fenomeno delle imprese alberghiere. Al 31.12.2017, le imprese
alberghiere iscritte al registro sono 31.028. Quattro le regioni in testa
per numero di imprese alberghiere risultanti iscritte al registro camerale:
Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana. Approfondendo
l'analisi delle imprese albeghiere per forma giuridica, il 42,5% (13.198) è
costituito da società di capitale. Oltre il 36% ha scelto la forma delle
società di persone (11.227) e infine il 20% (6.270) svolge l'attività sotto
forma di imprese individuale.
Sul fronte del capitale sociale utilizzato per
esercitare l'attività imprenditoriale si rileva dai dati di Infocamere che
oltre il 60% è una pmi ovvero con un capitale sociale dai 10 mila 50 mila
euro. Il 23% rientra nella definizione di micro impresa (con un capitale non
superiore ai 500 mila euro milioni di euro) e il 3% ha un capitale sociale
oltre 1 milioni di euro. Questo è quanto emerge dal report elaborato da
Infocamere sul fenomeno delle imprese alberghiere iscritte al registro delle
imprese competente per territorio.
I numeri sono trasparenti: nella regione Trentino-Alto Adige le imprese
turistico alberghiere ammontano a 4.122. La regione Emilia-Romagna è la
seconda per numero di imprese alberghiere iscritte al registro camerale
ammontano a 4.006. Nella regione Lombardia in totale sono state iscritte nel
registro delle imprese 2.713 aziende del settore alberghiero. In Toscana
sono 2.683 le imprese iscritte al registro delle imprese come alberghiere.
Le due regioni fanalino di coda per l'esercizio di attività alberghiera sono
rappresentate dalla Basilicata (253 unità) e dalla Valle d'Aosta con solo
335 unità (articolo
ItaliaOggi Sette del 12.03.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi tecnici ancora al buio.
La preintesa sul Ccnl prova a dribblare la Corte conti.
Ancora dubbi sul finanziamento dei progettisti, nonostante
l'intervento della legge di Bilancio.
Incentivi
per le funzioni tecniche ancora nel guado. La preintesa del Ccnl delle
funzioni locali, con la dichiarazione congiunta numero 1, prova ad
intervenire nel cortocircuito creatosi tra Parlamento e parte della
magistratura contabile, a proposito del finanziamento dei premi per le
funzioni connesse agli appalti, disciplinati dall'articolo 113 del codice
dei contratti.
Come è noto, la sezione autonomie della Corte dei conti ha ritenuto che gli
incentivi per le funzioni tecniche, pur essendo finanziate dai quadri
economici degli appalti, debbono confluire come spesa corrente nel fondo per
le risorse decentrate, ma non possono accrescerle, in forza del tetto alla
consistenza massima delle risorse decentrate imposto dall'articolo 23, comma
2, del dlgs 75/2017.
In sostanza, dunque, gli incentivi per le funzioni
tecniche invece di aggiungersi al fondo, congelato al 2016, finiscono per
consumarne parte. Questa chiave di lettura ha reso molto difficili le
contrattazioni decentrate integrative, poiché le organizzazioni sindacali
non gradiscono l'erosione delle risorse disponibili da destinare ai
dipendenti. Il Parlamento è intervenuto sulla materia con la legge 205/2017,
che ha introdotto il nuovo comma 5-bis dell'articolo 113 del codice dei
contratti, ai sensi del quale «gli incentivi di cui al presente articolo
fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture».
Immediatamente, la Corte dei conti si è spaccata tra
interpretazioni di alcune sezioni regionali di controllo secondo le quali la
norma, pur non particolarmente esplicita, esclude di porre gli incentivi a
carico dei fondi della contrattazione decentrata, e altre interpretazioni
che proprio a partire della laconicità del testo hanno sottoposto alla
sezione autonomie una nuova interpretazione della questione. Un conflitto
tra Parlamento e magistratura contabile molto evidente, al quale Aran e
organizzazioni sindacali stipulanti la preintesa cercano di porre rimedio.
La dichiarazione congiunta numero 1 auspica «il consolidamento
dell'interpretazione in base alla quale le suddette risorse devono ritenersi
escluse dal limite di legge», aderendo alla lettura secondo la quale il
nuovo comma 5-bis dell'articolo 113 è di per sé sufficiente a chiarire che
gli incentivi per le funzioni tecniche sono da considerare neutri ai fini
del computo del fondo delle risorse decentrate.
Le parti stipulanti, infatti, ritengono che la novella all'articolo 113 «è
finalizzata a considerare unitariamente la spesa complessiva destinata alla
realizzazione di lavori, servizi o forniture, includendovi anche le risorse
finanziarie per incentivi tecnici e che, conseguentemente, tali incentivi
non rientrano nei capitoli della spesa del personale, ma sono ricompresi nel
costo complessivo dell'opera». In mancanza di un Parlamento in grado di
disporre, in tempi ragionevolmente brevi, un'interpretazione autentica,
insomma le parti stipulanti vestono l'innovativo ruolo di ispiratore
dell'interpretazione giuridica che dovrebbe fornire la Corte dei conti.
Il cortocircuito interpretativo pare in tutto confermato proprio da questa
dichiarazione congiunta, resa dalle parti, comunque, per la consapevolezza
delle influenze estremamente negative sulla contrattazione decentrata che la
posizione rigorosa assunta dalla magistratura contabile ha già causato e che
potrebbe vanificare in parte l'utilità dello sblocco dei contratti
(articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Risorse variabili, aumenti legati agli obiettivi.
Possibili, ma solo in teoria, incrementi ai fondi della contrattazione
decentrata collegati agli obiettivi dei vari enti.
La preintesa del Ccnl delle funzioni centrali conferma, con alcune
importanti modifiche, l'assetto delle disposizioni contenute nell'articolo
15, comma 5, del Ccnl 01/04/1999, che consente di incrementare i fondi in
presenza di due circostanze.
In primo luogo, permette un incremento stabile nel caso in cui nuove
incombenze comportino una crescita altrettanto stabile delle dotazioni
organiche (ipotesi praticamente di scuola). In secondo luogo, l'articolo 15,
comma 5, permette l'incremento delle risorse di parte variabile «in caso di
attivazione di nuovi servizi o di processi di riorganizzazione finalizzati a
un accrescimento di quelli esistenti, ai quali sia correlato un aumento
delle prestazioni del personale in servizio cui non possa farsi fronte
attraverso la razionalizzazione delle strutture e/o delle risorse
finanziarie disponibili».
La prima tipologia di incremento sopra descritta viene riconfigurata dalla
preintesa all'articolo 67, comma 5, lettera a), che consente di apportare
incrementi «alla componente stabile di cui al comma 2, in caso di incremento
delle dotazioni organiche, al fine di sostenere gli oneri dei maggiori
trattamenti economici del personale».
La seconda tipologia di incremento, connessa alle risorse variabili, è
regolata dall'articolo 67, comma 5, lettera b), della preintesa, che
consente incrementi «alla componente variabile di cui al comma 3, per il
conseguimento di obiettivi dell'ente, anche di mantenimento, definiti nel
piano della performance o in altri analoghi strumenti di programmazione
della gestione, al fine di sostenere i correlati oneri dei trattamenti
accessori del personale; in tale ambito sono ricomprese anche le risorse di
cui all'art. 56-quater, comma 1, lett. c)».
Rispetto all'articolo 15, comma 5, le disposizioni della preintesa sono più
chiare. Infatti, è definito con maggiore precisione il collegamento tra
incrementi del fondo di parte stabili ed incremento della dotazione
organica. Mentre gli incrementi alla parte variabile sono in modo più
semplice connessi a obiettivi previsti dal piano della performance (la
preintesa fa sua la tesi, dunque, secondo la quale tale piano diviene
obbligatorio anche per gli enti locali), senza entrare, come fa l'articolo
15, comma 5, del Ccnl 01/04/1999, nel merito degli obiettivi ed alla loro
necessaria correlazione ad incrementi di produttività: correlazione di
difficile valutazione e causa di un contenzioso infinito tra enti e servizi
ispettivi del Mef.
La preintesa si limita a connettere gli incrementi agli obiettivi del piano
della performance ammettendo espressamente per la prima volta la finanzi
abilità di obiettivi non necessariamente di incremento della produttività,
ma anche di semplice «mantenimento» di risultati acquisiti in precedenza.
Se da un lato la preintesa razionalizza gli incrementi facoltativi, per
altro verso occorre tenere presente che gli strumenti visti prima restano
fortemente depotenziati a causa dell'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017
che fino all'armonizzazione dei trattamenti economici dei vari comparti,
impone ai fondi il tetto massimo della spesa del 2016: dunque nessun
incremento secondo gli strumenti ammessi dalla contrattazione collettiva
sarà possibile se dovesse portare a sforare quel tetto.
La preintesa conferma anche le previsioni dell'articolo 15, comma 2, del
Ccnl 01/04/1999: infatti, all'articolo 67, comma 4, prevede che «in sede di
contrattazione integrativa, ove nel bilancio dell'ente sussista la relativa
capacità di spesa, le parti verificano l'eventualità dell'integrazione,
della componente variabile di cui al comma 3, sino a un importo massimo
corrispondente all'1,2% su base annua, del monte salari dell'anno 1997,
esclusa la quota relativa alla dirigenza» (articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Deve essere dichiarata dal concorrente in gara anche la
condanna penale se il reato è estinto ma non riscontrato con
pronuncia del giudice penale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Per condanna penale – Obbligo del concorrente
di dichiarare la condanna - Estinzione del reato – Rileva
solo se riscontrata in una pronuncia espressa del giudice
dell’esecuzione penale.
Ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. c, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, ai fini della
partecipazione alle gare pubbliche, l’estinzione del reato,
che consente di non dichiarare l’emanazione del relativo
provvedimento di condanna, sotto il profilo giuridico, non è
affatto automatica per il mero decorso del tempo, ma deve
essere riscontrata in una pronuncia espressa del giudice
dell’esecuzione penale (art. 676 c.p.p.), sola figura a cui
l’ordinamento attribuisce la potestà di verificare la
sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la
relativa declaratoria (1).
---------------
(1)
Da tale premessa il Tar ha fatto conseguire che, fino a
quando non intervenga il provvedimento giurisdizionale del
giudice dell’esecuzione penale, che va di norma richiesto
con istanza di parte, non può legittimamente parlarsi di
reato estinto e il concorrente non è esonerato dalla
dichiarazione, da rendersi in sede di gara pubblica, circa
la sussistenza dell’intervenuta condanna (Cons.
St., sez. III, 29.05.2017, n. 2548; id.
05.10.2016,
n. 4118; id.,
sez. V, 28.08.2017, n. 4077; id.
15.03.2017, n. 1172; contra: id.,
sez. VI, 07.05.2018 n. 2704).
Ha aggiunto il Tar la considerazione per la quale, il dato
testuale, ricavabile dal codice dei contratti pubblici, è
nel senso secondo cui possono non essere auto-dichiarate,
nei documenti di gara, le condanne che siano state, per
l’appunto, “dichiarate estinte”, ossia acclarate
tali, evidentemente, dall’organo giudiziario competente, su
istanza di parte, posto che il codice di procedura penale
vigente richiede, per l’appunto, l’iniziativa della parte
interessata diligente, al fine della pronuncia della
declaratoria di estinzione (art. 666, co. 1, c.p.p.),
diversamente dal previgente codice Rocco del 1930, laddove
–come ben rammentato dalla
ordinanza del Consiglio di Stato, sez. III, 26.01.2018, n.
374– era, invece, prevista (art. 578 c.p.p.
abrogato) la declaratoria, anche d’ufficio in camera di
consiglio dell’estinzione del reato e della pena
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 07.08.2018 n. 1189 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Il ricorso va respinto.
1.-
Il punto centrale della controversia
verte sulla corretta interpretazione da darsi in ordine alla
disposizione di cui all’art. 38 del decreto legislativo
12.04.2006 n. 163, all’epoca della procedura di gara
applicabile, con riferimento all’obbligo di dichiarare, ai
fini della verifica dei requisiti di ordine generale e
morale, i c.d. precedenti penali.
Per incidens, va specificato che l’art. 86 del
decreto legislativo 18.04.2016 n. 50 s.m.i. (costituente il
nuovo codice degli appalti pubblici), ferme restando le
implementazioni informatiche, ha invece ora previsto, come
regola speciale, che le stazioni appaltanti accettino, quale
prova sufficiente della insussistenza di una causa di
esclusione per c.d. inidoneità morale (id est:
mancanza di talune condanne penali et similia), il
certificato del casellario giudiziale, tanto in deroga alla
regola generale del divieto di produzione alle pubbliche
amministrazioni di certificati, stabilito dall’art. 40 del
d.p.r. 28.12.2000 n. 445.
L’art. 38, comma 1, lett. c), del citato decreto legislativo
n. 163 esclude dalla partecipazione alle procedure ad
evidenza pubblica di affidamento di appalti gli operatori
economici, per i quali con riferimento a taluni soggetti
qualificati (ad es.: amministratore con rappresentanza, nel
caso delle società di capitali) sia stata pronunciata una
sentenza di condanna passata in giudicato o siano stati
emesso un decreto penale di condanna divenuto irrevocabile
oppure una sentenza di applicazione della pena su richiesta,
ai sensi dell’art. -OMISSIS- c.p.p., per gravi reati in
danno dello Stato o della U.E., che incidono sulla “moralità
professionale”, tra i quali è annoverata la -OMISSIS-.
Per tale motivo, l’art. 38, comma 2, del decreto legislativo
n. 163 impone ai candidati alla procedura di gara l’obbligo
di dichiarare il possesso dei requisiti, mediante
dichiarazione sostitutiva, in conformità alle previsioni del
t.u. sulla documentazione amministrativa di cui al d.p.r.
28.12.2000 n. 445, nella quale vanno indicate tutte le
condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali
si sia beneficiato della c.d. “non menzione”.
2.- Tanto premesso, l’art. 38 del decreto legislativo n. 163
cit., con riferimento ai casi di esclusione enumerati al
comma 1, precisa, alla lett. c), in fine della disposizione,
che l’esclusione e il divieto, in ogni caso, non operano
quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando sia
intervenuta la riabilitazione, ovvero ancora “quando il
reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna”,
ovvero infine in caso di revoca della condanna medesima.
Per tale motivo, con finalità di semplificazione degli oneri
documentali, il comma 2 dello stesso art. 38 ha previsto che
il concorrente ad una procedura di gara, ai fini dell’art.
38 (Requisiti di ordine generale), comma 1, lett. c), del
decreto legislativo n. 163, non sia tenuto ad indicare,
nella dichiarazione, le condanne per reati depenalizzati,
ovvero “dichiarati estinti dopo la condanna stessa”,
né le condanne revocate, né quelle per le quali sia
intervenuta la riabilitazione.
3.- Orbene, dalle surriferite disposizioni normative,
concernenti la legislazione in materia di appalti pubblici,
è chiaro che, per ciò che attiene ai requisiti di
ordine generale e morale di ammissibilità alla procedura di
evidenza pubblica e per quanto riguarda l’assolvimento degli
oneri formali di documentazione utili alla partecipazione
alla gara, rileva la “dichiarazione di estinzione del
reato dopo la condanna”, che, nella legislazione penale
e penal-processualistica, può essere resa, su istanza di
parte, solo dal giudice dell’esecuzione, ai sensi degli artt.
665-666 c.p.p., la cui precipua funzione è quella di
dichiarare l’estinzione del reato, esclusivamente nelle
ipotesi in cui tale causa estintiva sopravvenga al passaggio
in giudicato della condanna
(ad es.: art. 167 c.p. e art. 445, co. 2, c.p.p., cfr. Cass.,
sez. III pen., 22.06.1995, n. 2414).
È invero solo il giudice dell’esecuzione
che può verificare la realizzazione di tutti i presupposti e
le condizioni, di varia portata, a seconda del contenuto
della condanna intervenuta, che determinano la estinzione
del reato, che
–per quanto rileva in questa sede– non è
affatto detto maturi ex se, con il semplice decorrere
del tempo, successivamente alla condanna penale a pena
sospesa (artt. 163
e ss. c.p.), o alla pronuncia
di -OMISSIS- (artt. -OMISSIS- e 445, comma 2, c.p.p.).
Infatti, l’art. 167 c.p. e l’art. 445,
comma 2, c.p.p. sanciscono l’estinzione del reato (rectius:
la non esecuzione delle pene) se, nei termini stabiliti, il
condannato non commetta un altro reato della stessa indole e
abbia adempiuto agli obblighi impostigli con la pronuncia di
condanna.
4.- Pur tuttavia, in merito alla necessità
di una declaratoria o meno di estinzione del reato, a
seguito di sospensione condizionale della pena e/o di cd.
pena patteggiata, si è registrato un contrasto
giurisprudenziale, che vede la tesi prevalente della
necessità di una pronuncia espressa in merito alla
intervenuta estinzione
(ex multis: TAR Lazio, sez. II, 24.05.2018 n. 5755;
Cons. St., sez. V, 28.08.2017 n. 4077; Cons. St., sez. V,
15.03.2017 n. 1172; Cons. St, sez. V, 28.12.2016 n. 5478;
Cons. St., sez. V, 05.09.2014 n. 4528; Cons. St., sez. VI,
03.10.2014 n. 4937), contraddetta da una
tesi minoritaria, affiorata anche nella giurisprudenza
recente (Cons. St.,
sez. VI, 07.05.2018 n. 2704), che invece
reputa sufficiente la constatazione della circostanza del
mero decorso del tempo successiva alla sentenza di condanna
a pena sospesa o patteggiata, onde poter ricavare il
maturato effetto estintivo del reato, che esima il
partecipante alla procedura di evidenza pubblica dal
palesare in sede di gara il precedente penale subito.
5.- Sul versante della giurisprudenza
penale, invece, la talora asserita mancanza di necessità di
una pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione in tema
di avvenuta estinzione del reato, a seguito di pena sospesa
o di pena patteggiata
(Cass., sez. III pen., 21.09.2016 n. 19954),
attiene alle sole finalità intra-sistematiche del
diritto penale, volte ad assicurare il favor rei
nell’applicazione degli istituti penalistici c.d. premiali o
comunque di favore nella valutazione della colpevolezza del
reo con riferimento alla fattispecie penale concreta
rilevante nel caso di specie e non può, invece, spiegare
alcun altro effetto per le diverse finalità
extra-sistematiche di collegamento con altri rami
dell’ordinamento, come per la materia degli appalti
pubblici, laddove assumono una maggiore preminenza le
esigenze di certezza pubblica.
Difatti, per l’ordinamento generale, il
casellario giudiziale documenta –quale particolare registro
tenuto da un ufficio pubblico, ai fini di certezza– i
precedenti penali, come disposto dal d.p.r. 14.11.2002, n.
313; ciò pone al partecipante alla procedura ad evidenza
pubblica l’onere di premunirsi da eventuali contestazioni di
precedenti sfavorevoli, anche non dichiarati alla stazione
appaltante, facendovi ivi constatare la propria situazione
aggiornata, comprendente le intervenute cause di estinzione
del reato e/o della pena, agli effetti del rilascio dei
relativi certificati
(cfr. artt. 24-25-25-bis d.p.r. n. 313 cit.),
onde poter dimostrare la piena capacità a contrarre.
Ergo, la stazione appaltante non può che
ricavare da quanto risulti presso il casellario giudiziale
le informazioni utili a riscontrare le situazioni
soggettive, in cui versano i soggetti qualificati ex lege
dell’operatore economico, che partecipino ad una procedura
di gara pubblica, risultando le relative certificazioni
rilasciate quanto basta per riscontrare le
auto-dichiarazioni degli offerenti, con conseguente onere da
parte di questi ultimi di attivarsi, per tempo, nel far
constatare la propria situazione aggiornata, in virtù delle
declaratorie di estinzione di reati o di pene inflitte, o
ancora per la concessa riabilitazione.
In definitiva, senza l’accertamento
costitutivo del giudice dell’esecuzione penale non può
ritenersi sussistere, almeno per l’affidamento dei terzi,
qual segnatamente è anche la stazione appaltante, l’avvenuta
estinzione del reato, per via della maturazione di tutti i
requisiti e le condizioni di legge.
6.- In conclusione, deve rimarcarsi che, come già anticipato
in sede cautelare, ai fini della
partecipazione alle gare pubbliche, l’estinzione del reato,
che consente di non dichiarare l’emanazione del relativo
provvedimento di condanna, sotto il profilo giuridico, non è
affatto automatica per il mero decorso del tempo, ma deve
essere riscontrata in una pronuncia espressa del giudice
dell’esecuzione penale (art. 676 c.p.p.), sola figura a cui
l’ordinamento attribuisce la potestà di verificare la
sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la
relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando
non intervenga quel provvedimento giurisdizionale, che va di
norma richiesto con istanza di parte, non può legittimamente
parlarsi di reato estinto e il concorrente non è esonerato
dalla dichiarazione, da rendersi in sede di gara pubblica,
circa la sussistenza dell’intervenuta condanna
(in questo senso: Cons. Stato, Sez. III, 29.05.2017, n.
2548; Sez. III, 05.10.2016, n. 4118; Sez. V, 28.08.2017, n.
4077; Sez. V, 15.03.2017, n. 1172; contra: Sez. VI,
07.05.2018 n. 2704).
A ciò si aggiunge la considerazione per la quale,
il dato testuale, ricavabile dal codice dei
contratti pubblici, è nel senso secondo cui possono non
essere auto-dichiarate, nei documenti di gara, le condanne
che siano state, per l’appunto, “dichiarate estinte”,
ossia acclarate tali, evidentemente, dall’organo giudiziario
competente, su istanza di parte, posto che il codice di
procedura penale vigente richiede, per l’appunto,
l’iniziativa della parte interessata diligente, al fine
della pronuncia della declaratoria di estinzione
(art. 666, co. 1, c.p.p.), diversamente dal
previgente codice Rocco del 1930, laddove
–come ben rammentato dalla citata ordinanza del Consiglio di
Stato, Sez. III, 26.01.2018 n. 374– era,
invece, prevista (art. 578 c.p.p. abrogato) la declaratoria,
anche d’ufficio in camera di consiglio dell’estinzione del
reato e della pena. |
APPALTI:
Le valutazioni delle
offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono
espressione di discrezionalità tecnica e come tali sono
sottratte al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che non siano manifestamente
illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero
fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento
dei fatti ovvero, ancora, salvo che non vengano in rilievo
specifiche censure circa la plausibilità dei criteri
valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente
che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e
del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il
giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del
principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie
valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica,
quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle
modalità di valutazione delle offerte.
---------------
16.1 - Deve aggiungersi che dalla lettura delle motivazioni
della Commissione emerge chiaramente l’iter logico-giuridico
seguito per la formulazione del punteggio contestato e che,
secondo il costante orientamento della giurisprudenza, le
valutazioni delle offerte tecniche da parte delle
commissioni di gara sono espressione di discrezionalità
tecnica e come tali sono sottratte al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano
manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli,
arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e
manifesto travisamento dei fatti –circostanza non ricorrente
nel caso di specie- (Cons. Stato Sez. V, 28.10.2015, n.
4942; Cons. St., sez. V, 30.04.2015, n. 2198; 23.02.2015, n.
882; 26.03.2014, n. 1468; sez. III, 13.03.2012, n. 1409)
ovvero, ancora, salvo che non vengano in rilievo specifiche
censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la
loro applicazione (Cons. St., sez. III, 24.09.2013, n.
4711), non essendo sufficiente che la determinazione assunta
sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito,
meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non
può sostituire -in attuazione del principio costituzionale
di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle
effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di
regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione
delle offerte (Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2615) (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 06.08.2018 n. 4833 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'illegittima composizione della commissione
di gara possono qui richiamarsi i
seguenti principi:
- la nomina di una commissione di gara contenente un commissario
incompatibile non solo inficia le decisioni e le
determinazioni a valle, assunte dalla commissione stessa in
quanto manifestazioni di volontà complessa imputabili a tale
organo, ma preclude anche la nomina di tutti i medesimi
commissari (e non solo di quello dichiarato incompatibile),
a tutela dei principi di trasparenza e di imparzialità delle
operazioni di gara;
- non esiste un principio assoluto di unicità o immodificabilità
delle commissioni giudicatrici, poiché tale principio è
destinato ad incontrare deroghe ogni volta vi sia un caso di
indisponibilità da parte di uno dei componenti della
commissione a svolgere le proprie funzioni;
- è ammessa la sostituzione avvenuta per indisponibilità di un
componente in un momento in cui la commissione non aveva
ancora cominciato le operazioni valutative;
- ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei, anche soltanto
sotto il profilo potenziale, a compromettere tale delicato e
cruciale ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni
affidato alle commissioni di gara, la semplice sostituzione
di un componente rispetto al quale sia imputabile la causa
di illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile,
né consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la
commissione abbia già operato;
- il rischio che il ruolo e l’attività di uno dei commissari,
dichiarato incompatibile, possano avere inciso nei confronti
anche degli altri commissari durante le operazioni di gara,
influenzandoli verso un determinato esito valutativo,
impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la
decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri
commissari;
- la sostituzione totale di tutti i commissari (in luogo del solo
commissario designato in modo illegittimo) garantisce
maggiormente il rispetto del principio di trasparenza nello
svolgimento delle attività di gara;
- non è possibile estendere gli effetti dell’invalidità derivante
dalla nomina di una commissione illegittima, ai sensi degli
artt. 84, commi 4 e 10, del Codice dei contratti pubblici,
anche a tutti gli altri atti anteriori, disponendo la
caducazione radicale dell’intera gara, atteso che la stessa
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
07.05.2013, n. 13, ha stabilito inequivocabilmente e
perentoriamente che “secondo i principi generali, la
caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie,
essere stata effettuata in violazione delle regole di cui
all'art. 84, comma 4 e 10, comporterà in modo caducante il
travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti
successivi della procedura di gara fino all'affidamento del
servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero
procedimento”;
- vengono travolti per illegittimità derivata tutti gli atti
successivi della procedura di gara fino all'affidamento del
servizio, ma non certo gli atti anteriori, anche in ossequio
al principio generale per il quale l’invalidità ha effetti
nei confronti degli atti a valle, non certo degli atti a
monte;
- non si vede perché la rinnovazione delle operazioni di gara
dovrebbe essere tanto radicale da incidere su tutti gli atti
a monte, compreso il bando di gara, il disciplinare e tutti
gli atti in base ai quali è stata indetta la gara, atteso
che il vizio riscontrato riguarda esclusivamente la
composizione della commissione, il che non incide affatto,
né in senso logico né giuridico, sui predetti atti a monte
del procedimento, non inficiandoli in alcun modo;
- la rinnovazione radicale finirebbe per pregiudicare gli interessi
pubblici sottesi alla gara d’appalto, anche sotto il profilo
dei costi amministrativi aggiuntivi, senza in alcun modo
tutelare detti interessi pubblici, ma esclusivamente, ed in
modo sbilanciato, l’interesse privato dell’appellante a
poter formulare una nuova offerta competitiva;
- l’espressione “rinnovazione della gara”, cui fa menzione l’art.
122 c.p.a., evocato dall’anzidetta pronuncia dell’Adunanza
Plenaria 07.05.2013, n. 13, è compatibile con la sola
rinnovazione delle valutazioni discrezionali.
---------------
12. - Le doglianze che, per la loro stretta connessione
possono essere esaminate congiuntamente, sono infondate.
12.1 - Possono qui richiamarsi i principi espressi da questo
Consiglio di Stato nella decisione della Quinta Sezione n.
5732/2014, richiamata anche dalla difesa di SO.RE.SA.,
secondo cui:
- la nomina di una commissione di gara contenente un commissario
incompatibile non solo inficia le decisioni e le
determinazioni a valle, assunte dalla commissione stessa in
quanto manifestazioni di volontà complessa imputabili a tale
organo, ma preclude anche la nomina di tutti i medesimi
commissari (e non solo di quello dichiarato incompatibile),
a tutela dei principi di trasparenza e di imparzialità delle
operazioni di gara;
- non esiste un principio assoluto di unicità o immodificabilità
delle commissioni giudicatrici, poiché tale principio è
destinato ad incontrare deroghe ogni volta vi sia un caso di
indisponibilità da parte di uno dei componenti della
commissione a svolgere le proprie funzioni;
- è ammessa la sostituzione avvenuta per indisponibilità di un
componente in un momento in cui la commissione non aveva
ancora cominciato le operazioni valutative (cfr. Consiglio
di Stato, sez. III, 25.02.2013, n. 1169);
- ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei, anche soltanto
sotto il profilo potenziale, a compromettere tale delicato e
cruciale ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni
affidato alle commissioni di gara, la semplice sostituzione
di un componente rispetto al quale sia imputabile la causa
di illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile,
né consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la
commissione abbia già operato;
- il rischio che il ruolo e l’attività di uno dei commissari,
dichiarato incompatibile, possano avere inciso nei confronti
anche degli altri commissari durante le operazioni di gara,
influenzandoli verso un determinato esito valutativo,
impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la
decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri
commissari;
- la sostituzione totale di tutti i commissari (in luogo del solo
commissario designato in modo illegittimo) garantisce
maggiormente il rispetto del principio di trasparenza nello
svolgimento delle attività di gara;
- non è possibile estendere gli effetti dell’invalidità derivante
dalla nomina di una commissione illegittima, ai sensi degli
artt. 84, commi 4 e 10, del Codice dei contratti pubblici,
anche a tutti gli altri atti anteriori, disponendo la
caducazione radicale dell’intera gara, atteso che la stessa
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
07.05.2013, n. 13, ha stabilito inequivocabilmente e
perentoriamente che “secondo i principi generali, la
caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie,
essere stata effettuata in violazione delle regole di cui
all'art. 84, comma 4 e 10, comporterà in modo caducante il
travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti
successivi della procedura di gara fino all'affidamento del
servizio ed impone quindi la rinnovazione dell'intero
procedimento”;
- vengono travolti per illegittimità derivata tutti gli atti
successivi della procedura di gara fino all'affidamento del
servizio, ma non certo gli atti anteriori, anche in ossequio
al principio generale per il quale l’invalidità ha effetti
nei confronti degli atti a valle, non certo degli atti a
monte;
- non si vede perché la rinnovazione delle operazioni di gara
dovrebbe essere tanto radicale da incidere su tutti gli atti
a monte, compreso il bando di gara, il disciplinare e tutti
gli atti in base ai quali è stata indetta la gara, atteso
che il vizio riscontrato riguarda esclusivamente la
composizione della commissione, il che non incide affatto,
né in senso logico né giuridico, sui predetti atti a monte
del procedimento, non inficiandoli in alcun modo;
- la rinnovazione radicale finirebbe per pregiudicare gli interessi
pubblici sottesi alla gara d’appalto, anche sotto il profilo
dei costi amministrativi aggiuntivi, senza in alcun modo
tutelare detti interessi pubblici, ma esclusivamente, ed in
modo sbilanciato, l’interesse privato dell’appellante a
poter formulare una nuova offerta competitiva;
- l’espressione “rinnovazione della gara”, cui fa menzione
l’art. 122 c.p.a., evocato dall’anzidetta pronuncia
dell’Adunanza Plenaria 07.05.2013, n. 13, è compatibile con
la sola rinnovazione delle valutazioni discrezionali (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 06.08.2018 n. 4830 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
a) nelle gare pubbliche il giudizio di verifica
dell’anomalia dell’offerta -finalizzato alla verifica
dell’attendibilità e serietà della stessa ovvero
all’accertamento dell’effettiva possibilità dell’impresa di
eseguire correttamente l’appalto alle condizioni proposte-
ha natura globale e sintetica e deve risultare da un’analisi
di carattere tecnico delle singole componenti di cui
l’offerta si compone, al fine di valutare se l’anomalia
delle diverse componenti si traduca in un’offerta
complessivamente inaffidabile;
b) detto giudizio costituisce espressione di un tipico potere
tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica
amministrazione ed insindacabile in sede giurisdizionale,
salvo che nelle ipotesi di manifesta e macroscopica
erroneità o irragionevolezza dell’operato della Commissione
di gara, che rendano palese l’inattendibilità complessiva
dell’offerta;
c) dal suo canto il giudice amministrativo può sindacare le
valutazioni della Pubblica amministrazione sotto il profilo
della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza
dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle
singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione
della sfera propria della Pubblica amministrazione;
d) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta,
rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica
amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di
macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori
di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da
errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il
proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di
sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica
amministrazione.
---------------
10. Il secondo e il terzo motivo impingono nel
merito della valutazione discrezionale, laddove contestano
la ritenuta non anomalia dell’offerta e i punteggi ottenuti
in sede di valutazione dell’offerta tecnica.
A tal riguardo, è sufficiente richiamare la consolidata
giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato,V, 03.04.2018,
n. 2051) che ha più volte chiarito che:
a) nelle gare pubbliche il giudizio di verifica dell’anomalia
dell’offerta -finalizzato alla verifica dell’attendibilità e
serietà della stessa ovvero all’accertamento dell’effettiva
possibilità dell’impresa di eseguire correttamente l’appalto
alle condizioni proposte- ha natura globale e sintetica e
deve risultare da un’analisi di carattere tecnico delle
singole componenti di cui l’offerta si compone, al fine di
valutare se l’anomalia delle diverse componenti si traduca
in un’offerta complessivamente inaffidabile;
b) detto giudizio costituisce espressione di un tipico potere
tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica
amministrazione ed insindacabile in sede giurisdizionale,
salvo che nelle ipotesi di manifesta e macroscopica
erroneità o irragionevolezza dell’operato della Commissione
di gara, che rendano palese l’inattendibilità complessiva
dell’offerta;
c) dal suo canto il giudice amministrativo può sindacare le
valutazioni della Pubblica amministrazione sotto il profilo
della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza
dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle
singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione
della sfera propria della Pubblica amministrazione;
d) anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a
dimostrazione della non anomalia della propria offerta,
rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica
amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di
macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori
di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da
errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il
proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di
sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica
amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.08.2018 n. 4820 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara di concorrente per incompatibilità.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Per incompatibilità componente gruppo lavoro
del concorrente che è anche dirigente della stazione
appaltante – Esclusione - Fattispecie.
Nella gara volta all’affidamento
dell’appalto di fornitura ad una Azienda sanitaria è
illegittima l’esclusione della concorrente, per
incompatibilità, che ha inserito nel gruppo di lavoro
preposto allo svolgimento delle prestazioni oggetto della
gara un medico dipendente a tempo indeterminato della stessa
A.S.L. appaltante, dirigente dell’Unità di valutazione di
appropriatezza di ricovero e prestazioni, preposto
all’attività di ispezione per la verifica dell’appropriatezza
dei ricoveri presso le case di cura e gli ospedali della
A.S.L. (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che la presenza del dirigente nel gruppo di
lavoro della concorrente non provoca un effetto ipso jure
espulsivo dalla competizione, dovendo essere puntualmente
accertato se essa abbia determinato un’indebita posizione di
vantaggio, suscettibile di alterare la par condicio
dei partecipanti alla selezione;
Il Tar ha quindi richiamato i passaggi significativi della
sentenza del Tribunale di I grado UE, sez. II – 13.10.2015,
n. 403/12:
“75. La nozione di conflitto di interessi ha carattere
oggettivo e per definirla occorre prescindere dalle
intenzioni degli interessati, e in particolare dalla loro
buona fede (v. sentenza del 20.03.2013, Nexans France/Impresa
comune Fusion for Energy, T-415/10, Racc., EU:T:2013:141,
punto 115 e giurisprudenza ivi citata).
76. Alle autorità aggiudicatrici non incombe un obbligo
assoluto di escludere sistematicamente gli offerenti in
situazione di conflitto di interessi, dato che siffatta
esclusione non sarebbe giustificata nei casi in cui si
potesse dimostrare che tale situazione non ha avuto alcuna
incidenza sul loro comportamento nella procedura di gara, e
non determina alcun rischio reale di pratiche atte a falsare
la concorrenza tra gli offerenti. Viceversa, l'esclusione di
un offerente in situazione di conflitto di interessi è
indispensabile qualora non esista un rimedio più adeguato
per evitare una qualsiasi violazione dei principi di parità
di trattamento tra gli offerenti e di trasparenza (sentenza
Nexans France/Impresa comune Fusion for Energy, punto 75
supra, EU:T:2013:141, punti 116 e 117).
77. Infatti, secondo una costante giurisprudenza,
l'amministrazione aggiudicatrice è tenuta a vegliare sul
rispetto, in ogni fase della procedura di gara d'appalto,
del principio di parità di trattamento e, di conseguenza,
delle pari opportunità di tutti gli offerenti (v. sentenza
del 12.07.2007, EvropaIki Dynamiki/Commissione, T-250/05,
EU:T:2007:225, punto 45 e giurisprudenza ivi citata).
78. Più precisamente, il principio delle pari opportunità
impone, secondo la giurisprudenza, che tutti gli offerenti
dispongano delle stesse opportunità nella formulazione dei
termini delle loro offerte e implica dunque che queste
ultime siano soggette alle stesse condizioni per tutti tali
offerenti. Il principio di trasparenza, che ne rappresenta
un corollario, ha fondamentalmente lo scopo di eliminare i
rischi di favoritismo e arbitrarietà da parte dell'autorità
aggiudicatrice. Esso implica che tutte le condizioni e
modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate
in maniera chiara, precisa e univoca, nel bando di gara o
nel capitolato d'oneri (sentenza del 09.09.2009, Brink's
Security Luxembourg/Commissione, T-437/05, Racc.,
EU:T:2009:318, punti 114 e 115).
Il principio di trasparenza implica, inoltre, che tutte le
informazioni tecniche pertinenti per la buona comprensione
del bando di gara o del capitolato d'oneri siano messe,
appena possibile, a disposizione di tutte le imprese che
partecipano ad un appalto pubblico, in modo da consentire,
da un lato, a tutti gli offerenti ragionevolmente informati
e normalmente diligenti di comprenderne l'esatta portata e
di interpretarle allo stesso modo e, dall'altro,
all'amministrazione aggiudicatrice di verificare se
effettivamente le offerte presentate dagli offerenti
rispondano ai criteri che disciplinano l'appalto in
questione (v. sentenza del 29.01.2014, European Dynamics
Belgium e a./EMA, T-158/12, EU:T:2014:36, punto 60 e
giurisprudenza ivi citata).
79. Dalla giurisprudenza citata ai precedenti punti da 74 a
78 emerge che il ragionamento in termini di rischio di
conflitto di interessi impone una valutazione concreta, da
un lato, dell'offerta e, dall'altro, della situazione
dell'offerente interessato, e che l'esclusione di tale
offerente è un rimedio volto a garantire il rispetto dei
principi di trasparenza e di parità di trattamento tra gli
offerenti” (Tar
Brescia, sez. II, 04.04.2016, n. 485, confermata
dal Consiglio di Stato, Sez. V, 18.01.2017, n. 189)
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 04.08.2018 n. 1176 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Legali, niente incarichi fiduciari. Per la difesa in giudizio
della pubblica amministrazione. Il Consiglio di stato concorda con l’Anac
nell’escluderli dall’applicazione del Codice.
La pubblica amministrazione non può affidare ad
avvocati esterni incarichi per la difesa in giudizio per via fiduciaria.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, espressasi con
parere 03.08.2018 n. 2017 sullo schema di Linee guida dell'Anac
per l'affidamento dei servizi legali (si veda ItaliaOggi del 07/08/2018)
elimina definitivamente ogni possibile dubbio sulla permanenza della
legittima possibilità delle amministrazioni di scegliere l'avvocato
fiduciariamente, anche quando il tipo di contratto che si stipula non è un
vero e proprio appalto, ma una prestazione d'opera intellettuale.
Palazzo Spada concorda con quanto evidenzia l'Anac in merito alla
circostanza che i servizi legali previsti dall'articolo 17, comma 1, lettera
d), del dlgs 50/2016 siano da considerare come contratti esclusi dal campo
di applicazione del codice, ma non estranei.
Dunque, tali affidamenti debbono rispettare i principi posti dall'articolo 4
del dlgs 50/2016. Il che, osserva la Commissione, impone «la
procedimentalizzazione nella scelta del professionista al quale affidare
l'incarico di rappresentanza in giudizio (o in vista di un giudizio)
dell'amministrazione, evitando scelte fiduciarie oppure motivate dalla
“chiara fama” (spesso non dimostrata) del professionista».
Dunque, occorre sempre e comunque una procedura selettiva, per quanto non
soggetta alle regole stringenti del codice, per individuare il legale.
Secondo il Consiglio di stato è opportuno che le amministrazioni selezionino
i professionisti preventivamente inseriti in uno specifico albo, utilizzando
almeno tre parametri: esperienza e competenza tecnica, pregressa e proficua
collaborazione con la stessa stazione appaltante per la stessa questione; e
anche il costo del servizio, smentendo i molti che ritengono non corretto o
impossibile considerare questo elemento.
Le amministrazioni non possono fare a meno di confrontare una short list
di avvocati sulla base di parametri che consentano una scelta che deve
comunque essere discrezionale, purché sorretta da una solida motivazione che
appunto i parametri selettivi consentono di elaborare in modo compiuto.
Secondo Palazzo Spada non deve mai essere consentita la scelta per
estrazione a sorte. Allo stesso modo, l'affidamento diretto per casi di
urgenza dovrebbe essere un'ipotesi solo astratta. Infatti, l'urgenza
potrebbe essere scongiurata se le amministrazioni dessero vita ad appalti di
servizio veri e propri, per una durata pluriennale (almeno 3 anni) a studi
professionali interdisciplinari: infatti, in questo caso l'appalto potrebbe
considerarsi «al bisogno» e quindi lo studio potrebbe essere attivato
immediatamente.
L'urgenza non può giustificare affidamenti diretti, senza quel minimo di
procedura necessaria ai sensi dell'articolo 4 del codice, a meno che non si
tratti di vertenze del tutto particolari, come per esempio quelle attinenti
a questioni sulle quali ancora non vi siano pronunce giurisprudenziali.
Il parere appare, però, poco persuasivo quando distingue la difesa in
giudizio in due tipologie contrattuali. Quella appunto della prestazione
d'opera intellettuale, che coincide con la previsione dell'articolo 17,
comma 1, lettera d); e quella dell'appalto vero e proprio, che comprende lo
svolgimento di una serie indefinita di difese in giudizio, oltre che
consulenze ed altri servizi indicati nell'allegato IX, per un tempo
definito, assegnandoli a società o comunque studi organizzati.
Oggettivamente, Palazzo Spada pare ancora incorrere nell'errore di ritenere
rilevanti nella disciplina degli appalti pubblici le differenze ricavabili
dal codice civile tra prestazione resa personalmente senza prevalenza di
mezzi e organizzazione (prestazione d'opera intellettuale) e appalto di
servizi, con organizzazione di impresa ed assunzione del rischio. La difesa
in giudizio, sia che venga resa personalmente, sia che sia organizzata da
uno studio, non ha visibilmente alcuna predisposizione di mezzi ed
assunzione dei rischi imprenditoriali propri dell'appalto come definito dal
codice civile.
Ma, questo, ai fini del codice dei contratti e delle direttive europee, è
totalmente irrilevante, visto che espressamente l'articolo 3, comma 1,
lettera p), del codice considera come «operatore economico» anche una
persona fisica alla sola condizione che, come qualsiasi avvocato, offra sul
mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la
prestazione di servizi (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Servizi
legali con appalto se la prestazione è seriale. Parere del Consiglio di
stato sulle linee guida dell’Anac.
Servizi legali affidabili dalle amministrazioni con
appalto di servizi quando relativi ad attività non quantificabili nella loro
consistenza, ma riferibili a prestazioni continuative e «seriali». Ricorso
ai contratti d'opera professionali, ma con scelta da elenchi aperti e
pubblici, con criteri di selezione per l'iscrizione; limitato il ricorso
all'affidamento diretto dell'incarico professionale.
Sono queste alcune delle indicazioni fornite dal Consiglio di Stato nel
parere 03.08.2018 n. 2017, positivo con osservazioni, sulle linee
guida per l'affidamento dei servizi legali predisposte dall'Anac.
Le linee guida, non vincolanti, emesse a seguito di una consultazione
afferiscono alla disciplina del codice dei contratti e in particolare agli
articoli artt. 4 e 17 e all'Allegato IX del codice dei contratti pubblici .
Esaminata questa disciplina il Consiglio di Stato distingue fra i servizi
legali cui si riferisce l'Allegato IX, relativi ad attività (anche rese da
avvocati iscritti all'albo ai sensi dell'art. 2, comma 6, l. 247 del 2012)
che sono, però, connotate dallo svolgimento in forma organizzata,
continuativa» peraltro «non esattamente quantificabili nella loro
consistenza al momento dell'assunzione dell'incarico».
Per queste attività si ricorre all'appalto di servizi con procedure
semplificate e criteri di selezione «non eccessivamente restrittivi per
evitare di escludere gli studi associati di più recente formazione (e nei
quali, dunque, siano presenti professionisti più giovani)». In sede di
scelta si dovranno favorire gli «studi che trattano più materie, così da
garantire all'amministrazione il ragionevole affidamento di trovare nei
professionisti incaricati competenze idonee per qualsiasi tipo di
contenzioso dovesse insorgere nel periodo di vigenza dell'affidamento».
Si dovrà utilizzare il criterio di aggiudicazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto
qualità-prezzo, anche in relazione ai contratti di valore inferiore ai
40.000 euro.
Per il Consiglio di stato le amministrazioni che decidono di ricorrere al
contratto di appalto dei servizi legali devono procedere «all'affidamento
dell'intero contenzioso di loro interesse per una durata predeterminata (che
potrebbe essere, ad esempio, triennale) a professionisti che, nelle forme
attualmente consentite dall'ordinamento, siano in grado di assicurare, per
le plurime competenze di cui dispongono, una complessiva attività di
consulenza legale».
Viceversa se si è in presenza di una prestazione di un servizio con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente espletata secondo un incarico non continuativo o periodico, ma
puntuale ed episodico, destinato a soddisfare un singolo bisogno
manifestatosi (la difesa e rappresentanza in una singola causa per esempio)
si «rientra a pieno titolo nella qualificazione di cui all'art. 2222 c.c.».
In questi casi il rispetto dei principi generali impone però la
procedimentalizzazione nella scelta del professionista «evitando scelte
fiduciarie ovvero motivate dalla chiara fama (spesso non dimostrata) del
professionista». Occorre quindi predisporre un elenco ristretto di
professionisti o studi legali perché «sarebbe oneroso e complesso da
gestire per l'amministrazione in contrasto con i principi di efficacia e
economicità dell'azione amministrativa».
L'elenco, pubblicato sul sito istituzionale, deve essere sempre aperto e
suscettibile di integrazione e modificazione, nonché accompagnato da brevi
schede che riassumano la storia professionale dell'aspirante affidatario
(articolo
ItaliaOggi del 07.08.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’articolo 21-nonies della
legge n. 241 del 1990, l’annullamento del
provvedimento amministrativo richiede, oltre
all’illegittimità dell’atto, anche la
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla sua rimozione.
Tale
interesse deve, poi, trovare adeguata
evidenziazione, mediante un’idonea
motivazione, che dia conto della
ponderazione degli interessi in gioco,
inclusi quelli dei destinatari dell’atto e
dei controinteressati, anche alla luce del
tempo trascorso dall’adozione del
provvedimento; l’annullamento deve, inoltre,
intervenire entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a diciotto mesi
Invero, la potestà di
autotutela deve “(...) considerare la
legittimità del provvedimento che ne è
oggetto in base al principio “tempus regit
actum” e –una volta accertata l’effettiva
sussistenza di vizi, rapportabili
all’emanazione dell’atto– è poi chiamata a
valutare discrezionalmente la sussistenza
degli ulteriori presupposti per intervenire,
previo bilanciamento degli interessi sia
pubblici che privati”.
---------------
In ogni ipotesi nella quale
un’amministrazione annulla in autotutela un
proprio atto, essa necessariamente “contraddice”
il proprio precedente operato, rimuovendone
gli esiti. Ciò, tuttavia, non toglie che l’autotutela
sia un istituto espressamente contemplato
dalla legge, il quale trova il proprio
fondamento nel principio di inesauribilità
del potere amministrativo (salvi i limiti
temporali introdotti dal legislatore).
Né potrebbe ritenersi che,
nel caso oggetto del presente giudizio, un
profilo specifico di contraddittorietà
dell’agire amministrativo sia ravvisabile
nella precedente emissione di un parere
preventivo favorevole.
Deve premettersi che i
titoli edilizi sono rilasciati in presenza
delle condizioni stabilite dalla legge,
senza alcun margine di discrezionalità in
capo all’Amministrazione. Conseguentemente,
la circostanza che –eventualmente in modo
errato– il Comune renda un parere favorevole
alla successiva emissione del permesso di
costruire non può in ogni caso vincolare
l’Ente, in contrasto con la legge, a
considerare quel titolo legittimo.
---------------
16. Può, quindi, passarsi all’esame delle
censure prospettate dalla ricorrente con il
terzo, il sesto, il settimo
e l’ottavo motivo, nonché di quelle
articolate nella seconda parte del quarto
motivo.
Tutte queste censure, che possono essere
complessivamente scrutinate, mirano infatti
a contestare sostanzialmente le ragioni di
interesse pubblico addotte dal Comune a
sostegno del provvedimento di annullamento
d’ufficio del permesso di costruire, e
quindi a contestare la sussistenza dei
presupposti –ulteriori rispetto alla mera
illegittimità del provvedimento eliminato–
cui la legge subordina l’esercizio del
potere di autotutela.
16.1 Occorre ricordare anzitutto che, in base all’articolo 21-nonies della
legge n. 241 del 1990, l’annullamento del
provvedimento amministrativo richiede, oltre
all’illegittimità dell’atto, anche la
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla sua rimozione. Tale
interesse deve, poi, trovare adeguata
evidenziazione, mediante un’idonea
motivazione, che dia conto della
ponderazione degli interessi in gioco,
inclusi quelli dei destinatari dell’atto e
dei controinteressati, anche alla luce del
tempo trascorso dall’adozione del
provvedimento; l’annullamento deve, inoltre,
intervenire entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a diciotto mesi
(cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez.
VI, 27.04.2015, n. 2123, ove si evidenzia
che la potestà di
autotutela deve “(...) considerare la
legittimità del provvedimento che ne è
oggetto in base al principio “tempus regit
actum” e –una volta accertata l’effettiva
sussistenza di vizi, rapportabili
all’emanazione dell’atto– è poi chiamata a
valutare discrezionalmente la sussistenza
degli ulteriori presupposti per intervenire,
previo bilanciamento degli interessi sia
pubblici che privati”).
Nel caso oggetto del presente giudizio, deve
ritenersi che –contrariamente a quanto
allegato dalla ricorrente– il provvedimento
di autotutela non sia stato diretto a
ripristinare meramente la legalità violata,
ma abbia svolto una valutazione in concreto,
ponderando l’interesse pubblico alla luce
del contrapposto interesse del privato, e
pervenendo alla determinazione conclusiva
entro un termine ragionevole in rapporto
alle circostanze.
16.2 Dalla motivazione dell’atto emerge,
anzitutto, che le ragioni di interesse
pubblico ritenute prevalenti dal Comune
attengono all’impatto dell’opera sul
contesto urbano. A questo proposito,
l’Amministrazione ha acquisito un rapporto
della Polizia locale, diffusamente
richiamato nella determinazione di
autotutela, ove sono state illustrate le
ritenute criticità derivanti dalla
realizzazione del nuovo luogo di culto.
Più in dettaglio, l’Amministrazione ha
evidenziato le ricadute dell’opera sulla
situazione viabilistica dell’area e sul
fabbisogno di parcheggi, nei termini già
sopra riportati.
La ricorrente ha diffusamente contestato le
ragioni addotte dall’Amministrazione. Tali
contestazioni, tuttavia, non colgono nel
segno.
Non sono rilevanti, anzitutto, le deduzioni
che l’Associazione svolge assumendo che la
dotazione di parcheggi sia adeguata rispetto
alla destinazione “servizi alla persona”.
Come detto, infatti, il complesso è stato
adibito ad “attrezzature religiose”,
ossia a una destinazione distinta e non
sovrapponibile a quella di “servizi alla
persona”, in virtù di una precisa scelta
del legislatore regionale.
Neppure colgono nel segno le ulteriori
affermazioni della parte, la quale sostiene,
producendo anche alcune immagini
fotografiche, che nel contesto urbano vi
sarebbe addirittura un esubero di parcheggi,
e che quanto esposto nel provvedimento non
troverebbe riscontro nello stato effettivo
dei luoghi. Si tratta, infatti, di mere
allegazioni, prive di riscontri probatori
adeguati, come tali inidonee a scalfire
l’attendibilità della valutazione tecnica
svolta dalla Polizia locale in ordine alla
situazione viabilistica dell’area.
16.3 Nel provvedimento impugnato il Comune
ha, inoltre, affermato che la mancata previa
approvazione del Piano delle attrezzature
religiose comporta che il permesso di
costruire sia stato rilasciato “in
assenza di un iter procedurale atto a
garantire la trasparenza degli atti assunti
attraverso i meccanismi di partecipazione e
consultazione della cittadinanza”.
In proposito, la ricorrente allega che tale
affermazione sarebbe un fuor d’opera, tenuto
conto del fatto che la Corte costituzionale,
con la sentenza n. 63 del 2016, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 72 della legge regionale n. 12
del 2005, nella parte in cui al primo
periodo del comma 4– prevedeva che nel corso
del procedimento di formazione del Piano
delle attrezzature religiose venissero
acquisiti “i pareri di organizzazioni,
comitati di cittadini, esponenti e
rappresentanti delle forze dell’ordine oltre
agli uffici provinciali di questura e
prefettura al fine di valutare possibili
profili di sicurezza pubblica, fatta salva
l’autonomia degli organi statali”.
Occorre osservare, tuttavia, che
l’eliminazione di tale periodo non toglie
che il Piano delle attrezzature religiose
sia un “atto separato facente parte del
piano dei servizi” (ai sensi
dell’articolo 72, comma 1, della legge
regionale n. 12 del 2005) e che tale atto
sia, conseguentemente, “sottoposto alla
medesima procedura di approvazione dei piani
componenti il PGT” (articolo 72, comma
3). Deve, perciò, concordarsi con la difesa
comunale, la quale ha evidenziato che, con
la frase sopra riportata, l’Amministrazione
ha inteso fare riferimento unicamente al
mancato svolgimento dell’iter di formazione
degli atti facenti parte del Piano di
Governo del Territorio.
In questa prospettiva, il Comune ha ritenuto
di riscontrare un’ulteriore ragione a
sostegno dell’annullamento del titolo
edilizio nella circostanza che, mancando il
Piano, non sarebbero state assicurate la
trasparenza delle scelte operate
dall’Amministrazione e la partecipazione
della collettività, garantite dal
procedimento di formazione dello strumento
urbanistico.
16.4 L’Associazione sottolinea, poi, che il
Comune, annullando in autotutela il permesso
di costruire, avrebbe contraddetto il
proprio precedente operato, tenuto conto
della circostanza che il titolo edilizio era
stato chiesto e ottenuto solo dopo che la
stessa Amministrazione aveva emesso un
parere preventivo favorevole.
Inoltre, nell’esercizio dell’autotutela non
si sarebbe tenuto conto adeguatamente
dell’affidamento ingenerato nella ricorrente
dal comportamento del Comune.
16.4.1 Deve tuttavia osservarsi che, in ogni ipotesi nella quale
un’amministrazione annulla in autotutela un
proprio atto, essa necessariamente “contraddice”
il proprio precedente operato, rimuovendone
gli esiti. Ciò, tuttavia, non toglie che l’autotutela
sia un istituto espressamente contemplato
dalla legge, il quale trova il proprio
fondamento nel principio di inesauribilità
del potere amministrativo (salvi i limiti
temporali introdotti dal legislatore).
Né potrebbe ritenersi che,
nel caso oggetto del presente giudizio, un
profilo specifico di contraddittorietà
dell’agire amministrativo sia ravvisabile
nella precedente emissione di un parere
preventivo favorevole.
Deve premettersi che i
titoli edilizi sono rilasciati in presenza
delle condizioni stabilite dalla legge,
senza alcun margine di discrezionalità in
capo all’Amministrazione. Conseguentemente,
la circostanza che –eventualmente in modo
errato– il Comune renda un parere favorevole
alla successiva emissione del permesso di
costruire non può in ogni caso vincolare
l’Ente, in contrasto con la legge, a
considerare quel titolo legittimo.
Occorre poi tenere presente che il parere
preventivo aveva una valenza necessariamente
limitata al permanere della situazione di
fatto e di diritto presa in esame
dall’Amministrazione. E, sotto questo
profilo, rileva la circostanza che tale
parere risale al 22.03.2013, e quindi è
stato emesso sulla base del contesto
normativo precedente l’entrata in vigore
della legge regionale n. 2 del 2015.
Inoltre, il permesso di costruire risulta
essere stato richiesto molto tempo dopo
rispetto al parere, atteso che la relativa
istanza risale soltanto all’agosto del 2015.
Per tutte queste ragioni, non può
ipotizzarsi un profilo di contraddittorietà
nell’operato del Comune, tale da far
emergere l’illegittimità della
determinazione di autotutela.
16.4.2 D’altro canto, il provvedimento
impugnato risulta aver preso specificamente
in considerazione la posizione
dell’Associazione. Il Comune ha, tuttavia,
ritenuto motivatamente –per le ragioni sopra
riportate– che l’interesse della parte
privata fosse recessivo rispetto
all’interesse pubblico in concreto
all’eliminazione del titolo illegittimo.
L’Amministrazione ha valorizzato, tra
l’altro, il fatto che, poco dopo l’avvio, i
lavori siano stati spontaneamente sospesi
dalla stessa Associazione.
Anche sotto questo profilo, il provvedimento
risulta sorretto da una motivazione
sufficiente, e come tale insindacabile nel
merito dal giudice amministrativo.
16.5 Infine, il provvedimento di autotutela
è da ritenere tempestivamente assunto, in
rapporto alle circostanze di fatto.
Come detto, il titolo edilizio è stato
rilasciato il 15.01.2016, mentre la
determinazione di annullamento è stata
adottata il 13.03.2017. Conseguentemente,
emerge anzitutto il rispetto del termine
massimo di diciotto mesi prescritto
dall’articolo 21-nonies della legge n. 241
del 1990.
L’annullamento risulta inoltre intervenuto
in un tempo non irragionevole, in rapporto
alle circostanze, tenuto conto del fatto
che:
- i lavori erano stati avviati soltanto nel luglio del 2016 e poi
sospesi spontaneamente già nel mese di
ottobre;
- dallo stesso mese di ottobre il Comune aveva rappresentato
all’Associazione i profili di illegittimità
del permesso di costruire, avviando un
confronto con la parte in ordine alle sorti
del titolo edilizio.
Non può, invece, accedersi alla tesi della
ricorrente, secondo la quale la
ragionevolezza del termine per l’esercizio
dell’autotutela andrebbe valutata tenendo
conto del decorso di oltre diciotto mesi dal
rilascio del parere preventivo del Comune.
La legge collega, infatti, il predetto
termine massimo solo all’adozione del
provvedimento, e non alle pregresse vicende
amministrative. Tali vicende non possono
perciò rilevare neppure ai fini della
valutazione della ragionevolezza del tempo
intercorso prima di assumere la
determinazione di annullamento. Peraltro,
come già ricordato, il parere preventivo
risale al 22.03.2013, e quindi è stato
emesso molto tempo prima rispetto
all’istanza stessa di rilascio del permesso
di costruire, oltre che sulla base del
contesto normativo allora vigente.
Ne consegue il rigetto anche di questa
censura.
16.6 In definitiva, tutti i motivi fin qui
congiuntamente scrutinati vanno respinti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.08.2018 n. 1939 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Commissari,
vince Asmel. TAR LAZIO SOSPENDE IL DECRETO MIT.
Tutto da rifare sulle tariffe minime dei commissari di gara.
Con
ordinanza 02.08.2018 n. 4710,
il TAR Lazio-Roma, Sez. I, ha dato ragione all'Asmel, l'Associazione per la
modernizzazione e la sussidiarietà degli enti locali che aveva impugnato
dinanzi ai giudici amministrativi (si veda ItaliaOggi del 25/05/2018) il dm,
attuativo del Codice appalti, che ha fissato il compenso minimo per le
commissioni di gara in 9.150 euro, oltre alle spese di trasferta, con costi
che per le procedure di acquisto oltre i 40 mila euro avrebbero comportato
oneri aggiuntivi di 11 mila euro.
Un costo che, secondo l'Asmel, avrebbe reso di fatto impossibile bandire
gare nella fascia tra 40 e 500 mila euro, ossia la stragrande maggioranza
(75%) del totale delle gare pubblicate dai comuni. Il Tar ha accolto la
richiesta di sospensiva, riconoscendo il «fumus boni iuris» del
ricorso Asmel che ha puntato il dito contro il decreto ministeriale
ritenendolo viziato da eccesso di delega in quanto il Codice appalti
richiedeva al legislatore la fissazione di un compenso massimo e non un
intervento sulle tariffe minime.
Una tesi accolta dal Tar secondo cui «il decreto impugnato ha fissato
anche il compenso minimo per fasce di valore degli appalti in totale
mancanza di copertura legislativa per il conferimento di poteri normativi in
materia di compensi minimi». Il Tar ha riconosciuto la fondatezza delle
difficoltà rappresentate dai piccoli comuni «che non hanno nella pianta
organica figure professionali in numero sufficiente a ricoprire i ruoli di
commissari». Di qui i presupposti per la concessione della misura
cautelare e la conseguente sospensione del dm impugnato limitatamente alla
fissazione di tariffe minime.
Una sospensione che crea uno stato di incertezza destinato a protrarsi come
minimo fino al 22.05.2019, giorno dell'udienza di merito. Tutto questo dopo
che Anac ha fissato nel prossimo 10 settembre la data di avvio per
l'iscrizione all'Albo e nel 15.01.2019 la data di operatività dello stesso.
Sta ad Anac ora decidere se prorogare questi termini, oppure, come auspica
Asmel in una nota, «ritenere non necessario il compenso minimo, aderendo
alla legge e all'ordinanza del Tar».
Secondo Asmel i commissari di gara dovrebbero essere di norma dipendenti
pubblici, salvo eccezioni da documentare adeguatamente in caso di accertata
carenza di organico (articolo
ItaliaOggi del 07.08.2018). |
APPALTI: Giudici
di gara, il Tar Lazio frena il nuovo albo Anac.
Mare agitato per le commissioni di gara per appalti
pubblici di opere, servizi e forniture:
il TAR Lazio-Roma ha sospeso (Sez. I,
ordinanza 02.08.2018 n. 4710) il decreto del ministero delle
Infrastrutture del 12.02.2018, con il quale sono stati stabiliti i compensi
minimi per i commissari di gara.
Il provvedimento sopravviene in un momento delicato perché è imminente (dal
10.09.2018, secondo il comunicato Anac del 18 luglio) l’apertura dei termini
per l’iscrizione degli esperti nell’albo gestito dall’Autorità. Era quindi
tutto pronto per estrarre i nominativi dei commissari di gara dall’albo, a
partire da bandi o avvisi con offerte che scadranno dal 15.01.2019 in poi.
La sospensione del Tar è anomala, perché riguarda solo i minimi tariffari,
senza intaccare il meccanismo di iscrizione degli esperti o la loro
procedura di estrazione a sorte. Il Tar interviene su ricorso di una
centrale di committenza che, nell’organizzare le procedure di gara dei
propri aderenti (enti locali appaltatori), si è posta il problema dell’incapienza
delle risorse necessarie per retribuire i commissari di gara.
Ogni opera, servizio o fornitura ha infatti un «quadro economico» in
cui, tra le varie voci, vi è quella delle «somme a disposizione», che
è utilizzata per pagare i commissari di gara (articolo 77, comma 10, Dlgs
50/2016). Finché i commissari sono interni all’amministrazione, non vi è un
problema di retribuzione, essendo gratuita la loro attività a favore
dell’ente di appartenenza: ma se occorre attingere dall’albo Anac, diventa
necessario applicare le tariffe del ministero, che prevede minimi
inderogabili.
Ad esempio, come osserva il Tar, per le gare di minore calibro (per opere
fino a 20 milioni di euro, servizi fino a un milione di euro ed ingegneria
fino a 200mila euro) sono previste retribuzioni di 3mila euro per ogni
commissario. Per soddisfare questi minimi, occorrerebbe modificare il quadro
economico degli interventi (singoli appalti, servizi o forniture), oppure
(come sembra ipotizzare il Tar) ridiscutere la logica dell’equo compenso e
dei minimi inderogabili.
È quindi vero ciò che afferma il Tar nella motivazione dell’ordinanza, che
cioè il Dlgs 50/2016 (Codice appalti) non prevede minimi tariffari per i
commissari di gara, e che quindi il ministero non poteva inserirli
autonomamente; ma è anche vero che il problema dei minimi è vitale per le
libere professioni, come prova la vivacità del dibattito sulle prestazioni
professionali gratuite (Consiglio di Stato 4614/2017 sul piano urbanistico
di Catanzaro).
A seguito dell’ordinanza Tar, allora, i commissari potranno essere
remunerati dalle stazioni appaltanti senza l’obbligo di rispettare i minimi
di 3mila euro, lasciando tuttavia trasparire dubbi di correttezza ed
imparzialità per lavori sotto remunerati. Ed è possibile che questa
sospensione costringa, addirittura, a rivedere parti importanti del nuovo
meccanismo. Una via di uscita, ipotizzata tempo fa, potrebbe essere la
previsione di un contributo a carico dei partecipanti alla gara, ma la
giurisprudenza dello stesso Tar si è espressa in termini sfavorevoli su tale
tassa di partecipazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.08.2018). |
APPALTI: Niente
collegamenti tra imprese concorrenti. Tar Lombardia.
In una gara di appalto pubblico è ravvisabile un «centro decisionale
unitario» laddove tra imprese concorrenti vi sia intreccio parentale tra
organi rappresentativi o tra soci o direttori tecnici, contiguità di sede,
utenze in comune (indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, identiche
modalità formali di redazione delle offerte, strette relazioni temporali e
locali nelle modalità di spedizione dei plichi, nonché significative
vicinanze cronologiche tra gli attestati Soa o tra le polizze assicurative a
garanzia delle offerte.
È quanto afferma il TAT Lombardia-Milano, Sez. I, con la
sentenza 01.08.2018 n. 1918.
Per i giudici è quindi legittima l'esclusione dei concorrenti quando vi sia
ricorrenza di questi indici «in numero sufficiente e legati da nesso
oggettivo di gravità, precisione e concordanza tale da giustificare la
correttezza dello strumento presuntivo». Il semplice collegamento fra
due concorrenti può quindi dar luogo all'esclusione da una gara d'appalto
solo dopo puntuali verifiche compiute con riferimento al caso concreto.
In particolare l'accertamento deve essere mirato ad accertare se la
situazione rappresenti anche solo un pericolo che le condizioni di gara
vengano alterate. Se quindi si verifica la sussistenza di un unico centro
decisionale, questo elemento «costituisce motivo in sé sufficiente a
giustificare l'esclusione delle imprese dalla procedura selettiva, non
essendo necessario verificare che la comunanza a livello strutturale delle
imprese partecipanti alla gara abbia concretamente influito sul rispettivo
comportamento nell'ambito della gara, determinando la presentazione di
offerte riconducibili ad un unico centro decisionale».
Per il Tar ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e
svincolato da valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato
dall'esistenza di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la
necessaria precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi,
precisi e concordanti. Il collegio giudicante concorda nel ritenere che è
questa «l'unica via percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai
principi di segretezza delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche
nonché della parità di trattamento delle imprese concorrenti» (articolo
ItaliaOggi del 10.08.2018).
----------------
MASSIMA
Invero, come chiarito dalla giurisprudenza,
l’accertamento della sussistenza di un unico centro decisionale costituisce
motivo in sé sufficiente a giustificare l’esclusione delle imprese dalla
procedura selettiva, non essendo necessario verificare che la comunanza a
livello strutturale delle imprese partecipanti alla gara abbia concretamente
influito sul rispettivo comportamento nell’ambito della gara, determinando
la presentazione di offerte riconducibili ad un unico centro decisionale.
Ciò che rileva è, infatti, il dato oggettivo, autonomo e svincolato da
valutazioni a posteriori di tipo qualitativo, rappresentato dall’esistenza
di un collegamento sostanziale tra le imprese, con la necessaria
precisazione che lo stesso debba essere dedotto da indizi gravi, precisi e
concordanti (C.d.S., Sez. V, n.
1265/2010).
A giudizio del Collegio, si tratta dell’unica via
percorribile al fine di garantire la giusta tutela ai principi di segretezza
delle offerte e di trasparenza delle gare pubbliche nonché della parità di
trattamento delle imprese concorrenti, principi che verrebbero
irrimediabilmente violati qualora si aderisse alla tesi di controparte,
demandando, quindi, l’esclusione dalla gara di imprese in collegamento
sostanziale ad una posteriore valutazione sul contenuto delle offerte
(TAR Lombardia, I sezione, n. 2248/2016).
È ravvisabile un centro decisionale unitario laddove tra
imprese concorrenti vi sia intreccio parentale tra organi rappresentativi o
tra soci o direttori tecnici, vi sia contiguità di sede, vi siano utenze in
comune (indici soggettivi), oppure, anche in aggiunta, vi siano identiche
modalità formali di redazione delle offerte, vi siano strette relazioni
temporali e locali nelle modalità di spedizione dei plichi, vi siano
significative vicinanze cronologiche tra gli attestati SOA o tra le polizze
assicurative a garanzia delle offerte.
La ricorrenza di questi indici, in numero sufficiente e legati da nesso
oggettivo di gravità, precisione e concordanza tale da giustificare la
correttezza dello strumento presuntivo, è sufficiente a giustificare
l’esclusione dalla gara dei concorrenti che si trovino in questa situazione.
Il semplice collegamento può quindi dar luogo all’esclusione da una gara
d’appalto solo all’esito di puntuali verifiche compiute con riferimento al
caso concreto da parte dell’Amministrazione che deve accertare se la
situazione rappresenta anche solo un pericolo che le condizioni di gara
vengano alterate (TAR Sardegna, n.
