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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2019

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aggiornamento al 27.08.2019

aggiornamento al 19.08.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.08.2019

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Ancora in merito ai lavori di demolizione e ricostruzione:
cosa significa, esattamente, l'inciso "
con la stessa volumetria di quello preesistente"??
Tanto per capirci al meglio, esemplifichiamo: se in zona non paesaggisticamente vincolata si demolisce un fabbricato di 3.000,00 mc. e se ne ricostruisce un altro di 1.000,00 (quindi, in diminuzione) tale intervento edilizio è (recte, dev'essere) classificato quale "ristrutturazione edilizia" ex art. 3, comma 1, lett. d), dpr n. 380/2001??
In disparte "una sola voce fuori dal coro"
(id est
TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 1025),
la risposta è
e con tutti i benefici di legge del caso {es.: detrazione fiscale del 50% ovvero del 65% oppure del 70%-80% a seconda del caso di specie, IVA agevolata del 10% sulla fatturazione dei lavori [ex art. 7, comma 1, lett. b), l. 23.12.1999 n. 488], oneri di urbanizzazione al comune (solo se lo stesso abbia deliberato in merito) ridotti almeno al 50% della tariffa piena (ex art. 44, comma 10-bis, della L.R. n. 12/2005) nonché del bonus mobili ed elettrodomestici}.

EDILIZIA PRIVATA: La ratio della nozione di ristrutturazione edilizia dettata dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 -secondo cui gli interventi di demolizione e ricostruzione devono avvenire nel rispetto della “volumetria preesistente”– è finalizzata ad escludere dal suo ambito le ricostruzioni che portano ad incrementi volumetrici -che vanno, pertanto, ricomprese nella nozione di nuova costruzione- ma non ricostruzioni che, come accade nel caso di specie, si differenziano unicamente per la realizzazione di una minore volumetria.
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Nel giugno 2011, il sig. Sa.Po. ha demolito un fabbricato destinato a uso ricovero mezzi agricoli, delle dimensioni di m. 9,40 per 4,25, ricostruendolo con misure di m. 7,60 per 4,25, in assenza di permesso di costruire.
Con provvedimento del 23.08.2012 il Comune di Cerreto d’Asti ha respinto una prima istanza di accertamento di conformità presentata dal sig. Po., qualificando l’intervento quale nuova costruzione e non quale ristrutturazione edilizia, stante la modifica della volumetria e della sagoma del fabbricato, dovuta alle più ridotte dimensioni.
Il sig. Po. ha, quindi, presentato una nuova istanza volta ad ottenere il rilascio di un permesso di costruire per la sanatoria della parte di fabbricato conforme all’edificio preesistente e –al fine di superare la ragione di diniego addotta dall’amministrazione comunale- per la realizzazione delle opere necessarie a ripristinare la volumetria e la sagoma originale del fabbricato.
Con provvedimento del 23.09.2013, il Comune ha rigettato anche questa domanda.
...
7. La fattispecie oggetto del presente giudizio presenta elementi di indubbia peculiarità, legati al fatto che è stata realizzata un’opera che si distingue dal preesistente fabbricato unicamente in conseguenza delle più ridotte dimensioni (la lunghezza è stata ridotta da 9,40 m a 7,60 mentre la larghezza, pari a 4,25 m, è rimasta invariata); anche la modifica della sagoma contestata è conseguita unicamente alla realizzazione della lunghezza inferiore di 1,80 m (v. provvedimento del 23.08.2012).
8. Le doglianze rivolte dal ricorrente avverso la qualificazione dell’opera quale nuova costruzione, in conseguenza della modifica di sagoma e volume dovute alla ricostruzione del manufatto con dimensioni inferiori rispetto a quello preesistente, pur fondate, non sono tuttavia sufficienti a portare all’annullamento del provvedimento impugnato.
9. Sono fondate in quanto la ratio della nozione di ristrutturazione edilizia dettata dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 -secondo cui gli interventi di demolizione e ricostruzione devono avvenire nel rispetto della “volumetria preesistente”– è finalizzata ad escludere dal suo ambito le ricostruzioni che portano ad incrementi volumetrici -che vanno, pertanto, ricomprese nella nozione di nuova costruzione- ma non ricostruzioni che, come accade nel caso di specie, si differenziano unicamente per la realizzazione di una minore volumetria.
L’applicazione data dal Comune porta all’esito illogico di qualificare come nuova costruzione, anziché come ristrutturazione edilizia, opere che hanno un minore impatto sul territorio rispetto a ricostruzioni che conservano la medesima volumetria del fabbricato preesistente, pacificamente qualificabili quali ristrutturazioni.
Quanto al vincolo della sagoma, esso non era più previsto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 nella versione vigente alla data di adozione del secondo provvedimento e comunque anch’esso non può giustificare la qualificazione di un intervento quale nuova costruzione in una fattispecie in cui la modifica della sagoma è conseguita unicamente a una mera riduzione della lunghezza del fabbricato ricostruito di 1,80 m.
Il provvedimento impugnato è dunque illegittimo nella parte in cui presuppone una qualificazione dell’opera quale nuova costruzione anziché quale ristrutturazione edilizia e afferma, per tale ragione, la non sanabilità del fabbricato nelle dimensioni attuali (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.07.2019 n. 749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio fondamentale tratto dalla legislazione statale quello per cui la constatazione dell'aumento di volumetria di un fabbricato preesistente è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione atteso che questa, nell'attuale sistema normativo, trova il suo limite nella necessità di rispettare il volume preesistente del manufatto su cui si interviene, nel senso che un intervento che determini un incremento di volume non può essere qualificato come ristrutturazione anche quando sia preordinato all'inserimento o alla realizzazione di servizi o impianti.
Ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella disciplina della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o meglio il non superamento) della preesistente volumetria, senza la quale si è in presenza di un diverso fabbricato e, quindi, di nuova costruzione.
In materia di interventi edilizi sono legittimamente considerati esorbitanti rispetto alla semplice ristrutturazione quelli che modifichino il volume.

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Nel merito il ricorso è fondato in ordine a due dei profili dedotti, il primo ed il quinto.
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Sul secondo versante, costituisce principio fondamentale tratto dalla legislazione statale quello per cui la constatazione dell'aumento di volumetria di un fabbricato preesistente è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione atteso che questa, nell'attuale sistema normativo, trova il suo limite nella necessità di rispettare il volume preesistente del manufatto su cui si interviene, nel senso che un intervento che determini un incremento di volume non può essere qualificato come ristrutturazione anche quando sia preordinato all'inserimento o alla realizzazione di servizi o impianti; ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella disciplina della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o meglio il non superamento) della preesistente volumetria, senza la quale si è in presenza di un diverso fabbricato e, quindi, di nuova costruzione. In materia di interventi edilizi sono legittimamente considerati esorbitanti rispetto alla semplice ristrutturazione quelli che modifichino il volume (cfr. ex multis Tar Molise 116/2016 e Cons. St., sez. IV, 17.11.2015, n. 5227).
Sulla prevalenza dei principi di cui alla legislazione statale ed in tema di illegittimità di una diversa disciplina regionale ancora di recente è intervenuta la Consulta, non a caso sulla legge ligure (cfr. Corte Costituzionale, 03/11/2016, n. 231): “è dichiarato costituzionalmente illegittimo —per violazione dell'art. 117, comma terzo, Cost.— l'art. 6, comma 11, secondo trattino, della legge della Regione Liguria n. 12 del 2015, con cui è stata sostituita la lett. e) dell'art. 21-bis, comma l, della legge reg. Liguria n. 16 del 2008. La disposizione impugnata dal Governo —che assoggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA) gli interventi di ristrutturazione edilizia comportante incrementi della superficie all'interno delle singole unità immobiliari o dell'edificio «con contestuali modifiche all'esterno»— si pone in evidente contrasto con l'art. 10, comma 1, lett. c), del TUE, costituente principio fondamentale della materia «governo del territorio», il quale assoggetta a permesso di costruire o a DIA alternativa (art. 22, comma 3, lett. a, del TUE) gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti modifiche «dei prospetti» (ovvero, del fronte o della facciata) e dunque modifiche «all'esterno» dell'edificio. Né può ritenersi —secondo l'interpretazione riduttiva proposta dalla Regione, ma non corrispondente al tenore letterale— che la disposizione impugnata assoggetti alla SCIA solo le modifiche di dettaglio delle facciate esistenti” (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 18.07.2017 n. 626 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire in esame è stato richiesto per l’effettuazione sull’immobile esistente di opere di ristrutturazione (e non di nuova costruzione) da realizzare, per parte dell’edificio, mediante demolizione e ricostruzione, sicché ai fine dell’autorizzabilità dell’intervento, ex art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001, risulta comunque necessario verificare il rispetto del vincolo della pari volumetria, parametro non rispettato dal progetto per cui è causa che prevede una variazione, sebbene in diminuzione, del volume dell’edificio preesistente.
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La ricorrente ha impugnato l’atto indicato in epigrafe con il quale il Comune di Martina Franca ha comunicato il diniego definitivo sull’istanza di permesso di costruire, depositata in data 02.09.2013, per la realizzazione di opere di ristrutturazione su di un immobile di proprietà della società Sc.Im., già oggetto di condono edilizio ex art. 31 della Legge n. 47 del 1985.
La ricorrente ha esposto in fatto che sull’istanza in questione, oltre ai pareri favorevoli degli uffici competenti (Sportello Unico per l’Edilizia, Commissione Paesaggio e Soprintendenza), il Comune aveva rilasciato l’autorizzazione paesaggistica n. 98 del 2015, senza tuttavia poi concludere il procedimento mediante il rilascio del titolo autorizzativo; con atto depositato il 27.05.2016 la Sc.Im., ritenendo formato sulla domanda il silenzio-assenso ex art. 20 del DPR n. 380 del 2001, aveva quindi notiziato il Comune che in data 03.06.2016 avrebbe iniziato i lavori; a fronte di tale comunicazione, l’Ente civico aveva dapprima comunicato ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e, successivamente, nonostante le osservazioni fatte pervenire dall’interessata, negato definitivamente il permesso di costruire.
Il Comune, alla base del diniego di permesso di costruire ha, da un lato, contestato l’applicabilità dell’istituto del silenzio assenso, ricadendo l’immobile in questione su area vincolata; dall’altro, ha articolato i seguenti motivi ostativi: il progetto risulta in contrasto con l’art. 4 delle NTA del PRG che espressamente prevede “gli edifici in contrasto con le destinazioni di zona ed i tipi previsti dal presente PRG non potranno essere trasformati né ampliati” e l’intervento previsto in progetto di “ristrutturazione edilizia” è qualificato, ex art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001 quale “intervento rivolto a trasformare gli organismi edilizi”; l’istanza presentata è carente della dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR n. 380 del 2001 del progettista abilitato, avendo il tecnico attestato la sola conformità del progetto alle norme igienico sanitarie e non anche “agli strumenti urbanistici approvati ed adottati”; la destinazione d’uso residenziale del fabbricato in progetto contrasta con la destinazione di zona a viabilità; l’intervento di ristrutturazione non rispetta la volumetria e la sagoma dell’edificio esistente.
...
In ordine, invece, all’altro motivo fondante il diniego opposto dall’Amministrazione (mancato rispetto del carico volumetrico e della sagoma dell’immobile esistente), la ricorrente ne eccepisce, da un lato, la genericità e, dall’altro, l’infondatezza in quanto il progetto prevedere la mera diminuzione della volumetria esistente e la sagoma dell’edificio non sarebbe a suo dire intaccata dalla proposta progettuale.
La censura va respinta.
Invero, il permesso di costruire in esame, come correttamente replicato dal Comune, è stato richiesto per l’effettuazione sull’immobile esistente di opere di ristrutturazione (e non di nuova costruzione) da realizzare, per parte dell’edificio, mediante demolizione e ricostruzione, sicché ai fine dell’autorizzabilità dell’intervento, ex art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001, risulta comunque necessario verificare il rispetto del vincolo della pari volumetria, parametro non rispettato dal progetto per cui è causa che prevede una variazione, sebbene in diminuzione, del volume dell’edificio preesistente; né può essere condivisa la tesi secondo cui non vi sarebbe mutamento della sagoma (limite tutt’ora permanente, anche dopo le modifiche introdotte dall’art. 30 del D.L. n. 69 del 2013, nelle ristrutturazioni con demolizione e ricostruzione degli immobili vincolati), tenuto conto di quanto precisato al riguardo dall’Ente, in modo tutt’altro che generico, al punto 4 del preavviso di diniego ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 dell’01.06.2016.
...
Sulla base di tali motivi e considerata, quindi, l’infondatezza di tutte le censure articolate in ricorso, l’impugnazione va respinta (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 1025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le conclusioni valutative del C.T.U. non possono in alcun modo vincolare il Collegio sul piano giuridico.
Vale sul punto rammentare l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale le perizie giurate depositate non sono dotate di efficacia probatoria assoluta, potendo il giudice discostarsi dalla risultanze in esse contenute sempre che ne motivi adeguatamente la forza probatoria che intende loro assegnare.
A maggior ragione è possibile discostarsi dalle valutazioni giuridiche espresse (impropriamente) dal CTU, dovendo le stesse essere attentamente vagliate in sede di decisione ed il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice; anzi, l’organo decidente non è obbligato affatto a tenerne conto e, per converso, ove ritenga di farvi riferimento, deve autonomamente dare conto del percorso logico-giuridico adottato.

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L'art. 10, 1° comma - lett. c), del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, assoggetta a permesso di costruire quegli interventi di ristrutturazione edilizia «che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici», ovvero si connettano a mutamenti di destinazione d'uso, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A). Di converso l'art. 22, 3° comma - lett. a), dello stesso T.U., come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, prevede, però, che -a scelta dell'interessato- tali interventi possono essere realizzati anche in base a semplice denunzia di inizio attività.
Dalla lettura combinata delle due disposizioni emerge che sono sempre realizzabili previa mera denunzia di inizio dell'attività le ristrutturazioni edilizie di portata minore: quelle, cioè, che determinano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica (diverse da quelle, descritte nell'art. 10, 1° comma — lett. c, che possono incidere sul carico urbanistico).
Il T.U. n. 380/2001 ha introdotto, in sostanza, uno sdoppiamento della categoria delle ristrutturazioni edilizie come disciplinata, in precedenza, dall'art. 31, 1° comma — lett. d), della legge n. 457/1978, riconducendo ad essa anche interventi che ammettono integrazioni funzionali e strutturali dell'edificio esistente, pure con incrementi limitati di superficie e di volume. Ed invero, a seguito della novella del 2002, pur essendo stato eliminato il riferimento alla "fedele" ricostruzione, resta inteso che la ricostruzione a seguito di demolizione costituisce ristrutturazione se il risultato finale coincide nella volumetria e nella sagoma con il preesistente edificio demolito; mentre l'identità della volumetria e della sagoma non costituisce, invece, un limite per gli interventi di ristrutturazione che non comportino la previa demolizione dell'edificio.
Dunque la ristrutturazione edilizia non è necessariamente vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio esistente e differisce sia dalla manutenzione straordinaria (che non può comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, né modifica della sagoma o mutamento della destinazione d'uso) sia dal restauro e risanamento conservativo (che non può modificare in modo sostanziale l'assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d'uso "compatibili" con l'edificio conservato).
Deve ritenersi, però, che le modifiche del "volume", ora previste dall'art. 10 del T.U., possono consistere in diminuzioni o traslazioni dei volumi preesistenti ed in incrementi volumetrici modesti, poiché, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra "ristrutturazione edilizia" e "nuova costruzione".
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5a - Passando al merito, va osservato che la Sezione si è già pronunziata sui ricorsi relativi alla medesima fattispecie con sentenze 25.10.2016 n. 4920 e 28.10.2016 n. 5009. A tali pronunce, involgenti le medesime problematiche giuridiche sottese al presente ricorso, si opereranno ampi riferimenti nel prosieguo di questa decisione.
...
6b - Il Collegio ritiene che il meccanismo di traslazione volumetrica, accertato dal CTU e quantificato secondo gli analitici calcoli eseguiti nella perizia, non possa essere addotto a giustificazione delle cospicue volumetrie configurate al nono piano e parte dell’ottavo, con conseguenti aumenti di superficie.
Al riguardo va ribadito che le conclusioni valutative del consulente tecnico non possono in alcun modo vincolare il Collegio sul piano giuridico. Vale sul punto rammentare l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale le perizie giurate depositate non sono dotate di efficacia probatoria assoluta, potendo il giudice discostarsi dalla risultanze in esse contenute sempre che ne motivi adeguatamente la forza probatoria che intende loro assegnare (Tar Lazio, sez. III-quater, 23.01.2014 n. 855; in argomento anche Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2009 n. 2579).
A maggior ragione è possibile discostarsi dalle valutazioni giuridiche espresse (impropriamente) dal CTU, dovendo le stesse essere attentamente vagliate in sede di decisione ed il cui apprezzamento è affidato alla valutazione discrezionale del giudice; anzi, l’organo decidente non è obbligato affatto a tenerne conto e, per converso, ove ritenga di farvi riferimento, deve autonomamente dare conto del percorso logico-giuridico adottato.
Vale premettere che l'art. 10, 1° comma - lett. c), del T.U. n. 380/2001, come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, assoggetta a permesso di costruire quegli interventi di ristrutturazione edilizia «che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici», ovvero si connettano a mutamenti di destinazione d'uso, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A). Di converso l'art. 22, 3° comma - lett. a), dello stesso T.U., come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, prevede, però, che -a scelta dell'interessato- tali interventi possono essere realizzati anche in base a semplice denunzia di inizio attività.
Dalla lettura combinata delle due disposizioni emerge che sono sempre realizzabili previa mera denunzia di inizio dell'attività le ristrutturazioni edilizie di portata minore: quelle, cioè, che determinano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica (diverse da quelle, descritte nell'art. 10, 1° comma — lett. c, che possono incidere sul carico urbanistico).
Il T.U. n. 380/2001 ha introdotto, in sostanza, uno sdoppiamento della categoria delle ristrutturazioni edilizie come disciplinata, in precedenza, dall'art. 31, 1° comma — lett. d), della legge n. 457/1978, riconducendo ad essa anche interventi che ammettono integrazioni funzionali e strutturali dell'edificio esistente, pure con incrementi limitati di superficie e di volume. Ed invero, a seguito della novella del 2002, pur essendo stato eliminato il riferimento alla "fedele" ricostruzione, resta inteso che la ricostruzione a seguito di demolizione costituisce ristrutturazione se il risultato finale coincide nella volumetria e nella sagoma con il preesistente edificio demolito; mentre l'identità della volumetria e della sagoma non costituisce, invece, un limite per gli interventi di ristrutturazione che non comportino la previa demolizione dell'edificio.
Dunque la ristrutturazione edilizia non è necessariamente vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio esistente e differisce sia dalla manutenzione straordinaria (che non può comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, né modifica della sagoma o mutamento della destinazione d'uso) sia dal restauro e risanamento conservativo (che non può modificare in modo sostanziale l'assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d'uso "compatibili" con l'edificio conservato).
Deve ritenersi, però, che le modifiche del "volume", ora previste dall'art. 10 del T.U., possono consistere in diminuzioni o traslazioni dei volumi preesistenti ed in incrementi volumetrici modesti, poiché, qualora si ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra "ristrutturazione edilizia" e "nuova costruzione" (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), contemplano, rispettivamente, gli "interventi di manutenzione ordinaria", gli "interventi di manutenzione straordinaria", gli "interventi di restauro e di risanamento conservativo", gli "interventi di ristrutturazione edilizia", ma non quelli comportanti incremento dei volumi edilizi che rientrano nella categoria residuale degli "interventi di nuova costruzione" di cui alla lettera e) che vi ricomprende tutti “quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti”.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato al riguardo che “la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione”.
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Nell'attuale sistema normativo la ristrutturazione trova il suo limite nella necessità di rispettare il volume preesistente del manufatto su cui si interviene, nel senso che un intervento che determini un incremento di volume non può essere qualificato come ristrutturazione anche quando sia preordinato all'inserimento o alla realizzazione di servizi o impianti.
Ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella disciplina della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o meglio il non superamento) della preesistente volumetria; nella fattispecie, essendo pacifico che il progetto della ricorrente prevede la realizzazione di nuovi volumi, per quanto modesti e per quanto preordinati a munire dei servizi igienici un preesistente e diverso fabbricato, si tratta quindi di un intervento di nuova costruzione.

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Come noto gli interventi di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), contemplano, rispettivamente, gli "interventi di manutenzione ordinaria", gli "interventi di manutenzione straordinaria", gli "interventi di restauro e di risanamento conservativo", gli "interventi di ristrutturazione edilizia", ma non quelli comportanti incremento dei volumi edilizi che rientrano nella categoria residuale degli "interventi di nuova costruzione" di cui alla lettera e) che vi ricomprende tutti “quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti”.
Contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la giurisprudenza amministrativa ha precisato al riguardo che “la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione” (cfr. Cons. Stato, V, 08.04.2014, n. 1653; Cons. Stato, IV, 17.11.2015, n. 5227).
Inoltre in fattispecie simile a quella oggetto della presente controversia è stato affermato che “nell'attuale sistema normativo la ristrutturazione trova il suo limite nella necessità di rispettare il volume preesistente del manufatto su cui si interviene, nel senso che un intervento che determini un incremento di volume non può essere qualificato come ristrutturazione anche quando sia preordinato all'inserimento o alla realizzazione di servizi o impianti; ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella disciplina della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o meglio il non superamento) della preesistente volumetria; nella fattispecie, essendo pacifico che il progetto della ricorrente prevede la realizzazione di nuovi volumi, per quanto modesti e per quanto preordinati a munire dei servizi igienici un preesistente e diverso fabbricato, si tratta quindi di un intervento di nuova costruzione” (così TAR Latina, 11.06.2015, n. 472) (TAR Molise, sentenza 11.03.2016 n. 116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’attuale sistema normativo la ristrutturazione trova il suo limite nella necessità di rispettare il volume preesistente del manufatto su cui si interviene, nel senso che un intervento che determini un incremento di volume non può essere qualificato come ristrutturazione anche quando sia preordinato all’inserimento o alla realizzazione di servizi o impianti.
Ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella disciplina della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o meglio il non superamento) della preesistente volumetria.
Nella fattispecie, essendo pacifico che il progetto della ricorrente prevede la realizzazione di nuovi volumi, per quanto modesti e per quanto preordinati a munire dei servizi igienici un preesistente e diverso fabbricato, si tratta quindi di un intervento di nuova costruzione.
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Ciò premesso la risoluzione della controversia presuppone la soluzione di due questioni: 1) la qualificazione (ristrutturazione edilizia o intervento di nuova costruzione) dell’intervento che la ricorrente vorrebbe realizzare; 2) la definizione del regime urbanistico dell’area di intervento.
In ordine alla prima questione -che rileva ai fini della decisione del primo motivo– ritiene il Collegio che l’intervento di cui la ricorrente ha chiesto l’assentimento debba qualificarsi come “nuova costruzione”.
Dagli elaborati progettuali risulta infatti che il progetto ha ad oggetto la realizzazione di un piccolo corpo di fabbrica (di poco più di 10 mq.) destinato a ospitare i servizi igienici di un distinto fabbricato posto nelle sue immediate prossimità.
La ricorrente sostiene che l’intervento darebbe luogo a una ristrutturazione edilizia dato che questa può consistere anche nella “modifica e inserimento di nuovi elementi e impianti” (cfr. articolo 3 dpr 06.06.2001, n. 380).
Va in contrario rilevato che nell’attuale sistema normativo la ristrutturazione trova il suo limite nella necessità di rispettare il volume preesistente del manufatto su cui si interviene, nel senso che un intervento che determini un incremento di volume non può essere qualificato come ristrutturazione anche quando sia preordinato all’inserimento o alla realizzazione di servizi o impianti; ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella disciplina della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o meglio il non superamento) della preesistente volumetria; nella fattispecie, essendo pacifico che il progetto della ricorrente prevede la realizzazione di nuovi volumi, per quanto modesti e per quanto preordinati a munire dei servizi igienici un preesistente e diverso fabbricato, si tratta quindi di un intervento di nuova costruzione.
Alla luce delle considerazioni che precedono il primo motivo va quindi respinto (TAR Lazio-Latina, sentenza 11.06.2015 n. 472 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti sostengono che la progettata ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione sarebbe illegittima perché comportante una modifica del complessivo volume preesistente (ancorché in diminuzione).
Orbene, ritiene il Collegio che tale tesi debba essere disattesa, essendo da condividere quanto precisato dal TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 3210 del 22.07.2004 in tema di limiti entro i quali è possibile inquadrare la demolizione e ricostruzione di un immobile nella ristrutturazione edilizia.
Appare, infatti, corretta e conforme a legge l’affermazione che la volumetria preesistente costituisce lo standard massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un aumento; cosa desumibile dalle modifiche della normativa di riferimento (l’art. 3 DPR 380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati dalla necessità di una “fedele ricostruzione” ad una ricostruzione “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”, ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”: è quindi evidente l’intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non appare ostativa alla riconducibilità dell’intervento alla fattispecie della ristrutturazione edilizia (come invece sostenuto dei ricorrenti), per cui, risultando rispettato il disposto delle N.T.A. del PRG, il motivo in commento va respinto, siccome infondato.
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Oggetto del gravame introdotto con il presente ricorso sono i titoli a mezzo dei quali la Ma. srl ha ricevuto l’assenso dal Comune di Caserta per la realizzazione di una serie di opere edili a carattere ristrutturativo, interessanti porzioni immobiliari urbane di propria pertinenza ubicate negli stabili di piazza ... n. 57 e n. 63.
In particolare, con il permesso di costruire n. 132 del 23.12.2011 risulta assentito (cfr. la relazione tecnica allegata) il parziale abbattimento e ricostruzione “a parità di sagoma e nei limiti del volume esistente del fabbricato” (in effetti, però, con volume post operam in diminuzione rispetto all’esistente) di una unità immobiliare residenziale; nonché, “per la parte di fabbricato, attualmente destinato a deposito, prospiciente il cortile,…il suo recupero strutturale, attraverso la sua completa ristrutturazione, con destinazione d’uso di autorimessa privata, affiancato al piccolo box auto esistente, ripristinato nella sua funzionalità”.
Con la successiva s.c.i.a. edilizia prot. n. 1123 del 05.01.2012 è stato invece proposto (cfr. relazione tecnica illustrativa pure ad essa allegata) un “progetto di variante architettonica …reso necessario al fine di ridefinire complessivamente l’articolazione del prospetto nord, nonché, parzialmente, di quello ubicato lungo il confine ovest, prospiciente l’area cortilizia del civico 63”, specificamente articolato nella “realizzazione di due coppie di balconi, aggettanti il prospetto ovest, le cui proiezioni sono ricadenti completamente nell’area di sedime di proprietà esclusiva del segnalatore”; nella realizzazione, lungo il prospetto nord, di “una serie di aperture e di balconi che prospettano, anche in tal caso sull’area della porzione di fabbricato del civico 57, di esclusiva proprietà”; nella previsione “di accorpare i due fabbricati, attraverso l’apertura di un varco al piano terra”, nonché di “accorpare il piccolo vano, di recente acquisizione, ubicato nell’area cortilizia del civico 63, al piano terra”.
In questa sede, i ricorrenti, sull’assunto di essere tutti condomini del fabbricato di piazza Matteotti n. 57, contestano la legittimità dei detti titoli edilizi di cui si è munita la società controinteressata, e, invocando la vigente normativa urbanistica del Comune di Caserta, sostengono,
   - con il primo motivo di ricorso, che non sarebbe consentito il mutamento della destinazione d’uso (da deposito ad autorimessa) del locale posto al piano terra dell’edificio di via ... n. 57;
   - con il secondo motivo di ricorso, che neppure sarebbe possibile la modifica del volume complessivo dell’organismo edilizio preesistente, ancorché in diminuzione;
   - con il terzo ed il quarto dei motivi articolati, che gli interventi oggetto della s.c.i.a. prot. n. 1123 del 05.01.2012 in realtà avrebbero dovuto essere assentiti a mezzo di permesso di costruire.
Dal suo canto, la Ma. srl., oltre a contestare la legittimazione e l’interesse dei ricorrenti alla proposta impugnazione, nonché ad eccepire l’inammissibilità dell’impugnazione diretta della s.c.i.a. (non scaturendo da questa alcun provvedimento amministrativo tacito), ha dedotto che con successiva s.c.i.a. prot. n. 11416 del 06.02.2013, essa aveva provveduto ad ottenere l’assenso ad un’ulteriore variante al progetto in questione, alla cui stregua non era più prevista la realizzazione, né dell’autorimessa, né dei balconi censurati da controparte (sul punto cfr. relazione tecnica illustrativa allegata a tale nuovo atto).
Va, altresì, segnalato che, con atto depositato il 10.07.2013, la difesa dei ricorrenti ha dichiarato di rinunciare “esclusivamente ai motivi rubricati al n° 3) e al n° 4) del ricorso introduttivo, e cioè quelli relativi all’impugnazione diretta della s.c.i.a. prot. 1123, depositata dal controinteressato in data 05.01.2012”.
Così sommariamente delineati i termini del presente giudizio, osserva il Tribunale che può prescindersi dall’esaminare, sia l’eccezione della controinteressata di carenza di legittimazione o di interesse dei ricorrenti in dipendenza della loro posizione di proprietari limitrofi agli immobili oggetto di intervento, sia l’analoga eccezione incentrata sulla questione della non diretta impugnabilità della s.c.i.a., non potendo comunque il ricorso trovare accoglimento, secondo quanto appresso specificato.
In primo luogo, infatti, essendovi stata espressa rinunzia da parte della difesa dei ricorrenti ai motivi proposti sub 3 e sub 4 dell’atto introduttivo, il ricorso va dichiarato improcedibile, quanto a tali punti, per sopravvenuta carenza di interesse: invero, se pure in assenza delle formalità prescritte dai commi 1 e 3 dell’art. 84 cpa (in particolare stante la mancata necessaria notifica dell’atto alla controparte almeno dieci gg. prima dell’udienza), non può dirsi sostanziata una rituale rinunzia al ricorso (nel caso di specie parziale e limitata ai due citati motivi, nell’ambito di un ricorso cumulativo), comunque il comportamento tenuto dai ricorrenti appare univoco, nel senso dell’essere per essi sopravvenuta una carenza dell’interesse alla decisione della causa, suscettibile di fondare, ai sensi dell’art. 84, co. 4, cpa, la declaratoria di improcedibilità dei motivi di ricorso in commento.
Analoga declaratoria di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, va, altresì, pronunziata in relazione al primo motivo di ricorso, stante la sopravvenienza dell’oggettiva circostanza costituita da una significativa modifica progettuale, apportata dalla Ma. srl mediante l’ulteriore s.c.i.a. prot. n. 11416 del 06.02.2013, con la quale è stata esclusa la realizzazione di modifiche della destinazione d’uso del locale deposito esistente, in modo da non operarne più la trasformazione in autorimessa privata: poiché l’assenso a tale nuova progettazione risulta incontestato (e, comunque, documentato dalla controinteressata), ne deriva che ai ricorrenti non può essere riconosciuto più alcun interesse alla definizione del motivo di ricorso in commento, essendo questo interamente incentrato su una pretesa illegittimità del mutamento di destinazione d’uso previsto nell’originario titolo edilizio oggetto di impugnazione, né potendo ad essi derivare alcuna utilità da un eventuale annullamento sul punto del permesso di costruire impugnato (ormai superato).
Rimane, quindi, da esaminare nel merito soltanto il secondo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti, nell’impugnare il permesso di costruire n. 132/2011 rilasciato dal Comune di Caserta, sostengono che la progettata ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, sarebbe illegittima perché comportante una modifica del complessivo volume preesistente (ancorché in diminuzione).
Orbene, ritiene il Collegio che la tesi dei ricorrenti debba essere disattesa, essendo da condividere quanto precisato dal TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 3210 del 22.07.2004 in tema di limiti entro i quali è possibile inquadrare la demolizione e ricostruzione di un immobile nella ristrutturazione edilizia.
Appare, infatti, corretta e conforme a legge l’affermazione che la volumetria preesistente costituisce lo standard massimo di edificabilità in sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la possibilità di utilizzare la preesistente volumetria soltanto in parte in sede di ricostruzione, essendone precluso soltanto un aumento; cosa desumibile dalle modifiche della normativa di riferimento (l’art. 3 DPR 380/2001) intervenute nel tempo, posto che si è passati dalla necessità di una “fedele ricostruzione” ad una ricostruzione “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”, ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”: è quindi evidente l’intento del legislatore di impedire soltanto aumenti della complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non appare ostativa alla riconducibilità dell’intervento alla fattispecie della ristrutturazione edilizia (come invece sostenuto dei ricorrenti), per cui, risultando rispettato il disposto delle N.T.A. del PRG, il motivo in commento va respinto, siccome infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 25.07.2014 n. 4265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Nessun dubbio, invece, in aree sottoposte a vincoli -ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42- laddove la demolizione/ricostruzione è ascritta alla "ristrutturazione edilizia" unicamente se sia rispettata la "medesima sagoma dell'edificio preesistente" (e, conseguentemente, anche il volume).

EDILIZIA PRIVATA: La novella apportata dal d.l. n. 69/2013 all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 ha espunto il limite della sagoma ai fini della possibilità di qualificare come ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione.
La norma fa tuttavia salva l’ipotesi degli immobili sottoposti a vincoli, ovvero ricadenti in zone vincolate ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, per i quali continua a valere il rispetto della sagoma, oltre che del volume.

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Con il sesto motivo It. aggiunge che, anche a voler ritenere applicabile il trattamento sanzionatorio vigente all’epoca di commissione dell’abuso, l’applicazione dell’art. 196 l.r. n. 65/2014 cit. risulterebbe comunque errata, stante la rivendicata natura di ristrutturazione edilizia dell’intervento (vengono riproposti in parte qua i medesimi profili di gravame già posti a fondamento del ricorso introduttivo).
I motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
Come già rilevato, la novella apportata dal d.l. n. 69/2013 all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 ha espunto il limite della sagoma ai fini della possibilità di qualificare come ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e ricostruzione. La norma fa tuttavia salva l’ipotesi degli immobili sottoposti a vincoli, ovvero ricadenti in zone vincolate ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, per i quali continua a valere il rispetto della sagoma, oltre che del volume (cfr. TAR Toscana, n. 582/2016, cit.; TAR Sardegna, sez. II, 05.12.2017, n. 772; Cass. pen., sez. III, 08.03.2016, n. 33043).
L’edificio di proprietà della It. ricade in zona agricola sottoposta a vincolo paesaggistico (d.m. 30.07.1974), di modo che l’intervento –comportando modifiche della sagoma– va classificato come nuova costruzione alla luce sia della disciplina vigente al momento della sua realizzazione e al momento della richiesta di sanatoria, sia della disciplina attuale.
La scelta sanzionatoria praticata dal Comune resistente, ai sensi dell’art. 196 l.r. n. 65/2014, si sottrae pertanto ai vizi dedotti (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.02.2019 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione.
Ad avviso del Collegio la locuzione “…immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto di tutela.
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
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La questione centrale sottoposta al Collegio concerne la qualificazione dell’intervento proposto dalla ricorrente, ossia se lo stesso vada classificato come ristrutturazione (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 oppure come nuova costruzione (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del medesimo decreto).
In particolare costituisce punto nodale della questione la portata dell’inciso di cui al citato art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 in punto di definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia per il quale “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Nel caso di specie, infatti, si è in presenza di un intervento di demolizione e ricostruzione senza aumento di volumetria ma con modifica della sagoma, da realizzarsi su un immobile ricadente in zona E agricola, con destinazione commerciale giusto provvedimento di condono del 2010, non specificamente vincolato ma ricadente in zona genericamente vincolata ai sensi del DM 30.11.1965 (modificato nel 1968) di tutela paesaggistica del territorio del Comune di Olbia, oltre che nell’ambito del PPR che comprende il Comune di Olbia.
Occorre dunque stabilire, anzitutto, se la disposizione che esclude l’ammissibilità degli interventi di demolizione e ricostruzione con modifica di sagoma di immobili non specificamente vincolati ma ricadenti nelle zone agricole ricomprese in ambito vincolato debba trovare applicazione nel caso di specie.
Orbene, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) stabilisce che rientrano nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma.
La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano semplicemente al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, come detto, l’ultimo periodo della disposizione specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Come si vede questa norma prevede un’eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione, con necessaria applicazione applicati sia dell’art. 26 della LR 8/2015 che detta disposizioni generali di salvaguardia dei territori rurali, sia dell’art. 83 delle NTA del PPR.
Ad avviso del Collegio la locuzione “…immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto di tutela (in termini: Cass. Pen., Sez. III, 08.03.2016 n. 33043).
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento di cui è causa –che incide su un’area soggetta a vincolo paesaggistico e che pacificamente non rispetta il limite della sagoma preesistente– va correttamente qualificato come intervento di nuova costruzione.
Sotto questo profilo non è decisiva la circostanza che l’immobile fosse stato oggetto di un provvedimento di condono anche in ordine alla destinazione commerciale.
Il condono edilizio è infatti un istituto eccezionale che consente al richiedente il mantenimento e la conservazione di un fabbricato abusivamente realizzato ma non lo sottrae alla disciplina urbanistica applicabile in ragione della sua localizzazione.
Pertanto –con riguardo al caso di specie- l’eventuale demolizione dell’immobile in questione comporterà –per il caso di riedificazione con modifica della sagoma- l’applicazione della disciplina della nuova costruzione in zona agricola, con conseguente verifica, ai fini del rilascio del titolo edilizio, del possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla normativa vigente.
Ciò, del resto, è confermato dall’art. 39, comma 5, della legge regionale n. 8/2015 in punto di rinnovo del patrimonio edilizio con interventi di demolizione e ricostruzione, che all’ultimo alinea precisa che “Nelle zone urbanistiche E ed H non è ammessa deroga alle vigenti disposizioni regionali”.
La qualificazione nei termini predetti di nuova costruzione dell’intervento proposto dalla ricorrente conduce quindi alla reiezione del ricorso che, a ben vedere, muove interamente dal presupposto non fondato che i lavori oggetto della DUAAP avessero natura di ristrutturazione edilizia.
In conclusione, quindi, il ricorso si rivela infondato e va respinto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 05.12.2017 n. 772).