163/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che
la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto
con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è
classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla
costruzione di insediamenti per servizi logistici e di
supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di
locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è
stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la
possibilità di insediamento può essere tratta dalla
specificazione degli insediamenti installabili in zona D7
riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di
trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed
informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci,
mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto,
aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”),
in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con
la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
---------------
Circa l'impugnato diniego
sull’istanza di rilascio
del permesso di costruire per mutamento di destinazione,
con preceduto dalla comunicazione degli elementi ostativi ex
art. 10-bis l. 241/1990 può,
farsi applicazione di
quanto disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della
medesima legge poiché trattasi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso,
risulta che il provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
---------------
Parte ricorrente ha impugnato il provvedimento n. 13031 del
18/06/2013 del Comune di Marcianise, di diniego sull’istanza
di rilascio del permesso di costruire per mutamento di
destinazione, senza opere edili strutturali, dell'unità
immobiliare sita in località S. Ippolito, in catasto al f.
17, p.lla 5326, nonché ogni altro atto presupposto, connesso
o conseguente.
In particolare, la medesima parte ricorrente è proprietaria
di un immobile insistente in una zona omogenea classificata
D7 dallo strumento urbanistico, riservata a insediamenti per
servizi logistici e di supporto alle attività industriali.
Ha presentato un’istanza al Comune per il rilascio del
permesso di costruire finalizzato al cambio di destinazione
d’uso, dall’attuale destinazione commerciale dell’immobile,
a “locale per pubblico spettacolo”.
...
1) Il ricorso si palesa infondato.
Il cambio destinazione d'uso richiesto da parte ricorrente
non era assentibile, in quanto la destinazione desiderata è
contraria alle prescrizioni dello strumento urbanistico
comunale e, in particolare, alla destinazione di zona.
Ai fini del mutamento di destinazione d’uso è necessario che
la destinazione assunta dall’immobile non sia in contrasto
con la destinazione di zona prevista dal PRG.
La zona in cui insiste l'immobile in questione è
classificata zona omogenea D7 dal PRG, riservata alla
costruzione di insediamenti per servizi logistici e di
supporto alle attività industriali.
In tale area non è, quindi, possibile l'insediamento di
locali per pubblico spettacolo, come quello per il quale è
stato chiesto il cambio di destinazione d’uso. Né la
possibilità di insediamento può essere tratta dalla
specificazione degli insediamenti installabili in zona D7
riportata nello stesso provvedimento gravato (“aziende di
trasporto pubbliche e private, servizi telematici ed
informatici, centralizzati, magazzini di stoccaggio merci,
mense, locande e pensioni per non più di 20 posti letto,
aziende di pulizie, manutenzione, realizzazione impianti”),
in quanto si tratta di attività diverse e incompatibili con
la destinazione di locale per pubblico spettacolo.
Né in senso contrario può far concludere la circostanza che
l'immobile di proprietà di parte ricorrente, del quale si è
chiesto il cambio di destinazione, abbia attualmente
destinazione commerciale.
Il fatto che un locale abbia, per qualsiasi motivazione, una
destinazione difforme a quella di zona non autorizza il
proprietario ad adibirlo ad altre destinazioni che, seppure
sono affini a quella posseduta, non sono consentite dallo
strumento urbanistico vigente.
Allo stesso modo non ha rilievo la deduzione che il PRG
avrebbe perso rilevanza nella zona in questione perché vi
sarebbero di fatto ubicate attività (commerciali) diverse da
quelle consentite dalla destinazione di zona omogenea D7.
In primo luogo, infatti, tale circostanza appare
indimostrata e, in secondo luogo, l’eventuale violazione di
fatto delle prescrizioni del PRG inerenti alla destinazione
di zona, non ha alcun effetto ai fini di legittimare
l’installazione di ulteriori attività non consentite, con la
conseguenza di compromettere ulteriormente la pianificazione
urbanistica.
Quanto alla doglianza inerente alla non necessarietà del
permesso di costruire, l’istanza di permesso di costruire è
stata presentata dalla stessa parte ricorrente, e, in ogni
caso, vale anche qui la considerazione che in ogni caso la
destinazione desiderata è incompatibile con quella di zona.
2) Da rigettare è anche la censura relativa alla violazione
dell’art. 10-bis legge n. 241/1990, per omissione del preavviso
di rigetto.
Ritiene al riguardo il Collegio che, per i motivi indicati
nel punto che precede, possa farsi applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, trattandosi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e, in ogni caso,
risultando che il provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato, considerata
l’applicabilità di quest’ultima norma anche alle violazioni
dell’art. dall’art. 10-bis legge n. 241/1990 (TAR Sicilia
Palermo, sez. I, 23.03.2011, n. 541; Consiglio Stato,
sez. VI, 18.03.2011, n. 1673; TAR Puglia Lecce, sez. II, 12.09.2006, n. 4412; TAR Piemonte, sez. I, 14.06.2006 , n. 2487; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 06.11.2006 , n. 2875).
In tal senso si rivela, infatti, corretta l’indicazione
contenuta nello stesso provvedimento gravato secondo cui la
previa comunicazione di avvio del procedimento era stata
omessa in considerazione dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.07.2018 n. 5126 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguardo si legga anche il commento:
●
M. Tomaello e C. Perin,
Mutamento di destinazione
d’uso di un immobile in contrasto con le previsioni di zona
(09.08.2018 - link a regione.veneto.it/web/ambiente-e-territorio/news-urbjus). |
APPALTI:
L'omessa indicazione separata del costo della manodopera
comporta l'esclusione dalla gara.
L'indicazione separata del costo della
manodopera, ex art. 95, c. 10, del d.lgs. n. 50/2016 (codice
dei contratti pubblici), è necessaria non solo ai fini della
successiva verifica dell'anomalia ma, prima ancora, in sede
di predisposizione dell'offerta economica, al fine di
formulare un'offerta consapevole e completa.
Ne consegue che l'indicazione si configura come prescrizione
di legge da rispettare a pena di esclusione (art. 83, c. 8,
penultimo periodo, del d.lgs. n. 50/2016).
Altresì, è inammissibile il soccorso istruttorio, che il
codice dei contratti vigente non ammette in tutte le ipotesi
di incompletezze e irregolarità relative all'offerta
economica, in quanto l'indicazione dei costi della
manodopera costituisce un elemento dell'offerta economica
come precisato espressamente dall'art. 95, c. 10, cit. (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 27.07.2018 n. 689 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Niente
sopralluogo per i concessionari. SERVIZI PUBBLICI LOCALI.
Illegittimo prevedere l'obbligo di sopralluogo anche per il gestore uscente
di una concessione di servizi pubblici locali.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 26.07.2018 n. 4597.
La stazione appaltante aveva deciso di anticipare l'adempimento dell'obbligo
del sopralluogo dalla fase della gara a quella precedente della selezione
dei concorrenti da invitare espletata attraverso l'avviso di indagine di
mercato. Si poneva quindi la questione se fosse o meno legittimo che
l'adempimento è richiesto anche al gestore uscente del servizio.
La norma vigente (art. 79, comma 2, del codice appalti) prevede che «quando
le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei
luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara e relativi
allegati, i termini per la ricezione delle offerte, comunque superiori ai
termini minimi stabiliti negli articoli 60, 61, 62, 64 e 65, sono stabiliti
in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza
di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte».
Quindi in astratto la previsione indeterminata di sopralluogo non avrebbe
ragione di essere dichiarata illegittima. Rilevano però i giudici che il
sopralluogo ha carattere di adempimento strumentale a una completa ed
esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi e poi alla miglior valutazione
degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore
precisione, la migliore offerta.
Da ciò la sentenza fa discendere che «un simile obbligo è da considerarsi
superfluo e sproporzionato allorché sia imposto a un concorrente che sia
gestore uscente del servizio, il quale per la sua stessa peculiare
condizione si trova già nelle condizioni soggettive ideali per conoscere in
modo pieno le caratteristiche dei luoghi in cui svolgere la prestazione
oggetto della procedura di gara».
La clausola del bando di gara (che imponeva anche la gestore uscente il
sopralluogo) viene quindi considerata effettivamente illegittima sia in
quanto non rispettosa dei principi di proporzionalità, adeguatezza,
ragionevolezza, economicità e del divieto di aggravio del procedimento (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
APPALTI:
Non è necessaria la previa comunicazione di avvio del
procedimento per la revoca, come pure per il ritiro o
l'annullamento dell'aggiudicazione provvisoria.
La revoca, come pure il ritiro o
l'annullamento dell'aggiudicazione provvisoria, non richiede
la previa comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto endoprocedimentale che si inserisce
nell'ambito del procedimento di scelta del contraente come
momento necessario, ma non decisivo; solamente
l'aggiudicazione definitiva attribuisce, in modo stabile, il
bene della vita ed è pertanto idonea ad ingenerare un
legittimo affidamento in capo all'aggiudicatario, sì da
imporre l'instaurazione del contraddittorio procedimentale (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 26.07.2018 n. 1220 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza ha chiarito che la possibilità
di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla
sussistenza di un pericolo concreto che imponga di
provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem,
per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a
situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari
apprestati dall'ordinamento.
Il presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte
ordinanze sindacali è, quindi, la necessità di intervenire
urgentemente con misure eccezionali di carattere
“provvisorio” e a condizione della “temporaneità dei loro
effetti”.
---------------
8. Ciò premesso, sono fondati e assorbenti il secondo e il terzo motivo di
ricorso, nei sensi e nei limiti qui di seguito precisati.
8.1. Il provvedimento impugnato è stato adottato dal Sindaco
di Trana in espressa applicazione dell’art. 50, comma 5, del D.Lgs. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali) il quale
attribuisce al Sindaco, quale rappresentante della comunità
locale, il potere di adottare ordinanze contingibili e
urgenti “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica
a carattere esclusivamente locale".
8.2. Sulla scorta di tale disposizione, la giurisprudenza ha
chiarito che la possibilità di ricorrere allo strumento
dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla
sussistenza di un pericolo concreto che imponga di
provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem,
per fronteggiare emergenze sanitarie o porre rimedio a
situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale e imminente per l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana, non fronteggiabili con i mezzi ordinari
apprestati dall'ordinamento.
Il presupposto indefettibile per l'adozione di siffatte
ordinanze sindacali è, quindi, la necessità di intervenire
urgentemente con misure eccezionali di carattere
“provvisorio” e a condizione della “temporaneità dei loro
effetti”.
8.3. Nel caso di specie, ritiene il collegio che il
provvedimento impugnato sia stato adottato in assenza dei
presupposti di contingibilità ed urgenza, atteso che:
- quanto alla sussistenza di un pericolo concreto, attuale e
imminente, connesso ad una emergenza sanitaria: nel
provvedimento impugnato tale pericolo è menzionato in
termini del tutto generici ed ipotetici, come conseguenza
del tutto eventuale della circostanza, accertata sull’intero
territorio comunale a seguito di non meglio precisati
“accertamenti e sopralluoghi”, che gli scarichi civili di
diversi fabbricati abitativi non risulterebbero allacciati
alla fognatura pubblica, pur essendo a distanza inferiore a
100 metri da quest’ultima (tenuto conto che ai sensi della
L.R. 13/1990 tutti gli scarichi civili devono essere
collegati alla pubblica fognatura se canalizzabili in meno
di 100 metri dall’apposito punto di allacciamento), con
conseguente pericolo di inquinamento dei corpi idrici
superficiali; si tratta, tuttavia, osserva il collegio, di
un pericolo meramente ipotizzato, privo dei necessari
caratteri di attualità e di concretezza, e per di più
contestato nei suoi presupposti tecnici dalla parte
ricorrente con l’ausilio di una perizia redatta da un
proprio consulente tecnico, nella quale si afferma che il
fabbricato in questione non ha scarichi diretti in corsi
d’acqua superficiali, essendo dotato di un pozzo a tenuta
stagna e a svuotamento periodico; circostanza, quest’ultima,
non oggetto di specifica contestazione da parte
dell’amministrazione resistente, e che pertanto può
ritenersi acquisita in giudizio ai sensi e per gli effetti
di cui all’art. 64, comma 2 c.p.a.
- quanto alla sussistenza di una situazione di natura
eccezionale e imprevedibile: anche sotto questo profilo, può
ritenersi pacifico tra le parti –in mancanza di specifica
contestazione da parte dell’amministrazione resistente–
quanto riferito dalla parte ricorrente in ordine al fatto
che l’edificio di sua proprietà è dotato dello scarico
autonomo in fossa sin dalla data della sua costruzione,
risalente agli anni ’80, e che a far data quanto meno dal
1993, data dell’acquisto dell’immobile da parte della
ricorrente, non si sono mai verificati problemi di
dispersione dei liquami e di inquinamento della falda
superficiale; sicché, alla data del provvedimento impugnato,
non si era verificato alcun evento eccezionale e
imprevedibile che potesse giustificare l’utilizzo dello
strumento contingibile e urgente;
- quanto al carattere provvisorio della misura adottata:
anche sotto tale profilo colgono nel segno le censure di
parte ricorrente, dal momento che la misura imposta dal
Sindaco con l’atto impugnato, e cioè l’allacciamento
dell’impianto fognario dell’abitazione al collettore
fognario comunale, ha carattere tendenzialmente definitivo,
e non meramente contingente;
- così come colgono nel segno le censure di parte ricorrente
in ordine all’inesistenza di una situazione non
fronteggiabile con misure ordinarie, tenuto conto che la
valutazione circa la necessità di allacciamento degli
scarichi privati alla fognatura pubblica rientra tra gli
ordinari poteri di amministrazione attiva affidati alle
strutture comunali e di competenza dell’organo dirigenziale
- infine, nel caso di specie, sembra essere mancata anche
una approfondita istruttoria riferita specificamente al
fabbricato di proprietà della ricorrente; l’atto impugnato
si limita a richiamare genericamente l’esito di
“accertamenti e sopralluoghi (eseguiti) sul territorio
comunale”, ma non sembra che l’amministrazione abbia
condotto alcuna specifica attività di accertamento in
relazione al fabbricato di proprietà della ricorrente, il
che invece costituisce presupposto essenziale per l’adozione
dello strumento contingibile e urgente, tanto più alla luce
delle peculiarità dello specifico contesto abitativo
evidenziate dalla ricorrente nella perizia tecnica prodotta
in giudizio.
8.4. Alla luce di tali considerazioni, ritiene il collegio
che il ricorso sia fondato e debba essere accolto, con il
conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
8.5. Tale annullamento, peraltro, non vincola la futura
attività dell’amministrazione comunale e, in particolare,
non pregiudica la facoltà dell’amministrazione di
riesaminare la questione oggetto del presente giudizio né
quella di imporre eventualmente alla ricorrente, all’esito
di tale riesame, un nuovo obbligo di allacciamento dello
scarico privato alla fognatura pubblica; tuttavia, alla
stregua di quanto sopra esposto, ciò potrà avvenire solo con
un provvedimento del funzionario o del dirigente
dell’ufficio competente, a seguito di approfondita
istruttoria riferita specificamente al fabbricato di
proprietà della ricorrente, e previo avvio del relativo
procedimento, consentendo in tal modo all’interessata di
prospettare in sede procedimentale le ragioni tecniche e
giuridiche a suo dire ostative alla realizzazione
dell’allaccio, che andranno puntualmente esaminate
dall’amministrazione procedente in contraddittorio con
l’interessata (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 26.07.2018 n. 903 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Tfr
pignorabile anche nella Pa.
Il trattamento di fine rapporto può essere pignorato tanto ad un dipendente
privato che ad uno pubblico, stante «la totale equiparazione del regime di
pignorabilità e sequestrabilità del Tfr».
A stabilirlo la Corte di Cassazione, VI Sez. civile, con l'ordinanza
25.07.2018 n. 19708.
La Cassazione ha ribaltato il giudizio espresso dalla Corte di appello di
Bari, che aveva dichiarato l'inefficacia del pignoramento, affermando «la
non assoggettabilità a pignoramento di somme non ancora esigibili».
Secondo
i giudici del Palazzaccio: «Il Tfr costituisce, a tutti gli effetti, un
credito che il lavoratore matura già in costanza di rapporto di lavoro...
Poiché i presupposti per l'assoggettabilità di un credito a pignoramento
sono solamente la certezza del credito e la sua liquidità, ma non la sua
esigibilità, nulla osta alla pignorabilità» della somma. Sulla base di
queste affermazioni, l'ordinanza afferma che «in relazione ai lavoratori
dipendenti del settore privato, la questione non si pone in termini diversi
per i dipendenti pubblici».
Infatti «l'originario regime di impignorabilità
del trattemento di fine servizio è stato dichiarato costituzionalmente
legittimo» da precedenti sentenze della stessa Corte.
Quindi «le quote
accantonate del Tfr, tanto che siano trattenute presso l'azienda quanto che
siano versate al fondo di tesoreria dell'Inps o conferite in un fondo di
previdenza complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità
satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del
lavoratore, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina solo
l'esigibilità, con la conseguenza che le stesse sono pignorabili».
«Tale
principio», continua l'ordinanza, «valevole per i lavoratori subordinati del
settore privato, si estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale
equiparazione del regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento
di fine rapporto o di fine servizio».
Spiegato ciò, la Cassazione ha cassato la sentenza con rinvio alla Corte di
appello di Bari (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
Questa Corte ha già chiarito che le quote accantonate
del trattamento di fine rapporto sono intrinsecamente dotate di potenzialità
satisfattiva futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido, di cui la
cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la
conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella
dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell'art. 547 cod. proc. civ.
(Sez. L, Sentenza n. 1049 del 03/02/1998, Rv. 512156).
Tale principio va tenuto fermo pur dopo la modifica della disciplina del
trattamento di fine rapporto, che prevede, per le aziende con almeno 50
dipendenti, il versamento degli accantonamenti per il trattamento di fine
rapporto sul Fondo Tesoreria dello Stato costituito presso l'I.N.P.S.
Infatti, pur nel nuovo e più composito panorama normativo (che prevede
altresì la possibilità per il lavoratore di optare per un sistema di
previdenza complementare), resta fermo il fatto che il trattamento di fine
rapporto costituisce, a tutti gli effetti, un credito che il lavoratore
matura già in costanza di rapporto di lavoro, sebbene la sua esigibilità sia
subordinata al momento della cessazione del rapporto stesso.
Poiché, come attestato anche dall'art. 553, commi primo e secondo, cod. proc.
civ., i presupposti per l'assoggettabilità di un credito a pignoramento sono
solamente la certezza del credito e la sua liquidità (o liquidabilità in
base a parametri oggettivi), ma non la sua esigibilità, nulla osta alla
pignorabilità del trattamento di fine rapporto, fermo restando che
l'ordinanza di assegnazione non potrà essere eseguita prima che maturino le
condizioni per il pagamento.
Infatti, poiché il terzo pignorato viene giudizialmente ceduto al creditore
procedente, egli potrà opporre a quest'ultimo tutte le eccezioni che poteva
opporre al proprio creditore originario (ossia al debitore esecutato), ivi
inclusa la non esigibilità delle somme.
Il problema della pignorabilità del t.f.r., dunque, si colloca semmai sul
piano soggettivo, poiché il soggetto che erogherà il trattamento potrebbe
essere diverso dal datore di lavoro.
Tanto chiarito, in relazione ai lavoratori dipendenti del settore privato,
la questione non si pone in termini diversi per i dipendenti pubblici.
Infatti, l'originario regime di impignorabilità del trattamento di fine
servizio è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con le sentenze
della Corte costituzionale n. 99 del 1993 e n. 225 del 1997.
In particolare, risulta inappropriato il richiamo contenuto nella sentenza
impugnata all'art. 21 del d.P.R. 29.12.1973, n. 1032 (Testo unico delle
norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti dello Stato).
La Corte d'appello afferma che le somme dovute alla Ca. a titolo di
trattamento di fine rapporto non sarebbero pignorabili, in forza del
disposto del citato art. 21, che ne limita la sequestrabilità e
pignorabilità al solo caso di risarcimento del danno eventualmente causato
dal dipendente all'amministrazione.
In realtà, il dettato normativo deve ritenersi superato per effetto della
già menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 99 del 1993, che,
intervenendo sull'art. 2 del d.P.R. 05.01.1950, n. 180 (Testo unico delle
leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli
stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni),
ha esteso, anche con riferimento al trattamento di fine rapporto, ai
dipendenti pubblici il regime di pignorabilità -meno favorevole- previsto
per i lavoratori privati dall'art. 545 cod. proc. civ.
Successivamente, il Giudice delle leggi è tornato sul tema con la sentenza
n. 225 del 1997, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.
21 del d.P.R n. 1032/1973 nella parte in cui prevedeva, per i dipendenti
dello Stato, la sequestrabilità o la pignorabilità delle indennità di fine
rapporto di lavoro, anche per i crediti da danno erariale, senza osservare i
limiti stabiliti dall'art. 545, quarto comma, del codice di procedura
civile.
Con tale pronuncia, la Corte costituzionale ha inteso dichiaratamente
completare, anche in relazione ai crediti da danno erariale, il percorso di
totale equiparazione del regime di pignorabilità (e sequestrabilità) degli
emolumenti (compreso il t.f.r.) dei dipendenti pubblici e privati. Nella
sentenza si legge: «Occupandosi del regime giuridico dell'indennità di
fine rapporto erogata ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (d.P.R.
n. 180 del 1950), questa Corte è intervenuta, con la sentenza n. 99 del
1993, sul trattamento loro riservato, e ha esteso la sequestrabilità o
pignorabilità per ogni credito, negli stessi limiti stabiliti dall'art. 545,
quarto comma, del codice di procedura civile. Ciò per l'ingiustificata
disparità fra i dipendenti pubblici, fino ad allora privilegiati, e quelli
del comparto privato che erano sottoposti alla soggezione, sebbene limitata,
del potere legalmente esercitato dai creditori ordinari. Disparità non più
tollerabile, secondo tale pronuncia, per la progressiva eliminazione delle
differenze in materia, quale sviluppo della tendenza a omogeneizzare i due
settori».
Dunque, alla luce dell'interpretazione fornita dalla stessa Corte
costituzionale, non residua alcun dubbio sul fatto che la sentenza n. 99 del
1993, pur intervenendo sull'art. 2 del d.P.R. n. 180/1950, ha implicitamente
dichiarato costituzionalmente illegittimo anche l'art. 21 del d.P.R n.
1032/1973, il cui dettato era perfettamente compreso nell'ambito applicativo
dell'altra disposizione, la cui fattispecie si distingue per una maggiore
ampiezza oggettiva (in quanto comprensiva non solo del t.f.r., ma anche
degli stipendi e delle pensioni) e soggettiva (giacché si riferisce ai
dipendenti non solo dallo Stato, bensì da tutte le pubbliche
amministrazioni).
Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: "Anche
dopo la riforma del settore disposta con il decreto legislativo n. 252 del
2005, le quote accantonate del trattamento di fine rapporto, tanto che siano
trattenute presso l'azienda, quanto che siano versate al Fondo di Tesoreria
dello Stato presso l'I.N.P.S. ovvero conferite in un fondo di previdenza
complementare, sono intrinsecamente dotate di potenzialità satisfattiva
futura e corrispondono ad un diritto certo e liquido del lavoratore, di cui
la cessazione del rapporto di lavoro determina solo l'esigibilità, con la
conseguenza che le stesse sono pignorabili e devono essere incluse nella
dichiarazione resa dal terzo ai sensi dell'art. 547 cod. proc. civ. Tale
principio, valevole per i lavoratori subordinati del settore privato, si
estende anche ai dipendenti pubblici, stante la totale equiparazione del
regime di pignorabilità e sequestrabilità del trattamento di fine rapporto o
di fine servizio susseguente alle sentenze della Corte costituzionale n. 99
del 1993 e n. 225 del 1997". |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comune può vietare le tende.
Il comune può vietare ad una gelateria di installare una tenda solare
retrattile troppo ingombrante. Specialmente se l'esercizio commerciale è
posizionato in prossimità di un incrocio stretto e molto trafficato.
Lo ha chiarito il TAR Toscana, Sez. II, con la
sentenza
25.07.2018 n. 1074.
Un esercente ha richiesto al comune l'autorizzazione per l'occupazione di
suolo pubblico con una tenda solare retrattile da posizionare sulla vetrina
della gelateria. Contro il conseguente diniego l'interessato ha proposto
censure al collegio ma senza successo.
Il sopralluogo della polizia
municipale ha evidenziato che la proiezione della tenda andrebbe ad
interferire con l'incrocio stradale creando pericolo per i pedoni e gli
utenti stradali. In pratica già lo spazio per la circolazione è molto
ridotto in prossimità dell'esercizio commerciale. Con il posizionamento
della tenda solare avremmo ulteriori criticità rappresentati anche dai
clienti indotti a stazionare in prossimità dell'incrocio, degustando il
gelato.
Quindi ha fatto bene il comune a negare l'autorizzazione (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
4 – Rileva in via preliminare il Collegio che si è nella specie in
presenza di un atto di diniego alla “occupazione di suolo pubblico con
ripari esterni” dotato di plurimi supporti motivazionali, con l’effetto
che è sufficiente la legittimità di uno dei richiamati profili motivazionali
per giustificare l’adozione dell’atto, anche prescindendo dalla correttezza
delle ulteriori giustificazioni.
5 – Il primo profilo motivazionale del gravato provvedimento è correlato al
parere negativo espresso dalla Polizia Municipale, in esito a sopralluogo
dell’area; si legge che “si esprime diniego rilevato che la proiezione
della tenda andrebbe ad occupare un’area di intersezione di una strada a
doppio senso di circolazione (via Ruga di Fuori) con via di Gracciano nel
Corso dove è già presente una piazzola di scarico e carico, riducendo in
modo considerevole lo spazio disponibile al transito dei veicoli, causando
pericolo per la viabilità stradale e pedonale”.
Il suddetto profilo motivazionale è contestato con il primo motivo di
gravame, che non appare invero convincente in alcuna delle sue
articolazioni.
5.1 – In primo luogo non convince la censura di eccesso di potere per
contraddittorietà, fondata sull’assunto che problemi di ingombro della sede
stradale avrebbero semmai dovuto essere posti con riferimento all’istanza di
installazione di fioriere piuttosto che in relazione alla richiesta di
installazione di tenda retrattile che non incide sulla circolazione.
In relazione a tale profilo di censura il Collegio osserva che la
illegittimità dell’atto qui gravato non può trarsi dal confronto con il
diverso assenso a suo tempo concesso alla installazione di vasi di fiori,
stante il diverso oggetto delle due procedure e quindi la non
sovrapponibilità tra le due valutazioni compiute dall’Amministrazione.
L’atto qui gravato deve essere rapportato alla sua funzionalità
all’interesse pubblico perseguito (sicurezza stradale), da cui trae la sua
legittimità, che non può venir meno per contrasto con eventuale diversa
valutazione in diverso procedimento (avente oggetto non comparabile).
Con specifico riferimento alla installazione della tenda retrattile che, ove
aperta, incide con la sua proiezione sulla libera fruibilità della via
pubblica in considerazione, le valutazioni compiute dall’Amministrazione non
appaiono illogiche e quindi non risultano sindacabili in sede
giurisdizionale, con valutazioni sostitutive della scelta
tecnico-discrezionale compiuta dai competenti organi comunali.
Nella relazione della Polizia Municipale del 18.05.2018 si
esplicita più diffusamente il contenuto del parere negativo, evidenziando la
possibile “riduzione della visibilità in una intersezione che è
strettissima”, potendone scaturire “situazioni di pericolo per pedoni
e veicoli”, anche in relazione alla circostanza che la installazione
della tenda “induce spontaneamente i pedoni e gli stessi clienti a
stazionare davanti all’esercizio” (si consideri che l’esercizio stesso
non ha concessione per occupazione dell’area pubblica dinanzi alla gelateria
e che la tenda serve solo per evitare la rifrazione solare all’interno del
negozio).
La censura di eccesso di potere risulta quindi infondata. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
dissuasore fai-da-te non può restare sulla strada.
Il comune deve ordinare la rimozione urgente degli eventuali impedimenti
posizionati dal privato per limitare la circolazione davanti a casa. In
particolare se si tratta di tubolari di ferro sporgenti qualche centimetro
sulla sede stradale.
Lo ha chiarito il TAR Campania-Napoli, Sez. VII, con la
sentenza 24.07.2018 n. 4930.
Un cittadino esasperato per il pericolo causato dal transito dei veicoli
davanti alla sua abitazione posizionata in prossimità di una strettoia ha
deciso di posizionare dei dissuasori artigianali, ovvero dei tubolari di
ferro sporgenti qualche centimetro dal muro di casa. Contro questa misura
singolare e creativa il comune ha reagito con una ordinanza urgente di
rimozione.
E il privato ha presentato censure al collegio ma senza successo. È evidente
che la regolazione del traffico veicolare compete al comune, specifica il
tribunale amministrativo. Anche se il comune ha rilasciato un generico
parere sulle difficoltà che derivano dalla circolazione in una sede stradale
molto stretta non compete certo al privato installare dei dissuasori. E in
particolare strumenti pericolosi come posso essere dei tubolari di ferro (articolo
ItaliaOggi dell'11.08.2018).
---------------
1. - Mi.Ru., proprietaria dell’immobile sito in via ..., n. 23/A del
Comune di Massa Lubrense, ha impugnato l’ordinanza n. 77 prot. 11454 del
03.05.2016, con cui l’ente locale ha disposto la rimozione, ad horas
e comunque entro due giorni, dei tubolari in ferro, in funzione di
dissuasori, collocati sul muro di confine dalla sede stradale.
Ha premesso che i n. 6 tubolari, di 6/7 cm di sporgenza verso la sede
stradale e posti ad altezza media di cm 35, sono stati collocati previa
acquisizione del parere favorevole del comandante della Polizia Municipale
prot. 6459 del 09.03.2016 e prot. n. 865 del 09.03.2016, assoggettato alla
condizione di assicurare il transito in sicurezza dei veicoli di larghezza
massima di mt. 1,30.
...
5. - Il provvedimento gravato si inserisce nell’ambito di una vicenda
caratterizzata dall’emissione da parte della civica amministrazione di una
precedente ordinanza, n. 241 del 31.12.2015, volta anch’essa alla rimozione
di n. 6 tubolari installati sul muro di confine dell’immobile di proprietà
della ricorrente, eseguita dalla sig.ra Ru..
5.1. - L’ordinanza n. 77/2016, impugnata con il ricorso in esame, si fonda
sulla comunicazione prot. 11117 del 22.04.2016 del Comando della Polizia
Municipale che, in seguito a sopralluogo, ha riscontrato nuovamente la
presenza dei tubolari in ferro, identici per numero e dimensioni a quelli
rimossi.
5.2. - La ricorrente si duole dell’omesso riferimento, in quest’ultimo
provvedimento, ad un elemento sopravvenuto ritenuto dirimente: il parere del
comandante della Polizia Municipale prot. 6459, PM. 865, del 09.03.2016.
Nel suddetto atto si esprime parere favorevole all’installazione dei
dissuasori sulla proprietà della sig.ra Ru., a condizione che venga
rispettata la possibilità di transito in sicurezza per i veicoli di
larghezza massima di mt. 1,30.
5.3. - Dalla perizia di parte depositata dalla ricorrente si desume che:
- in data 07.05.2016 il personale del Comune ha provveduto alla
rimozione forzata dei tubolari contestati;
- nella via in questione è presente apposita segnaletica stradale
volta ad interdire il passaggio ai veicoli con larghezza superiore ai mt.
1,30;
- nel tratto interessato dall’apposizione dei tubolari, la strada
presenta una larghezza media di mt. 1,48/1,55.
5.4. - Il Comune nel provvedimento impugnato ha espressamente affermato che
“le esigue dimensioni in larghezza della strada in questione non
permettono alcun tipo di ulteriore restringimento, senza pregiudizio della
già limitata e difficile percorribilità e fruibilità veicolare e pedonale
della strada stessa”.
6. – Dalla ricostruzione della vicenda si desume che la ricorrente non ha
ottenuto alcun titolo abilitativo per poter procedere alla nuova apposizione
dei dissuasori e che l’amministrazione, nella valutazione dell’interferenza
dei tubolari con la fruibilità della via pubblica, ha tenuto conto sia della
circolazione veicolare che di quella pedonale, ritenendo l’interesse
all’apposizione dei suddetti manufatti recessivo rispetto all’esigenza di
tutela della pubblica incolumità e della sicurezza del relativo transito.
Su tali profili nulla rileva la nota del Comando di Polizia Municipale che,
peraltro, è indirizzata solo alla ricorrente ed è antecedente al sopralluogo
effettuato in data 22.04.2016 dal medesimo Comando.
In essa si fa unicamente riferimento alla necessità di assicurare il
transito in sicurezza dei veicoli di larghezza di mt. 1,30, mentre nulla si
rileva circa le misure idonee a garantire le esigenze di sicurezza della
circolazione veicolare e pedonale. Non si rinviene alcun riferimento alle
caratteristiche dei tubolari e alle relative modalità di interferenza di
questi ultimi con le condizioni di circolazione nel relativo tratto viario
che, come risulta anche dai rilievi fotografici in atti risulta
particolarmente stretto, attesa la presenza di muri di confine su entrambi i
lati.
Tale nota, inoltre, risulta conforme a quanto già segnalato sulla pubblica
via circa il divieto di transito per veicoli di larghezza superiore a mt.
1,30.
In proposito giova rilevare che attiene ad un diverso profilo l’obbligo di
rispetto di quest’ultimo divieto, da assicurare attraverso le modalità
ritenute più utili e opportune da parte della pubblica amministrazione, ivi
compresa l’adozione di sanzioni sul piano amministrativo avverso le condotte
contrarie al Codice della strada, al fine di tutelare, oltre la pubblica
incolumità e la circolazione sicura, anche la proprietà privata della
ricorrente.
7. - Deve, pertanto, ritenersi che l’operato dell’amministrazione risulta
esente dai dedotti vizi e che il provvedimento gravato si configuri come
atto dovuto, adottato nell’esercizio delle competenze proprie del Comune,
tanto che anche le violazioni procedimentali (sulla cui sussistenza è lecito
dubitare essendo la vicenda caratterizzata dall’adozione di plurimi atti
pregressi, noti alla ricorrente) come quelle di cui agli articoli 7 della
legge n. 241/1990, in conformità al modello legale di cui all’articolo
21-octies della legge n. 241/1990, dequotano a mere irregolarità non
invalidanti.
8. - Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere respinto, risultando
irrilevante ogni approfondimento sul Regolamento per la tassa di occupazione
di spazi ed aree pubbliche di cui alla D.G.C. n. 64 del 15.07.1994. |
APPALTI: Gare, la sanzione non è automatica.
Se l'impresa omette la condanna.
L'iscrizione nel casellario informatico da parte dell'Anac a seguito della
segnalazione di una stazione appaltante per omessa dichiarazione di una
sentenza rilevante sotto il profilo della moralità professionale, non è mai
automatica, ma presuppone una autonoma attività valutativa.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.07.2018 n. 4427 per una
vicenda riguardante una procedura di appalto in cui era stata disposta
l'esclusione di un concorrente per l'omessa denuncia di una sentenza penale
rilevante sotto il profilo della moralità professionale.
L'esclusione
(disposta in vigenza del codice dei 2006) era scattata per lo stesso motivo
oggi previsto dall'articolo 80 del decreto 50/2016, era quindi derivata
dalle omissioni dichiarative che, a loro volta, avevano avuto per
conseguenza la segnalazione all'Anac da parte della stazione appaltante.
L'Anac aveva dato luogo al procedimento sanzionatorio e all'iscrizione sul
casellario informatico dell'impresa esclusa. I giudici hanno precisato che
la legge non prevede un automatismo nell'esercizio dei poteri dell'Anac,
tale per cui questa, «ricevuta la segnalazione, debba sempre e comunque
procedere all'irrogazione di sanzioni, soprattutto se di natura reale
ovverosia inibitorie dell'attività di impresa».
Viceversa, ha detto il
consiglio di stato «come del resto nello stato di diritto è proprio di ogni
procedimento autoritativo-restrittivo, occorre un'autonoma e motivata
attività valutativa, di ordine tecnico-discrezionale che, sulla base delle
caratteristiche del fatto come accertato in sede penale in rapporto alla
mancata sua esternazione in sede di gara, stimi se ciò debba comportare
verso ogni pubblica amministrazione appaltante l'inaffidabilità morale
dell'impresa».
Su questa stima l'Anac dovrà poi stabilire la misura della sanzione e
l'iscrizione sul casellario, in considerazione della gravità e della
rilevanza dei fatti che hanno distinto la falsa dichiarazione. L'Autorità
non può quindi limitarsi a adottare le misure comunque in tutti i casi di
omissioni, quasi in via automatica e indipendentemente da un apprezzamento
in concreto in riferimento a quelle finalità (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti di repressione
degli abusi edilizi hanno natura strettamente vincolata, con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di
avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241
del 1990.
E’, quindi, legittima l’ordinanza di demolizione di un’opera
abusiva che non sia stata preceduta da siffatta
comunicazione “atteso che, da un lato, l’obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività
vincolata e che, dall’altro, ai sensi dell’art. 21–octies,
comma 2, L. n. 241/1990, l’omissione della comunicazione di
avvio del procedimento non comporta conseguenze nel caso in
cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
---------------
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 7 della legge n.
241 del 1990, si deve ribadire che gli atti di repressione
degli abusi edilizi hanno natura strettamente vincolata, con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di
avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241
del 1990.
E’, quindi, legittima l’ordinanza di demolizione di un’opera
abusiva che non sia stata preceduta da siffatta
comunicazione “atteso che, da un lato, l’obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività
vincolata e che, dall’altro, ai sensi dell’art. 21–octies,
comma 2, L. n. 241/1990, l’omissione della comunicazione di
avvio del procedimento non comporta conseguenze nel caso in
cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 01.02.2018, n. 708; nello stesso
senso, ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI,
23.01.2018, n. 437; id., 16.02.2017, n. 694; TAR Umbria,
02.01.2017, n. 3; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 07.04.2016,
n. 913; TAR Calabria, Reggio Calabria, 13 gennaio 2016, n.
6).
In conclusione il ricorso è infondato e va, pertanto,
respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 23.07.2018 n. 756 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO - VARI:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Prelievo di acqua
pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale
(fontana pubblica) - Configurabilità del furto aggravato o
dell'illecito amministrativo - Legge Galli n. 36/1994 - Art.
17 R.D. n. 1775/1933 - Art. 23 D.lgs. n. 152/1999 - Art. 96,
c. 4, D.lgs. n. 152/2006.
In tema di tutela delle acque, se la condotta del soggetto
agente si sostanzia nell'impossessamento di acque destinate
alla pubblica fruizione in misura eccessiva e con modalità
diverse da quelle stabilite dall'ente gestore (senza che ciò
comporti un mutamento della destinazione impressa al bene e
la realizzazione di una vera e propria utenza abusiva), essa
può integrare, per principio di specialità, gli estremi
dell'illecito amministrativo e non quelli del delitto di
furto.
Ne consegue che:
a) ove si tratti di acque sotterranee o superficiali, cui vanno
assimilate, ex art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238 del 1999 le
acque "raccolte in invasi o cisterne", l'acqua è da
qualificarsi pubblica, in quanto appartenente al demanio,
sicché l'attingimento abusivo integra l'illecito
amministrativo di cui all'art. 17 R.D. n. 1775 del 1933;
b) ove si tratti, invece, di acque convogliate in acquedotti, l'attingimento
abusivo integra il delitto di furto.
Mentre, l'art. 17 del T.U. sulle acque dispone che, ad
eccezione delle acque piovane e dei casi previsti dall'art.
93 (prelievo per uso domestico), è vietato derivare o
utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento
autorizzativo o concessorio dell'autorità competente. La
violazione di tale divieto comporta l'irrogazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria da 3.000 a 30.000 euro.
Ne consegue che tale disposizione e quella di cui all'art.
624 cod. pen., che incrimina il furto, realizzano un'ipotesi
di concorso apparente di norme: invero le due fattispecie
astratte sono tra loro in rapporto di omogeneità e non già
di eterogeneità in quanto regolano la stessa materia (ossia,
l'impossessamento e la sottrazione dì un bene altrui per
proprio vantaggio), essendo quella in tema di acque
specifica rispetto a quella codicistica, specialità
rappresentata dall'oggetto dell'azione (l'acqua pubblica) e
dal dolo specifico (dovendosi individuare il profitto
perseguito nella finalità industriale) (Sez. 5, n. 26877 del
05/05/2004, Modaffari).
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO -
Impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle
superficiali - Giurisprudenza - C. Cost., sentenza n.
273/2010.
L'impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di
quelle superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne,
integri esclusivamente l'illecito amministrativo di cui
all'art. 23 del d.lgs. 11.05.1999, n. 152, e non anche il
delitto di furto (Sez. 2, n. 17580 del 10/04/2013, Caramazza;
Sez. 4, n. 20404 del 03/03/2009, Dolce; Sez. 5, n. 25548 del
07/03/2007, Lancìaru), atteso che, per espressa previsione
dell'art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238/1999 (Regolamento
recante norme per l'attuazione di talune disposizioni della
L. 05.01.1994, n. 36, in materia di risorse idriche), tali
beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio
pubblico.
La corretta esegesi della normativa in materia di acque
rende palese che le "acque pubbliche", a cui si
riferisce l'art. 17 del R.D. 1755 del 1933, come modificato
dal d.lgs. n. 152/1999, sono quelle sotterranee e
superficiali, messe a disposizione dalla natura, a cui gli
enti pubblici abilitati non abbiano ancora conferito - sulla
base dei poteri ad essi conferiti dalla normativa vigente
una destinazione particolare (Sez. 5, 53984 del 26/10/2017,
Amoroso).
La scelta legislativa di sanzionare solo in via
amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle
regole di utilizzo delle acque non è manifestamente
irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al
rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione
nell'accesso ad un bene che appartiene in principio alla
collettività.
Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme che
non sono poste soltanto a presidio della proprietà pubblica
del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella
dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione
compatibile con l'entità delle risorse idriche disponibili
in un dato territorio e con la loro equilibrata
distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso.
Se tutti hanno diritto di accedere all'acqua, l'aspetto
dominicale della tutela si colloca in secondo piano,
rispetto alla primaria esigenza di programmare e vigilare
sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che
impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare
indebitamente determinati soggetti a danno di altri o
dell'intera collettività (C. cost., sentenza n. 273 del
22.07.2010) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 20.07.2018 n. 34455 -
link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Codice
appalti, dubbi di costituzionalità. L’immediata impugnazione non piace al
Tar Puglia.
La richiesta di impugnare immediatamente l'ammissione degli altri
concorrenti ad una gara di appalto pubblico pone un problema di
costituzionalità del codice appalti.
Lo afferma il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con l'ordinanza 20.07.2018 n. 1097.
I giudici ritengono non manifestamente infondata la questione di
legittimità, investendone la Corte costituzionale, dell'art. 120, comma 2-bis, primo e secondo periodo del codice di procedura amministrativa. Si
tratta del comma, aggiunto dall'art. 204, comma 1, lett. b), dlgs 18.04.2018, n. 50 (il codice dei contratti pubblici), limitatamente all'onere di
immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione.
La censura del
tribunale pugliese riguarda la parte della disposizione che costringe
l'impresa partecipante alla gara ad impugnare immediatamente le ammissioni
delle altre imprese partecipanti alla stessa gara, pena altrimenti
l'incorrere nella preclusione di cui al secondo periodo della disposizione.
In particolare il dettato normativo stabilisce che «l'omessa impugnazione
preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi
atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale».
In
sostanza si prevede che da ciò derivi la declaratoria di inammissibilità del
ricorso proposto avverso l'aggiudicazione definitiva da parte di chi ha
omesso di impugnare tempestivamente l'ammissione dell'aggiudicataria. E a
tale riguardo i giudici ritengono che la disposizione del codice appalti si
ponga in contrasto con gli artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, 103, comma 1,
111, commi 1 e 2, 113, commi 1 e 2, e 117, comma 1, della Costituzione e 6 e
13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali.
Dovendo impugnare (a prescindere da ogni concreta utilità) le ammissioni di
altri soggetti partecipanti, di fatto, dicono i giudici, l'impugnazione
potrebbe rivelarsi inutile nel momento in cui la stessa impresa ricorrente
dovesse venire a conoscenza in una fase successiva dell'aggiudicazione
definitiva della gara in proprio favore ovvero, all'opposto, della propria
collocazione in graduatoria in posizione talmente deteriore da non ritenere
più utile alcuna contestazione.
I giudici rilevano che «è evidente che al momento della ammissione delle
ditte in gara la posizione delle concorrenti è neutra o meglio
indifferenziata in quanto solo potenzialmente lesiva».
Invece ciò cui aspira la concorrente in gara è l'aggiudicazione dell'appalto
e quindi il suo interesse a contestare l'ammissione (pur illegittima) delle
altre concorrenti si concretizza solo alla fine della procedura allorquando
la posizione in graduatoria cristallizzata dal provvedimento di
aggiudicazione definitiva determina quel grado di differenziazione idoneo a
radicare l'interesse al ricorso (articolo
ItaliaOggi del 24.07.2018). |
APPALTI:
Accesso civico non per tutti. Tar Emilia.
Con la
sentenza 18.07.2018 n. 197,
il TAR Emilia Romagna, Sez. di Parma si è occupato dell'interpretazione
dell'art. 53 del dlgs n. 50/2016 quale possibile caso di esclusione della
disciplina dell'accesso civico.
Secondo il collegio il dlgs n. 33/2013 è cristallino nello
stabilire che il diritto di accesso civico generalizzato «è escluso»
nei casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto
di specifiche condizioni, modalità o limiti. Invero, l'art. 53 del dlgs n.
50 del 2016 detta una disciplina sull'accesso in parte derogatoria rispetto
alle ordinarie regole.
In tale disciplina speciale deve essere ricompresa anche la premessa,
secondo cui il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e
di esecuzione dei contratti pubblici è regolamentato dagli artt. 22 e
seguenti della legge n. 241/1990. Vi è dunque una precisa norma di legge che
rimanda espressamente, derogandola parzialmente, alla disciplina
dell'accesso «ordinario». Gli atti di tali procedure sono formati
all'interno di una disciplina speciale e a sé stante: un complesso
normativo, espressione di precise direttive europee, volto alla massima
tutela di concorrenza e trasparenza negli affidamenti pubblici.
È dunque giustificata la scelta di vietare la possibilità indiscriminata di
accesso alla documentazione di gara e post-gara da parte di soggetti non
qualificati. Invero, il legislatore avrebbe potuto compiere una opzione
differente, volta cioè ad estendere la possibilità di controllo
generalizzato anche su documenti «spia» di una deviazione dai fini
istituzionali, ma tale scelta, proprio per la forte conflittualità degli
interessi coinvolti e per la specialità del campo in cui opera, avrebbe
dovuto essere ineluttabilmente espressa, precisa ed inequivocabile.
Residua dunque nell'attuale sistema dei contratti pubblici una norma (l'art.
53, comma 1, del dlgs n. 50 del 2016) che restringe il campo di applicazione
del diritto di accesso agli atti richiesti dal ricorrente, alle norme sul
diritto di accesso ordinario di cui alla legge n. 241/1990 (articolo
ItaliaOggi del 03.08.2018). |
APPALTI:
Riparto dei requisiti per partecipare a procedura di gara
tra imprese facenti parte di raggruppamento.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese – requisiti di qualificazione – In
capo all’intero raggruppamento – Sufficienza – Soccorso
istruttorio – Applicabilità.
Con il nuovo Codice dei contratti
nel caso di concorrenti che partecipano alla gara in
raggruppamento temporaneo di imprese si privilegia il dato
sostanziale costituito dall’effettivo possesso dei requisiti
di qualificazione da parte dell’intero raggruppamento, fermo
restando che l’esecuzione dovrà poi essere ripartita tra le
imprese raggruppate nei limiti della qualificazione
posseduta da ciascuna di esse; tale esigenza ben può essere
soddisfatta con l’applicazione del soccorso istruttorio (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che non può essere pronunciata l’esclusione
laddove la qualificazione necessaria all’esecuzione del
lavoro (come del servizio o della fornitura) sia posseduta
dall’intero raggruppamento ma erroneamente ripartita tra le
imprese raggruppate: in tal caso la stazione appaltante deve
assegnare un termine al concorrente per correggere la
dichiarazione circa la suddivisione delle quote di
esecuzione al fine di riportarla nei limiti posseduti da
ciascuna impresa raggruppata.
La Sezione ha ricordato che sussistono oscillazioni
giurisprudenziali in tema di estensione dell’ambito di
applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio e, in
particolare, circa la sua applicabilità al caso che rileva
nella presente sede. Si ritiene tuttavia che non vi siano
elementi in contrario che possano essere desunti dalla trama
ordinamentale.
Non osta a tale conclusione la disposizione di cui all’art.
48, comma 4, d.lgs. 50 del 2016 che, nel testo risultante
dopo la novellazione ad opera dell'articolo 32, comma 1,
lettera b), d.lgs. 19.04.2017, n. 56, statuisce che “nel
caso di lavori, forniture o servizi nell'offerta devono
essere specificate le categorie di lavori o le parti del
servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli
operatori economici riuniti o consorziati” ma non vieta
l’applicazione del soccorso istruttorio a tale tipologia di
dichiarazione. Il comma 6 della stessa disposizione afferma
che “nel caso di lavori, per i raggruppamenti temporanei
di tipo verticale, i requisiti di cui all'art.84, sempre che
siano frazionabili, devono essere posseduti dal mandatario
per i lavori della categoria prevalente e per il relativo
importo; per i lavori scorporati ciascun mandante deve
possedere i requisiti previsti per l'importo della categoria
dei lavori che intende assumere e nella misura indicata per
il concorrente singolo” e con ciò statuisce il principio
secondo il quale ogni impresa raggruppata deve essere
qualificata per la quota di lavori che assume.
Questo principio non è in contestazione; si afferma solo che
è venuto meno il principio della necessaria corrispondenza
tra quote di partecipazione e quote di esecuzione quale
requisito di ammissione alla procedura, permanendo solo
quello (incontestabile) della necessaria qualificazione
sulle parte di lavorazioni (o servizi o forniture) che
l’impresa raggruppata assume
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.07.2018 n. 1040 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Con primo motivo il consorzio ricorrente contesta la
mancata corrispondenza tra quote di partecipazione al r.t.i.
e riparto delle quote di esecuzione tra le imprese
raggruppate, con riferimento a entrambi i raggruppamenti
primo e secondo classificato nella graduatoria finale della
procedura.
Il motivo è infondato.
E’ pacifica e incontestata la circostanza che i
raggruppamenti controinteressati, ciascuno complessivamente
considerato, possiedono i requisiti per eseguire l’intero
importo dei lavori; l’oggetto del contendere riguarda la
ripartizione di questi tra le imprese raggruppate in misura
asseritamente incoerente con la qualificazione posseduta da
alcune di esse.
Con riferimento, in particolare, alla posizione del
raggruppamento secondo classificato, dalla lettura della
dichiarazione di impegno a costituire un’associazione
temporanea di imprese presentata alla stazione appaltante si
rileva che la mandante Co. avrebbe avuto una percentuale di
partecipazione, nella categoria OS34, pari a € 3.098.400,00.
Tale importo corrisponde alla sua qualificazione di €
2.582.000,00 in tale categoria, aumentata legittimamente di
un quinto ai sensi dell’art. 61, comma 2, d.P.R. n.
207/2010, normativa ancora applicabile alla fattispecie in
esame.
È vero che nella stessa dichiarazione è stata indicata una
percentuale di partecipazione del 26,96% che corrisponde ad
un importo superiore a quello dichiarato ma l’errore, come
deduce la resistente in memoria, può ritenersi cagionato
dall’arrotondamento dei decimali: l’incidenza percentuale
della partecipazione dell’impresa di cui si tratta è infatti
pari al 26,9591% e questa cifra, nella compilazione della
dichiarazione, può facilmente essere divenuta 26,96%.
Ebbene nel contrasto tra i dati di un medesimo documento
questo, in base al principio di conservazione degli atti,
deve essere interpretato nel senso che porti ad una sua
salvezza; tale interpretazione risulta preferibile anche
alla luce del principio di buona fede in quanto la
spiegazione della discrasia tra importo e percentuale di
partecipazione al raggruppamento dichiarati che è stata
fornita dalla resistente appare plausibile.
Più in generale, e con riferimento anche alla posizione del
primo classificato, deve rilevarsi che il
principio di necessaria corrispondenza tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione ai raggruppamenti di
imprese nelle gare per l’affidamento di contratti pubblici è
già venuto meno, per gli appalti di forniture e servizi, con
le modifiche all' art. 37, comma 13, del d.lgs. 12.04.2006,
n. 163, apportate dal d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito in
l. 07.08.2012, n. 135. Successivamente è stato interamente
abrogato il comma 13 del medesimo articolo 37, d.lgs. n.
163/2006, ad opera del d.l. n. 28.03.2014, n. 47 convertito
in l. 23.05.2014, n. 80, determinandosi così la caduta di
tale requisito anche per gli appalti di lavori.
Tale principio non è stato reintrodotto nel nuovo codice dei
contratti pubblici di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, né
per gli appalti di servizi e forniture né per quelli di
lavori, e tale omissione non può che essere valutata come
indice della sua volontà legislativa di privilegiare il dato
sostanziale costituito dall’effettivo possesso dei requisiti
di qualificazione da parte dell’intero raggruppamento.
La qualificazione delle imprese che
partecipano alle gare per l’affidamento di contratti
pubblici è necessaria per garantire la stazione appaltante
in ordine alla corretta ed integrale esecuzione del
contratto affidato. Tale garanzia, nel caso di concorrenti
che partecipano alla gara in raggruppamento temporaneo di
imprese, può essere ritenuta operante anche laddove la
qualificazione sia posseduta dall’intero raggruppamento,
fermo restando che l’esecuzione dovrà poi essere ripartita
tra le imprese raggruppate nei limiti della qualificazione
posseduta da ciascuna di esse. Tale esigenza ben può essere
soddisfatta con l’applicazione del soccorso istruttorio.
Non può quindi essere pronunciata
l’esclusione laddove la qualificazione necessaria
all’esecuzione del lavoro (come del servizio o della
fornitura) sia posseduta dall’intero raggruppamento ma
erroneamente ripartita tra le imprese raggruppate: in tal
caso la stazione appaltante deve assegnare un termine al
concorrente per correggere la dichiarazione circa la
suddivisione delle quote di esecuzione al fine di riportarla
nei limiti posseduti da ciascuna impresa raggruppata.
Nel caso di specie poi, secondo quanto dichiarato in udienza
dal procuratore di Autostrade per l'Italia s.p.a., il
raggruppamento tra le imprese vincitrici della gara è stato
regolarmente costituito ripartendo correttamente le quote di
lavori sulla base della qualificazione posseduta da ciascuna
di esse.
Il Collegio è conscio delle oscillazioni
giurisprudenziali in tema di estensione dell’ambito di
applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio e, in
particolare, circa la sua applicabilità al caso che rileva
nella presente sede. Si ritiene tuttavia che non vi siano
elementi in contrario che possano essere desunti dalla trama
ordinamentale.
Non osta alla conclusione sopra riportata la disposizione di
cui all’art. 48, comma 4, d.lgs. 50/2016 ripetutamente
invocata dal ricorrente. Questa, nel testo risultante dopo
la novellazione ad opera dell'articolo 32, comma 1, lettera
b), d.lgs. 19.04.2017, n. 56, statuisce che “nel caso di
lavori, forniture o servizi nell'offerta devono essere
specificate le categorie di lavori o le parti del servizio o
della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori
economici riuniti o consorziati” ma non vieta
l’applicazione del soccorso istruttorio a tale tipologia di
dichiarazione.
Il comma 6 della stessa disposizione afferma che “nel
caso di lavori, per i raggruppamenti temporanei di tipo
verticale, i requisiti di cui all'articolo 84, sempre che
siano frazionabili, devono essere posseduti dal mandatario
per i lavori della categoria prevalente e per il relativo
importo; per i lavori scorporati ciascun mandante deve
possedere i requisiti previsti per l'importo della categoria
dei lavori che intende assumere e nella misura indicata per
il concorrente singolo” e con ciò statuisce il principio
secondo il quale ogni impresa raggruppata deve essere
qualificata per la quota di lavori che assume.
Questo principio non è in contestazione; si afferma solo che
è venuto meno il principio della necessaria corrispondenza
tra quote di partecipazione e quote di esecuzione quale
requisito di ammissione alla procedura, permanendo solo
quello (incontestabile) della necessaria qualificazione
sulle parte di lavorazioni (o servizi o forniture) che
l’impresa raggruppata assume.
Non sembra che elementi contrari alla tesi
de qua possano poi essere desunti dal disposto di cui
all’articolo 83, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 che esclude
l’applicazione del soccorso istruttorio ai casi di mancanza,
incompletezza ed altre irregolarità essenziali “afferenti
all'offerta economica e all'offerta tecnica” poiché la
sua operatività nel caso di specie non comporta la modifica
di alcuno degli elementi in base ai quali la stazione
appaltante ha assegnato i punteggi ai concorrenti, e quindi
non sussiste lesione del principio di parità di trattamento.
Per contro, la stazione appaltante è egualmente garantita
circa la corretta esecuzione del contratto affidato mentre
viene tutelato il principio di massima partecipazione alle
gare, che impronta l’intera legislazione in materia di
affidamento dei contratti pubblici ed impone di non
comminare l’esclusione agli operatori economici che
incorrono in errori formali.
Secondo una visione sostanzialistica, che innerva l’intera
normativa sull’evidenza pubblica, appare sproporzionato
disporre l’esclusione di un intero raggruppamento che sia in
possesso dei requisiti per eseguire l’intero contratto, a
causa di una errata ripartizione delle prestazioni da
eseguire all’interno del raggruppamento medesimo come
risultante dalla dichiarazione presentata alla stazione
appaltante ai fini della partecipazione. Se pure tale
dichiarazione, con la quale viene reso noto il riparto delle
prestazioni tra le imprese raggruppate, non costituisce una
dichiarazione di scienza bensì una dichiarazione negoziale,
tuttavia la sua modificazione e riconduzione a norma non
viola la parità di trattamento tra i concorrenti.
Nella ricerca di un punto di equilibrio tra quest’ultimo
principio e quello di massima partecipazione alle gare per
l’affidamento dei contratti pubblici, sembra legittimo
ammettere che il raggruppamento che sia in possesso dei
requisiti di qualificazione per eseguire l’intero appalto
possa correggere il riparto delle quote di esecuzione tra le
imprese raggruppate come dichiarato alla stazione
appaltante, la quale per contro è egualmente garantita circa
la corretta esecuzione del contratto affidato.
Così come la par condicio non viene
violata laddove il concorrente sia ammesso a produrre,
correggere od integrare alcuna delle dichiarazioni (di
scienza) necessarie per l’ammissione alla gara, egualmente
non viene incisa laddove il raggruppamento sia ammesso a
correggere la dichiarazione (negoziale) di riparto delle
quote di esecuzione tra le imprese raggruppate a condizione,
beninteso, che il raggruppamento medesimo complessivamente
considerato possieda i requisiti per eseguire l’intero
contratto affidato. Né nell’uno né nell’altro caso vengono
alterati gli elementi dai quali la stazione appaltante
desume la convenienza economica e la qualità delle offerte
presentate in gara, elementi i quali rappresentano il “nocciolo
duro” della par condicio e che giammai potranno
essere oggetto di soccorso istruttorio.
E’ stato stabilito in proposito che la disciplina della
procedura di gara non deve essere concepita come una sorta
di corsa ad ostacoli fra adempimenti formali imposti agli
operatori economici e all'amministrazione aggiudicatrice, ma
deve mirare ad appurare, in modo efficiente, quale sia
l'offerta migliore, nel rispetto delle regole di
concorrenza, verificando la sussistenza dei requisiti
tecnici, economici, morali e professionali
dell'aggiudicatario.
L’istituto del soccorso istruttorio tende dunque ad evitare
che irregolarità e inadempimenti meramente estrinseci
possano pregiudicare gli operatori economici più meritevoli,
anche nell'interesse del seggio di gara, che potrebbe
perdere l'opportunità di selezionare il concorrente
migliore, per vizi procedimentali facilmente emendabili
(C.d.S. V, 10.04.2018 n. 2180). Ne è invece
esclusa l’applicazione alle mancanze, incompletezze e altre
irregolarità essenziali afferenti all'offerta economica e
all'offerta tecnica come l'indicazione di ogni singolo
prezzo unitario che rappresenta un elemento non accessorio,
ma essenziale dell’offerta economica per poter risolvere
eventuali discordanze tra prezzo complessivo e somma dei
prezzi unitari
(TAR Lazio Roma I, 09.03.2018 n. 2718), né
con il soccorso istruttorio la stazione appaltante può
consentire di modificare o integrare il contenuto
dell'offerta tecnica di gara
(C.d.S. V, 03.04.2018 n. 2069).
Dalla prima giurisprudenza formatasi dopo
le citate modifiche normative si ricava dunque il principio
che il limite all’operatività dell’istituto sono gli
elementi necessari per garantire il processo di concorrenza
con l’attribuzione dei punteggi alle offerte secondo la loro
meritevolezza. Questa sembra essere l’interpretazione più
aderente alla ratio normativa del citato disposto di
cui all’articolo 83, comma 9, d.lgs. n. 50/2016 che esclude
l’applicazione del soccorso istruttorio agli elementi
relativi all'offerta economica e all'offerta tecnica.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
05.07.2012, n. 26, citata dal ricorrente a sostegno delle
proprie deduzioni, non è pertinente sia perché intervenuta
in un caso cui non era applicabile la citata normativa
(successivamente emanata) che ha modificato le disposizioni
dell’evidenza pubblica con riguardo al tema che viene in
rilievo in questa sede, sia perché il soggetto ricorrente,
in quel caso, non era un raggruppamento di imprese bensì un
consorzio.
Il primo motivo del ricorso principale deve quindi essere
respinto. |
APPALTI:
In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta
presentata nelle gare per l’affidamento dei contratti
pubblici la giurisprudenza insegna che occorre tenere conto
dell'attendibilità della proposta contrattuale nel suo
complesso e non è necessaria una verifica puntuale, voce per
voce, della stessa.
La valutazione di anomalia deve invece essere compiuta in
modo globale e sintetico, riferendola all'intera offerta e
non alle singole voci di costo ritenute incongrue, in modo
avulso dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta
economica nel suo insieme.
Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in
proposito dalla stazione appaltante va circoscritto ai casi
di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in
considerazione della discrezionalità che connota dette
valutazioni che sono riservate alla stazione appaltante cui
compete il più ampio margine di apprezzamento.
---------------
Nel caso di specie, la positiva relazione del Responsabile
Unico del Procedimento appare correttamente motivata, per
relationem, alle giustificazioni offerte dal vincitore le
quali appaiono analiticamente formulate con riguardo ai
materiali e al costo della manodopera.
Non era necessario che la relazione del Responsabile Unico
del Procedimento prendesse in esame ciascun elemento
dell’offerta valutata; l’accoglimento delle giustificazioni
ben può essere motivato in relazione ai documenti forniti
dall’aggiudicatario; è il rifiuto delle giustificazioni che
deve invece essere analiticamente motivato dalla stazione
appaltante.
Spetta poi al ricorrente che voglia contestare
l’accettazione delle giustificazioni il compito di
evidenziare e dimostrare quegli elementi di irragionevolezza
ed illogicità della valutazione operata dalla stazione
appaltante che la rendono poco plausibile.
---------------
2.2 Si passa
ora all’esame del ricorso per motivi aggiunti, con il quale
si contesta in primo luogo la valutazione positiva di
congruità dell’offerta del concorrente vincitore, sottoposta
a verifica in quanto risultata anomala.
In tema di verifica dell’anomalia dell’offerta presentata
nelle gare per l’affidamento dei contratti pubblici la
giurisprudenza insegna che occorre tenere conto
dell'attendibilità della proposta contrattuale nel suo
complesso e non è necessaria una verifica puntuale, voce per
voce, della stessa. La valutazione di anomalia deve invece
essere compiuta in modo globale e sintetico, riferendola
all'intera offerta e non alle singole voci di costo ritenute
incongrue, in modo avulso dall'incidenza che potrebbero
avere sull'offerta economica nel suo insieme (C.d.S. III,
01.032018 n. 1278; TAR Lazio Roma I, 03.04.2018 n. 3631;
Sez. III, 26.04.2018 n. 4627).
Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in
proposito dalla stazione appaltante va circoscritto ai casi
di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in
considerazione della discrezionalità che connota dette
valutazioni che sono riservate alla stazione appaltante cui
compete il più ampio margine di apprezzamento (C.d.S. III,
10.05.2013 n. 2533).
Nel caso di specie, la positiva relazione del Responsabile
Unico del Procedimento appare correttamente motivata, per
relationem, alle giustificazioni offerte dal vincitore
le quali appaiono analiticamente formulate con riguardo ai
materiali e al costo della manodopera. Le cifre e gli
elementi offerti a giustificazione dall’aggiudicatario
devono ritenersi comprensivi delle migliorie offerte, con
riguardo anche agli elementi dedotti nel motivo in esame
quali indici della non giustificabilità dell’offerta e in
particolare le strutture prefabbricate; l’impiego di tre
attenuatori d’urto; la segnaletica e il costo di una squadra
di tre operai con autocarro disponibile nell’intero arco
giornaliero.
In riferimento, in particolare, a quest’ultimo elemento
appare corretta la lettura fornita dalla stazione appaltante
nelle proprie difese, secondo cui l’impegno assunto
dall’aggiudicatario è quello di intervenire per la posa in
opera della segnaletica di emergenza con una squadra di tre
persone, senza tenerle ferme e a disposizione per l’intera
durata del contratto poiché un siffatto impegno appare poco
plausibile sotto un mero profilo di ragionevolezza, in base
a valutazioni di comune esperienza.
Non era necessario che la relazione del Responsabile Unico
del Procedimento prendesse in esame ciascun elemento
dell’offerta valutata; l’accoglimento delle giustificazioni
ben può essere motivato in relazione ai documenti forniti
dall’aggiudicatario; è il rifiuto delle giustificazioni che
deve invece essere analiticamente motivato dalla stazione
appaltante (TAR Campania Napoli III, 10.02.2017 n. 831; TAR
Sicilia Catania III, 15.03.2011 n. 645).
Spetta poi al ricorrente che voglia contestare
l’accettazione delle giustificazioni il compito di
evidenziare e dimostrare quegli elementi di irragionevolezza
ed illogicità della valutazione operata dalla stazione
appaltante che la rendono poco plausibile. Nel caso di
specie le asserzioni del ricorrente appaiono indimostrate: è
infatti plausibile che l’esame delle giustificazioni abbia
ricompreso i costi derivanti dalle migliorie fornite e che
la squadra dei tre operai non sia a disposizione ogni giorno
di esecuzione del contratto, ma intervenga solo in caso di
emergenza per la posa in opera della necessaria segnaletica.
La prima censura contenuta nel ricorso per motivi aggiunti
deve quindi essere respinta con conseguente consolidamento
della posizione dell’aggiudicatario, e a tanto consegue
l’improcedibilità delle ulteriori censure rivolte avverso il
concorrente secondo classificato in gara poiché il loro
accoglimento non apporterebbe alcuna utilità al ricorrente
che non diverrebbe aggiudicatario del contratto de quo.
Anche il ricorso per motivi aggiunti deve dunque essere
respinto (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 17.07.2018 n. 1040 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Tar
Sicilia: per la tettoia serve il permesso a costruire.
È necessario il permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia e
non la semplice comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila). Chi si
ritiene danneggiato da un'attività iniziata o realizzata per mezzo di una
Cila non può promuovere un'azione di annullamento. Ma solo sollecitare
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione.
È con la
sentenza 16.07.2018 n. 1497
che il TAR Sicilia-Catania (Sez. I) analizza la
difficile questione circa i titoli abilitativi per gli elementi di arredo
degli spazi outdoor.
Il fatto in sintesi: il proprietario di un immobile aveva realizzato una
tettoia nel suo cortile. Il manufatto in sé era smontabile in legno
lamellare, ma prima della sua installazione era stato realizzato un
basamento di cemento armato. La parte confinante, sentitasi danneggiata
dall'opera, si era rivolta al comune, scoprendo che per la realizzazione
della tettoia era stata depositata una Cila.
I giudici del Tar Sicilia
sostengono nella sentenza in commento che, data la non precarietà della
tettoia e l'invasività delle opere idriche, il proprietario avrebbe dovuto
richiedere il permesso di costruire. Dal momento che l'opera sorgeva nel
centro storico, la Soprintendenza avrebbe dovuto inoltre valutare la
compatibilità dell'intervento con il contesto artistico circostante.
La Cila
affermano i giudici, è senza dubbio un atto del privato privo di natura
provvedimentale, anche tacita, come tale non immediatamente impugnabile
innanzi al Tar. Nel regime di edilizia libera e di edilizia libera
certificata, si legge nella sentenza, non è previsto un controllo successivo
sistematico che, come accade con la Scia, si conclude con un provvedimento
di carattere inibitorio.
La Cila deve essere «soltanto» conosciuta
dall'amministrazione affinché essa possa verificare che, effettivamente, le
opere progettate importino un impatto modesto sul territorio. Gli interventi
che rientrano nella sfera di «libertà» definita dalla predetta norma non
sono, infatti, soggetti ad alcun titolo edilizio tacito o espresso (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Tettoia abusiva - Sequestro -
Proprietario e custode del manufatto abusivo - Violazione
dei sigilli e prosecuzione delle opere abusive - Effetti -
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Controllo della motivazione -
Evidente interesse al compimento delle opere abusive - Unico
complessivo corpo argomentativo - Giurisprudenza.
In tema di controllo della motivazione, è validamente
argomentato il giudizio di responsabilità per violazione di
sigilli e connessi reati contravvenzionali edilizi a carico
dell'imputato, comproprietario dell'immobile e nominato
custode all'atto del sequestro, fondato sull'evidente
interesse al compimento delle opere abusive, dovendosi
escludere la possibilità per la Corte di cassazione di
ricostruire alternativamente la vicenda (Sez. 3, n. 8570 del
14/01/2003 - dep. 21/02/2003, Privitera).
Pertanto, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di
motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di
appello si salda con quella di primo grado, per formare un
unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici
del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante
con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando
frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della
prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione
degli elementi di prova posti a fondamento della decisione
(Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013,
Argentieri; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 - dep.
12/04/2012, Valerio) (Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.07.2018 n. 32181 -
link a
www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Aree
vincolate con Imu e Tasi. Le limitazioni pubbliche non incidono sull’edificabilità.
Pronunce ancora contrastanti in Cassazione sull’assoggettamento alle imposte
locali
Non trova pace la vexata questio della tassabilità
delle aree soggette a vincoli pubblici. Le aree destinate a verde pubblico o
soggette a vincoli idrogeologici non sono esonerate dal pagamento di Ici,
Imu e Tasi. Questi vincoli non incidono sull'edificabilità delle aree
interessate, ma solo sul loro valore di mercato, che deve essere ridotto.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
12.07.2018 n. 18429.
Continuano a permanere incertezze e dubbi interpretativi
sull'assoggettamento a imposizione dei terreni qualificati edificabili dagli
strumenti urbanistici, ma sottoposti a vincoli pubblici di varia natura.
L'orientamento ondivago della Cassazione certamente non aiuta gli operatori,
funzionari pubblici e contribuenti, a prendere una posizione univoca e,
soprattutto, fa lievitare il contenzioso.
Per i giudici di legittimità, «la Ctr ha errato nel ritenere che i
vincoli idrogeologici o di verde pubblico avessero “in concreto” posto nel
nulla il regime di edificabilità di cui allo strumento urbanistico generale».
Nel caso in esame, secondo la Cassazione, «la edificabilità delle aree
(terreni), inserite come tali nello strumento urbanistico, è rimasta (a fini
tributari) anche in presenza dei vincoli pubblicistici, fatta salva la
rilevanza di questi vincoli (nella specie geologici) non sull'edificabilità
in sé ma sul minor valore di mercato delle aree vincolate».
Del resto se si accede alla tesi della tassabilità delle aree vincolate, che
si ritiene del tutto condivisibile, è scontato che i limiti fissati per la
loro edificabilità non possono non incidere sul loro valore di mercato.
I contrasti recenti all'interno della Corte.
Sarebbe opportuno che della questione venissero investite le sezioni unite
della Corte, per porre fine a questo balletto di pronunce tra loro
contrastanti
Solo qualche mese fa la Cassazione (ordinanza 10231/2018) ha affermato un
principio diverso rispetto a quello contenuto nell'ordinanza 18429. Nello
specifico, ha sostenuto che le aree destinate a spazi pubblici per parchi,
giochi e sport, hanno un vincolo di destinazione che impedisce ai privati di
potere edificare e, pertanto, non possono essere assoggettate al pagamento
delle imposte locali.
Con l'ordinanza 10231 ha testualmente precisato che deve «negarsi la
natura edificabile delle aree, come quella del caso di specie, comprese in
zona destinata dal Prg ad “Aree per spazi pubblici a parco, gioco e lo sport
a livello comunale” in quanto tale destinazione preclude ai privati forme di
trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione».
Pertanto, «ove la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo
meramente pubblicistico (verde pubblico; attrezzature pubbliche ecc.), la
classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati
tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla
nozione tecnica di edificazione».
Mentre con l'ordinanza 7849/2018 si è espressa in senso opposto, dichiarando
che le aree edificabili d'interesse pubblico o destinate dal piano
regolatore generale a servizi pubblici sono soggette al pagamento dell'Ici,
ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, perché vanno tenuti distinti i casi
in cui l'immobile è soggetto a vincoli di destinazione, da quelli in cui l'inedificabilità
è assoluta. Tuttavia, in presenza di vincoli che gravano sull'area il
contribuente è tenuto a pagare le imposte locali su un valore dell'immobile
notevolmente ridotto.
Secondo la Cassazione, «i vincoli d'inedificabilità assoluta, stabiliti
in via generale e preventiva nel piano regolatore generale, vanno tenuti
distinti dai vincoli di destinazione che non fanno venire meno l'originaria
natura edificabile».
Però, i vincoli hanno un'incidenza «nella determinazione del valore
venale dell'immobile, da valutare in base alla maggiore o minore attualità
delle sue potenzialità edificatorie». Dunque, la presenza di vincoli nei
piani regolatori comunali non fa venir meno il regime fiscale dei suoli
edificabili, ma non si può non tenerne conto nella determinazione del loro
valore venale.
Ne consegue che le imposte locali sono dovute, anche se in misura ridotta.
L'edificabilità di un'area, dunque, non può essere esclusa dalla presenza di
vincoli o di particolari destinazioni urbanistiche (Cassazione, sentenza
5161/2014). Questa pronuncia è in linea con l'interpretazione contenuta
nell'ordinanza 18429 in commento.
Il disorientamento giurisprudenziale.
Le divergenti opinioni all'interno della Corte durano da tempo, da più di un
decennio. Con la sentenza 25672/2008 aveva affermato che se il piano
regolatore generale del comune prevede che un'area sia destinata a verde
pubblico attrezzato, questa prescrizione urbanistica impedisce al privato di
poter edificare.
L'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se l'edificabilità risulta
dallo strumento urbanistico. Invece, con la sentenza 19131/2007 aveva
stabilito che l'Ici fosse dovuta su un'area edificabile sottoposta a vincolo
urbanistico e destinata a essere espropriata: quello che conta è il valore
di mercato dell'immobile nel momento in cui è soggetto a imposizione.
Con questa decisione, tra l'altro, i giudici avevano precisato che l'Ici non
ricollega il presupposto dell'imposta all'idoneità del bene a produrre
reddito o alla sua attitudine a incrementare il proprio valore. Il valore
dell'immobile assume rilievo solo per determinare la misura dell'imposta.
L'area deve essere considerata edificabile anche se qualificata «standard»
e vincolata a esproprio.
Sempre la Cassazione (ordinanza 15729/2014) ha chiarito che i vincoli
urbanistici o paesaggistici non escludono che un'area possa essere
qualificata edificabile. Ma l'amministrazione comunale deve verificare se i
vincoli posti dal piano regionale impediscono l'edificabilità dell'area o se
le limitazioni ne riducono il valore di mercato.
L'orientamento non è uniforme neppure nella giurisprudenza di merito. Per
esempio, secondo la commissione tributaria regionale di Milano (sentenza
71/2013) un'area compresa in una zona destinata dal piano regolatore
generale a verde pubblico attrezzato non è soggetta al pagamento dell'Ici.
Il vincolo di destinazione non consente di dichiarare l'area edificabile
poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione
del bene. Ma al riguardo vi sono altre pronunce di segno contrario.
---------------
Rettificabili i valori deliberati dal comune.
La Cassazione con l'ordinanza 18429/2018 ha chiarito che per le aree
vincolate i valori devono essere ridotti. Per quanto concerne i valori delle
aree edificabili, va ricordato che con l'ordinanza 4969/2018 ha anche
stabilito che i comuni hanno il potere di accertarli in misura superiore a
quelli fissati dallo stesso ente, con delibera del consiglio comunale o
della giunta, se gli stessi risultino inferiori a quelli indicati in atti
pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a conoscenza.
La ratio della norma di legge che consente ai comuni di fissare dei
valori predeterminati ha la finalità di ridurre il contenzioso con i
contribuenti, ma non può impedire la rettifica dei valori dichiarati che non
siano in linea con quelli di mercato degli immobili (articolo
ItaliaOggi Sette del 06.08.2018). |
APPALTI:
Colui che partecipa ad una gara per l'assegnazione di un
appalto pubblico deve segnalare qualunque fatto anche solo
ipoteticamente rilevante rispetto al giudizio di
affidabilità che compete alla stazione appaltante.
L'obbligo di dichiarare, da parte del
partecipante ad una gara, fatti che la commissione di gara e
la stazione appaltante devono valutare per stabilire o meno
se si debba procedere ad esclusione ex art. 80, c. 5, lett.
c), D.lgs. 50/2016 è previsto dall'art. 85 che descrive i
contenuti del Documento di gara unico europeo tra i quali la
dichiarazione che l'operatore economico non si trova in una
delle situazioni di cui all'art. 80.
Le Linee guida nr. 6/2016 nell'ultima versione aggiornata
prevedono che: "Gli operatori economici, ai fini della
partecipazione alle procedure di affidamento, sono tenuti a
dichiarare, mediante utilizzo del modello DGUE, tutte le
notizie astrattamente idonee a porre in dubbio la loro
integrità o affidabilità".
E' evidente, pertanto, che colui che partecipa ad una gara
per l'assegnazione di un appalto pubblico deve segnalare
qualunque fatto anche solo ipoteticamente rilevante rispetto
al giudizio di affidabilità che compete alla stazione
appaltante e che per questo deve discriminare i fatti
segnalati rilevanti da quelli che non lo, solo dovendo
motivare in caso di presenza di elementi critici sia
l'ammissione che l'esclusione del concorrente
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 12.07.2018 n. 575 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il modello in house costituisce un modo di gestione
ordinario dei servizi pubblici locali.
Il modello in house costituisce un modo
di gestione ordinario dei servizi pubblici locali,
alternativo rispetto all'affidamento mediante selezione
pubblica; il quinto considerando della direttiva U.E.
24/2014 sugli appalti pubblici, stabilisce, infatti, sul
punto che "… nessuna disposizione della presente direttiva
obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a
esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano
prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi
dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva".
Ciò è stato confermato anche dalla giurisprudenza del
Consiglio di Stato che ha affermato che l'affidamento in
house ha natura ordinaria e non eccezionale, e che la
relativa decisione dell'amministrazione, ove motivata,
sfugge al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salva l'ipotesi di macroscopico travisamento
dei fatti o di illogicità manifesta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.07.2018 n. 269 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Rottamazione,
ok a gara. L'adesione alla sanatoria vale per l'appalto.
Il Tar del Friuli Venezia Giulia lo valuta come requisito idoneo.
La rottamazione delle cartelle salva l'aggiudicazione dell'appalto.
Confermata la vittoria nella gara per l'azienda che ha chiesto prima della
scadenza del bando la definizione agevolata dei debiti tributari pendenti:
nel momento in cui si decide l'affidamento dei lavori, infatti, l'impresa
partecipante alla selezione risulta in pieno possesso dei requisiti di
regolarità fiscale richiesti dal codice dei contratti pubblici per diventare
partner economici delle amministrazioni. Il tutto grazie alla manovra
correttiva 2017 che cita in modo esplicito la rottamazione delle cartelle
come strumento per ottenere il certificato di regolarità. Anche l'eventuale
procedimento penale in corso per reati tributari risulta irrilevante.
È quanto emerge dalla
sentenza 11.07.2018 n. 246,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia.
Affidabilità finanziaria
Niente da fare per il competitor rimasto a bocca asciutta: legittima
l'attribuzione all'azienda concorrente del servizio di vigilanza negli
uffici giudiziari della città.
E ciò anche se la società vincitrice ha un
debito col fisco di oltre 13 mila euro per ritenute d'imposte non versate
che risalgono al 2013, più sanzioni, interessi e compensi del concessionario
della riscossione: una somma, dunque, senz'altro superiore al tetto di 10
mila euro applicabile (l'importo di 5 mila euro è stato stabilito soltanto
ad aggiudicazione avvenuta dall'articolo 1, comma 986, della legge di
bilancio 2018).
Ciò che conta è la ricevuta ottenuta via Pec
dall'aggiudicataria con cui l'Agenzia delle Entrate riscontra la richiesta
di ottenere la definizione agevolata dei carichi tributati pendenti, benché
il beneficio fiscale possa comunque venire meno se la società vincitrice non
paga una delle cinque rate previste (per un totale di 1.500 euro). Va
infatti verificato soltanto alla scadenza del bando il requisito
dell'affidabilità finanziaria delle imprese partecipanti alla gara
d'appalto.
E se la società viene estromessa dalla rottamazione la decorrenza
è dalla data di esclusione dalla procedura. Nel momento in cui l'azienda
presenta l'offerta poi premiata dalla commissione aggiudicatrice, dunque,
non ha l'obbligo di dichiarare le posizioni debitorie sanate dalla
definizione agevolata.
Punto di equilibrio
Non trova ingresso l'ulteriore censura proposta dall'azienda che ha perso la
gara, secondo cui sarebbe in corso un procedimento penale per omesso
versamento Iva a carico di un soggetto riconducibile alla società
aggiudicataria del servizio: solo la condanna passata in giudicato può
infatti influenzare la valutazione della stazione appaltante sui requisiti
di affidabilità finanziaria dell'impresa.
E in ogni caso la circostanza non incide sugli obblighi dichiarativi a
carico della società che partecipa alla procedura pubblica. Disattesa infine
l'eccezione di legittimità costituzionale delle norme perché la disposizione
consente di arrivare a un punto di equilibrio più che plausibile fra
l'esigenza di incassare il gettito dei tributi da una parte e la necessità
di garantire l'esercizio della libera impresa dell'altra (articolo
ItaliaOggi del 26.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edilizie soggette a permesso di costruire -
Piattaforma in cemento armato con struttura intelaiata -
Trasformazione urbanistica - Permesso di costruire -
Necessità - Artt. 3 e 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 -
Giurisprudenza.
Sono soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto
disposto dal T.U.E., tutti gli interventi che,
indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono
sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una
trasformazione in via permanente del suolo in edificato.
Sicché, la realizzazione di una piattaforma con struttura
intelaiata in cemento armato (in specie di circa 60 mq)
costituisce senza dubbio un'opera di trasformazione
urbanistica che, in quanto tale, necessita del permesso di
costruire, nella fattispecie mai conseguito (Cass. Sez. 3,
n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017) Palma; Sez. 3, n. 4916
del 13/11/2014 (dep.2015), Agostin) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 10.07.2018 n. 31399 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato:
occorre il permesso di costruire. Una recente sentenza della
Cassazione penale chiarisce quali sono le opere di
trasformazione urbanistica.
“Appare di tutta evidenza che la
realizzazione di una piattaforma con struttura intelaiata in
cemento armato (di circa 60 mq) costituisce senza dubbio
un'opera di trasformazione urbanistica che, in quanto tale,
necessita del permesso di costruire”.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. III penale,
nella
sentenza 10.07.2018 n. 30844 (link a
www.lexambiente.it).
La suprema Corte ha ricordato che “l’art. 10, lett. a),
del d.P.R. 380/01 individua, tra gli interventi edilizi
soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova
costruzione, la cui descrizione viene fornita dall’articolo
3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che
si intendono come tali tutti gli interventi di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti
(che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di
risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da
considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una
serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui
natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le
qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge
dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al
T.U..
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli
eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi
del comma terzo del menzionato articolo 3 e che pertanto, in
relazione all’incidenza sul territorio e sul carico
urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Sono pertanto soggetti a permesso di costruire, sulla base
di quanto disposto dal T.U., tutti gli interventi che,
indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono
sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una
trasformazione in via permanente del suolo inedificato”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
2. L’art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 individua, tra
gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire,
quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene
fornita dall’articolo 3 dello stesso T.U. nella lettera e),
ove si specifica che si intendono come tali tutti gli
interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio non rientranti nelle categorie definite alle
lettere precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di
restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione
edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da
considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una
serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui
natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le
qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge
dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al
T.U.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli
eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi
del comma terzo del menzionato articolo 3 e che pertanto, in
relazione all’incidenza sul territorio e sul carico
urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del
permesso di costruire.
Sono pertanto soggetti a permesso di
costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U., tutti gli
interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di
volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio,
determinando una trasformazione in via permanente del suolo
inedificato (cfr.
Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep.2017), Palma, Rv.
268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini,
Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.G.
in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741; Sez. 3, n. 6930 del
27/01/2004, Iaccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del
21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del
30/09/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf.).
3. Ciò posto, appare di tutta evidenza che
la realizzazione di di una piattaforma con struttura
intelaiata in cemento armato (di circa 60 mq) costituisce
senza dubbio un'opera di trasformazione urbanistica che, in
quanto tale, necessita del permesso di costruire, nella
fattispecie mai conseguito. |
APPALTI SERVIZI: Appalti
sotto soglia, inviti a rotazione. Per garantire PMI e micro imprese.
Per gli appalti di servizi al di sotto dei 221mila euro si applicano
soltanto i principi generali e non le altre e più dettagliate disposizioni
previste per le gare sopra soglia Ue.
E' quanto ha affermato il TAR Puglia-Lecce, Sez. I, con la
sentenza
05.07.2018 n. 1104 in merito
all'affidamento di appalti di servizi di importo inferiore alla soglia di
rilievo europea.
La disciplina della materia è contenuta nell'articolo 36, comma 5 del
decreto 50/2016 che per questo tipo di appalti (servizi) di valore inferiore
a 221mila euro prescrive «il rispetto dei principi di cui agli articoli 30,
comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli
inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità
di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese».
Il richiamo è alla necessità di assicurare «la qualità delle prestazioni»,
lo svolgimento delle attività nel «rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza» e l'affidamento dei contratti
perseguendo «i principi di libera concorrenza, non discriminazione,
trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate
nel presente codice».
Per il Tar, fra le altre cose, quando si parla di economicità si deve fare
riferimento all'uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento
della selezione ovvero nell'esecuzione del contratto; per efficacia, si deve
intendere la congruità dei propri atti rispetto al conseguimento dello scopo
e dell'interesse pubblico cui sono preordinati; la tempestività, significa
non dilatare la durata del procedimento di selezione del contraente in
assenza di obiettive ragioni; per correttezza si guarda ad una condotta
leale ed improntata a buona fede in ogni fase.
Per quanto riguarda la libera concorrenza rileva l'effettiva contendibilità
degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati, mentre
la non discriminazione e parità di trattamento degli operatori economici si
realizza con una valutazione equa ed imparziale dei concorrenti e con
l'eliminazione di ostacoli o restrizioni nella predisposizione delle offerte
e nella loro valutazione (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso non può essere accolto.
Giova premettere il quadro normativo che regola la fattispecie in esame.
L’art. 36, comma 1, del D.Lgs. 50/2016 prescrive che “L'affidamento e
l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie
di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli
articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di
rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare
l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e
medie imprese. Le stazioni appaltanti possono, altresì, applicare le
disposizioni di cui all'articolo 50”.
In forza dell’art. 30, comma 1, del medesimo decreto legislativo,
“l'affidamento e l'esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi,
forniture e concessioni, ai sensi del presente codice garantisce la qualità
delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, tempestività e correttezza. Nell'affidamento degli appalti e
delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di
libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità,
nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”.
Ancora, ai sensi dell’art. 4 del predetto testo normativo: “L'affidamento
dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei
contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione
oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”.
Da dette disposizioni normative consegue che negli appalti di servizi sotto
soglia sono applicabili soltanto i principi stabiliti agli artt. 30, comma
1, 34 e 42 —oltre al principio di rotazione degli inviti e degli
affidamenti— del nuovo codice dei contratti pubblici.
Si tratta, in particolare, dei seguenti principi, come enucleati anche dall'ANAC
nelle sue linee guida sul punto:
a) economicità, ossia l'uso ottimale delle
risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero
nell'esecuzione del contratto;
b) efficacia, cioè la congruità dei propri
atti rispetto al conseguimento dello scopo e dell'interesse pubblico cui
sono preordinati;
c) tempestività, ovvero l'esigenza di non dilatare la
durata del procedimento di selezione del contraente in assenza di obiettive
ragioni;
d) correttezza, consistente in una condotta leale ed improntata a
buona fede, sia nella fase di affidamento sia in quella di esecuzione;
e)
libera concorrenza, che si sostanzia nell'effettiva contendibilità degli
affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati;
f) non
discriminazione e parità di trattamento degli operatori economici, con
conseguente valutazione equa ed imparziale dei concorrenti e l'eliminazione
di ostacoli o restrizioni nella predisposizione delle offerte e nella loro
valutazione;
g) trasparenza e pubblicità, che riguarda la conoscibilità
delle procedure di gara, nonché l'uso di strumenti che consentano un accesso
rapido e agevole alle informazioni relative alle procedure;
h)
proporzionalità, ossia l'adeguatezza e idoneità dell'azione rispetto alle
finalità e all'importo dell'affidamento;
i) sostenibilità energetica ed
ambientale, che attiene alla previsione nei bandi di gara clausole e
specifiche tecniche che contribuiscano al conseguimento degli obiettivi
ambientali ed energetici (ex multis: TAR Milano n. 2232/2017).
Nella fattispecie in esame, gli articoli 48 ed 83 Codice Contratti che parte
ricorrente asserisce essere stati violati, non possono essere applicati, se
non nei limiti in cui espressamente richiamati dalla lex specialis.
In particolare, si rileva che l’art. 48 non risulta mai menzionato né nel
bando di gara né nella lettera di invito, e l’art. 83 limitatamente ai commi
4, 6 e 9.
Ancora, dalla documentazione versata in atti risulta provato che tutte le
imprese costituenti il RTI aggiudicatario possedevano requisiti di fatturato
ben più alti di quelli richiesti dalla Stazione appaltante; che la
mandataria si è impegnata ad eseguire la prestazione in misura
maggioritaria; che i requisiti di professionalità richiesti ricorrevano in
capo a tutti gli operatori economici dell’ATI.
Ritiene pertanto il Collegio che siano stati rispettati i principi di cui
agli articoli 4, 30, 36 del Codice Appalti, oltre alle Linee Guida Anac.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, tutti i motivi di diritto articolati
dal Consorzio Navalmeccanico Tarantino sono infondati; consegue la reiezione
del ricorso. |
EDILIZIA PRIVATA: Rimosso
il gazebo fai-da-te.
La concessione per l'occupazione di suolo pubblico decade automaticamente se
l'esercente non rispetta i limiti dimensionali e le distanze previste dal
codice per il posizionamento di un manufatto sulla sede stradale. Anche se
si tratta di un gazebo realizzato in gran parte a regola d'arte e nel
rispetto delle indicazioni dell'ufficio tecnico comunale.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 04.07.2018 n. 4101.
Un comune pugliese ha disposto la decadenza dell'autorizzazione per
l'occupazione permanente di suolo pubblico a causa della difformità del
manufatto realizzato in tema di distanze, altezze, con scavo abusivo della
sede stradale. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto
censure fino ai giudici di palazzo Spada, ma senza successo.
Il comune che ha accertato la difformità del gazebo rispetto alle previsioni
del codice stradale e del regolamento locale ha esercitato un potere
vincolato. In buona sostanza si tratta di una ipotesi alla quale consegue
automaticamente la decadenza dell'autorizzazione (articolo
ItaliaOggi del 20.07.2018).
---------------
1. Fr.Ra., titolare di autorizzazione all’occupazione di suolo
pubblico per la realizzazione di un dehors a servizio del Bar ... in Bisceglie, ha impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della
Puglia il provvedimento di decadenza di tale occupazione adottato dal Comune
con provvedimento n. 139 del 31.08.2016.
...
6. L’appello è infondato nel merito, il che esime la Sezione dall’esame
della preliminare eccezione di improcedibilità sollevata dal Comune
appellato.
6.1. In primo luogo le censure addotte dall’appellante per la mancata
acquisizione di una c.t.u. da parte del giudice di primo grado e per
l’asserito acritico suo appiattimento sugli accertamenti svolti dagli
comunali non sono favorevolmente apprezzabili, poiché dall’ampia
documentazione versata in atti emerge che gli spazi di rispetto per l’area
data in concessione risultavano pacificamente superati e tra l’altro anche
in difformità delle prescrizioni di cui all’art. 20 d.lgs. n. 285 del 1992
(codice della strada): in particolare lo spazio di due metri richiesto dal
titolo non sussisteva con tutta evidenza e specificamente riguardo all’ansa
nel pubblico marciapiede, ansa funzionale alla posa dei cassonetti per i
rifiuti.
Sul punto l’assunto secondo il quale i cassonetti non erano
presenti ed erano stati rimossi, per cui il Comune sarebbe stato obbligato a
ricostituire il marciapiede secondo le misure ordinarie, è privo di
qualsiasi fondamento giuridico, né d’altra parte è stata fornita alcuna
indicazione in tal senso: non è dato neppure sapere se la rimozione fosse o
meno temporanea, non essendo decisivo il richiamo al mero avvio della
raccolta “porta a porta”, tanto più che quello spazio avrebbe potuto essere
destinato a diverse funzioni di pubblico interesse, senza poi sottacere che
lo “slargo” era preesistente alla concessione in questione.
D’altra parte è anche innegabile che l’altezza del dehors abbia superato
quanto previsto dal titolo: il fatto è ammesso dall’appellante, ma la
giustificazione che la struttura avesse un’altezza “difforme” perché
sollevata dal suolo da una sorta di bordo per l’illuminazione, non solo non
è di per sé convincente, per quanto, non essendo stato, per esempio, fornita
alcuna prova inconfutabile della indispensabilità di quel bordo e quindi
dell’impossibilità di rispettare altrimenti l’altezza consentita, non può
costituire idonea ragione per vanificare i limiti imposti dal titolo.
6.2. In secondo luogo l’appellante si duole del fatto che il tribunale
avrebbe ignorato che il Comune aveva attivato altri due procedimenti di
rimozione dell’autorizzazione, l’uno di revoca per difformità per la
realizzazione di una serie di pannelli di vetro facilmente amovibili e poi
rimossi e l’altro di decadenza per aver deciso una diversa destinazione
dell’area solo pochi mesi dopo il rilascio dell’autorizzazione, rendendo
così abnorme il comportamento complessivo della P.A.
Anche tale censura deve essere respinta.
In disparte ogni considerazione sulla sua autonoma rilevanza ed anche a
voler ammettere che l’amministrazione abbia posto in essere vari
procedimenti per reimpossessarsi dell’area in questione (attività che di per
sé non può essere considerata in astratto illegittima, in carenza di
puntuali e specifici riscontri di fatto), è sufficiente rilevare che i
presupposti e le ragioni che giustificano il provvedimento di decadenza
impugnato con il ricorso introduttivo, come in precedenza già evidenziato,
legittimano in ogni caso il comportamento della P.A. ed il provvedimento
impugnato.
6.3. In terzo luogo l’appellante sostiene che i pannelli contrari alle
previsioni del titolo erano stati rimossi e non riposizionati, come assunto
dal Comune, mentre quanto alle altre difformità, esse erano irrilevanti e
tutte facilmente rimovibili e comunque non avrebbero giustificato di per sé
un provvedimento di decadenza o revoca del titolo concessorio.
Anche questo motivo è infondato.
Fermo quanto già rilevato in ordine alle difformità che hanno giustificato
il provvedimento impugnato, si rileva quanto ai pannelli di vetro (che
sarebbero stati rimossi a seguito delle primi contestazioni) che la
struttura era autorizzata al posizionamento di pannelli in vetro per
l’intero perimetro con un’altezza massima di un metro, laddove nel
sopralluogo di cui alla nota della polizia municipale dell’11.05.2016
gli stessi risultavano sul lato della via Sonnino “a tutta altezza”, quindi
pari all’intero manufatto e nella parete pari a m. 2,45.
Tali rilievi sono stati confermati con ampio corredo fotografico e le
censure in senso contrario contenute nell’atto di appello costituiscono mere
asserzioni prive di qualsiasi supporto probatorio valido a contrastare gli
assunti comunali.
6.4. In quarto luogo l’appellante ha reiterato censure non prese in
considerazione nel primo grado di giudizio e concernenti la non
comprensibilità della normativa applicata e l’oscurità sui presupposti di
fatto del provvedimento, come ad esempio le difformità dell’opera.
Anche a voler prescindere da quanto fin qui rilevato, si deve osservare che
la dichiarazione di decadenza dall’occupazione di suolo pubblico risulta
estremamente dettagliata nell’elencare pedissequamente le difformità del
manufatto rispetto a quanto concesso, difformità reiterate -ad esempio
quanto ai pannelli in vetro- che giustificavano il provvedimento di
decadenza anche in relazione alle previsioni del regolamento regolamento T.o.s.a.p., più volte richiamato, riproduttivo a sua volta di norma statali,
la cui mancata citazione non è decisiva ai fini della pretesa illegittimità
del provvedimento impugnato, risultando pleonastica e meramente formale.
7. Per le suesposte considerazioni l’appello deve dunque essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
L'individuazione della superficie dell'area di
sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di
inottemperanza dell’ordinanza di demolizione non deve essere
contenuta necessariamente in quest’ultimo provvedimento,
bensì, a pena d'illegittimità, nel successivo atto
d'acquisizione gratuita del bene, costituendo quest'ultimo
il titolo per l'immissione in possesso dell'opera e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
---------------
2.2) È infondato anche il motivo di ricorso di cui al punto
1b).
Ancora di recente, nella sentenza n. 1337 del 12.12.2017,
questa Sezione ha affermato: “L'individuazione della
superficie dell'area di sedime da acquisire al patrimonio
del Comune in caso di inottemperanza dell’ordinanza di
demolizione non deve essere contenuta necessariamente in
quest’ultimo provvedimento, bensì, a pena d'illegittimità,
nel successivo atto d'acquisizione gratuita del bene,
costituendo quest'ultimo il titolo per l'immissione in
possesso dell'opera e per la trascrizione nei registri
immobiliari (TAR Torino, sez. I, 28.04.2016 n. 573; TAR
Torino, sez. II, 10.07.2015 n. 1218)”; cfr. anche TAR
Piemonte, sez. II, 21.05.2018 n. 629 (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 04.07.2018 n. 820 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Rup è la figura centrale della gara d’appalto.
Il Responsabile unico del procedimento (Rup) è la figura
centrale nella gestione della gara ed esso esercita tutte le competenze che
non siano espressamente attribuite ad altro soggetto.
Il TAR Veneto, Sez. II, con la
sentenza 27.06.2018 n. 695 chiarisce la portata applicativa
dell'art. 31 del codice dei contratti pubblici e, soprattutto, delle
previsioni contenute nelle linee-guida Anac n. 3, nella parte (paragrafo
5.2.) relativa all'effettuazione delle operazioni di verifica della
documentazione amministrativa, con conseguente adozione dei provvedimenti di
ammissione e di esclusione.
Il caso preso in esame riguardava proprio un provvedimento di esclusione
adottato da un dirigente della stazione appaltante che aveva indetto la
gara, diverso dal Rup della stessa, ma per il quale il bando e il
disciplinare non prevedevano esplicitamente tale competenza, pur riservando
alla figura dirigenziale le attività di verifica della documentazione
amministrativa: l'amministrazione aveva optato per tale soluzione,
sfruttando la possibilità di attribuire lo svolgimento di tali attività a
soggetti diversi dal Rup dettata dalle linee-guida Anac n. 3 e dal
bando-tipo n. 1/2017.
Tuttavia la declinazione delle competenze non può essere generale, bensì
deve individuare chiaramente i compiti svolti dai soggetti diversi dal Rup.
I giudici amministrativi fanno infatti rilevare che l'art. 31, comma 3, del
dlgs. n. 50/2016 stabilisce che il Rup svolge tutti i compiti relativi alle
procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione
previste dal codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri
organi o soggetti.
La giurisprudenza, nell'interpretare tale disposizione, ha stabilito che
essa delinea la competenza del Rup in termini residuali, estendendola anche
all'adozione dei provvedimenti di esclusione delle partecipanti alla gara,
secondo un orientamento consolidato: il Tar Veneto la condivide ed evidenzia
come la disposizione identifichi nel responsabile unico del procedimento il
dominus della procedura di gara. Nell'analizzare il caso, i giudici
amministrativi rilevano che gli atti di gara non esplicitavano in nessuna
parte la competenza del dirigente ad adottare i provvedimenti di ammissione
ed esclusione in luogo del Rup.
Nella sentenza essi evidenziano che l'utilizzo dell'avverbio «specificatamente»
nell'art. 31, comma 3, del dlgs n. 50/2016 impone che tale attribuzione
avvenga in modo specifico, dettagliato, distintamente, affinché si possa
riconoscere che un compito possa e debba essere svolto da un soggetto
diverso dal Rup.
Le stazioni appaltanti, pertanto, possono, sulla base delle linee-guida Anac
n. 3, attribuire la gestione delle operazioni della fase di ammissione a
soggetti diversi dal Rup, ma sono tenute a dettagliare le competenze in modo
puntuale, comprendendo nell'elencazione l'adozione dei provvedimenti di
ammissione o di esclusione dei concorrenti (articolo
ItaliaOggi del 13.07.2018).
---------------
MASSIMA
1.1. Il motivo è fondato nei termini appresso specificati.
1.2. L’art. 31, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
stabilisce che <<il RUP, ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, svolge
tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione,
affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano
specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti>> (il successivo
comma 4 declina in modo puntuale, poi, una serie di compiti del RUP “oltre”
a quelli specificatamente previsti da altre disposizioni del codice).
1.3. La giurisprudenza amministrativa, nell’interpretare il citato art. 31,
comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (il quale, peraltro,
amplia la dizione normativa del previgente art. 10, comma 2, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163), ha stabilito che la disposizione
richiamata delinea la competenza del responsabile unico del procedimento (RUP)
in termini residuali (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 19.10.2017, n. 4884),
competenza che si estende anche all’adozione dei
provvedimenti di esclusione delle partecipanti alla gara, secondo un
orientamento che il Consiglio di Stato ha definito “pacifico” (cfr. Cons.
Stato, sez. III, 19.06.2017, n. 2983 e giurisprudenza ivi richiamata).
Il Collegio ritiene che tali esiti giurisprudenziali -che si condividono e
ai quali si intende dare continuità- ben colgano la volontà del legislatore
(racchiusa nella richiamata disposizione) di identificare nel responsabile
unico del procedimento il dominus della procedura di gara, in quanto
titolare di tutti i compiti prescritti, salve specifiche competenze affidate
ad altri soggetti. Come affermato da Cons. Stato, Comm. spec., 25.09.2017, n. 2040,
anche dopo l’intervento correttivo recato dal decreto
legislativo 19.04.2017, n. 56 resta confermata <<l’assoluta centralità
del ruolo del RUP nell’ambito dell’intero ciclo dell’appalto, nonché le
cruciali funzioni di garanzia, di trasparenza e di efficacia dell’azione
amministrativa che ne ispirano la disciplina codicistica>>.
1.4. Tali conclusioni non sono scalfite dalle previsioni della lex specialis
nella vicenda contenziosa in esame.
Ed invero, il punto H – Procedura di Gara (pag. 17) del disciplinare di gara
stabiliva, testualmente, che <<Il giorno 14.02.2018 alle ore 9.00 e
seguenti, in seduta pubblica, presso il Settore Contratti, Appalti e
Provveditorato in Via N. Tommaseo n. 60 - Padova, si procederà all’apertura
della busta “A- Documentazione amministrativa”. La seduta sarà presieduta da
un dirigente del Settore Contratti, Appalti e Provveditorato o suo delegato.
La valutazione sostanziale sulla completezza e regolarità della
documentazione amministrativa potrà svolgersi in seduta riservata>>.
Ognun vede che in nessun punto della prescrizione riportata è stata
attribuita o riconosciuta al Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato
la competenza ad adottare il provvedimento di esclusione dei concorrenti (e,
dunque, dell’odierno ricorrente nel caso in esame), essendosi limitata la
lex specialis di gara, nella parte di interesse, a stabilire tempi, modalità
e luogo di apertura della busta “A- Documentazione amministrativa”, ad
individuare il soggetto chiamato a “presiedere” la seduta e a precisare che
la valutazione sostanziale sulla completezza e regolarità della
documentazione amministrativa avrebbe potuto svolgersi in seduta riservata.
Si vuol evidenziare, in particolare, che l’utilizzo dell’avverbio
“specificatamente” nell’art. 31, comma 3, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 impone –affinché si possa riconoscere che un compito possa e
debba essere svolto da un soggetto diverso dal RUP- che detta attribuzione
avvenga “in modo specifico, dettagliato, distintamente” (e questo
ragionamento è valevole anche per le previsioni racchiuse nel Regolamento di
organizzazione e ordinamento della dirigenza del Comune di Padova,
richiamate dalla parte resistente a sostegno delle proprie argomentazioni).
Nel caso in esame, dunque, difetta in via radicale una specifica
attribuzione al Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato della
competenza a determinare (le ammissioni e) le esclusioni dei partecipanti
dalla gara, e tale esito ermeneutico è imposto dal canone letterale, che in
relazione all’interpretazione degli atti amministrativi (ivi compresa la lex
specialis di gara) è il mezzo “preminente” (cfr. Cons. Stato, sez. V,
07.02.2018, n. 817; TAR Campania, Napoli, sez. III, 08.06.2018, n.
3884; TAR Umbria, sez. I, 15.02.2018, n. 108), essendo consentito
di discostarsi dall'interpretazione letterale del testo della lex specialis
solo in presenza di una sua obiettiva incertezza (cfr. Cons. Stato, sez. III,
18.06.2018, n. 3715), nella fattispecie assente.
In conclusione, la dovuta prevalenza da attribuire alle espressioni
letterali, se chiare (come nel caso in esame), esclude ogni ulteriore
procedimento ermeneutico per rintracciare pretesi significati ulteriori e
preclude ogni estensione analogica intesa ad evidenziare significati
inespressi e impliciti.
Alla luce di quanto sopra detto non coglie nel segno l’eccezione frapposta
tanto da parte resistente quanto dalla controinteressata secondo cui la
doglianza formulata da parte ricorrente è inammissibile per omessa
impugnazione della predetta disposizione della lex specialis di gara, in
quanto la disposizione in questione -proprio perché il suo contenuto precettivo non implicava l’attribuzione ovvero il riconoscimento della
competenza ad adottare i provvedimenti di ammissione e di esclusione in
favore del Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato- non doveva
essere impugnata.
Infine, sul punto, non può trovare applicazione la disciplina dettata dal
regolamento per la disciplina dei contratti del Comune di Padova (i cui artt.
6, lett. d), e 12 non consentirebbero, comunque, di enucleare la competenza
del Capo Settore Contratti Appalti e Provveditorato o suo delegato in ordine
alla adozione dei provvedimenti di ammissione e di esclusione in relazione
alle procedure ad evidenza pubblica), atteso che, come correttamente
argomentato dalla parte resistente (pag. 6 della memoria in data 13.04.2018), detto regolamento non è richiamato in alcuna parte della
lex
specialis.
1.5. Le conclusioni raggiunte supra, già di per sé sufficienti a ritenere
fondata la censura di incompetenza, sono corroborate dalle Linee Guida n. 3,
di attuazione del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Nomina, ruolo e
compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti
e concessioni» dell’ANAC (approvate dal Consiglio dell’Autorità con
deliberazione n. 1096 del 26.10.2016 e aggiornate al d.lgs. 56 del
19/04/2017 con deliberazione del Consiglio n. 1007 dell’11.10.2017),
secondo le quali (punto 5.2., verifica della documentazione amministrativa
da parte del RUP, richiamato dal successivo punto 8, in relazione ai compiti
del RUP per gli appalti di servizi, forniture e concessioni di servizi) <<Il
controllo della documentazione amministrativa è svolto dal RUP, da un seggio
di gara istituito ad hoc oppure, se presente nell’organico della stazione
appaltante, da un apposito ufficio/servizio a ciò deputato, sulla base delle
disposizioni organizzative proprie della stazione appaltante. In ogni caso
il RUP esercita una funzione di coordinamento e controllo, finalizzata ad
assicurare il corretto svolgimento delle procedure e adotta le decisioni
conseguenti alle valutazioni effettuate>>.
A giudizio del Collegio, le citate Linee Guida n. 3, nella parte richiamata
hanno riservato alla discrezionale valutazione organizzativa delle singole
stazioni appaltanti la scelta se demandare il <<controllo>> della
documentazione amministrativa al RUP, ad un seggio di gara istituito ad hoc
oppure, se presente nell’organico, ad un apposito ufficio/servizio a ciò
deputato; tuttavia, contestualmente, le stesse Linee Guida hanno stabilito
che <<in ogni caso>> (e, quindi, sia quando il controllo della
documentazione amministrativa è svolto dal RUP sia quando è svolto da un
seggio di gara istituito ad hoc oppure da un apposito ufficio/servizio a ciò
deputato) il RUP è chiamato ad esercitare una funzione di <<coordinamento e
controllo, finalizzata ad assicurare il corretto svolgimento delle
procedure>> e ad adottare <<le decisioni conseguenti alle valutazioni
effettuate>>.
Né appaiono persuasive, sul punto, le argomentazioni difensive sviluppate
dalla parte resistente (e avallate dalla parte controinteressata) in ordine
alle indicazioni provenienti dal Bando tipo ANAC n. 1/2017 del 22.12.2017, che al punto 19 (pag. 42) avrebbe valenza interpretativa autentica
della clausola di cui al punto 5.2 delle Linee guida n. 3 ANAC
(espressamente richiamata), da cui emergerebbe come ben possa attribuirsi la
competenza ad emettere i provvedimenti di esclusione in alternativa al RUP o
al seggio di gara istituito ad hoc o “all'apposito ufficio della stazione
appaltante”, quest'ultimo, pertanto, pienamente competente non solo per
quanto riguarda il controllo e la verifica della documentazione
amministrativa, ma anche per quanto riguarda l'adozione dei conseguenti
provvedimenti di esclusione o ammissione alla gara.
La tesi, si ribadisce, non è persuasiva per due ragioni: in primo luogo
perché, come lealmente viene dato atto dalla stessa parte resistente, il
Bando tipo ANAC n. 1/2017 è inapplicabile ratione temporis alla procedura di
gara de qua; in secondo luogo, ed in via tranchant, il Collegio ritiene che
l’affermata “interpretazione autentica” delle Linee guida 3 (che, è bene
ricordarlo, in parte qua contengono “disposizioni integrative della fonte
primaria, in materia […] di competenze di un organo amministrativo": cfr.
Cons. Stato, Comm. Spec., 02.08.2016, n. 1767) non possa essere recata da
un bando tipo (nella fattispecie il n. 1/2017), considerando, peraltro, che
mentre il bando tipo è (motivatamente) derogabile (cfr. art. 71, ultimo
periodo, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), le Linee guida
vincolanti non lasciano <<poteri valutativi nella fase di attuazione alle
amministrazioni e agli enti aggiudicatori, che sono obbligati a darvi
concreta attuazione>> (cfr. cit. Cons. Stato, Comm. Spec., 02.08.2016, n.
1767). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006
individua i soggetti destinatari dell’obbligo di rimozione,
recupero e smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’autore
della violazione in solido con il titolare del diritto di
proprietà, al quale la vicenda sia ascrivibile a titolo di
dolo o di colpa, nei limiti dell’esigibilità.
L’art. 192 predetto esclude dunque l’imputazione oggettiva
della responsabilità, ribadendo che sia accertata quantomeno
la colpa, fermo restando che le autorità amministrative
hanno l’onere di ricercare ed individuare il responsabile
dell’inquinamento (artt. 242 e 244 D.L. vo n. 152/2006).
Alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale prevalente,
gli artt. 244, 245 e 253 del D.Lgs. 152/2006 vanno
interpretati nel senso che, in caso di accertata
contaminazione di un sito e di impossibilità di ottenere dal
soggetto responsabile interventi di riparazione, la pubblica
Amministrazione competente non può imporre al proprietario
non responsabile (che ha solo una responsabilità
patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione
degli interventi di bonifica) l’esecuzione delle misure di
sicurezza d’emergenza e di bonifica.
La giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni che,
in caso di rinvenimento di rifiuti lasciati sul fondo altrui
da ignoti, il proprietario non può essere chiamato a
rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l’elemento soggettivo della
responsabilità.
Ne consegue quale corollario:
• l’insufficienza, ai fini degli obblighi di
rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto
reale o di godimento sulle aree interessate dall'abbandono
dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la
sussistenza dell'elemento psicologico;
• la necessità dell'accertamento della
responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti
interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo;
E', pertanto, censurabile l'operato dell'amministrazione ogni
qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e/o in assenza
di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti
interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o
colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari
per imporre l'obbligo di rimozione dei rifiuti;
Nella stessa ottica, si è anche osservato che l'obbligo di
diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la
responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto, ma solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato.
---------------
Evidenziato:
- che il coinvolgimento del ricorrente durante il sopralluogo –compiuto dai Carabinieri del NOE e da personale del Comune
di Brescia l’01/02/2018 ai fini dell’accertamento dei fatti–
induce a ritenere proficuamente avviato il contraddittorio
procedimentale;
- che la dedotta contraddittorietà non pare sussistere, in quanto
l’ordinanza n. 6 è rivolta al ricorrente e al conduttore
(essendo stato esibito un contratto di locazione), mentre la
n. 7 è indirizzata al solo Sig. -OMISSIS-, che non ha
dimostrato la disponibilità del fondo in capo a soggetti
terzi;
Atteso:
- che l’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 individua i soggetti
destinatari dell’obbligo di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti abbandonati nell’autore della
violazione in solido con il titolare del diritto di
proprietà, al quale la vicenda sia ascrivibile a titolo di
dolo o di colpa, nei limiti dell’esigibilità (TAR
Lombardia Milano, sez. III – 08/03/2018 n. 352);
- che l’art. 192 predetto esclude dunque l’imputazione oggettiva
della responsabilità, ribadendo che sia accertata quantomeno
la colpa, fermo restando che le autorità amministrative
hanno l’onere di ricercare ed individuare il responsabile
dell’inquinamento (artt. 242 e 244 D.L. vo n. 152/2006);
- che, alla stregua dell’insegnamento giurisprudenziale prevalente,
gli artt. 244, 245 e 253 del D.Lgs. 152/2006 vanno
interpretati nel senso che, in caso di accertata
contaminazione di un sito e di impossibilità di ottenere dal
soggetto responsabile interventi di riparazione, la pubblica
Amministrazione competente non può imporre al proprietario
non responsabile (che ha solo una responsabilità
patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione
degli interventi di bonifica) l’esecuzione delle misure di
sicurezza d’emergenza e di bonifica (cfr. TAR Puglia
Lecce, sez. III – 05/03/2018 n. 370, che richiama il proprio
precedente 22/02/2017 n. 325 e la pronuncia del Consiglio di
Stato, adunanza plenaria – 25/09/2013 n. 21);
- che, come sottolineato da TAR Campania Napoli, sez. V –
23/05/2018 n. 3369, “la giurisprudenza ha evidenziato in
numerose occasioni (cfr., ex multis, TAR Campania, Sez.
I, 19.03.2004, n. 3042; Sez. V, 06.10.2008, n. 13004,
10.04.2012, n. 6438, 09.12.2014, n. 1706, 03.02.2015, n. 692,
07.06.2017, n. 3081, 06.02.2018, n. 752; Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.01.2003,
n. 168; Sez. V, 26.01.2012, n. 333, 28.09.2015,
n. 4504) che, in caso di rinvenimento di rifiuti lasciati
sul fondo altrui da ignoti, il proprietario non può essere
chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o
deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non
viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo della
responsabilità”;
Considerato:
- che ne consegue quale corollario (cfr. Consiglio di Stato, sez. V
– 09/05/2018 n. 2786):
• l’insufficienza, ai fini degli obblighi di
rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto
reale o di godimento sulle aree interessate dall'abbandono
dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la
sussistenza dell'elemento psicologico;
• la necessità dell'accertamento della
responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti
interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo;
- che i suddetti principi sono stati recepiti nella sentenza di
questa Sezione 09/08/2017 n. 1011;
- che è, pertanto, censurabile l'operato dell'amministrazione ogni
qualvolta essa ometta di dedurre, in concreto e/o in assenza
di accertamenti eseguiti in contraddittorio con i soggetti
interessati, profili di responsabilità a titolo di dolo o
colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari
per imporre l'obbligo di rimozione dei rifiuti;
- che, nella stessa ottica, si è anche osservato che l'obbligo di
diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole
esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la
responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto, ma solo sopportando un
sacrificio obiettivamente sproporzionato (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV – 15/12/2017 n. 5911);
Rilevato:
- che, con riguardo ai rifiuti rinvenuti sul suolo (in particolare,
veicoli, pneumatici, bi-bags con materiale plastico)
l’amministrazione non ha effettuato un accertamento della
condotta colposa del ricorrente, limitandosi ad addebitare
al medesimo –del tutto genericamente– l’omessa vigilanza
sugli edifici e sui terreni di appartenenza;
- che il Comune non ha addotto né illustrato gli elementi concreti
–anche di tipo presuntivo– che inducono ad affermare una
responsabilità di tipo omissivo;
- che, in senso contrario, il Sig. -OMISSIS- ha prodotto il verbale
della querela presentata ai Carabinieri di Gambara il
07/10/2016, nella quale ha denunciato il suo conduttore
-OMISSIS- in quanto autore dell’occupazione arbitraria di
edifici e pertinenze non contemplate dal contratto di
locazione (nella specie, una porzione di capannone, il
cortile e un ulteriore fabbricato, per 250 mq.);
- che, nella querela, il ricorrente ha dato conto dell’indebito
utilizzo del fondo come deposito di materiali (vecchi
macchinari) e rifiuti di vario genere;
- che, pertanto, l’esponente si era fatto parte diligente
nell’avvertire le autorità della condotta illecita assunta
dal proprio conduttore, oltre ad aver agito in sede
giurisdizionale a causa del mancato pagamento dei canoni di
locazione periodici;
Ritenuto:
- che, in definitiva, il ricorso è fondato sotto il profilo del
deficit istruttorio e motivazionale sull’elemento soggettivo
dell’illecito (dolo o colpa imputabili al proprietario),
limitatamente ai rifiuti speciali e tossico-nocivi
depositati sull’area;
- che, viceversa, il ricorrente (in qualità di proprietario) resta
obbligato ad attivarsi per la messa in sicurezza e/o
rimozione attraverso ditta specializzata della copertura in
eternit del fabbricato di proprietà (in precarie
condizioni), a prescindere dalla concorrente disponibilità
di un terzo;
- che non interferisce su tale obbligo, al riguardo, l’invocato
Piano regionale Amianto sul censimento e sulla mappatura dei
siti coinvolti;
- che egli, altresì, è tenuto a dare attuazione alla prescrizione
che condiziona l’utilizzo dei capannoni ex allevamento
avicolo previo compimento degli indispensabili interventi
volti ad assicurare l’agibilità;
- che, in proposito, è stata emanata un’ordinanza di demolizione
(n. 25 del 07/09/2012) la quale è produttiva di effetti in
quanto impugnata con ricorso straordinario al Capo dello
Stato senza istanza di sospensiva (la causa non è ancora
stata definita);
- che, al momento, l’esecuzione del provvedimento non incontra
ostacolo alcuno;
Evidenziato:
- che, in conclusione, il gravame è parzialmente fondato e merita
accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.06.2018 n. 620 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare,
un utile esiguo non significa offerta anomala.
In sede di gara pubblica, un utile esiguo di per sé solo non equivale a
determinare una anomalia dell'offerta, sebbene costituisca un indice
sintomatico e debba quindi indurre l'amministrazione procedente ad una
verifica accurata dell'equilibrio complessivo dell'offerta.
Così il C.G.A.R.S. con la
sentenza 25.06.2018 n. 368.
La società aggiudicataria impugnava la sentenza del Tar Catania che aveva
deciso di annullare, per via di alcune censure relative ai costi indicati
nell'offerta, l'aggiudicazione di un appalto pubblico avente ad oggetto una
molteplicità di servizi di supporto ad una amministrazione comunale. Il Cga
incaricava l'ispettorato regionale del lavoro di accertare se, tenuto conto
di ribasso d'asta, oggetto dell'appalto e prestazioni richieste, l'offerta
fosse adeguata e sufficiente riguardo al costo del lavoro e al rispetto dei
minimi salariali.
Sulla scorta della verificazione effettuata, e condividendone le valutazioni
il collegio riteneva inopportuna l'applicazione indiscriminata da parte
dell'aggiudicataria del Ccnl multiservizi anche ai servizi cimiteriali e di
autista per il trasporto pubblico locale, poiché relativi al compimento di
attività diverse e più complesse rispetto alle altre oggetto di appalto. E
infatti, nonostante la scelta del contratto collettivo da applicare rientri
nelle prerogative dell'imprenditore, precisa la sentenza, detto potere non
può travalicare il limite della coerenza del contratto collettivo scelto
rispetto all'oggetto dell'appalto.
L'applicazione di un Ccnl coerente con l'oggetto dell'appalto, però,
comportando l'applicazione di tariffe maggiori per tipologie lavorative più
specialistiche, si ripercuote anche sul costo complessivo annuo della
manodopera, con un aumento che, per quanto non elevato in termini assoluti,
deve tener conto di un quadro complessivo caratterizzato da un utile
d'impresa indicato in offerta nell'ordine di poche migliaia di euro,
implicando perciò una rivalutazione sulla sostenibilità dell'offerta
risultata vincitrice della gara.
Sebbene un utile esiguo costituisca solo un indice sintomatico dell'anomalia
dell'offerta inidoneo a determinare alcun automatismo nella relativa
valutazione, infatti, ciò non toglie che il valore di tale utile sia
destinato pur sempre a pesare anche a fronte di successive rideterminazioni
dell'offerta, come quella (che sarebbe) imposta dall'accertamento del
verificatore in ordine al costo della manodopera, divenuto più elevato a
seguito dell'applicazione di un contratto collettivo ritenuto più coerente,
imponendo una verifica accurata dell'equilibrio complessivo dell'offerta
che, come nel caso di specie, può portare all'annullamento
dell'aggiudicazione (articolo
ItaliaOggi dell'11.08.2018). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Compensi,
negligenza neutra. Il comportamento del legale non preclude la parcella. La
Corte di cassazione è intervenuta con ordinanza su un risarcimento del
danno.
Diritto al compenso del professionista e responsabilità: la negligenza non
può essere causa di mancato compenso.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nell'ordinanza
21.06.2018 n.
16342, intervenendo sul ricorso di tre eredi, i quali avevano
convenuto in giudizio il legale che aveva precedentemente difeso il proprio
padre, poi deceduto, in una causa di risarcimento danni derivanti da
sinistro stradale, per chiederne la condanna.
In particolare, affidandosi a tre motivi di censura, i ricorrenti
lamentavano la negligenza nello svolgimento della prestazione non avendo
l'avvocato provveduto a riassumere il giudizio di risarcimento danni nei
termini indicati dal giudice.
Secondo i giudici della III sezione civile,
però, il ricorso appariva inammissibile non cogliendo «la ratio sottostante
alla decisione impugnata» che, viceversa, appariva «del tutto congrua e
completa»: «il fatto che il diritto a ulteriori somme si sia prescritto per
inattività processuale determinatasi a causa dell'inerzia del
professionista, non significa che l'azione intentata per farlo valere fosse
fondata in tutti i suoi presupposti».
L'accertamento della responsabilità
del legale per avere fatto maturare il termine di prescrizione spiegano sul
punto presuppone che venga individuata non solo la condotta che si assume
essere stata negligente, «ma anche il danno che ne è derivato come
conseguenza della condotta, in quanto nell'azione civile di risarcimento del
danno l'affermazione della responsabilità non può essere disgiunta
dall'accertamento della determinazione di un effettivo danno».
Ora, la
prestazione di un avvocato, continuano, si configura come obbligazione di
mezzi: il che significa che il cliente che recede dal contratto d'opera è
comunque tenuto al compenso per l'opera svolta, «indipendentemente
dall'utilità che ne sia derivata», salvo espressa deroga da parte dei
contraenti. Nel caso di specie, tuttavia, non poteva ravvisarsi
«un'automatica perdita del diritto al compenso» non essendo stata dimostrata
la sussistenza di una condotta negligente causativa di un effettivo danno.
Così argomentando gli ermellini hanno condannato i ricorrenti anche al
pagamento delle spese di giudizio (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Da eliminare il manufatto che disturba la viabilità.
Spetta al sindaco ordinare la rimozione di un cancello posizionato da un
privato a margine della sua proprietà ma interferente con l'uso pubblico
della strada comunale. E non importa se nel frattempo l'interessato abbia
avviato anche un'azione di carattere civilistico per dimostrare l'avvenuta
sdemanializzazione di quel tratto di strada.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
18.06.2018 n. 3725.
Il sindaco di un piccolo borgo della Calabria ha ordinato ad un cittadino di
rimuovere un cancello di ferro che limitava la circolazione sulla strada
comunale. Contro questa ordinanza l'interessato ha proposto censure ai
giudici amministrativi ma senza successo. E contemporaneamente ha avviato
anche una causa di carattere civile per ottenere il riconoscimento
dell'avvenuta sdemanializzazione della strada in oggetto.
A parere dei
giudici di palazzo Spada questa azione civile non interferisce con la
conclusione del giudicato amministrativo. Siccome la strada appartiene al
demanio pubblico il sindaco ha giustamente attivato un'azione di tutela
finalizzata ad evitare che le condotte del privato possano limitare l'uso
pubblico della strada (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.07.2018).
---------------
MASSIMA
6. Nel merito, come accennato in precedenza, nel proprio appello il sig.
Cl. reitera gli assunti a base del ricorso di primo grado, e cioè che il
tratto di strada su cui ha apposto il cancello oggetto dell’ordine di
rimozione impugnato è ormai da molti anni sottratto all’uso pubblico.
A questo riguardo l’appellante sottolinea che il tratto di strada in
questione è un vicolo cieco, privo di illuminazione e segnaletica, di cui
egli solo ha curato la manutenzione negli ultimi decenni e che tutto ciò si
evince dalla circostanza che l’apposizione del cancello risale agli anni
’70.
7. Tanto premesso queste deduzioni in fatto, se in ipotesi possono
determinare l’accoglimento dell’azione civilistica, non sono invece in grado
di condurre all’annullamento dell’ordinanza impugnata. Quest’ultima risulta
infatti legittimamente fondata sulla circostanza, che il sig. Cl. non
contesta nemmeno nel presente appello, e che anzi è presupposta nella
domanda di sdemanializzazione dallo stesso proposta, che la strada è
pubblica.
8. Sulla base di questa circostanza, come già statuito dal giudice di primo
grado, il potere di autotutela demaniale, ai sensi
dell’art. 378 l. 20.03.1865, n. 2248, allegato F, deve ritenersi tuttora
permanente e dunque legittimamente esercitato nel caso di specie.
La giurisprudenza amministrativa formatasi con riguardo alla disposizione di
legge da ultimo menzionata è infatti costante nell’affermare che
il potere in questione non è riducibile all’azione possessoria
privatistica (artt. 1168 e ss. cod. civ.) e che a base di esso vi è la
finalità di ripristinare la disponibilità del bene pubblico in favore della
collettività, quest’ultima non sia stata esercitata in via di fatto e quali
ne siano le cause (di recente:
Cons. Stato, V, 30.04.2015 n. 2196; VI, 26.04.2018, nn. 2519 e 2520).
L’autotutela demaniale si correla pertanto al regime
dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di
disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l’esigenza di “reagire”
rispetto a condotte appropriative di carattere privato.
9. Per le ragioni ora esposte l’appello deve quindi essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Appaltatori, responsabilità circoscritta.
“Per i difetti della costruzione derivanti da vizi ed inidoneità del suolo,
anche quando gli stessi siano eventualmente ascrivibili alla imperfetta od
erronea progettazione fornitagli dal committente, l'appaltatore risponde
anche solo per difetto dell'ordinaria diligenza”.
Così la Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella
sentenza 12.06.2018, n. 15321.
Nell'ipotesi di specie la ditta appaltatrice cui era stata commissionata la
costruzione di un immobile era stata ritenuta corresponsabile per i danni da
questo riportati in seguito alla mancata previsione dell'innalzamento della
falda acquifera sottostante l'edificio al tempo dell'esecuzione del
fabbricato.
La Cassazione precisa che all'appaltatore è richiesto l'impiego delle
conoscenze e dei mezzi idonei per l'esecuzione della propria obbligazione
consistente nella realizzazione dell'opera esente da vizi e difformità.
Secondo i giudici di legittimità la presunzione di responsabilità stabilita
dal legislatore in capo all'appaltatore per la rovina e i difetti degli
immobili deve essere superata dimostrando che la causa dei difetti sia
riconducibile ad un fatto fortuito non prevedibile dall'appaltatore.
La sentenza in esame mette in evidenza che rispondono, assieme
all'appaltatore, anche i soggetti (progettista, direttore dei lavori), che
partecipando a vario titolo all'esecuzione della costruzione, abbiano
concorso a determinare i difetti dell'opera.
La Cassazione ritiene che l'indagine relativa alle caratteristiche
geologiche del terreno su cui deve sorgere la costruzione rientri tra i
compiti dell'appaltatore, in quanto l'esecuzione a regola d'arte di una
costruzione richiede necessariamente che il progetto sia compatibile con la
natura e la consistenza del suolo edificatorio.
Secondo la sentenza nelle ipotesi di difetti delle costruzioni che dipendono
dalla inidoneità del suolo l'appaltatore “può andare esente da
responsabilità solamente laddove nel caso concreto le condizioni geologiche
non risultino accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze e procedure
“normali” avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità
dell'attività esercitata”.
La sentenza ritiene, inoltre, che “l'appaltatore, dovendo assolvere al
proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al
particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle
sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal
committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da
responsabilità soltanto se dimostri di aver manifestato il proprio dissenso
e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le
insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo. Pertanto, in
mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità
contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera
garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera senza poter invocare
l'eventuale concorso di colpa del progettista o del committente, né
l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal
direttore dei lavori” (articolo
ItaliaOggi Sette del 06.08.2018).
---------------
MASSIMA
11. Cominciando l'esame delle complessive censure dalla prima
formulata nell'interesse del ricorrente principale, rileva il collegio che
essa è infondata e deve, perciò, essere rigettata.
In effetti, dalla motivazione della sentenza di appello, si evince che il
Gh.Pi., quale appaltatore (così come il Po. quale progettista), non aveva
assolto sufficientemente all'onere probatorio incombentegli per superare la
presunzione di cui all'art. 1669 c.c., non avendo dedotto e riscontrato
alcun evento concreto ed idoneo tale da poter far ricondurre la causa dei
vizi e difetti lamentati dalla Ca. in un fatto fortuito, del tutto fuori dal
controllo e dalla prevedibilità dell'appaltatore stesso, non potendosi
qualificare in tal senso la mancata previsione della risalita di falda per
effetto delle valorizzate ed univoche risultanze istruttorie, emergenti
anche alla stregua della disposta c.t.u..
In altri termini, la Corte bresciana, a mezzo della conferente valutazione
delle complessive risultanze probatorie acquisite, oltre ad accertare la
gravità degli inconvenienti subìti dall'edificio della committente
(oltretutto non contestati nella loro oggettività), ha desunto concreti e
concordanti elementi che avrebbero dovuto indurre l'appaltatore (ma anche il
direttore dei lavori ed il progettista, donde l'affermabilità della loro
responsabilità in concorso, su cui infra: v., ad es., Cass. n. 14650/2012 e
Cass. n. 17874/2013) a considerare l'effettiva prevedibilità dei fenomeno
idrogeologico, peraltro noto nella zona, consistito, nella fattispecie,
nella risalita della falda acquifera (cfr. Cass. n. 19868/2009).
Pertanto, la Corte territoriale, lungi dal procedere ad una indebita
inversione dell'onere della prova (come, invece, dedotto nell'interesse del
Gh.), ha, in conformità all'uniforme indirizzo della giurisprudenza di
questa Corte (cfr., ex multis, Cass. n. 3756/1999; Cass. n. 1154/2002
e Cass. n. 1026/2013), legittimamente sostenuto che la
presunzione stabilita dal citato art. 1669 c.c. deve essere superata
mediante la specifica ed univoca dimostrazione della carenza di
responsabilità in capo all'appaltatore, la quale va supportata attraverso
l'allegazione ed il riscontro di fatti positivi, precisi e concordanti, i
quali, invero, non sono stati, nella fattispecie, comprovati dal ricorrente
appaltatore, essendo, al contrario, emersa la prova inversa della
corresponsabilità dello stesso alla luce delle complessive risultanze
istruttorie acquisite e compiutamente valutate dal giudice di secondo grado,
che non sono sindacabili nella presente sede di legittimità.
Deve, perciò, trovare conferma, in questa sede, il principio già affermato
da questa Corte secondo cui, in ordine alla costruzione di
opere edilizie, l'indagine sulla natura e consistenza del suolo edificatorio
rientra, in mancanza di diversa previsione contrattuale, tra i compiti
dell'appaltatore, trattandosi di indagine -implicante attività conoscitiva
da svolgersi con l'uso di particolari mezzi tecnici- che al medesimo, quale
soggetto obbligato a mantenere il comportamento diligente dovuto per la
realizzazione dell'opera commessagli con conseguente obbligo di adottare
tutte le misure e le cautele necessarie ed idonee per l'esecuzione della
prestazione secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso
concreto utile a soddisfare l'interesse creditorio, spetta assolvere
mettendo a disposizione la propria organizzazione, atteso che lo specifico
settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede la
specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono
tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'opera, sicché è onere
del medesimo predisporre un'organizzazione della propria impresa che
assicuri la presenza di tali competenze per poter adempiere l'obbligazione
di eseguire l'opera immune da vizi e difformità.
In altri termini, poiché l'esecuzione a regola d'arte di
una costruzione dipende dall'adeguatezza del progetto alle caratteristiche
geologiche del terreno su cui devono essere poste le relative fondazioni e
la validità di un progetto di una costruzione edilizia è condizionata dalla
sua rispondenza alle caratteristiche geologiche del suolo su cui essa deve
sorgere, il controllo da parte dell'appaltatore va esteso anche in ordine
alla natura e consistenza del suolo edificatorio.
Ne consegue che per i difetti della costruzione derivanti
da vizi ed inidoneità del suolo -anche quando gli stessi siano eventualmente
ascrivibili alla imperfetta od erronea progettazione fornitagli dal
committente- l'appaltatore risponde (in tal caso prospettandosi l'ipotesi
della responsabilità solidale con il progettista, a sua volta responsabile
nei confronti del committente per inadempimento del contratto d'opera
professionale ex art. 2235 c.c.) anche solo per difetto dell'ordinaria
diligenza, potendo andare esente da responsabilità (che si presume ai sensi
dell'art. 1669 c.c.) solamente laddove nel caso concreto le condizioni
geologiche non risultino accertabili con l'ausilio di strumenti, conoscenze
e procedure "normali" avuto riguardo alla specifica natura e alle
peculiarità dell'attività esercitata
(circostanza, questa, della prevedibilità di tale rischio, rimasta esclusa
nel caso di specie sulla base delle congrue valutazioni compiute dalla Corte
di appello fondate sulle univoche risultanze della c.t.u.).
12. Anche il secondo motivo formulato dal ricorrente principale è
privo di fondamento giuridico e va respinto.
La Corte di appello di Brescia -sempre ponendo riferimento ai riscontri
adeguatamente scaturiti dall'espletata c.t.u.- ha accertato, in modo
conferente, che la carenza dei requisiti termoigrometrici -riconducibile ad
uno scarso isolamento termico, per le pareti realizzate con termo-laterizio
tipo "Poroton"- non potesse essere giustificata dalla circostanza che
tale pratica costruttiva fosse diffusa, in quanto, nella specie, per come
emergente sulla base della relazione dello stesso c.t.u., le caratteristiche
di coibentazione del materiale non avrebbero potuto reggere nel tempo; in
altre parole, la scelta dei laterizi avrebbe dovuto considerare anche i
fattori concomitanti e, in ogni caso, il luogo di ubicazione del costruendo
edificio.
Del resto, l'appaltatore, dovendo assolvere al proprio
dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare
lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue
cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal
committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da
responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso
e di essere stato indotto ad eseguirle, quale "nudus minister", per
le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo.
Pertanto, in mancanza di tale prova
(che difetta nel caso in esame), l'appaltatore è tenuto, a
titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di
risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera
(riconducibili, nella concreta fattispecie, in via principale alla
prevedibile dannosità della risalita della falda acquifera, da correlare ad
una negligente indagine della natura e della consistenza del suolo
edificatorio, imputabile anche allo stesso appaltatore)
senza poter invocare l'eventuale concorso di colpa del progettista o del
committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni
impartite dal direttore dei lavori
(cfr., ad es., Cass. n. 8016/2012 e Cass. n. 23594/2017, ord.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Consiglieri,
accessi on-line. LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA.
Il diritto all'accesso e all'informazione del consigliere comunale può
spingersi fino al possesso delle credenziali informatiche del protocollo
dell'Ente e del programma di contabilità, per una accessibilità persino da
postazioni non interne (e certificate) alla casa comunale?
Segnatamente, ai
sensi dell'art. 43, co. 2, Tuel, i consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio
mandato.
A tal fine, ai sensi dell'art. 2, co. 1, del Codice della
amministrazione digitale, le amministrazioni devono assicurare la
disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e
la fruibilità dell'informazione in digitale e si organizzano e agiscono
utilizzando le modalità più appropriate e adeguate al soddisfacimento degli
interessi degli utenti, mediante le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione.
A giudizio del Consiglio di Stato -Sez. V-
sentenza
08.06.2018 n. 3486,
da tali presupposti normativi deriva che la fruibilità dei dati e delle
informazioni in digitale deve essere garantita con procedure appropriate
alla specifica finalità informativa e consone alla tecnologia disponibile.
Grava sull'amministrazione l'approntamento e la valorizzazione di idonee
risorse tecnologiche, che appaiano in grado di ottimizzare, in una logica di
bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
Nella medesima ottica interpretativa, a giudizio del TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza
31.05.2018 n.
531, la richiesta del consigliere comunale di accedere al protocollo
informatico, mediante il possesso delle chiavi di accesso telematico,
rappresenta condizione per l'esercizio consapevole del diritto di accesso,
in modo che questo si svolga non attraverso una apprensione generalizzata e
indiscriminata degli atti dell'amministrazione comunale, ma mediante una
selezione degli oggetti degli atti di cui si chiede l'esibizione.
Per poter operare in tal senso la possibilità di accedere non direttamente
al contenuto della documentazione, ma ai dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica del protocollo è appropriata e proporzionata e, per
ciò stesso, legittima (articolo
ItaliaOggi del 27.07.2018).
---------------
MASSIMA
1.- L’appello è fondato e merita di essere accolto.