EDILIZIA PRIVATA: Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire come, pur nella successione di modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione edilizia, quest’ultima tipologia di intervento edilizio ricomprenda, nel proprio ambito generale, tipologie differenti, solo per alcune delle quali il legislatore prevede la necessità del permesso di costruire; da un lato, dunque, vi è la generale definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3, co. 1, lett. d); dall’altro, le specifiche “species” del genus ristrutturazione edilizia per le quali occorre il permesso di costruire (art. 10, co. 1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato: “Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi sono ora tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare “ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”:
   - la prima, non comportante demolizione del preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”;
   - la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più richiesta l’identità di sagoma);
   - la terza, rappresentata dagli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi innanzi indicate riguardino immobili sottoposti a vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà parlarsi di ristrutturazione edilizia solo in presenza, nell’immobile ricostruito, della identità di sagoma dell’edificio preesistente".
Per effetto della lett. c) del medesimo articolo, anche l’art. 10, co. 1, lett. c), del DPR n. 380/2001 è stato modificato, di modo che è necessario il permesso di costruire per “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Infine, con modifica introdotta dall’art. 17, co. 1, lett. d), d.l. 12.09.2014 n. 133, conv. in l. 11.11.2014 n. 164, alla necessità di permesso di costruire per i casi in cui il nuovo fabbricato comporti anche “aumento di unità immobiliari” e “modifica del volume”, si è sostituita la più limitata ipotesi di “modifiche della volumetria complessiva degli edifici” (eliminando, dunque, il caso dell’aumento delle unità immobiliari).
E’ appena il caso di osservare che il legislatore, in sede di elencazione delle ipotesi di ristrutturazione edilizia con necessità di permesso di costruire, ha ricompreso anche quella comportante modifiche di sagoma di edifici vincolati ex d.lgs. n. 42/2004, ipotesi da riferirsi ai soli casi in cui la ristrutturazione riguardi edifici vincolati, ma senza abbattimento, poiché, in tale ultima ipotesi, ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. d), si fuoriesce dalla definizione di “
ristrutturazione edilizia”.
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In definitiva, non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitano del rilascio del permesso di costruire, ma solo quelli specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett. c) e, per quel che interessa nella presente sede, quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”, posto che le ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma (mutamenti di destinazione d’uso di immobili in zona A, interventi che modificano la sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004), non interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte, l’intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “
ristrutturazione ricostruttiva” (come definita dalla giurisprudenza), a maggior ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di costruzione.
Infine, giova osservare che, del tutto coerentemente, il legislatore, all’art. 22, co. 1, lett. c), DPR n. 380/2001, prevede, tra gli interventi sottoposti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), anche i casi di ristrutturazione edilizia per i quali non è necessario il permesso di costruire, fermo restando la possibilità per l’interessato (co. 7) di richiedere comunque il permesso di costruire “senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16” (con esclusione dei casi in cui, ai sensi dell’art. 23, la SCIA è sostitutiva del permesso di costruire).
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Con il terzo motivo di appello, la società appellante lamenta, in sostanza, il difetto di motivazione in ordine alle ragioni di fatto e di diritto che hanno indotto l’amministrazione a determinare il contenuto dell’atto oggetto di censura, non considerando la “peculiarità della fattispecie”.
Giova osservare, in punto di fatto, che è pacifico tra le parti che l’intervento per il quale la società ricorrente ha richiesto il permesso di costruire non comporta modifica della sagoma, della superficie esistente ed autorizzata, dei volumi e della destinazione d’uso (v. pagg. 11-12 app.; pag. 13 memoria Comune di Monza del 11.01.2017).
Inoltre, il permesso di costruire n. 91 del Comune di Monza, oggetto di (parziale) impugnazione, è stato emesso il 13.01.2015, ed è, dunque, a tale data che occorre fare riferimento onde individuare la normativa urbanistico-edilizia concretamente applicabile.
5.1. Tanto precisato, occorre osservare che l’art. 16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
Come appare evidente, la norma collega il pagamento del contributo di costruzione al rilascio del permesso di costruire; in altre parole, è per quelle opere per la cui realizzazione la legge prevede tale titolo autorizzatorio che il contributo di costruzione è dovuto.
Il precedente art. 10 prevede che il permesso di costruire è necessario per gli “interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, espressamente indicando, tra questi, (comma 1) gli interventi di nuova costruzione (lett. a), gli interventi di ristrutturazione urbanistica (lett. b), e gli interventi di ristrutturazione edilizia (lett. c).
Il comma 2 prevede, inoltre, che le Regioni possono stabilire con legge “quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività”.
In sostanza, il legislatore statale collega la necessità di permesso di costruire a fenomeni di “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio” e, in primo luogo, qualifica tali la nuova costruzione, la ristrutturazione urbanistica e la ristrutturazione edilizia; in secondo luogo, demanda alle Regioni di individuare quali interventi (diversi da quelli precedentemente indicati) comportanti trasformazione urbanistica (ma non necessariamente edilizia), richiedano il permesso di costruire in ragione della loro natura ed incidenza, in particolare, sul carico urbanistico.
In ambedue le ipotesi innanzi considerate, appare evidente come il permesso di costruire si colleghi sempre ad interventi che incidono sul territorio, trasformandolo sul piano urbanistico–edilizio, o anche su uno solo dei due.
5.2. Più in particolare, per il caso di ristrutturazione edilizia, l’art. 10, co. 1, lett. c) –nel testo vigente al momento del rilascio del titolo edilizio- prevede la necessità del permesso di costruire non già per tutti i casi di ristrutturazione edilizia, bensì, più precisamente, per quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni”.
Al contempo, l’art. 3, co. 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di chiarire, con considerazioni che qui si intendono completamente riportate (v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443, e giurisprudenza ivi richiamata), come, pur nella successione di modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione edilizia, quest’ultima tipologia di intervento edilizio ricomprenda, nel proprio ambito generale, tipologie differenti, solo per alcune delle quali il legislatore prevede la necessità del permesso di costruire; da un lato, dunque, vi è la generale definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3, co. 1, lett. d); dall’altro, le specifiche “species” del genus ristrutturazione edilizia per le quali occorre il permesso di costruire (art. 10, co. 1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato: “Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi sono ora tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare “ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”:
   - la prima, non comportante demolizione del preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”;
   - la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più richiesta l’identità di sagoma);
   - la terza, rappresentata dagli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi innanzi indicate riguardino immobili sottoposti a vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà parlarsi di ristrutturazione edilizia solo in presenza, nell’immobile ricostruito, della identità di sagoma dell’edificio preesistente
".
Per effetto della lett. c) del medesimo articolo, anche l’art. 10, co. 1, lett. c), del DPR n. 380/2001 è stato modificato, di modo che è necessario il permesso di costruire per “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
Infine, con modifica introdotta dall’art. 17, co. 1, lett. d), d.l. 12.09.2014 n. 133, conv. in l. 11.11.2014 n. 164, alla necessità di permesso di costruire per i casi in cui il nuovo fabbricato comporti anche “aumento di unità immobiliari” e “modifica del volume”, si è sostituita la più limitata ipotesi di “modifiche della volumetria complessiva degli edifici” (eliminando, dunque, il caso dell’aumento delle unità immobiliari).
E’ appena il caso di osservare che il legislatore, in sede di elencazione delle ipotesi di ristrutturazione edilizia con necessità di permesso di costruire, ha ricompreso anche quella comportante modifiche di sagoma di edifici vincolati ex d.lgs. n. 42/2004, ipotesi da riferirsi ai soli casi in cui la ristrutturazione riguardi edifici vincolati, ma senza abbattimento, poiché, in tale ultima ipotesi, ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. d), si fuoriesce dalla definizione di “ristrutturazione edilizia”.
In definitiva, non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia necessitano del rilascio del permesso di costruire, ma solo quelli specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett. c) e, per quel che interessa nella presente sede, quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”, posto che le ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma (mutamenti di destinazione d’uso di immobili in zona A, interventi che modificano la sagoma di immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004), non interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio del permesso di costruire una modifica (parziale o totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un aumento della volumetria complessiva; solo in questi casi, d’altra parte, l’intervento si caratterizza (in ossequio alla prescrizione normativa) come “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione ricostruttiva” (come definita dalla giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384; 06.07.2012 n. 3970), a maggior ragione se con invarianza, oltre che di volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001, manca il presupposto per la richiesta e corresponsione del contributo di costruzione.
Infine, giova osservare che, del tutto coerentemente, il legislatore, all’art. 22, co. 1, lett. c), DPR n. 380/2001, prevede, tra gli interventi sottoposti a segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), anche i casi di ristrutturazione edilizia per i quali non è necessario il permesso di costruire, fermo restando la possibilità per l’interessato (co. 7) di richiedere comunque il permesso di costruire “senza obbligo del pagamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16” (con esclusione dei casi in cui, ai sensi dell’art. 23, la SCIA è sostitutiva del permesso di costruire).
5.3. Le conclusioni alle quali si è innanzi pervenuti non contrastano con quanto previsto, per la Regione Lombardia, dall’art. 44 l.reg. 11.03.2005 n. 12, posto che, nel definire le modalità di determinazione degli oneri di urbanizzazione per gli interventi di ristrutturazione edilizia, tale disposizione non impone una generalizzata onerosità dell’intervento, come si evince dall’inciso “se dovuti”, riferito agli oneri e più volte ripetuto (v. co. 8, 10, 10-bis).
Inoltre –diversamente considerando rispetto alla sentenza impugnata (pag. 10)- è solo nei sensi e limiti innanzi esposti, che può trovare applicazione quanto previsto dalla delibera della Giunta comunale di Monza 03.11.2008 n. 43, laddove la stessa prevede il pagamento di oneri di urbanizzazione per gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione, in misura pari a quelli previsti per le nuove costruzioni
6. Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello è fondato:
   - sia in relazione al primo profilo del secondo motivo (sub lett. b1), poiché, in presenza di interventi che non comportano “trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”, nei sensi e limiti normativamente considerati ed innanzi esposti, non è dovuto il contributo di cui all’art. 16, co. 1, DPR n. 380/2001;
   - sia in relazione al terzo motivo di appello (sub lett. c), posto che l’amministrazione, lungi dal procedere ad una “automatica” applicazione dell’art. 16, co. 1, cit. ai casi di ristrutturazione edilizia, avrebbe dovuto congruamente motivare le ragioni per le quali, in presenza della (affatto particolare) tipologia di intervento oggetto di istanza di permesso di costruire, riteneva di procedere all’adozione del permesso di costruire con corrispondente onerosità dell’intervento e, dunque, imposizione degli oneri a carico del richiedente.
Da quanto esposto consegue, in riforma della sentenza di I grado, ed in corrispondenza della domanda formulata con il ricorso instaurativo del giudizio, l’annullamento del permesso di costruire 13.01.2015 n. 91, nella parte in cui con il medesimo è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione per un importo di Euro 257.377,54.
Resta fermo il potere del Comune di Monza di verificare che il progetto presentato ed oggetto di istanza, presenti tutte le caratteristiche innanzi indicate che, ove esistenti, comportano la non corresponsione di oneri ai sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rispetto alla normativa precedente, il nuovo art. 3 del DPR n. 380 del 2001 siccome modificato dall’art. 30, comma 1°, lett. a), del DL n. 69/2013, al fine di qualificare un intervento edilizio realizzato mediante demolizione e ricostruzione dell’edificio come “ristrutturazione edilizia”, non richiede più la verifica dell’identità di “sagoma”, essendo sufficiente il rispetto del vincolo della medesima volumetria, con l’unica eccezione degli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, in relazione ai quali continua a permanere anche il vincolo di sagoma.
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Con ricorso tempestivamente notificato la Ma.Co. snc ha impugnato la nota indicata in epigrafe con la quale il Comune di Leverano ha respinto l’istanza di permesso di costruire relativa ad un intervento di ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d), DPR n. 380 del 2001.
La ricorrente ha esposto in fatto di avere presentato, in data 13.01.2016, istanza di permesso di costruire per la ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione di un immobile esistente; dopo tale istanza la Marino Congedo aveva ottenuto il permesso di costruire n. 6 del 2015; in seguito, l’interessata aveva presentato un’ulteriore istanza di permesso di costruire inerente lo stesso edificio, al fine di poter procedere alla ristrutturazione edilizia con una differente soluzione progettuale rispetto a quella inizialmente assentita, beneficiando delle modalità più “liberali” introdotte dall’art. 30, comma 1°, lett. a), del DL n. 69 del 2013, emendativo della precedente disciplina contenuta nell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001 in ordine alla vincolo della sagoma; l’Ente, tuttavia, con le note impugnate, aveva respinto l’istanza, ritenendo necessario il mantenimento del vincolo della sagoma, per la tipicità dell’immobile interessato (masseria).
La ricorrente ha contestato la decisione assunta dall’Amministrazione in quanto, a suo dire, nel caso in esame non ricorrerebbe nessuna delle eccezioni introdotte dal legislatore con il DL n. 69 del 2013 per imporre il mantenimento del vincolo della sagoma, in deroga alla “liberalizzazione” prevista sul punto dalla nuova normativa.
Nel corso del giudizio si sono costituiti il Comune di Leverano e il controinteressato Fe.Ve. i quali hanno contestato le avverse doglianze e chiesto il rigetto dell’impugnazione.
All’esito del giudizio, stante la nuova disciplina introdotta dal DL n. 69 del 2013 in materia di ristrutturazione edilizia, il ricorso va accolto.
Invero, il legislatore con tale ultima modifica normativa, all’art. 30, comma 1, ha così disposto: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 22, comma 6, del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, al medesimo decreto sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 3, comma 1, lettera d), ultimo periodo, le parole: «e sagoma» sono soppresse e dopo la parola "antisismica" sono aggiunte le seguenti: «nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Pertanto, a seguito di tale intervento legislativo, l’art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001 in rilievo in questa sede, definisce gli interventi di ristrutturazione edilizia, come tutti “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
In altri termini, rispetto alla normativa precedente, il nuovo art. 3 del DPR n. 380 del 2001, al fine di qualificare un intervento edilizio realizzato mediante demolizione e ricostruzione dell’edificio come “ristrutturazione edilizia”, non richiede più la verifica dell’identità di “sagoma”, essendo sufficiente il rispetto del vincolo della medesima volumetria, con l’unica eccezione degli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, in relazione ai quali continua a permanere anche il vincolo di sagoma.
Nel caso in esame l’immobile oggetto della domanda di permesso di costruire articolata dal ricorrente non risulta sottoposto ad alcuno dei vincoli di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, ma nel provvedimento impugnato il Comune di Leverano ha ritenuto che il vincolo di sagoma operi comunque, per la c.d. “tipicità” dell’edificio da ristrutturare, qualificato nello strumento urbanistico comunale come “masseria” e tale conclusione, ad avviso dell’Ente, sarebbe legittima in forza di quanto statuito nell’art. 23-bis, comma 4, del DPR n. 380 del 2001.
Tale norma così recita: “All'interno delle zone omogenee A) di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e in quelle equipollenti secondo l'eventuale diversa denominazione adottata dalle leggi regionali, i comuni devono individuare con propria deliberazione, da adottare entro il 30.06.2014, le aree nelle quali non e' applicabile la segnalazione certificata di inizio attività per interventi di demolizione e ricostruzione, o per varianti a permessi di costruire, comportanti modifiche della sagoma. […] Nelle more dell'adozione della deliberazione di cui al primo periodo e comunque in sua assenza, non trova applicazione per le predette zone omogenee A) la segnalazione certificata di inizio attività con modifica della sagoma”.
Ad avviso del Comune da tale disposizione deriverebbe la possibilità per gli Enti locali di introdurre delle eccezioni ulteriori (rispetto a quella dei vincoli ex D.Lgs. n. 42 del 2004 già prevista dall’art. 3 del DPR n. 380 del 2001) all’applicabilità della “liberalizzazione” introdotta dal DL n. 69 del 2013; in altri termini, secondo l’Amministrazione, anche in presenza di immobili non vincolati ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 (per i quali il legislatore nazionale ha previsto il permanere del vincolo della sagoma nelle ristrutturazioni), i Comuni, nelle zone omogenee A), potrebbero prevedere nei propri strumenti urbanistici altre ipotesi nelle quali imporre a chi intenda ristrutturare un edificio, il mantenimento della stessa sagoma preesistente; pertanto, del tutto legittima sarebbe la decisione contenuta nel provvedimento impugnato di richiedere al signor Lezzi di rispettare tale parametro nella ristrutturazione della sua “masseria”.
La tesi non può essere condivisa.
Invero, dalla lettura della norma, dalla sua collazione sistematica (nell’ambito del titolo II riguardante i “titoli abilitativi” da richiedere per le diverse attività edilizie elencate nella parte generale) e dall’oggetto della disposizione (autorizzazioni preliminari alla segnalazione certificata di inizio attività e alla comunicazione dell'inizio dei lavori) si evince chiaramente che la ratio di tale previsione non è quella di consentire ai Comuni di restringere la portata innovativa dell’art. 30 del DL n. 69 del 2013, introducendo altre ipotesi nelle quali imporre il vincolo della sagoma nelle ristrutturazioni, bensì quello di demandare a tali Enti locali la scelta, nelle zone omogenee di tipo A), di quale titolo edilizio richiedere (segnalazione certificata di inizio attività ovvero permesso di costruire) per interventi di demolizione e ricostruzione, o per varianti a permessi di costruire, comportanti modifiche della sagoma, ferma restando la disciplina dettata dal legislatore nazionale in ordine ai casi riconducibili agli interventi di ristrutturazione.
Peraltro, tale conclusione trova conferma nello stesso art. 3, comma 2, del DPR n. 380 del 2001 dove si legge: “Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi” e risulta coerente con l’esigenza di garantire che il principio generale contenuto nell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001 trovi applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale.
Pertanto, non ricorrendo nel caso in esame nessuna delle ipotesi derogatorie all’eliminazione del vincolo della sagoma contenute nell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, il provvedimento impugnato, motivato con riferimento a tale ragione ostativa, va senz’altro ritenuto illegittimo, fermo restando l’obbligo per l’Amministrazione, nel ripronunciarsi sull’istanza del ricorrente, di valutare ogni altro aspetto rilevante della questione, compreso il rispetto del vincolo della medesima volumetria, sul quale ha insistito il controinteressato Ve., ma che non può essere analizzato in questa sede, trattandosi di profilo non espressamente utilizzato dal Comune per fondare la decisione assunta con il provvedimento impugnato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 04.05.2017 n. 675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dispone l’art. 3, co. 1, lett. d), TUE che per interventi di ristrutturazione edilizia si intendono “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria … di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Emerge pertanto da tale previsione normativa che, al fine dell’attuazione degli interventi di ristrutturazione, nella forma di ricostruzione di edifici crollati o demoliti, è necessario procedere a preventivo accertamento della preesistente consistenza dell’immobile. In particolare, per gli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004 occorre che “… sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.

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4.2. Tanto premesso, e venendo ora al caso di specie, rileva il Collegio che il diniego in esame si fonda sul contrasto del progetto sia con le NTA del Piano di recupero, sia con la previsione di cui all’art. 3 TUE.
4.3. Orbene, per quel che attiene a tale ultimo aspetto, dispone l’art. 3, co. 1, lett. d), TUE che per interventi di ristrutturazione edilizia si intendono “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria … di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
4.4. Emerge pertanto da tale previsione normativa che, al fine dell’attuazione degli interventi di ristrutturazione, nella forma di ricostruzione di edifici crollati o demoliti, è necessario procedere a preventivo accertamento della preesistente consistenza dell’immobile. In particolare, per gli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004 –tale dovendosi ritenere l’immobile in esame– occorre che “… sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
5. Ciò premesso, e venendo ora al caso di specie, si legge nel ricorso (cfr. p. 10) che l’intervento proposto dal ricorrente consiste nella rimozione di infissi e serramenti, sanitari e rivestimenti esistenti, nonché nell’effettuazione di interventi comportanti la “…demolizione del solaio esistente, ad esclusione del locale destinato a servizio igienico”. Trattasi pertanto, di interventi di ristrutturazione edilizia, ai sensi del cennato art. 3, lett. d), TUE.
6. Ciò chiarito, si legge nell’impugnato provvedimento che il diniego si è fondato, tra l’altro, sulla impossibilità di definire la reale consistenza del manufatto.
Orbene, tale rilievo è rimasto insuperato.
Da un lato, infatti, devono ritenersi del tutto irrilevanti gli atti di compravendita 02.11.1919 e 09.01.1955, trattandosi di elementi assolutamente datati nel tempo, e pertanto del tutto inidonei ad individuare la “…sagoma dell'edificio preesistente” (art. 3 lett. d) TUE).
Alla stessa stregua, del tutto irrilevanti devono ritenersi gli estremi catastali dell’immobili, non essendo essi idonei a definire la sagoma dell’immobile.
Sarebbe stato utile, invece, individuare la sagoma attuale dell’immobile mediante illustrazione fotografica dello stesso. Sennonché, tale corredo fotografico non è stato prodotto in giudizio. In particolare, il ricorrente non ha prodotto alcuna fotografia attestante lo stato attuale dell’immobile, la qual cosa deve ritenersi del tutto inspiegabile, trattandosi di adempimento non implicante alcun particolare sacrificio, essendo nella sua immediata disponibilità.
In definitiva, non solo la preesistente, ma anche l’attuale sagoma dell’immobile in esame, deve ritenersi elemento del tutto generico e fumoso, e soprattutto giammai provato dal ricorrente.
In questa situazione di “deserto probatorio”, devono allora ritenersi insuperate le considerazioni dell’Amministrazione circa la natura “diruta” dell’immobile in esame, e l’impossibilità di accertarne l’esatta consistenza.
Pertanto, in difetto di uno specifico requisito richiesto ai fini della ristrutturazione edilizia (individuazione della sagoma dell’edificio preesistente), del tutto legittimamente l’Amministrazione ha negato il rilascio del chiesto atto abilitativo.
7. E poiché tale motivazione assume carattere “autoreggente”, essendo ex se idonea a supportare il disposto diniego, del tutto irrilevante si appalesa l’esame dell’ulteriore profilo di criticità dedotto dall’Amministrazione, e relativo al contrasto del progettato intervento con le NTA del Piano di recupero.
8. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è infondato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.03.2017 n. 393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 30, lett. a), del d.l. n. 69 del 2013 convertito con l. 08.08.2013 n. 98 ha avuto il solo effetto, all’insegna dell’incentivazione delle attività edilizia di ristrutturazione, di dilatare la nozione di ristrutturazione edilizia attuabile mediante d.i.a. e poi s.c.i.a., fino a comprendervi la demolizione e successiva ricostruzione con la stessa volumetria ma con sagoma diversa e gli interventi di ricostruzione di immobili già demoliti o crollati se sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Ha poi precisato che relativamente agli immobili sottoposti ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono ristrutturazione edilizia solo ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente; il rispetto della sagoma rimane quindi ancora necessario, per rientrare nell’alveo della ristrutturazione edilizia assoggettata a s.c.i.a, per gli edifici esistenti su aree sottoposte ai vincoli di cui al Codice dei beni culturali e del paesaggio.
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La riforma di cui al c.d. decreto del fare ha operato solo sul piano della definizione della categoria edilizia della ristrutturazione e sul correlativo livello del regime edilizio cui la stessa è assoggettata, che resta quello della s.c.i.a. se viene conservata la stessa sagoma dell’immobile preesistente allorché l’immobile modificato insista su area vincolata ovvero, in caso di immobile sito in area non vincolata, malgrado sia modificata la sagoma stessa pur rimanendo inalterata la volumetria ovvero, nel caso di interventi di ripristino di edifici già crollati o demoliti, allorché, pur modificandosene la sagoma, sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Invero, l’art. 30, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 69 del 2013 testualmente dispone “a) all'articolo 3, comma 1, lettera d), ultimo periodo, le parole: «e sagoma» sono soppresse e dopo la parola "antisismica" sono aggiunte le seguenti: «nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente»".
La novella è quindi intervenuta unicamente a modificare la definizione di ristrutturazione edilizia riportata all’art. 3, lett. d), del Testo unico sull’edilizia; correlativamente, la lett. c) del medesimo comma 1 dell’art. 30 in disamina, ha operato la modifica dell’art. 10 del Testo unico, dedicato alla indicazione degli interventi edilizi assoggettati a permesso di costruire, stabilendo infatti che “c) all'articolo 10, comma 1, lettera c) le parole: "della sagoma," sono soppresse; dopo le parole «comportino mutamenti della destinazione d'uso» sono aggiunte le seguenti: «, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni»".
A seguito della modifica dell’art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 sono quindi interventi soggetti a permesso di costruire, “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
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Che questo sia il portato della modifica degli artt. 3, lett. d) e 10, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 è confermato dalla giurisprudenza della Cassazione penale, secondo la quale “Anche in seguito alle modifiche introdotte dall'art. 30 d.l. 21.06.2013 n. 69 (c.d. "decreto del fare"), conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti per i quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza non sono qualificabili come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), t.u. edilizia, e sono assoggettati al regime del permesso di costruire, fermo restando che con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 s.m.i., i medesimi interventi non sono assimilabili alla ristrutturazione edilizia ove non sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”, ulteriormente precisando che “gli interventi di "
ristrutturazione edilizia", consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadono in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio, e, invece, alla procedura semplificata della SCIA, se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio”.
Anche il giudice amministrativo ha precisato che “Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito nella l. 09.08.2013 n. 98, costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, mediante la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza, con inderogabilità soltanto della preesistente volumetria mentre può essere modificata la sagoma anteriore, tranne che non si tratti di immobili sottoposti a vincolo paesistico ex d.lgs. 22.01.2004 n. 42”.
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3. Ad avviso del Collegio la censura è infondata e va disattesa.
L’art. 30, lett. a), del d.l. n. 69 del 2013 convertito con l. 08.08.2013 n. 98 ha una portata precettiva più limitata rispetto a quella pretesa dalla ricorrente, avendo avuto il solo effetto, all’insegna dell’incentivazione delle attività edilizia di ristrutturazione, di dilatare la nozione di ristrutturazione edilizia attuabile mediante d.i.a. e poi s.c.i.a., fino a comprendervi la demolizione e successiva ricostruzione con la stessa volumetria ma con sagoma diversa e gli interventi di ricostruzione di immobili già demoliti o crollati se sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Ha poi precisato che relativamente agli immobili sottoposti ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione e quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono ristrutturazione edilizia solo ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente; il rispetto della sagoma rimane quindi ancora necessario, per rientrare nell’alveo della ristrutturazione edilizia assoggettata a s.c.i.a, per gli edifici esistenti su aree sottoposte ai vincoli di cui al Codice dei beni culturali e del paesaggio.
3.1. La riforma di cui al c.d. decreto del fare ha cioè operato solo sul piano della definizione della categoria edilizia della ristrutturazione e sul correlativo livello del regime edilizio cui la stessa è assoggettata, che resta quello della s.c.i.a. se viene conservata la stessa sagoma dell’immobile preesistente allorché l’immobile modificato insista su area vincolata ovvero, in caso di immobile sito in area non vincolata, malgrado sia modificata la sagoma stessa pur rimanendo inalterata la volumetria ovvero, nel caso di interventi di ripristino di edifici già crollati o demoliti, allorché, pur modificandosene la sagoma, sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Invero, l’art. 30, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 69 del 2013 testualmente dispone “a) all'articolo 3, comma 1, lettera d), ultimo periodo, le parole: «e sagoma» sono soppresse e dopo la parola "antisismica" sono aggiunte le seguenti: «nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente»".
La novella è quindi intervenuta unicamente a modificare la definizione di ristrutturazione edilizia riportata all’art. 3, lett. d), del Testo unico sull’edilizia; correlativamente, la lett. c) del medesimo comma 1 dell’art. 30 in disamina, ha operato la modifica dell’art. 10 del Testo unico, dedicato alla indicazione degli interventi edilizi assoggettati a permesso di costruire, stabilendo infatti che “c) all'articolo 10, comma 1, lettera c) le parole: "della sagoma," sono soppresse; dopo le parole «comportino mutamenti della destinazione d'uso» sono aggiunte le seguenti: «, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni»".
A seguito della modifica dell’art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 sono quindi interventi soggetti a permesso di costruire, “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni”.
3.2. Che questo sia il portato della modifica degli artt. 3, lett. d) e 10, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 è confermato dalla giurisprudenza della Cassazione penale, secondo la quale “Anche in seguito alle modifiche introdotte dall'art. 30 d.l. 21.06.2013 n. 69 (c.d. "decreto del fare"), conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti per i quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza non sono qualificabili come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), t.u. edilizia, e sono assoggettati al regime del permesso di costruire, fermo restando che con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 s.m.i., i medesimi interventi non sono assimilabili alla ristrutturazione edilizia ove non sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”, ulteriormente precisando che “gli interventi di "ristrutturazione edilizia", consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadono in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio, e, invece, alla procedura semplificata della SCIA, se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio” (Cassazione penale, Sez. III, 03/06/2014, n. 40342).
Anche il giudice amministrativo ha precisato che “Ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito nella l. 09.08.2013 n. 98, costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, mediante la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza, con inderogabilità soltanto della preesistente volumetria mentre può essere modificata la sagoma anteriore, tranne che non si tratti di immobili sottoposti a vincolo paesistico ex d.lgs. 22.01.2004 n. 42” (TAR Basilicata, 11.09.2014, n. 642) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.01.2017 n. 291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

E l'Agenzia delle Entrate, in primis, non era d'accordo ma, successivamente, si è ricreduta (favorevolmente) avendo interrogato, all'uopo, il C.S.LL.PP.!!

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27.07.2000, n. 212 – Articolo 16-bis del TUIR – agevolazioni per recupero del patrimonio edilizio e per “bonus mobili” in caso di demolizione e ricostruzione dell’immobile con volumetria inferiore rispetto a quella preesistente (Agenzia delle Entrate, risposta 18.07.2019 n. 265).
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QUESITO
Il signor X, per il tramite del suo geometra, signor Y, chiede se possa beneficiare della detrazione fiscale per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di quella prevista dal cosiddetto bonus mobili, in relazione ad un edificio residenziale di sua proprietà, sito nel Comune di …..
Per il predetto immobile, non soggetto a vincolo di tutela ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, il contribuente evidenzia di aver presentato la Segnalazione Certificata Inizio Lavori Asseverata (di seguito SCIA) presso il Comune di ….in data 13/04/2018, al fine di effettuare lavori di ristrutturazione edilizia, consistenti nella demolizione e ricostruzione dell’immobile, con diminuzione della volumetria preesistente, all’interno della sagoma e dell’area di sedime esistente.
In particolare, l’istante dichiara che la SCIA presentata è conforme alla normativa e alla disciplina edilizia ed urbanistica sia statale, con particolare riferimento agli artt. 3, 10 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo Unico dell’Edilizia), che regionale, con riguardo in particolare all’art. 13 e all’Allegato (art. 9, comma 1) della legge regionale dell’Emilia Romagna 30.07.2013, n. 15).
...
L’articolo 16-bis del d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (di seguito TUIR) prevede una detrazione ai fini IRPEF delle spese relative agli interventi di recupero del patrimonio edilizio “di cui alle lettere b), c) e d) dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, effettuati sulle singole unità immobiliari residenziali di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, e sulle loro pertinenze”.
Ai sensi dell’art. 16, comma 2, del decreto legge 04.06.2013, n. 63 (convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2013, n. 90) ai contribuenti che fruiscono della detrazione prevista dall’art. 16-bis del TUIR, per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, è riconosciuta una detrazione per le spese sostenute dal 06.06.2013 per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, nonché A per i forni, e per le apparecchiature per le quali sia prevista l’etichetta energetica, finalizzati all’arredo dell’immobile oggetto di recupero (cosiddetto “bonus mobili”).
Per accedere alle predette agevolazioni fiscali, è necessario che i contribuenti effettuino sugli immobili agevolati gli interventi di recupero del patrimonio edilizio previsti alle lettere b), c) e d) dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (cosiddetto “Testo unico dell’edilizia”).
In particolare, ai sensi della lettera d) della predetta disposizione, sono definiti di “ristrutturazione edilizia” gli interventi volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Nell’ambito di tali interventi sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
In base alla successiva lettera e) del medesimo comma 1, invece, gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti del medesimo comma sono definiti “interventi di nuova costruzione”.
Con riferimento alla fattispecie in esame, il contribuente dichiara di aver ristrutturato un edificio ad uso residenziale mediante un intervento di demolizione e successiva ricostruzione che ha prodotto un edificio con diminuzione della volumetria preesistente, all’interno della sagoma e dell’area di sedime esistente. Occorre pertanto chiarire se tale tipo di intervento possa rientrare o meno tra quelli agevolabili ai sensi della normativa indicata in premessa.
Al riguardo, si evidenzia che
il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (di seguito, C.S.L.P.), nell’adunanza collegiale straordinaria del 16.07.2015, ha chiarito alcune questioni interpretative relative all’articolo 3, lettera d), del Testo Unico dell’edilizia, come modificato dall’articolo 30, comma 1, lettera d), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98), sorte ai fini dell’applicazione delle agevolazioni in materia di interventi di ristrutturazione edilizia e riqualificazione energetica di edifici esistenti.
In particolare, in tale parere il C.S.L.P. ha espresso l’avviso secondo cui “
le modifiche apportate alla definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui al comma 1, lett. d), dell’articolo 3 del d.P.R. 380/2001 (…) consentono (…) di ritenere che gli interventi di demolizione e ricostruzione, anche con volumetria inferiore rispetto a quella preesistente, rientrino in questa fattispecie”.
Ad avviso del C.S.L.P., dalle richiamate modifiche, consegue che,
per gli interventi di ristrutturazione edilizia non soggetti ai vincoli ai sensi del citato decreto legislativo n. 42 del 2004 “la volumetria dell’edificio preesistente costituisce attualmente l’unico parametro edilizio ed urbanistico che non può essere travalicato affinché l’intervento di demolizione e ricostruzione rientri nella fattispecie della ristrutturazione edilizia (…). In quest’ottica (…) la volumetria preesistente rappresenta lo standard massimo di edificabilità, cioè il limite massimo di volume edificabile, quando si tratta di interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e ricostruzione, per i quali la norma non consente aumenti complessivi della cubatura preesistente”.
Di conseguenza, secondo il C.S.L.P. “
interventi di demolizione e ricostruzione che non sfruttino l’intera volumetria preesistente, ma ne ricostruiscano soltanto una quota parte (…) appaiono rientrare a pieno titolo nella fattispecie della ristrutturazione edilizia, come definita a termini di legge, risultando pienamente in linea con le (…) finalità
”.
Sulla base dei chiarimenti resi dal predetto autorevole Organo Collegiale,
si ritiene, dunque che nel caso in cui il contribuente abbia realizzato un intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e successiva ricostruzione, che abbia prodotto un edificio con volumetria inferiore rispetto all’immobile preesistente, potrà beneficiare delle agevolazioni fiscali in argomento, sempre che siano pienamente rispettati tutti i requisiti imposti dalle relative normative in materia.