2.- Il Comune di Castellabate, con delibera di giunta comunale n. 99 del
04.06.2015, ha disciplinato le modalità di accesso ai documenti
amministrativi ed al sistema informatico di contabilità comunale da parte
dei consiglieri comunali, segnatamente prevedendo –al dichiarato fine di
massimizzare la facilità dell’accesso secondo modalità tecniche compatibili
con le risorse dell’ente– l’istituzione, all’interno della casa comunale, di
una postazione telematica certificata per l’accesso ai dati contabili, come
tale agevolmente consultabile da tutti i consiglieri.
3.- L’appellante assume, peraltro, l’insufficienza delle ridette modalità
organizzative, rivendicando la concessione della facoltà di accesso anche da
autonome postazioni remote, mediante rilascio di apposite credenziali (user
id e password) e, per tal via, senza la limitazione riconnessa al
necessario ricorso alla postazione fisica predisposta nei locali comunali.
A fondamento della pretesa (che –con ogni evidenza– non concerne l’an,
ma esclusivamente il quomodo della ostensione) valorizza la direttiva
emergente dalla complessiva digitalizzazione dei dati amministrativi (ex
d.lgs. n. 82/2005) e la correlativa logica della massima semplificazione ed
agevolazione delle modalità del relativo accesso, alla luce della miglior
tecnologia disponibile.
4.- Per parte sua, l’Amministrazione premette, in fatto, di non disporre,
allo stato, di un sistema in grado di garantire l’accesso da remoto (ciò che
sarebbe confermato da apposita dichiarazione resa dalla società incaricata
della gestione dei propri software) e ritiene, in ogni caso, adeguata,
sufficiente e proporzionata, in diritto, la messa a disposizione in loco di
postazioni dedicate.
5.- Ciò posto, in via preliminare va disattesa l’eccezione di
inammissibilità, proposta ed argomentata dal Comune appellato, correlata
alla mancata impugnazione della delibera di Giunta Comunale n. 99 del
04.06.2015, con cui era stato disciplinato e regolamentato il diritto di
accesso agli atti.
Sul punto, giova puntualizzare che, per comune
intendimento, il giudizio in materia di accesso, anche se si atteggia come
impugnatorio nella fase della proposizione del ricorso, in quanto rivolto
contro l'atto di diniego o avverso il silenzio-diniego formatosi sulla
relativa istanza ed il ricorso è da esperire nel termine perentorio di
trenta giorni, è sostanzialmente rivolto all’accertamento la sussistenza o
meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei
parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza
delle ragioni addotte dall'amministrazione per giustificarne il diniego
(cfr., ex permultis, Cons. Stato, V, 07.11.2008, n. 5573).
Se ne desume che la mancata impugnazione delle disposizioni
regolamentari (per giunta,
suscettibili, in quanto tali di disapplicazione: cfr. Cons. Stato, IV,
23.02.2009, n. 1074), non costituisce per definizione
ragione di inammissibilità del ricorso.
6.- Tanto premesso, osserva il Collegio che, ai sensi
dell’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 (recante il Testo unico degli enti
locali), “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere
dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle
loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro
possesso, utili all'espletamento del proprio mandato”.
A tal fine, le amministrazioni “assicurano la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale
fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al
soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell'informazione
e della comunicazione” (cfr. art. 2, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, recante
il c.d. Codice dell’amministrazione digitale).
La direttiva emergente dalle richiamate disposizioni è senz’altro nel senso:
a) che la fruibilità dei dati e delle informazioni in modalità
digitale debba essere garantita con modalità adeguate (alla precipua
finalità informativa) ed appropriate (alla tecnologia disponibile);
b) che –secondo un corrispondente e sotteso canone di
proporzionalità– grava sull’amministrazione l’approntamento e la
valorizzazione di idonee risorse tecnologiche, che –senza gravare
eccessivamente sulle risorse pubbliche– appaiano in grado di ottimizzare, in
una logica di bilanciamento, le esigenze della trasparenza amministrativa.
In siffatta prospettiva, l’Amministrazione non ha dimostrato, neanche nella
presente sede, che il costo della predisposizione di un software adeguato a
consentire (mediante il rilascio di credenziali certificate e
personalizzate) l’accesso da postazioni remote sia concretamente
sproporzionato (a fronte dei costi comunque necessari all’approntamento ed
alla conservazione di una postazione fisica dedicata, all’interno dei locali
dell’ente) ed economicamente esorbitante rispetto alla rivendicata finalità
informativa.
All’incontro, dovrà considerarsi che –nel complessivo quadro delle risorse
finanziarie destinate ai mezzi informatici– il costo imputabile alla
acquisizione ed alla implementazione di idoneo software si palesa,
notoriamente, non irragionevolmente superiore ai costi delle dotazioni
informatiche.
Deve, per tal via, opinarsi, in difformità della valutazione sul punto
espressa dai primi giudici, che la emergente e duplice direttiva del
doveroso approntamento e del costante adeguamento delle tecnologie
disponibili, ai fini di un migliore, efficace e funzionale accesso ai dati,
milita per il riconoscimento del carattere indebitamente compressivo della
limitazione di fatto frapposta alla pretesa ostensiva della ricorrente.
In riforma della impugnata statuizione, il ricorso merita, in definitiva, di
essere accolto, con consequenziale ordine alla intimata Amministrazione di
apprestare, entro il termine ragionevole di sessanta giorni decorrenti dalla
comunicazione della presente statuizione, le modalità organizzative per il
rilascio di password per l’accesso da remoto al sistema informatico (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza
08.06.2018 n. 3486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Si compensa solo per 3 motivi. Soccombenza reciproca, lite
inedita, giurisprudenza. CASSAZIONE/ La sesta
sezione civile della Suprema corte fissa una serie di paletti.
Si compensa solo per 3 motivi La compensazione tra le parti delle spese di
lite può avvenire solo per tre motivi: per soccombenza reciproca, motivi di
lite inediti e mutamento della giurisprudenza.
Lo chiariscono i giudici della VI Sez. civile della Corte suprema di
Cassazione, nell'ordinanza
06.06.2018 n. 14624,
che ha esaminato una lite sul piano della legittimità circa le spese di lite
da attribuire a una, o all'altra parte, se non a entrambe.
Tutto nasce da
una contestazione lamentata davanti a un giudice di pace: un uomo opponeva
resistenza per una multa rilasciata per divieto di sosta avendo parcheggiato
la propria automobile su una banchina, giustificando però la mancanza di
adeguate linee di demarcazione a terra.
A quel punto il giudice di pace
accolse le sue motivazioni, decidendo però di compensare le spese tra le
parti chiamate in causa, l'uomo e il comune di Lucca, che però chiese la
totalità di esenzione delle spese di giudizio presso le porte del
Palazzaccio di Roma.
I giudici, radunati in consiglio, accolsero il ricorso
dell'uomo relativamente alla compensazione «anomale» delle spese di lite.
«Il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per
intero», spiegano i porporati di piazza Cavour, «soltanto se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione
trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni
dirimenti».
Questo perché sul piano logico-giuridico la normativa «è stata
esplicitamente volta a introdurre regole più rigide in ordine al potere di
compensazione delle spese di lite, in modo da disincentivare l'abuso del
processo. Questa scelta politica è stata perseguita pervenendo a una
tassativa tipizzazione delle ipotesi che consentono la legittima
compensazione delle spese, ipotesi ormai limitate, oltre che alla situazione
di soccombenza reciproca, a quella di «assoluta novità della questione
trattata» (ovvero di assenza di precedenti giurisprudenziali in argomento) e
di «mutamento della giurisprudenza nelle questioni dirimenti» (ovvero di
novità della interpretazione prescelta dal giudice rispetto a un pregresso
consolidato orientamento)».
Da qui l'accoglimento del ricorso, con spese di
lite cassate (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.07.2018).
---------------
MASSIMA
Il primo motivo di ricorso è fondato, e il suo accoglimento
assorbe l'esame dei restanti due motivi di censura.
Trattandosi di procedimento introdotto il 06.06.2015, trova applicazione
l'art. 92, comma 2, c.p.c., come sostituito dall'art. 13, d.l. 12.09.2014,
n. 132, modificato in sede di conversione dalla l. 10.11.2014, n. 162 (testo
invero operante per i procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo
giorno successivo all'entrata in vigore della citata legge di conversione).
In forza di tale norma, il giudice può compensare le spese tra le parti,
parzialmente o per intero, soltanto se vi è soccombenza reciproca ovvero nel
caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della
giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Come veniva affermato pure nella Relazione illustrativa al disegno di legge
di conversione del d.l. 12.09.2014, n. 132, tale ennesimo
intervento normativo in materia di spese processuali è stato esplicitamente
volto ad introdurre regole più rigide in ordine al potere di compensazione
delle spese di lite, in modo da disincentivare l'abuso del processo.
Questa scelta politica è stata perseguita pervenendo ad una
tassativa tipizzazione delle ipotesi che consentono la legittima
compensazione delle spese, ipotesi ormai limitate, oltre che alla situazione
di soccombenza reciproca, a quella di "assoluta novità della questione
trattata" (ovvero di assenza di precedenti giurisprudenziali in
argomento) e di "mutamento della giurisprudenza nelle questioni dirimenti"
(ovvero di novità della interpretazione prescelta dal giudice rispetto ad un
pregresso consolidato orientamento).
Ne discende che, a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale di Lucca,
l'art. 92, comma 2, c.p.c.,
come sostituito dall'art. 13, d.l. n. 132 del 2014, modificato dalla l. n.
162 del 2014, legittima la compensazione delle spese, ove
non sussista reciproca soccombenza, soltanto in caso di assoluta novità
della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle
questioni dirimenti, ipotesi non
ravvisabili nel sol fatto che sia stato prospettato dal giudice un dubbio
sulla sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa di un contestato
illecito amministrativo, potendo tale dubbio incidere sulla valutazione
preventiva di fondatezza, o meno, della spiegata opposizione, e non invece
rilevare in sede di regolazione delle spese processuali. |
APPALTI:
No al subentro se al concorrente sono venuti a mancare i
requisiti. GARE/ Il Tribunale amministrativo di
Reggio Calabria respinge il ricorso.
In tema di gare ad evidenza pubblica, è legittimo il diniego di subentro per
l'affidamento del completamento dei lavori ai sensi dell'art. 140 dlgs n.
163/2006, qualora il concorrente interpellato con scorrimento della
graduatoria non sia più in possesso dei requisiti di ammissione e
partecipazione alla gara.
Così si è pronunciato il TAR Calabria-Reggio Calabria con la
sentenza
05.06.2018 n. 318, rigettando il ricorso proposto
dall'impresa interpellata a seguito dell'impossibilità di aggiudicare
l'appalto al primo classificato, nel contempo chiarendo come non sia nemmeno
possibile sopperire alla sopravvenuta carenza dei citati requisiti mediante
il ricorso all'avvalimento, pena la violazione del generale principio della
par condicio dei concorrenti.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, una società concorrente
impugnava il provvedimento con il quale, in ragione della sopravvenuta
carenza dei requisiti di ammissione e partecipazione alla gara, era stato
negato il subentro ai sensi dell'art. 140 dlgs n. 163/2006 nell'appalto di
progettazione e costruzione di un edificio scolastico, e ciò nonostante
l'impresa avesse comunicato alla stazione appaltante di voler sopperire alla
riscontrata carenza attraverso l'istituto dell'avvalimento.
Il Tar, chiamato a risolvere la controversia, ha chiarito come la fase
procedimentale dell'interpello costituisca un segmento dell'unica procedura
di affidamento avviata con la pubblicazione del bando, con la conseguenza
che i requisiti di partecipazione, attesa l'unicità e l'inscindibilità del
procedimento selettivo, devono essere ininterrottamente posseduti dal suo
avvio fino alla sua conclusione, o quanto meno, al fine di privilegiare la
massima partecipazione alle procedure di gara, al momento della
presentazione dell'offerta originaria e all'atto della conferma di
quest'ultima nella fase di interpello ex art. 140 del più volte citato dlgs.
n. 163/2006. Ciò a garanzia della permanenza della serietà e della volontà
dell'impresa di presentare un'offerta credibile.
Per quanto concerne la possibilità di integrare i requisiti di ammissione e
partecipazione alla gara, prosegue la sentenza, il ricorso all'avvalimento
configurerebbe una modificazione dell'offerta idonea a procurare un
vantaggio competitivo al partecipante, il quale potrebbe tentare di
ottimizzare la sua offerta per meglio far fronte a quella dei suoi
concorrenti nella procedura di aggiudicazione dell'appalto. Siffatta
integrazione, inoltre, costituirebbe una violazione al principio di parità
di trattamento, che impone che tutti i concorrenti dispongano delle medesime
possibilità nella formulazione dei termini delle offerte e che queste siano
soggette alle medesime condizioni per tutti i concorrenti. Senza
tralasciare, infine, la distorsione che si arrecherebbe alla sana ed
effettiva concorrenza tra le imprese che partecipano ad un appalto pubblico.
In definitiva, nella fase di interpello ex art. 140 dlgs. n. 163/2006,
costituente appendice dell'originaria procedura di gara, non possono essere
effettuate modificazioni dell'offerta né in senso oggettivo né in senso
soggettivo, con la conseguenza che l'introduzione dell'avvalimento in tale
ambito, nonostante l'ampia portata dell'istituto e la sua finalizzazione a
consentire la massima partecipazione alle procedure di affidamento dei
pubblici appalti, si porrebbe in contrasto con il principio generale di
parità di trattamento (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.07.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Abuso
di dati personali, il dato è in re ipsa.
È in re ipsa il danno derivante dal trattamento illecito
dei dati personali del dipendente da parte del datore di lavoro, a meno che
quest'ultimo non dimostri che la lesione arrecata sia irrilevante e che
abbia adottato tutte le cautele per prevenire la loro conoscibilità e
diffusione: lo ha precisato la
Corte di Cassazione, Sez. I civile, nell'ordinanza
04.06.2018 n. 14242.
Intervenuta sul ricorso di un'agenzia dello Stato, condannata in primo grado
al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto da un suo dipendente a
seguito della diffusione di notizie riguardanti la propria sfera personale,
la Corte ha avuto modo di chiarire che «i danni cagionati per effetto del
trattamento dei dati personali in base all'art. 15 del dlgs 30.06.2003,
n. 196, sono assoggettati alla disciplina di cui all'art. 2050 cod. civ.,
con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il
nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre spetta al
convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il
danno».
Si tratta, quindi, di un danno, sia esso patrimoniale che non
patrimoniale, da considerare in re ipsa, salvo il fatto che il danneggiante
dimostri che sia un danno irrilevante o bagattellare, ovvero che il
danneggiato abbia tratto vantaggio dalla pubblicazione dei dati.
Gli interessi lesi attraverso un trattamento illecito dei dati personali,
spiegano ancora i giudici della I sezione civile, «rappresentano
diritti-interessi inviolabili del danneggiato», i quali assumono un rilievo
talmente evidente da comportare l'inversione dell'onere della prova: il non
aver adottato tutte le misure idonee ad evitare una simile dispersione «si
rivela in sostanza come una violazione delle regole di correttezza e di
liceità le quali sono finalizzate a bilanciare la libertà di chi tratta i
dati con la preservazione della sfera del danneggiato». Ovviamente,
concludono, spetterà sempre al giudice valutare se il danno debba essere
risarcito in quanto lesivo di diritti «la cui violazione non debba e non
possa essere tollerata dal danneggiato».
Così argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso e condannato l'agenzia
al pagamento delle spese processuali (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018).
---------------
MASSIMA
2. Con il secondo motivo di ricorso (violazione degli artt. 2050,
2697, 2729 c.c. e 15 del d.lgs. n. 196 del 2003 in relazione all'art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.) il ricorrente censura la decisione di merito che ha
accolto la domanda pur non essendo stata fornita la prova del danno non
patrimoniale nonché del nesso causale tra la violazione ed il danno
lamentato.
2.2. Il motivo è infondato.
Con tale motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per aver
riconosciuto il diritto al risarcimento del danno senza aver svolto alcun
accertamento dell'esistenza di tale danno nonché del nesso di causalità tra
il trattamento dei dati personali ed il danno patito.
A riguardo va premesso che la sola circostanza che i dati
siano stati utilizzati dal titolare o da chiunque in modo illecito o
scorretto non idonea di per sé a legittimare l'interessato a richiedere il
risarcimento del danno non patrimoniale.
Ed invero "Il danno non patrimoniale risarcibile ai
sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30.06.2003, n. 196 (cosiddetto codice della
privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla
protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall'art.
8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e
della "serietà del danno" (quale perdita di natura personale effettivamente
patita dall'interessato), in quanto anche per tale diritto opera il
bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui il
principio di tolleranza della lesione minima è intrinseco precipitato,
sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera
violazione delle prescrizioni poste dall'art. 11 del codice della privacy ma
solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva"
(Cass., n. 16133/2014).
Ed inoltre "I danni cagionati per effetto del
trattamento dei dati personali in base all'art. 15 del d.lgs. 30.06.2003, n.
196, sono assoggettati alla disciplina di cui all' art. 2050 cod. civ., con
la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il
nesso di causalità con l'attività di trattamento dei dati, mentre spetta al
convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il
danno" (Cass., n. 18812/2014).
La fattispecie delineata dai due commi dell'art. 15 del
d.lgs. n. 196 del 2003 pone quindi due presunzioni: quella
secondo la quale il danno è da addebitare a chi ha trattato i dati personali
o a chi si è avvalso di un altrui trattamento a meno che egli non dimostri
di avere adottato tutte le misure idonee per evitarlo ai sensi dell'art.
2050 c.c. e quella secondo la quale le conseguenze non patrimoniali
di tale danno —sia esso di natura contrattuale che extracontrattuale— sono
da considerare in re ipsa a meno che il danneggiante non dimostri che
esse non vi sono state ovvero che si tratta di un danno irrilevante o
bagatellare ovvero ancora che il danneggiato abbia tratto vantaggio dalla
pubblicazione dei dati.
Presunzioni, queste, che varranno sia nel caso in cui il
danneggiante sia il titolare del trattamento che nel caso in cui egli sia un
"chiunque", dato che gli interessi lesi di volta in volta attraverso
un trattamento illecito, rappresentando diritti-interessi inviolabili del
danneggiato, assumono un rilievo talmente evidente da comportare
l'inversione dell'onere della prova; non a caso tale presunzione sull'an
del danno non patrimoniale legata alla violazione delle regole di liceità
correttezza è rafforzata proprio dal richiamo da parte del legislatore al
concetto di attività pericolosa.
Ed infatti il danno maggiormente connaturato all'illecito trattamento è
proprio quello non patrimoniale sicché il non avere adottato le misure
idonee ad evitarlo si rivela in sostanza come una violazione delle regole di
correttezza e di liceità le quali sono finalizzate a bilanciare la libertà
di chi tratta i dati con la preservazione della sfera del danneggiato.
Ovviamente, spetterà pur sempre al giudice dunque valutare, sulla base vuoi
delle allegazioni del danneggiato, vuoi di semplici presunzioni, e tenendo
conto dell'eventuale prova contraria fornita dal danneggiante, se il danno
debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti la cui violazione non
debba e non possa essere tollerata dal danneggiato.
Una volta ritenuto pertanto che il bene violato faccia parte di quei valori
fondamentali ovvero dei diritti inviolabili della persona, il giudice dovrà
disporre che il danno debba essere risarcito, quanto meno in via equitativa,
salvo la prova contraria addotta dal danneggiante.
Ciò premesso, dalla lettura della sentenza impugnata, sia pure in forma
sintetica, si evince chiaramente come una volta ritenuta l'illecita lesione
del diritto alla riservatezza del ricorrente mediante la diffusione di dati
giudiziari inerenti alla sua persona, il giudicante ha ritenuto ricorrendo a
presunzioni semplici ("è presumibile, senza alcun dubbio") che tale
condotta abbia provocato nel ricorrente "un senso di forte turbamento e
vergogna".
Una volta ritenuto provato il danno lo stesso è stato poi liquidato in via
equitativa.
Orbene la sentenza impugnata, in linea con i principi enunciati, una volta
accertata l'illegittimità della condotta posta in essere dall'Agenzia delle
Dogane, ha ritenuto provato il danno parimenti dando atto che l'Agenzia
delle Dogane non ha allegato né provato alcunché circa l'adozione di cautele
volte a prevenire la conoscibilità dei dati.
Il conclusione il ricorso va rigettato. |
EDILIZIA PRIVATA: Usi
civici, regioni fuori gioco. Inalienabili i beni su cui gravano. Come quelli
demaniali.
Il regime degli usi civici rientra nella materia dell'ordinamento civile, di
competenza esclusiva dello stato. Le regioni non possono dunque invadere
tale competenza esclusiva, nonostante il dpr 616/1977 abbia trasferito agli
enti territoriali le funzioni amministrative in materia. Ne consegue che un
bene gravato da uso civico non può essere oggetto di alienazione al di fuori
delle ipotesi tassative previste dalla legge.
Lo ha stabilito la Corte
Costituzionale nella
sentenza
31.05.2018 n. 113, depositata ieri in cancelleria
(redattore Aldo Carosi) che ha ritenuto illegittima la normativa della
regione Lazio (legge n. 1/1986 come modificata dalla legge n. 6/2005) che
consentiva l'alienazione dei terreni di proprietà collettiva di uso civico.
Una facoltà di cui si era avvalsa un'associazione agraria per promettere in
vendita a una società privata un terreno di proprietà collettiva di uso
civico divenuto edificabile a seguito del rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria da parte del comune di Valmontone.
A sollevare la questione di legittimità costituzionale è stato il
commissario per la liquidazione degli usi civici per le regioni Lazio,
Umbria e Toscana. E nelle more del giudizio, il comune aveva rilasciato il
permesso di costruire in sanatoria, determinando, secondo quanto previsto
dalla norma impugnata, la classificazione e la conseguente alienabilità
dell'area.
Nel ritenere fondata la questione di legittimità per violazione dell'art. 117
Cost., la Corte ha ricordato che «l'ordinamento civile si pone quale limite
alla legislazione regionale, in quanto fondato sull'esigenza, sottesa al
principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio
nazionale l'uniformità della disciplina dettata per i rapporti
interprivati».
Secondo la Consulta «la disposizione censurata, nel disporre la descritta
alienabilità, introduce una limitazione ai diritti degli utenti non prevista
dalla normativa statale in materia». «La norma regionale censurata», ha
proseguito la Corte, «opera, dunque, nell'ambito della materia
dell'«ordinamento civile» di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l),
Cost. e ne va di conseguenza dichiarata l'illegittimità costituzionale».
I giudici delle leggi hanno chiarito che l'art. 66 del dpr n. 616 del 1977,
che ha trasferito alle regioni soltanto le funzioni amministrative in
materia di usi civici, «non ha mai consentito alla regione» e non consente
oggi, nel mutato contesto della riforma del Titolo V, «di invadere, con
norma legislativa, la disciplina dei diritti, estinguendoli, modificandoli o
alienandoli».
«Un bene gravato da uso civico», ha concluso la Corte, «non può essere,
infatti, oggetto di alienazione al di fuori delle ipotesi tassative previste
dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il particolare
regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un
bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una
cosiddetta sdemanializzazione di fatto.
L'incommerciabilità derivante da
tale regime comporta che la preminenza di quel pubblico interesse, che ha
impresso al bene immobile il vincolo dell'uso civico stesso, ne vieti
qualunque circolazione» (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
APPALTI: Gare,
presidente libero. Compatibile la direzione di unità operativa.
Il Tar Napoli aderisce all’interpretazione data dall’Anac nel
2017.
Non sussiste alcun profilo di incompatibilità relativamente al presidente
della commissione di gara che durante il corso della procedura sia stato
nominato direttore della Uoc acquisizione beni e servizi, unità operativa
avente funzioni di amministrazione attiva sul contratto oggetto di gara,
qualora lo stesso non abbia partecipato alla stesura del bando.
Così si è pronunciato il TAR Campania-Napoli, V Sez., con la
sentenza
30.05.2018 n. 3587, chiarendo
come la dedotta incompatibilità del presidente della commissione
giudicatrice non fosse assistita da elementi di fondatezza, atteso che il
presidente non aveva partecipato alla stesura della lex specialis, né
sussistevano elementi concreti circa la violazione dell'imparzialità della
gara e la limitazione della libertà nella formulazione delle offerte.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, una società impugnava la
delibera di aggiudicazione della procedura di gara per l'affidamento del
servizio di vigilanza armata e sorveglianza non armata di una struttura
pubblica, deducendo la violazione delle regole in tema di autonomia,
indipendenza e terzietà della commissione di gara di cui l'art. 77, c. 4,
dlgs 18.04.2016, n. 50.
Il suddetto motivo di ricorso si basava sulla
presunta incompatibilità del presidente della commissione di gara, nominato
durante il corso della procedura direttore della Uoc acquisizione beni e
servizi, unità operativa avente funzioni di amministrazione attiva (stipula
dei contratti, controllo della esecuzione del servizio, richiesta dei
servizi, pagamento dei corrispettivi) su tutti i contratti di fornitura di
beni e servizi della stazione appaltante e, dunque, anche sul contratto
oggetto di ricorso.
Il Tar ha evidenziato, infatti, come l'art. 77, c. 4, dlgs 18.04.2016,
n. 50 abbia esclusivamente lo scopo di garantire la libertà di elaborazione
delle offerte e, in seconda istanza, l'imparzialità della valutazione delle
stesse, a tutela tanto dei concorrenti quanto della stazione appaltante,
impedendo che i medesimi soggetti possano influire sul contenuto del
servizio da aggiudicare e sul risultato della procedura di gara.
Il principio di imparzialità dei componenti del seggio di gara, prosegue il
Collegio, va pertanto declinato nel senso di garantire loro la cosiddetta
virgin mind, ossia la totale mancanza di un pregiudizio nei riguardi dei
partecipanti alla gara stessa che, nell'ipotesi di specie, non appare messa
in discussione, dal momento che il presidente della commissione, solo
successivamente nominato direttore della Uoc acquisizione beni e servizi,
non aveva partecipato alla predisposizione del bando di gara.
Il Tar, in definitiva, ha aderito all'interpretazione del disposto dell'art.
77, c. 4, dlgs n. 50 del 2016 fatta propria dall'Anac con delibera n. 436
del 27.04.2017, secondo cui occorre comunque tenere presente, al fine di
evitare forme di automatica incompatibilità a carico del responsabile unico
del procedimento, quell'approccio interpretativo di minor rigore della norma
fornito nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa.
L'eventuale
situazione di incompatibilità con riferimento alla funzione di commissario
di gara e presidente della commissione giudicatrice deve essere valutata in
concreto, verificando la capacità di incidere sul processo formativo della
volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l'esito (articolo
ItaliaOggi Sette del 23.07.2018). |
VARI: Il
cittadino ha facoltà di arrestare il delinquente.
Un cittadino ha la piena facoltà di poter arrestare un delinquente.
Lo chiarisce la II Sez. penale della Suprema corte di Cassazione nella
sentenza
28.05.2018 n. 23901, che ha esaminato un
particolare ricorso da parte del procuratore della repubblica del tribunale
di Savona.
Questo perché il giudice monocratico, nel 31 gennaio di
quest'anno, non aveva convalidato l'arresto di un uomo perché operato da un
cittadino durante un tentativo di rapina. Da qui la querelle che si è
protratta sino alle porte del Palazzaccio di Roma, dove i porporati di
piazza Cavour hanno esaminato il ricorso accogliendo i motivi di doglianza
del procuratore generale della Repubblica, redigendo il tutto in forma
semplificata considerando la peculiarità della lite.
Pertanto gli ermellini
hanno chiosato che «il ricorso è fondato», perché «va escluso, secondo
quanto testualmente riportato nel verbale di arresto, che ci si trovi
dinanzi a un'ipotesi in cui il privato non abbia proceduto all'arresto ma si
sia limitato a invitare il presunto reo ad attendere l'arrivo degli organi
di polizia», proseguono i giudici, «in quanto si fa espresso riferimento a
un intervento con cui si adoperava per far cessare la presunta rapina».
Quindi l'operato del cittadino è stato intenzionale per bloccare il
tentativo di rapina, procedendo a un arresto autonomo e provvidenziale,
«mentre altri si assicuravano che l'aggressore rimanesse sul posto sino
all'arrivo della polizia».
Soprattutto perché «sussistevano ex ante gli
elementi fattuali da cui poteva ragionevolmente desumersi la commissione, ai
danni della vittima, del delitto di rapina e, dunque, legittimarsi, ai sensi
dell'articolo 383 del codice di procedura penale, l'arresto facoltativo del
privato», spiegano i magistrati supremi in punto di diritto, «in quanto
l'esclusione del fine di profitto non poteva ricavarsi in quel momento né
dal movente riferito».
Avendo argomentato su tutta la linea, la Corte
suprema di cassazione ha infine sciolto il dubbio sul piano della
legittimità, confermando la sentenza «annullata senza rinvio l'ordinanza di
non convalida impugnata, dichiarandosi legittimo l'arresto operato dai
privati e la successiva consegna alla polizia» (articolo
ItaliaOggi Sette del 23.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze, chiarimenti sulla deroga per le costruzioni erette
a confine con piazze e vie pubbliche.
Le norme relative alle distanze non si applicano alle
costruzioni erette a confine con le piazze e le vie
pubbliche: in tal caso si devono osservare le leggi e i
regolamenti per esse specificamente dettati.
Ai sensi dell’art. 879, comma 2, del
Codice civile, le norme relative alle distanze non si
applicano alle costruzioni erette a confine con le piazze e
le vie pubbliche, dovendosi in tal caso osservare le leggi e
i regolamenti per esse specificamente dettati.
Lo ha precisato la IV Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 24.05.2018 n. 3098, nella quale Palazzo
Spada ricorda che “secondo la Cassazione civile (cfr., ex
plurimis, Cass. civ. Sez. II, 12.02.2016, n. 2863), la
norma, esplicitamente riferita al caso di due fondi privati
separati da via pubblica, è a fortiori applicabile quando la
costruzione (nella specie un’edicola realizzata sul
marciapiede) è edificata su suolo pubblico”.
Nel medesimo senso, il Consiglio di Stato “ha fatto
osservare che la deroga prevista dall’art. 879, comma 2,
c.c., discende dalla considerazione che in presenza di una
strada pubblica non emerge tanto l'esigenza di tutelare un
diritto soggettivo privato, quanto quella di perseguire il
preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico, che trova la sua disciplina esclusivamente
nelle leggi e nei regolamenti urbanistico edilizi (Sez. IV,
14.12.2016, n. 5264)”.
In definitiva, conclude Palazzo Spada, “poiché l’edicola
è stata realizzata su suolo pubblico ed è accorpata ad
un’opera funzionale all’esercizio di un servizio pubblico,
ricorre obiettivamente una delle ipotesi per cui, sia in
base alle disposizioni codicistiche che a quelle
regolamentari vigenti nel Comune di Barga, era possibile
derogare alle disposizioni relative alle distanze dai
confini da osservarsi nelle nuove costruzioni”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
3. L’appello è fondato.
3.1. Va anzitutto premesso che, ai sensi
dell’art. 879, comma 2, c.c., le norme relative alle
distanze non si applicano alle costruzioni erette a confine
con le piazze e le vie pubbliche, dovendosi in tal caso
osservare le leggi e i regolamenti per esse specificamente
dettati.
Secondo la Cassazione civile (cfr., ex plurimis,
Cass. civ. Sez. II, 12.02.2016, n. 2863),
la norma, esplicitamente riferita al caso di due fondi
privati separati da via pubblica, è a fortiori
applicabile quando la costruzione (nella specie un’edicola
realizzata sul marciapiede) è edificata su suolo pubblico.
Nello stesso senso, questo Consiglio ha fatto osservare che
la deroga prevista dall’art. 879, comma 2, c.c.,
discende dalla considerazione che in presenza di una strada
pubblica non emerge tanto l'esigenza di tutelare un diritto
soggettivo privato, quanto quella di perseguire il
preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
urbanistico, che trova la sua disciplina esclusivamente
nelle leggi e nei regolamenti urbanistico edilizi
(Sez. IV, 14.12.2016, n. 5264).
3.2. Nel caso di specie, risultano poi dirimenti le delibere
di Giunta n. 130/2002 e n. 182/2002, nonché il tenore (e la
finalità) dell’art. 9.10 del Regolamento edilizio all’epoca
vigente nel Comune di Barga.,
Dalla delibera di Giunta n. 130 del 28.05.2002 risulta che “il
totale rifacimento della piazza sui cui insiste l’edicola ha
consigliato l’Amministrazione a richiedere al concessionario
la sostituzione del manufatto per adeguarlo, sotto l’aspetto
estetico, al nuovo circostante arredo urbano” e che “in
tale contesto la stessa amministrazione comunale ha
richiesto al concessionario di gestire gli adiacenti
gabinetti pubblici da anni inutilizzati proprio per carenza
di manutenzione, pulizia e gestione”.
Inoltre “il concessionario ha aderito alla richiesta
dell’Amministrazione comunale, indicando nuove condizioni in
relazione all’alto costo dell’intervento facendosi carico
anche della ristrutturazione dei servizi igienici pubblici
che andranno a formare una unica struttura con l’edicola”.
La Giunta ha quindi ritenuto di “dover attuare nelle
forme sopraindicate l’opera pubblica ricomprendendovi anche
l’edicola per la connessione con i servizi igienici di cui
sopra”.
Contestualmente, risulta essere stata rilasciato un nuovo
atto di concessione di suolo pubblico, “redatto in
conseguenza della nuova superficie concessa e necessaria
alla posa in opera di un manufatto che esteticamente si
adegui alla nuova piazza”.
La delibera si conclude con l’autorizzazione dell’originaria
concessionaria a presentare il progetto relativo al nuovo
manufatto e dà atto che l’intervento costituisce “per una
parte opera pubblica e per la parte residuale opera di
pubblica utilità”.
Il progetto risulta essere stato approvato, sempre dalla
Giunta, con la successiva delibera n. 182 del 26.07.2002.
Tale sequenza procedimentale rende evidente:
- che il rifacimento dell’edicola è stato sollecitato dal Comune
nel quadro della risistemazione della piazza IV Novembre;
- che è stato deliberato anche il rifacimento dei servizi igienici
pubblici, accorpandoli con l’edicola;
- che il titolare dell’edicola (nonché concessionario del suolo
pubblico) si è contestualmente impegnato a garantire la
gestione dei servizi igienici pubblici.
E’ quindi vero che l’edicola, come fatto osservare dal primo
giudice, non è un manufatto precario e che ospita un
attività commerciale.
Egli ha tuttavia non adeguatamente valutato che, insistendo
il manufatto sul suolo pubblico ed essendo stato fisicamente
accorpato ad un’opera incontestabilmente pubblica,
ricorrevano tutti i presupposti per applicare l’art. 9.10
del Regolamento edilizio, secondo cui “il Sindaco, previa
deliberazione del Consiglio comunale, ha facoltà di derogare
dalle disposizioni del presente Regolamento e da quelle dei
vigenti strumenti urbanistici limitatamente ai casi di
edifici ed impianti pubblico o di interesse pubblico”,
con la precisazione che (ultimo capoverso, punto 2): “per
edifici ed impianti di interesse pubblico debbono intendersi
quelli che, indipendentemente dalla qualità dei soggetti che
li realizzano, enti pubblici o privati, siano destinati a
finalità di carattere generale”.
Non è poi un caso che, nella fattispecie, gli elaborati
progettuali siano stati approvati dalla stessa Giunta che
aveva programmato la ristrutturazione dell’edicola e dei
servizi igienici pubblici quali opere funzionali alla nuova
sistemazione della piazza laddove, ove si fosse trattato di
rilasciare un normale permesso di costruire, sarebbe stato
sufficiente l’intervento del dirigente competente.
In definitiva, poiché l’edicola è stata
realizzata su suolo pubblico ed è accorpata ad un’opera
funzionale all’esercizio di un servizio pubblico, ricorre
obiettivamente una delle ipotesi per cui, sia in base alle
disposizioni codicistiche che a quelle regolamentari vigenti
nel Comune di Barga, era possibile derogare alle
disposizioni relative alle distanze dai confini da
osservarsi nelle nuove costruzioni.
4. Per quanto appena argomentato, l’appello deve essere
accolto, con il conseguente rigetto, in riforma della
sentenza gravata, del ricorso di primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla questione se
il diniego del permesso di costruire in parziale sanatoria e
l’ordine di demolizione delle opere abusive sarebbero
viziati per difetto di legittimazione del destinatario
poiché
erroneamente indirizzati al sig. ... in proprio e non, invece, nella qualità di
amministratore unico e legale rappresentante della .... s.a.s..
Il sig. Sa. è
amministratore unico e socio accomandatario della società
proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita
semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto
modo di affermare che “L'attività svolta della società in
accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al
ricorrente, socio accomandatario e suo legale
rappresentante, non rilevando pertanto la mancata
indicazione della qualità per cui la sanzione è stata
direttamente notificata al ricorrente, in ragione della
confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente
responsabile e la società medesima”.
Inoltre, in una tale situazione, deve ragionevolmente
ritenersi che il destinatario sia in grado di apprezzare la
lesività del provvedimento, sia come persona fisica, che
come socio della società.
Nel condividere integralmente e fare propri tali indirizzi,
il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto del
presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a produrre
effetti anche nei confronti della società è dimostrata non
solo –sul piano astratto– dai profili di confusione
patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza richiamata, ma
anche dalla circostanza che -in concreto– è stato proprio il
sig. Sa. a determinare la commistione tra l’attività svolta
per sé e quella esercitata per Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di costruire in parziale sanatoria,
benché presentata dal sig. Sa. in nome proprio, è stata
infatti avanzata per conto e a beneficio della società. E’
perciò del tutto incongruo ritenere che la stessa società,
che ben avrebbe potuto beneficiare dell’esito favorevole
dell’istanza, non sia invece tenuta a sopportare le
conseguenze della conclusione negativa dell’iter.
---------------
10. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono
di seguito.
11. Con il primo motivo i ricorrenti allegano che il
provvedimento impugnato, recante il diniego del permesso di
costruire in parziale sanatoria e l’ordine di demolizione
delle opere abusive, sarebbe viziato per difetto di
legittimazione del destinatario. Ciò in quanto la nota
comunale sarebbe erroneamente indirizzata al sig. Cr.Sa. in proprio, e non invece nella qualità di
amministratore unico e legale rappresentante di Im.Qu.Og. s.a.s.
11.1 Al riguardo, occorre anzitutto rilevare che il sig.
Sa. aveva presentato in nome proprio la domanda di
permesso di costruire in parziale sanatoria, qualificandosi
come proprietario.
11.2 Ciò posto, nessuna illegittimità è ravvisabile nel
provvedimento impugnato.
Deve tenersi presente, infatti, che il sig. Sa. è
amministratore unico e socio accomandatario della società
proprietaria dell’immobile, che è una società in accomandita
semplice.
E, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza ha già avuto
modo di affermare che “L'attività svolta della società in
accomandita semplice è invero direttamente riconducibile al
ricorrente, socio accomandatario e suo legale
rappresentante, non rilevando pertanto la mancata
indicazione della qualità per cui la sanzione è stata
direttamente notificata al ricorrente, in ragione della
confusione patrimoniale tra il soggetto illimitatamente
responsabile e la società medesima (cfr. TAR Campania,
Napoli, n. 927/2015)” (così TAR Abruzzo, L'Aquila, 09.08.2016, n. 482).
Inoltre, in una tale situazione, deve
ragionevolmente ritenersi che il destinatario sia in grado
di apprezzare la lesività del provvedimento, sia come
persona fisica, che come socio della società (Cons. Stato,
Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426).
11.3 Nel condividere integralmente e fare propri tali
indirizzi, il Collegio rileva inoltre che, nel caso oggetto
del presente giudizio, l’idoneità del provvedimento a
produrre effetti anche nei confronti della società è
dimostrata non solo –sul piano astratto– dai profili di
confusione patrimoniale rilevati dalla giurisprudenza
richiamata, ma anche dalla circostanza che -in concreto– è
stato proprio il sig. Sa. a determinare la commistione
tra l’attività svolta per sé e quella esercitata per
Im.Qu.Og. s.a.s.
L’istanza di permesso di
costruire in parziale sanatoria, benché presentata dal sig.
Sa. in nome proprio, è stata infatti avanzata per conto
e a beneficio della società. E’ perciò del tutto incongruo
ritenere che la stessa società, che ben avrebbe potuto
beneficiare dell’esito favorevole dell’istanza, non sia
invece tenuta a sopportare le conseguenze della conclusione
negativa dell’iter.
11.4 Il motivo va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il locale studio e il locale w.c. abusivamente
realizzati non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato,
ma consistono ampliamenti al di fuori della sagoma
originaria.
Tali opere
non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti
meramente accessori e serventi all’edificio, privi di
incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani
aggiunti all’originario edificio, con corrispondente
incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura
pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste
dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al
fabbricato preesistente.
A ben vedere, infatti, i ricorrenti
distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per
sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma
accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi
rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto
successivamente a un edificio, purché di dimensioni
contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del
presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non
sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende
proprio dal fatto che esso viene a costituire parte
integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e
la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il
carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le
quali non possono consistere in porzioni costitutive del
medesimo immobile cui dovrebbero servire.
---------------
Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali
aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno
titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”,
trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della
sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R.
n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo
20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla
disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e
non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si
riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia
(oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
---------------
E' stata
presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere
eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente,
perciò, ad aver qualificato le opere come un unico
intervento edilizio abusivo.
L’istanza non può, pertanto, essere valutata in
modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è
consentito al Comune prendere in considerazione singole
porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di
attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di
“manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo
intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato.
---------------
12. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale si
sostiene, sotto diversi profili, che le opere abusive non
sarebbero soggette alla sanzione demolitoria.
12.1 I ricorrenti affermano, anzitutto, che il locale studio
e il locale w.c. costituirebbero mere pertinenze, contenute
entro il limite del venti per cento del fabbricato
principale, per le quali non sarebbe richiesto il rilascio
del permesso di costruire.
Conseguentemente, si tratterebbe
di abusi non soggetti alla sanzione della demolizione, ma
soltanto a quella pecuniaria prevista dall’articolo 37 del d.P.R. n. 380 del 2011 per le opere realizzate in assenza di
denuncia (oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.1.1 Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che le opere in
esame non sono qualificabili come pertinenze del fabbricato,
ma consistono in ampliamenti al di fuori della sagoma
originaria, come correttamente allegato dalla difesa
comunale e come chiaramente risulta dagli elaborati
progettuali depositati agli atti del giudizio. Tali opere
non hanno portato, infatti, alla realizzazione di manufatti
meramente accessori e serventi all’edificio, privi di
incidenza sul carico urbanistico, ma costituiscono vani
aggiunti all’originario edificio, con corrispondente
incremento della relativa superficie lorda di pavimento.
Né potrebbe ritenersi, in senso contrario, che la natura
pertinenziale di tali locali discenda dalle loro modeste
dimensioni e dal fatto che non siano autonomi rispetto al
fabbricato preesistente. A ben vedere, infatti, i ricorrenti
distorcono la nozione di pertinenza –che presuppone, per
sua natura, la realizzazione di un manufatto distinto, ma
accessorio rispetto al fabbricato principale– facendovi
rientrare qualunque incremento volumetrico aggiunto
successivamente a un edificio, purché di dimensioni
contenute.
Tuttavia, nei casi come quello oggetto del
presente giudizio, la circostanza che il vano aggiuntivo non
sia autonomo rispetto all’immobile principale dipende
proprio dal fatto che esso viene a costituire parte
integrante di tale immobile, incrementandone la superficie e
la volumetria. Circostanza, questa, che di per sé esclude il
carattere dell’accessorietà, tipico delle pertinenze, le
quali non possono consistere in porzioni costitutive del
medesimo immobile cui dovrebbero servire.
12.1.2 Esclusa, pertanto, la qualificazione di tali locali
aggiuntivi quali mere pertinenze, essi rientrano a pieno
titolo tra gli interventi di “nuova costruzione”,
trattandosi di ampliamenti del fabbricato all'esterno della
sagoma esistente (articolo 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R.
n. 380 del 2001).
Si tratta, conseguentemente, di opere per le quali era
richiesto il permesso di costruire, ai sensi dell’articolo
20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e, come tali, soggette alla
disciplina sanzionatoria di cui al successivo articolo 31, e
non invece alle previsioni dell’articolo 37, che si
riferisce agli interventi realizzati in assenza di denuncia
(oggi segnalazione certificata) di inizio attività.
12.2 Non merita accoglimento neppure la seconda censura
articolata nel secondo motivo, con la quale i ricorrenti
lamentano che il Comune non avrebbe potuto ordinare la
demolizione delle opere di divisione interne, in quanto
qualificabili come mero intervento di manutenzione
straordinaria e, come tali, ammesse dalla disciplina
urbanistica dettata dal PRG per gli edifici incompatibili
con la destinazione della zona “M”, quale è il fabbricato
residenziale sul quale le opere sono state eseguite.
12.2.1 Al riguardo, deve infatti osservarsi che –come
correttamente evidenziato dalla difesa comunale– è stata
presentata un’unica domanda di sanatoria per tutte le opere
eseguite senza titolo. E’ la stessa parte richiedente,
perciò, ad aver qualificato le opere come un unico
intervento edilizio abusivo.
L’istanza non avrebbe potuto, pertanto, essere valutata in
modo parcellizzato dall’Amministrazione, poiché non è
consentito al Comune prendere in considerazione singole
porzioni dell’unico progetto di sanatoria, al fine di
attribuire solo a una parte delle opere la qualificazione di
“manutenzione straordinaria”, estrapolandole dal complessivo
intervento di “ampliamento” denunciato dall’interessato. E,
d’altro canto, l’adozione di un’ordinanza di demolizione
riferita all’abuso nella sua interezza, per come dichiarato
dal privato, costituisce una mera conseguenza del diniego
dell’accertamento di conformità.
12.2.2 Tale esito, peraltro, non preclude la presentazione
di una nuova istanza, al fine di regolarizzare la sola parte
dell’intervento che si ritenga eventualmente conforme alla
disciplina urbanistica, eseguendo, per il resto, l’ordinanza
di demolizione.
12.3 Da ciò il rigetto di tutte le censure articolate con il
secondo motivo di impugnazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è
legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria
di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale)
può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi
sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un
requisito dal quale non può prescindersi ai fini del
rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d.
“sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del
titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera
abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente–
finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi
previsione normativa e che pertanto non può ritenersi
ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio
di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere
tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla
stregua del principio di nominatività, poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere
di attribuzioni riservate all’Amministrazione”.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in
considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo
è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in
presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello
strumento urbanistico.
---------------
14. Non può, poi, darsi rilievo all’allegata conformità
delle opere rispetto al vigente PGT, dedotta con il quarto
motivo di ricorso.
14.1 Al riguardo, deve anzitutto rilevarsi che il PGT è
entrato in vigore in un momento successivo non solo alla
realizzazione dell’abuso, ma anche della presentazione della
domanda di sanatoria.
14.2 Ciò posto, deve escludersi la possibilità che l’opera
abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del
solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici
vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è
legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria
di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St.,
Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n.
3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101)
può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi
sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”
(così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un
requisito dal quale non può prescindersi ai fini del
rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d.
“sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del
titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera
abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente–
finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi
previsione normativa e che pertanto non può ritenersi
ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio
di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere
tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla
stregua del principio di nominatività, poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere
di attribuzioni riservate all’Amministrazione” (Cons. Stato,
Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in
considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce
sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione,
anche in presenza di una sopraggiunta modificazione
favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V,
17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
14.3 Anche il quarto motivo di ricorso va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istanza presentata al Comune ha
ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire a
parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta
istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario
permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n.
12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di
cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un
ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è
finalizzata alla sanatoria di opere abusive.
---------------
L'arti. 36
dpr 380/2001 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da
tempo chiarito che la previsione normativa determina la
formazione legale e automatica di un provvedimento di
diniego una volta decorso il termine stabilito.
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte
istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego
formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza.
In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a
volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque
ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato
rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in
base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione
che espressamente preveda il termine come perentorio,
comminando la perdita della possibilità di azione da parte
dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione
della decadenza, il termine stesso deve intendersi come
meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento
non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice
irregolarità non viziante”.
---------------
15. Con il quinto motivo di impugnazione, i ricorrenti
deducono la violazione del termine per provvedere,
richiamando la disciplina del rilascio del permesso di
costruire di cui all’articolo 38 della legge regionale n. 12
del 2005.
15.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che, nel caso
oggetto del presente giudizio, il superamento del termine
per provvedere è ontologicamente inconfigurabile.
L’istanza presentata al Comune, e che ha condotto
all’emanazione del provvedimento impugnato, aveva, infatti,
ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire a
parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta
istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario
permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n.
12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di
cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione,
quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito
sottratto alla legislazione regionale, in quanto è
finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost.
n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36
stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da
tempo chiarito che la previsione normativa determina la
formazione legale e automatica di un provvedimento di
diniego una volta decorso il termine stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
06.06.2008, n. 2681).
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte
istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego
formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla
nuova determinazione negativa assunta espressamente
dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
15.2 In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a
volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme
procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque
ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato
rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in
base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione
che espressamente preveda il termine come perentorio,
comminando la perdita della possibilità di azione da parte
dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione
della decadenza, il termine stesso deve intendersi come
meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento
non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice
irregolarità non viziante” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012, n. 1084).
15.3 Anche il quinto e ultimo motivo di impugnazione va,
perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di
risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento
amministrativo presuppone, logicamente, che un ritardo sia
configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in
presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo,
quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente
giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in
radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi
dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
D’altro canto, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo
la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente
approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di
tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi
risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi
genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli
atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano
essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa
e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli
interessati di procrastinare la demolizione dell’opera
abusiva e di continuare a trarne profitto.
---------------
16. I ricorrenti hanno domandato anche la condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno derivante dal
ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo.
16.1 Al riguardo, il Collegio ritiene di poter prescindere
dall’eccezione di tardività sollevata dalla difesa comunale,
stante l’infondatezza nel merito della domanda.
16.2 La possibilità di risarcire il danno da ritardata
conclusione del procedimento amministrativo presuppone,
infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile;
evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una
fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella
riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio,
secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la
risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo
2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato,
Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
D’altro canto, come correttamente rimarcato dalla difesa
comunale, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo
la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente
approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di
tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi
risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi
genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli
atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano
essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa
e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli
interessati di procrastinare la demolizione dell’opera
abusiva e di continuare a trarne profitto.
16.3 Da ciò il rigetto della domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1298 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
regolamento non può impedire l'accesso ai pareri legali richiamati nel
procedimento disciplinare
Il Consiglio di Stato - Sez. III, con la
sentenza
15.05.2018 n. 2890, ha dichiarato
illegittimo il mancato accesso al parere legale reso all'ufficio che ha
adottato il procedimento disciplinare; il diritto di difesa del dipendente
non può ammettere restrizioni neppure se richiamate da norme interne o
regolamentari.
Il caso
L'ufficio dei procedimenti disciplinari, per evitare errori con potenziali
conseguenze in caso di contenzioso, ha chiesto un parere legale, poi
richiamato all'interno del procedimento disciplinare che ha disposto la
sospensione dal servizio di un dipendente pubblico. Il dipendente sanzionato
ha quindi richiesto formalmente copia del parere.
A causa del «diniego
all'ostensione», il dipendente si è rivolto al giudice amministrativo,
considerando il mancato accesso all’atto limitativo del suo diritto alla
difesa davanti al giudice del lavoro.
In particolare, il procedimento
disciplinare era stato emesso e sospeso, in pendenza di un procedimento
penale che lo vedeva coinvolto, mentre restava efficace la sospensione
cautelare, verso la quale il dipendente ha fatto ricorso al giudice del
lavoro. Il Tar ha rigettato la richiesta di accesso al parere legale in
quanto lo ha considerato non essenziale nella determinazione finale assunta
dall’ufficio dei procedimenti disciplinari.
La posizione del Consiglio di Stato
Secondo i giudici di Palazzo Spada, nel procedimento amministrativo i pareri
legali sono ostensibili tutte le volte che, pur facendo parte di atti
interni, rientrino nel provvedimento amministrativo finale anche solo in
termini sostanziali, quindi anche in assenza di un loro richiamo formale.
Non sono invece ostensibili se sono collegati a una strategia difensiva
della Pa una volta insorto un contenzioso.
Nel caso di specie, anche se il
provvedimento che ha disposto la sospensione dal servizio del dipendente era
collegato ad atto di diritto privato, quindi assunto con i poteri del
privato datore di lavoro, il parere legale era richiamato in modo diretto,
tanto da precisare che era stato richiesto a «miglior inquadramento
dell'intero procedimento». In altri termini, il richiamo ha fatto sì che il
parere legale entrasse a pieno titolo nel procedimento di sospensione
cautelare del dipendente, tanto da risultare essenziale nel provvedimento
finale adottato dalla Pa.
Il Consiglio di Stato ha quindi considerato la richiesta di acquisizione del
parere legale necessaria alla tutela della difesa del dipendente. Né l'ente
può scalfire una norma di rango primario e costituzionalmente orientata,
secondo cui il diritto di difesa del dipendente deve essere in ogni caso
garantita. D'altra parte, continua la sentenza, una norma regolamentare che
dovesse negare il diritto di accesso si porrebbe in diretto contrasto con i
principi dettati dall'articolo 24 della legge n. 241/1990, che limitano
l'accesso ai soli documenti che riguardino la vita privata o la riservatezza
di persone fisiche.
Il diniego si pone quindi in contrasto con la norma la
quale dispone in modo espresso che «deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2018).
---------------
MASSIMA
1. Come esposto in narrativa il dott. Co. ha impugnato dinanzi al Tar
Marche il diniego di ostensione del parere legale -richiesto dall’Azienda
Sanitaria Unica Regionale Marche al Dirigente del proprio Servizio Legale
designato quale consulente dell'Ufficio procedimenti disciplinari– in
occasione del procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti e
conclusosi con atto del 02.08.2016, che ha disposto la sospensione cautelare
dal servizio e la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di
un provvedimento penale a suo carico.
L’adito Tar Marche ha respinto il ricorso sul rilievo che, dalla motivazione
della sospensione dal servizio, è dato evincere che l’acquisito parere non
ha concorso alla determinazione assunta, che trova il presupposto nei fatti
contestati al dirigente.
L’appello proposto avverso detta sentenza è fondato.
La giurisprudenza costante del giudice amministrativo, con
riferimento alla richiesta di accesso dei pareri legali, ne riconosce
l’ostensione in accoglimento dell’istanza d’accesso quando tale parere ha
una funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato anche
solo in termini sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale
ad esso (Cons. St., ord., sez. VI,
24.08.2011, n. 4798); nega invece l’accesso quando il
parere viene espresso al fine di definire una strategia una volta insorto un
determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente
idonee a sfociare in un giudizio (Cons.
St., sez. V, 05.05.2016, n. 1761; id., sez. VI, 13.10.2003, n. 6200).
Ed invero, nel preambolo del provvedimento di sospensione si dà atto: a) di
chiedere al consulente avv. Ma.Ba. di formulare un parere scritto a miglior
inquadramento dell’intero procedimento (pag. 1); b) di aver acquisito “il
parere legale del consulente avv. Ma.Ba. protocollato al numero 88196/AV3 di
pari data e si decideva per l’adozione del presente provvedimento” (pag.
2).
L’assunto del giudice di primo grado, dunque, non trova alcuna conferma nel
tenore letterale della sospensione nella quale, anzi, si precisa di aver
acquisito il parere “a miglior inquadramento dell’intero procedimento”
e senza per nulla chiarire che lo stesso non sarebbe stato utilizzato al
fine del decidere, con la conseguenza che, proprio in quanto richiamato, non
può che ritenersi, in mancanza di una evidente prova fattuale contraria, che
lo stesso non sia entrato nel procedimento.
A tale rilievo, di per sé assorbente dell’ostensibilità del parere
richiesto, si aggiunge che il dott. Co. ha motivato l’istanza di accesso con
la necessità di una più completa difesa delle proprie ragioni nel giudizio
proposto avverso la sospensione dal servizio, pendente dinanzi al giudice
del lavoro.
Sotto tale profilo è nota la particolare attenzione alle
ragioni dell’accesso, che deve essere riconosciuta quando il rilascio di
documentazione è richiesto in funzione difensiva.
Si deve, infatti, ricordare che il diritto di accesso in
funzione difensiva è garantito dall’art. 24, comma 7, l. 07.08.1990, n. 241
che, nel rispetto dell’art. 24 Cost., prevede, con una formula di portata
generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
difendere i propri interessi giuridici”. Fermo restando che, nel caso di
documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei
limiti in cui sia strettamente indispensabile.
Entro i predetti limiti deve essere, quindi, garantito l’accesso agli atti,
a fini difensionali, quando un soggetto è coinvolto in un procedimento
giurisdizionale da cui può scaturire una decisione pregiudizievole a suo
carico.
Facendo applicazione di tali principi non può certo negarsi il diritto del
dott. Co. a estrarre copia del parere legale richiamato nel provvedimento
che ha disposto la sua sospensione dal servizio.
2. L’accoglimento dell’appello non trova certo ostacolo nella disciplina
regolamentare adottata dall’Azienda Sanitaria Unica Regionale – ASUR Marche.
Non nel punto 10 del regolamento, atteso che l’Amministrazione non ha
affermato né tanto meno provato che il parere in questione –che, come si è
detto, è stato acquisito nel corso del procedimento sfociato nella
sospensione dal servizio e non in occasione di un contenzioso in atto– possa
“compromettere l'esito del giudizio o la cui diffusione potrebbe
concretizzare violazione dell'obbligo del segreto"; non nel punto 19,
atteso che il riferimento nello stesso contenuto, al fine di individuare i
parerei esclusi dall’accesso, non può che riferirsi a quelli espressi al
fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso,
ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un
giudizio; diversamente, infatti, si porrebbe in contrasto con i principi
dettati dall’art. 24, l. 07.08.1990, n. 241 che - pur contemplando la
possibilità di prevedere, mediante regolamento, “casi di sottrazione
all'accesso di documenti amministrativi (…) quando i documenti riguardino la
vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche,
gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi
epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale
di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti
all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono” - dispone
che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”.
Una lettura diversa delle disposizioni regolamentari porterebbe dunque a
concludere per la loro illegittimità.
3. In conclusione, l’appello va accolto e l’impugnata sentenza del Tar
Marche n. 902 del 04.12.2017 va annullata.
Per l’effetto, va ordinato all’Azienda Sanitaria Unica Regionale di esibire
alla parte appellante il parere richiesto, entro 30 giorni dalla
comunicazione in via amministrativa, ovvero dalla notificazione, se
anteriormente effettuata, della presente sentenza. |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Il diritto di accesso è riconosciuto come diritto
soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del
quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a
divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale
vincolata.
Le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”.
Dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso.
L’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”.
Va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada intesa in
senso ampio in termini di utilità per la difesa di un
interesse giuridicamente rilevante.
La “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata dalla
L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto di
accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo.
In definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante.
---------------
In via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi.
Deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale.
La L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
L’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma.
---------------
Come ha statuito Consiglio di Stato, ferma, in linea di
principio, l’esclusione del diritto di accesso nei
procedimenti tributari sancita dalla legge [art. 24, co. 1,
lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241], vale comunque il
comma 7, primo periodo, del medesimo art. 24, secondo il
quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti
l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”.
La pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto
occasione di rilevare la Sezione, svolgendo considerazioni
dalle quali non vi è motivo per discostarsi in questa sede,
una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 24
conduce alle seguenti conclusioni:
I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario è
temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza
nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo
e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che
sono inaccessibili i documenti relativi all’attività
investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia
di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio
alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori
di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della
conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed
operative);
II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei limiti di
legge, garantisce l’accesso a quei documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere
i propri interessi giuridici e pone come unico limite il
fatto che i documenti contengano dati sensibili o
giudiziari;
III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato>>.
Invero, si registra un orientamento giurisprudenziale oramai
costante ad avviso del quale “l'art. 24 della legge n.
241/1990, nella parte in cui esclude il diritto di accesso
con riferimento ai procedimenti tributari –per i quali
restano ferme le particolari norme che li regolano– va
interpretato nel senso che l'inaccessibilità agli atti
relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla
fase di mera "pendenza" del procedimento tributario, in
quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che
segue la conclusione del procedimento con l'adozione del
provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta
dovuta, sulla base degli elementi reddituali, che conducono
alla quantificazione del tributo”.
---------------
L'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua
proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve
qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari
consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza
a quei giudizi.
Peraltro, questo TAR ha sostenuto che il diritto di accesso
non può essere neppure subordinato all’avvio di una
controversia sulla pretesa di merito, al fine di provocare
l’ordine del giudice rivolto a un terzo o a una pubblica
amministrazione per l’esibizione di documenti ex art.
210-213 cpc.
Non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il
principio di proporzionalità, e neppure rispettoso del
principio di ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere
che il diritto di accesso sia esercitato in prima battuta
attraverso la via giurisdizionale e attivando la
controversia di merito (in definitiva con uno scopo
esplorativo).
La sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
---------------
Rilevato:
- che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati
procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati
in apposito elenco;
- che non si profila, dunque, un controllo generalizzato
sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale
indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere
l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle
medesime;
- che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di
riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di
conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel
rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel
trattamento;
- che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche (e in quanto tali «dati personali») non
necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che risultino comunque
sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente
destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla
richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le
modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato;
- che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati
sensibili e super-sensibili;
- che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti
ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art.
4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se
effettivamente un documento contenesse un’informazione di
natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria
la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per
chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di
un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella
specifica informazione;
- che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di
proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo
ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto
professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto
di accesso risulta comunque prevalente una volta che si
accerti la necessità di disporre della documentazione per la
difesa in giudizio;
- che, su una tematica affine, questa Sezione ha affermato che “I
modelli 770 sono in effetti dichiarazioni di soggetti
privati, o di amministrazioni che agiscono come datori di
lavoro, tuttavia diventano documenti amministrativi nel
momento in cui sono acquisiti alla banca dati fiscale.
L’acquisizione determina il passaggio di tali documenti
dalla sfera privata del rapporto di lavoro alla sfera
pubblica del controllo sull’adempimento delle obbligazioni
tributarie …. Una volta entrate nella sfera pubblica, le
informazioni contenute nelle dichiarazioni inviate
all’Agenzia delle Entrate sono trattate per finalità
pubblicistiche di natura tributaria, e dunque non sono più
nella disponibilità dei soggetti tra cui è intercorso il
rapporto di lavoro. Ne consegue che i documenti contenenti i
dati fiscali possono essere oggetto di accesso da parte di
terzi, quando questi ultimi dimostrino di avere un interesse
prevalente rispetto al diritto alla riservatezza delle parti
del sottostante rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di
accesso l’unico contraddittore è l’amministrazione
tributaria, e non sussistono controinteressati da
coinvolgere necessariamente nella procedura”;
- che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che
possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti
deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione
amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le
ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un
interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti.
---------------
Evidenziato:
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto soggettivo
ad un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a divulgare
gli atti) pone in essere un’attività materiale vincolata;
- che le disposizioni normative che assicurano il soddisfacimento
della pretesa ostensiva costituiscono diretta espressione
del principio di imparzialità e trasparenza ex art. 97
Costituzione e del “Diritto ad una buona amministrazione”
ex art. 41, par. 2, lett. b), della “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea”;
- che, dal punto di vista soggettivo (lato attivo), l’istanza del
richiedente deve essere sorretta da un interesse
giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi
interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante
da uno specifico nesso;
- che l’art. 22, comma 1, lett. b), della L. 07/08/1990 n. 241, nel
testo novellato dalla L. 11/02/2005 n. 15, stabilisce che
debbono considerarsi "interessati", “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi
pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l'accesso”;
- che va accolta una nozione ampia di “strumentalità” (nel
senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura
di un interesse diretto, concreto, attuale connesso alla
disponibilità dell'atto o del documento del quale si
richiede l'accesso), non imponendosi che l'accesso al
documento sia unicamente e necessariamente funzionale
all'esercizio del diritto di difesa in giudizio, ma
ammettendo che la richiamata “strumentalità” vada
intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di
un interesse giuridicamente rilevante (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V – 01/08/2017 n. 3831);
- che la “situazione giuridicamente rilevante” disciplinata
dalla L. 241/1990, per la cui tutela è attribuito il diritto
di accesso, è dunque nozione diversa e più ampia rispetto
all’interesse all’impugnazione, e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in
termini di diritto soggettivo o interesse legittimo
(Consiglio di Stato, sez. VI – 30/03/2017 n. 1453);
- che, in definitiva, ciò che rileva è la concretezza e l’attualità
dell’interesse medesimo, il quale evidenzia che gli atti e i
documenti sono suscettibili di interferire con la sfera
giuridica del soggetto istante;
Atteso:
- che la Società Agricola ricorrente, che svolge attività di
allevamento di bovini e produzione di latte negli immobili
di proprietà in località “Cascina Valle” riferisce di aver
instaurato numerosi contenziosi tributari con il Comune di
Caravaggio, sugli avvisi di accertamento relativi alla tassa
rifiuti (TARSU – TARES - TARI);
- che espone di avere da ultimo notificato, in data 04/01/2018 e
innanzi alla Commissione Tributaria competente, un ulteriore
ricorso avverso l’avviso di accertamento TARI relativo
all’annualità 2016;
- che, con nota del 22/12/2017, la ricorrente ha chiesto al Comune
intimato “copia delle denunce/autocertificazioni ai fini
TARSU/TARES/TARI, verbali di sopralluogo e verifiche, Docfa,
avvisi di pagamento e/o accertamento TARSU/TARES/TARI quanto
meno per il periodo 2012/2017 e relativi alle imprese che
svolgono nel Comune di Caravaggio attività analoga a quella
della mia assistita”;
- che l’istanza è stata accompagnata dall’indicazione di 37 Società
che si troverebbero in condizioni analoghe a quelle in cui
versa la Società esponente, la quale ha addotto la necessità
di espletare attività difensiva in ambito tributario;
- che il Comune di Caravaggio, nella risposta del 22/01/2018 (doc.
1) ha accolto solo parzialmente la pretesa ostensiva,
mettendo a disposizione i documenti di interesse con
cancellazione dei dati identificativi delle Società ossia
denominazione, ubicazione, riferimenti catastali (doc. 5);
- che la difesa comunale ha precisato come, nello specifico, sia
stata fornita copia di tutta la documentazione richiesta
–ossia importi, denunce e accertamenti TARES/TARI con
eccezione dei DOCFA (non detenuti dall’Ente locale)–
oscurando i dati relativi alla ragione sociale delle Società
agricole interessate dagli avvisi, nonché i dati catastali
delle stesse;
- che ha puntualizzato come la maggior parte delle Società agricole
oggetto della richiesta, ritualmente sollecitate dal Comune,
abbiano comunicato il proprio dissenso all’accesso;
- che l’esponente lamenta che la documentazione fornita, non
permettendo di risalire all’intestatario degli avvisi e
all’ubicazione delle Società agricole indicate nell’istanza,
impedirebbe di verificare il corretto operato
dell’amministrazione comunale e l’insussistenza di eventuali
disparità di trattamento tra operatori attivi nel medesimo
settore economico;
- che non sarebbe possibile il raffronto con la realtà fattuale,
per cui verrebbe precluso il sindacato di legittimità
dell’azione amministrativa;
- che l’ulteriore tentativo di interlocuzione non ha avuto esito;
Considerato:
- che, in via generale, le necessità difensive –riconducibili ai
principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione– sono
ritenute prioritarie anche rispetto alle istanze di
riservatezza di soggetti terzi (cfr. Consiglio di Stato, ad.
plenaria – 04/02/1997 n. 5);
- che deve essere, in buona sostanza, garantito agli interessati
l’accesso ai documenti la cui conoscenza sia necessaria per
curare o difendere i propri interessi giuridici (cfr. art.
24, comma 7, della L. 241/1990), dal momento che il diritto
di difesa è garantito a livello costituzionale;
- che la L. 241/1990 specifica come non siano sufficienti esigenze
di difesa genericamente enunciate per garantire l’accesso,
dovendo quest’ultimo corrispondere ad un effettivo bisogno
di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti che si
assumano lese;
- che l’interesse all’accesso ai documenti deve essere tuttavia
valutato in astratto, senza che possa essere operato, con
riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine
alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che
gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base
dei documenti acquisiti mediante l’accesso, per cui la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante, avendo essa consistenza autonoma
(Consiglio di Stato, sez. VI – 09/04/2018 n. 2158);
Dato atto:
- che la difesa del Comune ha affermato che i documenti richiesti
sarebbero del tutto irrilevanti per l’avvio dell’azione
giudiziaria;
- che gli stessi non sarebbero direttamente lesivi delle posizioni
giuridiche della ricorrente, non sarebbero idonei a spiegare
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti e non
rivestirebbero influenza alcuna nel contenzioso tributario
pendente (per l’inconfigurabilità della denunciata disparità
di trattamento);
- che l’istanza si porrebbe altresì in contrasto con il disposto
dell'art. 24, comma 3, della L. 241/1990, integrando un
controllo generalizzato sull'operato della pubblica
amministrazione;
- che l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede
di esame di una domanda d’accesso, è tenuta soltanto a
valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse
palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento
al fine del soddisfacimento della pretesa correlata;
- che, nella fattispecie, appare chiara la correlazione tra
l’aspirazione coltivata e la situazione giuridica soggettiva
sottostante, ovvero l’esistenza di un collegamento
funzionale tra l'interesse conoscitivo e il contenuto del
documento richiesto (cfr. in proposito TAR Campania Napoli,
sez. VI – 29/06/2016 n. 3287);
- che, infatti, la divulgazione degli atti identificativi delle
Aziende agricole del territorio soddisfa una concreta
aspirazione dell’istante, la quale è chiaramente titolare
dell’interesse a prenderne cognizione al fine di raffrontare
le situazioni di fatto e orientare le proprie scelte
successive, anche in sede giurisdizionale;
Rilevato:
- che, come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 06/11/2017 n.
5128, ferma, in linea di principio, l’esclusione del diritto
di accesso nei procedimenti tributari sancita dalla legge
[art. 24, co. 1, lett. b), della legge 07.08.1990, n. 241],
vale comunque il comma 7, primo periodo, del medesimo art.
24, secondo il quale “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”;
- che la pronuncia evocata ha statuito che <<Come ha avuto
occasione di rilevare la Sezione (11.02.2011, n. 925;
26.09.2013, n. 4821; 13.03.2014, n. 1211), svolgendo
considerazioni dalle quali non vi è motivo per discostarsi
in questa sede, una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 24 conduce alle seguenti conclusioni:
I) l’inaccessibilità degli atti del procedimento tributario
è temporalmente limitata alla fase di pendenza del
procedimento stesso, non rilevandosi esigenze di segretezza
nella fase che segue l’adozione del provvedimento definitivo
e dunque nella fase della riscossione (fermo restando che
sono inaccessibili i documenti relativi all’attività
investigativa, ispettiva e di controllo specie della Guardia
di finanza dalla cui diffusione possa derivare pregiudizio
alla prevenzione e repressione della criminalità nei settori
di competenza di quest’ultima anche sotto il profilo della
conoscenza delle tecniche e delle fonti informative ed
operative: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2002, n. 1977);
II) il comma 7 costituisce una norma di chiusura che, nei
limiti di legge, garantisce l’accesso a quei documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici e pone come unico
limite il fatto che i documenti contengano dati sensibili o
giudiziari;
III) il soggetto pubblico richiesto non può andare oltre una
valutazione circa il collegamento dell’atto -obiettivo o
secondo la prospettazione del richiedente- con la situazione
soggettiva da tutelare e quanto all’esistenza di una
concreta necessità di tutela, senza poter apprezzare nel
merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive
dell’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10.01.2007, n.
55; sez. V, sez. IV, 29.01.2014, n. 461; sez. V, 23.03.2015,
n. 1545)>>;
- che si registra un orientamento giurisprudenziale oramai
costante, al quale aderisce TAR Puglia Lecce, sez. II –
22/12/2017 n. 2021, che ha richiamato TAR Lombardia Brescia,
sez. II – 02/05/2017 n. 573 ad avviso del quale “l'art.
24 della legge n. 241/1990, nella parte in cui esclude il
diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari
–per i quali restano ferme le particolari norme che li
regolano– va interpretato nel senso che l'inaccessibilità
agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente
limitata alla fase di mera "pendenza" del procedimento
tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza
nella fase che segue la conclusione del procedimento con
l'adozione del provvedimento definitivo di accertamento
dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali,
che conducono alla quantificazione del tributo (TAR Lazio,
II-ter, 3260/2017, TAR Catanzaro, sez. II, 08/03/2016, n.
469; TAR Napoli, sez. VI, 14/01/2016, n. 171; Consiglio di
Stato, sez. IV, 13/11/2014, n. 5588)” (si veda anche TAR
Sicilia Catania, sez. III – 31/07/2017 n. 1983);
Evidenziato:
- che, nel caso che occupa il Collegio, la ricorrente sostiene che
dall’istanza di accesso emerge la prova della consistenza
dell’interesse ad utilizzare nel procedimento tributario i
documenti richiesti, e che è stato rappresentato l’intento
di verificare un’eventuale disparità di trattamento ai fini
TARSU, TARI e TASI tra imprese agricole operanti nella
stessa zona;
- che i plurimi ricorsi tributari proposti attestano la sussistenza
di un effettivo legame “tra la finalità dichiarata ed il
documento richiesto” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V –
05/02/2014 n. 556);
- che l'interesse che fonda il diritto di accesso, e la sua
proiezione processuale di tutela giurisdizionale, deve
qualificarsi in funzione di una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi di un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva, per cui la pendenza dei ricorsi tributari
consente la valutazione dell’astratta inerenza dell'istanza
a quei giudizi;
- che, peraltro, questo TAR (cfr. sentenza sez. I – 20/05/2014 n.
535) ha sostenuto che il diritto di accesso non può essere
neppure subordinato all’avvio di una controversia sulla
pretesa di merito, al fine di provocare l’ordine del giudice
rivolto a un terzo o a una pubblica amministrazione per
l’esibizione di documenti ex art. 210-213 cpc;
- che non sarebbe infatti ragionevole, né coerente con il principio
di proporzionalità, e neppure rispettoso del principio di
ragionevole durata ex art. 111 Cost., esigere che il diritto
di accesso sia esercitato in prima battuta attraverso la via
giurisdizionale e attivando la controversia di merito (in
definitiva con uno scopo esplorativo);
- che la sequenza corretta è invece la seguente: (a) rilascio del
documento da parte dell’amministrazione detentrice, una
volta esclusa la presenza di dati sensibili; (b) utilizzo
del rimedio giurisdizionale diretto e ordinario ex art. 116
cpa; (c) avvio eventuale della causa di merito, con
richiesta di emissione di un ordine di esibizione da parte
del giudice.
Rilevato:
- che l’istanza si caratterizza per la specificità dell’oggetto,
costituito da dati ed elementi relativi a ben identificati
procedimenti tributari che coinvolgono soggetti individuati
in apposito elenco;
- che non si profila, dunque, un controllo generalizzato
sull’attività dell’amministrazione, ma la puntuale
indicazione delle pratiche di interesse, per ottenere
l’ostensione dei documenti formati con riferimento alle
medesime;
- che la difesa del Comune ha altresì invocato le esigenze di
riservatezza dei terzi, e il limite della necessità di
conoscere i dati al fine della difesa o dell’azione, nel
rispetto dei principi di pertinenza e di non eccedenza nel
trattamento;
- che, a suo avviso, quando l'oggetto della richiesta di accesso
riguarda documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche (e in quanto tali «dati personali»)
non necessarie al raggiungimento del predetto scopo, oppure
informazioni personali di dettaglio che risultino comunque
sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'Ente
destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla
richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale, come è avvenuto nel caso concreto, scegliere le
modalità meno pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato;
- che, anzitutto, dal tema controverso appaiono estranei i dati
sensibili e super-sensibili;
- che il carattere sensibile di un’informazione deve essere infatti
ricondotto alle categorie previste espressamente dall’art.
4, comma 1-d, del D.Lgs. 30/06/2003 n. 196, e solo se
effettivamente un documento contenesse un’informazione di
natura sensibile (e non è questo il caso) sarebbe necessaria
la schermatura del singolo dato, salva la possibilità per
chi ha chiesto l’accesso di dimostrare di essere titolare di
un pari-ordinato interesse a conoscere anche quella
specifica informazione;
- che, sotto diverso profilo, l’accesso ai dati catastali e di
proprietà non può essere escluso in via preventiva adducendo
ulteriori esigenze di riservatezza consistenti nel segreto
professionale, poiché anche in questa fattispecie il diritto
di accesso risulta comunque prevalente una volta che si
accerti la necessità di disporre della documentazione per la
difesa in giudizio;
- che, su una tematica affine, questa Sezione (cfr. sentenza
20/05/2014 n. 535) ha affermato che “I modelli 770 sono
in effetti dichiarazioni di soggetti privati, o di
amministrazioni che agiscono come datori di lavoro, tuttavia
diventano documenti amministrativi nel momento in cui sono
acquisiti alla banca dati fiscale. L’acquisizione determina
il passaggio di tali documenti dalla sfera privata del
rapporto di lavoro alla sfera pubblica del controllo
sull’adempimento delle obbligazioni tributarie …. Una volta
entrate nella sfera pubblica, le informazioni contenute
nelle dichiarazioni inviate all’Agenzia delle Entrate sono
trattate per finalità pubblicistiche di natura tributaria, e
dunque non sono più nella disponibilità dei soggetti tra cui
è intercorso il rapporto di lavoro. Ne consegue che i
documenti contenenti i dati fiscali possono essere oggetto
di accesso da parte di terzi, quando questi ultimi
dimostrino di avere un interesse prevalente rispetto al
diritto alla riservatezza delle parti del sottostante
rapporto di lavoro. Rispetto a tale forma di accesso l’unico
contraddittore è l’amministrazione tributaria, e non
sussistono controinteressati da coinvolgere necessariamente
nella procedura”;
- che, in definitiva, in assenza di esigenze di riservatezza che
possano precludere la conoscenza dei documenti richiesti
deve prevalere il principio di trasparenza dell’azione
amministrativa nei confronti di un soggetto che, per le
ragioni diffusamente esplicitate, è portatore di un
interesse concreto e attuale all’ostensione degli atti
(Consiglio di Stato, sez. III – 05/06/2015 n. 2768) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 479 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Subappaltare poco premia l'impresa.
Legittimo attribuire un punteggio premiale all'impresa che utilizza poco il
subappalto.
Lo ha affermato il Tar Piemonte con la
sentenza 11.05.2018 n. 578 rispetto ad una procedura per l'affidamento di lavori con il
criterio di aggiudicazione della offerta economicamente più vantaggiosa,
individuata sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo.
Gli atti di gara
prevedevano in particolare l'attribuzione di 55 punti agli elementi
qualitativi e di 45 punti all'offerta economica, secondo i criteri stabiliti
dal disciplinare di gara e fra questi ultimi si prevedeva l'assegnazione di
un massimo di dieci punti per i «concorrenti che intendessero avvalersi
della facoltà di subappaltare parte del servizio in quota inferiore al
massimo consentito».
Nel ricorso presentato di fronte al Tar piemontese, fra le altre cose, si
eccepiva anche che la clausola che valorizza il minor ricorso al subappalto
sarebbe stata discriminatoria e limitativa della concorrenza in quanto di
fatto avrebbe impedito a numerosi operatori, non in possesso dei requisiti
oggetto di gara o che comunque ritenessero di non poter eseguire
direttamente tutto l'appalto, di partecipare alla gara.
Il Tar ha precisato in primo luogo che qualunque impresa avrebbe potuto
concorrere in raggruppamento temporaneo con altre imprese ovvero ricorrere
all'avvalimento, istituti, questi, che garantiscono entrambi la più ampia
partecipazione alla gara.
Inoltre, la clausola della lex specialis che premia con un punteggio
aggiuntivo l'offerta dell'operatore che subappalta la minor quota
dell'appalto non viene ritenuta dai giudici discriminatoria né
ingiustificatamente limitativa della libertà di stabilimento e della libera
concorrenza perché ha lo «scopo non di precludere bensì semplicemente di
scoraggiare il ricorso ad una modalità di esecuzione dell'appalto, il
subappalto, che per natura è idoneo a creare problemi che si riflettono
sulla corretta esecuzione dell'appalto e sul rispetto di alcune norme a
carattere imperativo (rispetto degli obblighi previdenziali per i dipendenti
del subappaltatore; rispetto di norme a tutela dell'ambiente)» (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
TRIBUTI: Aree
di atterraggio non confermate esenti.
La potenzialità edificatoria di un'area che abbia perso l'edificabilità può
essere trasferita su altre aree individuate dall'amministrazione o su altre
possedute dallo stesso proprietario (così dette aree di atterraggio);
tuttavia, per poter esercitare una pretesa impositiva il diritto di
trasferimento della capacità edificatoria dovrà essere contrattualmente
concluso tra le parti.
Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza
27.04.2018 n. 2745/1/2018 emessa dalla Sez. I della Commissione
tributaria regionale del Lazio.
La ricorrente aveva impugnato un accertamento relativo a Ici per l'anno
d'imposta 2008; l'accertamento riguardava una maggiore imposta per un'area
situata nel comune di Roma e ricadente nel comprensorio di Tor Marancia. La
ricorrente aveva riferito che le volumetrie erano state individuate in un
comprensorio destinato a parco pubblico e quindi non suscettibile di
utilizzo edificatorio; il comune di Roma aveva replicato che l'area
riguardante il comprensorio di Tor Marancia, originariamente individuata
come edificabile, era stata dichiarata di interesse archeologico, con
conseguente cancellazione della stessa dalle zone a destinazione
urbanistica.
Tuttavia, era stato avviato un procedimento di perequazione
urbanistica con il trasferimento della capacità edificatoria su determinate
aree di atterraggio. Si trattava, quindi, di stabilire se a seguito di detta
perequazione, nel senso del trasferimento della potenzialità edificatoria su
di un'area diversa da quella originariamente individuata (cosiddetta di
atterraggio), fosse dovuta l'Ici relativa a questa area, in base alla
capacità edificatoria trasferita.
La Ctp di Roma ha accolto il ricorso. La
Commissione regionale del Lazio ha confermato la decisione annullando
l'accertamento del comune capitolino. I giudici regionali hanno infatti
rilevato come, nella fattispecie in esame, non veniva portato a termine il
procedimento in base al quale l'area in questione cosiddetta di atterraggio
sarebbe dunque risultata effettivamente edificabile e attribuita alla
ricorrente.
Il collegio ha rilevato come in mancanza della sottoscrizione di
un'apposita convenzione tra il comune e la società ricorrente, potesse
configurarsi soltanto un'aspettativa di edificabilità da imputare a un'altra
area, detta appunto di «atterraggio». Il collegio regionale ha concluso
ritenendo che la particolarità della situazione dedotta ammetteva la
compensazione delle spese di lite.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) La ricorrente ne aveva eccepita l'illegittimità, sostenendo che le aree
di proprietà non erano più edificabili e che le volumetrie erano state
individuate nel comprensorio di Tor Marancia che non risulta area
edificabile nel Piano regolatore, a seguito del divieto assoluto di
edificabilità nel frattempo imposto, per destinazione a parco pubblico.
Con
la sentenza impugnata, la Ctp ha accolto il ricorso, rilevando la fondatezza
dei motivi di gravame, in quanto ( ) presupposti per l'Ici sono: il possesso
di un'area edificabile, l'individualità e l'identificabilità dell'area
posseduta, la sua utilizzabilità a scopo edificatorio, il collegamento
dell'imposta con un diritto reale; ( ) Eccepisce l'appellante comune
l'illegittimità della sentenza impugnata, sostenendo: 1) l'illegittimità
della decisione in merito alla ritenuta inedificabilità dell'area
(comprensorio Tor Marancia) e della mancata assegnazione del sito di
atterraggio. L'appello proposto dal Comune di Roma Capitale è da ritenersi
infondato e va quindi respinto per i motivi di seguito esposti. ( )
Pur non essendo del tutto priva di pregio, la prospettazione dell'ente
locale non appare condivisibile, perché difetta di concretezza, valorizzando
la situazione soprattutto sotto l'aspetto teorico, quanto meno in parte
disconnesso dalla realtà effettiva, nella quale i tempi di realizzazione
della compensazione urbanistica si sono dilatati in maniera indiscutibile, a
causa della lentezza della complessa procedura amministrativa in materia,
che se si fosse conclusa in termini più tempestivi, avrebbe probabilmente
evitato l'insorgere dell'attuale controversia.
Appare decisiva la circostanza, evidenziata dalla Società ( ) che, ai fini
che qui interessano, la procedura di compensazione può dirsi essersi
conclusa, tuttalpiù (essendo in pratica ancora incompiuta), al momento
dell'adozione della delibera consiliare del comune n. 18 del 12.02.2008 e quindi in epoca successiva all'annualità di imposta contestata.
Poiché tale fatto è pacifico in atti, va ritenuto che al momento del
pagamento dell'imposta 2007 non sussisteva il presupposto per considerare la
società in possesso di un'area edificatoria ( )
In altri termini, il sorgere
del diritto del proprietario, da un lato, e la correlata pretesa impositiva
dell'ente locale, dall'altro, devono coincidere nello stesso momento. Rebus
sic stantibus, invece, la singolare situazione di limbo del diritto di
edificazione, in cui si versava ancora nell'annualità di imposta
considerata, non giustifica la pretesa impositiva, nei termini in cui è
stata contestata, rendendo non corretta la richiesta integrazione.
P.Q.M.
Rigetta l'appello. Spese compensate (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018). |
TRIBUTI: Tributi locali, per l'accertamento fa fede il timbro di spedizione.
L'avviso di accertamento Ici è legittimo se notificato entro il termine di
decadenza di 5 anni certificato dal timbro postale di spedizione, anche se
ricevuto dal destinatario oltre il termine di legge.
È quanto ha affermato
la ctr di Roma, III Sez., con la sentenza
24.04.2018 n. 2657/3/2018. La stessa regola vale anche per gli altri tributi
locali.
Si tratta di una questione che forma spesso oggetto di contenzioso,
nonostante la Corte costituzionale (sentenza 477/2002) abbia già da tempo
chiarito che i termini operano in maniera diversa per il notificante e il
destinatario. Mentre per il primo conta la data di spedizione dell'atto
impositivo, per il contribuente i termini per l'impugnazione decorrono dalla
ricezione.
Per il giudice d'appello, infatti, «al fine del perfezionarsi della notifica
per il soggetto notificante, ciò che fa fede è il termine entro cui l'avviso
di accertamento viene consegnato all'ufficio di posta». In questo senso si è
espressa la Consulta, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del
combinato disposto dell'articolo 149 del codice di procedura civile e
dell'articolo 4, comma 3, della legge 890/1982, nella parte in cui
prevedevano che la notificazione si perfezionasse per il notificante alla
data di ricezione dell'atto da parte del destinatario. Secondo la
Commissione regionale, il principio generale affermato dalla Corte
costituzionale è «riferibile ad ogni tipo di notificazione ed in particolare
a quella eseguita a mezzo del servizio postale».
Va ricordato che la Finanziaria 2007 (legge 296/2006) ha fissato in modo
chiaro i termini per l'accertamento dei tributi locali e per il recupero
delle somme non versate o versate in ritardo, rispetto a quanto stabilito
dalla precedente disciplina. Anche per la riscossione coattiva è stato
imposto un termine, a pena di decadenza, per la notifica del titolo
esecutivo.
Gli enti locali, in base all'articolo unico, comma 161 della
legge 296/2006, possono accertare la mancata presentazione delle
dichiarazioni e gli omessi versamenti entro il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui i relativi obblighi avrebbero dovuto essere
assolti dal contribuente. Entro lo stesso termine possono, inoltre,
rettificare le dichiarazioni incomplete o infedeli e irrogare le relative
sanzioni.
Per la riscossione coattiva, a mezzo cartella o ingiunzione,
l'articolo 1, comma 163, della suddetta legge ha previsto che debba essere
effettuata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui
l'accertamento sia divenuto definitivo (articolo
ItaliaOggi dell'01.06.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il criterio della vicinitas che
abilita l’imprenditore commerciale concorrente
all’impugnazione di titoli edilizi e autorizzativi con
riferimento alla nozione di unicità o identità del bacino
d’utenza postula la rigorosa dimostrazione di “…un reale
pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione
dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla
situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale
misura il provvedimento impugnato incida la posizione
sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione
concreta, immediata e di carattere attuale” e ciò anche
“anche in considerazione dei principi di liberalizzazione
che presidiano il settore”.
Non è quindi sufficiente il richiamo, contenuto nella
sentenza gravata, al criterio della vicinitas in
combinazione con quello dell’identità del bacino d’utenza,
quando sia mancata, come nel caso di specie, l’allegazione
puntuale di un concreto pregiudizio, che non può essere
affidata al generico rilievo contenuto nel ricorso
introduttivo di una paventata “significativa perdita di
quote di mercato”.
---------------
5.3) E’ altresì fondata l’ulteriore eccezione pregiudiziale
relativa alla carenza di interesse all’annullamento del
diniego di autotutela (e a monte del permesso di costruire)
in capo alla Sc.Ca. S.r.l. in funzione della
mera allegazione della propria posizione di competitor,
quale esercente attività di distribuzione carburanti per
autotrazione, e in specie come chiarito meglio nella memoria
di costituzione nel giudizio di appello di “…un impianto di
distribuzione di carburanti che è stato posizionato, in
conformità al piano carburanti comunale, in un'area posta a
monte, ad una distanza di poche centinaia di metri, rispetto
a quella su cui dovrebbe sorgere il distributore della ditta Mu.” (trattasi verosimilmente dell’impianto collocato alla
via San Brunone da Colonia).
Come chiarito ancora da ultimo da questa Sezione (cfr. Sez.
IV, 19.07.2017, n. 3563) il criterio della vicinitas che
abilita l’imprenditore commerciale concorrente
all’impugnazione di titoli edilizi e autorizzativi con
riferimento alla nozione di unicità o identità del bacino
d’utenza postula la rigorosa dimostrazione di “…un reale
pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione
dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla
situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale
misura il provvedimento impugnato incida la posizione
sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione
concreta, immediata e di carattere attuale” e ciò anche
“anche in considerazione dei principi di liberalizzazione
che presidiano il settore” (nello stesso senso dell’esigenza
della prova di un effettivo, concreto e attuale pregiudizio
vedi Sez. IV, 25.01.2013, n. 489, nonché Sez. V, 30.11.2012, n. 6113, e più in generale Sez. IV,
07.05.2015, n. 2324).
Non è quindi sufficiente il richiamo, contenuto nella
sentenza gravata, al criterio della vicinitas in
combinazione con quello dell’identità del bacino d’utenza,
quando sia mancata, come nel caso di specie, l’allegazione
puntuale di un concreto pregiudizio, che non può essere
affidata al generico rilievo contenuto nel ricorso
introduttivo di una paventata “significativa perdita di
quote di mercato”.
Al riguardo avrebbe dovuto essere quantomeno evidenziato,
con pertinenti riferimenti alla consistenza del nuovo
impianto, alla domanda “storica” di carburante per
autotrazione nell’ambito del bacino d’utenza, alla
potenziale incidenza dei volumi stimabili di erogazione del
nuovo impianto su quella domanda, come e in che misura esso
potrebbe incidere in modo significativo sul fatturato della
società Sc.Ca. S.a.s.
Né potrebbe valere a fondare il riconoscimento di un
interesse qualificato all’annullamento degli atti gravati la
proposizione di esposti o denunce all’Autorità giudiziaria o
la stessa presentazione di un’istanza di annullamento in
autotutela, dovendosi l’interesse valutare e verificare su
un piano oggettivo e non potendo essere precostituito da
atti della parte.
5.4) In conclusione, in accoglimento dell’appello, e in
riforma della sentenza gravata, deve dichiararsi in parte
irricevibile e in parte inammissibile il ricorso proposto in
primo grado e i relativi motivi aggiunti (peraltro
indirizzati nei confronti di atti endoprocedimentali privi
di autonoma lesività), restando ovviamente salvi i poteri
delle Autorità amministrative, comunale e regionale, in
ordine a ogni profilo di legittimità del titolo edilizio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.04.2018 n. 2458 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziato l'ufficiale che non rispetta il capo supremo.
Il comandante della polizia locale che non ottempera agli ordini di servizio
del dirigente rischia il posto di lavoro. Anche se si tratta di indicazioni
illegittime.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la
sentenza
19.04.2018 n. 9736.
Tutte le problematiche della polizia locale qui vengono al pettine. Prima di
tutto la possibilità, ripetutamente messa in discussione, di posizionare un
dirigente sopra al comandante. E poi l'applicazione di un contratto
privatistico a operatori di polizia.
Nel caso esaminato dal collegio il
comandante è venuto ai ferri corti con il dirigente generale del comune.
Alla serie di ordini e contrordini di servizio hanno fatto seguito azioni
disciplinari con licenziamento dell'apicale. Contro questa misura estrema
l'interessato ha proposto ricorso ma i giudici del Palazzaccio hanno
confermato il licenziamento.
Anche se gli ordini erano illegittimi
l'ufficiale doveva rispettarli. Salvo disposizioni costituenti reato o
contrarie al dovere di fedeltà e diligenza il dipendente privatizzato non
può che adeguarsi. E siccome il comandante non si è conformato a parere
degli ermellini è giusto licenziarlo (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Il
leone paga dazio.
Il leone paga dazio. Il comune non può ordinare la rimozione degli impianti
pubblicitari abusivi ritenendo tali anche gli elementi decorativi
posizionati all'ingresso di un hotel come due leoni seduti o una incisione
storica nel centro di Venezia.
Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza
18.04.2018 n. 414.
Il gestore di un tradizionale hotel posizionato in prossimità di piazza S.
Marco ha impugnato l'ordine del comune di rimuovere una vecchia insegna di
esercizio, il tappeto e alcuni elementi decorativi posizionati all'ingresso
della struttura. E il collegio ha accolto le censure annullando la
disposizione comunale.
La maggior parte delle installazioni considerate abusive, specifica la
sentenza, come ampiamente documentato alla stessa amministrazione comunale
risalgono infatti all'inizio del secolo scorso quando nessuna norma regolava
l'installazione di una insegna o di una decorazione pubblicitaria.
A distanza di quasi un secolo dalla loro installazione risulta difficile per
un comune ordinare la rimozione delle installazioni senza motivare in
maniera approfondita la disposizione. E certamente due leoni non possono
essere classificati come impianti pubblicitari (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.07.2018).
---------------
MASSIMA
La società ricorrente, titolare di un’attività alberghiera esercitata
nell’immobile sito in Venezia, San Marco .../a, ha impugnato gli atti in
epigrafe indicati, con i quali il Comune di Venezia le ha ordinato
l’immediata copertura e rimozione di alcuni mezzi pubblicitari (quali
un’incisione con dicitura “Hotel Fl.” su pensilina, due sculture
raffiguranti un leone seduto posti all’esterno dell’entrata, un tappeto con
dicitura “Hotel Fl.”, una insegna bifacciale con illuminazione interna e
dicitura “Hotel Fl.”), che si assumono installati in assenza della
necessaria autorizzazione, deducendone l’illegittimità per violazione di
legge ed eccesso di potere.
...
Il provvedimento impugnato, con cui il Comune di Venezia ha
ordinato alla ricorrente di procedere all’immediata copertura e rimozione
dei mezzi pubblicitari ivi indicati, è illegittimo poiché viziato da eccesso
di potere, sotto i profili del difetto d‘istruttoria e di motivazione, per
le ragioni di seguito sinteticamente esposte.
Secondo quanto dedotto dalla ricorrente e non specificamente contestato dal
Comune, alcuni degli elementi pubblicitari e/o decorativi
che formano oggetto del gravato provvedimento di rimozione (in particolare,
la pensilina realizzata in ferro battuto e vetri piombati policromi e le due
sculture raffiguranti un leone seduto) risalgono ai primi del Novecento;
altri elementi pubblicitari erano già presenti negli anni ‘60 del secolo
scorso, ben prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 446/1997 e del
Regolamento Comunale CIMP del 1999, asseritamente violati; tutti gli
elementi pubblicitari od ornamentali sono, inoltre, perfettamente integrati
nella città storica.
Il Comune, pur a fronte del materiale fotografico inviato dall’interessata
all’organo accertatore e delle deduzioni svolte dalla ricorrente in ordine
alla compatibilità degli elementi pubblicitari con la disciplina legislativa
e regolamentare vigente al momento della loro installazione, non ha indicato
la normativa che, all’epoca, richiedeva il possesso di uno specifico titolo
abilitativo per l’installazione di detti mezzi pubblicitari e/o decorativi
né risulta aver in alcun modo valutato il carattere storico di detti
elementi e la loro integrazione nel tessuto urbano, omettendo ogni
considerazione al riguardo.
Il Comune, oltre a muovere dal presupposto non dimostrato circa il carattere
abusivo degli elementi pubblicitari installati presso l’Hotel Fl., ha,
altresì, assimilato ai mezzi pubblicitari tradizionali (es. insegna, tappeto
con la dicitura aziendale) anche elementi, quali le due sculture
raffiguranti un leone seduto poste all’ingresso dell’albergo, che
obiettivamente non possiedono tali caratteristiche, rivestendo un mero
carattere ornamentale.
Alla luce dei suesposti rilievi, ritenuto che, nel
particolarissimo caso di specie, il provvedimento repressivo dovesse essere
sorretto da un’adeguata istruttoria e da una più approfondita motivazione,
il ricorso va accolto, con
conseguente annullamento del provvedimento prot. 298118 del 15.07.2011,
salvi gli ulteriori provvedimenti della P.A.. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata comunicazione del preavviso di rigetto
non comporta ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, poiché la norma
sancita dall'art. 10-bis l. 241/1990 va interpretata alla
luce del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone
al giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento impugnato e di non annullarlo se le violazioni
sono solo di carattere formale e non hanno inciso quindi
sulla sua legittimità sostanziale, con il risultato che è
irrilevante la violazione delle disposizioni sul
procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
---------------
2. I ricorrenti affidano il ricorso a diverse censure di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione delle opere
abusive.
2.1 Sulla prima doglianza giova ricordare che, per
costante giurisprudenza di questo Consiglio, la mancata
comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, poiché la norma
sancita dall'art. 10-bis l. 241/1990 va interpretata alla luce
del successivo art. 21-octies, comma 2, il quale impone al
giudice di valutare il contenuto sostanziale del
provvedimento impugnato e di non annullarlo se le violazioni
sono solo di carattere formale e non hanno inciso quindi
sulla sua legittimità sostanziale, con il risultato che è
irrilevante la violazione delle disposizioni sul
procedimento o sulla forma dell'atto, allorché il contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV,
16.06.2017 n. 2953).
Nel caso che ci occupa, il Comune ha respinto le istanze di
sanatoria del 18.12.2006 col provvedimento del 19.09.2007
“considerato che la costruzione delle opere denominata
legnaia e serra sono in contrasto con le NTA di zona”.
In seguito al diniego di permesso in sanatoria
l’Amministrazione era tenuta ad adottare l’ordinanza di
demolizione delle opere abusive e trattandosi quindi di
attività vincolata, la comunicazione sarebbe stata del tutto
inutile; pertanto il motivo è infondato (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 11.04.2018 n. 944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza sia del giudice amministrativo
che penale, la serra necessita di titolo abilitativo
quando il manufatto presenta tutte le caratteristiche per
essere qualificato come serra con copertura stabile, con
attitudine a permanere nel tempo, priva del carattere di
amovibilità.
Analogo ragionamento deve essere fatto per la legnaia, a
causa dell’uso permanente della stessa, in quanto in materia
edilizia rileva l’idoneità delle strutture ad incidere sullo
stato dei luoghi, in un rapporto di stabile connessione con
il suolo.
---------------
2.4. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono che
il provvedimento impugnato non indicherebbe i motivi del
diniego di sanatoria, risultando viziato per eccesso di
potere e difetto di motivazione.
Per costante giurisprudenza sia del giudice amministrativo
che penale, la serra necessita di titolo abilitativo quando
il manufatto presenta tutte le caratteristiche per essere
qualificato come serra con copertura stabile, con attitudine
a permanere nel tempo, priva del carattere di amovibilità
(ex multis Consiglio di Stato sez. IV 28.02.2017 n.
915, Cassazione penale sez. III 10.04.2013 n. 37139).
Analogo ragionamento deve essere fatto per la legnaia, a
causa dell’uso permanente della stessa, in quanto in materia
edilizia rileva l’idoneità delle strutture ad incidere sullo
stato dei luoghi, in un rapporto di stabile connessione con
il suolo.
Le opere realizzate dai ricorrenti, che sono descritte
dettagliatamente nella prima ordinanza di demolizione del
2006, e in particolare la serra e la legnaia oggetto della
seconda ordinanza del 2008 qui impugnata, presentano le
caratteristiche individuate dalla giurisprudenza e come
rilevato dall’Ente, ancorché sinteticamente, “risultano in
contrasto con le N.T.A. del PRG vigente”.
Pertanto anche tale motivo è infondato (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 11.04.2018 n. 944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Lettera
anonima in cassetta non molesta.
Inserire delle lettere anonime nella cassetta della posta non è un reato di
molestia.
Un caso curioso è stato affrontato dalla Corte di Cassazione, Sez. I penale, nella
sentenza
06.04.2018 n. 15523.
Tre anni fa il tribunale di Rimini condannò una donna a una multa di 400
euro per aver inserito delle lettere anonime nella una cassetta della posta
di una persona nell'arco di un anno. La condanna è stata pronunciata ai
sensi degli articoli 81 c.p. e 660 c.p. Da qui il ricorso, sebbene il
procuratore generale sancì l'annullamento senza rinvio della sentenza perché
il fatto, invero, non esisteva affatto.
La presunta molestatrice di lettere anonime, quindi, chiese ai porporati di
piazza Cavour se, sul piano della legittimità, il percorso tra corridoi e
tribunali effettuato negli anni fosse coerente con la pena irrogata dai
magistrati.
Nello specifico si interrogavano gli ermellini perché, secondo i
giudici territoriali, «la decisione in esame risultava sprovvista di un
percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi
costitutivi del reato contestato», si legge nel dispositivo, «rilevanti sia
sotto il profilo dell'elemento oggettivo sia sotto il profilo dell'elemento
soggettivo, e del trattamento sanzionatorio irrogato, censurato per il
mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, escluse nonostante
l'assenza di pregiudizi penali dell'imputata».
I giudici di piazza Cavour
hanno ponderato la sentenza con i reati riconosciuti, accogliendone il
ricorso. Questo perché per innescare il reato di molestie l'azione deve
nascere «in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del
telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo», quindi i supremi
giudici hanno chiarito «che l'azione perturbatrice non si concretizzava in
un luogo pubblico o aperto al pubblico, né veniva arrecata mediante l'uso
del telefono, con la conseguenza di rendere privi di rilievo penale i
comportamenti emulativi dell'imputata», spiegano gli ermellini, «e
insussistente la fattispecie oggetto di contestazione».
Concludendo, i
magistrati hanno ritenuto che «queste considerazioni rendono superfluo
l'esame della residua doglianza afferente al trattamento sanzionatorio
irrogato» (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018). |
VARI: Telefonate
mute plurioffensive. Offese alla quiete privata ma anche all'ordine
pubblico. La Corte di cassazione ha ritenuto
sussistere il reato nella particolare fattispecie
Inquietare con telefonate mute a tutte le ore è un reato plurioffensivo.
Lo spiega la Corte di Cassazione -Sez. I penale- nella
sentenza
03.04.2018 n.
14782, che ha chiarito la sussistenza di reato su una
particolare forma di molestia: le telefonate mute. Un uomo, nel 2016, è
stato assolto dal tribunale di Parma dall'accusa di molestie (in base
all'articolo 660 del codice penale) per aver disturbato il vicino «con
reiterate telefonate mute a tutte le ore».
Il giudice ha ritenuto la sussistenza dell'esimente della provocazione,
«considerando quale causa di non punibilità la situazione che si concretizza
in una reazione nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui e
subito dopo di esso». In sostanza l'uomo avrebbe reagito al comportamento
del vicino, «mediante rumori di tacchi, porte sbattute, tapparelle alzate e
abbassate a tutte le ore», il che consente l'applicabilità della norma al di
là dei delitti di ingiuria e diffamazione. Le parti civili però si sono
presentate presso il Palazzaccio perché, a loro intesa, «il legislatore non
avrebbe codificato la scriminante di condotte siffatte mentre, nel caso di
specie, solo il comportamento dell'imputato sarebbe qualificabile come
molestia».
I porporati di piazza Cavour hanno accolto il motivo di ricorso
perché la reazione della vittima di tale condotta ha la rilevanza esimente
voluta dalla norma solo quando integri i reati testualmente indicati. Non è
ammissibile l'estensione analogica della scriminante, specificano i giudici,
come è stato ritenuto nella sentenza impugnata, in modo da comprendere pure
il reato di molestia o di disturbo alle persone.
Interpretando la ratio
della norma gli ermellini affermano che: «Il legislatore, attraverso la
previsione nell'art. 660 cod. pen., di un fatto recante molestia alla quiete
di un privato, ha inteso tutelare anche la tranquillità pubblica per
l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico, data l'astratta
possibilità di reazione delle persone offese, pertanto, rispetto a detta
contravvenzione viene in considerazione l'ordine pubblico, pur trattandosi
di offesa alla quiete privata, infatti il reato è perseguibile d'ufficio».
Quindi questo tipo di reato, concludono, si configura come «plurioffensivo» (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.07.2018). |
APPALTI: L'informativa
antimafia non produce danno.
Il ritardo nella stipula di un contratto aggiudicato dovuto ad esigenze
antimafia non integra responsabilità precontrattuale e diritto al
risarcimento del danno.
Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 26.03.2018 n. 1882.
Il caso riguardava un appalto di lavori di costruzione
per il quale la stazione appaltante non aveva proceduto alla sottoscrizione
perché, nel mese di marzo, aveva richiesto alla Prefettura il rilascio
dell'informazione ex art. 10 del dpr n. 252/1998 (informativa antimafia),
sebbene non fosse a ciò tenuto, in considerazione dell'importo dell'appalto
e di alcune notizie apparse sulla stampa.
Ovviamente l'acquisizione
dell'informativa antimafia ha comportato un ritardo nella stipulazione del
contratto, tenuto conto dei termini necessari per lo svolgimento della
complessa istruttoria da parte del prefetto ma, si legge nella sentenza, la
responsabilità precontrattuale ricorre nel caso in cui prima della
stipulazione contrattuale il presunto danneggiante, violando il principio di
correttezza e buona fede, leda il legittimo affidamento maturato da
controparte nella conclusione del contratto.
Se da un lato la previsione di
un termine per la stipulazione del contratto assolve alla funzione di
tutelare anche l'aggiudicatario, il quale non può restare vincolato per un
termine indeterminato alle determinazioni della stazione appaltante,
dall'altro lato il mancato rispetto del termine (sollecitatorio) di sessanta
giorni risulta pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, e dunque
non può integrare gli estremi di una condotta illecita. Occorre poi
considerare che la norma dell'art. 11, comma 9, del dlgs 163/2006 non lascia
l'impresa aggiudicataria «in balia» della stazione appaltante, ma le
consente di recedere dal vincolo derivante dall'aggiudicazione ottenendo
anche il rimborso delle spese sostenute.
È infatti lo stesso legislatore a disciplinare il bilanciamento degli
opposti interessi consentendo all'impresa di evitare l'immobilizzazione
dell'intera organizzazione aziendale nell'attesa della stipulazione del
contratto, ricorrendo al recesso in modo da poter utilizzare le proprie
risorse per ulteriori commesse (articolo
ItaliaOggi del 30.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea generale non sussiste, ai sensi
dell’art. 7 della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare
dell’attivazione del procedimento per il rilascio del titolo
edilizio i soggetti viciniori dell’istante i quali, pur
essendo legittimati all’impugnazione, non rivestono nemmeno
la qualifica di controinteressati in senso tecnico.
Invero, ove sia stata proposta una domanda di concessione
edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto
legittimato possono intervenire nel procedimento ed
impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non
hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento.
E’ stato altresì puntualizzato che i vicini non sono
annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione
ex art. 7 della L. 241/1990, pur quando si tratti di
soggetti che si siano in precedenza opposti all’attività
edilizia del proprietario confinante, giacché l’estensione
ad essi della predetta informativa comporterebbe un aggravio
procedimentale in contrasto con i principi di economicità e
di efficienza dell’attività amministrativa.
---------------
Certamente, il principio generale appena illustrato può
subire eccezioni per la specificità e peculiarità della
vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione
dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della
natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata
da un giudicato amministrativo– che il Comune avrebbe dovuto
demolire.
Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia
dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti
nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono
intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente
individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare un
pregiudizio dallo stesso provvedimento.
---------------
1. Il primo motivo non è suscettibile di positivo
apprezzamento.
1.1 In linea generale non sussiste, ai sensi dell’art. 7
della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione
del procedimento per il rilascio del titolo edilizio i
soggetti viciniori dell’istante i quali, pur essendo
legittimati all’impugnazione, non rivestono nemmeno la
qualifica di controinteressati in senso tecnico (Consiglio
di Stato, sez. IV – 20/07/2017 n. 3573, che richiama sez. VI
– 10/04/2014 n. 1718, con la quale aveva precisato che, ove
sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il
vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono
intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento
che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere
l'avviso di avvio del procedimento; si veda nello stesso
senso T.A.R. Piemonte – sez. II – 26/2/2016 n. 230).
E’
stato altresì puntualizzato che i vicini non sono
annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione
ex art. 7 della L. 241/1990, pur quando si tratti di soggetti
che si siano in precedenza opposti all’attività edilizia del
proprietario confinante, giacché l’estensione ad essi della
predetta informativa comporterebbe un aggravio
procedimentale in contrasto con i principi di economicità e
di efficienza dell’attività amministrativa (cfr. TAR
Calabria Catanzaro, sez. II – 21/03/2017 n. 497; TAR
Emilia Romagna Parma – 04/04/2017 n. 127; TAR Lombardia
Milano, sez. II – 14/06/2017 n. 1348; TAR Emilia Romagna
Bologna, sez. I – 02/11/2017 n. 722).
1.2 Certamente, il principio generale appena illustrato può
subire eccezioni per la specificità e peculiarità della
vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione
dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della
natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo– che il Comune
avrebbe dovuto demolire (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI –
07/08/2015 n. 3891).
1.3 Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia
dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti
nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono
intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente
individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare
un pregiudizio dallo stesso provvedimento.
Questo Collegio
non ritiene che, nel caso di specie, dalle note depositate
dalla ricorrente il 29/08/2014 e il 13/02/2015 potessero
evincersi chiaramente e univocamente gli effetti dannosi
provocati dalle opere nei suoi confronti: in occasione delle
due segnalazioni/istanze di accesso, -OMISSIS- non ha
fornito sufficienti indicazioni sul punto, avendo fatto
riferimento ai lavori in corso (sui quali non aveva dato la
necessaria autorizzazione in quanto comproprietaria della
copertura), al pericolo di caduta di materiale e alla
necessità di verificare il rispetto delle NTA su distanze,
altezze e sicurezza.
Appare insufficiente la generica
deduzione di una violazione afferente a interessi pur
rilevanti, che non dà conto della rilevante incisione su
beni giuridici di appartenenza (e l’effettività e la
concretezza dei pregiudizi sono state adeguatamente
rappresentate soltanto con la proposizione del ricorso) (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del
c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio
può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti
altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è
proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3
prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se
le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I
condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se
questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio
ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani
sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della
disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in
cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio
condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero
trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le
volumetrie.
La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto
che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante
l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste,
per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato
alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini
purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello
stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o
all'aria del sottostante appartamento.
---------------
La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul
diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di
sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in
quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma
incide sulle condizioni per il rilascio del titolo
abilitativo.
In proposito, la giurisprudenza ha puntualizzato che, se si ritiene,
come precisato dalla Corte di Cassazione, che il
proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il
consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche
l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa
prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto,
essendo necessario e sufficiente che l'istante sia
proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la
facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario
dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo
del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita
di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può
essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione
che, in sostanza, costituisca una servitù altius non
tollendi a favore degli stessi.
---------------
2. Anche la seconda censura non è passibile di positivo
scrutinio.
2.1 Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per
la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un
atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in
comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile
anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti
ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere
comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e
servizio (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile –
14/12/2017 n. 30046 che richiama Corte di Cassazione, sez.
II civile – 12/11/1998 n. 11407): come hanno sottolineato i
controinteressati, nel caso di specie sussistono tutti i
presupposti sostanziali per definire “condominio” il
complesso composto dall’edificio le cui unità immobiliari
appartengono ad -OMISSIS- S.r.l. e ai Sig.ri -OMISSIS- e
-OMISSIS-, nonché ad altri soggetti. Infatti, anche se il
compendio contempla gli appartamenti in blocchi separati e
autonomi tra loro, nell’atto notarile 30/12/2010 (doc. 3
ricorrente - pagina 1) si dà atto della comproprietà delle
corti comuni (sub. 5, 18 e 19 del mappale 58).
2.2 Sotto altro versante, appare acclarato in base alle
deduzioni delle parti e agli atti di causa che l’assemblea è
stata convocata e che la ricorrente non vi ha partecipato,
dopo aver ricevuto l’avviso oltre il termine minimo (pari a
5 giorni) normativamente previsto. In ogni caso, è pacifico
che -OMISSIS- non ha manifestato alcun consenso alla
realizzazione dell’intervento. Sul punto, a prescindere
dalla perdurante impugnabilità della deliberazione
assembleare, si tratta di chiarire se è necessario il
consenso unanime dei condomini o comunque l’approvazione del
soggetto che può ricevere un incisivo pregiudizio (come il
ricorrente, immediato confinante che occupa i piani
immediatamente inferiori dell’edificio oggetto di
sopraelevazione).
Il Collegio ritiene di dare al quesito risposta negativa.
2.3 In tema di condominio, l’art. 1127 comma 1 del c.c.
prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio
può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti
altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è
proprietario esclusivo del lastrico solare”. I commi 2 e 3
prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se
le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I
condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se
questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio
ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani
sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della
disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in
cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio
condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero
trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le
volumetrie. La ratio giustificatrice della norma va
ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio
sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui
esso insiste (Tribunale di Trento – 11/07/2017), per cui
l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla
prestazione del consenso da parte degli altri condomini
purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello
stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o
all'aria del sottostante appartamento (Consiglio di Stato,
sez. IV – 09/05/2017 n. 2118).
2.4 La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul
diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di
sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in
quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma
incide sulle condizioni per il rilascio del titolo
abilitativo. In proposito, TAR Calabria Catanzaro, sez. I
– 19/11/2015 n. 1749 ha puntualizzato che, se si ritiene,
come precisato dalla Corte di Cassazione, che il
proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il
consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche
l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa
prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto,
essendo necessario e sufficiente che l'istante sia
proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la
facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario
dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo
del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita
di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può
essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione
che, in sostanza, costituisca una servitù altius non
tollendi a favore degli stessi (TAR Liguria, sez. I –
09/07/2015 n. 651, che richiama TAR Sardegna, sez. II –
14/03/2013 n. 224).
Nel caso di specie, da un lato non
sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso
contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo–
un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il
Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene
dell’edificio. Ulteriori riflessioni su tali aspetti saranno
sviluppate con l’esame dell’ultimo motivo di ricorso.
Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del
diritto a sopraelevare.
2.5 La mancata indicazione, nell’accordo del 16/02/2015 (doc.
1-L ricorrente), del diritto di proprietà esclusiva di
-OMISSIS- sulla striscia contigua al muro perimetrale in
lato sud-ovest interessato dal sopralzo (e della
comproprietà della corte comune) integra indubbiamente una
lacuna, le cui conseguenze saranno esaminate in raccordo con
le successive doglianze. Per il momento, non affiora un dolo
evidente nella rappresentazione dello stato dei luoghi, che
possa ex se insinuare un vizio nel titolo edilizio
rilasciato (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’asservimento consiste,
in termini generali e come specificato dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una
fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori, in
base ai quali un’area viene destinata a servire al computo
dell'edificabilità di un altro fondo.
Come statuito dai giudici d’appello <<L'asservimento
realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione
pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a
servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro.
Scopo dell’atto di asservimento è quello di incrementare la
cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa
(e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il
quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di
inedificabilità. L'atto di asservimento dei suoli comporta
la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale
ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo
dell'utilizzo della cubatura realizzabile in una particella
contigua e del conseguente computo anche della superficie di
quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto
dell'indice di fabbricabilità fondiaria. La riconducibilità
dell’asservimento a un vincolo di inedificabilità idoneo a
permanere anche in caso di alienazione del fondo asservito,
discende dalla natura oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo
indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo
anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo
intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e
a chiunque ne sia il proprietario.
E' stato poi puntualizzato che l’istituto del c.d.
asservimento del terreno per scopi edificatori (o cessione
di cubatura) rientra nello schema del contratto atipico con
effetti obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di
trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e
che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario
titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto
l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo
in conseguenza dell’emanazione del provvedimento
amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria tra
i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di cubatura
fra le parti e nei confronti dei terzi è determinato
esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale
e non vincolato che, a seguito della rinuncia
all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal
cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal
cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo
dall’ente pubblico”.
Come ha statuito Consiglio di Stato, <<Occorre precisare
che, in casi quale quello di specie, non occorre che vi sia
stato un formale “atto di asservimento” di un suolo (della
sua estensione e della sua potenzialità edificatoria) ai
fini della realizzazione di un manufatto da realizzarsi su
un suolo diverso, essendo invece sufficiente che il primo
sia stato considerato al fine di assentire la volumetria
realizzanda (di cui all’istanza di concessione edilizia), e
poi concretamente realizzata. Da tale considerazione
discende, innanzi tutto, che non assume alcun rilievo, ai
fini della impossibilità di considerazione della medesima
superficie per il rilascio di altro e successivo titolo
edilizio:
- né che vi sia stata trascrizione o altra forma di pubblicità
dell’atto di asservimento ….;
- né che eventuali certificati di destinazione urbanistica
indichino detto suolo come edificabile, secondo le
previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico, poiché
deve tenersi del tutto distinta la formale ed astratta
destinazione urbanistica di un’area dalla concreta,
intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità
urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque,
l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità
edilizie della medesima)>>.
Nella stessa prospettiva il Consiglio di Stato ha chiarito
che “il concetto di asservimento urbanistico per esaurimento
della capacità edificatoria opera obiettivamente ed è
opponibile anche al terzo acquirente pur in assenza di
trascrizione del vincolo nei registri immobiliari; esso
consegue di diritto per il solo effetto del rilascio di
legittime concessioni edilizie che determina l'esaurimento
della capacità edificatoria stabilita dallo strumento
urbanistico. Si tratta di un asservimento giuridico
oggettivo tipico del regime conformativo dei suoli, sicché
la mancata indicazione di tale effetto nella concessione
edilizia o della relativa trascrizione della stessa come di
un atto di cessione (pur aventi la valenza giuridica di
determinare e pubblicizzare l'asservimento) non possono
contrastare l'asservimento urbanistico che si determina in
ragione dell'esaurimento della volumetria disponibile,
ignorato dalla concessione o dall'atto di cessione”.
---------------
3. Passando all’esame del motivo di cui alla lettera c)
dell’esposizione in fatto, la ricorrente deduce in via
generale un difetto di istruttoria, ma al riguardo occorre
rilevare che la pratica è stata istruita con l’acquisizione
di elementi rilevanti (parere della Commissione per il
paesaggio, verbale di assemblea condominiale, consenso dei
confinanti, altro materiale documentale).
Il Collegio può a questo punto affrontare le censure
puntuali.
3.1 Sulla cubatura, i controinteressati evocano la relazione
allegata alla DIA in variante del 2013 (cfr. doc. 5.B
ricorrente – pagina 3) dalla quale risulta che, per la
realizzazione del corpo accessorio tra il balcone e la
copertura (cd. “bussola”) –che contemplava un volume in
ampliamento di mc. 30,12– i sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- si
sono avvalsi della capacità edificatoria del mappale di loro
proprietà esclusiva “confinante ad Ovest con il lotto in
questione identificato al fg. 9 mappale 314 del comune di
-OMISSIS-. La superficie identificata come edificabile
corrisponde a mq. 200; con una capacità edificatoria pari a
1,5 mc/mq. il lotto quindi dispone di una volumetria pari a
mc 300,00 …”.
Ultimato quell’intervento, essi disponevano di
un volume residuo di mc. 269,88, sufficiente a compiere
l’opera controversa in questa sede. Nello specifico, i
controinteressati sostengono di aver posto in essere una
“cessione di cubatura” da un fondo all’altro, allo specifico
fine di accrescere la potenzialità edilizia del secondo
tramite l’utilizzo della volumetria del primo (coincidente
con la particella limitrofa).
Detto ordine di idee merita condivisione.
3.2 Come ha chiarito il Consiglio di Stato, sez. VI –
09/02/2016 n. 547, l’asservimento consiste, in termini
generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie
negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai
quali un’area viene destinata a servire al computo
dell'edificabilità di un altro fondo.
Come statuito nella
citata pronuncia n. 547/2016 dei giudici d’appello
<<L'asservimento realizza, in definitiva, una specie
particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene
posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità
edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è
quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo,
sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo
della medesima area, il quale viene, conseguentemente,
assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di
asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra
fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità
edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura
realizzabile in una particella contigua e del conseguente
computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini
della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità
fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo
di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di
alienazione del fondo asservito, discende dalla natura
oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il
vincolo a tempo indeterminato, l’asservimento continua a
seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a
qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, ed è
opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario
(Consiglio di Stato, sez. IV – 05/05/2017 n. 2064).
Ha poi puntualizzato TAR Campania Salerno, sez. I –
07/04/2016 n. 916 che l’istituto del c.d. asservimento del
terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura)
rientra nello schema del contratto atipico con effetti
obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di
trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e
che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario
titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto
l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo
in conseguenza dell’emanazione del provvedimento
amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo
obbligatoria tra i suoi sottoscrittori, mentre il
trasferimento di cubatura fra le parti e nei confronti dei
terzi è determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato che, a seguito
della rinuncia all’utilizzazione della volumetria
manifestata al comune dal cedente in adesione al progetto
edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato a
favore di quest’ultimo dall’ente pubblico”.
Come ha statuito
Consiglio di Stato, sez. IV – 29/02/2016 n. 816, <<Occorre
precisare che, in casi quale quello di specie, non occorre
che vi sia stato un formale “atto di asservimento” di un
suolo (della sua estensione e della sua potenzialità
edificatoria) ai fini della realizzazione di un manufatto da
realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece sufficiente
che il primo sia stato considerato al fine di assentire la
volumetria realizzanda (di cui all’istanza di concessione
edilizia), e poi concretamente realizzata. Da tale
considerazione discende, innanzi tutto, che non assume alcun
rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione della
medesima superficie per il rilascio di altro e successivo
titolo edilizio:
- né che vi sia stata trascrizione o altra forma di
pubblicità dell’atto di asservimento ….;
- né che eventuali certificati di destinazione urbanistica
indichino detto suolo come edificabile, secondo le
previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico, poiché
deve tenersi del tutto distinta la formale ed astratta
destinazione urbanistica di un’area dalla concreta,
intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità
urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque,
l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità
edilizie della medesima)>>.
Nella stessa prospettiva il Consiglio di Stato, sez. IV –
05/02/2015 n. 562 ha chiarito che “il concetto di asservimento
urbanistico per esaurimento della capacità edificatoria
opera obiettivamente ed è opponibile anche al terzo
acquirente pur in assenza di trascrizione del vincolo nei
registri immobiliari (v. Cons. di Stato, sez. V, n.
387/1998); esso consegue di diritto per il solo effetto del
rilascio di legittime concessioni edilizie che determina
l'esaurimento della capacità edificatoria stabilita dallo
strumento urbanistico. Si tratta di un asservimento
giuridico oggettivo tipico del regime conformativo dei
suoli, sicché la mancata indicazione di tale effetto nella
concessione edilizia o della relativa trascrizione della
stessa come di un atto di cessione (pur aventi la valenza
giuridica di determinare e pubblicizzare l'asservimento) non
possono contrastare l'asservimento urbanistico che si
determina in ragione dell'esaurimento della volumetria
disponibile, ignorato dalla concessione o dall'atto di
cessione”.
3.3 Alla luce dei principi illustrati non era necessaria, ai
fini del trasferimento della cubatura disponibile, né una
specifica previsione della normativa di piano né la
trascrizione dell’atto di disposizione, e la fonte
dell’effetto obbligatorio si rinviene nella relazione
tecnica che assume valore di atto unilaterale d’obbligo; al
contempo, la coincidenza della figura dei proprietari dei
terreni coinvolti nella cessione semplifica ulteriormente la
vicenda.
Da ultimo, si segnala che l’obbligo di trascrizione
sancito dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis del c.c. –introdotto dall’art. 5 n. 3) del D.L. 13/05/2011 n. 70
convertito, con modificazioni, nella L. 12/07/2011 n. 106–
non si riflette sulla validità dell’atto ma rileva
unicamente ai fini dell’opponibilità ai terzi e della
soluzione del conflitto tra più aventi causa dallo stesso
autore, ai sensi dell'art. 2644 del c.c. (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte di Cassazione –sulla questione relativa al rispetto delle distanze
all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso
principio di diritto, affermato anche con la propria
sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme
sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un
edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto
con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della
norma speciale in materia di condominio determina
l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve
ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, ha poi statuito che “In tema
di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1,
ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune,
anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni
possibile utilità, purché non alteri la destinazione della
cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri
condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
---------------
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la
distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di
proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art.
1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano
dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle
norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova
costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle
distanze vigente al momento della sua realizzazione, non
potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione
caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce
con il completamento, strutturale e funzionale, di
quest'ultima.
---------------
3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza
massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA. Il limite –che
lo strumento urbanistico riferisce all’altezza “media”
quando il solaio di copertura non sia orizzontale e quando
il terreno o la strada siano in pendenza– risulta infatti
rispettato dall’intervento dei controinteressati, come si
evince dai disegni e dalle tavole esibite.
Emerge
chiaramente che l’altezza media dell’edificio –pari a 10,31
metri– rispetta la previsione di cui all’art. 5 del Piano
delle Regole di -OMISSIS- (cfr. allegati n. 4 e n. 5 controinteressati). Non è sufficiente, al riguardo,
lamentare una mancata “verifica in loco” da parte dei
tecnici del Comune, visto che il meccanismo di calcolo non è
stato contestato dalla parte ricorrente attraverso la
produzione di una perizia ovvero l’elaborazione di cifre
differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi
altezza media ponderale non superiore a 1,80 metri sono
esclusi dal computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per
ritenere inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati
effettuati interventi pregressi, non affiorando il
complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno
indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la
distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di
area di proprietà della Società ricorrente, che corre in
adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n.
47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze
all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso
principio di diritto, affermato anche con la propria
sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme
sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un
edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto
con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della
norma speciale in materia di condominio determina
l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve
ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/06/2013 n. 14652, ha poi statuito che “In tema
di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1,
ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune,
anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni
possibile utilità, purché non alteri la destinazione della
cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri
condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la
distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di
proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR
380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli
strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c.
permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma
non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di
distanze tra costruzioni (Corte di cassazione, sez. II
civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto
delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata
come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa
sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione,
non potendosi automaticamente giovare del diritto di
prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che
si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale,
di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. VIII –
14/03/2017 n. 1465 e la giurisprudenza civile ivi
menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al
principio dell'inoperatività, nel condominio, della
normativa sulle distanze legali, dal momento che tale
principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle
parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i
singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive. Si
concorda dunque con quanto affermato dalla parte ricorrente
nella memoria di replica per cui, nel caso specifico, le
unità immobiliari delle parti in causa sono perfettamente
autonome e ciò che risulta violata è la distanza del
sopralzo –qualificabile come “nuova costruzione”– rispetto
alla porzione esclusiva di area scoperta di proprietà della
ricorrente (e non rispetto ad una porzione di area
condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe
stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in
violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di
aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1
metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno efficacemente affermato (senza
contestazione sul punto della parte avversaria) che il
balcone costruito sul lato sud-ovest non crea alcun affaccio
sulla striscia di proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento
che i poggioli del piano secondo ne impediscono la vista.
Con gli altri proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e
-OMISSIS- hanno sottoscritto la scrittura privata del
16/02/2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
comune risponde dell'inerzia ma si rivale sul lavoratore.
Molestie, pagano l'ente e l'autore.
Molestie, pagano l'ente e l'autore Il comune che è stato condannato per
mobbing su una dipendente si rifà sul lavoratore che ha molestato la
collega, obbligando il primo a rispondere ai sensi dell'articolo 2087 del
codice civile. La rivalsa scatta a titolo contrattuale perché il prestatore
d'opera viene meno a doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro come
gli obblighi di diligenza e fedeltà e i principi generali di correttezza e
buona fede. E la manleva del molestatore va quantificata nella sua
percentuale di responsabilità nella condanna per mobbing riportata dall'ente
locale.
È quanto emerge dalla
sentenza
22.03.2018 n. 7097 dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione che ha confermato
la decisione della Corte d'appello di Genova che aveva condannato il comune
di Carrara a pagare i danni per 15mila euro a una dipendente, nonché'
l'autista del sindaco a rifondere al comune il 60% della somma stabilita
come risarcimento.
Condotte vessatorie
Bocciato il ricorso del lavoratore chiamato in manleva, nel caso di specie
l'autista del sindaco. Diventa definitiva la condanna a rifondere all'ente
locale il 60% della somma che l'amministrazione ha dovuto pagare alla
dipendente come risarcimento del danno da mobbing. Gli Ermellini hanno
infatti riconosciuto che la lavoratrice ha subìto una serie di condotte
vessatorie ad opera di colleghi e superiori. E in questo quadro di
sopraffazione s'inserisce la molestia sessuale della donna ad opera
dell'autista. La vittima ha sporto denuncia ma il comune non ha aperto un
procedimento disciplinare.
Secondo la Cassazione, tuttavia, l'amministrazione ha fatto bene a chiamare
in manleva l'autista a titolo di responsabilità contrattuale: il molestatore
con la sua condotta dà luogo al risarcimento ex articolo 2087 cod. civ. a
carico dell'ente locale, che risponde perché non è intervenuto a rimuovere
il fatto lesivo a carico della dipendente.
La manleva, dunque, scatta perché l'autista ha violato i canoni fondamentali
del rapporto di lavoro indicati dagli articoli 1175, 1375, 2104 e 2105 del
codice civile.
Secondo la Cassazione, infatti, nel pubblico impiego il rapporto di lavoro è
legato al principio costituzionale del buon andamento dell'amministrazione.
Il dipendente è tenuto a rispettarlo anche nei rapporti con i colleghi e
l'utenza oltre che nello svolgimento delle proprie mansioni, mentre
diversamente può dar luogo alla responsabilità ex articolo 2087 Cc
dell'amministrazione (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2018).
---------------
MASSIMA
7. Il motivo non è fondato.
Correttamente la Corte d'Appello ha accolto la domanda proposta dal Comune
di Carrara nei confronti del La., di cui nel primo grado di giudizio aveva
chiesto la chiamata in causa per essere manlevato, tuttavia deve procedere
alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi
dell'art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.
Occorre, infatti, precisare che il Comune ha agito nei confronti del La.,
quale dipendente, a titolo contrattuale per aver quest'ultimo dato luogo a
responsabilità, in parte qua, di esso datore di lavoro in ragione della
violazione degli obblighi contrattuali nascenti a carico del lavoratore dal
rapporto di impiego.
Né il La. ha censurato l'accertamento della sussistenza del rapporto di
lavoro con il Comune di Carrara effettuato dalla Corte d'Appello
nell'indicarlo come autista del Sindaco e possibile destinatario di
procedimento disciplinare in quanto dipendente dell'Amministrazione.
7.1. Pertanto, la manleva è stata correttamente riconosciuta non in ragione
di una responsabilità del lavoratore ex art. 2087 cod. civ., ma perché lo
stesso, con la propria condotta (molesta sessuale nei confronti di altra
dipendente) è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di
lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli
artt. 2104 e 2105 cod. civ., e ai principi generali di correttezza e di
buona fede di cui di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., letti anche in
riferimento al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di
cui all'art. 97 della Costituzione, la cui osservanza riguarda non solo lo
svolgimento della propria attività lavorativa, ma, tra l'altro, i rapporti
con l'utenza e con gli altri lavoratori sul luogo di lavoro, così
concorrendo a dare luogo ad una situazione che ha determinato la
responsabilità ex art. 2087 cod. civ. del Comune.
7.2. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: "Nel
rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, qualora un dipendente ponga
in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva (nella specie molestia
sessuale) nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto
colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a
rispondere ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. nei confronti del lavoratore
oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei
confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla
responsabilità del medesimo; ciò in quanto il dipendente, nel porre in
essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali
connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di
fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ., e ai principi generali
di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.,
letti anche in riferimento al principio di buon andamento della Pubblica
Amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, che devono conformare
non solo lo svolgimento dell'attività lavorativa, ma anche i rapporti tra i
dipendenti pubblici sul luogo di lavoro". |
VARI: Col
paziente il medico deve spiegarsi per bene. Il medico non può spiegarsi in
medichese con il paziente.
Lo spiega la Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella
sentenza 19.03.2018 n. 6688.
Tutto nasce da una situazione delicatissima divenuta poi tragedia: una
donna, che presentava dei noduli al seno sinistro, fu consigliata da un
medico di effettuare un «completamento diagnostico con mammografia e
successiva consulenza senologica», poi in una seconda visita di una «valutazione
chirurgica ed eventuale prosecuzione diagnostica».
Quindi la paziente si recò da un radiologo che però «non ha dato il
giusto valore al riscontro di adenopatie ascellari che rappresentano un
elemento fortemente suggestivo di neoplasia maligna nella mammella
omolaterale», spiegano i giudici, «e che quindi imponeva la
prescrizione di un immediato proponimento diagnostico».
Il radiologo inoltre «aveva tranquillizzato» la paziente
consigliandole un controllo dopo sei mesi, per di più non potendosi
qualificare il caso come «un caso clinico di particolare difficoltà».
Invero, la donna morì di cancro al seno nel giro di quei sei mesi. Da qui il
ricorso dei famigliari. E in sede di giudizio le Ctu disposte evidenziarono
la superficialità del medico e «l'erroneità del suo “suggerimento
attendista” di un controllo ecografico e mammografico a sei mesi di distanza».
Questo perché «una mammografia effettuata quando la malattia mammaria era
verosimilmente in una fase iniziale, avrebbe con elevata probabilità logica
e scientifica permesso una diagnosi precoce e avrebbe offerto reali
possibilità di guarigione o di lungo-sopravvivenza». Ma i porporati del
Palazzaccio aggiungono e richiamano un elemento fondamentale: la corretta
comunicazione nei confronti del paziente.
«Il referto scritto non esaurisce il dovere del medico, in quanto rientra
negli obblighi di ciascun medico, come statuito nel codice deontologico, il
fornire al paziente tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute»,
chiosano i porporati, «tenendo peraltro conto anche delle capacità di
comprensione dell'interlocutore», per cui sia per il radiologo che per
qualsiasi medico, «il suo lavoro di comunicazione non può e non deve
esaurirsi solo tramite quel referto, strumento comunicativo in linguaggio
tecnico»
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 27 del DPR 380/2001 attribuisce il potere
di ordinare la demolizione
anche quando si accerti l’esistenza di opere già realizzate
senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate,
al vincolo di inedificabilità.
---------------
Con il primo motivo di gravame, l’appellante critica
la sentenza nella parte in cui non ha accolto il motivo di
censura, secondo il quale il provvedimento di demolizione
postulerebbe un intervento di urgenza da parte del
responsabile dell’ufficio competente senza alcun preventivo
avviso quando venga accertato l’inizio o l’esecuzione di
opere eseguite senza titolo. Nel caso in questione, però, si
tratterebbe di opere realizzate anni addietro; infatti, i
verbalizzanti non avrebbero trovato alcun lavoro in corso,
ma avrebbero soltanto constatato la presenza di manufatti
completi ed ultimati.
Il motivo d’appello è infondato.
Sul punto, infatti, va osservato che l’art. 27 del DPR
380/2001 attribuisce il potere di ordinare la demolizione
anche quando si accerti l’esistenza di opere già realizzate
senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate,
al vincolo di inedificabilità (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura precaria
dell’opera, come tale non assoggettata ad alcun titolo
abilitativo, va apprezzata non con riferimento alla sua
astratta rimovibilità, ma alla concreta idoneità della
stessa ad arrecare un’utilità prolungata e perdurante nel
tempo.
---------------
Con il secondo articolato motivo di gravame,
l’appellante deduce che:
a) Il Comune ed il primo giudice avrebbero trascurato che le opere
di cui ai punti n. 1) e n. 5) risalgono agli inizi degli
anni 90, il rigetto del ricorso sarebbe fondato
esclusivamente sull’ordinanza del Comune di Bacoli, senza
alcun accertamento tecnico ed alcuna reale e concreta
istruttoria.
Il motivo d’appello non merita accoglimento.
Sul punto va rilevato, infatti, che la sola esistenza dei
manufatti dagli inizi degli anni novanta del secolo scorso
nulla dice sulla legittima preesistenza dei medesimi, per
cui non era necessario che al riguardo venissero compiuti
particolari accertamenti tecnici o attività di istruttoria.
b) Le opere di cui ai punti n. 2) e n. 3) risulterebbero mobili e
quindi di facile rimozione, compatibili con gli strumenti
urbanistici vigenti, che non incidono sui parametri
urbanistici, né sarebbero soggette a permesso di costruire
ai sensi del DPR 380/01. Il T.A.R. escluderebbe erroneamente
la natura precaria delle opere, affermando la concreta
idoneità delle stesse ad arrecare un’utilità prolungata e
perdurante nel tempo che, nel caso di specie, individua
erroneamente “nella permanenza delle medesime,
quantomeno, dal momento dell’accertamento delle violazioni”,
avvenuta in data 11.01.2006, “alla redazione della
perizia”, effettuata il 14.03.2006.
Il motivo d’appello è infondato.
Sul punto va osservato che, come giustamente osservato dal
primo giudice, la natura precaria dell’opera, come tale non
assoggettata ad alcun titolo abilitativo, va apprezzata non
con riferimento alla sua astratta rimovibilità, ma alla
concreta idoneità della stessa ad arrecare un’utilità
prolungata e perdurante nel tempo, nel caso di specie
confermata dal fatto che non risulta essere rappresentata la
pronta rimozione dei manufatti nemmeno dopo l’accertamento
dell’illecito, anzi le opere in questione sono ancora
esistite mesi dopo, quando è stata redatta la perizia di
parte versata in atti (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La qualifica di pertinenza urbanistica è
applicabile soltanto ad opere di modesta entità ed
accessorie rispetto ad un'opera principale, quali i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia,
ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non
siano coessenziali alla stessa, tali, cioè, che non ne
risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Nell'ordinamento statale, infatti, vi è il
principio generale per il quale occorre il rilascio della
concessione edilizia (o del titolo avente efficacia
equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" e,
a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo manufatto su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come
anche una tettoia, che ne alteri la sagoma.
---------------
c) In relazione all’opera di cui al punto n. 4),
l’appellante afferma che si tratterebbe di una pertinenza,
non infissa nel suolo e di facile rimozione, non valutabile
in termini di volumetria.
Il motivo d’appello non merita accoglimento.