EDILIZIA PRIVATASconto fiscale top. Ampliato l’accesso all’ecobonus. Risposte delle Entrate in tema di ristrutturazioni.
Il bonus di riqualificazione energetico comprende l'immobile ricostruito, anche se più piccolo del precedente. Lo stesso vale per il rifacimento del tetto condominiale a spese di uno solo dei condomini (proprietari).
Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate nella risposta 27.06.2019 n. 210 e n. 213, pubblicate ieri, sull'applicabilità della detrazione fiscale per il risparmio energetico derivante dalla ristrutturazione di un edificio.
Il contribuente, nel caso di un intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e successiva ricostruzione, che ha prodotto un edificio con sagoma diversa e volumetria inferiore rispetto all'immobile preesistente, potrà beneficiare della detrazione delle spese sostenute per la riqualificazione energetica, sempre che siano pienamente rispettati i limiti di efficienza e trasmittanza energetica imposti dalla normativa in materia.
Tuttavia, ciò non vale nel caso in cui l'intervento in questione sia riferito ad un immobile non sottoposto ai vincoli previsti dal dlgs n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e paesaggio) dove, per definirsi ristrutturazione edilizia ed accedere all'agevolazione fiscale, l'intervento deve rispettare il requisito della “medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Per gli interventi di rifacimento del tetto condominiale, il contribuente, che da solo ha sostenuto le spese, ha diritto alla detrazione per il totale delle spese sostenute, anche eccedenti rispetto a quelle a lui imputabili in base ai millesimi di proprietà, comunque entro il limite massimo di 60mila euro (articolo 1, comma 345, legge 296/2006). Il condomino, per i lavori delle aree comuni, infatti, può sfruttare interamente il limite di detrazione previsto per la propria unità immobiliare, ma non può avvalersi dei limiti attribuibili ad altre unità immobiliari del medesimo condominio.
Inoltre, in presenza di una convenzione stipulata in forma scritta tra tutti i condomini, che attribuisce al condomino la possibilità di sostenere le spese di rifacimento del tetto, permette allo stesso di poter cedere la detrazione sulla spesa sostenuta per l'esecuzione dei lavori.
Compenso Ctu. Obbligo di fattura elettronica, ai fini Iva, anche ai compensi derivanti dall'attività di consulente tecnico d'ufficio (Ctu). Il reddito derivante dall'attività di Ctu resa nell'ambito di un giudizio civile, se è svolta con carattere di abitualità da parte del professionista, infatti, dovrà essere assoggettato al regime del reddito di lavoro autonomo, di cui all'articolo 53, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir).
È la risposta dell'Agenzia delle entrate n. 211, pubblicata ieri.
Con riferimento alla ritenuta d'acconto Irpef, essa dovrà essere versata all'Erario, non dall'Amministrazione della giustizia, ma dalla parte soccombente, titolare passivo del rapporto di debito nei confronti del consulente ed esposta all'obbligo di sopportare l'onere economico, ricompresa tra i soggetti che rivestono la qualifica di sostituto d'imposta, dovuta in caso di corresponsione di compensi costituenti per il percipiente reddito di lavoro autonomo (articolo 25, comma 1, dpr n. 600 del 1973).
Qualora, invece, la parte soccombente non rivestisse la qualifica di sostituto d'imposta, la ritenuta d'acconto Irpef non dovrà essere operata e, dunque, non dovrà essere evidenziata in fattura dal consulente.
Avviso «Smart cities and Communities and Social Innovation». I «contributi in natura», erogati dal Miur nell'ambito dell'Avviso «Smart cities and Communities and Social Innovation», si configurano come misure finalizzate a sostenere l'attività di ricerca imponibili ai fini Irpef quali redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.
Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate nella risposta n. 214 di ieri.
Secondo l'Agenzia, la rilevanza fiscale di tali somme è, infatti, da ravvisarsi nelle finalità e nell'oggetto di attività di ricerca, che induce a ricondurre tali contributi, anche se erogati sotto forma di rimborso spese, tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.
In relazione alla ritenuta sui redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, le ritenute alla fonte sui «contributi in natura» devono essere riscosse mediante versamento diretto e devono essere versate entro il giorno sedici del mese successivo a quello in cui le ritenute sono state operate
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Fruizione delle agevolazioni per riqualificazione energetica degli edifici e per interventi di recupero del patrimonio edilizio in caso di demolizione e ricostruzione dell’immobile con volumetria inferiore rispetto a quello preesistente – Articoli 1, commi da 344 a 349, della legge n. 296 del 2006 e 16-bis del TUIR. Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risposta 27.06.2019 n. 210).
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QUESITO
“ALFA” chiede un parere circa l’applicabilità della detrazione fiscale per il risparmio energetico derivante dalla ristrutturazione di un edificio ai sensi della legge 27.12.2006 n. 296, del DM 19.02.2007 e della legge 27.12.2017, n. 205.
In particolare, il caso posto all’esame dall’istante riguarda un edificio residenziale unifamiliare esistente, sottoposto a ristrutturazione edilizia mediante demolizione e successiva ricostruzione.
“ALFA” riferisce che l’edificio risultante a seguito dell’intervento edilizio ha una diversa sagoma rispetto al precedente, e un indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale inferiore a quello massimo prescritto dall’allegato A del DM 11.03.2008.
Inoltre, l’istante riferisce che il volume del fabbricato nello stato legittimo ante operam ammontava a … mc, mentre il volume del fabbricato ricostruito ammonta a … mc, con una diminuzione, quindi, dell’1,5%.
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Con riferimento alla fattispecie in esame, il contribuente dichiara di aver ristrutturato un edificio ad uso residenziale mediante intervento di demolizione e successiva ricostruzione che ha prodotto un edificio con sagoma diversa e volumetria lievemente inferiore rispetto all’immobile preesistente.
Occorre pertanto chiarire se tale tipo di intervento possa rientrare o meno tra quelli agevolabili ai sensi della normativa indicata in premessa.
Al riguardo, si evidenzia che il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (di seguito, C.S.L.P.), nell’adunanza collegiale straordinaria del 16.07.2015, ha chiarito alcune questioni interpretative relative all’articolo 3, lettera d), del Testo Unico dell’edilizia, come modificato dall’articolo 30, comma 1, lettera d), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98), sorte ai fini dell’applicazione delle agevolazioni in materia di interventi di ristrutturazione edilizia e riqualificazione energetica di edifici esistenti.
In particolare, in tale parere
il C.S.L.P. ha espresso l’avviso secondo cui “le modifiche apportate alla definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui al comma 1, lett. d), dell’articolo 3 del d.P.R. 380/2001 (…) consentono (…) di ritenere che gli interventi di demolizione e ricostruzione, anche con volumetria inferiore rispetto a quella preesistente, rientrino in questa fattispecie”.
Ad avviso del C.S.L.P., dalle richiamate modifiche, consegue che,
per gli interventi di ristrutturazione edilizia non soggetti ai vincoli ai sensi del citato decreto legislativo n. 42 del 2004 “la volumetria dell’edificio preesistente costituisce attualmente l’unico parametro edilizio ed urbanistico che non può essere travalicato affinché l’intervento di demolizione e ricostruzione rientri nella fattispecie della ristrutturazione edilizia (…). In quest’ottica (…) la volumetria preesistente rappresenta lo standard massimo di edificabilità, cioè il limite massimo di volume edificabile, quando si tratta di interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e ricostruzione, per i quali la norma non consente aumenti complessivi della cubatura preesistente”.
Di conseguenza, secondo il C.S.L.P.
“interventi di demolizione e ricostruzione che non sfruttino l’intera volumetria preesistente, ma ne ricostruiscano soltanto una quota parte (…) appaiono rientrare a pieno titolo nella fattispecie della ristrutturazione edilizia, come definita a termini di legge, risultando pienamente in linea con le (…) finalità”.
Tali conclusioni muovono da un’analisi dell’evoluzione della normativa edilizia, culminata con le modifiche apportate all’art. 3 del Testo Unico dell’Edilizia dall’articolo 17 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (c.d. decreto Sblocca Italia), sempre nell’ottica di “semplificare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese”.
Sulla base dei chiarimenti resi dal predetto autorevole Organo Collegiale, si ritiene, dunque che nel caso in cui il contribuente abbia realizzato un intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e successiva ricostruzione, che abbia prodotto un edificio con sagoma diversa e volumetria inferiore rispetto all’immobile preesistente, potrà beneficiare della detrazione delle spese sostenute per la riqualificazione energetica, sempre che siano pienamente rispettati i limiti di efficienza e trasmittanza energetica imposti dalla normativa in materia.
Si precisa, infine, che tale soluzione vale nel caso in cui l’intervento in questione sia riferito ad un immobile non sottoposto ai vincoli previsti dal citato decreto legislativo n. 42 del 2004; in tale ultimo caso, infatti, come già evidenziato, ai sensi dell’articolo 3 della lettera d) del Testo Unico dell’edilizia, l’agevolazione fiscale in argomento non potrebbe essere riconosciuta, in quanto l’intervento sull’edificio non potrebbe definirsi di “ristrutturazione edilizia” non essendo rispettato il requisito della “medesima sagoma dell’edificio preesistente” richiesto dalla norma.

EDILIZIA PRIVATA - VARIOGGETTO: Guida alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche relativa all’anno d’imposta 2018: spese che danno diritto a deduzioni dal reddito, a detrazioni d’imposta, crediti d’imposta e altri elementi rilevanti per la compilazione della dichiarazione e per l’apposizione del visto di conformità (Agenzia delle Entrate, circolare 31.05.2019 n. 13/E).
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Di particolare interesse, si legga a pag. 234 a seguire:
  
Spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio, per misure antisismiche e bonus verde (Righi E41/E53, quadro E, sez. IIIA e IIIB) - Art. 16-bis del TUIR - Art. 16 del decreto legge n. 63 del 2013 – art. 1, commi 12-15, legge 27.12.2017, n. 205 - decreto interministeriale 18.02.1998
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Interventi che danno diritto alla detrazione
L’agevolazione riguarda le spese sostenute nel corso dell’anno per interventi effettuati su singole unità immobiliari residenziali e su parti comuni di edifici residenziali situati nel territorio dello Stato. Sono esclusi gli edifici a destinazione produttiva, commerciale e direzionale.
Per l’individuazione delle abitazioni residenziali ammesse all’agevolazione, non deve essere utilizzato un principio di prevalenza delle unità immobiliari destinate ad abitazione rispetto a quelle destinate ad altri usi ed è, quindi, ammessa al beneficio fiscale l’abitazione, realmente utilizzata come tale, ancorché unica all’interno di un edificio (ad esempio, l’unità immobiliare adibita ad alloggio del portiere per le cui spese di ristrutturazione i singoli condòmini possono calcolare la detrazione in ragione delle quote millesimali di proprietà) (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.1).
Sono compresi nell’ambito applicativo della disposizione tutti gli interventi, anche innovativi, realizzati su pertinenze o su aree pertinenziali (senza alcun limite numerico) già dotate del vincolo di pertinenzialità con l’unità immobiliare principale (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.3).
In caso di interventi realizzati sulle parti comuni di un edificio, le relative spese possono essere considerate, ai fini del calcolo della detrazione, soltanto se riguardano un edificio residenziale considerato nella sua interezza. Qualora la superficie complessiva delle unità immobiliari destinate a residenza ricomprese nell’edificio sia superiore al 50 per cento, è possibile ammettere alla detrazione anche il proprietario e il detentore di unità immobiliari non residenziali che sostengano le spese per le parti comuni.
Se tale percentuale risulta inferiore, è comunque ammessa la detrazione per le spese realizzate sulle parti comuni da parte dei possessori o detentori di unità immobiliari destinate ad abitazione comprese nel medesimo edificio (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.2). La detrazione per gli interventi realizzati sulle parti comuni spetta anche ai proprietari di soli box o cantine.
Gli interventi edilizi agevolabili, sotto il profilo tecnico e nei loro contenuti, sono classificati e dettagliatamente definiti dall’art. 3 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con DPR n. 380 del 2001. In sostanza, al fine di definire ciò che beneficia dell’agevolazione fiscale, il legislatore rimanda alla legge quadro sull’edilizia.
Interventi edilizi di cui alle lettere a), b), c) e d) dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni, la detrazione spetta per le spese di:
   − manutenzione ordinaria (lett. a) ;
   − manutenzione straordinaria (lett. b);
   − restauro e di risanamento conservativo (lett. c);
   − ristrutturazione edilizia (lett. d).
Per gli interventi effettuati sulle singole unità immobiliari e/o sulle relative pertinenze, la detrazione compete per le medesime spese, ad eccezione di quelle relative alla manutenzione ordinaria.
L’agevolazione è riferita ad interventi eseguiti su singole unità immobiliari residenziali, di qualsiasi categoria catastale, anche rurali e sulle loro pertinenze, accatastate o in via di accatastamento.
Gli interventi devono essere eseguiti su edifici esistenti e non devono realizzare una nuova costruzione (Circolare 11.05.1998 n. 121, paragrafo 4). Unica eccezione è rappresentata dalla realizzazione di autorimesse o posti auto pertinenziali.
Gli interventi previsti in ciascuna delle categorie edilizie sopra richiamate sono, di norma, integrati o correlati ad interventi di categorie diverse; ad esempio, negli interventi di manutenzione straordinaria sono necessarie, per completare l’intervento edilizio nel suo insieme, opere di pittura e finitura ricomprese in quelle di manutenzione ordinaria.
Pertanto, al fine dell’esatta individuazione degli interventi da realizzare e della puntuale applicazione delle disposizioni agevolative, occorre tener conto del carattere assorbente della categoria “superiore” rispetto a quella “inferiore” (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.4).
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Ristrutturazione edilizia - Art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001
Gli interventi di ristrutturazione edilizia sono quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino e la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di elementi ed impianti che possono portare ad un edificio parzialmente o completamente diverso dal preesistente. Gli effetti di tale trasformazione sono tali da incidere sui parametri urbanistici al punto che l’intervento stesso è considerato di “trasformazione urbanistica” e, come tale, soggetto al relativo titolo abilitativo (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.4).
È possibile, ad esempio, fruire della detrazione d’imposta, in caso di lavori in un fienile che risulterà con destinazione d’uso abitativo solo a seguito dei lavori di ristrutturazione che il contribuente intende realizzare purché nel provvedimento amministrativo che autorizza i lavori risulti chiaramente che gli stessi comportano il cambio di destinazione d’uso del fabbricato, già strumentale agricolo, in abitativo (Risoluzione 08.02.2005 n. 14).
L’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, così come riformulato dall’art. 30, comma 1, lett. a), del DL n. 69 del 2013, ridefinisce la fattispecie degli interventi di ristrutturazione edilizia eliminando il riferimento al rispetto della “sagoma” per gli interventi di demolizione e successiva ricostruzione ed imponendo il solo rispetto della volumetria preesistente fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
Poiché la nozione di sagoma edilizia è intimamente legata anche all’area di sedime del fabbricato e considerato che il legislatore ha eliminato il riferimento al rispetto della sagoma per gli immobili non vincolati, la detrazione è ammessa anche se l’intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione comporti anche lo spostamento di lieve entità rispetto al sedime originario (risposta all’Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-01866 del 14.01.2014).
Con gli interventi di ristrutturazione edilizia è possibile aumentare la superficie utile, ma non il volume preesistente.
Nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele ricostruzione, nel rispetto della volumetria dell’edificio preesistente (fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, di cui all’articolo 3, lettera d), del DPR n. 380 del 2001); conseguentemente, in caso di demolizione e ricostruzione con ampliamento della volumetria preesistente, la detrazione non spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione”.
Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (
adunanza collegiale straordinaria del 16.07.2015), nel chiarire alcune questioni interpretative relative al citato art. 3, comma 1, lettera d), DPR n. 380 del 2001, ha precisato, invece, che “la volumetria preesistente rappresenta lo standard massimo di edificabilità, cioè il limite massimo di volume edificabile, quando si tratta di interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e ricostruzione, per i quali la norma non consente aumenti complessivi della cubatura preesistente”.
Di conseguenza, secondo il citato Consiglio Superiore, “
interventi di demolizione e ricostruzione che non sfruttino l’intera volumetria preesistente, ma ne ricostruiscano soltanto una quota parte (…) appaiono rientrare a pieno titolo nella fattispecie della ristrutturazione edilizia”.
Pertanto,
nel caso in cui siano realizzati interventi edilizi di demolizione e successiva ricostruzione con una volumetria inferiore rispetto a quella preesistente, le relative spese potranno beneficiare della detrazione
.
Qualora, invece, la ristrutturazione avvenga senza demolizione dell’edificio esistente e con ampliamento dello stesso, la detrazione compete solo per le spese riferibili alla parte esistente in quanto l’ampliamento configura, comunque, una “nuova costruzione”. Tali criteri sono applicabili anche agli interventi di ampliamento previsti in attuazione del Piano Casa (Risoluzione 04.01.2011 n. 4).
Il contribuente ha l’onere di mantenere distinte, in termini di fatturazione, le due tipologie di intervento (ristrutturazione e ampliamento) o, in alternativa, essere in possesso di un’apposita attestazione che indichi gli importi riferibili a ciascuna tipologia di intervento, rilasciata dall’impresa di costruzione o ristrutturazione sotto la propria responsabilità, utilizzando criteri oggettivi.
In caso di ristrutturazione con ampliamento di un box pertinenziale la detrazione spetta anche per le spese relative all’ampliamento a condizione che lo stesso sia funzionale alla creazione di un nuovo posto auto.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Articolo 16-bis, comma 3 del TUIR di cui al d.P.R. 22.12.1986, n. 917 - Detrazione per le spese riferibili alla parte esistente oggetto di ristrutturazione dell’edificio esistente e con ampliamento (Agenzia delle Entrate, risposta 21.05.2019 n. 150).
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La società istante ALFA, (d’ora in poi anche "la società"), è un’impresa immobiliare di costruzione per la rivendita. Recentemente ha acquistato un immobile oggetto di un intervento edilizio.
Tale intervento consiste nella ristrutturazione dell’immobile per mq XXX e nell’ampliamento per mq XXX di superficie utile; tale ampliamento di fatto, però, non risulta dal permesso di costruire che è stato rilasciato come un permesso per ristrutturazione edilizia.
Poiché la destinazione d’uso è cambiata da commerciale ad abitativa cambia anche il calcolo della superficie edificabile; la maggiore superficie realizzabile è dovuta al fatto che alcuni vani “tecnici”, che prima costituivano superficie complessiva, ora non vengono più computati, per cui è possibile edificare più metri di superficie utile. La parte ristrutturata corrisponde al 71% circa e la parte ampliata al 29% circa dell’intero edificio.
Tanto premesso, la società istante, che a breve dovrà incominciare a stipulare i primi contratti preliminari e/o proposte di acquisto, chiede di sapere se sulle unità immobiliari cedute i futuri acquirenti potranno godere della detrazione di cui all’articolo 16-bis, comma 3, del TUIR.
Se, invece, non fosse possibile fruire del bonus fiscale per intero, l’istante chiede se detto intervento possa essere considerato come mera ristrutturazione edilizia scorporando, in proporzione dal prezzo di vendita delle singole unità immobiliari, la quota parte relativa all’ampliamento.
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PARERE DELL’AGENZIA DELL’ENTRATE
Per le ragioni di seguito esposte, si ritiene che gli acquirenti dell’immobile ceduto dall’istante potranno fruire della detrazione di cui all’articolo 16-bis, comma 3, del TUIR solo per le spese riferibili alla parte esistente, sul presupposto che i lavori effettuati consistano in una ristrutturazione senza demolizione dell’edificio esistente con ampliamento dello stesso.
La detrazione richiamata dall’articolo 16-bis, comma 3, del TUIR opera, tra l’altro, nel caso di ristrutturazione edilizia di cui alle lettere c) e d) dell’articolo 3, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In particolare, la lettera d) dell’articolo 3, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 definisce “interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Si rappresenta che
la qualificazione delle opere edilizie spetta, in ultima analisi, al Comune o ad altro ente territoriale, in qualità di organo competente in tema di classificazioni urbanistiche e che la condizione di rispetto della volumetria dell’edificio preesistente deve essere asserita da professionisti abilitati in sede di presentazione del progetto al competente Sportello Unico per l’Edilizia.
Ai fini delle agevolazioni in esame
è necessario che dal titolo amministrativo di autorizzazione dei lavori risulti che l’opera consiste in un intervento di conservazione del patrimonio edilizio esistente (cfr. articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001) e non in un intervento di nuova costruzione (cfr. articolo 3, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 380 del 2001), purché risulti invariata la volumetria, perciò inquadrabile come fedele ricostruzione ex articolo 3, comma 2, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sostanzialmente quello che la disposizione normativa richiede è che la volumetria dell’edificio sottoposto a lavori di ristrutturazione rimanga identica a quella preesistente ai lavori stessi.

In relazione agli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici, è stato acquisito il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Il Servizio Tecnico Centrale del detto Consiglio, in data 17.04.2018, ha comunicato il parere n. 27/2018 espresso dalla Prima Sezione del Consesso nell’adunanza del 22.03.2018.
Tale parere ha specificato che rientrano tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 quelli di demolizione e ricostruzione di un edificio con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, e, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli, di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione che rispettino la medesima sagoma dell’edificio preesistente.
Infatti, come chiarito con circolare del 04.04.2018, n. 7/E, pag. 238 e seguenti, in merito agli interventi di ristrutturazione edilizia ex articolo 3, comma 1, lettera d), del Testo Unico dell’Edilizia nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione,
la detrazione compete solo in caso di fedele ricostruzione, nel rispetto della volumetria dell’edificio preesistente; conseguentemente, nell’ipotesi di demolizione e ricostruzione con ampliamento della volumetria preesistente, la detrazione non spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione”.
Qualora, invece, la ristrutturazione avvenga senza demolizione dell’edificio esistente e con ampliamento dello stesso, la detrazione per i futuri acquirenti compete solo per le spese riferibili alla parte esistente in quanto l’ampliamento configura, comunque, una “nuova costruzione”.
Dall’esame dell’istanza e della documentazione integrativa acquisita con emerge che la società ALFA, oltre ad aver effettuato dei lavori di ristrutturazione, ha anche costruito un avancorpo commerciale. La parte ristrutturata corrisponde al 71% circa e la parte ampliata al 29% circa dell’intero edificio.
L’istante ha precisato che comunque tale operazione non ha avuto impatti sulla volumetria, in quanto la superficie complessiva è rimasta identica a quella dell’edificio preesistente in virtù del cambio di destinazione d’uso dell’immobile oggetto d’intervento da uso commerciale a uso civile. Tuttavia, a sostegno di tale affermazione non è stato prodotto alcun documento tecnico che possa provare quanto asserito dall’istante.
Pertanto, nel caso di specie la fruizione della detrazione di cui all’articolo 16-bis, comma 3, del TUIR è consentita, come chiarito nella circolare del 04.04.2018, n. 7/E, solo per le spese riferibili alla parte esistente, sul presupposto che i lavori effettuati consistano in una ristrutturazione senza demolizione dell’edificio esistente e con ampliamento dello stesso. Bisognerà mantenere distinte, in termini di fatturazione, le due tipologie di intervento o, in alternativa, essere in possesso di un’apposita attestazione che indichi gli importi riferibili a ciascuna tipologia di intervento, rilasciata dall’impresa di costruzione o ristrutturazione sotto la propria responsabilità, utilizzando criteri oggettivi.

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Al riguardo si legga anche:
  
Ristrutturazione con ampliamento: ok alla detrazione fiscale ma solo per una parte - Il Bonus ristrutturazioni compete esclusivamente per le spese riferibili alla porzione esistente e non a quella che, invece, configura una “nuova costruzione” (22.05.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATAEDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, luglio 2019).
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Per quanto riguarda la guida “Ristrutturazioni edilizie: le agevolazioni fiscali”, come si ricorderà, dal 30.06.2019 (data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 34/2019) i contribuenti che beneficiano della detrazione spettante per gli interventi effettuati per il conseguimento di risparmi energetici (cioè quelli indicati nell’articolo 16-bis, comma 1, lettera h, del Testo unico delle imposte sui redditi) possono scegliere di cedere il corrispondente credito in favore del fornitore dei beni e servizi necessari alla loro realizzazione.
A sua volta, il fornitore ha facoltà di cedere il credito d’imposta ricevuto ai suoi fornitori di beni e servizi, con esclusione della possibilità di ulteriori cessioni da parte di questi ultimi. Non è prevista, in ogni caso, la cessione a istituti di credito e a intermediari finanziari.
Con il
provvedimento 31.07.2019 n. 660057/2019 di prot. l’Agenzia delle entrate ha stabilito che la cessione dei crediti va comunicata, a pena d’inefficacia, entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese che danno diritto alle detrazioni e con le stesse modalità specificate dal provvedimento del 18.04.2019 (punto 4). I crediti ceduti sono utilizzabili dal cessionario, esclusivamente in compensazione, in 10 quote annuali di pari importo.
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni degli edifici sarà l’amministratore del condominio a dover comunicare la cessione sempre entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese, ma con le modalità individuate dal provvedimento del 28.08.2017 (punto 4.2).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Interpello n. 904-686/2018 - Istanza di Interpello art. 11 legge 212/2000 - COMUNE DI CISANO BERGAMASCO (Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia, interpello 13.06.2018 n. 86936 di prot.).
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QUESITO
Il Comune di Cisano Bergamasco, per il tramite del rappresentante legale, chiede chiarimenti in merito all'esatta definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia disciplinati dall'art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001.
In particolare, l'ente locale istante -dopo aver illustrato le modifiche legislative che hanno interessato la norma recata dal predetto art. 3, comma 1, lett. d), evidenzia che l'intervento di demolizione e ricostruzione di un fabbricato è qualificabile come intervento di ristrutturazione edilizia secondo la normativa di settore, solo nel caso in cui venga rispettata la volumetria originaria (non la sagoma) dell'unità immobiliare demolita.
In proposito, viene richiamata la risoluzione n. 34/E del 27.04.2018, con la quale, sulla base di un parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, è stato ribadito che "rientrano tra gli interventi di ristrutturazione edilizia quelli di demolizione e ricostruzione di un edificio con la stessa volumetria di quello preesistente".
Ciò posto,
l'ente locale istante, in qualità di soggetto preposto al rilascio del titolo abilitativo alla realizzazione dell'intervento, chiede di specificare:
   · cosa si intende per "stessa volumetria di quello preesistente";
   · se i lavori edilizi di demolizione e successiva ricostruzione di un fabbricato con una volumetria inferiore a quella preesistente possano essere definiti come interventi di ristrutturazione edilizia.
Più specificatamente, il comune interpellante chiede di sapere se nel caso di errata qualificazione dell'intervento edilizio (esempio intervento di nuova costruzione come intervento di ristrutturazione edilizia e viceversa) da parte dell'Ufficio tecnico del Comune, lo stesso ente sia responsabile dell'indebita fruizione delle detrazioni di imposta previste dall'art. 16-bis del TUIR.
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Contrariamente alle previsioni appena richiamate, il quesito rappresentato nell'istanza in esame non riguarda l'interpretazione di una norma tributaria i cui effetti ricadono nella sfera giuridica del Comune istante, ma concerne una problematica di carattere non fiscale, ovvero la riconducibilità o meno di un determinato intervento edilizio nell'ambito della "nuova costruzione" ovvero della "ristrutturazione edilizia".
Detta qualificazione, richiesta ai fini del rilascio da parte dell'ufficio tecnico del Comune del titolo abilitativo ai lavori, comporta valutazioni tecniche -che attengono l'interpretazione della normativa urbanistica di settore recata dal DPR n. 380 del 2001- che esulano dalla competenza dell'Agenzia delle entrate.
Si rappresenta, ad ogni buon fine, che per quanto concerne la riconducibilità dei lavori di demolizione e ricostruzione di un fabbricato nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia, si ribadiscono i chiarimenti forniti con i documenti di prassi richiamati dall'istante (da ultimo circolare 7/E del 2018).
Si rileva, inoltre, che
in virtù delle modifiche normative intervenute in materia, è stata altresì avviata, tramite le strutture centrali dell'Agenzia delle Entrate, un'apposita istruttoria presso il Ministero competente, il cui esito verrà prontamente reso noto.
Si fa presente, infine, che
l'unico soggetto responsabile di fronte l'Agenzia delle Entrate dell'indebita fruizione delle detrazioni di imposta di cui all'art. 16-bis del TUIR, fatte salve eventuali responsabilità di tipo civilistico, è il contribuente che ha illegittimamente beneficiato della detrazione Iperf per le spese sostenute per la realizzazione di intervento edilizio erroneamente qualificato come ristrutturazione edilizia dall'Ufficio comunale competente.

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpello art. 11, legge 27.07.2000, n. 212- Riconducibilità degli interventi di demolizione e ricostruzione tra gli interventi relativi alla adozione di misure antisismiche per le quali è possibile fruire della detrazione di imposta ai sensi dell’art. 16 del Decreto Legge 04.06.2013, n. 63 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 27.04.2018 n. 34/E).
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QUESITO
I Sig.ri Alfa, Beta e Gamma, comproprietari, ciascuno per un terzo, di una unità immobiliare sita nel Comune X, dichiarata inagibile a seguito del terremoto verificatosi nelle Marche nel 1972, volendo procedere alla demolizione e alla fedele ricostruzione dell’immobile, pongono i seguenti quesiti:
   1) se spetti la detrazione di imposta di cui all’art. 1-quater del D.L. n. 63 del 2013, consistente nella detrazione dell’80 per cento, con tetto massimo di spesa incentivabile di 96.000 euro, in relazione a spese per l’intervento di demolizione e fedele ricostruzione, con riduzione di due classi di rischio sismico, di unità immobiliare attualmente censita nella categoria catastale F/2 (unità collabenti), in quanto danneggiata dal sisma;
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Ciò premesso, relativamente al quesito rappresentato al punto 1), la scrivente fa presente che
il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, con il parere n. 27/2018, ha precisato che rientrano tra gli interventi di “ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 380 del 2001 (Testo Unico dell’Edilizia) quelli di demolizione e ricostruzione di un edificio con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, e, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli, di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione che rispettino la medesima sagoma dell’edificio preesistente.
Con il medesimo parere, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha ritenuto che gli interventi di demolizione e ricostruzione come sopra rappresentati, progettati ed eseguiti in conformità alle vigenti norme tecniche per le costruzioni, rappresentino una efficace strategia di riduzione del rischio sismico su una costruzione non adeguata alle norme tecniche medesime e, pertanto, “dal punto di vista tecnico, detti interventi possono certamente rientrare fra quelli di cui all’art. 16-bis, comma 1, lett. i), del TUIR, relativi all’adozione di misure antisismiche”.
Ciò posto, sulla base del predetto parere,
si ritiene che gli interventi consistenti nella demolizione e ricostruzione di edifici adibiti ad abitazioni private o ad attività produttive possono essere ammessi alla detrazione di cui al citato art. 16 del decreto legge n. 63 del 2013, nel rispetto di tutte le condizioni previste dalla norma agevolativa, sempre che concretizzino un intervento di ristrutturazione edilizia e non un intervento di nuova costruzione.

EDILIZIA PRIVATA - VARIOGGETTO: Guida alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche relativa all’anno d’imposta 2017: spese che danno diritto a deduzioni dal reddito, a detrazioni d’imposta, crediti d’imposta e altri elementi rilevanti per la compilazione della dichiarazione e per l’apposizione del visto di conformità (Agenzia delle Entrate, circolare 27.04.2018 n. 7/E).
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Di particolare interesse, si legga da pag. 215 in avanti:
  
Spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio (Righi E41/E53, quadro E, sez. IIIA e IIIB) - Art. 16-bis del TUIR - decreto interministeriale 18.02.1998
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Aspetti generali
Dall’imposta lorda si detrae un importo pari al 36 per cento (elevato, dal 26.06.2012, al 50 per cento) delle spese sostenute per interventi di recupero del patrimonio edilizio realizzati su parti comuni di edifici residenziali e su singole unità immobiliari residenziali di qualsiasi categoria catastale e relative pertinenze. La detrazione, introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 449 del 1997, è stata resa permanente dall’art. 4 del DL n. 201 del 2011 che ha previsto l’introduzione nel TUIR dell’art. 16-bis.
La detrazione spetta anche nel caso di interventi di restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare e da cooperative edilizie che provvedano entro diciotto mesi (fino al 31.12.2014 erano sei mesi) dal termine dei lavori alla successiva alienazione o assegnazione dell’immobile.
La detrazione è ripartita in dieci rate annuali di pari importo.
In applicazione del criterio di cassa, la detrazione spetta nel periodo in cui le spese sono sostenute. La detrazione compete, pertanto, anche se il pagamento delle spese è eseguito in un periodo d’imposta antecedente a quello in cui sono iniziati i lavori o successivo a quello in cui i lavori sono completati (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 4).
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Interventi che danno diritto alla detrazione
L’agevolazione riguarda le spese sostenute nel corso dell’anno per interventi effettuati su singole unità immobiliari residenziali e su parti comuni di edifici residenziali situati nel territorio dello Stato. Sono esclusi gli edifici a destinazione produttiva, commerciale e direzionale.
Per l’individuazione delle abitazioni residenziali ammesse all’agevolazione, non deve essere utilizzato un principio di prevalenza delle unità immobiliari destinate ad abitazione rispetto a quelle destinate ad altri usi ed è, quindi, ammessa al beneficio fiscale l’abitazione, realmente utilizzata come tale, ancorché unica all’interno di un edificio (ad esempio, l’unità immobiliare adibita ad alloggio del portiere per le cui spese di ristrutturazione i singoli condòmini possono calcolare la detrazione in ragione delle quote millesimali di proprietà) (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.1).
Sono compresi nell’ambito applicativo della disposizione tutti gli interventi, anche innovativi, realizzati su pertinenze o su aree pertinenziali (senza alcun limite numerico) già dotate del vincolo di pertinenzialità con l’unità immobiliare principale (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.3).
In caso di interventi realizzati sulle parti comuni di un edificio, le relative spese possono essere considerate, ai fini del calcolo della detrazione, soltanto se riguardano un edificio residenziale considerato nella sua interezza. Qualora la superficie complessiva delle unità immobiliari destinate a residenza ricomprese nell’edificio sia superiore al 50 per cento, è possibile ammettere alla detrazione anche il proprietario e il detentore di unità immobiliari non residenziali che sostengano le spese per le parti comuni. Se tale percentuale risulta inferiore, è comunque ammessa la detrazione per le spese realizzate sulle parti comuni da parte dei possessori o detentori di unità immobiliari destinate ad abitazione comprese nel medesimo edificio (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.2).
La detrazione per gli interventi realizzati sulle parti comuni spetta anche ai proprietari di soli box o cantine.
Gli interventi edilizi agevolabili, sotto il profilo tecnico e nei loro contenuti, sono classificati e dettagliatamente definiti dall’art.3 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con DPR n. 380 del 2001. In sostanza, al fine di definire ciò che beneficia dell’agevolazione fiscale, il legislatore rimanda alla legge quadro sull’edilizia.
Interventi edilizi di cui alle lettere a), b), c) e d), dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni, la detrazione spetta per le spese di:
    manutenzione ordinaria (lett. a) ;
    manutenzione straordinaria (lett. b);
    restauro e di risanamento conservativo (lett. c);
    ristrutturazione edilizia (lett. d).
Per gli interventi effettuati sulle singole unità immobiliari e/o sulle relative pertinenze, la detrazione compete per le medesime spese, ad eccezione di quelle relative alla manutenzione ordinaria. L’agevolazione è riferita ad interventi eseguiti su singole unità immobiliari residenziali, di qualsiasi categoria catastale, anche rurali e sulle loro pertinenze, accatastate o in via di accatastamento.
Gli interventi devono essere eseguiti su edifici esistenti e non devono realizzare una nuova costruzione (Circolare 11.05.1998 n. 121, paragrafo 4). Fanno eccezione gli interventi relativi ai parcheggi pertinenziali nonché quelli di demolizione e “fedele ricostruzione”, sempre che dal titolo abilitativo risulti che rientrano nella categoria della ristrutturazione edilizia.
Gli interventi previsti in ciascuna delle categorie sopra richiamate sono, di norma, integrati o correlati ad interventi di categorie diverse; ad esempio, negli interventi di manutenzione straordinaria sono necessarie, per completare l’intervento edilizio nel suo insieme, opere di pittura e finitura ricomprese in quelle di manutenzione ordinaria.
Pertanto, al fine dell’esatta individuazione degli interventi da realizzare e della puntuale applicazione delle disposizioni agevolative, occorre tener conto del carattere assorbente della categoria “superiore” rispetto a quella “inferiore” (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.4).
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Ristrutturazione edilizia - Art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001
Gli interventi di ristrutturazione edilizia sono quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino e la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di elementi ed impianti che possono portare ad un edificio parzialmente o completamente diverso dal preesistente. Gli effetti di tale trasformazione sono tali da incidere sui parametri urbanistici al punto che l’intervento stesso è considerato di “trasformazione urbanistica” e, come tale, soggetto al relativo titolo abilitativo (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.4).
È possibile, ad esempio, fruire della detrazione d’imposta, in caso di lavori in un fienile che risulterà con destinazione d’uso abitativo solo a seguito dei lavori di ristrutturazione che il contribuente intende realizzare purché nel provvedimento amministrativo che autorizza i lavori risulti chiaramente che gli stessi comportano il cambio di destinazione d’uso del fabbricato, già strumentale agricolo, in abitativo (Risoluzione 08.02.2005 n. 14).
Attraverso gli interventi di ristrutturazione edilizia è possibile aumentare la superficie utile, ma non il volume preesistente.
Nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele ricostruzione, nel rispetto della volumetria dell’edificio preesistente (fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, di cui all’articolo 3, lettera d), del DPR n. 380 del 2001); conseguentemente, in caso di demolizione e ricostruzione con ampliamento della volumetria preesistente, la detrazione non spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione. Qualora, invece, la ristrutturazione avvenga senza demolizione dell’edificio esistente e con ampliamento dello stesso, la detrazione compete solo per le spese riferibili alla parte esistente in quanto l’ampliamento configura, comunque, una “nuova costruzione”. Tali criteri sono applicabili anche agli interventi di ampliamento previsti in attuazione del Piano Casa (Risoluzione 4.01.2011 n. 4).
Il contribuente ha l’onere di mantenere distinte, in termini di fatturazione, le due tipologie di intervento o, in alternativa, essere in possesso di un’apposita attestazione che indichi gli importi riferibili a ciascuna tipologia di intervento, rilasciata dall’impresa di costruzione o ristrutturazione sotto la propria responsabilità, utilizzando criteri oggettivi. In caso di ristrutturazione con ampliamento di un box pertinenziale la detrazione spetta anche per le spese relative all’ampliamento a condizione che lo stesso sia funzionale alla creazione di un nuovo posto auto.
L’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, così come riformulato dall’art. 30, comma 1, lett. a), del DL n. 69 del 2013, ridefinisce la fattispecie degli interventi di ristrutturazione edilizia eliminando il riferimento al rispetto della “sagoma” per gli interventi di demolizione e successiva ricostruzione ed imponendo il solo rispetto della volumetria preesistente fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica.
Poiché la nozione di sagoma edilizia è intimamente legata anche all’area di sedime del fabbricato e considerato che il legislatore ha eliminato il riferimento al rispetto della sagoma per gli immobili non vincolati, la detrazione è ammessa anche se l’intervento di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione comporti anche lo spostamento di lieve entità rispetto al sedime originario (risposta all’Interrogazione a risposta immediata in commissione 5-01866 del 14.01.2014).

Ed altri soggetti, ancora, hanno detto la loro...

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere - Interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione - Riduzione della volumetria preesistente e spostamento e spostamento di sedime - Art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001; art. 16-bis del DPR 917 del 1986; art. 1, commi 344-347 legge n. 296 del 2006 (Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Sez. I, nota 16.07.2015 n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: parere su ristrutturazione edilizia e su demolizione e ricostruzione con riduzione di volume (Regione Emilia Romagna, nota 15.05.2014 n. 209517 di prot.).
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Si risponde alla richiesta di parere relativamente a due quesiti.
   A. Il primo riguarda le modalità di esecuzione dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato con "conservazione dell'edificio". In particolare il quesito è diretto a saper se rientrano nella categoria di intervento significative riduzioni del volume e dell'area di sedime, nonché limitati aumenti del sedime senza incrementi volumetrici.
...
   B. Il secondo quesito è relativo alla classificazione dell'intervento di demolizione di un edificio e della conseguente ricostruzione con riduzione della volumetria preesistente. In particolare la richiesta è volta a conoscere se la coincidenza tra il volume demolito e quello ricostruito sia un requisito essenziale affinché l'intervento possa essere configurato nella ristrutturazione edilizia. (...continua).

Tuttavia, a questo punto, mancherebbe la "ciliegina" sulla torta e cioè (come ribadito dallo stesso C.S.LL.PP. nel proprio parere ut supra) che il M.I.T. (Ufficio Legislativo - competente per materia) dicesse la propria (definitivamente) di talché si apponga l'imprimatur alla tesi sopra esplicitata.