Sul punto va osservato, in primo luogo, che secondo la
giurisprudenza anche di questa Sezione (cfr. ad es.
Consiglio di Stato, sez. VI, 17.05.2017, n. 2348; 16.02.2017, n. 694) la qualifica di pertinenza
urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta
entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
i piccoli manufatti per il contenimento di impianti
tecnologici et similia, ma non anche ad opere che, dal punto
di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per
una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta
principale e non siano coessenziali alla stessa, tali, cioè,
che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione
economica; nell'ordinamento statale, infatti, vi è il
principio generale per il quale occorre il rilascio della
concessione edilizia (o del titolo avente efficacia
equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" e,
a tali fini, manca la natura pertinenziale quando sia
realizzato un nuovo manufatto su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come
anche una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Ebbene, nella specie, non si dispone di alcun elemento
idoneo al fine di affermare che il manufatto possegga le
caratteristiche della pertinenza appena illustrate. Inoltre,
le notevoli dimensioni dell’opera (30 mq x mt. 2,60)
impediscono di ritenere che questa sia astrattamente di
facile rimozione e, in ogni modo, va tenuto presente che
l’affermata precarietà della tettoia sarebbe semmai data, se
la stessa non fosse destinata ad arrecare un’utilità
prolungata e perdurante nel tempo, circostanza che non
risulta desumibile in alcun atto dagli atti processuali (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il
titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
---------------
Secondo consolidata giurisprudenza, per l'ordinanza di
demolizione non è dovuta la comunicazione di avvio del
procedimento, in quanto, trattandosi di atto dovuto e
rigorosamente vincolato, non sono richiesti apporti
partecipativi del soggetto destinatario.
In particolare, il procedimento repressivo degli abusi
edilizi, in quanto integralmente disciplinato dalla legge
speciale e da questa rigidamente vincolato, non richiede la
previa comunicazione di avvio ai destinatari dell'atto
finale, per cui l'omessa comunicazione di avvio del
procedimento ex art. 7, L. 241/1990 non costituisce vizio
dell'ordinanza di demolizione.
---------------
e) Sostiene, inoltre, l’appellante, che il provvedimento
sanzionatorio oggetto di causa non sarebbe supportato da una
congrua motivazione, in ordine sia ai presupposti fattuali e
giuridici che comportano l’applicazione dell’atto
repressivo, sia all’interesse pubblico al ripristino, e il
medesimo dovrebbe comunque valutare se esistono particolari
motivi che possono consigliare l’adozione di misure
sanzionatorie di minore gravità della demolizione.
Il motivo d’appello non merita accoglimento.
Sul punto va rilevato che, recentemente, la giurisprudenza
di questo Consiglio si è orientata nel senso che “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe
neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino” (in questo senso, Ad. Plen.,
sent. n. 9/2017).
Va poi rilevato, altresì che, a prescindere dalle loro
caratteristiche costruttive, nella specie, le opere
realizzate in assenza di valido titolo abilitativo si
trovano in zona assoggettata a vincolo ambientale, il che ne
comporta comunque la demolizione, ai sensi dell’art. 167,
comma 5, del codice n. 42/2004, che non ne consente la
sanatoria.
f) Infine, l’appellante afferma la necessità della
comunicazione d’avvio del procedimento, anche per gli atti
repressivi in materia di edilizia.
Il motivo d’appello è infondato.
Secondo consolidata giurisprudenza (Cons. Stato sez. V, 09.09.2013, n. 4470; id., sez. IV, 12.09.2007,
n. 4827), infatti, per l'ordinanza di demolizione non è
dovuta la comunicazione di avvio del procedimento, in
quanto, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario. In particolare, il procedimento
repressivo degli abusi edilizi, in quanto integralmente
disciplinato dalla legge speciale e da questa rigidamente
vincolato, non richiede la previa comunicazione di avvio ai
destinatari dell'atto finale, per cui l'omessa comunicazione
di avvio del procedimento ex art. 7, L. 241/1990 non
costituisce vizio dell'ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.03.2018 n. 1672 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per malattia, curarsi è obbligatorio per il lavoratore. Violare il riposo
prescritto può portare anche al licenziamento.
Il lavoratore assente per malattia ha l'obbligo di riguardarsi per evitare
che la malattia si prolunghi oltre la prognosi. Pertanto, non solo deve
astenersi da altra attività lavorativa, ma deve anche evitare di partecipare
ad attività ludiche, di intrattenimento o di formazione che possano
pregiudicare o ritardare la guarigione.
È questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con una
sentenza 13.03.2018 n. 6047.
La pronuncia riguarda un lavoratore del settore privato, ma il caso
esaminato e i principi affermati dalla Suprema corte valgono per tutti i
lavoratori, compresi gli operatori scolastici. Ecco il fatto.
Il lavoratore, assente dal lavoro per una lombo-sciatalgia, con prognosi di
4 giorni, durate l'assenza dal lavoro aveva partecipato ad un evento
musicale suonando per due ore la fisarmonica. Dell'evento era stato dato
ampio risalto sulla stampa e il lavoratore aveva anche pubblicato su un
social network delle sue foto, che lo ritraevano mentre suonava in piedi
durante l'evento.
Dopo di che era rientrato regolarmente al lavoro. Ma il
datore di lavoro lo aveva licenziato, adducendo la giusta causa. E il
licenziamento era stato confermato anche dal giudice di I grado all'esito
dell'impugnativa. La Corte d'appello, però, era stata di diverso avviso e
aveva annullato il licenziamento. Di qui il ricorso per Cassazione da parte
del datore di lavoro, che si concludeva con la cancellazione della sentenza
di appello e il rinvio al collegio di II grado in diversa composizione.
I giudici di piazza Cavour hanno spiegato che Il lavoratore assente per
malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa,
non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi
un'attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della
persona. Ma la stessa non solo deve essere compatibile con lo stato di
malattia, ma deve essere anche conforme all'obbligo di correttezza e buona
fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi
lo stato di malattia, con conseguente recupero dell'idoneità al lavoro.
Secondo la Suprema corte, però, i giudici di secondo grado avevano omesso di
verificare se il lavoratore si fosse comportato secondo correttezza e buona
quando era andato a suonare invece di riguardarsi. E tale omissione ha
determinato la illegittimità della sentenza di appello perché il medico,
all'atto della emissione della diagnosi, aveva prescritto come cura proprio
il riposo.
Riposo che non era stato osservato dal lavoratore. Va detto subito, però,
che il compito della Suprema corte non è quello di accertare i fatti, ma di
verificare se i giudici di merito, all'atto della emissione delle pronunce
sottoposte al vaglio della Cassazione, abbiano applicato correttamente la
legge e i principi giuridici che a questa sottendono. Pertanto, la Corte con
rinvio di una sentenza di II grado non comporta automaticamente la vittoria
della controparte, ma semplicemente la riedizione del processo e la relativa
applicazione del principio enunciato dalla Cassazione al caso in esame.
E quindi, se il lavoratore dovesse riuscire a dimostrare di avere agito con
cautela e secondo i principi di correttezza e buona fede, potrebbe comunque
vincere la causa ed ottenere di essere reintegrato nel posto di lavoro.
Non di meno, l'insegnamento della Suprema corte può essere comunque utile a
prevenire l'insorgenza della responsabilità disciplinare. Che potrebbe
verificarsi, per esempio, nel caso di frequenza a corsi di formazione o
universitari odi partecipazione a manifestazioni culturali durante i periodi
di assenza per malattia (articolo
ItaliaOggi del 27.03.2018).
---------------
MASSIMA
6.1. I suddetti due motivi di ricorso devono essere trattati
congiuntamente, in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono
fondati.
Come questa Corte ha affermato (cfr., ex multis, Cass., n. 17625 del
2014), lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte
del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del
datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona
fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale
attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a
far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua
fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura
della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa
pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del
lavoratore, ferma restando la necessità che, nella contestazione
dell'addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire
una adeguata difesa da parte del lavoratore.
Diversamente, si rimetterebbe al giudice un compito che, lungi dal
costituire esercizio istituzionale dei poteri di interpretazione della
volontà negoziale, si tradurrebbe in una inammissibile integrazione, o
correzione, della medesima.
Correttamente, pertanto, la Corte
d'Appello, proprio facendo applicazione del principio della specificità
della contestazione, posto a garanzia della tutela del diritto di difesa del
lavoratore cui è preordinata, altresì, l'immutabilità dei fatti posti a
fondamento del licenziamento disciplinare, ha ritenuto che la contestazione,
per come formulata, riguardava l'adozione di una condotta che poteva
ritardare la guarigione, dal momento che la circostanza di fatto richiamata
nella contestazione medesima è lo svolgimento, venendone precisati luogo
data e periodo della giornata, dell'attività di concertista durante la
malattia, e non l'inesistenza in sé della malattia - come comunicata dal
lavoratore e attestata dalle relative certificazioni mediche.
7. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata la violazione e/o
falsa applicazione ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., degli artt. 1175,
1375, 2104 e 2105 cod. civ., in riferimento a quanto previsto dall' art. 18
della legge n. 300 del 1970, dall'art. 3 della legge n. 604 del 1966, e
dall'art. 2110 cod. civ.. Ricorda il ricorrente come il
lavoratore, durante la malattia si deve adoperare affinché non venga
ritardata la guarigione. Ciò comporta che debba astenersi da ogni attività,
che possa compromettere la guarigione, non rilevando che ciò poi non sia
accaduto.
Nella specie, il comportamento del lavoratore (viaggio in macchina su strada
tortuosa, attesa sul luogo del concerto con una temperatura non confacente
alla malattia, esibizione per due ore, in piedi e sostenendo il peso della
fisarmonica), in presenza della supposta lombosciatalgia, aveva violato tale
obbligo e le previsioni di cui agli artt. 2110, 2104, 1175 e 1375 cod. civ.
...
11. I motivi dal terzo al sesto devono essere trattati
congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi sono fondati nei limiti di seguito esposti.
11.1. Nella specie i principi che informano la materia sono consolidati:
lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente
assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro
per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli
specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività
esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far
presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua
fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura
della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa
pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del
lavoratore (v., ex plurimis,
Cass. n. 17625 del 2014, Cass., n. 24812 del 2016, Cass., n. 21667 del
2017).
Inoltre, l'espletamento di attività extralavorativa durante
il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non
solo se da tale comportamento deriva un'effettiva impossibilità temporanea
della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa è solo messa in
pericolo dalla condotta imprudente
(v. Cass., n. 16465 del 2015), con una valutazione di
idoneità che deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata
al momento in cui il comportamento viene realizzato
(citata Cass., n. 21667 del 2017, n. 10416 del 2017, n. 24812 del 2016, n.
17625 del 2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Rilevato:
- che la fattispecie di cui si controverte è regolata
dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013, per cui “Allo scopo
di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai
sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi
alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo
quanto previsto dall'articolo 5-bis”;
- che il ricorrente ha dato impulso al procedimento di
accesso civico “generalizzato” per esercitare un diritto a
titolarità diffusa, azionabile da “chiunque” (senza essere
sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva) a prescindere dalla motivazione sottesa, che non
deve essere esplicitata;
- che lo strumento dell’accesso civico “generalizzato” si
aggiunge, nel nostro ordinamento, a quello connesso agli
obblighi di pubblicazione (articoli 12 e ss. del D.Lgs.
33/2013) e alla più risalente disciplina di cui agli
articoli 22 e ss. della L. 241/1990 in tema di accesso ai
documenti;
- che si traduce, in estrema sintesi, in un diritto di
accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni
giuridicamente rilevanti ed avente ad oggetto tutti i dati,
i documenti e le informazioni detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è
stabilito un obbligo di pubblicazione (cfr. linee guida ANAC
28/12/2016, par. 2.1);
- che il nuovo istituto è teso a massimizzare la trasparenza
amministrativa, secondo i principi costituzionali di
trasparenza e buon andamento, per far comprendere
dall’esterno le decisioni assunte nel perseguimento
dell’interesse pubblico;
- che detta modalità di accesso agli atti ha un oggetto
molto esteso, in quanto tutta la documentazione detenuta
dalla pubblica amministrazione è accessibile, qualora non
ricorrano le tassative circostanze di cui all’art. 5-bis del
D.Lgs. 33/2013;
- che, in altri termini, l’ampio diritto all’informazione e
alla trasparenza dell’attività delle amministrazioni resta
temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di
riservatezza, di segretezza e di tutela di determinati
interessi pubblici e privati (come elencati all’art. 5-bis
del D.Lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione alla regola,
alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal sistema
FOIA, acronimo derivante dal Freedom of Information Act, e
cioè la legge sulla libertà di informazione adottata negli
Stati Uniti il 04/07/1966;
Dato atto:
- che la novella legislativa “svincola il diritto di accesso
da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del
decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo,
sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5-bis,
e in tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare,
se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto
sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e
ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e
non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche
le peculiarità della posizione legittimante del
richiedente”;
- che, per rifiutare l’accesso civico “generalizzato” ai
sensi dei citati commi 1 e 2 dell’art. 5-bis (tutela di
interessi pubblici o privati di rilievo ordinamentale),
l’amministrazione procedente deve indicare quale sia il
“concreto pregiudizio” che corrono tali interessi e non può
più opporre tali limiti quando termina il periodo temporale
“nel quale la protezione è giustificata in relazione alla
natura del dato”, ai sensi del comma 5 dell’art. 5-bis del D.Lgs.
33/2013;
- che nelle linee guida ANAC del 28/12/2016, adottate
d’intesa con il Garante per la protezione dei dati
personali, si afferma che il “bilanciamento degli opposti
interessi” è ben diverso nel caso dell’accesso ai sensi
della L. 241/1990 –dove la tutela può consentire un accesso
più in profondità ai dati pertinenti– rispetto al caso
dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo
diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in
profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei
limiti) ma più esteso, avendo presente che in questo caso
comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione)
di dati, documenti e informazioni;
Tenuto conto:
- che va anzitutto escluso che l'amministrazione possa
legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego
di accesso la mancanza del consenso da parte dei soggetti
controinteressati, atteso che la normativa, lungi dal
rendere questi ultimi arbitri assoluti delle richieste che
li riguardano, rimette sempre all'amministrazione
destinataria dell’istanza il potere di valutare la
fondatezza della pretesa;
- che, in secondo luogo, non è rilevante che il documento
sia stato formato da un altro soggetto, se il Comune lo
detiene stabilmente, così come statuito dal legislatore in
materia di accesso “documentale”;
Ritenuto:
- che l’Ente locale intimato è tenuto ad esibire gli atti
amministrativi sopra riepilogati ai punti II, III e IV
(oggetto dell’istanza di parte ricorrente), anche attraverso
l’esatta indicazione del percorso informatico per reperirli,
ossia con la trascrizione del “link esteso” idoneo a
rinviare direttamente a ciascun provvedimento richiesto;
- che, sul punto, il diritto di accesso deve essere
assicurato nella sua pienezza e immediatezza, senza
possibilità di frapporre alcun tipo di ostacolo, anche
rappresentato dalla necessità di ricercare il documento
entro un’ampia lista che presuppone il possesso di una
capacità di “orientamento” tra le pagine internet (ove il
percorso non sia intuitivo e di immediata comprensione);
- che, quanto agli altri documenti (punti V e VI del
riepilogo dell’istanza), secondo il Comune il colloquio
individuale del candidato è stato finalizzato ad “indagare
il suo percorso di vita dal punto di vista relazionale,
formativo, professionale e di relazione con la comunità, il
significato della leva civica all'interno di questo percorso
ed eventuali vincoli ed impegni che possono influire sul
corretto svolgimento del progetto”;
- che, secondo le linee guida ANAC, l’Ente destinatario
dell’istanza deve valutare, nel fornire riscontro motivato a
richieste di accesso “generalizzato”, se la conoscenza da
parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o
possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei
dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in
materia, con esame delle controdeduzioni del controinteressato coinvolto;
- che il soggetto destinatario dell’istanza, nel dare
riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe
in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli
per i diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione
di documenti con l’omissione dei «dati personali» in essi
presenti, laddove l’esigenza informativa possa essere
raggiunta senza implicare il loro trattamento;
- che ANAC ha, infine, messo correttamente in luce come
<<l’accesso generalizzato è servente rispetto alla
conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. «Allo
scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs. n.
33/2013). Di conseguenza, quando l’oggetto della richiesta
di accesso riguarda documenti contenenti informazioni
relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati
personali») non necessarie al raggiungimento del predetto
scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che
risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non
pertinenti, l’ente destinatario della richiesta dovrebbe
accordare l’accesso parziale ai documenti, oscurando i dati
personali ivi presenti>>;
Rilevato:
- che, alla luce delle indicazioni appena riportate e della
genericità della motivazione illustrata nell’atto comunale
di diniego, ad avviso del Collegio i documenti richiesti
sono in via di massima suscettibili di ostensione, salva la
facoltà di oscurare i dati strettamente ed effettivamente
personali (soprattutto di natura sensibile), per i quali la
divulgazione possa ritenersi eccessiva e non pertinente
rispetto allo scopo perseguito dal legislatore (la massima
trasparenza dell’azione amministrativa);
- che l’avviso di selezione in atti enuclea i criteri di
attribuzione dei punteggi (utili per la redazione della
graduatoria finale), ossia il curriculum vitae, il
questionario motivazionale, il colloquio di gruppo e il
colloquio individuale;
- che, da un’analisi dei parametri suddetti, non si evince
con immediatezza la necessità (per i candidati) di
esplicitare dati personali sensibili o “super-sensibili”;
- che, sotto altro profilo, in una selezione pubblica le
“ragionevoli aspettative di confidenzialità degli
interessati” riguardo a talune informazioni recedono o sono
comunque depotenziate;
- che, seppur con riguardo all’accesso procedimentale, si è
in proposito affermato che, una volta conclusasi la
procedura concorsuale, i documenti prodotti dalle ditte
concorrenti assumono rilevanza esterna, in quanto la
documentazione prodotta ai fini della partecipazione ad una
gara di appalto indetta dalla pubblica amministrazione esce
dalla sfera esclusiva delle imprese per formare oggetto di
valutazione comparativa, essendo versata in un procedimento
caratterizzato dai principi di concorsualità e trasparenza;
- che il principio evocato, seppur dettato per gli operatori
economici e alle imprese, può essere esteso alle persone
fisiche che si sottopongono a un confronto pubblico
finalizzato alla scelta del soggetto più idoneo a ricoprire
un determinato ruolo;
---------------
... per l’esercizio del diritto di accesso “generalizzato”
ALLA DOCUMENTAZIONE DETENUTA DAL COMUNE INTIMATO, RELATIVA
AL BANDO DEL PROGETTO AUTOFINANZIATO “LEVA CIVICA IN BREMBATE”.
...
Evidenziato:
- che deve essere respinta l’eccezione di difetto di procura
in forma digitale, sollevata in Camera di consiglio dal
legale di parte ricorrente, in quanto dall’accesso al
portale informatico la procura alle liti risulta
regolarmente conferita in documento allegato e firmato
digitalmente;
- che il diritto di accesso è riconosciuto come diritto
soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del
quale l’amministrazione (o il soggetto comunque tenuto a
divulgare gli atti) pone in essere un’attività materiale
vincolata;
- che le disposizioni normative che assicurano il
soddisfacimento della pretesa ostensiva costituiscono
diretta espressione del principio di imparzialità e
trasparenza ex art. 97 Costituzione e del “Diritto ad una
buona amministrazione” ex art. 41, par. 2, lett. b), della
“Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”;
Atteso:
- che, in data 16/10/2017, il ricorrente ha chiesto al
Comune di Brembate il rilascio di copia degli atti seguenti:
I. bando “Leva civica regionale” autofinanziata 2017/057
“Leva civica in Brembate”;
II. delibera recante l’istituzione del bando;
III. deliberazione di impegno di spesa successiva al bando;
IV. deliberazione di spesa del 21/09/2017;
V. relazione sulla selezione e valutazione della candidata
controinteressata (Serena Roberta Pagliaro);
VI. relazione sulla selezione e valutazione del primo
candidato in graduatoria risultato idoneo, ma non
selezionato;
- che, con nota 23/11/2017, l’amministrazione si è
pronunciata sull’istanza;
- che, in primo luogo, ha assentito al rilascio di copia del
bando LCR autofinanziata 2017/057 “leva civica in Brembate”;
- che, sui documenti sopra elencati ai n. II, III, e IV,
dopo avere precisato la loro natura di determinazioni, ha
rilevato che gli stessi sono “soggetti a pubblicazione
obbligatoria” e disponibili sul sito internet istituzionale
(con specificazione della “sezione” e “sottosezione” e
trascrizione del link);
- che per gli ulteriori atti (oggetto di due distinte
istanze), acquisiti nel corso della procedura selettiva, il
Comune ha negato la divulgazione, avvertendo la presenza di
dati personali “super-sensibili” (art. 4, comma 1, lett. b, del
D.Lgs. 196/2003), ossia informazioni di carattere
psicoattitudinale;
- che, ad avviso dell’amministrazione, la materia della
privacy prevede che il trattamento dei dati vada effettuato
nel rispetto delle libertà fondamentali, nonché della
dignità dell’interessato con particolare riferimento alle
componenti della riservatezza, identità personale,
reputazione, immagine, nome, oblio (qualificabili come
diritti inviolabili ex artt. 2 e 3 della Costituzione);
- che, ad avviso del Comune, l’art. 5-bis del D.Lgs.
33/2013 –ai commi 2 e 3– prevede un’eccezione assoluta al
diritto alla conoscenza diffusa, per la tutela dei diritti
fondamentali, non superabile con il meccanismo del
bilanciamento degli opposti interessi;
- che l’ostensione arrecherebbe un pregiudizio concreto ai
soggetti indicati, sotto il profilo della lesione del
diritto alla protezione dei dati personali;
- che l’Ente intimato rileva che anche l’art. 24, comma 1,
della L. 241/1990 esclude l’accesso nell’ambito dei
procedimenti selettivi contenenti informazioni di carattere
psico-attitudinale relative a terzi;
- che, infine, le selezioni sono state svolte da
un’Associazione accreditata –“Associazione Mosaico – Ente
di gestione per il servizio civile”– titolare dei progetti
per il Comune Brembate e unico soggetto abilitato al
trattamento dei dati, con possibilità di accesso riservata
ai soli diretti interessati;
Considerato:
- che, dopo aver premesso che l’errata qualificazione dei
provvedimenti –come delibere anziché determinazioni– non
ha precluso all’Ente locale intimato l’esatta comprensione
dell’istanza, il ricorrente lamenta la violazione dell’art.
5 commi 2 e ss. del D.Lgs. 33/2013, in quanto:
• all’indirizzo internet indicato nella nota comunale è
reperibile solo la determinazione del 21/09/2017;
• in ossequio alle norme sulla trasparenza, l’Ente locale è
tenuto ad indirizzare esattamente il cittadino e a favorire
l’agevole reperimento del materiale richiesto, affinché
possa orientarsi tra le numerose determinazioni oggetto di
pubblicazione;
• diversamente da quanto opina il Comune, l’accesso
esercitato non è di tipo “documentale”, e dunque non è
riconducibile nell’alveo della L. 241/1990 e non è necessario
specificare l’interesse giuridicamente rilevante che si
intende perseguire;
• la circolare n. 2/2017 del Ministero per la
semplificazione e la pubblica amministrazione statuisce che,
nel dubbio, le amministrazioni devono dare prevalenza
all’interesse conoscitivo, tutelato dall’istituto
dell’accesso “generalizzato”;
- che l’esponente lamenta altresì la violazione dell’art.
5-bis commi 2 e 3 del D.Lgs. 33/2013, dato che:
• a fronte di due istanze formulate, non è chiaro a quale
sia stata data effettivamente risposta;
• l’Ente locale ha addotto argomentazioni non supportate da
elementi di fatto, che rendono impossibile comprendere
l’iter logico sotteso;
• l’eccezione assoluta a salvaguardia dei dati
“super-sensibili” opera con esclusivo riferimento ai dati
psicoattitudinali acquisiti nei concorsi pubblici attraverso
indagini eseguite da figure specialistiche (psichiatri o
psicologi), che intrattengono colloqui clinici e
somministrano test scientifici validati (cfr. Indicazioni
operative ANAC e Garante della privacy del 28/12/2016, par.
6.2);
• la selezione effettuata dall’Associazione Mosaico non ha
comportato alcuna produzione di elaborati dei candidati, né
la sottoposizione all’accertamento di requisiti attitudinali
da parte di specialisti, salva la necessità di compilare un
questionario motivazionale e di svolgere un colloquio
collettivo e un colloquio individuale, condotti da soggetti
non qualificati;
• dunque, la selezione ha investito i profili motivazionali
degli aspiranti all’impiego volontario presso la biblioteca,
tenuti a esplicitare le ragioni che li hanno indotti a
partecipare al bando (si è trattato di ascoltare e
comprendere il “racconto” della persona, senza alcuna
intrusione nel suo mondo psichico);
• che, in ogni caso, l’amministrazione non ha indicato con
precisione il pregiudizio che patirebbero i soggetti
interessati;
• che, ai sensi delle Linee guida ANAC già citate (punto
5.3), nei casi di diniego in relazione ai limiti di cui
all’art. 5, commi 1 e 2, del D.Lgs., l’amministrazione è
tenuta a fornire una congrua e completa motivazione e non
può (come nella specie) opporre elementi vaghi e apodittici;
Rilevato:
- che la fattispecie di cui si controverte è regolata
dall’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013, per cui “Allo scopo
di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai
sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi
alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo
quanto previsto dall'articolo 5-bis”;
- che il ricorrente ha dato impulso al procedimento di
accesso civico “generalizzato” per esercitare un diritto a
titolarità diffusa, azionabile da “chiunque” (senza essere
sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione
soggettiva) a prescindere dalla motivazione sottesa, che non
deve essere esplicitata;
- che lo strumento dell’accesso civico “generalizzato” si
aggiunge, nel nostro ordinamento, a quello connesso agli
obblighi di pubblicazione (articoli 12 e ss. del D.Lgs.
33/2013) e alla più risalente disciplina di cui agli
articoli 22 e ss. della L. 241/1990 in tema di accesso ai
documenti;
- che si traduce, in estrema sintesi, in un diritto di
accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni
giuridicamente rilevanti ed avente ad oggetto tutti i dati,
i documenti e le informazioni detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli per i quali è
stabilito un obbligo di pubblicazione (cfr. linee guida ANAC
28/12/2016, par. 2.1);
- che il nuovo istituto è teso a massimizzare la trasparenza
amministrativa, secondo i principi costituzionali di
trasparenza e buon andamento, per far comprendere
dall’esterno le decisioni assunte nel perseguimento
dell’interesse pubblico;
- che detta modalità di accesso agli atti ha un oggetto
molto esteso, in quanto tutta la documentazione detenuta
dalla pubblica amministrazione è accessibile, qualora non
ricorrano le tassative circostanze di cui all’art. 5-bis del
D.Lgs. 33/2013;
- che, in altri termini, l’ampio diritto all’informazione e
alla trasparenza dell’attività delle amministrazioni resta
temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di
riservatezza, di segretezza e di tutela di determinati
interessi pubblici e privati (come elencati all’art. 5-bis
del D.Lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione alla regola,
alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal sistema
FOIA, acronimo derivante dal Freedom of Information Act, e
cioè la legge sulla libertà di informazione adottata negli
Stati Uniti il 04/07/1966 (TAR Campania Napoli, sez. VI –
13/12/2017 n. 5901);
Dato atto:
- che secondo TAR Puglia Bari, sez. III – 19/02/2018 n.
234 (che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 12/08/2016 n.
3631) la novella legislativa “svincola il diritto di accesso
da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del
decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo,
sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5-bis,
e in tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare,
se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto
sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e
ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e
non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche
le peculiarità della posizione legittimante del
richiedente”;
- che, per rifiutare l’accesso civico “generalizzato” ai
sensi dei citati commi 1 e 2 dell’art. 5-bis (tutela di
interessi pubblici o privati di rilievo ordinamentale),
l’amministrazione procedente deve indicare quale sia il
“concreto pregiudizio” che corrono tali interessi e non può
più opporre tali limiti quando termina il periodo temporale
“nel quale la protezione è giustificata in relazione alla
natura del dato”, ai sensi del comma 5 dell’art. 5-bis del D.Lgs. 33/2013 (TAR Lombardia Milano, sez. IV –
14/11/2017 n. 2157);
- che nelle linee guida ANAC del 28/12/2016, adottate
d’intesa con il Garante per la protezione dei dati
personali, si afferma che il “bilanciamento degli opposti
interessi” è ben diverso nel caso dell’accesso ai sensi
della L. 241/1990 –dove la tutela può consentire un accesso
più in profondità ai dati pertinenti– rispetto al caso
dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo
diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in
profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei
limiti) ma più esteso, avendo presente che in questo caso
comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione)
di dati, documenti e informazioni;
Tenuto conto:
- che va anzitutto escluso che l'amministrazione possa
legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego
di accesso la mancanza del consenso da parte dei soggetti
controinteressati, atteso che la normativa, lungi dal
rendere questi ultimi arbitri assoluti delle richieste che
li riguardano, rimette sempre all'amministrazione
destinataria dell’istanza il potere di valutare la
fondatezza della pretesa (cfr. sentenza TAR Campania
Napoli, sez. VI – 09/03/2017 n. 1380);
- che, in secondo luogo, non è rilevante che il documento
sia stato formato da un altro soggetto, se il Comune lo
detiene stabilmente, così come statuito dal legislatore in
materia di accesso “documentale”;
- che l’avviso di selezione pubblica 27/07/2017 n. 57 è stato
prodotto in giudizio dal Comune;
Ritenuto:
- che l’Ente locale intimato è tenuto ad esibire gli atti
amministrativi sopra riepilogati ai punti II, III e IV
(oggetto dell’istanza di parte ricorrente), anche attraverso
l’esatta indicazione del percorso informatico per reperirli,
ossia con la trascrizione del “link esteso” idoneo a
rinviare direttamente a ciascun provvedimento richiesto;
- che, sul punto, il diritto di accesso deve essere
assicurato nella sua pienezza e immediatezza, senza
possibilità di frapporre alcun tipo di ostacolo, anche
rappresentato dalla necessità di ricercare il documento
entro un’ampia lista che presuppone il possesso di una
capacità di “orientamento” tra le pagine internet (ove il
percorso non sia intuitivo e di immediata comprensione);
- che, quanto agli altri documenti (punti V e VI del
riepilogo dell’istanza), secondo il Comune il colloquio
individuale del candidato è stato finalizzato ad “indagare
il suo percorso di vita dal punto di vista relazionale,
formativo, professionale e di relazione con la comunità, il
significato della leva civica all'interno di questo percorso
ed eventuali vincoli ed impegni che possono influire sul
corretto svolgimento del progetto”;
- che, secondo le linee guida ANAC, l’Ente destinatario
dell’istanza deve valutare, nel fornire riscontro motivato a
richieste di accesso “generalizzato”, se la conoscenza da
parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o
possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei
dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in
materia, con esame delle controdeduzioni del controinteressato coinvolto;
- che il soggetto destinatario dell’istanza, nel dare
riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe
in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli
per i diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione
di documenti con l’omissione dei «dati personali» in essi
presenti, laddove l’esigenza informativa possa essere
raggiunta senza implicare il loro trattamento;
- che ANAC ha, infine, messo correttamente in luce come
<<l’accesso generalizzato è servente rispetto alla
conoscenza di dati e documenti detenuti dalla p.a. «Allo
scopo di favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d.lgs. n.
33/2013). Di conseguenza, quando l’oggetto della richiesta
di accesso riguarda documenti contenenti informazioni
relative a persone fisiche (e in quanto tali «dati
personali») non necessarie al raggiungimento del predetto
scopo, oppure informazioni personali di dettaglio che
risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non
pertinenti, l’ente destinatario della richiesta dovrebbe
accordare l’accesso parziale ai documenti, oscurando i dati
personali ivi presenti>>;
Rilevato:
- che, alla luce delle indicazioni appena riportate e della
genericità della motivazione illustrata nell’atto comunale
di diniego, ad avviso del Collegio i documenti richiesti
sono in via di massima suscettibili di ostensione, salva la
facoltà di oscurare i dati strettamente ed effettivamente
personali (soprattutto di natura sensibile), per i quali la
divulgazione possa ritenersi eccessiva e non pertinente
rispetto allo scopo perseguito dal legislatore (la massima
trasparenza dell’azione amministrativa);
- che l’avviso di selezione in atti enuclea i criteri di
attribuzione dei punteggi (utili per la redazione della
graduatoria finale), ossia il curriculum vitae, il
questionario motivazionale, il colloquio di gruppo e il
colloquio individuale;
- che, da un’analisi dei parametri suddetti, non si evince
con immediatezza la necessità (per i candidati) di
esplicitare dati personali sensibili o “super-sensibili”;
- che, sotto altro profilo, in una selezione pubblica le
“ragionevoli aspettative di confidenzialità degli
interessati” riguardo a talune informazioni recedono o sono
comunque depotenziate;
- che, seppur con riguardo all’accesso procedimentale, si è
in proposito affermato che, una volta conclusasi la
procedura concorsuale, i documenti prodotti dalle ditte
concorrenti assumono rilevanza esterna, in quanto la
documentazione prodotta ai fini della partecipazione ad una
gara di appalto indetta dalla pubblica amministrazione esce
dalla sfera esclusiva delle imprese per formare oggetto di
valutazione comparativa, essendo versata in un procedimento
caratterizzato dai principi di concorsualità e trasparenza
(cfr. ordinanza della sez. II di questo TAR 13/01/2016 n.
20 e i precedenti ivi citati);
- che il principio evocato, seppur dettato per gli operatori
economici e alle imprese, può essere esteso alle persone
fisiche che si sottopongono a un confronto pubblico
finalizzato alla scelta del soggetto più idoneo a ricoprire
un determinato ruolo;
Considerato:
- che, in conclusione, il ricorso in esame è fondato e
merita accoglimento nei limiti precisati;
- che, di conseguenza, il Comune intimato deve esibire
(anche indicando le modalità di visualizzazione informatica
di pronta e facile esecuzione) gli atti amministrativi sopra
elencati ai punti II, III e IV;
- che le relazioni sulla selezione e valutazione della
candidata controinteressata (Se.Ro.Pa.) e del
primo candidato in graduatoria risultato idoneo ma non
selezionato, sono suscettibili di divulgazione, salvo
oscuramento dei dati personali la cui conoscenza non sia
strettamente necessaria o comunque sproporzionata;
- che, in definitiva, le relazioni (e i giudizi ivi
racchiusi) dovranno essere puntualmente esaminate dal Comune
–che potrà oscurare i dati personali, dando adeguata
motivazione delle ragioni della decisione– per poi essere
esibite in copia al richiedente;
- che le spese di lite seguono la soccombenza e sono
liquidate come da dispositivo;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), accoglie il
ricorso in epigrafe e, per l’effetto, ordina al Segretario
comunale di Brembate di rilasciare alla parte ricorrente la
documentazione richiesta, nei limiti e con le modalità
indicate in motivazione, entro e non oltre il termine di 30
(trenta) giorni dalla data di comunicazione della presente
sentenza.
Annulla l’atto di diniego del 23/11/2017 (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 12.03.2018 n. 303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sull’anomalia
dell’offerta sempre da verificare il costo del lavoro.
Nell’esecuzione degli appalti pubblici gli operatori economici sono sempre
obbligati a rispettare le norme poste a tutela del lavoro e la stazione
appaltante deve sempre chiedere all'aggiudicatario, in sede di verifica
sull'anomalia dell'offerta, i giustificativi del costo della manodopera.
È questo il principio affermato dal TAR Umbria con la
sentenza 09.03.2018 n. 168.
Il caso
Il gestore uscente del servizio di spazzamento stradale nei Comuni di Terni
e Narni partecipava alla procedura aperta indetta per il riaffidamento del
predetto servizio mediante accordo quadro, collocandosi al secondo posto
della graduatoria di gara.
Ai sensi di quanto disposto dall’articolo 97, comma 3, del Dlgs n. 50/2016,
constatato che la prima classificata aveva superato i 4/5 dei punteggi
massimi attribuibili, il responsabile del procedimento avviava il
sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria.
Dopo aver proceduto all'esame delle giustificazioni e della documentazione
fornite a più riprese dall'impresa, la stazione appaltante concludeva il
predetto sub-procedimento ritenendo la relativa offerta congrua ed adeguata
alla sostenibilità del servizio ed aggiudicava in via definitiva
l’affidamento del servizio all’impresa prima classificata.
L'impresa seconda graduata impugnava il provvedimento di aggiudicazione
definitiva unitamente agli atti e verbali del sub-procedimento di anomalia,
lamentando l’illegittimità del giudizio di congruità con particolare
riferimento al mancato riscontro dell'effettivo rispetto dei trattamenti
salariali minimi inderogabili stabiliti dalle tabelle ministeriali.
Secondo la ricorrente, in considerazione dell’obbligo di riassorbimento del
personale del gestore uscente derivante dalla clausola sociale prevista
nella legge di gara, sarebbe stato del tutto ingiustificato l’ipotizzato
minor costo derivante dall’inquadramento del personale nel livello più basso
“B”, dovendosi invece garantire il livello medio “A” ai dipendenti
dell'operatore economico uscente in possesso di specifica anzianità di
servizio.
La decisione
Con la pronuncia in rassegna il Tar Umbria dichiara il ricorso fondato.
Il Giudice sottolinea che la gara d’appalto oggetto di ricorso riguardava
l’affidamento di servizi ad alta densità di manodopera, ai sensi
dell’articolo 50 del Dlgs n. 50/2016, essendo il costo del personale pari ad
almeno il 50 per cento dell’importo totale del contratto. In particolare, il
rinvio operato dall'articolo 97, comma 5, lett. a) del Dlgs n. 50/2016
all'articolo 30, comma 3, del medesimo Codice dei contratti implica che,
nella esecuzione degli appalti pubblici, gli operatori economici sono
obbligati a rispettare le norme poste a tutela dei diritti sociali,
ambientali e del lavoro, essendo preciso obbligo della stazione appaltante
chiedere i necessari giustificativi in sede di verifica sull'anomalia
dell'offerta.
Da ciò consegue –prosegue il Tar Umbria– la necessaria esclusione
dell'offerta proposta dall’aggiudicataria in violazione degli obblighi
retributivi minimi, e ciò anche indipendentemente dalla congruità
dell'offerta valutata «nel suo complesso».
Proprio in questo il nuovo Codice si discosta rispetto alla previgente
disciplina: da un esame testuale e sistematico emerge, infatti, che la
ratio del nuovo Codice è chiaramente orientata verso il rigoroso
rispetto dei diritti minimi che riguardino i fondamentali interessi
ambientali, sociali e lavoristici (si veda Tar Calabria, Reggio Calabria, n.
1315/2016).
D’altronde –prosegue il Giudice amministrativo– il comma 6 del già citato
articolo 97 del Dlgs n. 50/2016 esclude tassativamente che la stazione
appaltante possa ammettere giustificazioni in relazione a trattamenti
salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate
dalla legge, mentre il comma 5 del medesimo articolo autorizza espressamente
la stazione appaltante ad escludere l’offerta quando, all’esito del
contraddittorio attivato con il concorrente interessato, venga accertato che
la stessa è anormalmente bassa in quanto il costo del personale è inferiore
ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui
all’articolo 23, comma 16, del medesimo Codice dei contratti.
Peraltro, l’obbligo inderogabile della stazione appaltante di verificare il
rispetto dei minimi tabellari non era stato assolto, non avendo svolto i
necessari approfondimenti in merito al costo del personale indicato
dall’impresa prima classificata rispetto alle ore presunte, limitandosi, del
tutto acriticamente, a prendere atto del costo complessivo indicato
nell’offerta economica, pur in presenza di contestazioni messe a verbale dal
rappresentante della ricorrente nel corso della seduta pubblica di gara.
L’approfondimento
Era tra l’altro preciso onere della stazione appaltante verificare in
contraddittorio con l’aggiudicataria anche la rilevanza della clausola
sociale sul costo del lavoro prevista nella lex specialis,
verificando gli inquadramenti del personale da assorbire dal gestore
uscente, pur nel contemperamento delle esigenze organizzative dell’impresa
aggiudicataria ritenuto doveroso dalla giurisprudenza (si veda anche
Consiglio di Stato n. 4079/2017), valutando la possibilità o meno di
derogare ai livelli retributivi.
L’impresa aggiudicataria si era invece limitata ad indicare nei
giustificativi una generica razionalizzazione del servizio mediante
l'integrazione tra i propri dipendenti e quelli della stazione appaltante,
non comprovate da elementi concreti, quali (del tutto indicativamente)
vantaggi fiscali o economie dovute al basso tasso di malattia del personale
oppure dall’utilizzo in altri servizi del personale proveniente
dall’operatore uscente.
Tale mancata verifica non può giustificarsi, secondo il Tar Umbria, in
relazione alla tipologia di affidamento mediante accordo quadro né tantomeno
ai criteri di valutazione dell’offerta stabiliti dalla lex specialis.
Le esigenze di semplificazione e programmazione alla base di un accordo
quadro, come oggi definito dall’articolo 3, lett. iii), del Dlgs n. 50/2016,
non consentono infatti, in alcun modo, deroghe alla disciplina in materia di
appalti pubblici né tantomeno consentono deroghe al citato articolo 97 in
tema di inderogabilità del costo del lavoro. La congruità e sostenibilità
economica dell’offerta deve sussistere a prescindere dagli effettivi ordini
attuativi che la stazione appaltante vorrà adottare nel corso
dell’esecuzione dell’accordo quadro.
Anche la circostanza per cui la disciplina di gara avesse effettivamente
previsto, quale valore di riferimento per la valutazione dell’offerta, il
solo costo chilometrico non esime certo la stazione appaltante dall’onere di
verificare, in ipotesi di sospetto di anomalia, il necessario rispetto dei
trattamenti salariali minimi, trattandosi di appalto ad alta densità di
manodopera.
Il problema -conclude il Tar Umbria- nel caso di specie non era consistito
nell'inderogabilità o meno dei valori risultanti dalle tabelle ministeriali,
ma piuttosto nella mancata verifica, da parte della stazione appaltante,
dell'effettivo costo del lavoro quale rilevante componente dell’offerta
dell'aggiudicataria, verifica che, se realmente effettuata, avrebbe potuto
condurre (in presenza di idonee giustificazioni) anche ad escludere
l’anomalia dell'offerta
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.03.2018).
---------------
MASSIMA
4. - Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
5. - Non meritano anzitutto accoglimento le censure di carattere
procedimentale circa l’”eccesso” di contraddittorio provocato dall’aver la
stazione appaltante più volte rinnovato la richiesta di chiarimenti, non
essendo a suo dire ciò più consentito dall’art. 97, c. 5, del D.lgs. 50 del
2016 e costituendo un inutile aggravio procedimentale.
Nell'ambito del procedimento di verifica dell’anomalia vale infatti il
principio comunitario del pieno contraddittorio successivo alla
presentazione delle offerte, oggi codificato dall’art. 69 della Direttiva
2014/24, secondo cui la partecipazione al procedimento consente alla
stazione appaltante di ottenere ogni utile chiarimento in ordine al
contenuto della documentazione prodotta (ex multis TAR Toscana, sez. I,
26.03.2009, n. 507; C.G.U.E. 27.11.2001, CC-285-286/99) sì da non
impedire la reiterazione della richiesta ove necessario.
Ciò vale anche per le gare governate dall’applicazione del nuovo Codice
approvato con D.lgs. 50/2016, laddove la struttura apparentemente monofasica
del contraddittorio (giustificazione-chiarimenti) e non trifasica
(giustificazione-chiarimenti-contraddittorio) va letta in conformità ai
suesposti principi, si da non impedire una ulteriore fase di confronto
dialettico dopo la presentazione delle giustificazioni, specie allorquando
come nel caso di specie appaiono di dubbia congruità alcune rilevanti
componenti dell’offerta e vi sia contestazione da parte dei concorrenti.
6. - Meritano invece adesione le censure di violazione dell’art. 97 D.lgs.
50/2016 nonché di eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione
di cui al I motivo di gravame.
6.1. - Come noto nelle gare pubbliche il giudizio di verifica della
congruità di un'offerta sospetta di anomalia, ha natura globale e sintetica
sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con irrilevanza di
eventuali singole voci di scostamento; esso non ha per oggetto la ricerca di
specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero
finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile e,
dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione
dell'appalto, rilevando che l'offerta nel suo complesso appaia "seria" (ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 17.11.2016, n. 4765; Id., sez. V,
13.09.2016, n. 3855; Id. sez. V, 27.08.2014, n. 4368; Id., sez.
III, 09.07.2014, n. 3492; Id., sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; Id.
sez. V, 22.02.2011, n. 1090; Id., sez. VI, 24.08.2011, n. 4801;
TAR Puglia, Bari sez. I, 08.03.2012, n. 506) ed ammettendosi in caso di
giudizio positivo la motivazione “per relationem” (ex multis Consiglio di
Stato sez. V, 27.07.2017, n. 3702).
6.2. - Tanto premesso, la gara d’appalto per cui è causa attiene
all’affidamento di servizi ad alta densità di manodopera, ai sensi dell’art.
50 del D.lgs. 50/2016, come stabilito dallo stesso art. 10 del Capitolato
speciale, essendo il costo del personale pari ad almeno il 50 per cento
dell’importo totale del contratto, dunque indubbiamente rilevante
nell’economia dell’affidamento e nell’ambito dello stesso giudizio di
anomalia.
Il rinvio operato dall'art. 97, comma 5, lett. a), D.lgs. n. 50/2016 all'art.
30, comma 3, implica che, nella esecuzione degli appalti pubblici, gli
operatori economici sono obbligati a rispettare le norme poste a tutela dei
diritti sociali, ambientali e del lavoro, essendo preciso obbligo della
stazione appaltante chiedere i necessari giustificativi in sede di verifica
sull'anomalia dell'offerta.
Con il vincolato esito della dovuta esclusione
dell'offerta proposta in spregio degli obblighi retributivi minimi, e ciò,
si badi bene, anche indipendentemente dalla congruità dell'offerta valutata
nel suo complesso; in ciò sostanziandosi il “novum” rispetto alla pregressa
disciplina. Da un esame testuale e sistematico emerge, invero, che la ratio
del nuovo codice è chiaramente orientata per il rigoroso rispetto dei
diritti minimi laddove involgano i primari interessi ambientali, sociali e lavoristici (ex multis TAR Calabria Reggio Calabria, sez. I, 15.12.2016, n. 1315).
D’altronde il comma 6 del citato art. 97 del D.lgs. 50/2016 esclude
tassativamente che la stazione appaltante possa ammettere giustificazioni in
relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge
o da fonti autorizzati dalla legge mentre il comma 5 autorizza espressamente
la stazione appaltante ad escludere l’offerta se accerta all’esito del
contraddittorio con il concorrente interessato, che la stessa è anormalmente
bassa in quanto il costo del personale è inferiore ai minimi salariali
retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, c. 16.
6.3. - L’obbligo inderogabile della stazione appaltante di verificare il
rispetto dei minimi tabellari non è stato invece assolto nel caso di specie,
non avendo l’ASM svolto i necessari approfondimenti in merito al costo del
personale indicato dalla controinteressata rispetto alle ore presunte,
limitandosi del tutto acriticamente a prendere atto del costo complessivo
indicato in 799.766,24 euro, pur in presenza di contestazioni messe a
verbale dal rappresentante della ricorrente già nella seduta della
Commissione giudicatrice del 12.07.2017.
Era tra l’altro preciso onere dell’Amministrazione verificare in
contraddittorio con l’aggiudicataria anche la rilevanza della prevista
clausola sociale sul costo del lavoro, verificando gli inquadramenti del
personale da assorbire dal gestore uscente, pur nel contemperamento delle
esigenze organizzative dell’impresa aggiudicataria ritenuto doveroso dalla
giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.08.2017, n.
4079) valutando la possibilità o meno di derogare ai livelli retributivi.
Ti. s.r.l. si è invece limitata ad indicare nei giustificativi una
razionalizzazione del servizio mediante integrazione tra dipendenti dell’ASM e della Ti. non comprovate da elementi concreti, quali -del tutto
indicativamente- vantaggi fiscali o economie dovute al basso tasso di
malattia del personale, utilizzo del personale proveniente dalla cooperativa
So. in altri servizi ecc.
6.4. - Tale mancata verifica non può secondo il Collegio giustificarsi in
relazione alla tipologia di affidamento mediante accordo quadro né tanto meno
ai criteri di valutazione dell’offerta stabiliti dalla lex specialis.
Le esigenze di semplificazione e programmazione alla base di un accordo
quadro, come oggi definito dall’art. 3, lett. iii), del D.lgs. 50/2016, non
consentono in alcun modo deroghe alla disciplina in materia di appalti
pubblici (C.G.U.E. 04.05.1995 C-79) né tanto meno al citato art. 97 in
tema di inderogabilità del costo del lavoro. La congruità e sostenibilità
economica dell’offerta deve sussistere a prescindere dagli effettivi ordini
attuativi che la stazione appaltante vorrà adottare nel corso
dell’esecuzione dell’accordo quadro.
Anche la circostanza secondo cui l’inoppugnata disciplina di gara preveda
quale valore di riferimento per la valutazione dell’offerta il solo costo
chilometrico non esime certo la stazione appaltante dall’onere di
verificare, in ipotesi di sospetto di anomalia, il doveroso rispetto dei
trattamenti salariali minimi, a fortiori trattandosi di appalto ad alta
densità di manodopera.
Non si fa cioè questione della inderogabilità o meno dei valori risultanti
dalle tabelle ministeriali, bensì della mancata verifica da parte della
stazione appaltante del costo del lavoro quale rilevante componente
dell’offerta, verifica che -ove effettuata- può evidentemente condurre in
presenza di idonee giustificazioni ad escludere l’anomalia (ex multis TAR
Lazio, Roma sez. I, 30.12.2016, n. 12873).
6.5. - D’altronde deve condividersi quanto lamentato dalla ricorrente in
merito al tentativo di irrituale integrazione postuma della motivazione
effettuata dall’ASM, non potendo quest’ultima pretendere di sopperire alle
lacune del giudizio di anomalia con valutazioni addotte per la prima volta
nell’ambito del giudizio attraverso mere memorie difensive (ex multis TAR
Lazio Roma, sez. II, 11.07.2017, n. 8243; TAR Veneto, sez. I, 11.03.2010, n. 768; TAR Sicilia, Catania sez. IV, 29.03.2012, n. 900).
6.6. - Il mezzo di gravame è dunque fondato, inficiando tal mancata verifica
del costo del lavoro il giudizio di congruità nel suo complesso in
considerazione della rilevanza di tal componente dell’offerta sul valore
complessivo del contratto. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti, l'e-mail non basta.
Senza Pec il messaggio risulta in astratto modificabile. Sentenza della
Corte di cassazione sulla valenza probatoria dei documenti informatici.
Illegittimo
il licenziamento del dipendente per giusta causa fondato sui messaggi
contenuti nella sua posta elettronica aziendale: non è infatti certo che
siano riferibili all'autore apparente. E ciò perché soltanto la Pec o la
firma digitale garantiscono l'integrità del documento, mentre la mail
tradizionale, almeno in astratto, risulta modificabile e in base al codice
dell'amministrazione digitale costituisce soltanto un «documento
informatico» liberamente valutabile dal giudice.
È quanto emerge dalla
sentenza 08.03.2018 n. 5523 della Sez. lavoro della
Corte di Cassazione.
Responsabilità oggettiva. Bocciato il ricorso del datore: diventa definitiva
la condanna a pagare al dirigente circa 450 mila euro fra indennità
supplementare e mancato preavviso. Al dipendente si imputava di aver avuto
un ruolo nelle irregolarità accertate nelle rivalutazioni di magazzino:
alcuni partner commerciali dell'azienda ottengono l'accredito di somme non
dovute per scorte inesistenti.
Ma i testimoni sono inattendibili in quanto
coinvolti nella vicenda: hanno interesse a scaricare su altri le
responsabilità. Resta la posta elettronica, che però ha «dubbia valenza
probatoria». Insomma: senza riscontri certi sul coinvolgimento
dell'incolpato non lo si può licenziare per responsabilità oggettiva,
soltanto perché è un dirigente.
Integrità e sicurezza. La definizione di documento informatico è contenuta
nell'articolo 1, comma primo, lettera p), del dlgs 82/2005: si tratta del
«documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti,
fatti o dati giuridicamente rilevanti».
Nessun dubbio, allora, sui limiti
all'efficacia probatoria dell'e-mail tradizionale, che va distinta dalla
posta elettronica certificata: in base all'art. 21 del codice
dell'amministrazione digitale soltanto il documento sottoscritto con firma
elettronica avanzata, qualificata o digitale, fa piena prova fino a querela
di falso come la scrittura privata ex art. 2702 Cc.
La posta elettronica non
certificata, dunque, come ogni altro documento informatico risulta
liberamente valutabile dal giudice ai sensi dell'articolo 20 del dlgs
82/2005: spetta dunque all'autorità giudiziaria verificare se i messaggi
hanno le caratteristiche oggettive per soddisfare il requisito della forma
scritta per qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità.
Violazione esclusa. Nella specie la Corte d'appello non mette in discussione
che sussiste una corrispondenza relativa all'indirizzo di posta elettronica
del dipendente: deve quindi escludersi che si configuri una violazione
dell'art. 2712 Cc sulle riproduzioni meccaniche.
Il punto è che la sentenza
confermata esclude piuttosto che «i messaggi siano riferibili al suo autore
apparente»: si tratta di e-mail prive di firma elettronica e dunque la
decisione non può essere censurata per violazione dell'art. 2702 Cc perché i
messaggi di posta elettronica non hanno natura di scrittura privata ai sensi
dell'art. 1 del codice dell'amministrazione digitale
(articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018).
---------------
MASSIMA
La censura è, in ogni caso, infondata.
Il messaggio di posta elettronica è riconducibile alla categoria dei
documenti informatici, secondo la definizione che di questi ultimi reca
l'art. 1, comma 1, lett. p), del D.Lgs. nr. 82 del 2005 ("documento
informatico: il documento elettronico che contiene la rappresentazione
informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti"),
riproducendo, nella sostanza, quella già contenuta nell'art. 1, comma 1,
lett. b), del DPR nr. 445 del 2000.
Quanto all'efficacia probatoria dei documenti informatici, l'art. 21 del
medesimo D.Lgs., nelle diverse formulazioni, ratione temporis
vigenti, attribuisce l'efficacia prevista dall'articolo 2702 del cod. civ.
solo al documento sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o
digitale, mentre è liberamente valutabile dal giudice, ai sensi dell'art. 20
D.Lgs. 82/2005, l'idoneità di ogni diverso documento informatico ( come
l'e-mail tradizionale) a soddisfare il requisito della forma scritta, in
relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza,
integrità ed immodificabilità.
La decisione impugnata non mette in discussione la sussistenza di una
corrispondenza relativa all'indirizzo di posta elettronica del dipendente,
sicché è da escludere una violazione dell'art. 2712 cod. civ. La sentenza
della corte territoriale esclude, piuttosto, che i messaggi siano riferibili
al suo autore apparente; trattandosi di e-mail prive di firma elettronica,
la statuizione non è censurabile in relazione all'art. 2702 cod. civ. per
non avere i documenti natura di scrittura privata, ai sensi del citato art.
1 D.Lgs. 82/2005.
Infine, non vi è alcuna specifica argomentazione in ordine alla asserita
violazione dell'art. 414 cod. proc. civ., indicata nella rubrica ma non
sviluppata nel motivo. |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretari, dalla Cassazione stop definitivo alla retribuzione
«maggiorata» post galleggiamento.
Con la
sentenza
06.03.2018 n. 5284, la Corte di
Cassazione -Sez. lavoro- chiude definitivamente sulla
legittimità della maggiorazione della retribuzione di posizione dei
segretari generali applicata dopo il galleggiamento. La questione è
complessa, al punto che dopo diverse sentenze dei giudici del lavoro che
avevano dato ragione ai segretari, era dovuto intervenire il legislatore con
l’articolo 4, comma 26, della legge 183/2011 per chiarire che la
maggiorazione andava applicata prima del riallineamento con lo stipendio del
dirigente o funzionario con la retribuzione di posizione più elevata.
La questione controversa
I Segretari comunali e provinciali hanno dato inizio una controversia
civilistica sulla corretta applicazione delle disposizioni del contratto
nazionale (articolo 41, comma 5, del contratto del 16.05.2001) e di
quello integrativo n. 2 del 22.12.2003, secondo cui nel calcolo della
retribuzione di posizione l'allineamento all'indennità percepita dal
dirigente con funzione più elevata, previsto dall’articolo 41, comma 5,
rappresenta la base a cui aggiungere la maggiorazione prevista al comma 4
(fino al 50% in più in caso di funzioni gestionali aggiuntive).
A sostegno
della tesi, era stato evidenziato come, se le maggiorazioni stipendiali
fossero assorbite dal riallineamento, verrebbero penalizzati i segretari più
gravati di compiti; il tutto in violazione del principio di corrispettività,
in virtù del quale gli incarichi ulteriori rispetto a quelli istituzionali
devono avere una propria remunerazione. Per esempio, se la la retribuzione
di posizione del segretario è pari a 30, mentre quella del dirigente con la
retribuzione più elevata è di 40, allora:
a) nel caso di maggiorazione dopo il galleggiamento, spetterebbe al
segretario, cui siano stati affidati compiti gestionali aggiuntivi, una
retribuzione di posizione pari a 60 (40 x 1,5 = 60);
b) in caso di assorbimento della maggiorazione nel galleggiamento,
si avrebbe una retribuzione di posizione pari a 45 (30 x 1,5), mentre nel
solo caso in cui la maggiorazione sia inferiore alla retribuzione del
dirigente, allora troverebbe ragione il riallineamento a quest'ultima
(esempio dirigente con retribuzione pari a 50 maggiore della maggiorazione
di 45).
La posizione della Suprema Corte
Secondo la Suprema Corte, l’articolo 41, comma 4, nell'attribuire alle parti
la facoltà di maggiorare i compensi del segretario, si limita a richiamare
esplicitamente i compensi indicati al precedente comma 3, secondo i valori
economici riconosciuti da quella disposizione, senza nulla dire del comma 5
che contiene la clausola di riallineamento stipendiale.
La maggiorazione prevista dal comma 4 si aggiunge dunque ai valori economici
stabiliti dal comma 3 dell'articolo 41, fermo restando che entrambe le
disposizioni (commi 3 e 4) riguardano la sola voce della retribuzione di
posizione. Se, dunque, il riallineamento stipendiale (comma 5) ha una
funzione perequativa, distinta da quella corrispettiva delle maggiorazioni
(comma 4), è logico che alla perequazione si arrivi con riferimento alla
retribuzione di posizione complessiva, comprendente anche le maggiorazioni
previste dal comma 4.
In definitiva, per la Cassazione, se con le maggiorazioni (comma 4) la
retribuzione di posizione del segretario supera quella del dirigente
apicale, allora non si potrà procedere con il riallineamento al dirigente
con più elevata retribuzione di posizione (comma 5). E nemmeno l’impatto
negativo sul sul piano previdenziale può condizionare la corretta
interpretazione delle norme contrattuali
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.03.2018). |
TRIBUTI: Aree
edificabili, valori sanabili. Possibile rettificare l'importo determinato
dal comune.
I comuni hanno il potere di accertare i valori delle aree edificabili in
misura superiore a quelli fissati dallo stesso ente, con delibera del
consiglio comunale o della giunta, se questi valori risultino inferiori a
quelli indicati in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in
possesso o a conoscenza. La ratio della norma di legge che consente ai
comuni di fissare dei valori predeterminati ha la finalità di ridurre il
contenzioso con i contribuenti, ma non può impedire la rettifica dei valori
dichiarati che non sono in linea con i valori di mercato degli immobili.
Questo importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione,
Sez. V civile, con
l'ordinanza 02.03.2018 n. 4969.
Per la Cassazione, la fissazione dei valori delle aree fabbricabili non può
avere altro effetto che quello di autolimitare il potere di accertamento
Ici, ma la stessa regola vale per Imu e Tasi, poiché il comune si obbliga a
ritenere congruo il valore delle aree fabbricabili qualora sia stato
dichiarato dal contribuente in misura non inferiore a quella stabilita nel
regolamento comunale. I giudici di legittimità hanno posto in evidenza che
«il valore minimo delle aree edificabili integra un elemento presuntivo
suscettibile di doverosa riconsiderazione nel caso in cui il valore venale
del bene così determinato risulti contraddetto da quello, maggiore, indicato
in atti pubblici o privati di cui l'ufficio tributi sia in possesso o a
conoscenza».
Valori delle aree e presupposti per l'imposizione. Per Ici, Imu e Tasi il
valore di un'area edificabile deve essere determinato in base ai criteri
fissati dall'articolo 5 del decreto legislativo 504/1992. Quindi, occorre
stabilire il valore venale in comune commercio dell'area al 1° gennaio
dell'anno di imposizione, vale a dire il suo valore di mercato.
La norma
prevede che occorra fare riferimento a zona territoriale di ubicazione
dell'area, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e,
infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse
caratteristiche. I valori possono essere deliberati anche dalla giunta
comunale, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico, ma non
sono vincolanti nella determinazione del quantum.
Possono essere anche
determinati con delibera del consiglio comunale, come nel caso in esame, ma
secondo la Cassazione non può essere un ostacolo l'indicazione preventiva se
il loro valore di mercato, risultante da atti di compravendita di beni
aventi analoghe caratteristiche, dovesse risultare di importo più elevato.
Del resto la norma sopra citata prevede un parametro ad hoc, che è il valore
di mercato delle aree.
Non è cambiato nulla per l'imposizione delle aree edificabili con la
disciplina Imu rispetto all'Ici. Così come per la Tasi, che ha la stessa
base imponibile dell'Imu. Il legislatore, infatti, richiama espressamente le
disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo
504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta
sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici.
Per la qualificazione delle aree è necessario fare
riferimento al piano regolatore generale. In base all'articolo 2 del decreto
legislativo 504/1992, per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a
scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «generali o attuativi»
oppure in base alle possibilità effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti agli effetti delle indennità di espropriazione
per pubblica utilità.
Nelle ipotesi di edificazione di un fabbricato, la
base imponibile Ici è data dal valore dell'area (non viene computato il
valore del fabbricato in corso d'opera), dalla data di inizio dei lavori di
costruzione fino a quella di ultimazione, oppure fino al momento in cui il
fabbricato è comunque utilizzato, se questo momento è antecedente a quello
di ultimazione del fabbricato. In base alla finzione giuridica prevista
nella disciplina dell'imposta (art. 5, comma 6, del decreto legislativo
504/1992) durante il periodo dell'effettiva utilizzazione edificatoria anche
per demolizione e per esecuzione di lavori di recupero edilizio, il suolo va
considerato area fabbricabile, indipendentemente dal fatto che sia tale o
meno in base agli strumenti urbanistici.
Pertanto, un'area è edificabile
quando è inserita nel piano regolatore generale ed è soggetta alle imposte
locali indipendentemente dalla successiva lottizzazione del suolo. È il
comune, su richiesta del contribuente, che attesta se un'area sita nel
proprio territorio sia edificabile. Se lo strumento urbanistico è approvato
dal consiglio comunale, l'ente può dal momento dell'approvazione richiedere
il pagamento del tributo.
Cambi di destinazione.
Se il comune non comunica ai contribuenti le variazioni urbanistiche e i
cambi di destinazione dei terreni in aree edificabili, l'omissione non rende
nulli gli avvisi di accertamento pur essendo un obbligo imposto dalla legge
all'amministrazione comunale (Commissione tributaria regionale di Palermo,
sezione XXV, sentenza 4071/2016). Pertanto, l'omessa comunicazione prevista
dall'articolo 31, comma 20, della legge 289/2002 non comporta alcuna
nullità.
I titolari dei terreni divenuti edificabili sono tenuti a pagare le
imposte su un'area edificabile anche se il comune non li abbiano informati
delle variazioni apportate allo strumento urbanistico e non abbia comunicato
il cambio di destinazione del terreno (Cassazione, sentenza 15558/2009).
Tuttavia, nei casi in cui il comune non abbia provveduto a comunicare
formalmente il cambio di destinazione, e il contribuente violi l'obbligo di
dichiarazione e di versamento, si può ritenere che ricorra una causa di non
punibilità (articolo
ItaliaOggi Sette del 26.03.2018). |
TRIBUTI: Tassa rifiuti, le variazioni non hanno effetto retroattivo.
Le variazioni dichiarate dai contribuenti all'amministrazione comunale non
hanno effetto retroattivo. La riduzione della superficie dell'immobile, per
pagare un importo minore a titolo di tassa sui rifiuti, deve essere
dichiarata tempestivamente. Non è possibile ottenere la riduzione della
superficie da assoggettare a tassazione, in caso d'inabitabilità parziale
dell'immobile, per il periodo precedente alla presentazione della
dichiarazione di variazione. Solo dopo la presentazione della denuncia,
infatti, l'amministrazione comunale può accertare e valutare la fondatezza
delle richieste avanzate dall'interessato.
Lo ha stabilito la Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
28.02.2018 n. 4602.
Per i giudici di piazza Cavour, la ratio è quella di «indurre il
contribuente alla sollecita presentazione della comunicazione di variazione
e, al contempo, di preservare all'ente impositore la concreta possibilità di
verificare tempestivamente, e sulla base dell'attualità di stato, il
fondamento della variazione comunicata».
Peraltro, il principio comunitario
«chi inquina paga» verrebbe meno nell'ipotesi «in cui si consentisse alla
dichiarazione di riduzione di esplicare effetto anche con riguardo ad
annualità pregresse, in ordine alle quali non sarebbe più possibile alcun
controllo di debenza da parte dell'ente impositore», in presenza di
un'asserita «pregressa non abitabilità di una porzione di locali». La
sentenza fa riferimento alla Tia, alla quale si applicano le disposizioni
sulla Tarsu. Ma gli stessi adempimenti sono imposti per la Tari.
Il principio affermato dalla Cassazione non è proprio in linea con quanto
sostenuto di recente dalla stessa Corte (sentenza 453/2018), secondo cui il
contribuente può rettificare in qualsiasi momento la dichiarazione
presentata al comune relativa ai tributi locali, per correggere errori o
omissioni, e può contestare la pretesa tributaria dell'amministrazione che
non abbia tenuto conto delle variazioni dichiarate.
In effetti, è stata
ritenuta emendabile la dichiarazione anche in sede contenziosa, perché non
ha valore confessorio né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria. Se
la modifica ha luogo prima della notifica dell'avviso di accertamento,
l'amministrazione locale ne deve tenere conto, altrimenti è obbligata a
fornire la prova contraria. Mentre, se la rettifica dell'errore avviene dopo
la notifica dell'atto impositivo, spetta al contribuente l'onere di
dimostrare la correttezza della modifica proposta, anche in sede
contenziosa.
Nella pronuncia è stata richiamata la regola già applicata alla
dichiarazione dei redditi, qualificata «una mera esternazione di scienza o
di giudizio» e quindi «emendabile e ritrattabile». La rettifica può
intervenire su tutti gli errori commessi dal contribuente, «anche non
meramente materiali o di calcolo», considerato che «non ha valore
confessorio, né costituisce fonte dell'obbligazione tributaria».
Naturalmente queste diverse prese di posizione, a breve distanza di tempo,
generano confusione.
Va ricordato che per Imu, Tasi e Tari ormai c'è un termine unico per
assolvere all'obbligo di presentazione delle dichiarazioni. Devono essere
presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del
possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in
comune di un immobile, la dichiarazione Tari può essere presentata solo da
uno degli obbligati. Sono esonerati dall'adempimento coloro che hanno già
denunciato le superfici per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares (articolo
ItaliaOggi del 10.03.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il
Consiglio di stato: per l'end of waste necessarie regole generali.
Le Regioni possono autorizzare esclusivamente il recupero dei rifiuti già a
monte disciplinato da norme comunitarie o statali di settore.
Questo il principio di diritto che si trae dalla
sentenza 28.02.2018
n. 1229 con cui il Consiglio di Stato -Sez. IV- ha chiarito come l'attuale ordinamento
giuridico non attribuisca ad enti regionali, e loro delegati, il potere di
stabilire in via autonoma i criteri per la cessazione della qualifica di
rifiuto (cosiddetto «end of waste») dei residui derivanti da processi
produttivi.
Il contesto normativo. La direttiva 2008/98/Ce prevede che, per essere
riabilitati a veri e propri beni (ossia per aversi il citato end of waste),
i rifiuti devono essere sottoposti a specifiche operazioni di recupero
all'esito delle quali si ottengono materiali che soddisfano le seguenti
condizioni:
- sono sostanze od oggetti comunemente utilizzati per scopi
specifici;
- hanno un mercato/domanda di riferimento;
- rispettano requisiti tecnici e standard di prodotto;
- non hanno impatti negativi per salute e ambiente.
La direttiva sancisce il primato dell'Ue nel declinare mediante regolamenti
i principi su singole categorie di rifiuti, solo in assenza di questi
concedendo agli Stati membri di decidere «caso per caso» tenendo conto della
giurisprudenza applicabile.
Le condizioni generali previste dalla direttiva 2008/98/Ce sono state
riprese dal legislatore nazionale. Questi, mediante l'articolo 184-ter del
dlgs 152/2006 ha stabilito che: in assenza delle suddette specifiche norme
Ue, spetta al ministero dell'ambiente mediante propri decreti adottare «caso
per caso per specifiche tipologie di rifiuto» criteri nazionali end of waste;
fino all'adozione di tali decreti continuano ad applicarsi le storiche
regole sul recupero dei rifiuti in materie prime secondarie («mps») previste
da decreti risalenti agli anni 90 e meno snelle delle prime.
Su tale quadro giuridico, che legittima il solo recupero di residui oggetto
di specifica normativa («end of waste» o «mps» che sia), si è innestata la
lettura estensiva data dal Minambiente con circolare 01.07.2016. Con
tale atto, il dicastero aveva interpretato le norme riconoscendo che, in via
residuale, le regioni (o gli enti da queste individuati) potessero, in sede
di rilascio di autorizzazione, definire propri criteri end of waste previo
riscontro della sussistenza delle condizioni ex articolo 184-ter del dlgs
152/2006 rispetto a rifiuti che non fossero già stati disciplinati dai
regolamenti comunitari o decreti ministeriali.
La pronuncia del Consiglio di stato.
In direzione opposta a tale
interpretazione arriva la sentenza 28.02.2018 n. 1229 del Consiglio di
stato. La pronuncia riconosce infatti come il diritto comunitario individui
esclusivamente lo «Stato», e non suoi enti o organizzazioni interne quale
soggetto titolato all'adozione di criteri end of waste per tipologie di
residui.
E ciò anche per il fatto che la determinazione di tali criteri deve
ragionevolmente avere efficacia sull'intero territorio nazionale dello Stato
membro. Nell'ambito di tale disposizione comunitaria, il Legislatore
nazionale ha (in coerenza con il principio di potestà legislativa esclusiva
dello Stato in materia di ecosistema ex articolo 117 della Costituzione)
attribuito il relativo potere al ministero dell'ambiente.
Ancor più sottilmente, il Consiglio di stato fa emergere come nel conferire
tale potere normativo al dicastero il dlgs 152/2006 abbia precisato che
l'adozione «caso per caso» delle regole end of waste debba essere fatta con
riferimento a «specifiche tipologie» di rifiuti e non in relazione a singoli
casi. Sotto questo profilo la sentenza appare evidenziare una necessità del
legislatore nazionale di affidare la riabilitazione «da rifiuto a bene» a
generali previsioni regolamentari per categorie di rifiuti e non a specifici
provvedimenti autorizzativi localmente rilasciati per attività di recupero
vertenti su singoli residui.
La pronuncia è stata stimolata dal contenzioso
nato proprio intorno a una delibera regionale che non autorizzava un'azienda
a riabilitare a beni tramite un diretto processo di recupero specifici
residui in ragione della mancanza di norme comunitarie e nazionali ad hoc.
Ma la forza della sentenza sembra inevitabilmente portata a travolgere anche
gli eventuali atti degli enti locali in materia di end of waste dal più
ampio respiro di una semplice autorizzazione, che siano veicolati da leggi o
regolamenti (come la recente Dgr Veneto 07.02.2018 n. 120).
I criteri esistenti.
Tacciate di illegittimità le autonome fonti end of waste di carattere locale, ecco quali sono allo stato dell'arte gli attuali
legittimi criteri «eow». In attuazione della direttiva 2008/98/Ce l'Ue ha
previsto criteri end of waste per: rottami di rame (regolamento
715/2013/Ue); rottami di vetro (1179/2012/Ue); rottami ferro, acciaio,
alluminio (333/2011/Ue).
L'unico provvedimento nazionale attuativo dell'art. 184-ter del dlgs
152/2006 è costituito dal dm Ambiente 22/2013 sui combustibili solidi
secondari («Css»). Ulteriori norme nazionali sono previste dal dl 91/2014,
il quale (mediante modifica dell'art. 216, dlgs 152/2006) ha sancito
l'applicabilità del regime autorizzativo semplificato alle operazioni di
recupero svolte secondo le norme Ue. Sempre dal dl 91/2014 è sancito come, in
attesa di regole «eow», sia consentito: il riutilizzo delle materie prime
secondarie ottenute da rifiuti inerti per opere di recupero ambientale,
rilevati, sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali (art.
184-quater, dlgs 152/2006); la gestione come normali beni dei materiali
dragati.
Novità in arrivo.
Sull'assetto della disciplina comunitaria promette di
incidere la nuova direttiva rifiuti prevista dal «Piano d'azione per
l'economia circolare» in corso di approvazione da parte dell'Ue. Lo schema
di provvedimento licenziato il 27.02.2018 dalla commissione ambiente
del parlamento Ue e atteso in plenaria nell'aprile prossimo prevede di
intervenire sull'art. 6 della direttiva 2008/98/Ce conferendo maggior potere
di iniziativa agli Stati membri nello stabile regole end of waste «caso per
caso».
Sul piano nazionale, venerdì il ministero dell'ambiente ha annunciato di
aver trasmesso al Consiglio di stato lo schema di regolamento «end of waste»
sui «Pap» (prodotti assorbenti per la persona) (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.03.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
strada non può diventare un bar.
La strada non può diventare un bar. Troppi avventori lasciati in strada a
consumare bevande alcoliche con musica, rumori e disagio conclamato per i
residenti determinano un grave pregiudizio per l'ordine ed il decoro urbano.
E alla fine il conto lo pagano tutti.
Lo ha evidenziato il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con la
sentenza
26.02.2018 n. 188.
Il comune di Bologna ha ordinato ad un esercente di limitare i rumori e gli
assembramenti in prossimità del esercizio pubblico, meta abituale di persone
particolarmente rumorose e negligenti. Contro questa decisione l'interessato
ha proposto censure al collegio ma senza successo.
L'ordinanza sindacale adottata ai sensi dell'art. 50 del tuel è giustamente
finalizzata al ripristino delle normali condizioni di vivibilità di un'area
urbana deturpata da un uso smodato del territorio.
Gli avventori del locale, infatti, oltre ad occupare strada e marciapiedi
impedendo anche il transito veicolare con il rumore impediscono da anni il
riposo dei residenti.
Per questo motivo il Tar non si è limitato a rigettare il ricorso.
Ma ha anche trasferito gli atti sia all'Ispettorato del lavoro, alla
Prefettura e alla Procura per le necessarie opportune valutazioni
conseguenti (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.03.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Diniego
d'accesso generalizzato, necessari contraddittorio e onere motivazionale
rafforzato.
Secondo la
sentenza 19.02.2018
n. 234 del TAR Puglia-Bari, Sez. III,
un
diniego d'accesso civico generalizzato, motivato con riferimento alla compromissione del buon andamento della Pubblica amministrazione, per il
carico di lavoro ragionevolmente e ordinariamente esigibile dagli uffici,
non può ritenersi tout court infondato.
Può essere d'aiuto ricordare -sia pure con riferimento a un diverso
referente normativo (articolo 43 del Dlgs 267/2000)– che in un caso di
accesso massivo agli atti formulato da consiglieri comunali di minoranza –che pure godono di un non limitato diritto di accesso agli atti, svincolato
da qualsivoglia onere motivazionale– il Consiglio di Stato ha affermato il
principio che essi godono di un diritto di accesso incondizionato «purché
non invada l'ambito riservato all'apparato amministrativo» (Consiglio di
Stato n. 846/2013).
In pratica «…l'esercizio di tale diritto deve avvenire
in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e
che non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero
meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri
deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di
non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso»
(ex plurimis, Consiglio di Stato sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
Il buon andamento della Pa rappresenta –in qualunque forma di accesso- un
valore cogente e non recessivo, la cui sussistenza, tuttavia, non può essere
genericamente affermata, bensì adeguatamente dimostrata da parte
dell'amministrazione che nega l'accesso (Delibera Anac 1309/2016; circolare
della Funzione pubblica 30.05.2017 n. 2/2017). Alla stregua dell'evocato
parametro interpretativo, il diniego di accesso, radicato al buon andamento
della Pubblica amministrazione, deve ritenersi soggetto a un onere
motivazionale rafforzato. Inoltre, non deve mancare il dialogo endoprocedimentale che appare ormai un valore immanente dell'azione
amministrativa.
È utile ricordare la circolare del Dipartimento della Funzione pubblica 30.05.2017 n. 2/2017, predisposta in raccordo con l'Anac, al fine di
promuovere una coerente e uniforme attuazione della disciplina sull'accesso
civico generalizzato e nell'esercizio della funzione generale di
«coordinamento delle iniziative di riordino della pubblica amministrazione e
di organizzazione dei relativi servizi (art. 27, n. 3, legge n. 93 del
1983)». Il punto d) della circolare precisa che qualora la trattazione
dell'istanza di accesso civico generalizzato sia suscettibile di arrecare un
pregiudizio serio e immediato al buon funzionamento della pubblica
amministrazione, quest'ultima «prima di decidere sulla domanda, dovrebbe
contattare il richiedente e assisterlo nel tentativo di ridefinire l'oggetto
della richiesta entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e
di proporzionalità».
Secondo la pronuncia del Tar Puglia, questo comportamento non può ritenersi
estraneo al percorso e alle finalità dell'accesso civico, atteso che il
principio del dialogo cooperativo con i richiedenti, deve ritenersi un
valore immanente alle previsioni della legge istitutiva del Foia e della
finalità di condividere con la collettività il patrimonio di informazioni in
possesso della Pa (la «società dell'informazione» cui a livello europeo
tende -considerando n. 2- la Direttiva n. 2003/98/CE)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.03.2018).
----------------
MASSIMA
6.2.- L’istanza, unitariamente intesa, risulta radicata a due diversi
referenti normativi atteso che, per un verso, individua le ragioni della
richiesta di accesso agli atti nelle previsioni del d.lgs. n. 33/2013 che –com’è noto– contiene la disciplina del c.d. “accesso civico” (oggi
differenziato in accesso civico semplice (art. 5, comma 1) e accesso civico
generalizzato (art. 5, comma 2) ; dall’altro, radica l’istanza ostensiva
agli art. 22 e ss. della l. n. 241/1990.
6.3.- Siffatta duplicazione di referenti normativi impone una preliminare
delibazione in ordine alla portata ed alla correlazione delle citate
previsioni, come più volte precisato dalla giurisprudenza anche di questo
Tribunale.
6.3.1.- Non sfugge al Collegio che nell’ambito delle deleghe concesse al
Governo di cui all’art. 7 della legge 07.08.2015 n. 124 per la
riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni (c.d. Riforma Madia), in
materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte
delle pubbliche amministrazioni, con il d.lgs 25.05.2016 n. 97 sono
state novellate le disposizioni di cui alla legge 06.11.2012 n. 190 ed
al d.lgs. 14.03.2013 n. 33 -previo parere della Sezione Consultiva per
gli atti Normativi del Consiglio di Stato, reso nell’adunanza di Sezione del
18.02.2016- introducendo una nuova forma di accesso civico libero ai
dati e ai documenti pubblici, equivalente a quella che nei sistemi
anglosassoni è definita Fredom of information act (F.O.I.A.): questa nuova
forma di accesso prevede che chiunque, indipendentemente dalla titolarità di
situazioni giuridicamente rilevanti, può accedere a tutti i dati e ai
documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, nel rispetto di
alcuni limiti tassativamente indicati dalla legge.
6.3.2.- Anche con riguardo alla normativa de qua, la giurisprudenza ha più
volte scrutinato il rapporto intercorrente tra le previsioni in materia di
accesso di cui alla legge n. 241/1990 e quelle di cui al d.lgs. n. 33/2016,
modificato dal d.lgs. n. 97/2016.
In particolare il Consiglio di Stato, a fronte delle previsioni innovative
del d.lgs. n. 33/2013, si è orientato a ritenere quanto segue:
“Al riguardo sembra opportuno sottolineare in primo luogo che le nuove
disposizioni, dettate con d.lgs. 14.03.2013, n. 33 in materia di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni disciplinano situazioni, non ampliative né sovrapponibili a
quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli
articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, come successivamente
modificata ed integrata.
Col citato d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino
della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia
accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività
delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare “il principio
democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon
andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse
pubbliche”, quale integrazione del diritto “ad una buona amministrazione”,
nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del
cittadino”. Detta normativa –avente finalità dichiarate di contrasto della
corruzione e della cattiva amministrazione– intende anche attuare la
funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati
dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera r) della Costituzione”: quanto sopra, tramite
pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo d.lgs. e concernenti l’organizzazione, nonchè
diversi specifici campi di attività delle predette amministrazioni) nei siti
istituzionali delle medesime, con diritto di chiunque di accedere a tali
siti “direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed
identificazione”; solo in caso di omessa pubblicazione può essere
esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto “accesso
civico”, consistente in una richiesta –che non deve essere motivata– di
effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di conclusiva
inadempienza all’obbligo in questione, di ricorrere al giudice
amministrativo, secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul
processo (d.lgs. 02.07.2010, n. 104).
L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli articoli 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 è riferito, invece, al “diritto degli
interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti
amministrativi”, intendendosi per “interessati….tutti i soggetti….che
abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso”; in funzione di tale interesse la domanda di accesso deve
essere opportunamente motivata.
Benché sommarie, le indicazioni sopra fornite appaiono sufficienti per
evidenziare la diversificazione di finalità e di disciplina dell’accesso
agli atti, rispetto al cosiddetto accesso civico, pur nella comune
ispirazione al principio di trasparenza, che si vuole affermare con sempre
maggiore ampiezza nell’ambito dell’amministrazione pubblica.” (Cons. St.
Sez. VI n. 5515 del 2013).
Le riferite conclusioni non risultano superate dalla successiva
giurisprudenza che, in sede di definizione dei rispettivi ambiti di
operatività delle diverse norme, ha ulteriormente aggiunto quanto segue:
“Vuol dire piuttosto che va condotta un'indagine circa la consistenza della
situazione legittimante all’accesso e che la relativa valutazione va
articolata a seconda della disciplina normativa di riferimento, che varia in
significative parti sia con riguardo ai caratteri della posizione
legittimante (l’interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata” di cui alla legge n. 241), sia dei
vari presidi che la legge pone verso l’accesso generalizzato (non collegato,
cioè, ad un interesse qualificato e differenziato o comunque volto a un
controllo diffuso sull’attività dei pubblici poteri). In particolare sul
versante dei rapporti con i pubblici poteri, il legislatore non sconta
limiti generali nel prevedere in favore dei cittadini una serie più o meno
ampia di diritti ad essere informati, come avviene, per esempio, con le
regole di pubblicità ex art. 29 del Dlgs 14.03.2013 n. 33.
E’ fondamentale sottolineare, al riguardo, che l'evoluzione della
legislazione in materia, che pure è via via sempre più aperta alle esigenze
di trasparenza dell'azione pubblica, ha portato a configurare le diverse
forme di accesso più che a guisa di un unico e globale diritto soggettivo di
accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri, come un
insieme di sistemi di garanzia per la trasparenza, tra loro diversificati
pur con inevitabili sovrapposizioni. Sicché s’avrà una maggiore o minore
estensione della legittimazione soggettiva, a seconda della più o meno
diretta strumentalità della conoscenza, incorporata negli atti e documenti
oggetto d’accesso, rispetto ad un interesse protetto e differenziato,
diverso dalla mera curiosità del dato, di colui che esprime sì il bisogno di
accedere, ma con le modalità previste dalla specifica disciplina normativa
invocata.
In altri termini, è da considerare che il sistema nel suo complesso dà luogo
a vari tipi d’accesso, con diverse finalità e metodi d’approccio alla
conoscenza ed altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza dei
pubblici poteri. Tali livelli, nel sistema della legge n. 241 … saranno più
ampi quando riguardano la partecipazione di un soggetto ad un procedimento
amministrativo (art. 7, c. 1; art. 8, c. 2, lett. b); art. 10, lett. a), della
l. 241/1990) o ad un processo amministrativo già in atto (art. 116, c. 2, c.p.a.: cfr., p. es., Cons. St., III, 14.03.2013 n. 1533), oppure quando
l’accesso riguardi «… documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici…» (art.
24, c. 7, della legge n. 241); ma richiederanno pur sempre, nel sistema della
legge n. 241, una posizione legittimante nei termini richiesti da quella
disciplina. È allora ben chiaro che il diritto d’accesso ex legge n. 241
agli atti amministrativi non è connotato da caratteri di assolutezza e
soggiace, oltre che ai limiti di cui all’art. 24 della l. 241/1990, alla
rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente, il quale
deve dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della
collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti.
…. Né sembri tutto ciò in contrasto con la c.d. “società dell’informazione”
cui a livello europeo tende (cfr. considerando n. 2) la dir. n. 2003/98/CE,
poiché, al di là dell’enfasi così manifestata, tale fonte comunque non
esclude, nei ben noti ed ovvi limiti di ragionevolezza e proporzionalità,
regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla
titolarità di una posizione legittimante).
Diversi sono i presupposti che connotano i casi di c.d. “accesso civico” ex
art. 5 del Dlgs 33/2013 (anche nel testo previgente alla novella del 2016),
che tuttavia presuppongono la sussistenza di un obbligo di pubblicazione (cfr.
funditus Cons. St., VI, 20.11.2013 n. 5515).
E ancora diversi sono i presupposti che disciplinano l’accesso ai sensi del
decreto legislativo n. 97 del 2016, che svincola il diritto di accesso da
una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013
nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti
dall’articolo 5 bis. In tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto
valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto
sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a
garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella
suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del
richiedente.” (Cons. St. n. 3631 del 2016).
6.4.- Nel caso di specie, deve escludersi che l’istanza possa ritenersi
radicata alle previsioni della l. n. 241/1990 che, peraltro, risulta
genericamente richiamata, senza l’indicazione dell’interesse diretto,
concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata, secondo i noti principi elaborati, ex multis, da Ad. Plen. Cons.
St. n. 7 del 24.04.2012.
6.5.- Più correttamente, l’istanza ostensiva deve ritenersi proposta -come
peraltro espressamente indicato dalla parte– all’art. 5, comma 2, d.lgs. n.
33/2013 e cioè quale accesso civico generalizzato.
6.6.- E’ noto che, per effetto delle modifiche apportate dal decreto
legislativo 25.05.2016 n. 97 al decreto legislativo 14.03.2013 n. 33,
è stato introdotto, con il comma 2, il c.d. accesso civico generalizzato che
va ad aggiungersi al c.d. accesso civico semplice di cui al comma uno dello
stesso articolo. L’accesso civico semplice prevede che l’obbligo in capo
alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati,
comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi nel caso in cui sia
stata omessa la loro pubblicazione.
L’accesso civico generalizzato contiene, invece, una diversa disciplina e
segnatamente il diritto di chiunque di accedere ai dati ed ai documenti
detenuti dalle pubbliche amministrazioni ulteriori rispetto a quelli oggetto
di pubblicazione -nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti– e ciò allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico.
Si aggiunge al comma 3, che “l’esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2
non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva
del richiedente. L’istanza di accesso civico identifica i dati, le
informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione…”.
6.7.- Alla luce di quanto sopra esposto, deve ritenersi infondato il primo
profilo di diniego espresso dalla resistente amministrazione, con
riferimento alla “incerta qualificazione” dell’istanza.
6.8.- Una più attenta considerazione merita il secondo profilo motivazionale
dell’atto impugnato, laddove si afferma, a giustificazione del diniego –sulla scorta della deliberazione ANAC n. 1309 del 28.12.2016 “Linee
Guida recanti indicazioni operative della definizione delle esclusioni e dei
limiti all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del D.Lgs n. 33 del 2013”– che non è ammissibile una richiesta meramente esplorativa e le richieste
non devono essere generiche, ma consentire l’individuazione del dato, del
documento o dell’informazione, con riferimento almeno, alla loro natura ed
al loro oggetto, aggiungendo che “Allo stesso modo, nei casi in cui venga
presentata una domanda di accesso per un numero manifestamente irragionevole
di documenti imponendo così un carico di lavoro tale da paralizzare, in modo
sostanziale, il buon funzionamento dell’amministrazione, la stessa può
ponderare, da un lato l’interesse all’accesso del pubblico ai documenti e,
dall’altro, il carico di lavoro che ne deriverebbe, al fine di
salvaguardare, in questi casi particolari, e di stretta interpretazione,
l’interesse ad un buon andamento dell’Amministrazione”.
6.8.1.- Ad avviso del Collegio deve escludersi che l’istanza non consenta di
identificare i dati, le informazioni o i documenti richiesti dal momento
che, per come formulata, consente agevolmente l’identificazione degli
stessi.
6.8.2.- Merita condivisione, invece, il profilo motivazionale relativo alla
massa dei documenti richiesti, relativi agli ultimi cinque anni di attività
amministrativa (bilanci societari; verbali del Consiglio di Amministrazione
relativi agli incarichi assegnati; fatture riguardanti acquisti e vendite,
con annesse stampe dei registri Iva acquisti, registri iva vendite, libro
giornale, partitari, cedolini paga; contratti di lavoro del personale e dei
collaboratori ASIPU, nonché contratti con le Agenzie interinali).
Il diniego opposto –motivato con riferimento alla compromissione del buon
andamento della Pubblica Amministrazione, per il carico di lavoro
ragionevolmente ed ordinariamente esigibile dagli uffici– non può ritenersi
tout court infondato.
6.8.3.- Gioverà ricordare -sia pure con riferimento ad un diverso referente
normativo (art. 43 d.lgs. n. 267/2000)– che in un caso di accesso massivo
agli atti formulato da consiglieri comunali di minoranza –che pure godono
di un non limitato diritto di accesso agli atti, svincolato da qualsivoglia
onere motivazionale– il Consiglio di Stato ha affermato il principio che
essi godono di un diritto di accesso incondizionato “purchè non invada
l’ambito riservato all’apparato amministrativo” (Cons. St. n. 846/2013):
in
pratica “…l’esercizio di tale diritto deve avvenire in modo da comportare il
minor aggravio possibile per gli uffici comunali e che non deve sostanziarsi
in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo
restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso" (tra tanti,
Consiglio di Stato sez. V, 29.08.2011, n. 4829).
6.8.4.- In definitiva, il buon andamento della Pubblica Amministrazione
rappresenta –in qualunque forma di accesso- un valore cogente e non
recessivo, la cui sussistenza, tuttavia, non può essere genericamente
affermata bensì adeguatamente dimostrata da parte dell’amministrazione che
nega l’accesso (Delibera ANAC citata; Circolare della Funzione Pubblica 30.05.2017 n. 2/2017).
Alla stregua dell’evocato parametro interpretativo, il diniego di accesso,
radicato al buon andamento della Pubblica Amministrazione, deve ritenersi
soggetto ad un onere motivazionale rafforzato.
6.8.5.- Nel caso di specie, l’istanza di accesso civico generalizzato
presentata dal ricorrente effettivamente afferisce ad un numero
manifestamente irragionevole di documenti (si pensi soltanto ai cedolini
paga degli ultimi cinque anni; alle fatture riguardanti acquisti e vendite,
con annesse stampe dei registri Iva acquisti, registri iva vendite degli
ultimi cinque anni) per cui il diniego opposto con riferimento alla tutela
del buon andamento della Pubblica Amministrazione, non può ritenersi, in
linea di principio erroneo od infondato.
6.8.6.- Ciò che è mancato, tuttavia, è il dialogo endoprocedimentale che
appare ormai un valore immanente dell’azione amministrativa.
6.8.7.- Gioverà all’uopo richiamare, ai fini che ci occupano, i contenuti
della Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica 30.05.2017 n.
2/2017, predisposta in raccordo con l’Autorità nazionale anticorruzione, al
fine di promuovere una coerente e uniforme attuazione della disciplina
sull’accesso civico generalizzato e nell’esercizio della funzione generale
di “coordinamento delle iniziative di riordino della pubblica
amministrazione e di organizzazione dei relativi servizi (art. 27, n. 3,
legge n. 93 del 1983)”.
IL punto d) della citata circolare precisa che qualora la trattazione
dell’istanza di accesso civico generalizzato sia suscettibile di arrecare un
pregiudizio serio ed immediato al buon funzionamento della pubblica
amministrazione, quest’ultima “prima di decidere sulla domanda, dovrebbe
contattare il richiedente e assisterlo nel tentativo di ridefinire l’oggetto
della richiesta entro limiti compatibili con i principi di buon andamento e
di proporzionalità”.
Siffatto comportamento non può ritenersi estraneo al percorso ed alle
finalità dell’accesso civico atteso che il principio del dialogo cooperativo
con i richiedenti deve ritenersi un valore immanente alle previsioni della
legge istitutiva del FOIA e della finalità di condividere con la
collettività il patrimonio di informazioni in possesso della Pubblica
Amministrazione.
6.8.7.- Trasponendo le riferite considerazioni al caso in esame, deve
convenirsi che il diniego all’istanza di accesso civico è illegittimo nei
soli limiti sopra evidenziati e come tale va annullato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri per installazione di uno spazio attrezzato per una
struttura teatrale.
Premesso che la deroga alla onerosità
della concessione edilizia (ora permesso di costruire)
ricorre nelle sole ipotesi tassativamente indicate dalla
legge, per l’inveramento della fattispecie di gratuità di cui alla
richiamata lett. f) dell’art. 9 della legge n. 10 del 1977 è
necessaria la contestuale presenza di due requisiti:
uno
soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competenze; l’altro di
carattere oggettivo, per effetto del quale la
costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse
generale.
---------------
1. La Cooperativa ricorrente, odierna appellante, ha agito
in giudizio per l’accertamento del diritto all’esenzione dal
pagamento del costo di costruzione e degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria richiesti dal Comune di
Bitritto con nota del 12.03.1993.
Gli elementi di fatto, come essenzialmente già contenuti
nella pronuncia di primo grado, possono essere così
sintetizzati:
- il Comune di Bitritto, con delibera consiliare n. 99 del 1985, ha
approvato il progetto per la realizzazione di uno spazio
attrezzato per Teatro Tenda, provvedendo successivamente
alla sistemazione e recinzione dell’area interessata, con
ultimazione dei lavori alla data del 30.05.1987;
- con successiva delibera consiliare n. 165 del 1987 ha affidato in
concessione detta area alla Cooperativa S.C.A.L.S., con la
quale, in data 16.06.1988, ha stipulato apposita
convenzione;
- con istanza del 26.01.1989, la Cooperativa, dovendo
completare i lavori sull’area attrezzata per l’installazione
del teatro tenda, ha chiesto, ai sensi dell’art. 12 della
convenzione, l’autorizzazione per l’esecuzione di alcuni
lavori e tali lavori sono stati autorizzati con
provvedimento sindacale dell’11.02.1989;
- il Comando di Polizia Municipale di Bitritto, con nota del 07.12.1992, ha rilevato l’abusiva realizzazione del
teatro tenda con copertura con telone in PVC nonché di sei
prefabbricati e di un corpo di fabbrica con muratura
perimetrale in tufo e copertura con lamiere zincate;
- l’amministrazione comunale, con atto del 01.02.1983, ha
ordinato l’immediata sospensione dei lavori abusivamente
eseguiti dalla Cooperativa;
- in data 04.02.1993, l’odierna appellante ha proposto istanza
di sanatoria anche per tali opere, sulla quale è intervenuto
favorevole parere della C.E.;
- il Comune di Bitritto, con atto del 12.03.1993, ha richiesto
il pagamento di costi e oneri relativi alle opere eseguite.
Il TAR Puglia, Sede di Bari, Seconda Sezione, con sentenza
n. 1729 del 2012, ha respinto il ricorso.
La Cooperativa SCALS ha proposto appello avverso la detta
sentenza, articolando i seguenti motivi di impugnativa: ...
...
3. L’appello è infondato e va di conseguenza respinto.
Con convenzione stipulata in data 16.06.2018, il Comune di
Bitritto ha affidato in concessione alla Cooperativa
S.C.A.L.S. l’area attrezzata per teatro tenda per consentire
alla detta Cooperativa di insediarvi una struttura teatrale,
comprendente anche eventuali attrezzature accessorie. Il
diritto di concessione, ai sensi dell’art. 8, comma 2, della
convenzione è esteso oltre che all’area attrezzata, anche al
mantenimento e godimento della predetta struttura nei limiti
e con le modifiche indicate nella stessa convenzione.
La concessione, pertanto, ha ad oggetto l’area attrezzata
nonché il mantenimento ed il godimento della struttura, ma
non l’esercizio dell’attività teatrale, con la conseguenza
che per la realizzazione del teatro è necessaria la
concessione edilizia, onerosa per legge; onerosità,
peraltro, non esclusa da alcuna clausola convenzionale.
Pertanto, non sussiste alcun motivo per escludere
l’assoggettamento della realizzazione del Teatro Tenda dagli
oneri di costruzione e di urbanizzazione primaria e
secondaria da parte del costruttore, a prescindere dal
soggetto che sarebbe rimasto in futuro proprietario delle
strutture fisse.
L’art. 12 della convenzione, d’altra parte, autorizza la
Cooperativa ad effettuare tutte le modifiche necessarie
sull’area attrezzata del Comune per il montaggio ed il
funzionamento della struttura teatrale, previo riscontro e
nulla osta da parte dell’Ufficio Comunale.
Di talché, come condivisibilmente statuito nella pronuncia
di primo grado, la clausola “si riferisce esclusivamente
alle modifiche necessarie da effettuarsi sull’area
attrezzata del Comune per il montaggio ed il funzionamento
della struttura teatrale, opere meramente prodromiche e di
modeste entità (così come del resto individuate dalla stessa
ricorrente nella originaria istanza del 26.01.1989), non
anche invece alle opere di costruzione del Teatro Tenda e di
tutti gli altri manufatti edilizi realizzati in assenza di
titolo, che integrano opere e lavori del tutto estranei a
quelli relativi alla sistemazione e predisposizione
dell’area”.
Né è possibile ritenere che la fattispecie rientri
nell’ambito dell’art. 9, lett. f), della l. n. 10 del 1977,
ratione temporis vigente, secondo cui il contributo
di concessione non è dovuto “per gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché
per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici”.
Infatti, premesso che la deroga alla onerosità della
concessione edilizia (ora permesso di costruire) ricorre
nelle sole ipotesi tassativamente indicate dalla legge, per
l’inveramento della fattispecie di gratuità di cui alla
richiamata lett. f) dell’art. 9 della legge n. 10 del 1977 è
necessaria la contestuale presenza di due requisiti:
uno
soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competenze; l’altro di
carattere oggettivo, per effetto del quale la costruzione
deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale (ex
multis: Cons. Stato, V, 07.05.2013, n. 2467; Cons.
Stato, IV, 02.03.2011, n. 1332),
Nel caso di specie, difettano entrambi i requisiti atteso
che la struttura è stata realizzata da un soggetto privato
per la gestione in via autonoma (cfr. art. 4 della
convenzione) a fini verosimilmente di lucro (cfr. anche art.
8 della convenzione sui proventi, riservati alla
Cooperativa, rivenienti dall’affitto di spazi pubblicitari a
terzi) e, quindi, per fini privati.
Va da sé, inoltre, che nella presente delibazione non può
assumere rilievo la circostanza che il suolo è demaniale e
risulta trasformato e urbanizzato dallo stesso Comune e ciò
in quanto gli oneri in discorso sono posti a carico del
costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere
di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici
che la nuova costruzione ne ritrae.
La censura sull’incompetenza dell’Assessore ai Lavori
Pubblici di Bitritto, il quale non sarebbe mai stato
delegato al compimento di atti di determinazione del
contributo de quo, infine, non può trovare ingresso nel
presente giudizio nel quale, come detto, si controverte
sull’accertamento del diritto della Cooperativa ad essere
esentata dagli oneri concessori e non sulla determinazione
del quantum degli stessi oneri ed in cui, quindi, la nota
del 12.03.2013, si presenta ininfluente.
Ad ogni buon conto, occorre rilevare che il Sindaco pro
tempore del Comune di Bitritto, in data 11.01.1991, aveva
delegato all’Assessore il ramo dei servizi lavori pubblici,
edilizia privata ed urbanistica, nel quale rientra la
determinazione degli oneri di costruzione ed urbanizzazione (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.02.2018 n. 945
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il pensionamento del dipendente impone il
pagamento delle ferie residue.
Nonostante
quanto previsto dall'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012 che
obbliga alla fruizione delle ferie i dipendenti della Pa con
il divieto della corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi, la Corte di Cassazione, Sez. lavoro - con la
sentenza 01.02.2018 n. 2496,
confermando i propri precedenti orientamenti, stabilisce che
l'inerzia della Pa sulla concessione delle ferie
obbliga la stessa alla remunerazione di eventuali ferie
residue a prescindere dalla mancata richiesta avanzata dal
dipendente durante il rapporto di lavoro.
---------------
MASSIMA
5. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Il CCNL EPR 1994-1997 del 07.10.1996, CCNL normativo
1994-1997 ed economico 1994-1995, all'art. 7 (Ferie,
festività del Santo Patrono e recupero festività soppresse),
commi 1, 9, 15 (di contenuto uguale al comma 13 richiamato
dal ricorrente) e 16, prevede: "1. Il dipendente ha
diritto, per ogni anno di servizio, ad un periodo di ferie
retribuito. Durante tale periodo al dipendente spetta la
normale retribuzione, escluse le indennità previste per
prestazioni di lavoro straordinario e quelle collegate ad
effettive prestazioni di servizio".
"9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e la mancata
fruizione non dà luogo alla corresponsione di compensi
sostitutivi, salvo quanto previsto nel comma 16. Esse vanno
fruite nel corso di ciascun anno solare, su richiesta del
dipendente, previa autorizzazione, tenuto conto delle
esigenze di servizio."
"15 Fermo restando il disposto del comma 9, all'atto della
cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie
spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di
servizio, si procede al pagamento sostitutivo delle stesse
sulla base del trattamento economico di cui al comma 1."
"16. Al personale che presenti i requisiti previsti
dall'articolo 5 comma 1, delle legge 724/1994, spettano
ulteriori quindici giorni di ferie, non frazionabili, per
recupero biologico, nel rispetto delle disposizioni del
d.lgs. 230/1995."
Il successivo CCNL EPR 1998-2001, all'art. 6 (Ferie,
festività del Santo Patrono e recupero festività soppresse),
commi 1, 9 e 15, stabilisce "1. Il dipendente ha diritto,
per ogni anno di servizio, ad un periodo di ferie
retribuito. Durante tale periodo al dipendente spetta la
normale retribuzione, escluse le indennità previste per
prestazioni di lavoro straordinario e quelle collegate ad
effettive prestazioni di servizio. (...)
9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e la mancata
fruizione non dà luogo alla corresponsione di compensi
sostitutivi, salvo quanto previsto nel comma 15.
Esse vanno fruite nel corso di ciascun anno solare, su
richiesta del dipendente, previa autorizzazione, tenuto
conto delle esigenze di servizio. (...)
15. Fermo restando il disposto del comma 9, all'atto della
cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie
spettanti a tale data non siano state fruite per esigenze di
servizio, si procede al pagamento sostitutivo delle stesse
sulla base del trattamento economico di cui al comma 1".
6. Così ricapitolato il quadro della disciplina contrattuale
di settore, occorre ricordare che la Corte costituzionale,
con la sentenza n. 286 del 2013 ha affermato che: "(...)
le ferie del personale dipendente dalle amministrazioni
pubbliche, ivi comprese quelle regionali, rimangono
obbligatoriamente fruite «secondo quanto previsto dai
rispettivi ordinamenti», tuttora modellati dalla
contrattazione collettiva dei singoli comparti. E la stessa
attuale preclusione delle clausole contrattuali di miglior
favore circa la "monetizzazione" delle ferie non può
prescindere dalla tutela risarcitoria civilistica del danno
da mancato godimento incolpevole. Tant'è che nella prassi
amministrativa si è imposta un'interpretazione volta ad
escludere dalla sfera di applicazione del divieto posto
dall'art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 «i casi di
cessazione dal servizio in cui l'impossibilità di fruire le
ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente»
(parere del Dipartimento della funzione pubblica 08.10.2012,
n. 40033). Con la conseguenza di ritenere tuttora
monetizzabili le ferie in presenza di «eventi estintivi del
rapporto non imputabili alla volontà del lavoratore ed alla
capacità organizzativa del datore di lavoro»
(nota prot. n. 0094806 del Dipartimento della Ragioneria
generale dello Stato)".
Con la successiva sentenza n. 95 del 2016 nel ritenere non
fondata questione di legittimità costituzionale dell'art. 5,
comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con mod. dalla
legge n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le
ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche
di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche
inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione ..., sono obbligatoriamente fruiti secondo
quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo
in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi"), ha posto in evidenza come
il legislatore correli il divieto di corrispondere
trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione
del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un
comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad
eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti
di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la
fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di
lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in
merito al periodo di godimento delle ferie.
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina
statale in questione come interpretata dalla prassi
amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso
di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende
estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa
la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del
datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che
tale interpretazione, che si pone nel solco della
giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di
cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come
garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma terzo),
dalle fonti internazionali
(Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro
h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati,
ratificata e resa esecutiva con legge 10.04.1981, n. 157)
e da quelle europee
(art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 07.12.2000 e
adattata a Strasburgo il 12.12.2007; direttiva 23.11.1993,
n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti
dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita
nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare
la materia). Tale diritto inderogabile
sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse,
senza alcuna compensazione economica, il godimento delle
ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non
imputabile al lavoratore.
7. Questa Corte con la sentenza n. 13860 del 2000,
richiamata nella sentenza n. 95 del 2016 del Giudice delle
Leggi, ha affermato che dal mancato
godimento delle ferie deriva -una volta divenuto impossibile
per l'imprenditore, anche senza sua colpa, adempiere
l'obbligazione di consentire la loro fruizione- il diritto
del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, che
ha natura retributiva, in quanto rappresenta la
corresponsione, a norma degli artt. 1463 e 2037 cod. civ.,
del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in
forma specifica; l'assenza di un'espressa previsione
contrattuale non esclude l'esistenza del diritto a detta
indennità sostitutiva, che peraltro non sussiste se il
datore di lavoro dimostra di avere offerto un adeguato tempo
per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia
usufruito (venendo ad incorrere così nella "mora del
creditore").
Lo stesso diritto, costituendo un riflesso contrattuale del
diritto alle ferie, non può essere condizionato, nella sua
esistenza, alle esigenze aziendali.
8. Nella specie, la Corte d'Appello, con accertamento di
merito non adeguatamente censurato, ha rilevato che il
collocamento d'ufficio in ferie del lavoratore da parte del
datore di lavoro, senza assorbimento al momento del
pensionamento dell'intero monte ferie spettante, era
intervenuto senza che risultasse che il lavoratore medesimo
si fosse rifiutato di godere delle ferie in un periodo
indicato e comunicato dal datore di lavoro.
Pertanto, correttamente, alla luce dei principi sopra
enunciati dal Giudice delle Leggi e da questa Corte, il
giudice di Appello, in presenza di causa non imputabile al
lavoratore, quale il collocamento a riposo, ha accolto la
domanda (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 01.02.2018 n. 2496). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarico legale senza impegno di spesa.
La regola contabile generale, validata
anche per gli enti locali, prevede che in mancanza del
preventivo impegno di spesa, nonché della corrispondente
copertura finanziaria, eventuali affidamenti di incarichi in
violazione di questi principi sono da considerarsi nulli.
Tuttavia, il principio contabile non può essere esteso agli
affidamenti degli incarichi legali, sia perché è incerta
l'incidenza del relativo onere economico, condizionato alla
soccombenza, e sia perché, nel bilancio dell'ente, è di
norma presente una voce generale nella quale possono essere
inserite le prevedibili spese di lite,
principi questi stabiliti dalla Corte di Cassazione, Sez.
III civile, nella
sentenza 25.01.2018
n. 1830.
Inoltre, applicando questi principi alla contabilità
armonizzata, se ne deduce che la mancata copertura
finanziaria, una volta affidata la difesa dell'ente ad un
avvocato del libero foro, la spesa non potrà essere
qualificata quale debito fuori bilancio ma, in mancanza di
un prudente stanziamento in bilancio nel fondo rischi, in
caso di soccombenza, emergerà una passività pregressa da
coprire finanziariamente e contabilmente nell'esercizio in
cui si sia verificata la soccombenza per l'ente (articolo
Il Sole 24 Ore del 30.01.2018).
---------------
MASSIMA
2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente
in quanto tra loro collegati, sono fondati.
La Corte d'appello di Napoli ha revocato il decreto
ingiuntivo emesso in favore dell'Avv. St. reputando che la
procura speciale ex art. 83 cod. proc. civ. rilasciata al
predetto procuratore per patrocinare il Comune nel giudizio
arbitrale non fosse sufficiente a costituire validamente il
vincolo contrattuale in forma scritta difettando:
- la formazione della volontà negoziale in un unico documento («lo
scambio del mandato (proposta) e della sottoscrizione
dell'atto difensivo (accettazione), non risulta rispettoso
degli artt. 16 e 17 del r.d. del 1923 che impongono, non
solo la forma scritta, ma anche la formazione della volontà
negoziale nell'ambito di un unico documento. ... La
formazione con atto separato, quindi, esclude che il
professionista possa accettare separatamente l'incarico
oggetto di delibera»);
- il «contenuto minimo del contratto formale della pubblica
amministrazione» («La ratio del divieto del contratto
a distanza tra p.a. e privato ... non risiede nella
impossibilità di scambiarsi proposta ed accettazione, ma
nella necessità che le condizioni contrattuali siano
espressamente regolate (oggetto dell'incarico, compenso,
motivi di risoluzione, durata, ecc.). Il riferimento
giurisprudenziale al "documento" non va inteso nella
materialità cartacea del documento (che nella specie
contiene sia la procura sia l'atto sottoscritto), ma con
riferimento alla forma-contenuto dell'atto negoziale»)
e, in particolare, il corrispettivo stabilito per il
professionista («non può neppure sostenersi che,
relativamente alla statuizione delle spettanze
dell'avvocato, per relationem si applicavano, tacitamente,
le tariffe legali sussistenti all'epoca, perché tali tariffe
erano, e sono, in vigore per tutte le professioni
intellettuali e tale circostanza non ha mai portato la
giurisprudenza della Corte di cassazione a sostenere che il
disciplinare di incarico, per questa ragione, fosse
superfluo»);
- il preventivo impegno di spesa da parte dell'Ente («La
obbligazione di pagamento pretesa con il decreto ingiuntivo
del professionista risulta invalida perché non assistita dal
correlativo impegno di spesa richiesto, non solo dalle norme
generali in tema di contabilità di Stato, ma anche dalle
norme sugli enti locali ... La circostanza che sia stato
nella delibera di incarico previsto un impegno di spesa a
titolo di acconto ... non soddisfa minimamente il requisito
previsto dalle norme, che presuppongono, al contrario,
l'intera prestazione contrattuale pretesa sia stata
contemplata ed assistito dalla copertura finanziaria. ... è
la previsione del costo del proprio legale che può e deve
essere oggetto di una previsione iniziale che, come avviene
per appalti servizi, potrà poi avere una successiva
variazione di costo, se giustificata. Non sembra, peraltro,
che le norme in materia di contabilità consentano eccezioni
con riferimento alla figura specifica del legale e che si
possa affidare un incarico a quest'ultimo in assenza di
attestazione di copertura finanziaria»).
La Corte di merito si pone in consapevole contrasto con un
consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimità, al quale il Collegio intende dare continuità
non sussistendo valide argomentazioni per discostarsene.
Infatti, questa Corte ha già più volte statuito che «in
tema di forma scritta ad substantiam dei contratti della P.A.,
il requisito è soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con
il rilascio al difensore della procura ai sensi dell'art. 83
cod. proc. civ., atteso che l'esercizio della rappresentanza
giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione
dell'atto difensivo perfeziona, mediante l'incontro di
volontà fra le parti, l'accordo contrattuale in forma
scritta, rendendo così possibile l'identificazione del
contenuto negoziale e i controlli dell'Autorità tutoria»
(Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 2266 del 16/02/2012, Rv.
621776-01; nello stesso senso, Cass., Sez. 2, Sentenza n.
8500 del 05/05/2004, Rv. 572611-01, Cass., Sez. 2, Sentenza
n. 13963 del 16/06/2006, Rv. 592970-01, e Cass., Sez. 2,
Sentenza n. 10707 del 15/05/2014, non nnassimata; sulla
idoneità a soddisfare il requisito della forma scritta della
procura generale alle liti purché individui l'ambito delle
controversie per cui opera, Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n.
3721 del 24/02/2015, Rv. 634430-01, Cass., Sez. 6-3,
Sentenza n. 15454 del 22/07/2015, Rv. 636092-01, Cass., Sez.
6-2, Ordinanza n. 4562 del 08/03/2016, non massimata, Cass.,
Sez. 6-2, Ordinanza n. 4563 del 08/03/2016, non massimata,
Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 5805 del 23/03/2016, non
massimata, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 15648 del
27/07/2016, non massimata, Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n.
15649 del 27/07/2016, non massimata).
Contrariamente alle asserzioni della Corte territoriale,
l'unicità del documento negoziale (requisito preteso
dalla giurisprudenza citata nella pronuncia impugnata) è
costituita dalla procura e dall'atto difensivo, che
individua in forma scritta il contenuto essenziale
dell'accordo (volontà delle parti, oggetto dell'incarico),
peraltro integrato ex art. 1374 cod. civ. dalle allora
vigenti (e inderogabili) tariffe professionali del d.m.
05.10.1994, n. 585
(corretta è, peraltro, l'osservazione del ricorrente secondo
cui gli altri professionisti intellettuali, pur vincolati da
tariffe predeterminate da atto normativo, non ricevono un
mandato ad litem con le caratteristiche formali e
sostanziali degli avvocati).
Quanto ai richiamati principi di
contabilità pubblica, «è evidente che la nullità prevista
per la mancata previsione della spesa e della sua copertura
non concerne anche le deliberazioni relative alla
partecipazione degli Enti a controversie giudiziarie, sia
perché è incerta l'incidenza del relativo onere economico,
condizionato alla soccombenza, e sia perché, nel bilancio
dell'Ente, è di norma presente una voce generale nella quale
possono essere inserite le prevedibili spese di lite»
(Cass., Sez. 2, Sentenza n. 13963 del 16/06/2006, in
motivazione; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8646 del 12/02/1993,
in motivazione); inoltre, «il
riferimento alle vigenti tariffe professionali, la cui
applicabilità, in assenza di uno specifico accordo tra le
parti, è di per sé sufficiente ad escludere l'incertezza in
ordine alla controprestazione dovuta dalla Amministrazione,
quantificabile soltanto in via approssimativa al momento
della stipulazione del contratto, in quanto correlata al
compimento degli atti difensivi resi necessari
dall'evoluzione del giudizio, e proprio per tale motivo
idonea a giustificare la previsione della copertura
finanziaria mediante generica imputazione al capitolo di
bilancio riguardante le spese processuali»
(Cass., Sez. 1, Sentenza n. 24859 del 09/12/2015, in
motivazione).
3. In conclusione, la sentenza impugnata è cassata con
rinvio alla Corte d'appello di Napoli in diversa
composizione, la quale esaminerà la fattispecie alla luce
delle indicazioni fornite da questa Corte (Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
25.01.2018 n. 1830). |
APPALTI: Deroghe
motivate agli obblighi di rotazione.
L'Anac fa chiarezza sulle modalità applicative del principio di rotazione,
fornendo una serie di indicazioni operative per garantire il confronto
concorrenziale.
Gli orientamenti giurisprudenziali
La giurisprudenza amministrativa ha sviluppato due orientamenti diversi,
affermando da un lato l'obbligo incondizionato di applicazione e dall'altro
la possibilità di deroga, soprattutto per garantire il contemperamento con
il principio di concorrenza.
Il TAR Lombardia–Milano, -Sez. IV- con la
sentenza
18.01.2018 n. 145, ha affermato che non
c'è un divieto assoluto di invito del gestore uscente, perché il principio
di rotazione non è una regola inderogabile. Sulla stessa linea altri Tar
(Tar Veneto, sentenza 146/2018 e Tar Lazio-Latina, sentenza n.
105/2018; quest'ultimo sui servizi sociali per garantire la continuità del
personale su utenti deboli).
La posizione dell’Autorità
Le linee-guida n. 4, nella versione revisionata, confermano anzitutto
l'obbligo di applicazione del principio di rotazione stabilito dall'articolo
36 del Codice dei contratti. L'Anac riafferma che l'affidatario uscente (e
gli altri soggetti invitati alla mini-gara) possono essere reinvitati sulla
base di una motivazione che evidenzi le particolarità del mercato, la
corretta esecuzione delle prestazioni da parte dell'operatore economico nel
contratto precedente e la sua competitività sotto il profilo economico.
L'Autorità precisa tuttavia che il principio di rotazione degli affidamenti
e degli inviti si applica, con riferimento all'affidamento immediatamente
precedente, nei casi in cui i due affidamenti (quello precedente e quello
attuale) abbiano ad oggetto una commessa rientrante nello stesso settore
merceologico, nella stessa categoria di opere o nello stesso settore di
servizi.
Uno stesso operatore economico che svolga attività in settori differenti può
quindi risultare affidatario in procedimenti di acquisto che abbiano ad
oggetto prestazioni diverse.
Le modalità di contemperamento
L'Anac definisce quindi alcune modalità per assicurare il contemperamento
con la tutela della concorrenza, chiarendo che la rotazione non si applica
quando il nuovo affidamento avviene tramite procedure ordinarie o comunque
aperte al mercato, in cui la stazione appaltante non limiti il numero degli
invitati alla procedura selettiva semplificata conseguente a indagine di
mercato con avviso o con utilizzo di elenco di operatori economici.
In
questi casi, infatti, la normativa prevede un numero minimo di soggetti da
invitare, che consente una velocizzazione della procedura, ma che limita al
contempo il confronto tra gli operatori economici: il superamento della
condizione restrittiva e la maggiore apertura si realizzano pertanto quando
la stazione appaltante invita tutti gli operatori che hanno manifestato il
loro interesse a seguito dell'avviso, o tutti quelli iscritti all'elenco
costituito dalla stessa Pa.
L'Anac fornisce inoltre una soluzione operativa, sollecitando le
amministrazioni a suddividere gli affidamenti in fasce di valore economico,
in modo da applicare la rotazione solo in caso di affidamenti rientranti
nella stessa fascia. Il provvedimento di articolazione in fasce deve però
prevedere un'effettiva differenziazione tra forniture, servizi e lavori, e
deve essere adeguatamente motivato in ordine alla scelta dei valori di
riferimento delle fasce (per i lavori si può tener conto delle soglie
previste dal sistema unico di qualificazione)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.03.2018). |
TRIBUTI: Copertura
ponteggio. Resta la pubblicità.
Il comune che autorizza dei pannelli artistici a copertura di un ponteggio
avallando anche una implicita autorizzazione alla sostituzione della
scenografia con messaggi pubblicitari non può fare marcia indietro ordinando
la rimozione degli impianti commerciali senza un preventivo annullamento in
autotutela.
Lo ha chiarito il TAR Valle d'Aosta con la
sentenza
16.01.2018 n. 4.
Il comune di Courmayeur ha autorizzato sia dal punto di vista
edilizio che paesaggistico l'installazione di pannelli a copertura di un
ponteggio edilizio.
Al momento della sostituzione dei pannelli scenografici con pannelli
pubblicitari l'amministrazione ha ordinato la rimozione degli impianti.
Contro questa decisione l'interessato ha proposto con successo ricorso al
Tar.
Siccome nella relazione tecnico-illustrativa allegata alla licenza comunale
era specificamente prevista la possibilità di sostituire i pannelli
artistici con impianti pubblicitari il comune che voleva rivedere questa
determinazione doveva esercitare il proprio potere in sede di autotutela.
Non ordinare alla ditta di rimuovere impianti pubblicitari in precedenza
implicitamente autorizzati (articolo
ItaliaOggi Sette del 19.03.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso alle carte solo post concorso. Tribunale amministrativo
regionale del Lazio.
Deve ritenersi legittimo il provvedimento della Pubblica Amministrazione di
differire al momento della conclusione della tornata concorsuale l'accesso a
parte della documentazione richiesta dal candidato respinto alla prova
scritta e ciò al fine, da un lato, di garantire l'anonimato dei partecipanti
e la riservatezza dei lavori della commissione giudicatrice, dall'altro, di
non intralciare la conclusione della stessa procedura concorsuale in atto.
Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, nella
sentenza
11.01.2018 n.
275: nel caso di specie, il collegio giudicante non ha infatti
ravvisato validi motivi per discostarsi da alcuni precedenti
giurisprudenziali sul punto ed ha confermato che il differimento di accesso
agli atti «non nega l'interesse del privato, ma si limita a rinviarne il
soddisfacimento a una data successiva, a tutela al tempo stesso
dell'interesse pubblico alla riservatezza e speditezza delle operazioni
concorsuali».
Nelle motivazioni, i giudici amministrativi spiegano che il
diritto di difesa non verrebbe comunque «minimamente» compromesso dal
suddetto differimento; un iter analogo, continuano, sarebbe stato di recente
seguito in una fattispecie avente ad oggetto la richiesta di accesso agli
atti relativi all'esame di abilitazione all'esercizio della professione di
avvocato: anche in questo caso, invero, si era ritenuto legittimo rinviare
l'accesso agli atti «stante l'evidente necessità di non intralciare la
conclusione del procedimento in corso assicurando al contempo la
riservatezza dei lavori della Commissione e la tutela dell'anonimato».
Così
argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso di un aspirante allievo vice
ispettore, il quale, nel chiedere la condanna dell'Amministrazione ad
esibire copia degli atti richiesti e non ostesi, lamentava tra i motivi di
doglianza anche la carenza di motivazione, carenza debitamente contestata
sul presupposto che «per sufficiente o adeguata motivazione dell'atto
amministrativo deve intendersi la rappresentazione, anche sintetica, degli
elementi che consentono all'interessato di avere piena contezza delle
ragioni di fatto e di diritto che sostengono la determinazione ivi
contenuta» (articolo
ItaliaOggi Sette del 12.03.2018).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è infondato.
3. Va respinta la doglianza di carente motivazione del gravato atto di
differimento.
Sul tema, è appena il caso di rammentare che per sufficiente o adeguata
motivazione dell’atto amministrativo deve intendersi la rappresentazione,
anche sintetica, degli elementi che consentono all’interessato di avere
piena contezza delle ragioni di fatto e di diritto che sostengono la
determinazione ivi contenuta.
Tale condizione risulta soddisfatta nell’atto in esame.
L’Amministrazione ha richiamato l’ipotesi di differimento prevista dall’art.
4, comma 1, lett. f), del d.m. 415/1994, che dispone che “Ai sensi
dell'art. 8, comma 5, lettera d), del decreto del Presidente della
Repubblica 07.06.1992, n. 352, ed in relazione all'esigenza di salvaguardare
la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro ai
medesimi la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la
cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi
giuridici, sono sottratte all'accesso le seguenti categorie di documenti:
a) ...
f) documentazione attinente ai lavori delle commissioni di avanzamento e
alle procedure di passaggio alle qualifiche superiori, fino alla data di
adozione dei relativi decreti di promozione, e documentazione delle
commissioni giudicatrici di concorso, fino alla adozione, da parte
dell'Amministrazione, del provvedimento conclusivo del relativo procedimento”.
Mediante tale motivazione per relationem, il ricorrente è stato
infatti posto in grado di comprendere le ragioni del parziale differimento
del richiesto accesso, nonché l’afferenza di tali ragioni non allo specifico
procedimento concorsuale cui ha partecipato, bensì a una disposizione di
carattere organizzativo e di portata generale relativa ai procedimenti
concorsuali per l’accesso al pubblico impiego, di cui l’Amministrazione
dell’interno ha inteso dotarsi.
Vanno respinte anche le ulteriori censure ricorsuali.
La fattispecie in esame non integra un diniego di accesso.
L’Amministrazione, infatti, all’esito dell’istanza di accesso presentata dal
ricorrente, ha osteso al medesimo la gran parte degli atti richiesti (ovvero
l’elaborato formato dal ricorrente e il verbale della seduta della sua
correzione, il verbale recante i criteri di valutazione della prova scritta,
altri verbali inerenti lo svolgimento della stessa prova).
Quanto ai restanti atti elencati nell’istanza (copie di “almeno 5 degli
elaborati ammessi con punteggio di 06/2010 alle prove successive” e dei
“verbali di correzione degli elaborati scelti”), l’Amministrazione si
è limitata a differirne l’accesso all’atto della conclusione della
procedura, ai sensi del già citato art. 4, comma 1, lett. f), del d.m.
415/1994.
Ciò posto, si rileva che la giurisprudenza amministrativa,
proprio di recente, in una fattispecie relativa a istanza di accesso agli
atti relativi all’esame di abilitazione all'esercizio della professione di
avvocato, ha ritenuto un analogo differimento conforme alle norme
enucleabili dagli artt. 24, comma 4
(“L'accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia
sufficiente fare ricorso al potere di differimento”), e
25, comma 3, della l. 241/1990 (“Il
rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso sono ammessi nei casi
e nei limiti stabiliti dall'articolo 24 e debbono essere motivati”),
nonché dall’art. 9 del D.P.R. n. 184 del 2006
(“1. Il rifiuto, la limitazione o il differimento dell'accesso richiesto
in via formale sono motivati, a cura del responsabile del procedimento di
accesso, con riferimento specifico alla normativa vigente, alla
individuazione delle categorie di cui all'articolo 24 della legge, ed alle
circostanze di fatto per cui la richiesta non può essere accolta così come
proposta. 2. Il differimento dell'accesso è disposto ove sia sufficiente per
assicurare una temporanea tutela agli interessi di cui all'articolo 24,
comma 6, della legge, o per salvaguardare specifiche esigenze
dell'amministrazione, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, in
relazione a documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon
andamento dell'azione amministrativa. 3. L'atto che dispone il differimento
dell'accesso ne indica la durata”), stante “l’evidente necessità di
non intralciare la conclusione del procedimento in corso assicurando al
contempo la riservatezza dei lavori della Commissione e la tutela
dell’anonimato” (C. Stato, IV, 04.12.2017, n. 5726).
In altre parole, la giurisprudenza ha valorizzato le stesse
esigenze poste chiaramente a base dell’art. 4, comma 1, lett. f), del d.m.
415/1994, qui in rilievo.
Può ancora aggiungersi che già precedentemente la stessa
giurisprudenza ha rilevato, con specifico riferimento a una procedura
concorsuale per l’accesso a pubblico impiego, e sempre in relazione a un
differimento di accesso agli atti, che esso non nega l’interesse del
privato, ma si limita a rinviarne il soddisfacimento a una data successiva,
a tutela al tempo stesso dell’interesse pubblico alla riservatezza e alla
speditezza delle operazioni concorsuali
(C. Stato, IV, 04.04.2012, n. 2005).
Da tali condivisibili affermazioni il Collegio non ravvisa alcun motivo di
discostarsi, anche tenuto conto del fatto che il diritto di difesa invocato
in ricorso non risulta minimamente compromesso dal differimento per cui è
causa: la valutazione negativa conseguita dal ricorrente nel concorso di cui
trattasi è infatti suscettibile di essere attaccata in giudizio sia ex se
sia sulla base degli atti già trasmessi dall’Amministrazione all’esito
dell’istanza di accesso, e la controversia in tal modo instaurata può essere
estesa, occorrendo, agli atti non ancora ostesi, una volta disponibili, a
mezzo di motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a..
4. Alle rassegnate conclusioni consegue il rigetto del ricorso. |
EDILIZIA PRIVATA: La previsione di cui all'art. 6,
comma 2, lett. e), T.U. 380/2001, che ha liberalizzato la
realizzazione delle aree ludiche di pertinenza degli
edifici, non può mai estendersi all'installazione di
piscine.
Per quanto concerne la piscina, la
previsione di cui all'art. 6, 2° comma, lett. e), T.U.
380/2001, che ha liberalizzato la realizzazione delle aree
ludiche di pertinenza degli edifici, non può mai estendersi
all'installazione di piscine, occorrendo per esse
lavori di scavo, rivestimento e dotazione di impianti
tecnologici.
A fortiori da escludersi allorquando si verta, come nel caso
di specie, dell'installazione di una piscina fuori terra,
peraltro di superficie considerevole (50 mq.), cui si
aggiunge quella della pedana di legno che la circonda
(estesa circa 60 mq.), che, in quanto destinata a creare
volume, così come la struttura in legno annessa alla stessa,
nonché idonea alla durevole trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio nel quale è inserita, va ricompresa
nell'ambito delle costruzioni, ovverosia dei manufatti che,
elevandosi al di sopra del suolo, necessitano del permesso
di costruire.
---------------
Il ricorso non si confronta con la puntuale motivazione resa
dal provvedimento impugnato che ha accertato il carattere
permanente dei manufatti, attesa la dotazione di impianto
elettrico ed idraulico che ne implica lo stabile ancoraggio
al suolo, nonché la loro attitudine alla modifica dello
stato dei luoghi in quanto ubicati in area sottoposta
vincolo paesaggistico del Parco Metropolitano delle colline
di Napoli.
Al riguardo non vale a scriminare il ricorrente la pregressa
comunicazione inoltrata al Comune per l'installazione di
un'area ludica, peraltro del tutto irrilevante ai fini del
contestato reato paesaggistico, non costituendo i manufatti
in questione, stanti le loro stesse caratteristiche
strutturali tali da escluderne la precarietà ed il
conseguente utilizzo temporaneo limitato alla stagione
estiva, elementi di arredo delle aree ludiche sussumibili
tra gli interventi cd. di edilizia libera, non richiedenti
cioè alcun titolo abilitativo.
Per quanto in particolare concerne la piscina, la previsione
di cui all'art. 6, 2° comma, lett. e), T.U. 380/2001, che ha
liberalizzato la realizzazione delle aree ludiche di
pertinenza degli edifici, non può mai estendersi
all'installazione di piscine, occorrendo per esse
lavori di scavo, rivestimento e dotazione di impianti
tecnologici (Sez. 3, 18.06.2003 n. 26197, Agresti), a
fortiori da escludersi allorquando si verta, come nel
caso di specie, dell'installazione di una piscina fuori
terra, peraltro di superficie considerevole (50 mq.), cui si
aggiunge quella della pedana di legno che la circonda
(estesa circa 60 mq.), che, in quanto destinata a creare
volume, così come la struttura in legno annessa alla stessa,
nonché idonea alla durevole trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio nel quale è inserita, va ricompresa
nell'ambito delle costruzioni, ovverosia dei manufatti che,
elevandosi al di sopra del suolo, necessitano del permesso
di costruire (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 264). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto
abusivo deve essere eseguito anche nei confronti di terzi
estranei al reato a cui è stata alienata la proprietà
dell'immobile.
L'eventuale alienazione a terzi
dell'immobile abusivo non impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito
dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è
esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e
natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato né la sua operatività può essere
esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione.
---------------
L'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando
un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa
a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai
sensi dell'art. 173 cod. pen..
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche
dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità
anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata dalla
giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la
demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della
CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un
danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge».
---------------
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non
impedisce la demolizione.
Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte,
infatti, l'esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito
dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è
esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se
intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che
l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare
pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014,
Attardi, Rv. 259802; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep.
2011, Giustino e altri, Rv. 249129; Sez. 3, n. 45301 del
07/10/2009, Roscetti, Rv. 245213, sez. 3, n. 22853 del
29.03.2007, Coluzzi, rv. 236880).
L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna per reati edilizi, ex art. 31, comma 9,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ha, infatti, carattere reale e
natura di sanzione amministrativa a contenuto
ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei
confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene
e vantano su di esso un diritto reale o personale di
godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla
commissione del reato né la sua operatività può essere
esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente
potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito
dell'avvenuta demolizione (Sez. 3, n. 37120 dell'11.05.2005,
Morelli, Rv. 232175; Sez. 3, n. 42781 del 21.10.2009,
Arrigoni, non massim.; Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Rv.
259802; Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Rv. 265193).
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte,
l'ordine di demolizione impartito dal giudice, configurando
un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio, stante la sua natura di sanzione amministrativa
a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso, non si estingue per il decorso del tempo ai
sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del
07/07/2015, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011,
Mercurio e altro, Rv. 250336; Sez. 3, n. 43006 del
10/11/2010, La Mela, Rv. 248670), atteso che quest'ultima
disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3,
n. 39705 del 30/04/2003, Pasquale, Rv. 226573).
Ed è stato anche precisato che tali caratteristiche
dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità
anche alla nozione convenzionale di "pena" elaborata
dalla giurisprudenza della Corte EDU, osservando che la
demolizione, a differenza della confisca, non può
considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7
della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva
di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per
impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni
stabilite dalla legge»
(Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Rv. 265540; Sez. 3, n.
48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918; Sez. 3, n.
47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403, nonché da ultimo
Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Rv. 267977, che ribadendo
il principio in questione ha ritenuto infondata la questione
di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3
e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 per
mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine
di demolizione del manufatto abusivo disposto con la
sentenza di condanna) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 249). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquirente
dell’immobile che non utilizzi la concessione edilizia, non
ponendo in essere alcuna attività edificatoria, non è tenuto
al pagamento del contributo di costruzione dovuto dal
titolare della concessione.
Il Consiglio di Stato si è da tempo
espresso nel senso che legittimamente un comune richiede
all'intestatario di una concessione edilizia il pagamento
del contributo commisurato al costo di costruzione, a nulla
rilevando che dopo il rilascio del titolo l'immobile sia
stato alienato a terzi. E, analogamente, è stato ritenuto
che ai fini del pagamento dei contributi di urbanizzazione
risponde direttamente e per intero il titolare della
concessione edilizia, essendo i successivi acquirenti
estranei al rapporto che al riguardo si è instaurato col
Comune.
L’indirizzo ha trovato anche ulteriori espressioni.
L'acquirente a titolo particolare di un fabbricato già
realizzato, è stato detto, non è, in difetto di accollo,
obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione a suo
tempo dovuti al momento del rilascio al venditore della
relativa concessione edilizia, giusta le ordinarie regole
della successione per cui le obbligazioni si trasmettono
all'erede del debitore e non anche al predetto acquirente, e
non essendo quest’ultimo titolare della concessione edilizia.
Invero, gli oneri relativi a
una concessione edilizia vanno determinati, ai sensi
dell'art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, al momento del
rilascio della concessione stessa, per cui non può essere
tenuto al pagamento di detti oneri il soggetto che subentri
nella concessione solo successivamente al suo rilascio.
E quando la giurisprudenza ha deciso nel senso opposto del
debito dell’acquirente per gli oneri di urbanizzazione, ciò
è avvenuto sul rilievo che l’obbligo di compiere le relative
opere, originariamente assunto dai lottizzanti, fosse
transitato quale obbligazione propter rem a carico del nuovo
proprietario che chiedeva la singola concessione edilizia.
---------------
La tematica è stata infine recentemente esaminata funditus
in occasione della decisione della stessa Sez. V, 30.11.2011,
n. 6333, con la quale sono state svolte le seguenti
considerazioni:
“L'art. 3 della l. n. 10 del 1977 stabilisce che la
concessione edilizia comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza delle spese di
urbanizzazione e al costo di costruzione.
La più accreditata dottrina e la giurisprudenza hanno
chiarito che il costo di costruzione è una prestazione
patrimoniale di natura impositiva e trova la sua ratio
nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di
costruire consegue in dipendenza dell'intervento edilizio.
Essa, pertanto, postula quale condizione di esigibilità la
sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la
concreta fruizione del titolo da parte del concessionario,
ovvero la effettiva attività di edificazione.
La causa giuridica del pagamento è, dunque, nella fruizione
dell'atto abilitativo all'edificazione a mezzo della
effettiva realizzazione dell'intervento assentito.
La suddetta natura trova conferma nella disposizione
dell'art. 11 della l. n. 10 del 1977, applicabile ratione
temporis e del vigente l'art. 16 del T.U. dell'edilizia, che
stabiliscono che la quota di contributo per costo di
costruzione, determinata al momento del rilascio della
concessione, deve essere corrisposta in corso d'opera o
comunque non oltre 60 giorni dall'ultimazione delle opere.
Ne consegue che il Pe., non avendo mai usufruito della
concessione edilizia -dagli atti di causa emerge che non ha
mai nemmeno ritirato il titolo, avendone chiesto la voltura
in favore della società Ri.- non è soggetto obbligato per
legge a pagare il contributo commisurato al costo di
costruzione.
Quanto alla circostanza che il Pe. sia stato il soggetto che
ha avviato, con istanza del 1977, il procedimento volto al
rilascio della concessione edilizia, essa è del tutto
irrilevante, non essendosi verificato in capo allo stesso il
presupposto di esigibilità del suddetto onere, che è la
fruizione del titolo e la materiale esecuzione delle opere,
cui il titolo si riferisce.
D'altra parte, le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri
reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con
il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del
bene, esse gravano sull'acquirente.
…Si è già detto che il rilascio e l'effettiva fruizione del
titolo edilizio rappresentano i fatti costitutivi della
fonte dell'obbligazione di pagamento del contributo di
costruzione, sicché chi non ha utilizzato il titolo non
assume la qualifica di soggetto obbligato e, quindi, nemmeno
di soggetto coobbligato.”
---------------
I principi così illustrati, che smentiscono che l’ambulatorietà
dell’obbligazione in questione sia incondizionata e
illimitata (come presupposto invece dal TAR), sono stati
confermati anche dalla Corte di Cassazione.
La Corte, nel configurare l'obbligo del pagamento degli
oneri di urbanizzazione come un’obbligazione propter rem, ha
precisato, infatti, che verso il Comune ha gli stessi
obblighi che gravavano sull’originario concessionarioanche
“colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo
dante causa”.
---------------
6 Tanto premesso, l’appello in esame merita accoglimento in ragione
della fondatezza del suo assorbente primo motivo.
7 Con tale mezzo la società in epigrafe ripropone l’assunto
che il pagamento dei contributi concessori gravava sulla
precedente proprietaria dell’immobile in qualità di titolare
della concessione stessa, nel mentre essa ricorrente,
acquirente a titolare particolare, nemmeno attraverso l’atto
di trasferimento del bene aveva assunto alcun obbligo circa
i contributi ancora dovuti.
7a Il Tribunale ha disatteso la doglianza osservando, in
sintesi:
- innanzitutto, che la prevalente giurisprudenza, con
riferimento tanto agli oneri di urbanizzazione quanto al
costo di costruzione, ravvisa negli oneri concessori la
natura di obbligazioni c.d. reali o propter rem,
caratterizzate dalla stretta inerenza alla res e destinate a
circolare unitamente ad essa con carattere di ambulatorietà,
onde nel caso di trasferimento del bene le stesse si
trasferiscono sull’acquirente;
- in secondo luogo, che il decreto del Tribunale Civile di
Trapani n. 52/2014 di trasferimento dell’immobile alla
ricorrente puntualizzava che l’acquisto di tale bene sarebbe
avvenuto “nello stato di fatto e di diritto in cui si trova,
con pesi ed oneri non estinti”.