27.08.2019 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: Sulla questione interpretativa degli artt. 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato col d.lgs. n. 97 del 2016.
La legge propende per l’esclusione assoluta della disciplina dell’accesso civico generalizzato in riferimento agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
Tale esclusione consegue non ad incompatibilità morfologica o funzionale ma al delineato rapporto positivo tra norme, che non è compito dell’interprete variamente atteggiare, richiedendosi allo scopo, per l’incidenza in uno specifico ambito di normazione speciale, un intervento esplicito del legislatore.
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3. Col primo motivo (violazione degli artt. 3 e 5 e 5-bis, D.lgs.vo n. 33/2013 in relazione all’art. 53, D.lgs.vo n. 50/2016 e all’art. 13, D.lgs.vo n. 163/2006) si censurano le argomentazioni sopra riportate, premettendosi che l’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016 -così come già l’art. 13 del d.lgs. n. 163 del 2006 (fonte che regola la gara Consip cui inerisce l’istanza ostensiva di Di. s.r.l.)- opera espresso riferimento agli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, facendo salvo soltanto quanto espressamente previsto nel Codice dei contratti pubblici. A tale premessa si fanno seguire le osservazioni di cui appresso.
3.1. L’istituto dell’accesso civico è stato introdotto nell’ordinamento con il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, dunque anteriormente al vigente Codice dei contratti pubblici, istituito invece con d.lgs. 18.04.2016, n. 50; inoltre, l’accesso civico c.d. generalizzato -ovvero il diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti, cui la Di. ha ricondotto la propria istanza- è stato introdotto nel corpo del d.lgs. n. 33 del 2013 con il d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sicché ben avrebbe potuto essere inserito nel Codice dei contratti con il c.d. correttivo di cui al d.lgs. 19.04.2017, n. 56, se si fosse voluto consentire l’accesso civico generalizzato per la materia dei contratti pubblici; anche in applicazione del noto brocardo ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit, la circostanza sarebbe indicativa della volontà di escludere tale materia dall’ambito di applicazione del predetto istituto.
3.2. Sarebbe erronea la lettura che è stata fatta in sentenza dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, poiché la disposizione, da un lato reca un elenco specifico di ipotesi in cui l’accesso civico è escluso (commi 1 e 2), dall’altro annovera, tra i casi di esclusione, le ipotesi più generali in cui “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti” (comma 3): il sistema di accesso ai documenti nell’ambito dei contratti pubblici, come disciplinato attualmente dall’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, rientra tra le ipotesi eccettuate dall’art. 5-bis, comma 3, poiché soggiace ai limiti imposti dallo stesso art. 53, che, a sua volta, detta una disciplina speciale ed in parte anche derogatoria rispetto alle regole stabilite per l’accesso c.d. ordinario; di tale specialità è detto incidentalmente nella sentenza del Consiglio di Stato, V, 20.03.2019, n. 1817.
3.3. Nel caso di specie, per di più, l’accesso civico generalizzato si sarebbe dovuto escludere considerando le ragioni che, in concreto, hanno indotto Di. s.r.l. a formulare istanza di accesso, in qualità di partecipante alla gara indetta da Consip per l’affidamento del servizio, e considerando altresì l’interesse dichiarato a conoscere eventuali inadempienze nell’esecuzione del servizio, che potrebbero comportare la risoluzione del contratto per inadempimento e l’affidamento del servizio all’ATI seconda in graduatoria, di cui Di. s.r.l. è mandante.
Da ciò, l’inapplicabilità dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013, che presuppone che il diritto venga esercitato per lo scopo previsto dall’art. 1 di “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (come da giurisprudenza di merito richiamata nel ricorso: Tar Marche, sez. I, 18.10.2018, n. 677 e, sia pure in diversa materia, Tar Lazio, sez. I-quater, 28.03.2019, n. 4122).
3.4. La giurisprudenza di merito richiamata invece nella sentenza impugnata sarebbe non pertinente (come Tar Campania–Napoli, VI, 22.12.2017, n. 6028) ovvero non condivisibile (come Tar Lombardia–Milano, IV, 11.01.2019, n. 45, peraltro contraddetta da altra dello stesso Tar Lombardia–Milano, I, 25.03.2019, n. 630); in particolare, non sarebbe condivisibile l’assunto che la regola in materia di accesso è costituita dalla disciplina del d.lgs. n. 33 del 2016, laddove le eccezioni alla stessa devono essere interpretate restrittivamente e tra queste vi sarebbero appunto le ipotesi richiamate in via omnicomprensiva dal comma 3 dell’art. 5-bis: all’opposto, secondo l’appellante, l’ambito di esclusione dell’applicabilità dell’istituto non sarebbe circoscritto alle sole ipotesi di divieto, ma comprenderebbe quelle di accesso consentito con “specifiche condizioni, modalità o limiti”.
3.5. In una prospettiva teleologica e sistematica, andrebbe considerato che gli atti delle procedure di affidamento ed esecuzione dei contratti pubblici sono formati e depositati nel contesto di una disciplina speciale, che rappresenta un complesso normativo chiuso, comprendente anche la regolamentazione dell’accesso agli atti.
In tale prospettiva, risulta giustificata la scelta di non consentire un accesso indiscriminato a soggetti non qualificati, trattandosi di documentazione da un lato assoggettata ad un penetrante controllo pubblicistico da parte di enti istituzionalmente preposti alla vigilanza e dall’altro coinvolgente interessi di natura economica ed imprenditoriale di per sé sensibili (come da previsione dell’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33 del 2013, di cui il Tar Toscana non ha tenuto conto).
3.6. Quanto all’art. 5-bis, comma 6, sul quale si basa una delle argomentazioni della sentenza, va rilevato che le Linee Guida sono state effettivamente approvate dal Consiglio dell’ANAC con deliberazione del 28.12.2016, ma che sono state concertate con il Garante della Privacy, con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997 e con gli enti territoriali e che la vigilanza sul settore dei contratti pubblici non è l’unica affidata all’Autorità.
4. La società appellata Di. s.r.l. -dopo aver ribadito di essere titolare di un interesse qualificato, in quanto seconda in graduatoria e potenziale affidataria del servizio in caso di risoluzione del contratto per le asserite inadempienze di CNS- si difende richiamando le deduzioni svolte nel ricorso introduttivo in punto di ammissibilità dell’accesso civico generalizzato -sostanzialmente fatte proprie dalla sentenza gravata- e riferendo di altri arresti conformi dello stesso Tar Toscana, sez. III, 17.04.2019, n. 577 e sez. I, 26.04.2019, n. 611.
Quindi sostiene che “il cittadino, ai fini del controllo generalizzato sull’attività della P.A., ha certamente interesse a capire se un contratto è stato correttamente eseguito […]”, sicché l’interpretazione che esclude la possibilità di accesso agli atti esecutivi dei contratti pubblici sarebbe “completamente abrogatrice della norma sulla trasparenza”.
5. Il Collegio ritiene che il motivo di appello sia fondato e che le contrarie deduzioni dell’appellata vadano disattese.
Va premesso che l’accesso ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni è, oggi, regolato da tre diversi sistemi, ciascuno caratterizzato da propri presupposti, limiti ed eccezioni:
   - l’accesso documentale degli artt. 22 e seg. della legge 07.08.1990, n. 241;
   - l’accesso civico ai documenti oggetto di pubblicazione, già regolato dal d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
   - l’accesso civico generalizzato, introdotto dalle modifiche apportate a quest’ultimo impianto normativo dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97 (cfr., per le differenze tra i vari tipi di accesso, tra le altre Cons. Stato, IV, 12.08.2016, n. 3631 e, di recente, id., V, 20.03.2019, n. 1817).
5.1. Tale attuale coesistenza di tre istituti a portata generale, ma a diverso oggetto, comporta in principio che ciascuno sia, a livello ordinamentale, pari ordinato rispetto all’altro, di modo che: nei rapporti reciproci ciascuno opera nel proprio ambito, sicché non vi è assorbimento dell’una fattispecie in un’altra; e nemmeno opera il principio dell’abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva nel tempo (art. 15 disp. prel. al Cod. Civ.) tale che l’un modello di accesso sostituisca l’altro, o gli altri, in attuazione di un preteso indirizzo onnicomprensivo che tende ad ampliare ovunque i casi di piena trasparenza dei rapporti tra pubbliche amministrazioni, società e individui.
5.2. Siffatta ricostruzione incentrata sulla coesistenza di più modelli legali di accesso comporta una prima conseguenza, di ordine procedurale, ed anche processuale, concernente la qualificazione dell’istanza di accesso, in prima battuta, da parte dell’amministrazione interpellata e, quindi, da parte del giudice chiamato a pronunciarsi sul diniego o sul silenzio.
Nel caso in cui l’opzione dell’istante sia espressa per un determinato modello, resta precluso alla pubblica amministrazione –fermi i presupposti di accoglibilità dell’istanza- di diversamente qualificare l’istanza stessa al fine di individuare la disciplina applicabile; in correlazione, l’opzione preclude al privato istante la conversione in sede di riesame o di ricorso giurisdizionale (cfr., per l’inammissibilità dell’immutazione in corso di causa dell’actio ad exhibendum, pena la violazione del divieto di mutatio libelli e di ius novorum, Cons. Stato, IV, 28.03.2017, n. 1406 e id., V, n. 1817/2019 cit.).
Un tale rigore resta peraltro di fatto temperato dall’ammissibilità -affermata incidentalmente nei precedenti appena citati e qui ribadita- della presentazione cumulativa di un’unica istanza, ai sensi di diverse discipline, con evidente aggravio per l’amministrazione (del quale l’interprete non può che limitarsi a dare atto), dal momento che dovrà applicare e valutare regole e limiti differenti. Nulla infatti, nell’ordinamento, preclude il cumulo anche contestuale di differenti istanze di accesso.
5.2.1. Tale ultima evenienza non rileva ai fini della presente decisione. Infatti, sebbene la Di. s.r.l. abbia avanzato le diverse istanze al Comune di Scandicci, sopra indicate, cumulativamente fondate sugli artt. 22 e seg. della legge n. 241 del 1990, sull’art. 53 d.lgs. n. 50 del 2016 e sull’art. 3 del d.lgs. n. 33 del 2013, si è infine opposta, col ricorso introduttivo notificato il 29.10.2018, al diniego di cui alla nota dell’08.10.2018, deducendone, come unico motivo di gravame, l’illegittimità per violazione degli artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 33 del 2013.
5.2.2. Giova precisare, al fine di meglio chiarire i confini del giudizio di appello, che il Consorzio appellante non ha impugnato la decisione di rigetto dell’eccezione di irricevibilità del ricorso, che era stata formulata dal Comune di Scandicci (facendo leva sul carattere asseritamente riproduttivo del provvedimento impugnato, che avrebbe confermato un precedente diniego dell’amministrazione comunale non tempestivamente opposto).
Pertanto, la questione del rapporto tra le diverse istanze di accesso presentate dalla società Di. s.r.l. al Comune di Scandicci è estranea al perimetro della presente decisione.
5.3. Questo perimetro è piuttosto segnato dalla delimitazione fissata dalla stessa Di. s.r.l. quando, pur con qualche profilo di contraddittorietà in punto di individuazione dell’interesse al ricorso, ha tuttavia precisato di agire non per fare “valere (solo) la sua posizione di concorrente originaria, ma altresì quella di soggetto che può svolgere un accesso civico” e, come detto, ha denunciato la violazione delle norme in tema di accesso civico generalizzato.
5.3.1. L’oggetto del giudizio porta quindi alla questione del rapporto tra la normativa in tema di accesso civico e la normativa in tema di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
Tale rapporto è condizionato dalla detta coesistenza ordinamentale dei tre modelli di accesso ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni (e soggetti equiparati) attualmente disciplinati in via generale.
Se, come sopra rilevato, essi operano in posizione tra loro pari ordinata, risulta, proprio in ragione di ciò, più complesso il coordinamento di ciascuno con le discipline settoriali in tema di accesso tuttora vigenti con regole e limiti propri (non solo in materia di contratti pubblici, ma anche, tra l’altro, in materia ambientale e dell’ordinamento degli enti locali, nonché in materia di atti dello stato civile e atti conservati negli archivi di Stato e negli altri archivi disciplinati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, o in materia tributaria).
Si tratta di un coordinamento da effettuare volta a volta, verificando se la disciplina settoriale, da prendere prioritariamente in considerazione in ossequio al principio di specialità, consenta la reciproca integrazione ovvero assuma portata derogatoria.
6. Per come fatto palese dalla motivazione della sentenza impugnata e dai motivi di appello, nel caso di specie la questione si risolve nel giudicare se l’art. 53 (Accesso agli atti e riservatezza) del d.lgs. n. 50 del 2016 -il quale stabilisce che “salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”- comporti l’esclusione dell’applicabilità della disciplina dell’accesso civico, in particolare ai sensi dell’art. 5 -bis, comma 3 del d.lgs. n. 33 del 2013, per il quale “il diritto di cui all’art. 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’art. 24, comma 1, della l. 241 del 1990”.
6.1. Come è noto e come appare anche dai contrapposti richiami giurisprudenziali delle parti, sulla questione l’orientamento dei Tribunali amministrativi regionali è diviso: per un primo indirizzo i documenti afferenti alle procedure di affidamento ed esecuzione di un appalto sono esclusivamente sottoposti alla disciplina di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013; per l’indirizzo contrapposto, si deve invece riconoscere l’applicabilità della disciplina dell’accesso civico generalizzato anche alla materia degli appalti pubblici.
6.2. La presente vicenda allo stato decisa dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, con la sentenza qui appellata, pubblicata il 25.03.2019, n. 422, riflette tale contrasto.
Infatti, l’istanza di accesso al Comune di Scandicci è stata preceduta da analoghe istanze rivolte dalla società Di. s.r.l. a Consip s.p.a. in qualità di stazione appaltante della gara indetta da quest’ultima con bando del 23 maggio 2012 ed aggiudicata, per il Lotto 5 – Toscana, al r.t.i. costituito tra CN. (mandataria) e Pr.Ve. s.p.a., Te.Se. s.r.l., So. s.p.a. e Ex. s.p.a. (mandanti). A seguito del diniego opposto da Consip s.p.a. e del silenzio da questa serbato su un’ulteriore istanza avanzata richiamando espressamente l’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013, Di. s.r.l. ha proposto un separato ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, competente per territorio, notificato il 25.07.2018.
Quest’ultimo ricorso è stato deciso in primo grado con sentenza pubblicata il 14.01.2019, n. 425, che l’ha respinto, esprimendo l’indirizzo contrario a quello fatto proprio dalla sentenza oggetto del presente gravame.
La sentenza n. 425/2019 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Roma è stata, a sua volta, appellata con ricorso proposto da Di. s.r.l., iscritto al n. 1092/2019 R.G., trattato –in presenza delle parti private coincidenti con quelle del presente giudizio, ma a posizioni processuali invertite- nella stessa camera di consiglio del 13.06.2019 e deciso con separata sentenza.
7. Al fine di dare soluzione convergente alla medesima questione -differentemente risolta, nel giudizio di primo grado, nei confronti delle stesse parti private- si osserva quanto segue, condividendo e sviluppando le censure di cui alla seconda ed alla quarta delle argomentazioni dell’appellante.
L’art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, introdotto dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 97 del 2016, intitolato “esclusioni e limiti all’accesso civico” va considerato nella sua interezza, e non solo per quanto previsto dal comma 3.
I primi due comma si occupano dei limiti legali all’accesso civico generalizzato. Questi operano nel presupposto della legittimazione soggettiva generalizzata, quindi data a “chiunque” agisca uti cives, senza dover dimostrare la titolarità di una determinata situazione soggettiva.
Al riguardo, nonostante negli orientamenti di primo grado siano presenti affermazioni intese a valorizzare la motivazione della richiesta di accesso, va preferita l’opposta interpretazione, in linea con la previsione dell’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, che esclude la preventiva “funzionalizzazione” dell’accesso al raggiungimento delle finalità indicate nell’art. 5, comma 2 (favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico). Siffatte finalità vanno intese come quelle in base alle quali è riconosciuto al cittadino un diritto di accesso generalizzato (collegato peraltro all’esercizio di funzioni istituzionali nel senso già valorizzato nel precedente di questo Consiglio di Stato, VI, 25.06.2018, n. 3907) da bilanciare, nel caso concreto, con gli interessi confliggenti, pubblici e privati, elencati nei primi due comma dell’art. 5-bis in commento.
Resta poi –ma il tema è estraneo all’economia della presente decisione e dunque non qui è il caso di affrontarlo- la questione della serietà e della congruenza dell’istanza di accesso, che concerne il livello di apprezzabilità dell’interesse che la muove e della sua relazione con le finalità proprie dell’istituto.
La portata di detto bilanciamento di interessi contrapposti -che l’amministrazione deve effettuare ponendo in concreto a confronto l’interesse generale ed astratto alla conoscibilità del dato (prescindendo, quindi, come detto, dalla motivazione che muove l’istante) con il pericolo, invece concreto, di lesione che dalla pubblicazione e dalla divulgazione potrebbe ricevere il confliggente specifico interesse, pubblico o privato- palesa la significativa differenza tra la disciplina dell’accesso civico e quella dell’accesso documentale; in quest’ultima, infatti, la titolarità in capo all’istante di una posizione differenziata e specifica gli assicura una maggiore tutela nel rapporto con interessi contrapposti (tanto che è ripetuta, anche in giurisprudenza, l’affermazione che si rinviene nelle Linee Guida dell’ANAC, approvate con la deliberazione del 28 dicembre 2016, che l’accesso documentale consente “un accesso più in profondità a dati pertinenti” laddove l’accesso generalizzato è “meno in profondità”, ma “più esteso”: cfr. Cons. Stato, VI, 31.01.2018, n. 651 e, di recente, id., V, n. 1817 /2019 cit.).
7.1. La previsione dell’art. 5-bis, comma 3 si distingue da quella dei comma 1 e 2, appena detti, perché è disposizione volta a fissare, non i limiti relativi all’accesso generalizzato consentito a “chiunque”, bensì le eccezioni assolute, a fronte delle quali la trasparenza recede.
Anche la tecnica redazionale del comma si distingue da quella dei comma precedenti, poiché se è vero che l’art. 5-bis, comma 3, non sottrae al bilanciamento materie direttamente individuate dalla norma medesima (a differenza degli interessi, pubblici e privati, che sono individuati dal primo e dal secondo comma), resta che utilizza l’espressione generica di casi, che fanno eccezione assoluta, in modo da rinviare, per la loro individuazione, ad altre disposizioni di legge, direttamente o indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l’ampiezza dell’eccezione dipende dalla portata della normativa cui l’art. 5-bis, comma 3, rinvia). In particolare, sono sottratti al bilanciamento ed esclusi senz’altro dall’accesso generalizzato: i casi di segreto di Stato ed i casi di divieti di accesso o di divulgazione previsti dalla legge, i casi elencati nell’art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (che, al suo interno, ricomprende intere materie), i casi in cui “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”.
7.2. Il Collegio ritiene che, anche in ragione della peculiare tecnica redazionale appena detta, tale ultima eccezione assoluta ben possa essere riferita a tutte le ipotesi in cui vi sia una disciplina vigente che regoli specificamente il diritto di accesso, in riferimento a determinati ambiti o materie o situazioni, subordinandolo a “condizioni, modalità o limiti” peculiari; quindi, che l’eccezione non riguardi le ipotesi in cui la disciplina vigente abbia quale suo unico contenuto un divieto assoluto (o relativo) di pubblicazione o di divulgazione: se non altro perché tale ipotesi è separatamente contemplata nella medesima disposizione.
Con ciò -richiamando altresì quanto detto sopra a proposito dei rapporti tra discipline generali e discipline settoriali sull’accesso- non si ritiene che a queste seconde vada attribuita sempre e comunque portata derogatoria, quanto piuttosto che, come anticipato, occorra, volta a volta, verificare la compatibilità dell’istituto dell’accesso generalizzato con le “condizioni, modalità o limiti” fissati dalla disciplina speciale.
8. L’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2013 è in linea di sostanziale continuità con l’art. 13 del d.lgs. n. 163 del 2006 ed è coerente sia con la normativa eurounitaria precedente (art. 13 della direttiva 2004/17/CE e 6 della direttiva 2004/18/CE) sia con quella oggetto del recepimento di cui al vigente Codice dei contratti pubblici (art. 28 direttiva 2014/23/UE, art. 21 direttiva 2014/24/UE e art. 39 direttiva 2014/25/UE).
In coerenza con le richiamate disposizioni sovranazionali settoriali, nell’ordinamento interno, l’accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è regolato in termini impersonali quanto ai soggetti tenuti a garantirlo (che necessariamente si identificano con i soggetti che, indipendentemente dalla natura pubblica o privata, conducono la procedura secondo le regole del Codice) e ai soggetti titolari del diritto di accesso (che, per contro, non necessariamente si identificano nei “concorrenti”, salvo che non sia previsto come al comma 6).
I limiti oggettivi del diritto sono invece espressamente perimetrati mediante il rinvio agli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 e, quindi, mediante la fissazione delle deroghe del comma 2 (che elenca ipotesi di mero differimento) e del comma 5 (che elenca diverse ipotesi di esclusione assoluta ed un’ipotesi di esclusione relativa – quest’ultima dovuta all’eccezione alla lettera “a” posta dal comma 6). Tali specifiche ipotesi derogatorie rispondono a scopi connaturati alla particolare tipologia di procedimento ad evidenza pubblica, quale quello di preservarne la fluidità di svolgimento (tanto da sottrarre i documenti procedimentali, mediante il differimento, anche all’accesso che l’art. 10 della legge n. 241 del 1990 riconosce in ogni momento e fase ai partecipanti) e di limitare la possibilità di collusioni o di intimazioni degli offerenti. Al divieto di accesso (temporaneo, mediante differimento, od assoluto) si accompagna inoltre il divieto di divulgazione di cui all’art. 53, comma 3.
8.1. Tali deroghe specifiche potrebbero rientrare tra le eccezioni assolute all’accesso civico generalizzato riconosciute dall’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 perché si tratta di divieti di accesso e di divulgazione espressamente previsti dalla legge (come, d’altronde, è altresì per i contratti secretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di sicurezza, per i quali è appunto dettata un’apposita disciplina di secretazione, richiamata pure dalle Linee Guida ANAC del 2016).
Pertanto, rispetto alle ipotesi di cui ai comma dell’art. 53 successivi al comma 1 è del tutto “neutro” l’inciso finale dell’art. 5-bis, comma 3, laddove comprende tra le esclusioni assolute della disciplina dell’accesso generalizzato “i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”. Invero se servisse a richiamare soltanto divieti di pubblicazione e di divulgazione previsti dal altre norme esso sarebbe inutilmente ripetitivo.
8.2. Invece, la previsione in questione assume significato autonomo e decisivo se riferita alle discipline speciali vigenti in tema di accesso e, per quanto qui rileva, al primo inciso del primo comma dell’art. 53.
Ne consegue che il richiamo testuale alla disciplina degli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241 va inteso come rinvio alle condizioni, modalità e limiti fissati dalla normativa in tema di accesso documentale, che devono sussistere ed operare perché possa essere esercitato il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
9. Tale soluzione è contraria alle conclusioni raggiunte, in un caso analogo, dalla recente decisione di questo Consiglio di Stato, III, 05.06.2019, n. 3780, che ha preso le mosse dall’inciso finale dell’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, onde escluderne la possibilità di riferirlo ad intere “materie” e sostenere che “diversamente interpretando, significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione”.
9.1. Si è detto sopra delle ragioni di tecnica normativa e letterali per i quali le eccezioni assolute della disciplina dell’accesso civico generalizzato prescindano dalla riferibilità a determinati settori o materie altrimenti disciplinati dall’ordinamento.
Parimenti si è detto sopra delle ragioni per le quali non appare praticabile, allo stato, una lettura evolutiva della disciplina del diritto di accesso per cui una tipologia di accesso a portata generale, come l’accesso civico generalizzato, debba ritenersi prevalente sull’altra, in particolare sull’accesso procedimentale o documentale (sicché, per le dette ragioni, non si condividono le affermazioni della richiamata sentenza per cui “non può … ipotizzarsi una interpretazione “statica” e non costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in materia di accesso allorché, intervenuta la disciplina del d.lgs 97/2016, essa non risulti correttamente coordinata con l’art. 53 codice dei contratti e con la ancor più risalente normativa generale sul procedimento […]” e per cui “una interpretazione conforme ai canoni dell’art. 97 Cost. (deve) valorizzare l’impatto “orizzontale” dell’accesso civico, non limitabile da norme preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), ma soltanto dalle prescrizioni “speciali” e interpretabili restrittivamente, che la stessa nuova normativa ha introdotto al suo interno”).
9.2. Appaiono invece non in contrasto con quanto qui ritenuto altre significative affermazioni della decisione n. 3780/2019 cit., e precisamente in punto di:
   - difetto di coordinamento tra le normative generali e quelle settoriali, specificamente la normativa del Codice dei contratti pubblici;
   - importanza e ragione dell’intervento di cui al d.lgs. 25.05.2016 n. 97, che ha introdotto l’accesso civico novellando l’art. 5 d.lgs. n. 33/2013, in quanto dichiaratamente ispirato al cd. “Freedom of information act” che, nel sistema giuridico americano, ha da tempo superato il principio dei limiti soggettivi all’accesso, riconoscendolo ad ogni cittadino, con la sola definizione di un “numerus clausus” di limiti oggettivi, a tutela di interessi giuridicamente rilevanti, che sono appunto precisati nello stesso art. 5, co. 2, d.lgs. n. 33/2013” al fine di “favorire forme diffuse di controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, promuovendo così “la partecipazione al dibattito pubblico”; ratio, quest’ultima “declinata in tutte le sue implicazioni” da questo Consiglio di Stato nel parere favorevole sullo schema di decreto legislativo di cui alla Commissione speciale 24.02.2016 n. 515.
Ma si tratta di considerazioni che non smentiscono –fatto il debito riferimento alle “intenzioni del legislatore” (cfr. art. 12, comma 1, disp. prel. cod. civ.) e allo scopo dell’innovazione legislativa- l’opposta conclusione sopra raggiunta all’esito dell’interpretazione c.d. letterale.
9.3. Entrambe le questioni sottese alle dette affermazioni della sentenza n. 3780/2019 cit. sono state affrontate dall’appellante, laddove:
   - col primo degli argomenti posti a fondamento dell’appello, ha bene evidenziato che l’accesso civico generalizzato è stato introdotto nel corpo del d.lgs. n. 33 del 2013 con il d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sicché avrebbe potuto essere inserito nel Codice dei contratti pubblici con il c.d. correttivo di cui al d.lgs. 19.04.2017, n. 56, se si fosse voluto consentire l’accesso civico generalizzato per la materia dei contratti pubblici; pertanto anche a non voler applicare la massima ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit, richiamata dall’appellante (al fine di desumere la volontà di escludere la materia dei contratti pubblici dall’ambito di applicazione dell’istituto), la circostanza è tale quantomeno da ridimensionare l’assunto che fa leva sulla prevalenza della legge successiva generale; non senza considerare che, al contrario, come osservato anche in alcuni dei precedenti di merito su citati, il d.lgs. n. 97 del 2016 si è fatto carico di regolamentare le ipotesi di discipline sottratte per voluntas legis, anche se precedenti l’introduzione dell’istituto dell’accesso civico, alla possibilità di accesso indiscriminato;
   - col quinto degli argomenti posti a fondamento dell’appello, l’appellante ha aggiunto considerazioni di ordine teleologico e sistematico che, allo stato attuale dell’ordinamento, ben possono giustificare la deroga all’accesso civico generalizzato agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, consentendolo quindi soltanto a coloro che –nel rispetto delle specifiche “condizioni” e “limiti” di cui agli artt. 22 e seg. della legge n. 241 del 1990, come richiamati dall’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016- siano portatori di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata.
9.4. A tale ultimo riguardo non può non essere considerato il dato oggettivo che si tratta di atti formati e depositati nell’ambito di procedimenti assoggettati, per intero, ad una disciplina speciale ed a sé stante.
Questa disciplina attua specifiche direttive europee di settore che, tra l’altro, si preoccupano già di assicurare la trasparenza e la pubblicità negli affidamenti pubblici, nel rispetto di altri principi di rilevanza euro unitaria, in primo luogo il principio di concorrenza, oltre che di economicità, efficacia ed imparzialità.
In tale contesto, la qualificazione del soggetto richiedente l’accesso, al fine di vagliare la meritevolezza della pretesa di accesso individuale, è perciò ampiamente giustificata.
Per di più –avuto riguardo al contesto ordinamentale- il perseguimento di buona parte delle finalità di rilevanza pubblicistica poste a fondamento della disciplina in tema di accesso civico generalizzato, è assicurato, nel settore dei contratti pubblici, da altri mezzi, ed in particolare: con i compiti di vigilanza e controllo attribuiti all’ANAC, soprattutto quanto allo scopo di contrasto alla corruzione, nonché con l’accesso civico c.d. semplice di cui all’art. 3 e all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, dato che molto ampia è la portata dell'obbligo previsto, dalla normativa vigente, in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati riguardanti proprio i contratti pubblici (ampiezza che, in una prospettiva sistematica, è indicativa della volontà legislativa di garantire per questa via, mediante la pubblicità ed il diritto alla conoscibilità di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 33 del 2013, le finalità di controllo generalizzato dell’impiego delle risorse e di promozione della qualità dei servizi sottese al principio di trasparenza).
9.4.1. A proposito dei compiti e del ruolo dell’ANAC e del significato che la sentenza qui gravata ha attribuito all’art. 5-bis, comma 6, del d.lgs. n. 33 del 2013 (che rimette all’Autorità nazionale anticorruzione la predisposizione di linee guida recante indicazioni operative “ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico” di cui allo stesso art. 5-bis), è sufficiente osservare, a completamento di quanto opposto dall’appellante, che l’ANAC assorbe i compiti e –in parte mutata- la denominazione dell’Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza, già operante nell’ordinamento ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 27.10.2009, n. 150, e quelli in tema di contratti pubblici della preesistente Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture, a seguito dell’art. 19 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114. Pertanto, le attribuzioni in materia di contratti pubblici sono venute organizzativamente a convergere con quelle in tema di contrasto all’illegalità ed alla corruzione. Sicché è erroneo il ragionamento che vorrebbe trarre dalla vigilanza dell’ANAC sul settore dei contratti pubblici argomento ulteriore per sostenere l’operatività dell’accesso civico generalizzato anche in tale materia.
9.5. Quanto ai valori e agli interessi in conflitto, merita osservare che, allo stato, l’interpretazione qui preferita esclude qualsivoglia rilevanza diretta del limite di cui all’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33 del 2013 (“gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali”), laddove, diversamente opinando:
   - l’amministrazione che detiene i documenti per i quali è chiesto l’accesso dovrebbe tenere conto, caso per caso, delle ragioni di opposizione degli operatori economici coinvolti, con prevedibile soccombenza nella maggioranza dei casi concreti dello stesso principio di trasparenza, che si intende astrattamente tutelare, poiché altrettanto rilevanti sono gli interessi privati contrapposti all’ostensione di atti ulteriori, rispetto a tutti quelli per il quali la pubblicazione è obbligatoria per legge (e quindi consentito, come detto, l’accesso civico c.d. “semplice”) e poiché, come già detto, quanto maggiore è la “profondità” (id est, il dettaglio) dell’informazione richiesta da chi non è portatore di uno specifico interesse diretto, tanto più ampi sono i margini di tutela dei controinteressati;
   - notevole sarebbe l’incremento dei costi di gestione del procedimento di accesso da parte delle singole pubbliche amministrazioni (e soggetti equiparati), del quale -nell’attuale applicazione della normativa sull’accesso generalizzato, che si basa sul principio della gratuità (salvo il rimborso dei costi di riproduzione)- si è fatto carico l’interprete (in particolare, con riferimento alle richieste “massive o manifestamente irragionevoli”, cfr. Linee Guida ANAC, par. 4.2 nonché gli arresti giurisprudenziali che fanno leva sulla nozione di “abuso del diritto”), ma che, in una prospettiva di diffusa applicazione dell’accesso civico generalizzato a tutti gli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione di contratti pubblici, necessita di apposita disposizione di legge;
   - infine, il caso di specie è esemplificativo -per come bene evidenziato dall’appellante con la quarta delle argomentazioni poste a fondamento del gravame- di come la lettura qui confutata dell’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 nei suoi rapporti con l’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016 potrebbe finire per privare di senso il richiamo che il comma 1 fa agli artt. 22 e seg. della legge n. 241 del 1990 ed, al contempo, per distorcere le finalità perseguite con l’introduzione nell’ordinamento dell’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto questo -come dichiaratamente fatto da Di. s.r.l.- verrebbe utilizzato per la soddisfazione di interessi economici e commerciali del singolo operatore, nell’intento di superare i limiti interni dei rimedi specificamente posti dall’ordinamento a tutela di tali interessi ove compromessi dalla conduzione delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici (senza che rilevi -nella prospettiva ordinamentale dei costi da sopportarsi dalla pubblica amministrazione, compresi i costi dell’aumento del contenzioso- che detto intento, volta a volta, risulti o meno raggiunto nel caso concreto).
10. Dato tutto quanto sopra, non resta che concludere che la legge propende per l’esclusione assoluta della disciplina dell’accesso civico generalizzato in riferimento agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
Tale esclusione consegue, non ad incompatibilità morfologica o funzionale, ma al delineato rapporto positivo tra norme, che non è compito dell’interprete variamente atteggiare, richiedendosi allo scopo, per l’incidenza in uno specifico ambito di normazione speciale, un intervento esplicito del legislatore.
10.1. Dato ciò, il primo motivo di appello va accolto.
11. Il secondo motivo, volto a contrastare le affermazioni della società ricorrente circa la titolarità di una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti ai quali è chiesto l’accesso, è carente di interesse per quanto detto sulle ragioni giuridiche poste da Di. s.r.l. a fondamento del ricorso avverso il diniego di accesso, mediante il richiamo degli artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 33 del 2013.
11.1. Per completezza si osserva che la pretesa sarebbe stata infondata anche se avanzata ai sensi degli artt. 53, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 e 22 e seg. della legge n. 241 del 1990 alla stregua della giurisprudenza che nega la sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, con riferimento agli atti della fase esecutiva del rapporto contrattuale, al soggetto che vi è estraneo e che, in mancanza di un provvedimento di risoluzione adottato dalla pubblica amministrazione, non possa vantare nemmeno un ipotetico interesse al subentro (cfr. Cons. Stato, V, 11.06.2012, n. 3389).
12. In conclusione, accogliendosi il primo motivo di appello, in riforma della sentenza appellata, va respinto il ricorso avanzato dalla società Di. s.r.l. avverso il diniego di ostensione opposto dal Comune di Scandicci con gli atti impugnati.
12.1. La novità della questione interpretativa degli artt. 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato col d.lgs. n. 97 del 2016, ed il relativo contrasto giurisprudenziale giustificano la compensazione delle spese processuali (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.08.2019 n. 5503 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non consente la destinazione all’uso abitativo dei locali oggetto di condono edilizio.
La giurisprudenza è stabilmente orientata nel senso di ritenere che, ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario.
Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996, che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto all’abitazione.
E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m. 05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni.
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La giurisprudenza (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. 03.06.2013, n. 3034; id., 03.05.2011, n. 2620) è stabilmente orientata nel senso di ritenere che, ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario. Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996, che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto all’abitazione. E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m. 05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni (così Cons. Stato n. 2620/2011, cit.).
Alla luce degli indirizzi interpretativi consolidati, dai quali non vi sono ragioni per discostarsi, il mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non consente la destinazione all’uso abitativo dei locali di proprietà del ricorrente.
La certificazione di abitabilità o agibilità conseguita secondo il meccanismo disciplinato dall’art. 86, co. 4, l.r. n. 1/2005 è pertanto illegittima, per questo aspetto giustificandosi l’esercizio del potere di autotutela da parte del Comune resistente (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2019 n. 857 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 26.08.2019 n. 199 "Regolamento recante le modalità per la redazione della relazione di riferimento di cui all’articolo 5, comma 1, lettera v-bis) del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.04.2019 n. 95).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 24.08.2019 n. 198 "Circolare con la quale si definiscono i criteri per la comunicazione di informazioni relative al partenariato pubblico-privato ai sensi dell’art. 44, comma 1-bis del decreto-legge 31.12.2007, n. 248 convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 28.12.2008, n. 31" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, circolare 10.07.2019).

ENTI LOCALI: G.U. 22.08.2019 n. 196 "Aggiornamento degli allegati al decreto legislativo n. 118 del 2011" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 01.08.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U. 22.08.2019 n. 196 "Proroga dell’ordinanza contingibile e urgente 06.08.2013, e successive modificazioni, concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 18.07.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U. 22.08.2019 n. 196 "Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o di bocconi avvelenati" (Ministero della Salute, ordinanza 12.07.2019).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Risso, La conferenza di servizi: strumento di composizione dei conflitti? (21.08.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere - Interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione - Riduzione della volumetria preesistente e spostamento e spostamento di sedime - Art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001; art. 16-bis del DPR 917 del 1986; art. 1, commi 344-347 legge n. 296 del 2006 (Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Sez. I, nota 16.07.2015 n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: parere su ristrutturazione edilizia e su demolizione e ricostruzione con riduzione di volume (Regione Emilia Romagna, nota 15.05.2014 n. 209517 di prot.).
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Si risponde alla richiesta di parere relativamente a due quesiti.
   A. Il primo riguarda le modalità di esecuzione dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato con "conservazione dell'edificio". In particolare il quesito è diretto a saper se rientrano nella categoria di intervento significative riduzioni del volume e dell'area di sedime, nonché limitati aumenti del sedime senza incrementi volumetrici.
...
   B. Il secondo quesito è relativo alla classificazione dell'intervento di demolizione di un edificio e della conseguente ricostruzione con riduzione della volumetria preesistente. In particolare la richiesta è volta a conoscere se la coincidenza tra il volume demolito e quello ricostruito sia un requisito essenziale affinché l'intervento possa essere configurato nella ristrutturazione edilizia. (...continua).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALe tettoie che incidono sull'assetto edilizio preesistente necessitano del permesso di costruire e non della semplice SCIA, perché non possono essere considerate quali meri interventi di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, co 1, lett. b), D.P.R. 380/2001.
Invero, ciò che rileva non è solo la creazione di un nuovo volume, il che si verifica qualora la tettoia sia chiusa sui tre lati, ma anche qualora la stessa sia costruita con materiali idonei a renderla una struttura permanente e sia di dimensioni tali da incidere in maniera particolarmente significativa sul territorio, in particolare laddove la stessa insista su una zona vincolata.
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3.- Il primo manufatto consiste dunque in una tettoia.
Come chiarito da condivisa giurisprudenza, le tettoie che incidono sull'assetto edilizio preesistente necessitano del permesso di costruire e non della semplice SCIA, perché non possono essere considerate quali meri interventi di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, co 1, lett. b), D.P.R. 380/2001 (TAR Lazio, Roma, sez. II, 26.02.2019, n. 2583; TAR Campania, Napoli, sez. III, 19.02.2019, n. 945).
Come chiarito da questa Sezione, ciò che rileva, infatti, non è solo la creazione di un nuovo volume, il che si verifica -e non è questa l’ipotesi- qualora la tettoia sia chiusa sui tre lati, ma anche qualora la stessa sia costruita con materiali idonei a renderla una struttura permanente e sia di dimensioni tali da incidere in maniera particolarmente significativa sul territorio, in particolare laddove la stessa insista su una zona vincolata (TAR Campania, Napoli, sez. III, 28.12.2018, n. 7383; 26.02.2015, n. 1325).
Nel caso di specie la tettoia è fissata alla zona d’ingresso dell’immobile, è in legno con copertura in tegole e si estende per una superficie, di certo non trascurabile, di circa mq 25.
I materiali e le dimensioni costituiscono elementi comportanti una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio con perdurante modifica dello stato dei luoghi; ne consegue l’assoggettabilità di questa opera al regime sanzionatorio di cui all’art. 31 d.lgs. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.08.2019 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A differenza della nozione civilistica di pertinenza, un manufatto può essere considerato una pertinenza ai fini edilizi quando è funzionale all'edificio principale, non è dotato di un autonomo valore di mercato e non incide sul carico urbanistico mediante la creazione di un nuovo volume.
Ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, sia realizzato un nuovo volume ovvero sia realizzata un'opera come, ad esempio, una tettoia, che ne comporti l'alterazione della sagoma, come accade nel caso in discussione.
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Riguardo all’asserita natura pertinenziale, in linea con condivisa giurisprudenza va chiarito che a differenza della nozione civilistica di pertinenza, un manufatto può essere considerato una pertinenza ai fini edilizi quando è funzionale all'edificio principale, non è dotato di un autonomo valore di mercato e non incide sul carico urbanistico mediante la creazione di un nuovo volume; ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, sia realizzato un nuovo volume ovvero sia realizzata un'opera come, ad esempio, una tettoia, che ne comporti l'alterazione della sagoma, come accade nel caso in discussione (Cons. Stato sez. VI, 06.02.2019, n. 904) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.08.2019 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Spetta al condominio, in persona del suo amministratore, la legittimazione e l’interesse ad agire per la contestazione delle modalità di realizzazione di un’opera sul fondo confinante, in considerazione di asserite violazioni delle prescrizioni urbanistico-edilizie.
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In linea generale, la legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l’installazione di un chiosco, va riconosciuta in base al criterio della cosiddetta “vicinitas”, ovvero a fronte di uno stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino un’alterazione contra legem del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Ai fini della dimostrazione dell’interesse al presente ricorso, non deve conseguentemente dimostrarsi il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, incidendo ogni edificazione asseritamente non conforme alla normativa edilizia, sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed ordinato sviluppo del territorio, e come tale idonea a cagionare danni da ritenersi sussistenti in re ipsa, nei confronti dei titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati.
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con l’area oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, è infatti sufficiente a radicare la legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare in concreto se i lavori comportino o meno un’effettiva lesione per il soggetto che propone l'impugnazione, dovendo infatti ritenersi pregiudizievole in re ipsa la realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla qualità panoramica, ambientale e paesaggistica.