7b A tanto la ricorrente però obietta che secondo la
giurisprudenza, in realtà, l’obbligo di pagare il contributo
di concessione si atteggia come obbligazione propter rem, sì
che l’adempimento possa essere preteso anche nei riguardi
del terzo acquirente, solo allorché questi “valendosi della
concessione edilizia realizza le opere che con essa sono
state assentite”, e non anche quando da parte sua non vi sia
alcuna fruizione dell’atto abilitativo.
L’appellante sostiene, quindi, che l’acquirente
dell’immobile che non utilizzi la concessione, non ponendo
in essere alcuna attività edificatoria (come appunto essa
ricorrente, che aveva acquisito la struttura già ultimata),
non sarebbe tenuto al pagamento del contributo dovuto dal
titolare della concessione.
7c Orbene, quest’ultima impostazione è del tutto corretta e
meritevole d’adesione.
Il Consiglio di Stato si è da tempo espresso nel senso che
legittimamente un comune richiede all'intestatario di una
concessione edilizia il pagamento del contributo commisurato
al costo di costruzione, a nulla rilevando che dopo il
rilascio del titolo l'immobile sia stato alienato a terzi
(C.d.S., Sez. V, 13.12.1993, n. 1280). E,
analogamente, è stato ritenuto che ai fini del pagamento dei
contributi di urbanizzazione risponde direttamente e per
intero il titolare della concessione edilizia, essendo i
successivi acquirenti estranei al rapporto che al riguardo
si è instaurato col Comune (C.d.S., Sez. V, 26.06.1996,
n. 793).
L’indirizzo ha trovato anche ulteriori espressioni.
L'acquirente a titolo particolare di un fabbricato già
realizzato, è stato detto, non è, in difetto di accollo,
obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione a suo
tempo dovuti al momento del rilascio al venditore della
relativa concessione edilizia, giusta le ordinarie regole
della successione per cui le obbligazioni si trasmettono
all'erede del debitore e non anche al predetto acquirente, e
non essendo quest’ultimo titolare della concessione edilizia
(Sez. V, 26.03.1996, n. 294; cfr. anche la decisione 17.09.2010 n. 6950 nel senso che gli oneri relativi a
una concessione edilizia vanno determinati, ai sensi
dell'art. 11 l. 28.01.1977 n. 10, al momento del
rilascio della concessione stessa, per cui non può essere
tenuto al pagamento di detti oneri il soggetto che subentri
nella concessione solo successivamente al suo rilascio).
E quando la giurisprudenza ha deciso nel senso opposto del
debito dell’acquirente per gli oneri di urbanizzazione, ciò
è avvenuto sul rilievo che l’obbligo di compiere le relative
opere, originariamente assunto dai lottizzanti, fosse
transitato quale obbligazione propter rem a carico del nuovo
proprietario che chiedeva la singola concessione edilizia (C.d.S,
Sez. V, 15.05.2001, n. 2699)
La tematica è stata infine recentemente esaminata funditus
in occasione della decisione della stessa Sez. V, 30.11.2011, n. 6333, con la quale sono state svolte le
seguenti considerazioni.
“L'art. 3 della l. n. 10 del 1977 stabilisce che la
concessione edilizia comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza delle spese di
urbanizzazione e al costo di costruzione.
La più accreditata dottrina e la giurisprudenza hanno
chiarito che il costo di costruzione è una prestazione
patrimoniale di natura impositiva e trova la sua ratio
nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di
costruire consegue in dipendenza dell'intervento edilizio.
Essa, pertanto, postula quale condizione di esigibilità la
sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la
concreta fruizione del titolo da parte del concessionario,
ovvero la effettiva attività di edificazione.
La causa giuridica del pagamento è, dunque, nella fruizione
dell'atto abilitativo all'edificazione a mezzo della
effettiva realizzazione dell'intervento assentito (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 16.01.2009, n. 218).
La suddetta natura trova conferma nella disposizione
dell'art. 11 della l. n. 10 del 1977, applicabile ratione
temporis e del vigente l'art. 16 del T.U. dell'edilizia, che
stabiliscono che la quota di contributo per costo di
costruzione, determinata al momento del rilascio della
concessione, deve essere corrisposta in corso d'opera o
comunque non oltre 60 giorni dall'ultimazione delle opere.
Ne consegue che il Pe., non avendo mai usufruito della
concessione edilizia -dagli atti di causa emerge che non ha
mai nemmeno ritirato il titolo, avendone chiesto la voltura
in favore della società Ri.- non è soggetto obbligato per
legge a pagare il contributo commisurato al costo di
costruzione.
Quanto alla circostanza che il Pe. sia stato il soggetto che
ha avviato, con istanza del 1977, il procedimento volto al
rilascio della concessione edilizia, essa è del tutto
irrilevante, non essendosi verificato in capo allo stesso il
presupposto di esigibilità del suddetto onere, che è la
fruizione del titolo e la materiale esecuzione delle opere,
cui il titolo si riferisce.
D'altra parte, le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri
reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con
il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del
bene, esse gravano sull'acquirente.
…Si è già detto che il rilascio e l'effettiva fruizione del
titolo edilizio rappresentano i fatti costitutivi della
fonte dell'obbligazione di pagamento del contributo di
costruzione, sicché chi non ha utilizzato il titolo non
assume la qualifica di soggetto obbligato e, quindi, nemmeno
di soggetto coobbligato.”
I principi così illustrati, che smentiscono che l’ambulatorietà
dell’obbligazione in questione sia incondizionata e
illimitata (come presupposto invece dal TAR), sono stati
confermati anche dalla Corte di Cassazione.
La Corte, nel configurare l'obbligo del pagamento degli
oneri di urbanizzazione come un’obbligazione propter rem, ha
precisato, infatti, che verso il Comune ha gli stessi
obblighi che gravavano sull’originario concessionario anche
“colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica, valendosi di concessione rilasciata al suo
dante causa” (così Cass. civ., Sez. III, 17.06.1996, n.
5541; in senso conforme Sez. II, 27.08.2002, n. 12571).
7d Dai principi esposti consegue, dunque, che il Comune di
San Vito Lo Capo non aveva titolo per pretendere il
pagamento dei contributi oggetto di causa dall’attuale
ricorrente.
La s.r.l. SO. & SO. aveva acquistato una struttura
immobiliare già completata (tanto da essere munita sin dal
2006 anche dell’agibilità), e pertanto, non avendo essa
realizzato opere di trasformazione edilizia, non aveva avuto
alcuna effettiva fruizione della concessione.
7e Né giova al Comune opporre la clausola del decreto n.
52/2014 per cui il trasferimento dell’immobile era avvenuto
“nella stato di fatto e di diritto in cui si trova, con pesi
ed oneri non estinti”: astratta clausola di stile che, come
tale, non poteva assurgere a fonte autonoma di obbligazione,
a carico del terzo acquirente, fuori dei casi in cui la
legge ne imponeva la successione nel debito.
Come neppure vale richiamarsi al riconoscimento di debito
che si vorrebbe insito nell’istanza del 22.04.2015 con
la quale la società aveva inizialmente chiesto di poter
versare gli oneri in discorso semestralmente.
L’accertamento, sopra compiuto, dell’insussistenza della
posizione debitoria della ricorrente comporterebbe comunque,
infatti, il superamento della presunzione meramente relativa
contemplata dall’art. 1998 cod.civ..
8 In conclusione, la fondatezza del primo motivo d’appello,
di valenza assorbente, impone senz’altro l’accoglimento
della presente impugnativa (C.G.A.R.S.,
sentenza 03.11.2017 n. 471 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Nel
match del congedo il diritto batte il servizio.
Nella normativa in tema di congedo parentale è evidente la volontà del
legislatore di rendere tale diritto preminente rispetto alle ordinarie
esigenze di servizio, potendo lo stesso recedere soltanto in presenza di
casi o esigenze eccezionali, di cui l'Amministrazione deve dare puntualmente
conto.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del TAR Lombardia-Milano con la
sentenza 11.08.2017 n. 1757.
Infatti, hanno poi aggiunto i giudici amministrativi lombardi, la
disposizione di cui all''art. 42-bis del D.lgs. 151/2001, come modificato
dall'art. 14, comma 7, della legge 07.08.2015 n. 124 (che prevede che «Il
genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere
assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo
complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata
nella stessa provincia o regione nella quale l'altro genitore esercita la
propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto
vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo
assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L'eventuale
dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali.
L'assenso o il dissenso devono essere comunicati all'interessato entro
trenta giorni dalla domanda»), è infatti rivolta a dare protezione a
valori di rilievo costituzionale e il dissenso delle Amministrazioni di
provenienza e di destinazione deve essere limitato a casi o a esigenze
eccezionali e congruamente motivato. Si sottolinea, inoltre, che l'art. 14,
comma 7, della legge n. 124/2015 ha aggiunto alla previsione dell'obbligo di
motivazione del rigetto l'ulteriore condizione che sia “limitato a casi
ed esigenze eccezionali”.
Inoltre, sempre nella sentenza in commento, si è evidenziato come il
beneficio di cui all'art. 42-bis del D.lgs. n. 151/2001 non costituisce un
diritto incondizionato del dipendente, ma è rimesso ad una valutazione
relativamente discrezionale dell'Amministrazione, sulla base di una duplice
condizione:
1) che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e
disponibile di corrispondente posizione retributiva;
2) che vi sia l'assenso delle Amministrazioni di provenienza e di
destinazione, con la conseguenza che, ancorché ricorra il requisito della
vacanza e disponibilità del posto, il beneficio può essere negato in
considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza e
di quella di destinazione.
L'eventuale dissenso, tuttavia, deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di casi o esigenze eccezionali
(articolo ItaliaOggi Sette del 26.03.2018).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
I motivi di gravame, in quanto intimamente connessi, possono essere trattati
congiuntamente.
L’art. 42-bis del D.lgs. 151/2001, come modificato dall’art. 14, comma 7,
della legge 07.08.2015 n. 124 –applicabile al personale militare in forza
dell’art. 1493 del D.lgs. n. 66/2010– prevede che “Il genitore con figli
minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e
successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo
frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad
una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale
l'altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente
alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente
posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza
e destinazione. L'eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi
o esigenze eccezionali. L'assenso o il dissenso devono essere comunicati
all'interessato entro trenta giorni dalla domanda”.
L’art. 14, comma 7, della legge n. 124/2015 ha aggiunto alla previsione
dell’obbligo di motivazione del rigetto l’ulteriore condizione che sia “limitato
a casi ed esigenze eccezionali”.
Tale modifica dimostra la volontà del legislatore di
rendere il diritto al congedo parentale preminente rispetto alle ordinarie
esigenze di servizio –peraltro fisiologiche– potendo lo stesso recedere
soltanto in presenza di casi o esigenze eccezionali, di cui
l’Amministrazione deve dare puntualmente conto nel provvedimento.
La disposizione è infatti rivolta a dare protezione a
valori di rilievo costituzionale
(TAR Lombardia–Milano, Sez. III, 25.05.2017, n. 1181; Consiglio di Stato,
sez. III, ord. 26.02.2016, n. 685, Cons. St., sez. IV, 14.05.2015, n. 2426)
e il dissenso delle Amministrazioni di provenienza e di destinazione
deve essere limitato a casi o a esigenze eccezionali e congruamente motivato
(Tar Lazio–Roma, sez. I-quater, 03.03.2017 n. 3091; Cons. Stato, III,
01.04.2016, n. 1317).
Nel caso di specie il provvedimento impugnato non dà affatto conto della
sussistenza di esigenze eccezionali.
Indicativa dell’insussistenza di tali esigenze è la rilevante circostanza
che il Comandante del -OMISSIS-, presso cui il ricorrente è assegnato, nel
trasmettere la domanda di trasferimento dell’interessato al Comando Generale
ha espresso parere favorevole all’accoglimento della domanda. Dell’esistenza
e del contenuto di tale parere neppure si dà conto nel provvedimento
impugnato.
La sopra riferita circostanza connota di ancor maggior genericità la
motivazione con cui l’Amministrazione ha cercato di esplicitare la
sussistenza di eccezionali esigenze di servizio (“rilevante deficit di
effettivi nel ruolo di riferimento”, “connotazione prettamente
operativa” dell’istante), considerando che il diretto superiore
gerarchico del ricorrente non le ha affatto ravvisate, esprimendo, appunto,
parere favorevole all’assegnazione temporanea. In ogni caso le ragioni
espresse nel provvedimento non possono essere qualificate come esigenze
eccezionali, rientrando piuttosto nelle ordinarie esigenze di servizio.
Per le ragioni che precedono la domanda di annullamento del provvedimento
impugnato deve essere accolta.
Tuttavia non può trovare accoglimento la domanda di accertamento del diritto
ad ottenere l’assegnazione temporanea presso la sede richiesta.
La giurisprudenza
infatti si è orientata in modo uniforme ritenendo che il
beneficio di cui all'art. 42-bis del D.lgs. n. 151/2001 non costituisce un
diritto incondizionato del dipendente, ma è rimesso ad una valutazione
relativamente discrezionale dell'Amministrazione, sulla base di una duplice
condizione:
i) che nella sede di destinazione vi sia un posto vacante e
disponibile di corrispondente posizione retributiva;
ii) che vi sia l'assenso delle Amministrazioni di provenienza e di
destinazione, con la conseguenza che, ancorché ricorra il requisito della
vacanza e disponibilità del posto, il beneficio può essere negato in
considerazione delle esigenze di servizio della struttura di provenienza e
di quella di destinazione.
L'eventuale dissenso, tuttavia, deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di casi o esigenze eccezionali
(Cons. Stato, sez. III, 01.04.2016, n. 1317). Se ne deduce
un ambito di discrezionalità che connota la valutazione afferente alla
seconda condizione (Tar Torino
sez. I 24.04.2017 n. 544).
Non trattandosi quindi di attività vincolata questo Tribunale non può
decidere in termini di accertamento.
Per effetto del disposto annullamento del provvedimento impugnato
l’Amministrazione è però tenuta a rideterminarsi, tenendo conto dei principi
stabiliti nella presente sentenza, che devono conformare il riesercizio del
potere. |
EDILIZIA PRIVATA:
Si intendono per volumi tecnici esclusi dal
calcolo della volumetria ammissibile i locali completamente
privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale,
i quali risultano esclusivamente destinati a contenere
impianti serventi alla costruzione principale, che per
esigenze di funzionalità non possono essere inglobati nel
corpo della costruzione.
La nozione di volume tecnico in campo edilizio si fonda su
tre parametri: il primo, positivo, di tipo
funzionale, secondo cui il manufatto deve avere un rapporto
di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione; il secondo e il terzo, negativi,
ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni
progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non
devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e,
dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra
tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
al servizio di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali di quest’ultima. Il volume tecnico
consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma
individualità fisica e conformazione strutturale,
funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva
della costruzione principale, privo di valore autonomo di
mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da
quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale
deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla
destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal
proprietario del bene. Inoltre, deve essere sempre
facilmente rilevabile il rapporto di proporzionalità tra
questi volumi e le esigenze effettivamente presenti.
---------------
Nella specie non risulta affatto provato che gli interventi
edilizi realizzati avessero quelle caratteristiche (essere
destinati in via esclusiva a contenere impianti serventi non
altrimenti collocabili nell’immobile) ed anzi la descrizione
contenuta nella relazione tecnica allegata all’istanza
amministrativa, cui sopra si è fatto riferimento, mostra
chiaramente come nella fattispecie in esame si tratti
palesemente di superfici realizzate con autonoma
funzionalità e quindi estranee al concetto di “volume
tecnico”.
Il sol fatto che, in precedenza, i volumi avessero
destinazione abitativa, dimostra di per sé l’assenza del
requisito di necessarietà e proporzionalità che presiede
alla qualificazione di un vano quale volume tecnico.
Va ribadito, infatti, che proprio al fine di evitare
possibilità di aggiramenti della normativa urbanistica ed
edilizia, occorre accedere ad una interpretazione
restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e
perimetrata in termini di effettiva indispensabilità
tecnica.
Converge verso tale conclusione anche la considerazione che
la valenza abilitativa della realizzazione di opere
riguardanti un preesistente fabbricato va riferita
all’intervento complessivo, al fine di evitare che i vincoli
urbanistici possano essere aggirati per il tramite di
pratiche elusive consistenti nella artificiosa
parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può
essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività
edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a
realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono
astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo
più limitate, in ragione della loro più modesta incisività
sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere
sempre “considerata unitariamente nel suo complesso,
senza che sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti”.
---------------
5a - Passando al merito, va osservato che la Sezione si è
già pronunziata sui ricorsi relativi alla medesima
fattispecie con sentenze
25.10.2016 n. 4920 e
28.10.2016 n. 5009. A tali pronunce, involgenti
le medesime problematiche giuridiche sottese al presente
ricorso, si opereranno ampi riferimenti nel prosieguo di
questa decisione.
...
Dalla consulenza tecnica emerge senza alcun ombra di dubbio
che all’ottavo ed al nono piano gli interventi realizzati
con D.I.A. abbiano creato nuovi volumi, prima del tutto
inesistenti.
Dunque non sussistono dubbi che nella specie siano stati
realizzati interventi edilizi con realizzazione di nuove
superficie utili e nuova volumetria, ciò risultando dalla
stessa relazione tecnica promanante dalla società
ricorrente.
A tal riguardo, è allora essenziale stabilire se sia
ammissibile l’operazione di conversione di spazi ordinari in
volumi tecnici (non computabili), con recupero della
cubatura per realizzare manufatti prima del tutto
inesistenti (in particolare quelli edificati al piano nono,
dove vi era in precedenza un mero vano adibito ad uso del
portiere).
Difatti, ove fosse consentita tale traslazione, si potrebbe
ritenere che la modifica volumetrica (oltre che della
sagoma) possieda quei caratteri di marginalità che, come si
è detto, consentirebbero di qualificare l’intervento
complessivo in termini di ristrutturazione leggera,
assentibile con D.I.A..
Si intendono per volumi tecnici esclusi dal calcolo della
volumetria ammissibile i locali completamente privi di una
propria autonomia funzionale, anche potenziale, i quali
risultano esclusivamente destinati a contenere impianti
serventi alla costruzione principale, che per esigenze di
funzionalità non possono essere inglobati nel corpo della
costruzione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32).
La nozione di volume tecnico in campo edilizio si fonda su
tre parametri: il primo, positivo, di tipo
funzionale, secondo cui il manufatto deve avere un rapporto
di strumentalità necessaria con l'utilizzo della
costruzione; il secondo e il terzo, negativi,
ricollegati, da un lato, all'impossibilità di soluzioni
progettuali diverse, nel senso che tali costruzioni non
devono essere ubicate all'interno della parte abitativa, e,
dall'altro, ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra
tali volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Pertanto, tale nozione si adatta solo alle opere
completamente prive di una propria autonomia funzionale,
anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti
al servizio di una costruzione principale, per esigenze
tecnico-funzionali di quest’ultima. Il volume tecnico
consiste quindi in un locale avente una propria ed autonoma
individualità fisica e conformazione strutturale,
funzionalmente inserito al servizio di un’esigenza oggettiva
della costruzione principale, privo di valore autonomo di
mercato, tale da non consentire una diversa destinazione da
quella a servizio dell’immobile cui accede.
Il carattere strumentale rispetto all’immobile principale
deve comunque essere oggettivo e non deve risultare dalla
destinazione soggettivamente conferita dal progettista o dal
proprietario del bene. Inoltre, deve essere sempre
facilmente rilevabile il rapporto di proporzionalità tra
questi volumi e le esigenze effettivamente presenti.
Nella specie non risulta affatto provato che gli interventi
edilizi realizzati avessero quelle caratteristiche (essere
destinati in via esclusiva a contenere impianti serventi non
altrimenti collocabili nell’immobile) ed anzi la descrizione
contenuta nella relazione tecnica allegata all’istanza
amministrativa, cui sopra si è fatto riferimento, mostra
chiaramente come nella fattispecie in esame si tratti
palesemente di superfici realizzate con autonoma
funzionalità e quindi estranee al concetto di “volume
tecnico” (vedi TAR Toscana, Sez. III, sentenza
22.02.2013 n. 288).
Il sol fatto che, in precedenza, i volumi avessero
destinazione abitativa, dimostra di per sé l’assenza del
requisito di necessarietà e proporzionalità che presiede
alla qualificazione di un vano quale volume tecnico.
Va ribadito, infatti, che proprio al fine di evitare
possibilità di aggiramenti della normativa urbanistica ed
edilizia, occorre accedere ad una interpretazione
restrittiva, rigorosamente ancorata al dato funzionale e
perimetrata in termini di effettiva indispensabilità
tecnica.
Converge verso tale conclusione anche la considerazione che
la valenza abilitativa della realizzazione di opere
riguardanti un preesistente fabbricato va riferita
all’intervento complessivo, al fine di evitare che i vincoli
urbanistici possano essere aggirati per il tramite di
pratiche elusive consistenti nella artificiosa
parcellizzazione dell’attività edificatoria.
Invero, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può
essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività
edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a
realizzarla, facendo leva sul fatto che le stesse sono
astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo
più limitate, in ragione della loro più modesta incisività
sull’assetto territoriale. Per contro, l’opera deve essere
sempre “considerata unitariamente nel suo complesso,
senza che sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti” (Cass., sez.
III, sent. 29.01.2003; sent. 11.10.2005).
Anche sotto questa ulteriore e concorrente prospettiva
risulta evidente che l’insieme degli interventi ha
consentito una conversione integrale del manufatto in
albergo, mediante un insieme di opere che ne hanno alterato
la sagoma, la volumetria (anche a seguito dell’ispessimento
della tompagnatura) e, sia pure in minima parte, l’altezza,
nonché mediante l’innesto di strutture (quali la verandatura
e la copertura posta sul tetto) del tutto eterogenee
rispetto all’impianto originario.
Dal complesso delle esposte considerazioni può concludersi
nel senso che l’utilizzo delle plurime denunzie di inizio
attività non sia conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia, sopra menzionata, sicché anche l’impugnazione
dell’art. 124 della variante generale al PRG (da leggersi in
combinato disposto con l’art. 12 delle n.t.a.) perde di
rilievo, con conseguente inammissibilità delle relative
censure per difetto di interesse (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è stato ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità
del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990;
tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro
carattere doveroso.
---------------
Mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2,
d.P.R. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un
secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo
competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso.
Soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi
legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi
valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla
possibile sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta
dell'interessato in tal senso.
---------------
7 - Su queste premesse è possibile esaminare le restanti
singole censure, anche mediante accorpamento delle stesse
per omogeneità delle tematiche involte.
La lamentata violazione degli artt. 7 e ss. legge 241/1990
(atteso che l’originaria contestazione di avviso della
autotutela non contemplava il preteso spostamento verso
l’esterno delle originarie pareti in ferro e vetri) si
rivela infondata, poiché dalla disamina del complesso
carteggio emerge la volontà dell’amministrazione comunale di
sottoporre a verifica la totalità degli interventi eseguiti
sull’albergo Ro..
Peraltro, come è stato ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza della sezione, la doverosità del
provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990;
tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro
carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/90 e, in
giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, sez. IV, n.
3605/2016, sez. VI, n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V,
19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV,
02.12.2008, n. 20794 e TAR Campania, Napoli, sez. IV,
16.06.2000 n. 2147).
8 - La censura avente ad oggetto violazione degli artt. 3,
10, 22, DPR 380, art. 1 D.Lgs. 301/2000 (nonché la
violazione delle leggi regionale n. 19 del 2001 e n. 16 del
/2004, eccesso di potere, difetto di motivazione, violazione
art. 31 e 32 DPR 380, violazione degli artt. 7 e 14 delle
NTA della variante generale al PRG, violazione art. 124 e 12
delle NTA, eccesso di potere per difetto di istruttoria,
errore sul presupposto, violazione dell’art. 33, co. 4 e
6-bis DPR 380/2001) risulta non convincente, poiché, come
detto, gli interventi non possono essere considerati
assentibili con D.I.A.; ne consegue la reiezione anche di
tutte le altre censure (violazione degli artt. 33, comma 4,
34, 37 e 38 DPR 380/2001) che si fondano sulla tesi della
validità abilitativa della D.I.A., con la specificazione che
la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria, infatti, attiene alla fase dell'esecuzione
dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del
destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza
nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto va ribadito che, mentre l’ingiunzione di
demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del
procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo
dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di
natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria (art. 33, co. 2, d.P.R. 380/2001) può essere
effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il
soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di
esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in
assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o
delle opere edili costruite in parziale difformità dallo
stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta
dell'interessato in tal senso (ex multis, v. Sent.
TAR Napoli, sez. IV, n. 3120/2015, cit., nonché TAR Napoli,
sez. VII, 14.06.2010 n. 14156) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di rimozione delle D.I.A. si configura
quale esito doveroso del procedimento di controllo attivato
(revoca in senso stretto), con la conseguenza che non sono
evocabili i principi a presidio dell’esercizio
dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali
postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico,
inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha
verificato la carenza ab origine dei presupposti per
concludere favorevolmente il procedimento di formazione del
titolo edilizio silenzioso.
---------------
In ogni caso vale rammentare che l'eliminazione
d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell'interessato, non necessita di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica.
Peraltro le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante
l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune,
dovuta proprio a fatto del privato.
---------------
9a - Anche la denunziata violazione delle regole e dei
principi che governano l’esercizio del potere di autotutela,
ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non
appare meritevole di positiva delibazione.
Si lamenta,
infatti, con dovizia di argomentazioni, che gli atti di
annullamento delle D.I.A. non avrebbero rispettato i dettami
previsti per l’esercizio del potere di autotutela; infatti,
non si sarebbe tenuto conto del tempo trascorso né si
sarebbe effettuato un corretto bilanciamento tra gli
interessi del privato e l’interesse pubblico sotteso al
provvedimento anche in relazione all’avvenuta demolizione
dell’opera in epoca successiva al perfezionamento della
fattispecie tacita di cui alla D.I.A.
Le considerazioni esposte in precedenza dimostrano che la
fattispecie tacita di autorizzazione all’intervento non può
ritenersi formata correttamente perché l’intervento non
poteva essere assentito con mera D.I.A. essendo intervenuta
una vera e propria nuova costruzione.
In definitiva, una volta stabilito che la tipologia di
interventi richiedesse il permesso di costruire, ne deriva,
quale logico corollario, che il procedimento per
silentium non può ritenersi mai perfezionato, avendo un
oggetto del tutto incongruente ed incompatibile con tale
semplificato modulo di formazione del titolo edilizio.
Ne discende che il Comune ben poteva esercitare i propri
poteri sanzionatori sull’opera senza considerare la D.I.A.
che, difettandone i relativi presupposti, non poteva
ritenersi perfezionata (TAR Napoli Campania sez. VI,
10.01.2011, n. 35; Consiglio Stato sez. VI, 05.04.2007, n.
1550; Cassazione penale sez. III, 08.04.2010, n. 17973).
9b - In simili casi, del resto, anche l’attuale formulazione
della norma, frutto di recenti interventi nel senso della
liberalizzazione, consentirebbe al Comune di esercitare i
propri poteri sanzionatori (v. l’art. 19, co. 6-bis, L.
241/1990 secondo cui «restano altresì ferme le
disposizioni relative alla vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni
previste dal decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali»).
9c - Ciò posto, l’atto in esame, pur qualificato quale atto
di autotutela, va inteso correttamente quale atto avente un
sostanziale valore dichiarativo del mancato perfezionamento
della D.I.A. che resta, pertanto, inefficace.
Il sostanziale valore accertativo dell’atto in questione
rende, evidentemente, inconferenti tutte le restanti
argomentazioni di parte ricorrente che espressamente fanno
riferimento all’esercizio del potere di autotutela.
In questa ipotesi dunque l’atto di rimozione delle D.I.A. si
configura quale esito doveroso del procedimento di controllo
attivato (revoca in senso stretto), con la conseguenza che
non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio
dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali
postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico,
inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha
verificato la carenza ab origine dei presupposti per
concludere favorevolmente il procedimento di formazione del
titolo edilizio silenzioso.
9d - In ogni caso vale rammentare che l'eliminazione
d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell'interessato (come nel caso in esame), non necessita di
un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse,
consistendo questo nell'interesse della collettività al
rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio
di Stato, sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato,
sez. IV, 30.07.2012 n. 4300); peraltro le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato
(si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012
n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante
l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune,
dovuta proprio a fatto del privato.
10 - La reiezione delle censure articolate nei ricorsi
principali rende infondata anche la doglianza di cui ai
motivi aggiunti presentati nel ricorso numero 289/2012.
L’intervento di manutenzione ivi previsto (ed astrattamente
ben assentibile con D.I.A.) è, infatti, strettamente
collegato ai lavori precedenti, correttamente ritenuti
abusivi e, come si è detto in precedenza, è necessario
considerare unitariamente l’insieme di opere poste in essere
al fine di trasformare il cd. Palazzo Lauro in un albergo (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - LAVORI PUBBLICI: La
fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione
unilaterale e alla funzione di far risultare documentalmente
elementi relativi all’esecuzione di un contratto, si
inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo,
consistendo nella dichiarazione, indirizzata all’altra
parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito,
sicché, quando tale rapporto sia contestato, non può
costituire valido elemento di prova ma, al più, un mero
indizio.
In tema di appalto di opere pubbliche, tuttavia, è esclusa
anche la possibilità di riconoscere la predetta portata alle
fatture trasmesse alla pubblica amministrazione, sul
presupposto che, l’onere della forma scritta, imposto ad
substantiam per i contratti degli enti pubblici, impedisce
non solo di ritenere provata la stipulazione, in assenza
dell’atto dotato del predetto requisito, ma anche di
attribuire alla produzione delle fatture l’efficacia di
comportamento processuale ammissivo del diritto sorto dal
contratto.
Tale principio è applicabile anche al contratto di appalto
stipulato in economia, con il sistema del cottimo
fiduciario, non essendo sufficiente che da atti scritti
risultino comportamenti attuativi di un accordo meramente
verbale, come l’esecuzione della prestazione a opera del
privato, documentata dalle fatture trasmesse
all’amministrazione.
----------------
2. — Con il
secondo motivo, la ricorrente deduce la
violazione e/o la falsa
applicazione degli artt. 1362 e ss. cod civ., osservando
che, nel negare qualsiasi
rilievo alle note di credito ed alle fatture emesse dalla
Cooperativa, la sentenza
impugnata non ha considerato che tali documenti non hanno
un'efficacia meramente
fiscale, ma costituiscono scritture private, vincolanti a
tutti gli effetti per
chi le abbia formate, una volta intervenuta l'accettazione
della controparte, e quindi
utilizzabili ai fini dell'interpretazione del contratto.
2.1. — Il motivo è infondato.
In linea generale, questa Corte ha avuto infatti modo di
affermare che la fattura
commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale
ed alla funzione
di far risultare documentalmente elementi relativi
all'esecuzione di un contratto, si
inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo,
consistendo nella dichiarazione,
indirizzata all'altra parte, di fatti concernenti un
rapporto già costituito, sicché,
quando tale rapporto sia contestato, non può costituire
valido elemento di
prova, ma, al più. un mero indizio (cfr. Cass., Sez. 11, 12.01.2016, n. 299; 20.05.2004, n. 9593; Cass., Sez. III, 28.06.2010, n.
15383).
In tema di appalto
di opere pubbliche, si è tuttavia esclusa anche la
possibilità di riconoscere la
predetta portata alle fatture trasmesse all'Amministrazione,
osservandosi che l'onere
della forma scritta, imposto ad substantiam per i contratti
degli enti pubblici,
impedisce non solo di ritenerne provata la stipulazione, in
assenza dell'atto dotato
del predetto requisito, ma anche di attribuire alla
produzione delle fatture l'efficacia di comportamento
processuale implicitamente ammissivo del diritto sorto dal
contratto (cfr. Cass., Sez, 1, 22.01.2009, n. 1614).
Tale principio è stato ritenuto
applicabile anche al contratto di appalto stipulato in
economia, con il sistema
del cottimo fiduciario, escludendosi la possibilità
d'invocare, in contrario, la disciplina
dettata dall'art. 17 del regio decreto 18.11.1923, n.
2440, che consente
la stipulazione a trattativa priva di contratti con le
imprese commerciali a mezzo
di corrispondenza «secondo l'uso del commercio»: si è
infatti rilevato che anche in
questo caso occorre che il perfezionamento del contratto
risulti dallo scambio di
proposta ed accettazione, non essendo sufficiente che da
atti scritti risultino comportamenti
attuativi di un accordo meramente verbale, come l'esecuzione
della
prestazione ad opera del privato, documentata dalle fatture
trasmesse all'Amministrazione
(cfr. Cass., Sez. l, 15.06.2015, n, 12316; 17.03.2015, n. 5263).
Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella
parte in cui, dopo
aver escluso la possibilità di desumere un accordo
modificativo del contratto dal
comportamento tenuto in sede esecutiva dall'impresa, ed in
particolare dall'accettazione
di pagamenti in misura ridotta rispetto al corrispettivo
determinato attraverso
l'aggiudicazione, ha ritenuto insufficienti a giustificare
una siffatta ricostruzione
della fattispecie anche le fatture emesse dalla società
attrice, la cui asserita
idoneità a giustificare un'interpretazione del contratto di
appalto diversa da quella
risultante dal suo tenore letterale si pone d'altronde in
contrasto con la già affermata
inammissibilità di modifiche successive delle condizioni
convenute
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 13.10.2016 n. 20690). |
APPALTI: In tema di attività jure privatorum della Pubblica
Amministrazione, questa
Corte ha affermato costantemente il principio, che il
Collegio condivide ed intende
ribadire anche in questa sede, secondo cui
i contratti degli
enti pubblici devono
essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la
quale assolve una funzione di
garanzia del regolare svolgimento dell'attività
amministrativa, permettendo d'identificare
con precisione il contenuto del programma negoziale, anche
ai fini della
verifica della necessaria copertura finanziaria e
dell'assoggettamento al controllo
dell'autorità tutoria.
Ciò comporta non solo
l'esclusione della possibilità di desumere l'intervenuta
stipulazione del contratto da
una manifestazione di volontà implicita o da comportamenti
meramente attuativi,
ma anche la necessità che, salvo diversa previsione di
legge, l'intera vicenda negoziale
sia consacrata in un unico documento, contenente tutte le
clausole destinate
a disciplinare il rapporto.
Tale principio trova applicazione
non soltanto alla conclusione del contratto, ma anche
all'eventuale rinnovazione dello stesso, a meno che la
stessa non sia prevista come effetto automatico
da un'apposita clausola,
nonché
alle modificazioni che
le parti intendano in seguito apportare alla disciplina
concordata, le quali devono
pertanto risultare da un atto posto in essere nella medesima
forma del contratto originario,
richiesta anche in tal caso ad substantiam, non potendo
essere introdotte
in via di mero fatto mediante l'adozione di pratiche
difformi da quelle precedentemente
convenute, ancorché le stesse si siano protratte nel tempo e
rispondano ad
un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca
successiva.
La ricaduta di questo regime formalistico, sul versante
dell'interpretazione del
contratto, è costituita dal principio, anch'esso
costantemente ribadito dalla giurisprudenza
di legittimità, secondo cui la ricerca della comune
intenzione delle parti,
ove il senso letterale delle parole presenti un margine di
equivocità, deve aver
luogo, con riferimento agli elementi essenziali del
contratto, soltanto attingendo
alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto,
mentre non è consentito
valutare il comportamento complessivo delle parti, anche
successivo alla stipulazione,
in quanto la formazione del consenso non può spiegare
rilevanza ove non
sia stata incorporata nel documento scritto.
Anche
nei casi, invero piuttosto rari, in cui, evidenziandosi la
sottoposizione
privatistica dell'Amministrazione ai principi del diritto
comune, è stata ammessa
la possibilità di far ricorso al criterio ermeneutico
previsto dal secondo
comma dell'art. 1362 cod. civ., al fine di chiarire il senso
di termini o espressioni impiegati in modo improprio dalle
parti, è stata fermamente esclusa la possibilità
di ricollegare al comportamento di queste ultime la
formazione di un consenso estraneo
al contenuto del contratto, o addirittura ad esso contrario,
prospettandosi
altrimenti la vanificazione del requisito della forma
scritta, imposto a garanzia dei
canoni d'imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione.
---------------
1. Con il primo motivo d'impugnazione, la ricorrente
denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ.,
sostenendo che il requisito
della forma scritta ad substantiam, previsto per la
stipulazione dei contratti
della Pubblica Amministrazione, pur imponendo di fare
riferimento innanzitutto
alla lettera del contratto per la ricostruzione dei rapporti
tra le parti, non esclude la
possibilità di tener conto del comportamento complessivo
delle stesse, il quale,
soprattutto se protratto nel tempo, assume una valenza
interpretativa, conformemente
alle regole ermeneutiche dettate dalle predette
disposizioni, applicabili anche
ai contratti della Pubblica Amministrazione, quali atti di
diritto privato.
Tale
principio è stato disatteso dalla sentenza impugnata, la
quale ha privilegiato una
lettura esclusivamente formale del contratto, a scapito del
comportamento tenuto
dalle parti per tutta la durata del rapporto, conferendo
rilievo all'osservanza delle
regole di contabilità pubblica, le quali, tuttavia, sono
riferibili esclusivamente alla fase precedente
all'aggiudicazione, e non anche alla fase successiva,
assoggettata
all'ordinaria disciplina privatistica.
Nel porre in risalto l'assoggettamento del contratto
all'onere della
forma scritta
ad substantiam, la Corte di
merito ha peraltro
omesso di considerare che tale requisito è prescritto
esclusivamente a garanzia
dell'interesse dell'Amministrazione, che dev'essere posta in
grado di conoscere
l'importo massimo che è tenuta a corrispondere, con la
conseguente inapplicabilità
agli accordi che eventualmente intervengano in sede di
esecuzione del contratto,
ove gli stessi risultino favorevoli all'Amministrazione,
1.1. — Il motivo è infondato.
In tema di attività jure privatorum della Pubblica
Amministrazione, questa
Corte ha affermato costantemente il principio, che il
Collegio condivide ed intende
ribadire anche in questa sede, secondo cui i contratti degli
enti pubblici devono
essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la
quale assolve una funzione di
garanzia del regolare svolgimento dell'attività
amministrativa, permettendo d'identificare
con precisione il contenuto del programma negoziale, anche
ai fini della
verifica della necessaria copertura finanziaria e
dell'assoggettamento al controllo
dell'autorità tutoria (cfr. Cass., Sez.
I, 19.09.2013, n. 21477; 24.01.2007, n. 1606; Cass., Sez. I, 26.10.2007, n. 22537).
Ciò comporta non solo
l'esclusione della possibilità di desumere l'intervenuta
stipulazione del contratto da
una manifestazione di volontà implicita o da comportamenti
meramente attuativi,
ma anche la necessità che, salvo diversa previsione di
legge, l'intera vicenda negoziale
sia consacrata in un unico documento, contenente tutte le
clausole destinate
a disciplinare il rapporto (cfr. Cass., Sez. Un., 22.03.2010, n. 6827; Cass.,
Sez. I. 20.03.2014, n. 6555; 26.03.2009, n, 7297).
Tale principio trova applicazione
non soltanto alla conclusione del contratto, ma anche
all'eventuale rinnovazione dello stesso, a meno che la
stessa non sia prevista come effetto automatico
da un'apposita clausola (cfr. Cass., Sez. III, 11.11.2015, n, 22994; 21.08.2014, n. 18107; 10.06.2005, n. 12323), nonché
alle modificazioni che
le parti intendano in seguito apportare alla disciplina
concordata, le quali devono
pertanto risultare da un atto posto in essere nella medesima
forma del contratto originario,
richiesta anche in tal caso ad substantiam, non potendo
essere introdotte
in via di mero fatto mediante l'adozione di pratiche
difformi da quelle precedentemente
convenute, ancorché le stesse si siano protratte nel tempo e
rispondano ad
un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca
successiva (cfr. Cass., Sez.
I, 14.04.2011, n. 8539; Cass., Sez. III, 12.04.2006,
n. 8621; Cass., Sez. II, 04.06.1999, n. 5448).
La ricaduta di questo regime formalistico, sul versante
dell'interpretazione del
contratto, è costituita dal principio, anch'esso
costantemente ribadito dalla giurisprudenza
di legittimità, secondo cui la ricerca della comune
intenzione delle parti,
ove il senso letterale delle parole presenti un margine di
equivocità, deve aver
luogo, con riferimento agli elementi essenziali del
contratto, soltanto attingendo
alle manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto,
mentre non è consentito
valutare il comportamento complessivo delle parti, anche
successivo alla stipulazione,
in quanto la formazione del consenso non può spiegare
rilevanza ove non
sia stata incorporata nel documento scritto (cfr. Cass.,
Sez. I, 11.05.2007, n.
10868; Cass., Sez. II, 22.06.2006, n. 14444; 05.02.2004, n. 2216).
Anche
nei casi, invero piuttosto rari, in cui, evidenziandosi la
sottoposizione
privatistica dell'Amministrazione ai principi del diritto
comune, è stata ammessa
la possibilità di far ricorso al criterio ermeneutico
previsto dal secondo
comma dell'art. 1362 cod. civ., al fine di chiarire il senso
di termini o espressioni impiegati in modo improprio dalle
parti, è stata fermamente esclusa la possibilità
di ricollegare al comportamento di queste ultime la
formazione di un consenso estraneo
al contenuto del contratto, o addirittura ad esso contrario,
prospettandosi
altrimenti la vanificazione del requisito della forma
scritta, imposto a garanzia dei
canoni d'imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione (cfr.
Cass., Sez. 30.09.2011, n, 20057; in generale,
riguardo ai contratti da stipularsi
in forma scritta ad substantiam, v. anche Cass., Sez. IL
07.06.2011, n.
12297; 04.06.2002, n. 8080; 02.06.2000, n. 7416).
1.2. — Pur avendo correttamente richiamato i predetti
principi, la Corte di
merito non si è d'altronde sottratta al riscontro della
condotta tenuta dalle parti
successivamente alla stipulazione del contratto, prendendo
specificamente in considerazione
la pratica eccepita dall'Amministrazione, consistente
nell'avvenuta esecuzione
e fatturazione di pagamenti per importi inferiori a quelli
previsti dal
contratto, ma escludendo la possibilità di desumerne
l'intento dell'attrice di accettare
una riduzione del corrispettivo pattuito, anche alla luce
dell'avvenuta determinazione
dello stesso nell'ambito di una procedura ad evidenza
pubblica, e della
conseguente alterazione che tale condotta avrebbe comportalo
nella par condicio
dei partecipanti alla gara, oltre che nell'osservanza delle
norme che disciplinano la
contabilità pubblica.
In proposito, non merita consenso l'assunto della
ricorrente, secondo cui, in
quanto volte essenzialmente a garantire la certezza del
corrispettivo da pagare per
il conseguimento della prestazione pattuita, nell'interesse
esclusivo dell'Amministrazione,
le predette disposizioni non precludono il raggiungimento di
accordi in
senso riduttivo. anche in via di mero fatto, traducendosi
gli stessi in un risparmio
di spesa per la committente: la ratio della previsione di
procedure competitive per la scelta del contraente da parte
degli enti pubblici non consiste infatti nel consentire
all'Amministrazione di procurarsi la fornitura o il servizio
richiesto al prezzo
più basso, indipendentemente dalla qualità della prestazione
ottenuta, ma nel permettere
lindividuazione dell'offerta complessivamente più
conveniente, sulla base
di criteri preventivamente determinati ed applicati in modo
trasparente, si da evitare
che, anche per effetto del meccanismo concorrenziale
adottato, la vantaggiosità
delle condizioni economiche prospettate si traduca in un
minor valore tecnico-qualitativo
della fornitura o del servizio offerto.
In tal senso
deponeva già la disciplina
dettata dal regio decreto 23.05.1924, n. 827, richiamata
dal regio decreto 03.03.1934, n. 383 anche per contratti stipulati dagli
enti territoriali, la quale
prescriveva, in riferimento al pubblico incanto cd alla
licitazione privata, che il relativo
bando dovesse indicare, rispettivamente, «la qualità, ed ove
d'uopo, i prezzi
parziali o totali, secondo la natura dell'oggetto» (art. 65)
e «l'oggetto dell'appalto
e le condizioni generali e speciali» (art. 89), consentendo
all'Amministrazione
d'indicare, nel primo caso, anche il limite massimo di
ribasso che i concorrenti
non dovevano in ogni caso oltrepassare. e di escludere dalla
gara le imprese che lo
avessero oltrepassato.
Nella medesima ottica, la legge 11.02.1994, n. 109, i
cui principi costituivano norme fondamentali di riforma
economico-sociale, dopo
aver dichiarato solennemente che «l'attività amministrativa
in materia di opere e
lavori pubblici deve garantirne la qualità» (art. 1), nel
disciplinare i criteri di aggiudicazione
aveva previsto, in conformità delle norme comunitarie,
l'esclusione
delle offerte anomale, cioè di quelle che, presentando un
ribasso pari o superiore
alla media dei ribassi delle offerte ammesse (art. 21, comma
1-bis), potessero far
dubitare della corrispondenza della prestazione ai requisiti
qualitativi prescritti; in
riferimento all'appalto-concorso, essa aveva poi previsto
(conformemente alla natura di tale procedimento,
comprendente anche la progettazione dell'opera da
realizzare)
che l'offerta economicamente più vantaggiosa dovesse essere
valutata in
base non solo al prezzo, ma anche, tra l'altro, al valore
tecnico ed estetico delle
opere progettate ed al tempo di esecuzione dei lavori e ad
altri elementi individuati
in base al tipo di lavoro da realizzare (art. 21, comma
secondo).
Ancor più chiara
è l'impostazione di fondo del dlgs. 12.04.2006, n. 163
(cd. codice dei contratti
pubblici) e del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (cd. codice dei
contratti pubblici),
i quali, oltre a ribadire la facoltà dell'Amministrazione di
escludere le offerte anormalmente
basse (art. 8-1 del d.lgs. n. 163, art. 59 , comma quarto,
lett. c, del
d.lgs. n. 50), nell'enunciare i principi per
l'aggiudicazione e l'esecuzione di appalti
e concessioni stabiliscono che il relativo affidamento,
oltre a garantire la qualità
delle prestazioni, deve svolgersi nel rispetto dei principi
di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza, precisando espressamente che il
principio di economicità
può essere subordinato, nei limiti consentiti dalle norme
vigenti e dal medesimo
codice, a criteri, da prevedere nel bando, ispirati a
esigenze sociali o alla tutela
della salute, dell'ambiente, del patrimonio culturale e alla
promozione dello
sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista energetico
(art. 2 del d.lgs. n. 163,
art. 30 del d.lgs. n. 50).
Il mero risparmio di spesa
collegato alla richiesta di un
corrispettivo più basso non costituisce pertanto l'unico
scopo e nemmeno quello
principale, delle norme che disciplinano la contabilità
pubblica e gli appalti pubblici,
le quali hanno invece di mira il conseguimento di una
prestazione tecnicamente
e qualitativamente adeguata al miglior prezzo
ragionevolmente compatibile
con tale obiettivo. Il perseguimento di tale finalità non
potrebbe non ritenersi
compromesso qualora, come sostiene la ricorrente, fosse
consentito alle parti di
modificare successivamente, sia pure in senso più favorevole
all'Amministrazione, le condizioni economiche determinate
attraverso l'applicazione delle regole di evidenza
pubblica, non essendovi alcuna certezza che a tale
modificazione corrisponda,
nella realizzazione dell'opera o nella prestazione del
servizio, il mantenimento
delle caratteristiche tecnico-qualitative previste dal bando
di gara ed accettate
mediante la presentazione dell'offerta.
Sotto un diverso profilo, come ha opportunamente evidenziato
la Corte di
merito, il meccanismo competitivo che presiede alla scelta
dell'altro contraente nei
contratti stipulati dagli enti pubblici esige il rispetto di
regole volte ad assicurare
una trasparente individuazione ed applicazione dei criteri
di selezione e la par
condicio tra i concorrenti: al riguardo, è appena il caso di
richiamare, senza neppure
soffermarvisi specificamente, le norme che fissano i
requisiti soggettivi per
la partecipazione alle gare e prevedono l'inclusione dei
criteri di valutazione delle
offerte nei relativi bandi, da rendersi pubblici nelle forme
prescritte, quelle che
stabiliscono termini rigorosi per la presentazione delle
offerte, quelle che, in caso
di adozione del metodo delle offerte segrete, dispongono le
cautele necessarie per
garantirne la segretezza ed escludono la possibilità di
modificarle dopo l'apertura,
quelle, infine, che prevedono la pubblicità della fase di
valutazione ed impongono
la motivazione dei provvedimenti di esclusione ed
aggiudicazione.
Pur dovendosi
escludere che, cosi come ipotizzato dalla sentenza
impugnata, l'applicazione in
sede esecutiva di condizioni diverse da quelle previste dal
bando e consacrate nel
provvedimento di aggiudicazione possa incidere
retroattivamente sulla legittimità
della fase ad evidenza pubblica, in tal modo determinando ex
post la validità del
contratto, la quale dev'essere invece valutata con
riferimento all'epoca della stipulazione, occorre rilevare
che l'operatività dei principi di trasparenza e parità dei
concorrenti risulterebbe sostanzialmente vanificata ove le
parti potessero, a loro piacere, non solo modificare il
contenuto del programma negoziale successivamente
all'aggiudicazione o addirittura dopo la stipulazione del
contratto, ma addirittura evitare di avvalersi, a tale
scopo, della forma prescritta a pena di nullità per
l'attività contrattuale della Pubblica Amministrazione
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 13.10.2016 n. 20690). |
EDILIZIA PRIVATA:
I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della l.r.
11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo
degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle
ristrutturazioni edilizie “non comportanti
demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della l.r. n. 12/2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della l.r. 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
---------------
6.2 Ciò posto, quanto alla determinazione dell’entità
dell’intervento, deve condividersi quanto rappresentato
dalla difesa comunale, la quale correttamente evidenzia come
i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge regionale
11.03.2005, n. 11 abbiano previsto speciali criteri di
calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento
alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti
demolizione e ricostruzione”.
Ne deriva, a contrario, che –come già chiarito dalla
giurisprudenza formatasi sulle disposizioni richiamate– gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni (v. Cons. Stato, Sez. IV,
22.05.2012, n. 2969, che conferma la sentenza di questa
Sezione del 18.05.2010, n. 1566).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12
del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “I
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alla d.i.a.
oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in
ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.03.2015 n. 780 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il manufatto in questione supera in
diversi tratti l’altezza di m. 3 e assolve
alle precipue funzioni di contenimento di un
terrapieno artificialmente realizzato e di
sostegno di una rampa di accesso al
fabbricato.
Tali caratteristiche del manufatto
ragionevolmente escludono, pertanto, la sua
configurabilità quale muro di cinta della
proprietà, a' sensi dell’art. 878 cod. civ.,
posto che questo, ai fini dell’esenzione dal
rispetto delle distanze legali imposte
dall’art. 873 c.c., deve essere essenzialmente
destinato a recingere una determinata
proprietà onde separarla dalle altre, non
superare un’altezza di tre metri ed avere
entrambe le facce isolate da altre
costruzioni.
Va rilevato anche che, di per sé, il muro di
contenimento elevato ad opera dell’uomo per
assolvere alla stabilizzazione di un
terrapieno artificiale ricade per certo nel
regime di rilascio del titolo edilizio,
all’epoca dei fatti di causa indubitabilmente
concessorio.
Infatti, per “muro di cinta”, nella dizione
contenuta nell’art. 4, comma 7, lett. c), del
D.L. 05.10.1993 n. 498 convertito con
modificazioni in L. 04.12.1993 n. 493 e
sostituito per effetto dell’art. 2, comma 60,
della L. 23.12.1996 n. 662, all’epoca in
vigore, devono intendersi quelle opere di
recinzione, non suscettibili di modificare o
alterare sostanzialmente la conformazione del
terreno, che assumono natura pertinenziale in
quanto hanno esclusivamente la funzione di
delimitare, proteggere o eventualmente
abbellire la proprietà, nel mentre ben diversa
è la consistenza e la funzione dei cc.dd.
“muri di contenimento”, i quali si
differenziano sostanzialmente dalle mere
recinzioni non solo per la funzione, ma anche,
perché servono a sostenere il terreno al fine
di evitare movimenti franosi dello stesso.
Per assolvere a tale funzione, i muri di
contenimento devono presentare necessariamente
una struttura a ciò idonea per consistenza e
modalità costruttive.
Il muro di contenimento, pur potendo
assolvere, in rapporto alla situazione dei
luoghi, anche concomitante funzione di
recinzione, è tuttavia sotto il profilo
edilizio un’opera ben più consistente di una
recinzione proprio in quanto non
esclusivamente preordinata a recingere la
proprietà e, soprattutto, è dotata di propria
specificità ed autonomia, in relazione alla
sua funzione principale dianzi illustrata: il
che pertanto esclude la sua riconducibilità al
concetto di pertinenza, conseguendone, data la
rilevanza delle modifiche che esso produce,
sia la necessità del suo assoggettamento al
regime concessorio all’epoca vigente, sia la
legittimità, a torto contestata
dall’appellante, dell’applicazione della
sanzione della demolizione prevista per il
caso di assenza di concessione.
---------------
In linea di principio le norme in tema di
distanze sono per loro natura inderogabili in
quanto assolvono al fine ripartire in misura
eguale il distacco tra edifici tra i lotti
confinanti.
---------------
Come si è visto innanzi, secondo la
prospettazione del Pr. il muro di cui
trattasi, edificato a sostegno dello scivolo
prefabbricato e dei vani retrostanti posti sul
lato nord del complesso edilizio, sarebbe
stato assentito già con la concessione
edilizia n. 3 del 1997 in quanto asseritamente
rappresentato negli elaborati grafici allegati
alla relativa domanda; non implicherebbe
problemi in ordine alla sua distanza
dall’altrui proprietà in quanto si
configurerebbe comunque quale muro di
recinzione; né potrebbe applicarsi alla specie
l’art. 17 delle N.T.A. del P.R.G. che impone
per le costruzioni il rispetto della distanza
di 5 metri dal confine della proprietà essendo
stato acquisito in data 15.07.1999 l’assenso
del proprietario del fondo vicino.
A tale riguardo va innanzitutto rilevato che
negli elaborati progettuali richiamati dal Pr.
a sostegno della propria tesi secondo la quale
la realizzazione del muro in questione sarebbe
già stata assentita per effetto della predetta
concessione edilizia n. 3 del 1997 il muro
medesimo non è rappresentato nelle sue
effettive dimensioni, posto che la sua
rappresentazione grafica negli elaborati
medesimi consiste in un breve tratto di muro
completamente interrato verso est adiacente ad
altro breve muro di cinta libero su entrambi i
lati.
Viceversa, dal doc. 27 di parte ricorrente sub
R.G. 4478 del 2000 (fascicolo del giudizio di
primo grado innanzi al TAR per la Lombardia)
consta inequivocabilmente che il manufatto in
questione è ben più lungo, supera in diversi
tratti l’altezza di m. 3 e assolve alle
precipue funzioni di contenimento di un
terrapieno artificialmente realizzato dal
medesimo Pr. (peraltro poi sostituito da vani
e locali) e di sostegno di una rampa di
accesso al fabbricato.
Tali caratteristiche del manufatto
ragionevolmente escludono, pertanto, la sua
configurabilità quale muro di cinta della
proprietà, a' sensi dell’art. 878 cod. civ.,
posto che questo, ai fini dell’esenzione dal
rispetto delle distanze legali imposte
dall’art. 873 c.c., deve essere essenzialmente
destinato a recingere una determinata
proprietà onde separarla dalle altre, non
superare un’altezza di tre metri ed avere
entrambe le facce isolate da altre costruzioni
(così, ex plurimis, Cass. Civ., Sez. II,
20.11.2012 n. 20351; concorda su tali
caratteristiche del muro di cinta al fine del
regime di realizzazione della relativa opera
Cons. Stato, Sez. IV, 03.05.2011 n. 2621).
Va rilevato anche che, di per sé, il muro di
contenimento elevato ad opera dell’uomo per
assolvere alla stabilizzazione di un
terrapieno artificiale ricade per certo nel
regime di rilascio del titolo edilizio,
all’epoca dei fatti di causa indubitabilmente
concessorio.
Infatti, per “muro di cinta”, nella
dizione contenuta nell’art. 4, comma 7, lett.
c), del D.L. 05.10.1993 n. 498 convertito con
modificazioni in L. 04.12.1993 n. 493 e
sostituito per effetto dell’art. 2, comma 60,
della L. 23.12.1996 n. 662, all’epoca in
vigore, devono intendersi quelle opere di
recinzione, non suscettibili di modificare o
alterare sostanzialmente la conformazione del
terreno, che assumono natura pertinenziale in
quanto hanno esclusivamente la funzione di
delimitare, proteggere o eventualmente
abbellire la proprietà, nel mentre ben diversa
è la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri
di contenimento”, i quali si differenziano
sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo
per la funzione, ma anche, perché servono a
sostenere il terreno al fine di evitare
movimenti franosi dello stesso.
Per assolvere a tale funzione, i muri di
contenimento devono presentare necessariamente
una struttura a ciò idonea per consistenza e
modalità costruttive.
Il muro di contenimento, pur potendo
assolvere, in rapporto alla situazione dei
luoghi, anche concomitante funzione di
recinzione (come, per l’appunto, accade nel
caso di specie), è tuttavia sotto il profilo
edilizio un’opera ben più consistente di una
recinzione proprio in quanto non
esclusivamente preordinata a recingere la
proprietà e, soprattutto, è dotata di propria
specificità ed autonomia, in relazione alla
sua funzione principale dianzi illustrata: il
che pertanto esclude la sua riconducibilità al
concetto di pertinenza, conseguendone, data la
rilevanza delle modifiche che esso produce,
sia la necessità del suo assoggettamento al
regime concessorio all’epoca vigente, sia la
legittimità, a torto contestata
dall’appellante, dell’applicazione della
sanzione della demolizione prevista per il
caso di assenza di concessione.
In tale contesto, pertanto, gli atti di
diniego di rilascio della sanatoria e di
ingiunzione a demolire impugnati dal Pr. in
primo grado sub R.G. 4478 del 2000 risultano
intrinsecamente legittimi stante la difformità
dell’opera da lui realizzata rispetto all’art.
17.1 delle N.T.A. del P.R.G. comunale, il
quale impone alle costruzioni il rispetto
della distanza di 5 metri dal confine:
distanza che nella specie risulta
assodatamente violata.
A questo punto, va evidenziato che, se in
linea di principio le norme in tema di
distanze sono per loro natura inderogabili in
quanto assolvono al fine ripartire in misura
eguale il distacco tra edifici tra i lotti
confinanti (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V,
10.01.2012 n. 53 e Sez. IV, 30.06.2010 n.
4181), nella specie non può comunque
sostenersi –a differenza di quanto affermato
dal Pr.- che il proprietario del fondo vicino
abbia prestato il proprio consenso alla
realizzazione del manufatto in questione,
posto che la nota sottoscritta dal Sig. Do.Be.
in data 15.07.1999 e prodotta in copia quale
doc. 15 di parte resistente nel giudizio di
primo grado proposto sub R.G. 4478 del 2000
innanzi al TAR di Milano si sostanzia nella
denuncia della realizzazione da parte dello
stesso Pr. di un’opera difforme –come, per
l’appunto, si è detto innanzi– rispetto al
progetto originario e, per di più, anche in
sedime non suo, e si conclude con la richiesta
di un sopralluogo al fine di verificare tali
irregolarità (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.04.2014 n.
1651 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di impianti di
telecomunicazione è subordinata soltanto
all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001. La ratio di tale disciplina va ricercata nella necessità di approntare una procedura tempestiva, non discriminatoria e trasparente per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990. E evidente che tali finalità verrebbero irrimediabilmente vanificate se il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro procedimento, anche di natura edilizia.
--------------- Il ricorso è fondato e merita accoglimento per le ragioni di seguito illustrate. Merita condivisione il motivo di diritto con cui parte ricorrente contesta il difetto dei presupposti per l’irrogazione della sanzione demolitoria ex art. 31 D.P.R.
06.06.2001 n. 380 che, come noto, richiede l’assenza del permesso di costruire, la totale difformità rispetto al medesimo ovvero variazioni essenziali. Invero, secondo condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.01.2009 n. 355; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
09.05.2013 n. 2394; Sez. VII, 27.01.2012 n. 426), la realizzazione di impianti di telecomunicazione è subordinata soltanto all'autorizzazione prevista dall'art. 87 del D.Lgs 259/2003, che pone una normativa speciale ed esaustiva che include anche la valutazione della compatibilità edilizio-urbanistica dell'intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001. La
ratio di tale disciplina va ricercata nella necessità di approntare una procedura tempestiva, non discriminatoria e trasparente per la concessione del diritto di installazione di infrastrutture, nella riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi, nonché nella regolazione uniforme dei medesimi procedimenti anche con riguardo a quelli relativi al rilascio di autorizzazioni per l'installazione di infrastrutture di reti mobili, in conformità ai principi di cui alla L. 241/1990. E evidente che tali finalità verrebbero irrimediabilmente vanificate se il nuovo procedimento fosse destinato non a sostituire ma ad aggiungersi a quello previsto dal T.U. in materia edilizia, sicché le procedure di cui all'art. 87 sono destinate ad assorbire ogni altro procedimento, anche di natura edilizia. Il provvedimento impugnato si fonda quindi su un erroneo presupposto, ovvero sulla supposta equivalenza in termini edilizi fra il concetto di costruzione e quello di impianto tecnologico, nella specie antenne di telefonia mobile dotate di caratteristiche del tutto diverse da quelle delle costruzioni in senso proprio.
Peraltro, trattandosi di struttura emittente con potenza inferiore ai 20 watt, trova applicazione l’art. 87 del D.Lgs.
259/2003 che richiede la mera segnalazione
certificata di inizio attività (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.02.2014 n. 1190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il pertinente quadro normativo non impone in
alcun modo di allegare la denuncia di verifica sismica della
struttura già in sede di presentazione dell’istanza di
autorizzazione o della denuncia di cui all’art. 87, d.lgs.
259 del 2003, limitandosi -piuttosto- a prescrivere che la
denuncia in parola avvenga prima del concreto inizio dei
lavori.
---------------
2.2. Quanto al secondo motivo ostativo trasfuso nel
provvedimento annullato dal TAR (si tratta della mancata
presentazione della certificazione di avvenuta denuncia
della verifica sismica della struttura al competente Ufficio
del Genio Civile), il TAR ha osservato che la denuncia in
questione deve essere effettuata prima dell’inizio dei
lavori, ma non risulta contemplata fra i documenti che
devono essere tassativamente allegati
all’istanza/comunicazione ex art. 87, d.lgs. 259 del 2003.
Il Tribunale, del resto, ha osservato che “anche ammessa
la necessità di tale denuncia, l’Amministrazione non può
negare la D.I.A. sol per la mancanza della stessa, dovendo
piuttosto richiedere l’integrazione dei documenti entro il
termine di quindici giorni dalla data di ricezione
dell’istanza, ai sensi del comma 5 dell’art. 87, d.lvo n.
259/2003”.
Nella tesi dell’appellante, la pronuncia in epigrafe
risulterebbe in parte qua erronea e meritevole di riforma
per non aver fatto corretto governo della pertinente
normativa.
In particolare, il Tribunale avrebbe omesso di tenere in
adeguata considerazione:
- la l. 05.11.1971, n. 1086 (recante ‘norme per la disciplina
delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e
precompresso ed a struttura metallica’), il cui art. 4
stabilisce che le opere a struttura metallica (come
l’impianto destinato ad ospitare l’installazione della cui
realizzazione si discute) “devono essere denunciate dal
costruttore all’ufficio del genio civile competente per
territorio, prima del loro inizio (…)”.
Ancora, il TAR avrebbe omesso di tenere in considerazione il
successivo art. 10, a tenore del quale “il Sindaco del
Comune, nel cui territorio vengono realizzate le opere
indicate nell’art. 1, ha il compito di vigilare
sull’osservanza degli adempimenti preposti alla presente
legge: a tal fine si avvale dei funzionari ed agenti
comunali”;
- la l. 02.02.1974, n. 64 (recante ‘provvedimenti per le
costruzioni con particolari prescrizioni per le zone
sismiche’), il cui art. 17 stabilisce che “nelle zone
sismiche di cui all'articolo 3 della presente legge,
chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e
sopraelevazioni, è tenuto a darne preavviso scritto,
notificato a mezzo del messo comunale o mediante lettera
raccomandata con ricevuta di ritorno, contemporaneamente, al
sindaco ed all'ufficio tecnico della regione o all'ufficio
del genio civile secondo le competenze vigenti (…)”;
- la L.R. Campania 07.01.1983, n. 9 (recante ‘norme per
l’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa
del territorio dal rischio sismico’), il cui art. 2, al
comma 1 stabilisce che “il committente o il costruttore
che esegue in proprio devono depositare il progetto
esecutivo delle opere di cui all'art. 1 presso l'Ufficio
provinciale del Genio civile o Sezione autonoma competente
per territorio, prima dell'inizio dei lavori”.
Ancora, risulterebbe rilevante ai fini del decidere il
successivo art. 5 (nella formulazione vigente all’epoca dei
fatti), secondo cui “il Sindaco del Comune nel cui
territorio si eseguono le opere è tenuto ad accertare, a
mezzo degli agenti e dei tecnici comunali, che chiunque
inizi l'esecuzione delle opere di cui all'art. 1 sia in
possesso dell'attestazione dell'Ufficio provinciale del
Genio civile dell'avvenuto deposito degli atti prescritti”.
Questo essendo il pertinente quadro normativo, il Comune
appellante ritiene l’erroneità della pronuncia in epigrafe,
per la parte in cui ha ritenuto l’illegittimità del
provvedimento di divieto in data 23.11.2004. Al contrario.
Il Comune ritiene che il divieto in parola costituisse un
esito necessario della vicenda, se solo si consideri:
i) che, al momento della presentazione della D.I.A. (06.09.2004),
la soc. H3G non avesse neppure presentato al competente
Genio civile la prescritta denuncia di verifica sismica;
ii) che, secondo le risultanze in atti, la società appellata avesse
a tanto provveduto solo in data 13.01.2005, ossia dopo il
decorso del termine di 90 giorni di cui al comma 9 dell’art.
87, d.lgs. 259 del 2003 e dopo l’adozione da parte del
Comune del più volte richiamato provvedimento negativo.
2.2.1. Il motivo di doglianza in parola non può trovare
accoglimento.
Ed infatti, il pertinente quadro normativo (pure
correttamente richiamato dal Comune appellante) non impone
in alcun modo di allegare la denuncia di verifica sismica
della struttura già in sede di presentazione dell’istanza di
autorizzazione o della denuncia di cui all’art. 87, d.lgs.
259 del 2003, limitandosi -piuttosto- a prescrivere che la
denuncia in parola avvenga prima del concreto inizio dei
lavori (in tal senso: il primo comma dell’art. 4, l. 1086
del 1971; il primo comma dell’art. 17, l. 64 del 1974,
nonché il comma 3 dell’art. 2, L.R. 9 del 1983).
Conseguentemente, la pronuncia in epigrafe deve trovare
puntuale conferma per la parte in cui ha ritenuto
l’illegittimità del provvedimento comunale di divieto,
laddove fondato sulla pretesa necessità di allegare la
certificazione di avvenuta denuncia della verifica sismica
già in sede di presentazione della D.I.A.
Non rileva, invece, ai fini della presente decisione la
circostanza secondo cui la denuncia in parola sia stata
presentata solo dopo il decorso dei 90 giorni di cui al
comma 9 dell’art. 87, d.lgs. 259, cit. vuoi perché il
provvedimento impugnato in prime cure si limitava ad
affermare il carattere ostativo della mancata presentazione
della denuncia in sé intesa (senza ammetterne la
presentazione entro i termini di cui all’art. 87, co. 9, cit.),
vuoi perché ciò che rileva in base al pertinente quadro
normativo non è il momento in sé della presentazione della
denuncia, quanto, piuttosto, la circostanza relativa al se
la denuncia in parola sia intervenuta prima o dopo
l’effettivo inizio dei lavori (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2010 n. 7128 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di spese degli
enti locali effettuate senza il rispetto delle condizioni di
cui all'art. 23, commi 3 e 4, d.l. 02.03.1989, n. 66,
convertito con modificazioni dalla legge 24.04.1959, n. 144,
e riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dall'art.
35 d.lgs. n. 77 del 1995 e poi dall'art. 191 d.lgs. n. 267
del 2000, l'insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini
del corrispettivo, direttamente con l'amministratore o il
funzionario che abbia consentito la prestazione, determina
l'impossibilità di esperire nei confronti del Comune
l'azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del
necessario requisito della sussidiarietà.
---------------
Il ricorso è inammissibile.
Invero la ratio decidendi della sentenza impugnata è
basata sulla inammissibilità della domanda in quanto il
rapporto contrattuale si era concretizzato esclusivamente
con l'Assessore dei lavori Pubblici, che aveva commissionato
oralmente i lavori senza rispettare le disposizioni
dall'art. 23 della legge 144/1999 onde la domanda doveva
essere proposta nei confronti di quest'ultima non
sussistendo di conseguenza il requisito di sussidiarietà di
cui all'art. 2042 della P.A. disponendo il ricorrente di
azione diretta di risarcimento nei confronti del citato
assessore.
Tale ratio, che è di per sé decisiva, risulta del
tutto conforme all'orientamento ripetutamente espresso da
questa Corte, secondo cui in tema di spese degli enti locali
effettuate senza il rispetto delle condizioni di cui
all'art. 23, commi 3 e 4, d.l. 02.03.1989, n. 66, convertito
con modificazioni dalla legge 24.04.1959, n. 144, e
riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dall'art. 35
d.lgs. n. 77 del 1995 e poi dall'art. 191 d.lgs. n. 267 del
2000, l'insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del
corrispettivo, direttamente con l'amministratore o il
funzionario che abbia consentito la prestazione, determina
l'impossibilità di esperire nei confronti del Comune
l'azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del
necessario requisito della sussidiarietà (Cass. 15296/2007,
Cass. 10640/2007) (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 29.07.2009 n. 17550). |
inizio
home-page |
|