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I.1) In primo luogo, il Collegio deve scrutinare l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva del Condominio, che secondo la difesa comunale, ai sensi di quanto disposto nell’art. 1130 c.c,. potrebbe agire per la tutela dei soli “diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio”, laddove quelli oggetto del presente giudizio afferirebbero ai singoli proprietari.
L’eccezione è infondata, spettando infatti al condominio, in persona del suo amministratore, la legittimazione e l’interesse ad agire per la contestazione delle modalità di realizzazione di un’opera sul fondo confinante, in considerazione di asserite violazioni delle prescrizioni urbanistico-edilizie (C.S. sez. V, 15.02.2010, n. 809), come ha avuto luogo nel caso si specie.
I.2) Sotto altro profilo, la difesa comunale e la controinteressata, deducono la carenza di interesse in capo ai ricorrenti, che non avrebbero dimostrato quali posizioni suscettibili di tutela sarebbero state lese dai provvedimenti impugnati.
In linea generale, come anche evidenziato nella sentenza n. 1485/2018 cit., osserva il Collegio che la legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l’installazione di un chiosco, va riconosciuta in base al criterio della cosiddetta “vicinitas”, ovvero a fronte di uno stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino un’alterazione contra legem del preesistente assetto urbanistico ed edilizio.
Ai fini della dimostrazione dell’interesse al presente ricorso, non deve conseguentemente dimostrarsi il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, incidendo ogni edificazione asseritamente non conforme alla normativa edilizia, sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed ordinato sviluppo del territorio, e come tale idonea a cagionare danni da ritenersi sussistenti in re ipsa, nei confronti dei titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati (TAR Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 23.02.2017, n. 109).
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con l’area oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, è infatti sufficiente a radicare la legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare in concreto se i lavori comportino o meno un’effettiva lesione per il soggetto che propone l'impugnazione, dovendo infatti ritenersi pregiudizievole in re ipsa la realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla qualità panoramica, ambientale e paesaggistica (C.S., Sez. IV, 09.09.2014, n. 4547).
Con riferimento al caso di specie, premesso che non risulta contestata la vicinitas dei ricorrenti al chiosco oggetto del presente giudizio, l’eccezione va pertanto respinta, considerato che il trasferimento della struttura gestita dalla controinteressata può effettivamente introdurre un elemento di discontinuità negli ambiti limitrofi, idoneo ad incidere negativamente sul valore delle relative proprietà, radicando così l’interesse alla sua contestazione (C.S., Sez. IV, 08.01.2016, n. 35) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 05.08.2019 n. 1851 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di un chiosco.
Tra gli “interventi di nuova costruzione”, per cui è necessario il permesso di costruire, vi sono quelli relativi all'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Rientrano infatti nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale.
Ne consegue che l’installazione di un chiosco, malgrado la sua precarietà strutturale, la sua rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, in quanto manufatto non deputato ad un uso per fini contingenti, ma invece ad un utilizzo reiterato nel tempo, è da ritenersi come nuova costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 05.08.2019 n. 1851 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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II) Quanto al merito, nel primo motivo, gli istanti sostengono che il Comune abbia illegittimamente assentito la collocazione del chiosco della controinteressata nella nuova area, per non aver preventivamente rilasciato il permesso di costruire.
Il motivo è fondato atteso che, come ritenuto nella sentenza n. 1485/2018 cit., in base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del 28.12.2015, tra gli “interventi di nuova costruzione”, per cui è necessario il permesso di costruire, vi sono quelli relativi all'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche per l'installazione di un chiosco (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2282).
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è infatti deputato ad un uso per fini contingenti, quanto invece, ad un utilizzo reiterato nel tempo (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 13.03.2017, n. 409), come tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico (C.S., Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842).
II.1) Contrariamente a quanto dedotto dalla resistente, ai fini del rigetto delle censure, non assume alcun rilievo il fatto che il chiosco oggetto del presente giudizio fosse precedentemente installato in altro luogo del territorio comunale.
Malgrado il provvedimento impugnato abbia effettivamente autorizzato il trasferimento della struttura gestita dalla controinteressata, e non la sua installazione ex novo, non risulta che sia mai stato rilasciato alcun permesso di costruire in favore del chiosco per cui è causa, che in ogni caso, avrebbe dovuto essere richiesto ed ottenuto anche con riferimento alla nuova ubicazione, essendo necessario accertarne la rispondenza ai contenuti degli strumenti di pianificazione ed alla regolamentazione urbanistica ivi applicabili.
II.2) Nelle more del giudizio, la controinteressata ha del resto provveduto a presentare una segnalazione certificata di inizio attività, alternativa al permesso di costruire “in sanatoria”, in corso di esame da parte degli Uffici Comunali, ciò che, anche in via di fatto, conferma la fondatezza del motivo.
Peraltro, come correttamente dedotto dai ricorrenti, detta istanza non è idonea a giustificare il differimento della definizione del presente giudizio, che ha infatti ad oggetto questioni ulteriori rispetto alla mancanza del permesso di costruire, che in ogni caso, a tutt’oggi, non è stato rilasciato.
Gli ulteriori argomenti sviluppati dai ricorrenti nelle loro memorie depositate in vista dell’udienza di merito, secondo cui “la procedura attivata dalla controinteressata non è valida”, atteso che la stessa, “al fine di ottenere la sanatoria dell’intervento edilizio, non avrebbe dovuto presentare una Scia in sanatoria, bensì un’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001”, risultano invece non pertinenti rispetto all’oggetto del giudizio.
Come detto, lo scrutinio del presente motivo impone infatti al Collegio di pronunciarsi sull’an del permesso di costruire, ai fini del rilascio di un’autorizzazione al trasferimento del chiosco gestito dalla controinteressata, e non invece sul procedimento necessario ad ottenere la sanatoria in caso di sua mancanza, ciò che è pertanto palesemente estraneo al contenuto dei provvedimenti in questa sede impugnati, fermo restando che, ai sensi dell’art. 34, secondo comma, c.p.a., non è consentita alcuna pronuncia su poteri non ancora esercitati.

LAVORI PUBBLICI: Retrocessione parziale del bene espropriato.
La retrocessione parziale del bene espropriato presuppone un provvedimento dell'Amministrazione volto a dichiarare l'inservibilità del bene per lo scopo che ne ha determinato l'espropriazione, o comunque la manifestazione di tale volontà, anche a mezzo di acta concludentia, con valenza costitutiva del diritto alla restituzione del bene già espropriato, ma non utilizzato.
In altri termini, la dichiarazione di inservibilità dei beni all'opera pubblica è il frutto di una valutazione discrezionale dell'amministrazione, di fronte alla quale il privato vanta una posizione di interesse legittimo; il diritto soggettivo alla retrocessione parziale dei beni nasce soltanto se la stessa amministrazione abbia dichiarato, appunto, che quei beni non servono più all'opera pubblica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.08.2019 n. 1812 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Va innanzi tutto rilevato che con l’atto introduttivo del giudizio i ricorrenti hanno chiesto l’accertamento del loro diritto (e la conseguente condanna dell’Amministrazione) alla “retrocessione ex artt. 46 e/o 47 del d.p.r. 327 del 2001”.
Come noto l’art. 46 del DPR n. 327/2001 dispone che se l'opera pubblica o di pubblica utilità non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l'impossibilità della sua esecuzione, l'espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità.
Il successivo art. 47 che disciplina la retrocessione parziale stabilisce che “1. Quando è stata realizzata l'opera pubblica o di pubblica utilità, l'espropriato può chiedere la restituzione della parte del bene, già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata. In tal caso, il soggetto beneficiario della espropriazione, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, trasmessa al proprietario ed al Comune nel cui territorio si trova il bene, indica i beni che non servono all'esecuzione dell'opera pubblica o di pubblica utilità e che possono essere ritrasferiti, nonché il relativo corrispettivo.
2. Entro i tre mesi successivi, l'espropriato invia copia della sua originaria istanza all'autorità che ha emesso il decreto di esproprio e provvede al pagamento della somma, entro i successivi trenta giorni.
3. Se non vi è l'indicazione dei beni, l'espropriato può chiedere all'autorità che ha emesso il decreto di esproprio di determinare la parte del bene espropriato che non serve più per la realizzazione dell'opera pubblica o di pubblica utilità
”.
Si tratta di due istituti (la retrocessione totale e quella parziale) molto differenti quanto a presupposti sostanziali e a disciplina procedimentale.
La retrocessione parziale presuppone, infatti, un provvedimento dell'Amministrazione volto a dichiarare l'inservibilità del bene per lo scopo che ne ha determinato l'espropriazione, o comunque la manifestazione di tale volontà, anche a mezzo di acta concludentia, con valenza costitutiva del diritto alla restituzione del bene già espropriato, ma non utilizzato (Consiglio di Stato sez. IV 02.01.2019, n. 22; Cons. Stato, Sez. IV, 21.01.2014, n. 269).
In altri termini, la dichiarazione di inservibilità dei beni all'opera pubblica è il frutto di una valutazione discrezionale dell'amministrazione, di fronte alla quale il privato vanta una posizione di interesse legittimo; il diritto soggettivo alla retrocessione parziale dei beni nasce soltanto se la stessa amministrazione abbia dichiarato, appunto, che quei beni non servono più all'opera pubblica (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 13.05.2015, n. 386).

APPALTICompatibilità con i principi eurounitari e costituzionali del rito appalti super accelerato ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. - Dies a quo del termine per l'impugnazione dell'ammissione.
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Processo amministrativo – Rito appalti - Rito superaccelerato – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. - Contrasto con i principi eurounitari e costituzionali – Manifesta infondatezza.
  
Processo amministrativo – Rito appalti - Rito superaccelerato – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Ammissione - Dies a quo dell’impugnazione – Ante d.lgs. n. 57 del 2017 – Conoscenza in forma diversa dalla pubblicazione - Rilevanza.
  
L’onere dell’immediata impugnazione dell’ammissione alla gara degli altri concorrenti ad una gara pubblica, previsto dal comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., non contrasta né con il diritto europeo, a condizione che i provvedimenti emessi in tale fase siano accompagnati dall’esposizione dei motivi pertinenti, così da garantire che gli interessati possano conoscere dei vizi di legittimità eventualmente verificatisi, né con i principi costituzionali, non essendo ingiustificatamente lesivo del diritto a contestare in giudizio gli atti della pubblica amministrazione garantito dal combinato disposto dei più volte citati artt. 24 e 113 Cost. (1).
  
Prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56, che ha sancito in modo espresso la necessità della pubblicazione ai fini della decorrenza del termine per azionare il rimedio ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. non vi sono ragioni sufficienti, legate all’esigenza di non sacrificare eccessivamente il diritto di difesa in giudizio, per applicare anche al provvedimento di ammissione alla gara le regole generale sulla conoscibilità dell’atto e della sua lesività, essendo sufficiente, per far decorrere il termine per l’impugnazione, la conoscenza comunque avvenuta dell’ammissione, ad esempio durante la seduta di gara (2).
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   (1) La Sezione, richiamando Corte giust. comm. Ue, ord., 14.02.2019, nella causa C-54/18, ha affermato che l’onere di impugnare l’ammissione di un concorrente alla gara è compatibile con il diritto europeo. Il giudice europeo ha infatti osservato che non vi è contrasto tra il c.d. rito sulle ammissione alla gara ed i principi di accessibilità ed efficacia dei ricorsi sanciti dagli artt. 1, par. 3, e 2-quater della direttiva 89/665, come modificati dalla direttiva 2007/66, a condizione che i provvedimenti emessi in tale fase siano accompagnati dall’esposizione dei motivi pertinenti, così da garantire che gli interessati possano conoscere dei vizi di legittimità eventualmente verificatisi, ed anche se per effetto dell’inutile decorso del termine previsto per reagire in sede giurisdizionale ogni ulteriore contestazione sia preclusa (cfr. in particolare i §§ 38 e 49).
Ad analoghe conclusioni la Sezione giunge anche in relazione alla conformità con i principi costituzionali.
Nell’interpretazione adeguatrice data dalla Corte di giustizia il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. risulta infatti conforme anche con il diritto di azione nei confronti degli atti contro la pubblica amministrazione: infatti il ricorso non è impedito dalla previsione di un termine di 30 giorni rispetto ad un atto di cui si conoscano le sottostanti ragioni.
A diversa conclusione non induce il fatto che l’eventuale accoglimento dell’impugnazione contro di esso non attribuirebbe al ricorrente l’utilità finale connessa alla procedura di gara. Infatti da un lato, l’accertamento di una causa di esclusione di un competitore per il medesimo contratto pubblico rappresenta comunque un vantaggio in vista del conseguimento del medesimo risultato ultimo; dall’altro lato si determina così un regime di relativa stabilità del provvedimento di aggiudicazione, con la preclusione a fare valere nei confronti dell’atto finale di gara eventuali vizi di fasi precedenti (v. i rilievi svolti dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 26.04.2018, n. 4).
L’idoneità del rito sulle ammissioni ad attribuire al ricorrente un’apprezzabile utilità rende evidente che la scelta legislativa non è ingiustificatamente lesiva del diritto a contestare in giudizio gli atti della pubblica amministrazione garantito dal combinato disposto dei più volte citati artt. 24 e 113 Cost., ma costituisce un ragionevole bilanciamento tra contrapposte esigenze dell’impresa partecipante e dell’amministrazione.
(2) La Sezione ha dato atto del diverso orientamento secondo cui la conoscenza acquisita in forme diverse dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione è stata ritenuta comunque irrilevante anche nel regime antecedente all’entrata in vigore del citato correttivo (Cons. St., sez. III, 29.03.2019, n. 2079; id., sez. V, 08.01.2019, n. 173) (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.07.2019 n. 5234 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa possibilità di utilizzo delle ordinanze contingibili e urgenti -provvedimenti a contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotati di capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico- costituisce una soluzione del tutto residuale, prevista per fronteggiare senza indugio situazioni caratterizzate da eccezionale urgenza, occorrendo, comunque, che l’Amministrazione verifichi preventivamente che la situazione concreta non sia tale da consentire l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento.
Tale strumento reca con sé, infatti, l’inevitabile compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge sicché si impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui ricorrenza l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata istruttoria, nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale, non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi.
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle ordinanze de quibus sono costituiti:
   a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
   b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
   c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, diversi da quelli tipici indicati dalle legge.
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3. Il ricorso è fondato.
3.1 In via preliminare ed in termini generali si osserva che la possibilità di utilizzo delle ordinanze contingibili e urgenti -provvedimenti a contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotati di capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico- costituisce una soluzione del tutto residuale, prevista per fronteggiare senza indugio situazioni caratterizzate da eccezionale urgenza, occorrendo, comunque, che l’Amministrazione verifichi preventivamente che la situazione concreta non sia tale da consentire l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento (in termini, Cons. Stato, sez. V, 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; 05.09.2015, n. 4499, TAR Bari, sez. I, 24.03.2015, n. 479).
Tale strumento reca con sé, infatti, l’inevitabile compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge sicché si impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui ricorrenza l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata istruttoria, nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale, non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. V, 26.07.2016, n. 3369; 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; TAR Campania, sez. V, 09.11.2016, n. 5162; 10.09.2012, n. 3845; TAR Bari, sez. I, 24.03.2015, n. 479).
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle ordinanze de quibus sono costituiti:
   a) dall'impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza);
   b) dall'impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
   c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, diversi da quelli tipici indicati dalle legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 24.03.2017, n. 621, 09.11.2016, n. 5162 e 17.02.2016, n. 860; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.01.2016, n. 69; Cons. di St., sez. V, 26.07.2016, n. 3369) (TAR Campania, Sez. V, sentenza 19.07.2019 n. 3983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Unico centro decisionale.
La verifica dell’esistenza in un procedura di gara di un “unico centro decisionale”, recte della imputabilità delle offerte a tale unico centro deliberativo, deve essere effettuata ab externo e cioè sulla base di elementi strutturali o funzionali ricavati dagli assetti societari e personali delle società, ovvero, ove per tale via non si pervenga a conclusione positiva, mediante un attento esame del contenuto delle offerte dal quale si possa evincere l’esistenza dell’unicità soggettiva sostanziale.
Ciò che rileva è la significanza complessiva (e non già parcellizzata) degli elementi fattuali connotanti la azione delle imprese coinvolte, in vista della gara e nel corso delle gara: l’applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. m), d.lgs. 50/2016, si imporrà solo allorquando potrà escludersi in nuce –secondo l’id quod plerumque accidit– la “fisiologia” delle offerte formulate dai partecipanti, come costituenti il frutto non già di scelte autonomamente formulate, bensì di valutazioni “etero-guidate” e previamente stabilite tra le parti, in guisa da precostituire una posizione collettiva di superiorità informativa rispetto alla platea degli altri ignari concorrenti, sfruttandola al fine di ottenere la aggiudicazione della pubblica commessa in favore di uno dei partecipanti all’accordo.
D’altro canto indispensabile, in subiecta materia, il ricorso alla prova presuntiva, ciò che costituisce un modus operandi assolutamente necessitato nella vicenda in questione, così come in tutte le vicende in cui si tratti di far emergere, nell’interesse generale, fatti e circostanze che i protagonisti hanno l’interesse a celare; di qui l’inevitabile ricorso al ragionamento deduttivo stante la ovvia difficoltà (quando non l’impossibilità) di reperire prove dirette (c.d. smoking gun) di fatti o circostanze occulte o occultate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 19.07.2019 n. 1688 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2. I ricorsi sono fondati.
2.1. Vanno, in via liminare, rimarcate le prescrizioni che governano le procedure in esame:
   - “Si applica l’articolo 97 del d.lgs. 50/2016, compreso il comma 8: si applica l’esclusione automatica dei concorrenti che presentano un ribasso uguale o superiore alla soglia di anomalia (in presenza di almeno 10 offerte ammesse). Il seggio di gara provvederà ad individuare la soglia di anomalia ai sensi dell’art. 97, comma 2, del d.lgs. 50/2016, procedendo al sorteggio dei criteri esposti nel predetto articolo, in presenza di almeno cinque offerte ammesse. La stazione appaltante si riserva la facoltà di verificare contemporaneamente la congruità delle prime 5 offerte. La procedura di verifica è espletata in applicazione del procedimento e dei criteri di cui all'art. 97 del d.lgs. 50/2016” (art. 10, disciplinare; cfr., art. 5, nonché all. 5 al bando);
   - l’art. 97, comma 8, del d.lgs. 50/2016 dispone, di poi, che “Per lavori, servizi e forniture, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso e comunque per importi inferiori alle soglie di cui all'articolo 35, e che non presentano carattere transfrontaliero, la stazione appaltante prevede nel bando l'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi del comma 2 e dei commi 2-bis e 2-ter (…) l'esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci”;
   - all’art. 6 del disciplinare, ancora, è testualmente dato leggere che “La gara viene espletata con il criterio del minor prezzo, inferiore a quello posto a base di gara, determinato mediante offerta a prezzi unitari, al netto degli oneri per l’attuazione dei piani di sicurezza. Per la valutazione delle offerte anomale in presenza di almeno cinque offerte ammesse, verrà individuata la soglia di anomalia ai sensi dell’art. 97,comma 2, del d.lgs. 50/2016 procedendo al sorteggio dei criteri esposti nel predetto articolo. Qualora il numero delle offerte ammesse risulti inferiore a cinque non si procederà alla determinazione della soglia di anomalia, fermo restando il potere della stazione appaltante di valutare la congruità delle offerte qualora, in base ad elementi specifici, appaiono anormalmente basse. Qualora il numero delle offerte ammesse risulti pari o superiore a dieci, si procederà all’esclusione automatica delle offerte anomale”.
2.2. Orbene, la presentazione e la ammissione di offerte in misura superiore a dieci, unitamente alla concreta modulazione delle medesime, ha determinato:
   - la piena operatività delle prescrizioni della lex specialis e dell’art. 97, comma 8, d.lgs. 50/2016, in punto di “esclusione automatica delle offerte anomale”;
   - la applicabilità di tale meccanismo escludente in danno, tra le altre concorrenti, della società ricorrente;
   - la collocazione in posizione potiore nelle due graduatorie di due imprese rientranti nel novero di quelle su cui si appuntano le doglianze di parte ricorrente, nelle cui offerte erano indicati gli stessi subappaltatori (segnatamente, Mo. e Li.Co. s.r.l.).
2.3. La società ricorrente prospetta che una tale situazione costituisca il frutto di una strategia concertata tra esse imprese, e quelle indicate per il subappalto, ciò che avrebbe dovuto indurre la stazione appaltante, previo l’esperimento di una apposita istruttoria, ad escludere tali imprese dalla gara ex art. 80, comma 5, lett. m), del d.lgs. 50/2016, a tenore del quale “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni (…) l'operatore economico si trovi rispetto ad un altro partecipante alla medesima procedura di affidamento, in una situazione di controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile o in una qualsiasi relazione, anche di fatto, se la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale”.
2.4. In particolare, tale ultima norma attribuisce rilevanza a due condizioni, che devono ricorrere congiuntamente, ed afferenti:
   - a latere soggettivo, al rapporto esistente tra le varie imprese partecipanti alla gara, assuma esso la natura del vincolo di controllo o di collegamento ben noto in campo societario e codificato all’art. 2359 c.c., ovvero il carattere di una “relazione, anche di fatto” tra di esse;
   - a latere oggettivo, alla ascrivibilità delle diverse offerte formulate ad un unico centro deliberativo, frutto dunque di una volontà comune e di un contegno concordato tra le imprese.
2.5. E’ evidente che la presenza di un “formale” vincolo di controllo o di collegamento a’ sensi dell’art. 2359 c.c. rende in certo modo più agevole la prova, in ogni caso gravante in capo alla stazione appaltante, della sussistenza del previo concerto e, dunque, della alterazione del libero svolgimento della gara e della leale competizione tra i partecipanti, presidiato dalla segretezza delle singole offerte e dalla loro irriducibilità ad un unico centro decisionale.
2.6. Nella fattispecie che ne occupa, tuttavia, un tale nesso di collegamento e di controllo tra le imprese “sospette” non è stato neanche allegato dalla società ricorrente.
In questo caso, indi, la esistenza di un previo concerto tra di esse, nella decisione di partecipare alla gara e nella concreta modulazione delle offerte –sia per quanto attiene alla percentuale del ribasso, sia per ciò che afferisce alla scelta dei subappaltatori- non può che essere desunta dalle circostanze di fatto che in concreto hanno connotano la partecipazione alla gara e la formulazione delle diverse offerte.
2.6.1. Nella vicenda in esame, pertanto, le inferenze deduttive –in assenza di vincoli che già a latere soggettivo avvincano le imprese- non possono che prendere le mosse dall’agere in concreto posto in essere dalle imprese nella gara: è dalla valutazione complessiva di tale contegno che solo potrà discendere il giudizio circa:
   - la esistenza di una “relazione, anche di fatto” tra le imprese;
   - la eziologica riconducibilità a tale relazione delle offerte formulate dalle imprese interessate.
2.6.2. La verifica dell’esistenza di un “unico centro decisionale”, recte della imputabilità delle offerte a tale unico centro deliberativo, “deve essere effettuata ab externo e cioè sulla base di elementi strutturali o funzionali ricavati dagli assetti societari e personali delle società, ovvero, ove per tale via non si pervenga a conclusione positiva, mediante un attento esame del contenuto delle offerte dal quale si possa evincere l’esistenza dell’unicità soggettiva sostanziale (Cons. St., sez. V, 03.01.2019, n. 69; 10.01.2017, n. 39)” (solo da ultimo, CdS, III, 07.03.2019, n. 1577).
2.6.3. Ciò che rileva è la significanza complessiva (e non già parcellizzata) degli elementi fattuali connotanti la azione delle imprese coinvolte, in vista della gara e nel corso delle gara: l’applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. m) d.lgs. 50/2016, si imporrà solo allorquando potrà escludersi in nuce –secondo l’id quod plerumque accidit- la “fisiologia” delle offerte formulate dai partecipanti, come che costituenti il frutto non già di scelte autonomamente formulate, bensì di valutazioni “etero-guidate” e previamente stabilite tra le parti, in guisa da precostituire una posizione collettiva di superiorità informativa rispetto alla platea degli altri ignari concorrenti, sfruttandola al fine di ottenere la aggiudicazione della pubblica commessa in favore di uno dei partecipanti all’accordo.
2.6.4. E’ d’altro canto indispensabile, in subiecta materia, il ricorso alla prova presuntiva, ciò che costituisce un modus operandi assolutamente necessitato nella vicenda che ci occupa, così come in tutte le vicende in cui si tratti di far emergere, nell’interesse generale, fatti e circostanze che i protagonisti hanno l’interesse a celare.
Di qui l’inevitabile ricorso al ragionamento deduttivo stante la ovvia difficoltà (quando non l’impossibilità) di reperire prove dirette (cd. smoking gun) di fatti o circostanze occulte o occultate.

APPALTI FORNITURE: Obbligo di indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali.
Ai sensi all’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016, non vi è obbligo di indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nel caso delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a).
La fornitura con posa in opera presuppone che per fruire del bene fornito sia necessaria un’attività ulteriore, accessoria e strumentale rispetto alla prestazione principale della consegna del bene, finalizzata alla messa in funzione dello stesso, mentre nella fornitura senza posa in opera il bene fornito può essere fruito immediatamente dal destinatario una volta consegnato.
Al riguardo, è irrilevante che si tratti di attività di valore minimo nell’economia complessiva del contratto, perché, se anche così fosse, comunque nella fornitura con posa in opera, quest’ultima è per definizione un’attività accessoria e strumentale; diversamente il contratto sarebbe un appalto di servizi ovvero un contratto misto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.07.2019 n. 1680 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3.1. Passando al merito, occorre per prima cosa verificare se, per la natura delle prestazioni oggetto dell’appalto, il contratto per cui è causa sia esentato dall’obbligo dichiarativo di cui all’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016.
Invero, ai sensi della precitata disposizione, non vi è obbligo di indicare «i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro» nel caso «delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a)».
3.2. Come questa Sezione ha già avuto modo di chiarire, la fornitura con posa in opera presuppone che per fruire del bene fornito sia necessaria un’attività ulteriore, accessoria e strumentale rispetto alla prestazione principale della consegna del bene, finalizzata alla messa in funzione dello stesso, mentre nella fornitura senza posa in opera il bene fornito può essere fruito immediatamente dal destinatario una volta consegnato (cfr. sentenza n. 661/2019).
Ora, a mente della legge di gara, l’appalto comprende, oltre alla locazione operativa di prodotti informatici e la fornitura di materiali di consumo, anche –tra gli altri- «gli interventi per installazioni, modifiche, spostamenti delle PdL [postazioni di lavoro: n.d.r.]» e «la gestione delle configurazioni software delle PdL» (art. 3 lettera d’invito). Sono a carico del appaltatore, tra l’altro, «l’attuazione di tutte le operazioni necessarie alla consegna, installazione e verifica del corretto funzionamento delle apparecchiature fornite» (punto 4.4.7.3. del Capitolato tecnico).
Può, quindi, concludersi che quella in esame sia una fornitura con posa in opera, per ciò solo assoggettata all’obbligo dichiarativo di cui all’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016.
Al riguardo è irrilevante che –secondo quanto prospettato dalla difesa della stazione appaltante– si tratti di attività di valore minimo nell’economia complessiva del contratto, perché, se anche così fosse, comunque nella fornitura con posa in opera, quest’ultima è per definizione un’attività accessoria e strumentale; diversamente il contratto sarebbe un appalto di servizi ovvero un contratto misto.
3.3. Peraltro, a ben guardare non convince nemmeno la tesi qualificatoria del contratto per cui è causa come appalto di servizi di natura intellettuale, tenuto conto che lo stesso comprende anche attività materiali o attività che comunque non richiedono un patrimonio di cognizioni specialistiche per la risoluzione di problematiche non standardizzate.
Esemplificativamente, la fornitura di consumabili comprende la consegna, la sostituzione e il ritiro di quelli esauriti (punto 4.4.5.3. del capitolato tecnico); la manutenzione delle postazioni di lavoro comprende la pulizia e il ricondizionamento di filtri, dissipatori, rullini di trascinamento delle stampanti, ripristino di file corrotti o mancanti, salvataggio e ripristino dati utente, reinstallazione di software (punto 4.4.6.3. del capitolato tecnico).
Lo stesso servizio di service desk consiste nella ricezione delle chiamate e le richieste di assistenza da parte degli utenti e nello smistamento presso le strutture competenti a risolvere la problematica lamentata (punto 4.4. del capitolato tecnico). Dunque, ancora una volta una prestazione non riconducibile al concetto di servizio di natura intellettuale.
3.4. Sicché, deve concludersi che i concorrenti erano obbligati, ai sensi dell’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016 a indicare in offerta i costi della manodopera.
4.1. Sulle conseguenze della violazione del suvvisto obbligo dichiarativo fissato ex lege, questa Sezione ha costantemente affermato che i costi della manodopera costituiscono elemento essenziale dell’offerta, in quanto la loro indicazione consente di verificare la salvaguardia dei livelli retributivi minimi dei lavoratori (cfr. TAR Lazio–Roma, Sez. II, sentenza n. 6540/2018); che la mancata quantificazione del costo della manodopera rende incompleta l’offerta, senza che sia possibile attivare il soccorso istruttorio non trattandosi della carenza di meri elementi formali della domanda di partecipazione (cfr. TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, sentenza n. 1855/2018); che trattandosi di norma imperativa, l’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016 va a eterointegrare la lex specialis di gara (cfr. TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 299/2018), rendendo vigente e cogente l’obbligo anche ove non espressamente previsto (cfr. TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, sentenza n. 2515/2018).
4.2. Questa ricostruzione del quadro normativo, per vero non univoca nella giurisprudenza, ha trovato l’avallo dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che, nel rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione di conformità della disciplina nazionale ai pertinenti principi e disposizioni eurounitari, ha ritenuto che l’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016 debba essere interpretato nel senso che «la mancata puntuale indicazione in sede di offerta dei costi della manodopera comporti necessariamente l’esclusione dalla gara e che tale lacuna non sia colmabile attraverso il soccorso istruttorio», con la conseguenza che «siccome l'obbligo di separata indicazione di tali costi è contenuto in disposizioni di legge dal carattere sufficientemente chiaro per gli operatori professionali, la mancata riproduzione di tale obbligo nel bando e nel capitolato della gara non potrebbe comunque giovare a tali operatori in termini di scusabilità dell'errore» (ordinanze nn. 1, 2 e 3 del 2019).
4.3.1. In realtà, della questione era già stata nelle more investita la CGUE, la quale ha concluso che «I principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione. Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice» (sentenza n. 309/2019 nella causa C-309/2018).

EDILIZIA PRIVATA- la decadenza di una concessione edilizia costituisce atto vincolato che deve intervenire ogni qualvolta esistono i presupposti di legge, non si verifica in modo automatico ma necessita di un’esplicita pronuncia dell’amministrazione;
   - la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo;
   - dalla qualificazione della decadenza come effetto legale, deriva poi che il termine di efficacia in questione non possa mai ritenersi prorogato in via automatica, e che a tal fine sia comunque necessaria un’istanza proveniente dall’interessato.
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4.3.1. Sul punto gioverà ricordare che la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che :
   - la decadenza di una concessione edilizia costituisce atto vincolato che deve intervenire ogni qualvolta esistono i presupposti di legge, non si verifica in modo automatico ma necessita di un’esplicita pronuncia dell’amministrazione (ex multis Cons. St. n. 3612/2000; Tar Valle d’Aosta n. 40/1998);
   - la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo: (così C.d.S. sez. IV 22.10.2015 n. 4823 e 11.04.2014 n. 1747, nonché in linea di principio su una fattispecie di mancato inizio lavori C.d.S. sez. V 20.10.2004 n. 6831);
   - dalla qualificazione della decadenza come effetto legale, deriva poi che il termine di efficacia in questione non possa mai ritenersi prorogato in via automatica, e che a tal fine sia comunque necessaria un’istanza proveniente dall’interessato: così C.d.S. sez. IV 23.02.2012 n. 974 e 10.10.2007 n. 4423 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 01.07.2019 n. 3585 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella fattispecie, è stato chiesto il rilascio dell’assenso a costruire un’autorimessa a’ sensi dell’art. 9 della l. 122 del 1989, ossia un’opera che per l’espresso tenore letterale di tale articolo di legge può essere realizzata esclusivamente dai proprietari di immobili nel sottosuolo degli immobili medesimi ovvero nei locali ubicati al piano terreno dei fabbricati di loro proprietà, ad uso esclusivo dei residenti e -sempre e comunque- quale pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (cfr. il testo dell’art. cit.).
Giova a tale riguardo precisare che la disciplina testé riassunta va interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in modo tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen., 05.12.2011, n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989, art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso che devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i parcheggi medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente fruibili soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio.
Orbene, il Collegio non ignora la giurisprudenza citata dall’appellante secondo la quale -come si è detto innanzi, e in modo anche divergente dalle anzidette sentenze della Cassazione penale- “ai fini della realizzazione di un parcheggio interrato, non si deve ritenere necessario che il numero di proprietari di immobili siti nelle vicinanze sia individuato nel momento della proposizione della domanda o della costruzione di questo, richiedendosi solo che il vincolo pertinenziale venga previsto e poi effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte , senza che il vincolo stesso debba preesistere”.
Ma, a ben vedere, nella presente fattispecie non rileva il momento nel quale il vincolo pertinenziale viene ad essere effettivamente costituito, bensì la sussistenza degli stessi presupposti per formalmente costituirlo.
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4.3. Ciò posto, risulta del tutto assodato che l’attuale appellante ha chiesto il rilascio dell’assenso a costruire un’autorimessa, composta da più box e parcheggi aperti, a’ sensi dell’art. 9 della l. 122 del 1989, ossia un’opera che per l’espresso tenore letterale di tale articolo di legge può essere realizzata esclusivamente dai proprietari di immobili nel sottosuolo degli immobili medesimi ovvero nei locali ubicati al piano terreno dei fabbricati di loro proprietà, ad uso esclusivo dei residenti e -sempre e comunque- quale pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (cfr. il testo dell’art. cit.).
Giova a tale riguardo precisare che la disciplina testé riassunta va interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in modo tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen., 05.12.2011, n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989, art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso che devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i parcheggi medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente fruibili soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 23.03.2016 n. 2116.
Orbene, il Collegio non ignora la giurisprudenza citata dall’appellante secondo la quale -come si è detto innanzi, e in modo anche divergente dalle anzidette sentenze della Cassazione penale- “ai fini della realizzazione di un parcheggio interrato, non si deve ritenere necessario che il numero di proprietari di immobili siti nelle vicinanze sia individuato nel momento della proposizione della domanda o della costruzione di questo, richiedendosi solo che il vincolo pertinenziale venga previsto e poi effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte , senza che il vincolo stesso debba preesistere” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26.05.2003, n. 2852 e 09.10.2006, n. 5954 citate dall’appellante, cui va aggiunta anche il primo e del tutto consonante precedente di Cons. Stato, Sez. V, 15.06.2001, n. 3176).
Ma, a ben vedere, nella presente fattispecie non rileva il momento nel quale il vincolo pertinenziale viene ad essere effettivamente costituito, bensì la sussistenza degli stessi presupposti per formalmente costituirlo.
E risulta oltremodo significativa la circostanza che l’attuale appellante non solo nel procedimento che si è concluso con l’adozione del provvedimento di diniego, ma anche durante l’intero e quanto mai consistente lasso di tempo occupato dai due gradi di processo non è stato in grado di comprovare il carattere pertinenziale dell’opera che parrebbe a tutt’oggi intenzionato a realizzare.
Se difetta –per così dire– “a monte” il materiale requisito della pertinenzialità dell’opera e non è offerta neppure nel contraddittorio processuale una prova sulla sua sussistenza, allora è del tutto evidente che l’attuale appellante e già ricorrente in primo grado difetta di una propria legitimatio ad causam e, quindi, essendo carente dello stesso, necessario presupposto per poter ottenere il titolo necessario alla realizzazione dell’opera, non ha evidentemente interesse a’ sensi dell’art. 100 c.p.c. ad adire la presente sede giudiziale.
Discende da questo contesto che è di per sé impraticabile qualsivoglia censura di disparità di trattamento rispetto alla posizione di altro proprietario che –a dire dell’appellante- avrebbe intrapreso la realizzazione di analoga opera in area finitima senza che gli sia stata chiesta già all’atto della presentazione del progetto la dimostrazione della pertinenzialità dell’opera, nonché con riguardo alla posizione dello stesso attuale appellante, il quale per altra consimile opera da lui realizzata riferisce di aver ottenuto il parere favorevole della Commissione Edilizia senza la preventiva imposizione della comprova della pertinenzialità dei posti auto da lui realizzati.
Va infatti evidenziato a tale riguardo che il medesimo appellante non comprova se poi a tali realizzazioni abbia fatto seguito l’effettiva costituzione del vincolo di pertinenzialità; e va soprattutto rimarcato, in via del tutto assorbente, che nella presente fattispecie rileva solo ed esclusivamente la dianzi rilevata carenza di dimostrazione della pertinenzialità dell’opera qui in esame.
Preme inoltre evidenziare che nella specie non ricorre l’ipotesi di motivazione postuma circa il difetto del requisito della pertinenzialità disposta dall’amministrazione comunale in sede processuale, mediante la propria relazione istruttoria e le proprie memorie defensionali.
Il requisito della pertinenzialità doveva infatti intendersi in re ipsa imprescindibile per il solo fatto che il tecnico incaricato dal Ta. ha chiesto di realizzare l’opera secondo la disciplina contemplata dall’art. 9 della l. 122 del 1989: e ciò –si badi– anche a prescindere da come e quando la medesima amministrazione comunale ha chiesto di verificare la sussistenza del requisito in questione.
La stessa amministrazione comunale, poi, nel respingere il progetto, nel provvedimento qui impugnato ha comunque inserito expressis verbis nel contesto delle prescrizioni imposte per la riproposizione del progetto medesimo una non equivoca richiesta: “nel caso di riproposizione del progetto l’intervento è subordinato all’effettiva documentazione di pertinenzialità agli edifici posti nel contorno del perimetro individuato in progetto”.
L’attuale appellante, come si è visto innanzi, reputa che tale richiesta non sia riconducibile a motivo del diniego, costituendo essa a suo avviso soltanto una “puntualizzazione” per l’eventuale presentazione di un nuovo progetto, e non già – come viceversa è – una puntuale prescrizione di un sottostante ed imprescindibile requisito che –si ribadisce– egli si è sistematicamente astenuto dal comprovare.
Ma è proprio tale asseritamente mera “puntualizzazione” che nella specie mette a nudo –anche al di là della sua collocazione formale nel contesto del provvedimento impugnato- quel difetto di interesse del Ta. che del tutto correttamente il giudice di primo grado ha colto, laddove –per l’appunto– dalla mancata comprova della “pertinenzialità” dell’opera, inderogabilmente richiesta quale conditio sine qua non per la sua realizzazione, ha fatto ivi testualmente discendere, quale fulcro motivazionale della propria pronuncia, la conseguenza che “difetta pertanto il requisito dell’interesse alla proposizione della domanda, posto che l’eventuale annullamento dell’atto impugnato comporterebbe pur sempre l’obbligo per la p.a. di riesaminare la domanda che, essendo carente del presupposto indicato, non potrebbe sortire esito positivo per l’interessato” (cfr. ivi) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’obbligo per il Comune di prendere in consegna le opere di urbanizzazione deriva direttamente dall’articolo 28 della legge n. 1150/1942, in virtù del quale le parti (lottizzante e Comune) devono prevedere in convenzione il termine entro il quale dovrà avvenire la cessione gratuita delle aree interessate dalle opere di urbanizzazione in favore del Comune.
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... per la declaratoria di illegittimità e l'annullamento:
   - del silenzio serbato dal Comune di Cabras sull'intimidazione/diffida 13.05.2015, trasmessa il 14.05.2015, e del conseguente inadempimento alla presa in carico, da parte dell'Amministrazione Comunale, delle opere di urbanizzazione primaria della lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras;
per l'accertamento e la declaratoria dell'obbligo:
   - del Comune di Cabras di prendere in carico, mediante l'adozione degli atti e delle operazioni materiali all'uopo occorrenti, tutte le opere di urbanizzazione primaria realizzate nella lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras, entro e non oltre il termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza;
...
Passando al merito della questione controversa, il ricorso in esame, nella parte in cui si chiede l’accertamento dell’obbligo del Comune di Cabras di prendere in carico tutte le opere di urbanizzazione primaria realizzate nella lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras, risulta parzialmente fondato nei sensi di seguito specificati.
Ritiene il collegio di dovere confermare, anche avuto riguardo alla fattispecie oggi in esame, i principi già affermati da questo Tribunale, seconda sezione, in fattispecie analoghe ed in particolare con la sentenza del Tar Sardegna, seconda sezione, n. 282 del 27.03.2018, nonché con la sentenza n. 404 del 15.05.2013, confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4169 dell’08.09.2015.
In ordine all’obbligo del Comune di prendere in carico le opere di urbanizzazione primaria, si richiama la costante giurisprudenza della Sezione, in base alla quale l’obbligo per il Comune di prendere in consegna le opere di urbanizzazione deriva direttamente dall’articolo 28 della legge n. 1150/1942, in virtù del quale le parti (lottizzante e Comune) devono prevedere in convenzione il termine entro il quale dovrà avvenire la cessione gratuita delle aree interessate dalle opere di urbanizzazione in favore del Comune (cfr. al riguardo, ex multis, TAR Sardegna, Sezione II, n. 404 del 15.05.2013 e n. 480 del 04.08.2011).
In primo luogo, si rileva che la presa in carico delle opere di urbanizzazione da parte del Comune deve avvenire previo collaudo delle opere di urbanizzazione e trasferimento della proprietà delle aree di sedime delle opere medesime al patrimonio comunale (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 22.06.2019 n. 563 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer stabilire se un atto amministrativo costituisce conferma impropria (atto meramente confermativo), e quindi non autonomamente impugnabile, o invece conferma in senso proprio, e quindi atto autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, si dovrà verificare se l'atto successivo sia stato adottato con o senza una nuova istruttoria ed una nuova ponderazione dei presupposti di fatto e di diritto, nonché degli interessi coinvolti, sottesi all'adozione del provvedimento originario. [...] Il provvedimento di conferma si differenzia, pertanto, dall'atto meramente confermativo per due caratteristiche: perché viene disposta una nuova istruttoria e perché, in seguito ad essa, viene adottato un provvedimento di conferma, che assorbe e sostituisce quelli confermato.
In sostanza, gli atti "meramente confermativi", sono quelli “mediante i quali la p.a. dichiara di mantenere fermo un precedente provvedimento, del quale venga chiesto il ritiro, costituendo mera riaffermazione di una precedente determinazione e difettando di effetti innovativi. Tali atti -come noto- non si considerano autonomamente impugnabili perché, non ravvisandosi in essi un nuovo contenuto lesivo, difetta ogni interesse dei destinatari ad una nuova impugnazione (in ciò differenziandosi dagli atti c.d. a effetti confermativi, i quali non sono una mera riaffermazione ma una dichiarazione con cui l'autorità compie un riesame della situazione alla luce dei nuovi elementi rappresentati, ma alla fine riconferma le statuizioni contenute nel precedente provvedimento)”.
Si è ancora precisato che: “il provvedimento di conferma si configura dunque come esito di un procedimento di secondo grado, senza che rilevi il fatto che la decisione assunta coincida perfettamente con quella contenuta nel precedente provvedimento, perché quel che conta è che essa sia il frutto di un rinnovato esercizio del potere amministrativo; in altri termini, sollecitata, in entrambi i casi, a riaprire il procedimento da un'istanza esterna, l'Amministrazione con l'atto meramente confermativo dà una risposta negativa non riscontrando valide ragioni di riapertura del procedimento concluso con la precedente determinazione, laddove con il provvedimento di conferma dà una risposta positiva, riapre il procedimento e adotta una nuova determinazione; di conseguenza solo nel caso del provvedimento di conferma in senso proprio vi è un procedimento e, all'esito di questo, un nuovo provvedimento, sia pure di contenuto identico al precedente”.
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Costituisce principio consolidato, condiviso anche da questo Tribunale, che "per stabilire se un atto amministrativo costituisce conferma impropria (atto meramente confermativo), e quindi non autonomamente impugnabile, o invece conferma in senso proprio, e quindi atto autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, si dovrà verificare se l'atto successivo sia stato adottato con o senza una nuova istruttoria ed una nuova ponderazione dei presupposti di fatto e di diritto, nonché degli interessi coinvolti, sottesi all'adozione del provvedimento originario. [...] Il provvedimento di conferma si differenzia, pertanto, dall'atto meramente confermativo per due caratteristiche: perché viene disposta una nuova istruttoria e perché, in seguito ad essa, viene adottato un provvedimento di conferma, che assorbe e sostituisce quelli confermato" (così, ex plurimis, TAR Veneto, Sez. I, sentenza n. 27/2017, TAR Milano, (Lombardia) sez. IV, 08/03/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 08/03/2019), n. 499).
In sostanza, secondo consolidata giurisprudenza, gli atti "meramente confermativi", sono quelli “mediante i quali la p.a. dichiara di mantenere fermo un precedente provvedimento, del quale venga chiesto il ritiro, costituendo mera riaffermazione di una precedente determinazione e difettando di effetti innovativi. Tali atti -come noto- non si considerano autonomamente impugnabili perché, non ravvisandosi in essi un nuovo contenuto lesivo, difetta ogni interesse dei destinatari ad una nuova impugnazione (in ciò differenziandosi dagli atti c.d. a effetti confermativi, i quali non sono una mera riaffermazione ma una dichiarazione con cui l'autorità compie un riesame della situazione alla luce dei nuovi elementi rappresentati, ma alla fine riconferma le statuizioni contenute nel precedente provvedimento)” (così Consiglio di Stato sez. IV, 14/04/2014, (ud. 18/03/2014, dep. 14/04/2014), n. 1805).
Si è ancora precisato che: “il provvedimento di conferma si configura dunque come esito di un procedimento di secondo grado, senza che rilevi il fatto che la decisione assunta coincida perfettamente con quella contenuta nel precedente provvedimento, perché quel che conta è che essa sia il frutto di un rinnovato esercizio del potere amministrativo; in altri termini, sollecitata, in entrambi i casi, a riaprire il procedimento da un'istanza esterna, l'Amministrazione con l'atto meramente confermativo dà una risposta negativa non riscontrando valide ragioni di riapertura del procedimento concluso con la precedente determinazione, laddove con il provvedimento di conferma dà una risposta positiva, riapre il procedimento e adotta una nuova determinazione; di conseguenza solo nel caso del provvedimento di conferma in senso proprio vi è un procedimento e, all'esito di questo, un nuovo provvedimento, sia pure di contenuto identico al precedente” (Consiglio di Stato sez. V - 17/01/2019, n. 432) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.06.2019 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina il venir meno dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione, comportando l’obbligo per l’amministrazione di rideterminare la sanzione alla luce della nuova istruttoria svolta sulla domanda di sanatoria.
Sicché, non v’è ragione di ritenere che il medesimo effetto non si produca anche nell’ipotesi in cui l’ordinanza di demolizione sia stata adottata a seguito di C.I.L.A., poiché anche in questo caso l’accertamento di conformità determina l’obbligo per l’amministrazione di verificare la “doppia conformità” sostanziale delle opere alla normativa urbanistico-edilizia.
Pertanto, essendo venuta meno l’efficacia del provvedimento impugnato prima ancora della notifica del ricorso, esso si palesa inammissibile, per difetto originario di interesse.
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Considerato:
   - che il ricorrente ha presentato istanza di accertamento di conformità e di autorizzazione semplificata in sanatoria in data 08.02.2019, anteriore alla notifica del ricorso;
   - che il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina il venir meno dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione, comportando l’obbligo per l’amministrazione di rideterminare la sanzione alla luce della nuova istruttoria svolta sulla domanda di sanatoria (ex plurimis: TAR Veneto, 29.12.2015, n. 1418, TAR Campania, Napoli, 06.02.2017 n. 749, TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter, 03.02.2015 n. 1960; TAR Lazio, Roma, II-bis, 13.06.2017, n. 6980; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 13.06.2017, n. 6979; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 06.06.2017, n. 6688; 17.11.2017 n. 11550);
   - che non v’è ragione di ritenere che il medesimo effetto non si produca anche nell’ipotesi in cui l’ordinanza di demolizione sia stata adottata a seguito di C.I.L.A., poiché anche in questo caso l’accertamento di conformità determina l’obbligo per l’amministrazione di verificare la “doppia conformità” sostanziale delle opere alla normativa urbanistico-edilizia;
   - che, pertanto, essendo venuta meno l’efficacia del provvedimento impugnato prima ancora della notifica del ricorso, esso si palesa inammissibile, per difetto originario di interesse (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.06.2019 n. 742 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAE' inammissibile il ricorso con riferimento all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione poiché la stessa ha perso efficacia a seguito della successiva presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria.
Ed invero, <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio. Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”>>.
Ed invero, ad avviso di questa Sezione (e le medesime conclusioni valgono per ogni ipotesi di sanatoria edilizia “tipizzata” dal Legislatore):
   1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che l’Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato.
Difatti, “L’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima, è illegittimo in quanto l’Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza dell’azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, l’esecuzione della misura demolitoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001 vanificherebbe a priori l’interesse ad ottenere la sanatoria delle opere abusive, determinando l’inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire”;
   2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo”;
   3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”>>.
Le sopra riportate soluzioni interpretative soddisfano evidenti esigenze pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a (successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i presupposti per il suo rilascio”.
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1. - Il ricorso è, comunque, inammissibile, con riferimento all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, ex art. 33 del D.P.R. n. 380/2001, prot. n. 90/D dell’08.05.2014, in quanto tale ordinanza ha perso efficacia a seguito della successiva presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria del 29.07.2014, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001.
1.1 - Ed invero, il Collegio non ravvisa, allo stato, ragioni per discostarsi dalla giurisprudenza consolidata di questa Sezione, secondo cui <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania-Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266). Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.04.2018, n. 628, idem, 30.09.2016, n. 1512), con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere.
Ed invero, ad avviso di questa Sezione (e le medesime conclusioni valgono per ogni ipotesi di sanatoria edilizia “tipizzata” dal Legislatore):
   1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che l’Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima, è illegittimo in quanto l’Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza dell’azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’Amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, l’esecuzione della misura demolitoria in mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001 vanificherebbe a priori l’interesse ad ottenere la sanatoria delle opere abusive, determinando l’inconveniente di demolire manufatti, per poi eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di costruire” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 13.01.2011, n. 11; TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909);
   2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo provvedimento repressivo” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.09.2013, n. 1938);
   3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.08.2012 n. 1447...” )>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.09.2014, n. 2342).
Le sopra riportate soluzioni interpretative soddisfano evidenti esigenze pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a (successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i presupposti per il suo rilascio” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 18.06.2019 n. 1061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre per i titoli edilizi “ordinari” il termine d’impugnazione decorre dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la portata lesiva dell’intervento assentito, per i titoli in sanatoria il termine decorre invece dalla data in cui l’interessato ne abbia avuta la piena conoscenza in forza di comunicazione individuale, non supplita dall’eventuale pubblicazione.
Il diverso regime si spiega con la circostanza che, in presenza di opere edilizie abusive, la sopravvenienza di un titolo sanante costituisce un evento ipotetico e incerto in relazione al quale è irragionevole pretendere dall’interessato l’esecuzione di continue verifiche agli uffici comunali o accessi all’albo pretorio onde evitare di decadere dall’impugnazione.
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2. In via pregiudiziale, la difesa dell’amministrazione resistente eccepisce l’irricevibilità del ricorso, assumendo che il termine per l’impugnazione dovrebbe farsi decorrere dall’ultimo giorno della pubblicazione del titolo in sanatoria rilasciato alla signora Ri., eseguita il 15.06.2015 a norma dell’art. 20, co. 6, d.P.R. n. 380/2011 e dell’art. 23, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 33/2013.
L’eccezione è infondata.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che, mentre per i titoli edilizi “ordinari” il termine d’impugnazione decorre dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la portata lesiva dell’intervento assentito, per i titoli in sanatoria il termine decorre invece dalla data in cui l’interessato ne abbia avuta la piena conoscenza in forza di comunicazione individuale, non supplita dall’eventuale pubblicazione. Il diverso regime si spiega con la circostanza che, in presenza di opere edilizie abusive, la sopravvenienza di un titolo sanante costituisce un evento ipotetico e incerto in relazione al quale è irragionevole pretendere dall’interessato l’esecuzione di continue verifiche agli uffici comunali o accessi all’albo pretorio onde evitare di decadere dall’impugnazione (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10.09.2018, n. 5307; C.G.A.R.S., sez. giurisd., 14.04.2014, n. 207; Cons. Stato sez. IV, 26.03.2013, n. 1699; id., sez. V, 27.06.2012, n. 3777; id., sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; id., sez. VI, 10.12.2010, n. 8705).
Nella specie, nessuna comunicazione individuale dell’avvenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria risulta eseguita nei confronti dei ricorrenti, che pure avevano tentato di opporsi alla sanatoria e la cui posizione era perciò nota al Comune. Il termine per l’impugnazione, di conseguenza, non può che farsi decorrere dall’accesso agli atti eseguito l’8 marzo 2016 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2019 n. 856 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA-  URBANISTICAGli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio.
Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una destinazione a verde privato.

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... per l'annullamento:
   - dell'ordinanza n. 251 del 26.11.2014, con cui il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha annullato in autotutela la SCIA presentata al prot. 20183 il 22.07.2014 dal Sig. Ro.Ba. per l'avvio dell'attività di realizzazione di una recinzione in pali e rete metallica in area a verde privata ubicata in Cecina, via ...;
   - dell'ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha disposto il divieto di prosecuzione delle attività di cui alla SCIA innanzi richiamata;
...
1. Il ricorrente, signor Ro.Ba., è proprietario nel Comune di Cecina di un’area inedificata, di forma rettangolare, posta in fregio alla via .... Essa ha destinazione urbanistica a verde pubblico secondo il regolamento urbanistico comunale approvato con deliberazione consiliare del 27.03.2014, che il signor Ba. ha impugnato in parte qua mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ancora non definito.
Il presente giudizio origina, invece, dall’impugnazione che il ricorrente propone avverso i provvedimenti adottati dal Comune a fronte dell’iniziativa, da lui formalizzata con S.C.I.A. del 22.07.2014, di recintare l’area in questione sull’unico lato libero (quello al confine con la pubblica via, essendo gli altri lati già delimitati dai muri di cinta delle proprietà limitrofe).
Si tratta in particolare dell’ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale è stata inibita la prosecuzione dell’attività, e della successiva ordinanza n. 251 del 26.11.2014 di “annullamento” in autotutela della S.C.I.A., ambedue motivate – in estrema sintesi – con riguardo all’esigenza di tutelare l’uso pubblico gravante sull’area, che verrebbe a essere impedito dalla recinzione.
...
Attualmente, l’area è destinata a standard di “verde pubblico esistente” che le deriva dal regolamento urbanistico approvato dal Comune nel 2014. È dunque errata la qualificazione contenuta nella S.C.I.A. presentata dal ricorrente, ove si parla di area a “verde privato”.
Dal canto loro, gli atti impugnati prima che alla destinazione urbanistica hanno riguardo, lo si è accennato, all’esistenza di un diritto di uso pubblico formatosi attraverso l’utilizzo collettivo del bene come area verde al servizio della collettività indeterminata dei cives, protratto da tempo immemorabile e accompagnato dall’idoneità del bene stesso a soddisfare esigenze di carattere generale, nonché confermato dalla ripetuta esecuzione di interventi manutentivi (taglio dell’erba, piantumazione di alberi) da parte del Comune. L’ordinanza del 26.11.2014 fa espressamente risalire le origini dell’uso pubblico del terreno all’epoca dell’urbanizzazione di quell’area cittadina e all’iniziale previsione del suo acquisto gratuito alla mano pubblica, poi non verificatosi; e parimenti ascrive a tale previsione iniziale la giustificazione dell’attuale destinazione a verde del terreno.
Ora, è ben possibile scorgere nel contratto di compravendita/donazione del 1973 e negli impegni assunti in quella sede dagli allora proprietari un principio di prova della messa a disposizione del terreno in favore della collettività. Ai fini di causa, non giova tuttavia approfondire se ci si trovi in presenza della costituzione di una servitù pubblica per dicatio ad patriam, che, com’è noto, prescinde dalle ragioni e dalle intenzioni sottese al comportamento del proprietario, il quale assoggetti volontariamente e in modo non precario un bene all’uso pubblico.
A essere irrimediabilmente incompatibile con la chiusura del fondo è, infatti, la sua destinazione a standard di verde pubblico esistente, che sembra voler prendere atto di una situazione in essere e della quale i provvedimenti comunali danno comunque conto.
Gli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio. Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una destinazione a verde privato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4148; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Se poi la destinazione impressa al fondo di proprietà del ricorrente presenti natura conformativa o espropriativa, con tutto quel che ne consegue in termini di durata e di indennizzabilità, è questione che non dipende dalla compressione di singole facoltà dominicali, ma, più in generale, dal contenuto delle attività consentite al proprietario dalla disciplina urbanistica dell’area. In ogni caso, essa non rileva ai fini della presente decisione e andrà risolta in altra sede.
Indipendentemente dalla prova certa dell’esistenza del diritto di uso pubblico rivendicato dall’amministrazione resistente, il divieto di prosecuzione dell’attività opposto dal Comune al ricorrente appare dunque frutto di una scelta legittima ed anzi obbligata, come legittimo è il successivo “annullamento” della S.C.I.A., ancorché non necessario una volta esercitato il potere inibitorio (nel sistema delineato dall’art. 19 della legge n. 241/1990, l’intervento in autotutela disciplinato dal quarto comma ha una funzione rimediale rispetto al mancato esercizio del potere inibitorio di cui al terzo comma).
3. In forza di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAResta escluso che la determinazione e richiesta del contributo di costruzione debba avvenire "una tantum" al momento del rilascio del permesso di costruire, ben potendo (ed anzi dovendo) intervenire anche successivamente per l'eventuale differenza in favore del bilancio comunale, purché nell'ordinario termine di prescrizione decennale, e ferma restando la necessità (rispettata nel caso di specie) di riferimento a tariffe già approvate alla data del rilascio del permesso di costruire.
E' stato statuito, invero, che:

   - «
Le delibere con cui i Comuni determinino i costi in misura differente da quanto deciso dalla Regione, avvalendosi di facoltà previste da leggi regionali …, hanno carattere eventuale e non condizionano l'immediata vigenza e operatività del costo-base fissato dalla Regione. Tali delibere si applicano comunque solo ai nuovi permessi, ma solo per la parte di incremento o diminuzione rispetto al costo-base fissato con atto regionale; in altri termini, nel caso di contributo di costruzione per nuove costruzioni, il principio di irretroattività delle delibere comunali sopravvenute opera sì, ma solo per il costo in aumento o in riduzione», e che
   - «[...] l'ipotesi ora in discussione è assimilabile all'errore di calcolo, perché non sussiste una differenza sostanziale tra il caso in cui la determinazione del contributo di costruzione richiesto sia l'esito di una non corretta operazione aritmetica e quello in cui il Comune abbia applicato una tariffa diversa da quella effettivamente vigente, perché in entrambe le ipotesi l'ente, per una falsa rappresentazione della realtà, ha determinato l'onere in una misura diversa da quella che avrebbe avuto il diritto-dovere di pretendere».
Altresì, si è affermato che: “Gli atti con i quali la p.a. determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall'art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l'esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell'ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell'autotutela dettata dall'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio. La p.a., nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l'importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell'ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza”.

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1. La società ricorrente, titolare di permesso di costruire n. 85/09, per l’edificazione di edificio in agro di Galatone, chiede l’annullamento degli atti in epigrafe, con cui il Comune ha chiesto il pagamento del conguaglio degli oneri concessori comunali.
...
2. Con un unico, articolato motivo di gravame, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 16 d.P.R. n. 380/01 (TUE), nonché del principio di irretroattività degli atti aventi natura patrimoniale, avuto riguardo al principio per il quale la determinazione degli oneri concessori non solo deve avvenire sulla base delle tariffe vigenti, ma che la stessa non possa che essere richiesta una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio, senza possibilità di applicazione postuma e retroattiva di coefficienti non considerati al momento del rilascio del titolo.
Le censure sono infondate.
2.2. Secondo l’orientamento già espresso da questa Sezione (Tar Lecce, n. 156/2018) e confermato dal Consiglio di Stato,
«Le delibere con cui i Comuni determinino i costi in misura differente da quanto deciso dalla Regione, avvalendosi di facoltà previste da leggi regionali …, hanno carattere eventuale e non condizionano l'immediata vigenza e operatività del costo-base fissato dalla Regione. Tali delibere si applicano comunque solo ai nuovi permessi, ma solo per la parte di incremento o diminuzione rispetto al costo-base fissato con atto regionale; in altri termini, nel caso di contributo di costruzione per nuove costruzioni, il principio di irretroattività delle delibere comunali sopravvenute opera sì, ma solo per il costo in aumento o in riduzione», inoltre, «[...] l'ipotesi ora in discussione è assimilabile all'errore di calcolo, perché non sussiste una differenza sostanziale tra il caso in cui la determinazione del contributo di costruzione richiesto sia l'esito di una non corretta operazione aritmetica e quello in cui il Comune abbia applicato una tariffa diversa da quella effettivamente vigente, perché in entrambe le ipotesi l'ente, per una falsa rappresentazione della realtà, ha determinato l'onere in una misura diversa da quella che avrebbe avuto il diritto-dovere di pretendere» (Cons. St. n. 2821/2017).
2.3. Di recente, tali principi sono stati confermati dal Consiglio di Stato, che nella sua veste più autorevole ha affermato che: “Gli atti con i quali la p.a. determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall'art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l'esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell'ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell'autotutela dettata dall'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio. La p.a., nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l'importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell'ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza” (C.d.S, AP n. 12/2018).
2.4. Alla stregua dei principi sopra riportati, resta escluso che la determinazione e richiesta dei contributi di costruzione debbano avvenire "una tantum" al momento del rilascio del permesso di costruire, ben potendo (ed anzi dovendo) intervenire anche successivamente per l'eventuale differenza in favore del bilancio comunale, purché nell'ordinario termine di prescrizione decennale, e ferma restando la necessità (rispettata nel caso di specie) di riferimento a tariffe già approvate alla data del rilascio del permesso di costruire.
3. Per tali ragioni, la richiesta di pagamento deve ritenersi immune dalle lamentate censure, costituendo la risultante della corretta applicazione dei principi sopra espressi.
4. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è infondato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 12.06.2019 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio ritiene di condividere quella giurisprudenza che, pronunciandosi su analoghe controversie, ha avuto modo di precisare che:
   a) “(…)in base alla procedura delineata dal comma 9 dell'art. 87 dlgs 259/2003, il decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza di installazione di un impianto di telefonia mobile e la mancanza di un provvedimento di diniego comunicato entro detto termine comportino la formazione del silenzio-assenso sulla relativa istanza, che costituisce titolo abilitativo per la realizzazione dell’impianto stesso, su cui l’ufficio preposto non può intervenire se non previo annullamento in sede di autotutela del provvedimento di assenso in precedenza perfezionatosi e sempre ove sussista un effettivo interesse pubblico al ripristino della legalità;
   b) (…) ai fini del rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 87 non sia necessario che l’istante produca né il preteso parere igienico sanitario “non esistendo equivalenza in termini edilizi tra il concetto di costruzione e quello d'impianto tecnologico, che non richiede di essere sottoposto alle stesse valutazioni igieniche che si richiedono per le costruzioni fruibili in termini di abitazione delle persone”, né -tanto meno- il parere A.R.P.A. richiesto, ai sensi del comma 4 del citato art. 87, solo ed esclusivamente ai fini della concreta attivazione dell’impianto e non per la formazione del titolo edilizio e per l’inizio dei lavori, né, ancora, il titolo di proprietà, non essendo esso prescritto né dalla norma né dal modello di domanda di cui all’allegato 13, del d.lgs. n. 259/2003 né, infine, la denuncia della verifica sismica al competente Ufficio del Genio Civile che, sebbene debba essere effettuata prima dell'inizio dei lavori, non risulta di fatto contemplata fra i documenti che devono essere tassativamente allegati all'istanza/comunicazione di cui all’art. 87”.
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F. - Ciò premesso in punto di fatto, il Collegio osserva che la disciplina applicabile alla fattispecie in esame è contenuta nell’art. 87 d.lgs. n. 259/2003, disposizione che prevede che, decorsi novanta giorni dalla presentazione dell’istanza di autorizzazione senza che sia comunicato un provvedimento di diniego da parte del Comune o un parere negativo da parte dell’organismo competente a effettuare i controlli di cui all'art. 14 legge n. 36/2001 (l’ARPA Sicilia) si ha la formazione tacita sia dell'autorizzazione comunale, sia del parere favorevole dell'organismo competente ad effettuare i controlli.
In forza della citata disciplina, il Comune destinatario della predetta istanza ha l’onere di verificare la compatibilità dell’impianto, per i soli profili urbanistici ed edilizi di propria esclusiva competenza, nel termine di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza, e il termine predetto non è sospeso durante il tempo necessario per il rilascio del parere ARPA.
Il Collegio ritiene di condividere quella giurisprudenza, che pronunciandosi su analoghe controversie, ha avuto modo di precisare che:
   a) “(…)in base alla procedura delineata da tale comma 9, il decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza di installazione di un impianto di telefonia mobile e la mancanza di un provvedimento di diniego comunicato entro detto termine comportino la formazione del silenzio-assenso sulla relativa istanza, che costituisce titolo abilitativo per la realizzazione dell’impianto stesso, su cui l’ufficio preposto non può intervenire se non previo annullamento in sede di autotutela del provvedimento di assenso in precedenza perfezionatosi e sempre ove sussista un effettivo interesse pubblico al ripristino della legalità (in tal senso, ex multis, TAR Campania, Napoli, sezione VII, n. 2407/2015) (…);
   b) (…) ai fini del rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 87 non sia necessario che l’istante produca né il preteso parere igienico sanitario “non esistendo equivalenza in termini edilizi tra il concetto di costruzione e quello d'impianto tecnologico, che non richiede di essere sottoposto alle stesse valutazioni igieniche che si richiedono per le costruzioni fruibili in termini di abitazione delle persone” (in tal senso, C.G.A.R.S., n. 220/2015), né -tanto meno- il parere A.R.P.A. richiesto, ai sensi del comma 4 del citato art. 87, solo ed esclusivamente ai fini della concreta attivazione dell’impianto e non per la formazione del titolo edilizio e per l’inizio dei lavori (ex multis, questa Sezione interna, n. 1740/2015), né, ancora, il titolo di proprietà, non essendo esso prescritto né dalla norma né dal modello di domanda di cui all’allegato 13, del d.lgs. n. 259/2003 (in tal senso, TAR Sicilia, Palermo, n. 1007/2007) né, infine, la denuncia della verifica sismica al competente Ufficio del Genio Civile che, sebbene debba essere effettuata prima dell'inizio dei lavori, non risulta di fatto contemplata fra i documenti che devono essere tassativamente allegati all'istanza/comunicazione di cui all’art. 87 (in tal senso, Consiglio di Stato, sezione VI, n. 7128/2010)
” (TAR, Sicilia, Catania, sez. I, 06/06/2017, n. 1326; sez. I, 19/10/2016, n. 2585).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono e della documentazione versata in atti deve ritenersi che il provvedimento del 31.12.2009, numero 105, con cui si ordina “l'immediata rimozione di quanto fini qui collocato ...”, risulta illegittimo essendosi formato per silentium il provvedimento comunale di autorizzazione alla realizzazione della s.r.b., per il cui perfezionamento non era necessario che la società ricorrente dimostrasse al Comune intimato l'avvenuto rilascio del parere ARPA.
G. - Pertanto, in accoglimento del primo motivo ed assorbita ogni altra censura, il ricorso va accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 31.05.2019 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di provvedimenti con motivazione plurima, solo l'accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati può comportare l'illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi.
Ne consegue che nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze

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8.1. Occorre, in primo luogo, evidenziare che il provvedimento impugnato è un atto plurimotivato in quanto basato su molteplici giustificazioni.
Secondo la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, in presenza di provvedimenti con motivazione plurima, solo l'accertata illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati può comportare l'illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi (cfr. Cons. St., V, 10.03.2009 n. 1383; Cons. St., V, 28.12.2007, n. 6732; Tar Campania, Napoli, VII, 28.07.2014, n. 4349; Tar Campania, Napoli, VII, 09.12.2013 n. 5632).
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze (cfr. Cons. St., IV, 05.02.2013, n. 694; Cons. St., IV, 08.06.2007 n. 3020; Tar Campania, Napoli, III, 09.02.2013, n. 844; Tar Campania, Napoli, II, 15.01.2013, n. 304) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.05.2019 n. 2909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di rilascio del permesso in sanatoria il Comune non ha il potere di dirimere controversie tra privati -potere che spetta all'autorità giudiziaria ordinaria-, dovendo solo verificare se l’intervento sia conforme alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione dell’abuso e della domanda.
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Si osserva che, per costante orientamento giurisprudenziale, in sede di rilascio del permesso in sanatoria il Comune non ha il potere di dirimere controversie tra privati -potere che spetta all'autorità giudiziaria ordinaria- (Cons. Stato, Sez. IV, 25.09.2014, n. 4818, Cons. Stato, Sez. V, 07.09.2007, n. 4703, Cons. Stato, Sez. I, 29.05.2013, n. 4927, Cons. Stato, Sez. VI, 21.11.2016, n. 4861, Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.12.2011 n. 6731; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.12.2007 n. 6332 e 11.04.2007 n. 1654), dovendo solo verificare se l’intervento sia conforme alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione dell’abuso e della domanda (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.05.2019 n. 627 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICASecondo un consolidato insegnamento:
   - se, sul piano generale, le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione (risultando le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”);
   - sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”.
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Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è precisato che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.
In particolare, si è affermato che “le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
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È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità; in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione risultando dotata della più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico.
In tal senso, la scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni.
Tali evenienze generatrici di affidamento “qualificato”, sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In mancanza di tali eventi non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un'aspettativa generica analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso.
Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria dell'area secondo la previgente destinazione.
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori.
Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso.
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1. Vanno premesse alla disamina delle dedotte censure talune coordinate interpretative dalla giurisprudenza elaborate in tema di sindacabilità delle scelte urbanistiche dell’Amministrazione, per come sostanziate dall’adozione di una pianificazione del territorio avente carattere modificativo e/o immutativo rispetto alla previgente disciplina.
Secondo un consolidato insegnamento (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 05.09.2016 n. 3806 e 11.10.2017 n. 4707):
   - se, sul piano generale, le scelte di pianificazione urbanistica costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione (risultando le stesse, nell’ambito del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, censurabili, oltre che per violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito “sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”);
   - sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti” (Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012 n. 2710).
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è precisato che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008 n. 5478).
In particolare, si è affermato (Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221; id., 08.06.2011 n. 3497), che “le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (Cons. Stato, Ad. Plen., 22.12.1999 n. 24; sez. IV, 20.06.2012 n. 3571; TAR Veneto, sez. II, 06.08.2012 n. 1101); in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione risultando dotata della più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico.
In tal senso, la scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012 n. 854).
Tali evenienze generatrici di affidamento “qualificato”, sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In mancanza di tali eventi non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un'aspettativa generica analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012 n. 854 cit.; sez. IV, 04.04.2011 n. 2104).
Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria dell'area secondo la previgente destinazione.
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori.
Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2012 n. 4867 cit.)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.05.2019 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Del Documento di Piano va rammentata la natura ricognitiva ed il carattere meramente programmatico, come del resto sottolineato in giurisprudenza: di talché in tale strumento è individuabile “una finalità di programmazione”, alla quale è estranea l’esplicitazione di “prescrizioni incidenti in via diretta sul regime giuridico dei suoli; conseguentemente”, con riveniente esclusione che “qualsiasi scostamento dalla scheda d'ambito, realizzato in sede di pianificazione attuativa, dia luogo di per sé ad illegittimità dello strumento attuativo per violazione del P.G.T.”.
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La lettura degli atti del P.G.T. consente di verificare il pieno rispetto di quanto disposto dall’art. 8, comma 2, lett. e), della l.r. 12/2005 relativamente ai contenuti del Documento di Piano relativamente alla disciplina degli Ambiti di Trasformazione.
Tale norma (nel testo vigente al momento dell’approvazione del P.G.T.), prevedeva, infatti, che il Documento di Piano “individua, anche con rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione, definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento, preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale, ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva”.
Documento di Piano del quale va rammentata, peraltro, la natura ricognitiva ed il carattere meramente programmatico, come del resto sottolineato in giurisprudenza: di talché in tale strumento è individuabile “una finalità di programmazione”, alla quale è estranea l’esplicitazione di “prescrizioni incidenti in via diretta sul regime giuridico dei suoli; conseguentemente”, con riveniente esclusione che “qualsiasi scostamento dalla scheda d'ambito, realizzato in sede di pianificazione attuativa, dia luogo di per sé ad illegittimità dello strumento attuativo per violazione del P.G.T.” (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30.11.2015, n. 2503 e 21.05.2013, n. 1339)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.05.2019 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha individuato le caratteristiche proprie del concetto di pertinenza urbanistica (distinta, dal punto di vista concettuale, dalla corrispondente nozione civilistica) nel nesso oggettivo, strumentale e funzionale, con la cosa principale, nel mancato possesso per natura e struttura di pluralità di destinazioni in capo al manufatto, nel carattere durevole, nella non differente utilizzabilità economica, nella ridotta dimensione unitamente ad una propria individualità fisica, nell’accessione ad un edificio preesistente edificato e nell’assenza di un autonomo valore di mercato.
Invero, “La realizzazione di nuovi manufatti, anche qualora possano essere qualificati come pertinenze sotto il profilo civilistico, richiede il titolo edilizio. La qualifica di pertinenza urbanistica è infatti applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica. In sostanza, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
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Preliminarmente, va rilevato che la giurisprudenza ha individuato le caratteristiche proprie del concetto di pertinenza urbanistica (distinta, dal punto di vista concettuale, dalla corrispondente nozione civilistica: TAR Emilia Romagna, Bologna, II, 13.09.2006, nr. 2029) nel nesso oggettivo, strumentale e funzionale, con la cosa principale, nel mancato possesso per natura e struttura di pluralità di destinazioni in capo al manufatto, nel carattere durevole, nella non differente utilizzabilità economica, nella ridotta dimensione unitamente ad una propria individualità fisica, nell’accessione ad un edificio preesistente edificato e nell’assenza di un autonomo valore di mercato (TAR Calabria, Catanzaro, II, 10.06.2008, nr. 647; TAR Lazio, Latina, 04.07.2006, nr. 428; da ultimo, vedasi Consiglio di Stato, sez. VI , 06/02/2019, n. 904, secondo cui “La realizzazione di nuovi manufatti, anche qualora possano essere qualificati come pertinenze sotto il profilo civilistico, richiede il titolo edilizio. La qualifica di pertinenza urbanistica è infatti applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica. In sostanza, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume").
Anche nella fattispecie in esame, dunque, poiché manca, in tutta evidenza, la connessione meramente accessoria e funzionale con l’edificio preesistente, e poiché le opere hanno autonoma fruibilità ed identità edilizia, non risulta provata l’affermata natura di opere pertinenziali (TAR Sicilia-Catania, sez. I, sentenza 14.05.2019 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d’uso del garage non è possibile a meno che non sia provato il rispetto dei vincoli derivanti dall’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, degli artt. 17 e 18 della legge n. 765 del 1967 e dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985.
Invero, tale normativa -per il suo rilievo pubblicistico- non consente il rilascio di titoli edilizi con essa contrastanti, sia se si tratti di titoli comportanti la realizzazione ex novo di edifici, sia se di tratti di titoli che –a titolo di sanatoria– comunque consolidano la commissione di illeciti caratterizzati dalla riduzione delle superfici destinate a parcheggio; con la conseguenza che il mutamento di destinazione d’uso, con riduzione degli spazi destinati a parcheggi, può essere assentito in sede amministrativa –in presenza degli altri necessari presupposti– solo quando risulti che non si incide nella misura minima dei medesimi spazi, come imposti dalla legge.
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In primo luogo, risulta evidente (e non viene smentito in ricorso) che le opere di cui trattasi sono ulteriori rispetto al corpo di fabbrica principale da condonare (il provvedimento invero, fa salvi gli ulteriori provvedimenti sull’istanza di condono edilizio prot. n. 12083 del 04.06.1986, per le opere preesistenti); inoltre, il cambio di destinazione d’uso del garage non è comunque possibile a meno che non sia provato il rispetto dei vincoli derivanti dall’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, degli artt. 17 e 18 della legge n. 765 del 1967 e dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 (normativa che, per il suo rilievo pubblicistico, non consente il rilascio di titoli edilizi con essa contrastanti, sia se si tratti di titoli comportanti la realizzazione ex novo di edifici, sia se di tratti di titoli che –a titolo di sanatoria– comunque consolidano la commissione di illeciti caratterizzati dalla riduzione delle superfici destinate a parcheggio; con la conseguenza che il mutamento di destinazione d’uso, con riduzione degli spazi destinati a parcheggi, può essere assentito in sede amministrativa –in presenza degli altri necessari presupposti– solo quando risulti che non si incide nella misura minima dei medesimi spazi, come imposti dalla legge; v. Cass. civ., 24.11.2003, n. 17882; Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2013 n. 3845; TAR Calabria, Catanzaro, II, 14.06.2016, n. 1242; Consiglio di Stato , sez. VI, 25.09.2017, n. 4469; TAR Calabria, Reggio Calabria, 05.02.2018, nr. 58) (TAR Sicilia-Catania, sez. I, sentenza 14.05.2019 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPermane il potere dell’autorità amministrativa di rilasciare, sino all’esecuzione d’ufficio, la concessione in sanatoria ove accerti l’esistenza dei relativi presupposti.
Infatti, sebbene l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 richiami il precedente art. 31, comma 3, esso, a ben vedere, indica comunque, quale termine ultimo per la presentazione della domanda di sanatoria, l’avvenuta irrogazione delle sanzioni amministrative su un piano di effettività e non già meramente previsionale: e tanto poiché il termine di novanta giorni ai sensi del citato art. 31, comma 3, è fissato unicamente per la demolizione volontaria del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il decorso di detto termine la P.A. può -e deve, trattandosi di attività vincolata- procedere agli ulteriori adempimenti della serie procedimentale) mentre, fino a quando l’opera esiste nella sua integrità (e, quindi, fino all’esecuzione d’ufficio), è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di evitare le previste sanzioni amministrative.
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L’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale non perde efficacia a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, né del diniego di sanatoria (infine sopravvenuto).
Ed invero, il Collegio ritiene opportuno ricordare (quanto al rapporto tra ordinanza di demolizione e istanza di sanatoria edilizia) che è giurisprudenza consolidata quella secondo cui:
   -  <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio. Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”>>,
con l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere, prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive: e tanto anche a tutela del destinatario dell’ingiunzione a demolire, il quale, quindi, può così beneficiare dell’ulteriore (nuovo) termine di novanta giorni (nel caso di rigetto dell’istanza di sanatoria), decorrenti dall’adozione della (nuova) ordinanza di demolizione, per provvedere alla demolizione del manufatto edilizio abusivo ed evitare, quindi, l’adozione degli ulteriori atti sanzionatori da parte della P.A..
Tuttavia, analoga ratio non sussiste nella fattispecie (come quella in esame), in cui l’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 sia stata presentata successivamente all’adozione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, in considerazione della (presupposta) definitività dell’ordinanza di demolizione e del già intervenuto effetto ablatorio del (già) disposto atto di acquisizione.
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2.5 - I ricorrenti deducono, infine, l’“illegittimità sopravvenuta” dei provvedimenti impugnati con l’atto introduttivo del giudizio, in ragione dell’avvenuta presentazione del permesso di costruire in sanatoria del manufatto edilizio realizzato “sine titulo”, sostenendo che “Siffatta istanza, quantunque successiva all’emissione dell’atto formale di accertamento dell’inadempimento dell’ordine di demolizione e di acquisizione delle aree al patrimonio comunale, impone che gli effetti del provvedimento sanzionatorio gravato debbano ritenersi venuti meno, non essendo conforme a logica -e, dunque, ipotizzabile- che siffatto provvedimento venga portato alle sue conseguenze, peraltro estreme, in pendenza della domanda di legittimazione postuma” (“caducazione automatica”), in ossequio ai principi di economia e di ragionevolezza dell’azione amministrativa.
Sostengono, poi, che, in caso di diniego della sanatoria, “si darà luogo all’emissione di un nuovo ordine di demolizione, il cui fondamento deriverebbe non solo dalla abusività dell’opera, ma anche -e soprattutto- dal definitivo accertamento della insanabilità dell’abuso”.
2.5.1 - Anche tale censura non convince.
Il Collegio ritiene opportuno, sul punto, premettere, condividendo (nella presente sede di merito) quanto affermato dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato con la menzionata ordinanza cautelare 13.11.2013, n. 4421 (laddove ha ritenuto che “permane il potere dell’autorità amministrativa di rilasciare, sino all’esecuzione d’ufficio, la concessione in sanatoria ove accerti l’esistenza dei relativi presupposti” ed anche, essenzialmente, sostenuti, “In limine”, nel ricorso introduttivo medesimo, nella parte in cui si espone che “risultano sussistenti tutte le condizioni per considerare ammissibile e tempestiva l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, l’anteriorità di detta istanza rispetto all’irrogazione delle sanzioni amministrative sul piano effettivo e non solo previsionale”), che permane il potere dell’autorità amministrativa di rilasciare, sino all’esecuzione d’ufficio, il permesso di costruire in sanatoria, qualora accerti l’esistenza dei relativi presupposti.
Infatti, sebbene l’art. 36 del D.P.R. n. 380 cit. richiami il precedente art. 31, comma 3, esso, a ben vedere, indica comunque, quale termine ultimo per la presentazione della domanda di sanatoria, l’avvenuta irrogazione delle sanzioni amministrative su un piano di effettività e non già meramente previsionale: e tanto poiché il termine di novanta giorni ai sensi del citato art. 31, comma 3, è fissato unicamente per la demolizione volontaria del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il decorso di detto termine la P.A. può -e deve, trattandosi di attività vincolata- procedere agli ulteriori adempimenti della serie procedimentale) mentre, fino a quando l’opera esiste nella sua integrità (e, quindi, fino all’esecuzione d’ufficio), è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di evitare le previste sanzioni amministrative.
Ciò precisato, ad avviso del Collegio, l’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale non perde efficacia a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, né del diniego di sanatoria (infine sopravvenuto).
Ed invero, il Collegio ritiene opportuno ricordare (quanto al rapporto tra ordinanza di demolizione e istanza di sanatoria edilizia) che è giurisprudenza consolidata di questa Sezione quella secondo cui (ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 31.03.2017, n. 534) <<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266). Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce, III, 30.09.2016, n. 1512), con l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere, prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive: e tanto anche a tutela del destinatario dell’ingiunzione a demolire, il quale, quindi, può così beneficiare dell’ulteriore (nuovo) termine di novanta giorni (nel caso di rigetto dell’istanza di sanatoria), decorrenti dall’adozione della (nuova) ordinanza di demolizione, per provvedere alla demolizione del manufatto edilizio abusivo ed evitare, quindi, l’adozione degli ulteriori atti sanzionatori da parte della P.A..
Tuttavia, analoga ratio non sussiste nella fattispecie (come quella in esame), in cui l’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 sia stata presentata successivamente all’adozione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, in considerazione della (presupposta) definitività dell’ordinanza di demolizione e del già intervenuto effetto ablatorio del (già) disposto atto di acquisizione (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.05.2019 n. 749 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis l. 241/1990 si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo.
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Risulta, innanzitutto, fondata la censura, di carattere formale, di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, in relazione all’adozione della nota comunale del 02.07.2017.
Invero, l’istituto del preavviso di rigetto di cui al succitato art. 10-bis si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto collaborativo (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n. 2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR Sardegna, sez. II, 20.09.2018, n. 797; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n. 2137).
La comunicazione comunale del 02.07.2017 è, dunque, illegittima, e va annullata, non essendo stata data la possibilità alla ricorrente di partecipare al procedimento al fine di fornire il proprio apporto collaborativo, esponendo le ragioni a sostegno della propria domanda (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.05.2019 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mancato inizio dei lavori nel termine di legge.
La giurisprudenza ha chiarito che “la ratio complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo sull'attività di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il compimento dell'opera iniziata: il quadro teleologico che connota tale compendio normativo giustifica il carattere automatico dell'effetto decadenziale, tanto è vero che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un provvedimento avente non solo carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall'art. 15, comma 2, ma anche natura ricognitiva del venir meno degli effetti del titolo precedentemente rilasciato”.
E’ stato ripetutamente affermato che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto, e che il provvedimento che la pronuncia ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine fissato dalla legge.
In definitiva, la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto: il provvedimento comunale sul punto ha quindi carattere strettamente vincolato ed ha valore meramente ricognitivo della vicenda già prodottasi, tanto che, in realtà, l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso non è neppure necessaria
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1.1 Secondo l’art. 15, comma 2, del DPR 380/2001 nel testo vigente ratione temporisIl termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari”.
1.2 La giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 23/11/2018 n. 6628 che richiama sez. IV – 05/07/2017 n. 3283) ha chiarito che “la ratio complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo sull'attività di edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al momento della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il compimento dell'opera iniziata: il quadro teleologico che connota tale compendio normativo giustifica il carattere automatico dell'effetto decadenziale, tanto è vero che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un provvedimento avente non solo carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall'art. 15, comma 2, ma anche natura ricognitiva del venir meno degli effetti del titolo precedentemente rilasciato”.
E’ stato ripetutamente affermato che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto, e che il provvedimento che la pronuncia ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine fissato dalla legge (cfr. per tutte TAR Campania Napoli, sez. VIII – 02/04/2019 n. 1827).
In definitiva, la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del relativo presupposto: il provvedimento comunale sul punto ha quindi carattere strettamente vincolato ed ha valore meramente ricognitivo della vicenda già prodottasi, tanto che, in realtà, l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso non è neppure necessaria (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II – 18/01/2018 n. 137, che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 22/10/2015, n. 4823; TAR Puglia Lecce, sez. I – 10/04/2018 n. 603) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.04.2019 n. 416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento di concessione di occupazione di suolo del demanio marittimo non può valere anche come permesso di costruire trattandosi di materie sottoposte a disciplina diversa, rimesse ad Amministrazioni distinte e rispondenti a diverse finalità.
Infatti il rilascio della concessione di suolo demaniale marittimo non detiene alcuna valenza autorizzativa sul piano edilizio, ossia non esime dal conseguimento del titolo abilitante all’edificazione.

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In secondo luogo va osservato che, come già chiarito in giurisprudenza “il provvedimento di concessione di occupazione di suolo del demanio marittimo non può valere anche come permesso di costruire trattandosi di materie sottoposte a disciplina diversa, rimesse ad Amministrazioni distinte e rispondenti a diverse finalità; infatti il rilascio della concessione di suolo demaniale marittimo non detiene alcuna valenza autorizzativa sul piano edilizio, ossia non esime dal conseguimento del titolo abilitante all’edificazione” (cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.05.2016, n. 1223; Tar Campania, Napoli, sez. IV, 20.01.2009, n. 202; Tar Lazio, Roma, sez. I. 16.05.2008, n. 4381).
Nel caso di specie le opere realizzate, ancorché oggetto di un provvedimento di concessione demaniale marittima da parte della competente autorità, necessitavano pertanto comunque di un autonomo titolo edilizio comunale e dell’autorizzazione paesaggistica, stante la piena autonomia, oltre che l’operatività su livelli diversi, dei distinti settori amministrativi chiaramente evincibile dalla duplice normativa, edilizia e paesaggistica da una parte, marittima dall’altra, applicabile (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.09.2012, n. 5059), dato che la necessità dell'apposito titolo edilizio per le opere da eseguirsi dai privati su aree demaniali era ed è, infatti, espressamente prevista dall'art. 8 del DPR 06.06.2001, n. 380, in cui è stato trasfuso il contenuto dell'art. 31, comma 3, della legge 17.08.1942, n. 1150 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.04.2019 n. 513 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa è granitica nel ritenere che la risalenza nel tempo dell'intervento edilizio e, in particolare, la pretesa realizzazione delle opere in un periodo antecedente al 1967 (data di entrata in vigore della cit. legge 06.08.1967, n. 765, c.d. “legge ponte”), non sono tali da affermare che per la realizzazione del manufatto in questione non fosse necessario un idoneo titolo abilitativo.
Ed invero, la c.d. “legge ponte” ha soltanto esteso a tutto il territorio comunale quell'obbligo di titolo abilitativo per l'esercizio dello ius aedificandi che per i centri urbani risultava già introdotto dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, ma che per alcune città era già in precedenza previsto nei rispettivi regolamenti edilizi.
Si richiama, sul punto, la giurisprudenza espressasi con riguardo, ad esempio, al caso del regolamento edilizio comunale del 1934 per la città di Roma ovvero al caso del regolamento edilizio approvato nel 1935 per il Comune di Napoli.
La giurisprudenza prevalente ha, pertanto, evidenziato in via generale la mancanza di legittimità per le costruzioni realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo di munirsi del relativo titolo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali.
Peraltro, l'art. 31, ultimo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 prevede che "Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge": la norma, perciò, nel prevedere la condonabilità degli abusi, li individua con riferimento anche all'obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.
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Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, ai fini della prova della preesistenza di un manufatto in epoca antecedente l'introduzione dell'obbligo generalizzato, anche al di fuori dei centri cittadini, in aree agricole, della previa licenza edilizia (1967), occorre idonea visura catastale riportante l'immobile o altra prova documentale sufficiente al conseguimento di siffatta prova, come ad esempio un contratto notarile che faccia menzione del manufatto, indicandone una data certa di preesistenza e fornendone una adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente registrato che del manufatto faccia più dettagliata menzione.
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Ciò precisato, la richiesta di disapplicazione del predetto regolamento, formulata dalla difesa di parte ricorrente, deve essere disattesa, in quanto il cit. art. 6 del regolamento edilizio -che richiede, per ottenere il titolo abilitativo nei progetti relativi ad interventi sugli edifici esistenti, l’indicazione degli estremi dei provvedimenti abilitativi assentiti che hanno legittimato l'intervento, anche mediante sanatoria, per gli edifici costruiti o modificati dopo il 1945, e per gli edifici di epoca anteriore, la documentazione dell’anteriorità stessa- risulta pienamente coerente con la lettura interpretativa del Collegio (cfr. supra) in ordine al contenuto costituzionalmente conforme dell’art. 76, comma 8, della legge Regione Veneto 27.06.1985, n. 61.
Né può poi concordarsi con quanto affermato dalla difesa di parte ricorrente (cfr. pag. 3 della memoria di replica depositata in data 12.03.2019) secondo cui la richiesta comunale sarebbe irragionevole, potendosi al più richiedere che l’edificazione fosse anteriore al 01.09.1967, data di entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”).
Ed invero, la giurisprudenza -cfr. TAR Veneto, sez. II, 05.06.2015, n. 642- ha chiarito che il regolamento edilizio del Comune di Verona del 1924 già prescriveva la preventiva autorizzazione del Sindaco per la realizzazione di qualsiasi opera edilizia nel territorio comunale (e dunque non solo all’interno del centro abitato).
Va peraltro evidenziato che la giurisprudenza amministrativa è granitica nel ritenere che la risalenza nel tempo dell'intervento edilizio e, in particolare, la pretesa realizzazione delle opere in un periodo antecedente al 1967 (data di entrata in vigore della cit. legge 06.08.1967, n. 765, c.d. “legge ponte”), non sono tali da affermare che per la realizzazione del manufatto in questione non fosse necessario un idoneo titolo abilitativo.
Ed invero, la c.d. “legge ponte” ha soltanto esteso a tutto il territorio comunale quell'obbligo di titolo abilitativo per l'esercizio dello ius aedificandi che per i centri urbani risultava già introdotto dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, ma che per alcune città era già in precedenza previsto nei rispettivi regolamenti edilizi (arg. ex Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2014, n. 435).
Si richiama, sul punto, la giurisprudenza espressasi con riguardo, ad esempio, al caso del regolamento edilizio comunale del 1934 per la città di Roma (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2014, n. 435; TAR Lazio, Roma, sez. II, 27.03.2018, n. 3411; cfr. anche Cass. civ., Sez. Unite, 16.03.1984, n. 1792) ovvero al caso del regolamento edilizio approvato nel 1935 per il Comune di Napoli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 18.07.2016, n. 3588).
La giurisprudenza prevalente –cui si ritiene di aderire– ha, pertanto, evidenziato in via generale la mancanza di legittimità per le costruzioni realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo di munirsi del relativo titolo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali (arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. IV, 18.07.2016, n. 3588).
Peraltro, l'art. 31, ultimo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 prevede che "Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge": la norma, perciò, nel prevedere la condonabilità degli abusi, li individua con riferimento anche all'obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 18.09.2018, n. 9449; TAR Liguria, sez. I, 30.12.2014, n. 1975).
Neppure può condividersi l’argomento della difesa dell’esponente (cfr. sempre a pag. 3 della memoria di replica depositata in data 12.03.2019), secondo cui anche del predetto presupposto la ricorrente avrebbe dato dimostrazione (cfr. pagg. 6-7 della memoria), fornendo gli elementi che deporrebbero, concordemente, per la pacifica esistenza del rustico ante settembre 1967.
Ed invero, il richiamo alle fotografie del rustico allegate al progetto presentato dall’allora proprietario del terreno, protocollate in data 08.11.1968 n. 74549 P.G. – n. 1987 SK, dunque riconducibili a data certa; il documento del 27.08.1970 a firma del procuratore della “Immobiliare San Felice” che espressamente affermava che l’immobile “ab immemori esisteva”; la comunicazione prot. 061468 in data 13.10.1970, a firma dell’allora fittavolo che definiva il rustico “vecchio stracampito”; le fotografie del rustico ante e post abbattimento (foto in cui parte del rustico appare ricoperta da folta vegetazione), nonché la documentazione relativa al pozzo, contrariamente a quanto afferma parte ricorrente non sono elementi che depongono per l’esistenza del rustico ante settembre 1967.
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, infatti, ai fini della prova della preesistenza di un manufatto in epoca antecedente l'introduzione dell'obbligo generalizzato, anche al di fuori dei centri cittadini, in aree agricole, della previa licenza edilizia (1967), occorre idonea visura catastale riportante l'immobile o altra prova documentale sufficiente al conseguimento di siffatta prova, come ad esempio un contratto notarile che faccia menzione del manufatto, indicandone una data certa di preesistenza e fornendone una adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente registrato che del manufatto faccia più dettagliata menzione (arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.05.2017, n. 2515; TAR Campania, Salerno, sez. I, 06.02.2015, n. 291) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.04.2019 n. 507 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la costante giurisprudenza:
   a) allorquando una concessione sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà è consentito all’Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa. Risultando azzerato sia l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso, quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà;
   b) anche dopo l’espressa previsione della necessaria considerazione degli interessi dei destinatari dei provvedimenti ampliativi e del termine ragionevole in cui deve essere esercitata l’autotutela (art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 e novella del 2005), l’Adunanza plenaria n. 8/2017, ha affermato “che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”;
   c) anche l’ultima novella, con la legge n. 124 del 2015, all’art. 21-nonies cit. ha dettato una disciplina specifica per il caso di falsa rappresentazione dei fatti deve essere interpretata restrittivamente in riferimento alla necessità dell’accertamento processuale penale.
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10.2. Premesso in punto di fatto che, come visto, la concessione veniva rilasciata sulla base di un presupposto erroneamente rappresentato dal richiedente in riferimento alla situazione giuridica dell’immobile da demolire, va rammentato che secondo la costante giurisprudenza:
   a) allorquando una concessione sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà è consentito all’Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa. Risultando azzerato sia l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso, quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà;
   b) anche dopo l’espressa previsione della necessaria considerazione degli interessi dei destinatari dei provvedimenti ampliativi e del termine ragionevole in cui deve essere esercitata l’autotutela (art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 e novella del 2005), l’Adunanza plenaria n. 8 del 2017, ha affermato “che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”;
   c) anche l’ultima novella, con la legge n. 124 del 2015, all’art. 21-nonies cit. ha dettato una disciplina specifica per il caso di falsa rappresentazione dei fatti deve essere interpretata restrittivamente in riferimento alla necessità dell’accertamento processuale penale (Cons. Stato, sez. V, n. 3940 del 2018) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.04.2019 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità è finalizzato esclusivamente alla tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza dell'edificio e non è diretto anche a garantire la conformità urbanistico-edilizia del manufatto; con la conseguenza che la verifica di conformità edilizia effettuata a tal fine è svolta nei limiti necessari a inferirne l’assentibilità della agibilità; restando diverso e distinto il profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli edilizi, che non può ricavarsi da un incidentale accertamento compiuto in sede di rilascio della licenza di agibilità.
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10.3. Ad ogni modo, a prescindere dal tema dell’affidamento nella nostra fattispecie non prospettabile, il certificato di agibilità è finalizzato esclusivamente alla tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza dell'edificio e non è diretto anche a garantire la conformità urbanistico-edilizia del manufatto; con la conseguenza che la verifica di conformità edilizia effettuata a tal fine è svolta nei limiti necessari a inferirne l’assentibilità della agibilità; restando diverso e distinto il profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli edilizi, che non può ricavarsi da un incidentale accertamento compiuto in sede di rilascio della licenza di agibilità (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 2456 del 2018) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.04.2019 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli incentivi versati al dipendente a seguito di sentenza vanno corrisposti al lordo delle ritenute previdenziali, assistenziali e fiscali.
L'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, atteso che la determinazione delle prime attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli, mentre, quanto alle seconde, il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 19 della l. n. 218 del 1952, può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo.
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La ricorrente ha denunciato violazione falsa e applicazione dell'art. 92 del D.Lvo n. 163/2006, dell'art. 46 TUIR (DPR n. 917/1986), dell'art. 2, comma 9, della L. n. 335/1995, dell'art. 6 D.Lvo n. 314/1997, nonché dell'art. 19 L. n. 218/1952, in reazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., lamentando il riconoscimento, in favore del lavoratore, del diritto a percepire l'intero importo portato dal decreto ingiuntivo a suo tempo opposto, nella misura lorda ivi intimata, sebbene poi ridotto, in parte, per effetto di quanto nelle more pagato dalla società, dunque al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali, laddove in particolare il succitato art. 92, nel prevedere l'attribuzione di un incentivo ai professionisti interni della medesima azienda appaltante, aveva elevato l'aliquota massima dell'incentivo dall'1,5% al 2%, comprendendo in tale aumento anche gli oneri previdenziali e assistenziali a carico del prestatore d'opera e del datore di lavoro (co. 5 dell'art. 92:
«... una somma non superiore al 2% dell'importo di gara di un'ì'era o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione» ).
L'impugnata sentenza di appello, tuttavia, non avrebbe considerato i doveri di sostituto d'imposta, gravanti su di essa parte ricorrente nella corresponsione delle somme a titolo d'incentivo ex cit. art. 92, assimilate ai crediti di lavoro, trattandosi di incarichi conferiti ed eseguiti in costanza di rapporto di lavoro dipendente, sicché il pagamento delle spettanze doveva considerarsi disciplinato dal testo unico sulle imposte sui redditi.
Dunque, gli importi riconosciuti a titolo d'incentivo per attività svolte in costanza di rapporto di lavoro subordinato, in quanto elemento aggiuntivo della retribuzione, andavano sottoposti alle trattenute fiscali e previdenziali.
Né assumeva rilevanza, a dire della ricorrente, il fatto che nella specie il pagamento non fosse avvenuto tempestivamente, dovendo comunque l'ANAS versare i dovuti contributi, in quanto non esonerata da ciò in base all'art. 19 della L. n. 218/1952, norma che invece la Corte d'Appello aveva male interpretato ed applicato, richiamando alcuni precedenti giurisprudenza di legittimità. Il fatto che il pagamento del dovuto era avvenuto oltre la scadenza prevista non incideva sui doveri di "sostituto", sia ai fini fiscali che previdenziali, posti a carico di parte datoriale in base alla richiamata normativa.
Le anzidette censure non appaiono fondate.
Ed invero non si discute che le somme di cui è processo, ancorché dovute a titolo di incentivo al dipendente professionista, però nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato intrattenuto con lo stesso, rivestano natura retributiva, ciò che tuttavia non assume carattere dirimente, in senso favorevole alle tesi sostenut
e da parte ricorrente.
Infatti, correttamente l'impugnata sentenza, che pure in modo espresso ha considerato le somme de quibus dovute a titolo di differenze retributive, ha ritenuto applicabile il principio secondo cui l'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, atteso che la determinazione delle prime attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli, mentre, quanto alle seconde, il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 19 della l. n. 218 del 1952, può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo (Cass. lav. n. 18044 del 14/09/2015. V., parimenti, Cass. lav. n. 21010 del 26/06 - 13/09/2013, secondo cui l'accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, atteso che il meccanismo di queste ultime si pone in relazione al distinto rapporto d'imposta, sul quale il giudice chiamato all'accertamento ed alla liquidazione delle spettanze retributive -come pure all'assegnazione delle relative somme in sede di esecuzione forzata- non ha il potere d'interferire, restando le dette somme assoggettate a tassazione, secondo il criterio c.d. di cassa e non di competenza, soltanto una volta che saranno dal lavoratore effettivamente percepite.
Così precisandosi, poi, in motivazione:
«Questa Corte ha, anche di recente, affermato il principio secondo cui l'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore.
Ed infatti, quanto a queste ultime, al datore di lavoro è consentito procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo (ai sensi dell'art. 19 della legge 04.04.1952, n. 218); per quanto concerne, invece, le ritenute fiscali, esse non possono essere detratte dal debito per differenze retributive, giacché la determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e dovranno essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli. . ...Cass. n. 19790 del 28/09/2011, da ultimo sulla stessa linea cfr. Cass. n. 3525 del 13/02/2013).
In motivazione, si precisa che, quanto alle ritenute fiscali, il meccanismo di queste inerisce ad un momento successivo a quello dell'accertamento e della liquidazione delle spettanze retributive e si pone in relazione al distinto rapporto d'imposta, sul quale il giudice chiamato all'accertamento ed alla liquidazione predetti non ha il potere d'interferire (Cass. 07.07.2008, n. 18584; Cass. 11.02.2011, n. 3375); del resto, il lavoratore le vedrà assoggettate, secondo il criterio c.d. di cassa e non di competenza, a tassazione soltanto una volta che le avrà percepite, facultato oltretutto a scegliere modalità di applicazione di aliquote più favorevoli in rapporto al carattere eccezionale della fonte di reddito nel caso concreto. ...
») (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 21.03.2019 n. 8017).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 40, comma 6, l. n. 47/1985 (Mancata presentazione dell’istanza), per il quale: “Nella ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”,  va letto nel senso che il termine ivi previsto per la presentazione della domanda di sanatoria inizia a decorrere da quando l’aggiudicatario è stato messo in grado di conoscere il decreto di trasferimento emesso a suo favore e cioè dal momento in cui ne abbia raggiunta piena ed effettiva conoscenza.
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   - Visto l’art. 40, comma 6, l. n. 47 del 1985 (Mancata presentazione dell’istanza), per il quale: “Nella ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”;
   - Considerato che l’art. 40, comma 6, l. n. 47 cit., va letto nel senso che il termine ivi previsto per la presentazione della domanda di sanatoria inizia a decorrere da quando l’aggiudicatario è stato messo in grado di conoscere il decreto di trasferimento emesso a suo favore e cioè dal momento in cui ne abbia raggiunta piena ed effettiva conoscenza (TAR Toscana, sez. II, 12.06.2013 n. 967);
   - Considerato che nella specie risulta dagli atti che parte ricorrente abbia avuto effettiva e piena conoscenza del decreto de quo in un momento anteriore alla sua notifica e precisamente in data 14.05.2013, quando gliene è stata rilasciata copia in forma esecutiva da parte della cancelleria dell’ufficio giudiziario competente;
   - Ritenuto che, pertanto, correttamente l’Amministrazione resistente abbia rilevato l’intempestività delle domande di sanatoria presentate dalla ricorrente e che il motivo di ricorso all’esame sia evidentemente infondato;
   - Ritenuto che l’art. 46, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001, concernente la nullità degli atti giuridici relativi ad edifici la cui costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17.03.1985 e che fa decorrere il termine di centoventi giorni per la presentazione della domanda di permesso di costruire in sanatoria “dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria”, non giovi alla posizione di parte ricorrente perché non applicabile nel caso di specie, vertendosi su una istanza presentata espressamente ai sensi dell’art. 40, l. n. 47 cit. (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 08.02.2019 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di nuovi volumi mediante opere cementizie o incorporazione di strutture metalliche in parti murarie a sostegno di materiale vitreo e quant’altro contribuisca ad intercludere stabilmente lo spazio per renderlo abitabile o più convenientemente utilizzabile è attività edilizia che non rientra nel regime eccezionale dell’autorizzazione comunale, bensì in quello ordinario della concessione edilizia, permesso di costruire, non trattandosi di manutenzione straordinaria, né di opera di recupero abitativo, né di pertinenza dell’edificio, né di impianto tecnologico al suo servizio.
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Il ricorso è infondato.
Con la prima censura si deduce la violazione dell’art. 33, d.P.R. n. 380/2001, oltre all’eccesso di potere per travisamento del fatto, risultando palesemente censurabile l’atteggiamento della P.A., nel ritenere applicabile, nel caso di specie, le rubricate norme, in quanto:
   - la natura non di trasformazione ovvero di costruzione ex novo ma di mera sistemazione dello stato dei luoghi preesistente senza alcuna aggiunta e/o modifica urbanisticamente apprezzabile, rende l’intervento censurato con il provvedimento gravato, non necessitante di alcuna autorizzazione abilitativa, né permesso a costruire, trattandosi di un cancello che non interviene a modificare lo stato dei luoghi, né la destinazione d’uso dell’area da esso delimitata, che resta esterna all’appartamento del ricorrente e financo alle parti comuni del fabbricato di cui questo è parte;
   - né l’intervento sostitutivo della struttura preesistente, di mera manutenzione, quand’anche a volersi ritenere straordinaria, abbisognava, a mente della normativa in vigore al momento del presunto commesso abuso, di titolo autorizzativo, trattandosi di opere che non hanno alterato il preesistente stato dei luoghi, né l’aspetto esteriore del fabbricato, non potendosi le opere oggetto dell’accertamento considerare abusive ex art. 33 perché, per l’appunto, non richiedenti permesso a costruire;
   - del resto, la conseguenza dell’omissione autorizzativa, stante la peculiare natura dell’opus contestato, comunque non potrebbe essere quella dell’abbattimento o della rimozione delle opere, di talché è evidente l’errore per travisamento del fatto e la pedissequa illegittimità del provvedimento gravato.
La censura è infondata.
E’ a dir subito che l’impugnata ordinanza mutua la sua parte motiva dal richiamo per relationem al verbale della Polizia Municipale del 14.03.2011 prot. 3950/PM/1989/UT nel quale le opere contestate vengono così descritte: “…….dalla data del 09.02.1974 alla data del 22.12.2009 (esecuzione del sopralluogo), è stato apposto un cancello realizzato con tondini di ferro e lamiera di dimensioni di circa 2,20 x 2,30 a chiusura del varco che metteva in comunicazione il cortile del fabbricato di Via ..., 42 col disimpegno condominiale che dava accesso alla attuale proprietà Ca.Al. e, all’ingresso secondario alla gabbia di scale della scala “A”.
Tale situazione ha, di fatto, comportato a termini dell’art. 11, comma 1, lettera “b” del regolamento edilizio di Portici, un ampliamento di superficie utile abitabile e di volume con cambio di destinazione d’uso,
Il cancello appare di vecchia installazione……..
”.
E’ a dir subito che l’intervento sanzionato con la demolizione è stato ricondotto dal resistente Comune fra quelli di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 1, lettera c), dell’art. 10 (“interventi subordinati a permesso di costruire”) del d.P.R. n. 380 del 2001, per tali dovendosi intendere quelli che <<portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni>>; il successivo comma 2, prevede che <<2. Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività>>.
Siffatta fattispecie di illeciti edilizi, è sanzionata dal successivo art. 33, comma 1, alla stregua del quale: <<1. Gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 10, comma 1, eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l'ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso (…….)>>.
Tale essendo la normativa di riferimento, parte ricorrente assume genericamente, senza fornire alcun principio di prove, che tratterebbe di intervento non di trasformazione edilizia del territorio ovvero di costruzione ex novo, ma di mera sistemazione dello stato dei luoghi preesistente senza alcuna aggiunta e/o modifica urbanisticamente apprezzabile, la qual cosa renderebbe l’intervento censurato con il provvedimento gravato, non necessitante di alcuna autorizzazione abilitativa, né permesso a costruire,
Difficilmente sostenibile è, quindi, la tesi di parte ricorrente per la quale, nel caso di specie, si tratterebbe di atti di manutenzione (anche straordinaria) che non necessiterebbero di alcun titolo abilitativo edilizio, a fronte della indubbia trasformazione del territorio concretatasi con l’apposizione di un cancello che, a prescindere dalle dimensioni e dalla caratteristiche realizzative dello stesso, - come contestato con verbale della Polizia Municipale del 14.03.2011 prot. 3950/PM/1989/UT, quale atto facente fede privilegiata, sino a querela di falso (cfr. C. di S., sez. V, 05.11.2010, n. 7770), in quanto posto “a chiusura del varco che metteva in comunicazione il cortile del fabbricato di Via ..., 42 col disimpegno condominiale che dava accesso alla attuale proprietà Ca.Al. e, all’ingresso secondario alla gabbia di scale della scala “A”, “ha, di fatto, comportato a termini dell’art. 11, comma 1, lettera “b” del regolamento edilizio di Portici, un ampliamento di superficie utile abitabile e di volume con cambio di destinazione d’uso”.
Il Collegio, pur non ignorando quella giurisprudenza per la quale la realizzazione di un cancello, di norma, non implica una trasformazione urbanistica del territorio per la quale si richiede il permesso di costruire, tuttavia, considerata la peculiare funzione assolta, nel caso di specie, dal cancello, come sopra descritta, sembra corretta inquadrare l’apposizione dello stesso nell’ambito di un più complesso e articolato intervento di ristrutturazione edilizia, tale da essere, conseguentemente, assoggettato al regime normativo a quest’ultima riservato.
In proposito per giurisprudenza conforme <<La realizzazione di nuovi volumi mediante opere cementizie o incorporazione di strutture metalliche in parti murarie a sostegno di materiale vitreo e quant’altro contribuisca ad intercludere stabilmente lo spazio per renderlo abitabile o più convenientemente utilizzabile è attività edilizia che non rientra nel regime eccezionale dell’autorizzazione comunale, bensì in quello ordinario della concessione edilizia, permesso di costruire, non trattandosi di manutenzione straordinaria, né di opera di recupero abitativo, né di pertinenza dell’edificio, né di impianto tecnologico al suo servizio>> (Cass. sez. III, 20.04.1983, n. 3398) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.05.2017 n. 2514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza, è posto in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) ingiunto della demolizione l'onere di provare non solo la risalenza dell'immobile, ma anche e soprattutto il titolo abilitativo idoneo a legittimare le opere stesse. Un temperamento è ammesso nel caso in cui l'Amministrazione procedente ometta del tutto qualsivoglia riferimento cronologico in ordine alla realizzazione del manufatto e rimanga inerte in giudizio, nulla opponendo a un serio principio di prova contraria offerto dal ricorrente, ferma restando l’esigenza di giustificare le opere con un titolo abilitativo idoneo, salvo a dimostrare che le opere stesse risalgono ad un’epoca in cui non era necessario alcun titolo abilitativo.
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Pertanto, considerato che solo a decorrere dall'01.09.1967, in seguito all'entrata in vigore della l. 06.08.1967 n. 765 (cd. "legge-ponte"), sussiste l'obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale, mentre, prima di quella data, ai sensi dell'art. 31, l. 17.08.1942 n. 1150, sussisteva l'obbligo di previa licenza edilizia solo per edificare nei centri abitati o nelle zone di espansione previste dal p.r.g., ne consegue che, ove siano stati realizzati senza titolo interventi edilizi in area posta fuori dal centro abitato, in un momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la necessità del titolo abilitativo fuori dal centro abitato, non è configurabile un abuso edilizio e, quindi, tali opere devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la sanzione della demolizione.
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Onde sfuggire alle accennate difficoltà probatorie in merito alla non necessarietà di uno specifico titolo abilitativo, parte ricorrente forse basandosi anche su un passaggio della motivazione dell’ordinanza impugnata (“Il cancello appare di vecchia installazione”, assume che detto cancello era stato apposto dall’allora detentore di porzione di fabbricato in via ... 42 di Portici, nel marzo del 1996, in sostituzione di precedente cancello di epoca remota, sempre esistito, ma ridotto in condizioni di consunzione tali per cui ne fu necessaria la sostituzione e tale ero lo stato di fatto esistente all’atto del trasferimento giudiziario avvenuto in data 07.02.2006.
Tuttavia, a prescindere che si attesta nel provvedimento impugnato che “dalla data del 09.02.1974 alla data del 22.12.2009 (esecuzione del sopralluogo), è stato apposto un cancello” realizzato con le caratteristiche planovolumetriche e le modalità costruttive ivi indicate, decisivo è il rilievo che l’Autorità urbanistica, nell’emettere una sanzione sotto il profilo urbanistico ed edilizio l’abuso commesso, pur dovendo sempre espletare un’istruttoria adeguata anche relativamente all’epoca della edificazione (onde individuare il regime giuridico di riferimento), non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, (anche) prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che secondo la giurisprudenza, anche di questa Sezione è posto in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) ingiunto della demolizione l'onere di provare non solo la risalenza dell'immobile, ma anche e soprattutto il titolo abilitativo idoneo a legittimare le opere stesse. Un temperamento è ammesso nel caso in cui l'Amministrazione procedente ometta del tutto qualsivoglia riferimento cronologico in ordine alla realizzazione del manufatto e rimanga inerte in giudizio, nulla opponendo a un serio principio di prova contraria offerto dal ricorrente (cfr. TAR Napoli, sez. III, 15/01/2013, n. 290 e TAR Valle d’Aosta, 02/08/1990, n. 68), ferma restando l’esigenza di giustificare le opere con un titolo abilitativo idoneo, salvo a dimostrare che le opere stesse risalgono ad un’epoca in cui non era necessario alcun titolo abilitativo.
Nella fattispecie, la ricorrente ha omesso di provare quanto asserisce particolarmente in merito alla preesistenza delle opere contestate, nulla sul punto chiarendo le allegazioni prodotte.
Pertanto, considerato che solo a decorrere dall'01.09.1967, in seguito all'entrata in vigore della l. 06.08.1967 n. 765 (cd. "legge-ponte"), sussiste l'obbligo generalizzato di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio comunale, mentre, prima di quella data, ai sensi dell'art. 31, l. 17.08.1942 n. 1150, sussisteva l'obbligo di previa licenza edilizia solo per edificare nei centri abitati o nelle zone di espansione previste dal p.r.g., ne consegue che, ove siano stati realizzati senza titolo interventi edilizi in area posta fuori dal centro abitato, in un momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la necessità del titolo abilitativo fuori dal centro abitato, non è configurabile un abuso edilizio e, quindi, tali opere devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la sanzione della demolizione (TAR Lecce, sez. III, 20/01/2014, n. 191).
Tuttavia nel caso del ricorrente tale prova non è stata fornita, per modo che si appalesa conferente il richiamo a quella giurisprudenza per la quale l’onere della prova circa la data di realizzazione dell'abuso può ritenersi sufficientemente soddisfatto solo quando le prove addotte risultino obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. TAR Brescia sez. II, 02/10/2013, n. 814).
Va inoltre considerato che nella specie il manufatto in questione, insistente in area soggetta a vincolo paesaggistico, comporta una modifica dello stato dei luoghi che richiede una distinta autorizzazione, non solo in caso di realizzazione ex novo, ma anche nel caso, ipotizzato dal ricorrente, di sostituzione innovativa (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.05.2017 n. 2514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La natura di illecito permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio e secondo condivisa giurisprudenza: <<La vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate>>.
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Al fine di divenire destinatario di un provvedimento sanzionatorio di demolizione e riduzioni in pristino, non è necessario essere “committente e responsabile” dei lavori, bastando unicamente la qualifica di attuale proprietario.
Ai sensi dell'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità. Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa;
Ed, ancora: <<L'ordinanza di demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei confronti del proprietario dell'immobile, anche se estraneo alla realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza dell'ordine demolitorio>>.
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Con la seconda censura si deduce la perenzione dell’azione amministrativa e la carenza di interesse ad agire, apparendo il procedimento amministrativo viziato anche dal decorso di tempo ultradecennale dal compimento dell’opus qualificato come abusivo, ciò, sia considerando l’intervento manutentivo del 1966 come un quid novi, sia, a maggiore ragione -come appare più corretto- ancor più risalente negli anni, da un lato non potendosi ravvisare l’interesse della P.A. a censurare un comportamento rispetto al quale la sua potestà di controllo non siasi esercitata per oltre un decennio dal suo compimento; dall’altro, per il radicamento in capo al titolare dell’opera della legittimità della sua condotta, in mancanza di tempestiva censura negli ordinari termini di prescrizione cui anche l’iniziativa di controllo della regolarità urbanistica soggiace, quantomeno trattandosi non di opera radicalmente abusiva ma di intervento edilizio limitato all’apposizione di un cancello ad un’area scoperta, come nel caso di specie.
La censura non è fondata.
In proposito basta il rilievo che la natura di illecito permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 22.03.2013, n. 354; TAR Veneto n. 1068 del 2013) e secondo condivisa giurisprudenza: <<
La vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate>> (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045).
Con la terza censura si eccepisce il difetto di legittimazione passiva, manifestandosi l’impugnato provvedimento censurabile anche nella qualificazione del suo destinatario, che non può essere individuato in chi ha acquisito la proprietà dell’immobile oltre dieci anni dopo il compimento dell’intervento edilizio in contestazione, indebitamente individuato come il committente e responsabile dei lavori, non si intende in base a quali accertamenti di fatto, in realtà per il solo fatto di essere stato attualmente riconosciuto come il proprietario dell’appartamento assuntivamente asservente l’area delimitata dal cancello, che, invece, gli stessi rilievi effettuati dall’autorità procedente hanno acclarato essere al servizio delle parti comuni del fabbricato (quantomeno della scala A del medesimo).
In sostanza parte ricorrente contesta la propria legittimazione passiva, sul piano sostanziale, a divenire destinatario del provvedimento di demolizione in qualità di “committente e responsabile dei lavori”, asserendo di risultare privo di tali qualifiche e dichiarandosi unicamente di essere attualmente proprietario dell’area delimitata dal cancello qua per avere acquisito la proprietà dell’immobile oltre dieci anni dopo il compimento dell’intervento edilizio in contestazione.
La prospettazione di parte ricorrente non è condivisibile.
Al riguardo al fine di divenire destinatario di un provvedimento sanzionatorio di demolizione e riduzioni in pristino, non è necessario essere “committente e responsabile” dei lavori, bastando unicamente la qualifica di attuale proprietario.
Ai sensi dell'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità. Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa (cfr. TAR Firenze, sez. III, 28/02/2017, n. 313); ed, ancora: <<L'ordinanza di demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei confronti del proprietario dell'immobile, anche se estraneo alla realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza dell'ordine demolitorio>> (TAR Campania, Salerno, sez. I, 05/01/2017, n. 29).
Ne deriva che, nella fattispecie, parte ricorrente, nella incontestata sua qualità di proprietaria dell’area su cui insiste l’opera abusiva, a pieno titolo, risulta essere passivamente legittimato, sul piano sostanziale, a divenire destinatario dell’impugnata ordinanza di demolizione,
Infine inammissibile è la richiesta genericamente proposta dall’Ente comunale di risarcimento del danno subito per la costruzione abusiva, che “può sempre ledere l’inviolabilità delle funzioni comunali e l’ordinato sviluppo dei programmi”.
Infatti, al riguardo basterà rilevare che la domanda risulta affatto irrituale essendo avanzata in memorie difensive non notificate al ricorrente, sulle quali non si è instaurato il contraddittorio processuale.
In definitiva, preso atto che il Comune aveva correttamente valutato la tipologia dell’opera sanzionata con l’impugnata ordinanza, dalla cui abusività, ai sensi dell’art. 33 del D.P.R. n. 380 del2001, scaturiva con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che per tale sua natura, non necessita di una specifica motivazione o della comparazione dei contrapposti interessi, il ricorso è infondato e va, dunque, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.05.2017 n. 2514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza assolutamente prevalente:
   - <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>;
   - <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>>;
   - infine non può sottacersi che il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
In ogni caso, versandosi in tema di atto dovuto e vincolato, nel caso di specie, risulta applicabile l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, risultando palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe potuto essere diverso se fosse stato comunicato al ricorrente l’avvio del procedimento, atteso che l’irrogata sanzione demolitoria è stata disposta per la totale difformità dell’intervento contestato rispetto a quanto assentito con il permesso di costruire.
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La censura è infondata.
Preliminare parte ricorrente lamenta la mancata comunicazione avvio procedimento. Invero per giurisprudenza, assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); infine non può sottacersi che il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
In ogni caso, versandosi in tema di atto dovuto e vincolato, nel caso di specie, risulta applicabile l’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, risultando palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe potuto essere diverso se fosse stato comunicato al ricorrente l’avvio del procedimento, atteso che l’irrogata sanzione demolitoria è stata disposta per la totale difformità dell’intervento contestato rispetto a quanto assentito con il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.01.2017 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La relazione tecnica dell'UTC redatta all’esito del sopralluogo costituisce atto facente fede privilegiata, sino a querela di falso.
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Nel merito, premesso che -come si apprende dalla medesima ordinanza impugnata- parte ricorrente aveva chiesto ed ottenuto il permesso di costruire n. 107 del 16.10.2014 (pratica edilizia n. 575/13) “per restauro e risanamento conservativo con ricostruzione filologica del fabbricato”, preceduta -aggiunge parte ricorrente- dal rilascio, in data 18.09.2014, dell’autorizzazione paesaggistica n. 53, previa acquisizione del parere/proposta della C.E.I. e del parere favorevole della locale Soprintendenza B.A.C. in data 08.09.2014, il deducente asserisce che: “In sede operativa i lavori sono stati, quindi, predisposti, organizzati e condotti in assoluta rispondenza alle soluzioni progettuali (in particolare quelle strutturali) previste dal progetto esecutivo ed oggetto dei calcoli strutturali depositati al G.C.”, inoltre, che “tali soluzioni progettuali sono state rigorosamente osservate in sede esecutiva e senza assolutamente discostarsene, e senza alcuna rilevante difformità”, ed infine che -come dettagliatamente illustrato nella relazione tecnica generale e di calcolo delle strutture- si ispirano a modalità esecutive dell’intervento di restauro e risanamento conservativo, che si informano ai seguenti principi e soluzioni tecniche (interventi di cuci e scuci ecc.).
Tuttavia l’intento progettuale del ricorrente resta confinato nell’ambito delle intenzioni se non si traduce, materializza od esternalizza, poi, nella realizzazione di un’opera conforme a quanto progettato e ed a prescindere dalla causa che osti a tanto, anche se esterna alla sfera dell’istante.
Ciò è proprio quanto avvenuto nella fattispecie in esame, laddove, nonostante i lodevoli intenti, la diligenza profusa in sede operativa e gli accorgimenti tecnici adottati dal ricorrente, è un dato oggettivo (e quali che ne siano le cause), emergente da atti facenti fede privilegiata sino a querela di falso (verbale del 15.11.2015 a seguito di sopralluogo della Polizia Municipale laddove è stato constatato che “i lavori di restauro e risanamento conservativo erano fermi, e dal confronto della documentazione tecnica presente nella suddetta pratica edilizia n. 575/13 del Servizio Edilizia Privata" (permesso di Costruire n. 106 del 16.10.2014, con lo stato dei luoghi si è constatato che il manufatto in muratura è crollato, così come asserito dal Direttore dei Lavori, ed in luogo è in corso di realizzazione un manufatto in c.a. di circa mq. 140,00 ed altezza interna circa m. 9,00).
Inoltre, da detto confronto, è emerso (“……”): segue l’elenco delle difformità riscontrate “1. Sostituzione della struttura portante del piano cantinato seminterrato da muratura costituita da pietrame misto, in una struttura ex novo in c.a., formata da pilastri, pareti in c.a. e solaio intermedio in latero-cemento…….; 2. Ampliamento di circa mq. 50,00 del piano cantinato, realizzato sempre con struttura in c.a.; 3. Realizzazione ex novo della struttura precedente del piano terra costituita da muratura portante e volte, con una nuova struttura in c.a. composta da pilastri, travi ed il solaio di copertura ancora in casseforme e non ancora gettato……..; 4. All’ingresso dell’area di cantiere è presente, altresì, una piccola rampa in cls per l’accesso degli automezzi al cantiere……; 5. Il nuovo manufatto misura una superficie di circa mq. 140,00, mentre il solaio intermedio misura circa mq. 150,00, l’altezza interna totale misura circa m. 9,00 ……”, come da Relazione Tecnica prot. n. 71968/2015 del 17.11.2015, redatta dai tecnici del Servizio Antiabusivismo Edilizio a seguito di sopralluogo, non mancandosi, altresì, di precisare che “non risultano presenti all’interno del fascicolo del su citato Permesso di Costruire, varianti e/o relazioni che accertano la legittimità delle opere edilizie sopra descritte (……).”.
Secondo la prospettazione di parte ricorrente, trattasi di manufatti del periodo anteguerra ed, allo stato, l’unico elemento nuovo aggiunto e contestato nel provvedimento impugnato è costituita dall’ampliamento del cantinato del 50% (che però già di per sé integra la difformità totale dal permesso di costruire), ma trattasi di volume che sarebbe destinato ad essere tombato consistente in una struttura in cemento armato all’interno.
Tuttavia la tesi del Comune, suffragata dalla suddetta Relazione Tecnica, redatta all’esito del sopralluogo, quale atto facente fede privilegiata, sino a querela di falso (cfr. C. di S, sez. V, cfr. C. di S, sez. V, 05.11.2010, n. 7770), è nel senso che le opere realizzate, o in quanto non contemplate o comunque totalmente difformi, proprio per la presunta differente misura di 140 mq. dal Permesso di costruire n. 106 del 16.10.2014, in alcun modo potevano essere considerarsi legalizzate o, comunque, presidiate dal Permesso di costruire in precedenza rilasciato.
Inoltre non è dato comprendere come parte ricorrente possa da ultimo ritenere dirimente che “l’Amministrazione avrebbe dovuto dare oggettivo peso e rilievo (in luogo di descriverla acriticamente ed asetticamente come una difformità) alle rilevate (ed apparenti) differenti dimensioni del manufatto, se proprio la presunta differente misura di 40 mq. dimostra in maniera oggettiva", ciò che è descritto ai punti 1), 2) e 3) precedenti ed in premessa, ovverosia che “la struttura realizzata ha conformazione plano altimetrica palesemente disposta e realizzata per risultare interna ed in aderenza al perimetro esterno; ed ha funzione portante della muratura incerta”.
Da tutto quanto innanzi, non condivisbile è la prospettazione di parte ricorrente per la quale “il Comune ha errato a considerare l’intervento qualificandolo come abusivo, nella specie della difformità totale e/o essenziale dal titolo (ossia dal P. di C.); ad obliterare colpevolmente che l’intervento conservativo veniva attuato con modalità sostanzialmente e formalmente consentite; e comunque specificamente dettagliate nella progettazione esecutiva strutturale interna. Modalità assolutamente collimanti con la natura dell’intervento di restauro e risanamento conservativo e con la finalità delle N.T.A. di P.T.P. che è quella di avere un manufatto, dopo l’intervento di consolidamento (anche strutturale interno), in tutto identico esteriormente a quello preesistente e con l’impiego dei materiali preesistenti e di altri di pari tipologia” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.01.2017 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La astratta possibilità che anche i c.d. "ruderi" possano avere (a condizione, ovviamente, della loro “leggibilità”) una loro rilevanza al punto che ne sia possibile una loro ricostruzione, in alternativa ad una costruzione “ex novo”, può essere ammessa astrattamente in diritto positivo, ma in concreto essa deve pur sempre inquadrarsi nelle categorie edilizie tradizionali come, allo stato della normativa, delineato nell’art. 3, d.P.R. 380/2001; pertanto, la qualifica di un manufatto come “rudere” non implica l’applicazione automatica di una disciplina ad esso automaticamente riferibile, non trattandosi di un’autonoma categoria edilizio, dovendo invece inquadrarsi in concreto a seconda dei casi, quale restauro e risanamento conservativo, ovvero ristrutturazione edilizia, ovvero, ancora, quale nuova opera.
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Con la seconda censura si deduce la violazione dell’art. 3, lett. d), TUED, come modificato dall’art. 30, co. 1, lett. a), legge n. 98 del 2013; la violazione dell’art. 31, difetto di presupposto, violazione del giusto procedimenti, atipicità; violazione degli artt. 33 e 34, d.P.R. n. 380/2001, oltre all’eccesso di potere (per violazione del giusto procedimento, difetto assoluto di motivazione), al riguardo, rilevando che:
   - quanto innanzi trova, invero, indiretto riscontro anche sul piano squisitamente normativo, atteso che, con la novella rubricata, è stata esclusa la annoverabilità tra gli interventi di nuova costruzione degli interventi di recupero dei manufatti diruti, avvertendo, inoltre, che è stata inclusa nella tipologia della ristrutturazione edilizia di cui al novellato art. 3, lett. d) del T.U. n. 380/2001, soltanto la ricostruzione di ruderi (che in precedenza era qualificata dalla giurisprudenza nuova costruzione, come nuova opera), per i quali non sia individuabile l’altezza e/o l’area di sedime e/o la sagoma dell’edificio da recuperare, in quanto i resti della muratura perimetrale non consentono di individuare immediatamente le caratteristiche plano volumetriche originarie; l’art. 3, infatti, ha stabilito che può procedersi “al ripristino di edifici “crollati”, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, evidentemente con mezzi ed indagini diverse dall’esame obiettivo dello stato attuale del fabbricato ed attinenti, invece, alla documentazione grafica e fotografica descrittiva dell’organismo originario;
   - nella specie, il manufatto, sia pure privo di copertura, risulta ancora “leggibile” in rilevante parte della struttura portante, di inequivoca leggibilità quanto alla individuazione della quota di imposta della preesistente copertura e totalmente suscettivo, quindi, di essere funzionalmente recuperato, con fedele ricostruzione delle consistenze, con opere di risanamento;
   - in altri termini, deve ritenersi che, a seguito dell’introduzione dell’art. 3, lett. d), ultima parte, del T.U. 380/2001, deve ragionevolmente considerarsi come opera di risanamento conservativo quella diretta , come nella fattispecie, al fedele recupero di ruderi, le cui intere caratteristiche planivolumetriche siano (ancora) obiettivamente “leggibili” attraverso l’esame dello stato dei luoghi; come opera di ristrutturazione di cui all’art. 3, cit., diretta a recuperare ruderi la cui precedente consistenza sia ricostruibile con certezza solo attraverso in indagini ulteriori e diverse dal semplice esame del rudere stesso; e come nuova opera quelle di ricostruzione di ruderi per i quali non sia identificabile l’originaria, consistenza, né attraverso l’esame dello stato dei luoghi, né con indagini svolte sulla documentazione grafica e fotografica relativa al fabbricato, con palese, illegittimità, anche sotto tale profilo, del provvedimento impugnato che giammai poteva sanzionare un intervento legittimo e men che mai avvalendosi del potere di cui all’art. 31;
   - in ogni caso, nella specie, non si discute della legittimità in sé del fabbricato (realizzato in epoca ottocentesca) e delle parti murarie di esso rimanenti ed, attesa la natura dell’intervento e dei lavori assentiti il Comune avrebbe dovuto tenere conto e valutare l’incidenza della demolizione alla stregua del principio di portata generale secondo cui quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte realizzata o da realizzare in conformità, si applica la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34 del T.U. 380/2001, al riguardo, avendo da tempo la giurisprudenza amministrativa precisato che deve essere irrogata la sanzione pecuniaria ogni qual volta -come nella specie- la demolizione delle pretese opere abusive possa compromettere la stabilità o l’utilizzazione delle stesse; principio, questo, ribadito anche in tema di ristrutturazioni dall’art. 33 e già desumibile dall’art. 421 della L. 1150 del 1942 e chiaramente estensibile anche per analogia alla fattispecie de qua; ma di tale valutazione non v’è traccia nel provvedimento impugnati e da ciò è evidente che il Comune non si è affatto posta l’alternativa di irrogare la sanzione demolitoria o quella pecuniaria;
   - non è dato intendere l’interesse pubblico perseguito con il gravissimo provvedimento demolitorio.
Anche tale censura non è fondata.
In punto di diritto l’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, alle lettere c) e d), pone tale distinzione tra la categorie urbanistico-edilizia del restauro e del risanamento conservativo, da una parte e della ristrutturazione dall’altra:
   c) "interventi di restauro e di risanamento conservativo", gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio;
   d) "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria [e sagoma] di quella preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente (lettera modificata dall'articolo 1 del D.Lgs. del 27.12.2002, n. 301 e dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 09.08.2013, n. 98).
La astratta possibilità, poi, che anche i c.d. ruderi possano avere (a condizione, ovviamente, della loro “leggibilità”) una loro rilevanza al punto che ne sia possibile una loro ricostruzione, in alternativa ad una costruzione “ex novo”, può essere ammessa astrattamente in diritto positivo, ma in concreto essa deve pur sempre inquadrarsi nelle categorie edilizie tradizionali come, allo stato della normativa, delineato nell’art. 3, d.P.R. 380/2001; pertanto, la qualifica di un manufatto come “rudere” non implica l’applicazione automatica di una disciplina ad esso automaticamente riferibile, non trattandosi di un’autonoma categoria edilizio, dovendo invece inquadrarsi in concreto a seconda dei casi, quale restauro e risanamento conservativo, ovvero ristrutturazione edilizia, ovvero, ancora, quale nuova opera (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.01.2017 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICILa Valutazione di impatto ambientale, in sigla VIA, è l'istituto, mediante il quale devono essere preventivamente individuati gli effetti sull'ambiente di un dato progetto. Tale istituto, proprio perché richiede l'elaborazione di uno studio particolarmente complesso ed oneroso, non è imposto indiscriminatamente per tutti gli interventi capaci di incidere negativamente sull'ambiente.
Per tale ragione, per taluni interventi, (fra cui rientra in astratto quello per cui è causa, consistente nel progetto di ampliamento di un impianto per la produzione e la lavorazione dell'acciaio) è previsto un procedimento a doppio stadio: nella prima fase, si compie appunto lo screening, ovvero la "verifica di assoggettabilità", al fine di stabilire se sia necessaria o meno la fase della valutazione; nella seconda fase, si ha la valutazione che è eventuale, ovvero ha luogo solo se lo screening conclude in tal senso.
L'attività mediante la quale l'Amministrazione interessata provvede alle valutazioni poste alla base dello screening è, dunque, connotata da discrezionalità tecnica, con la conseguenza che essa non può essere sindacata in sede giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui ci sia stato un non corretto esercizio del potere sotto il profilo del difetto di motivazione, di illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti di fatto e di incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti.
In tal senso, è altresì necessario che sia la parte ricorrente ad indicare i vizi presenti nella valutazione operata dall'Amministrazione, non essendo sufficienti generiche contestazioni (come ravvisabile nella fattispecie concreta).
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18. E’ a sua volta infondato il motivo terzo, con il quale si valorizzano, in sintesi estrema, presunte lacune e illogicità del decreto screening impugnato, e si sostiene che comunque l’intervento per cui è causa si sarebbe dovuto comunque assoggettare a VIA per le sue concrete caratteristiche. In proposito, per maggior chiarezza, vanno richiamati la normativa e i principi giurisprudenziali applicabili alla fattispecie.
19. Sotto il profilo normativo, come è noto, la Valutazione di impatto ambientale, in sigla VIA, è l’istituto, già previsto dal D.P.R. 12.04.1996 ed ora dagli artt. 19-24 del D.lgs. 03.04.2006 n. 152, o T.U. ambiente mediante il quale, nella formula dell’art. 5, lettera b), del T.U. “vengono preventivamente individuati gli effetti sull'ambiente di un progetto”.
Detto istituto prevede, in sintesi, l’elaborazione di uno studio particolarmente complesso ed oneroso, che per tal ragione, come previsto dal legislatore nazionale in ossequio alla normativa uniforme europea, non è imposto indiscriminatamente per tutti gli interventi capaci di influenzare negativamente l’ambiente.
Per taluni di essi, fra i quali rientra in astratto quello per cui è causa, è previsto infatti un procedimento a doppio stadio: nella prima fase, si compie appunto lo screening, ovvero nella terminologia dell’art. 5, lettera m), del T.U. la “verifica di assoggettabilità”, che serve a “valutare, ove previsto, se progetti possono avere un impatto significativo e negativo sull'ambiente e devono essere sottoposti alla fase di valutazione”; la VIA poi si fa nella seconda fase, che è eventuale, ovvero ha luogo solo se lo screening conclude in tal senso.
20. Ciò posto, è di tutta evidenza che l’attività mediante la quale l’amministrazione provvede alle valutazioni poste alla base dello screening è connotata da discrezionalità tecnica, e quindi può essere sindacata nella presente sede giurisdizionale di legittimità nei limiti che la giurisprudenza ha in generale elaborato al riguardo.
In proposito, è anzitutto costante l’affermazione di principio, ribadita da ultimo da C.d.S. sez. V 01.10.2002 n. 7262, per cui “il giudizio di discrezionalità tecnica, caratterizzato dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato del giudice amministrativo in sede di legittimità laddove non vengano in rilievo indici sintomatici del non corretto esercizio del potere sotto il profilo del difetto di motivazione, di illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti di fatto e di incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti”, precisandosi anzi che le illegittimità e incongruenze debbono essere “macroscopiche” e “manifeste”, come si legge in motivazione di C.d.S. sez. V 17.05.2005 n. 2460, proprio con riguardo al sindacato sulla VIA di un impianto industriale; conforme, sempre in tema di valutazioni di impatto ambientale, anche C.d.S. sez. VI 19.02.2008 n. 561.
21. Se il sindacato in tema di discrezionalità tecnica postula che nell’atto sia rinvenibile, in sintesi, una illogicità, è senz’altro conforme a logica, oltre che ai principi processuali, che sia la parte ricorrente a dover indicare in modo specifico in cosa tale illogicità consisterebbe, senza limitarsi a generiche contestazioni.
In tal senso è la giurisprudenza, secondo la quale, in termini generali, è necessario che “il ricorrente supporti la propria domanda, allegando e dimostrando in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa”, e solo ove non vi riesca “per la sua posizione di disparità sostanziale con l'amministrazione” potrà chiedere che il giudice faccia ricorso al “metodo acquisitivo” della prova, fermo che anche in tal caso egli è soggetto a un “onere di principio di prova”, nel senso che “è tenuto… a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte”, ricostruzione rispetto alla quale il giudice potrà acquisire d’ufficio gli elementi rilevanti.
In tali termini, sempre su questione tecnica, C.d.S. sez. VI 04.09.2007 n. 4621, con argomentazione che appare tuttora valida alla luce dell’art. 64, comma 1, c.p.a., secondo il quale l’onere probatorio posto a carico delle parti si riferisce comunque agli elementi che “siano nella loro disponibilità”.
22. Sempre secondo logica, sia la dimostrazione diretta dell’illogicità di un dato atto sia la prospettazione della possibilità di essa in termini attendibili vanno compiute in modo analitico e discorsivo, ovvero spiegando quali dovrebbero essere gli errori commessi e perché; non sarà invece sufficiente la mera allegazione apodittica di elementi di segno contrario a quelli valorizzati dall’amministrazione, quali pareri di esperti di propria fiducia e simili.
In tal senso, sempre in termini generali, ad esempio C.d.S. sez. IV 05.08.2005 n. 4196, per cui “il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica non può sfociare nella sostituzione dell'opinione del giudice, e a maggior ragione della parte, a quella espressa dall'organo amministrativo, ove tale opinione, pur se non condivisa sul piano soggettivo in dipendenza della fisiologica opinabilità che connota la interpretazione e applicazione di scienze non esatte, non venga considerata errata sul piano della tecnica”.
23. Le considerazioni sin qui esposte, lo si dice per completezza, non sono poi contraddette dalla giurisprudenza europea e nazionale citata dai ricorrenti alle pp. 20 e 21 del ricorso principale, giurisprudenza che in sintesi si limita a ribadire il ruolo, e pertanto l’importanza, del procedimento di VIA, senza però indicare regole particolari alle quali il sindacato del Giudice in proposito dovrebbe soggiacere.
Ciò è in particolare vero con riguardo al ruolo del principio di precauzione, che i ricorrenti invocano a loro favore alle pp. 28-29 dell’atto, sostenendo che “il rischio è… ritenuto inaccettabile finché non sia dimostrato il contrario” (p. 29, quarto e quinto rigo), ovvero secondo logica che sussisterebbe una sorta di presunzione di impossibilità di realizzare interventi come quello per cui è causa. Tale interpretazione infatti non va condivisa.
24. Come è noto, il principio di precauzione, recepito dal Trattato dell’Unione europea e in precedenza dal Trattato comunitario, si fonda in termini giuridici sull’art. 15 della Dichiarazione di Rio del 1992, per cui “In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation.”, il che in traduzione suona “Al fine di proteggere l'ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità . In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”.
25. Come è pure noto, il principio in questione ha dato luogo a dispute scientifiche, filosofiche e politiche sul suo effettivo valore, sembrando ad alcuni interpretabile in modo estremo; si è sostenuto infatti che infatti che esso equivarrebbe alla “prudenza imposta per legge”, ovvero al divieto di utilizzare tutti i risultati della ricerca scientifica prima di esser certi della loro assoluta non pericolosità per l’ambiente; si è sostenuto poi che la certezza in merito non si potrebbe mai raggiungere, perché le verità scientifiche sono sempre come tali provvisorie e suscettibili di modifica.
26. Nella sede presente, va però sottolineato che tale lettura estrema del principio, quale che sia l’opinione intellettuale al riguardo che si ritenga di condividere, non è quella adottata dalla giurisprudenza europea e nazionale, che è invece prudente. Essa ha infatti sottolineato che “protective measures”, ovvero “misure preventive”, adottate in base al principio stesso e comprensive all’evidenza della proibizione preventiva di una certa attività “may not properly be based on a purely hypothetical approach to risk, founded on mere suppositions which are not yet scientifically verified”, ovvero “non si possono fondare sull’apprezzamento di un rischio puramente ipotetico, fondato su mere supposizioni allo stato non ancora verificate in termini scientifici”.
L’enunciato è di Corte CE 09.09.2003 C-236/01 Monsanto, ed è richiamato in modo esplicito, fra le molte, in Corte CE 05.02.2004 C- 24/2000 Commissione vs. Repubblica Francese; la stessa lettura è presupposta, nella giurisprudenza nazionale, ad esempio da TAR Lombardia Brescia 11.04.2005 n. 304, TAR Campania Napoli 27.02.2007 n. 1231, TAR Veneto 24.02.2004 n. 396 e da ultimo C.d.S. sez. VI 19.01.2010 n. 183. Ciò si giustifica anche osservando, con Cass. civ. 23.01.2007 n. 1391, relativa all’attività di un impianto che emetteva radiazioni elettromagnetiche, che le attività pericolose nel nostro ordinamento, se svolte entro date condizioni, sono lecite.
Si ritorna quindi al punto già ribadito, la necessità di una dimostrazione discorsiva da parte del ricorrente, non limitata a mere allegazioni, di errori di apprezzamento compiuti dalla p.a.
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.03.2011 n. 398 - link a www.ambientediritto.it).

AGGIORNAMENTO AL 19.08.2019

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SEGRETARI COMUNALI:

il vigente sistema ordinamentale consente (legittimamente) l’attribuzione al segretario di funzioni dirigenziali:
   - solo con atto formale del capo dell’Amministrazione e previa adeguata motivazione; in ogni caso
   - previo accertamento dell’assenza di adeguate figure professionali interne e
   - solamente in via temporanea.

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALISegretari comunali: quella dannosa voglia di "dirigente apicale" (in memoria di Stefano Fedeli) (14.08.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
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Non è compito dei segretari comunali svolgere funzioni di direzione di strutture amministrative assumendo la qualità di dirigenti. Tali funzioni possono essere gestite, specie nei comuni di grandi dimensioni, solo per in via temporanea e suppletiva, avendo prima dimostrato l’assoluta carenza di professionalità interne.
La sentenza 23.07.2019 n. 489 della Corte dei conti, Sezione giurisdiz. per la Puglia, è particolarmente rilevante perché smonta in modo ultimativo il castello di sabbia del “dirigente apicale” ed indica in modo chiaro e puntuale quali sono le peculiarità della funzione dei segretari comunali.
E’ una sentenza importantissima, che evidenzia le gravissime pecche purtroppo contenute nella superficiale sentenza 22.02.2019 n. 23 della Corte costituzionale (sul punto: cliccare qui e cliccare anche qui), in particolare nella debolissima parte nella quale la Consulta ha in modo vistosamente erroneo considerato costituzionalmente legittimo lo spoil system, anche in considerazione delle funzioni dirigenziali viste come “tipiche” della figura del segretario comunale.
Una svista imperdonabile, che viene indirettamente, ma ferocemente evidenziata dalle considerazioni della Corte dei conti della Puglia, che, limitandosi a leggere ed applicare in maniera niente più che piana e corretta le disposizioni normative e contrattuali, ricorda come le funzioni dirigenziali siano, per i segretari comunali, solo un accessorio, eventuale e non tipizzante per nulla le proprie funzioni. Con buona pace di chi pervicacemente cerca di ammantare la figura con quel ruolo di “dirigente apicale” che la mancata riforma Madia ha impedito venisse in essere.
E’ bene specificare che la Corte dei conti ha riconosciuto la responsabilità per danno erariale a carico di un segretario comunale di un comune di grandi dimensioni, che per anni ha svolto funzioni di dirigente di una quantità ingiustificabile anche solo logicamente, prima che organizzativamente, di servizi, ottenendo maggiorazioni retributive persino superiori a quelle ammesse dal contratto. Non si può non fare proprie le considerazioni, sul punto, della Corte dei conti: “
Quello che sconcerta ancor di più, e che rende irrimediabilmente grave sotto il profilo omissivo la sua condotta, e che la ricollega causalmente al danno qui azionato è il fatto che il soggetto che è rimasto passivo e inerte in ordine a emolumenti ricevuti e spiccatamente esorbitanti rispetto al dovuto, sia proprio colui che istituzionalmente aveva il dovere giuridico di conformare alla legalità l’agere amministrativo”.
Lo sconcerto è forte. E dura da anni, esattamente da quel 1997 che introducendo l’inutile figura del direttore generale ha scatenato in molti (non tutti, ovviamente) i segretari comunali gli appetiti da “dirigente apicale”. Si sono visti incarichi di direttore generale in comuni con pochissimi dipendenti e senza Peg, incarichi in comuni convenzionati ma singoli per ciascun comune, cifre elevatissime non giustificate da funzioni nuove e diverse. Uno spreco di denaro pubblico, che nel 2009 portò alla cancellazione (purtroppo limitata ai soli comuni con popolazione fino a 100.000 abitanti) del direttore generale.
Sconcerta, comunque, ancora che la voglia di “apicalità” e, soprattutto, di ottenere maggiorazioni retributive, invece di passare dalla via maestra di una migliore contrattazione collettiva capace di valorizzare le funzioni effettivamente caratterizzanti dei segretari, in modo strisciante anche sigle sindacali abbiano lavorato per creare una condizione di “dirigente apicale” di fatto (preparatoria, senza successo, alla riforma Madia), soffiando sul fuoco delle ambizioni personali.
La gran parte dei segretari comunali sa qual è il proprio ruolo, conosce la profonda differenza del coordinamento rispetto alla gestione operativa, valorizza la prima in funzione del miglior funzionamento della seconda.
Per non pochi, al contrario, la funzione del segretario praticamente non può che ridursi a quella di un dirigente che assommi su di sé (salvo, spesso, poi deleghe diffuse e in bianco) funzioni gestionali, gestite fin troppo, poi, nel rispetto della “fiducia” contrattata a suon di inevitabili reciproche concessioni con sindaci disposti a remunerare queste funzioni dirigenziali anche ben oltre i limiti contrattuali. Con sprezzo dell’evidente rischio di danno erariale.
Questa visione della “apicalità” dirigenziale necessitata del segretario comunale viene letteralmente posta nel nulla dalla sentenza della Corte dei conti. Essa evidenzia quali siano le rilevanti e complesse competenze previste dall’articolo 97 del d.lgs 267/2000, non negando, ovviamente, che è operante il comma 4, lettera d), per effetto del quale il sindaco può attribuire al segretario ogni altra funzione.
Sagacemente, il giudice contabile osserva, però: “
Tale ultima previsione, pur integrando una sorta di clausola in bianco, si dà consentire, in linea di principio (per ragioni di flessibilità organizzativa), l’affidamento al segretario di funzioni gestionali, va però contemperata con altre disposizioni affermative di principi di ordine generale, come quella secondo cui i compiti c.dd. di amministrazione attiva spettano ai dirigenti e non possono essere loro sottratti se non in virtù di una norma primaria espressa (cfr. l’art. 4, comma 2 e 3, l’art. 15 e ss. del citato t.u.p.i.; l’art. 107, comma 4, del t.u.o.e.l.)”.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali ai segretari comunali non è posta in posizione di equivalenza con la scelta di assegnare incarichi di direzione ai dirigenti. Questi ultimi sono titolari in via esclusiva della gestione. Il che non può non portare alla conclusione secondo la quale l’assegnazione di funzioni di direzione ai segretari (lo stesso vale per l’attivazione dell’articolo 110 del Tuel) va saldamente giustificato con l’evidenziazione di una situazione non rimediabile se non con una temporanea attività di “supplenza”, fermo restando che se l’organizzazione prevede una struttura di vertice, essa non può restare acefala o essere a tempo indefinito affidata alla preposizione direzionale di un soggetto che non può e non deve svolgere la funzione direzionale in via continuativa, come il segretario comunale.
Sul punto, la Corte dei conti della Puglia è chiarissima: “l’Accordo integrativo del 22.12.2003, sottoscritto in attuazione dell’articolo 41, comma 4, del CCNL, e il successivo Accordo integrativo del 13.01.2009. In particolare, il primo dei citati accordi ha stabilito a quali condizioni possa essere concessa la maggiorazione dell’indennità in parola, condizioni che possono essere sia di carattere oggettivo che di carattere soggettivo. Senza entrare nello specifico di tali condizioni,
basti qui mettere in luce che il contratto precisa che tale maggiorazione è consentita a condizione che al segretario siano affidati incarichi gestionali comunque afferenti alle sue funzioni istituzionali, ma “in via temporanea e dopo aver accertato l’inesistenza delle necessarie professionalità all’interno dell’Ente”. L’Accordo fissa poi la misura minima e massima di tale maggiorazione, che non può essere inferiore al 10% e superiore al 50% della retribuzione di posizione in godimento, ad eccezione dei comuni inferiori a 3.000 abitanti”.
Dunque,
è l’ordinamento giuridico ad impedire di considerare come fungibili gli incarichi dirigenziali. Essi sono competenza esclusiva dei dirigenti. La scelta di affidarli al segretario è transeunte e motivata da una verifica reale di assenza di professionalità interne.
Spiega ancora la Corte dei conti: “
Tanto è vero che le sopra indicate disposizioni contrattuali integrative si sono fatte carico di precisare che l’attribuzione al segretario di funzioni dirigenziali possa avvenire solo con atto formale del capo dell’Amministrazione e in ogni caso previo accertamento dell’assenza di adeguate figure professionali interne e (solo) in via temporanea. Ciò evidenza chiaramente che la strada dell’affidamento di compiti gestionali ai segretari sia percorribile solo in via transitoria, e in caso di eccezionale assenza delle necessarie professionalità all’interno dell’Ente (ex multis, Cass., S.L. 12.06.2007, n. 13708; Cons. St., Sez. V, 25.09.2006, n. 5625; cfr. anche Parere Min. Interno 17.12.2008): solo in tal modo è possibile conciliare la facoltà concessa dal citato art. 97, co. 4, lett. d), del t.u.o.e.l., da un lato (come detto) con l’intestazione ex lege di tali funzioni ai dirigenti, dall’altro con l’esercizio in concreto dei compiti gestionali negli enti di piccole dimensioni (notoriamente privi di dirigenza e, sovente, anche di dipendenti inidonei a svolgerle) o in particolari frangenti, tali da generare situazioni di paralisi gestionale non risolvibili aliunde (ex multis, Tar Piemonte, sez. II, 04.11.2008 n. 2739; Cons. St., sez. IV, 21.08.2006 n. 4858). Dunque, nel rispetto di tali presupposti al segretario possono essere attribuite funzioni dirigenziali”.
L’ultimo passaggio enfatizzato in grassetto smentisce le diverse ed erronee conclusioni cui, invece, purtroppo è giunta la Consulta.
Può, comunque, un comune decidere per scelta organizzativa di puntare su un segretario “dirigente apicale” di fatto e quindi in ogni caso dotarlo di funzioni dirigenziali in via continuativa, sì da giustificare anche una remunerazione superiore alle maggiorazioni previste contrattualmente?
La risposta della Sezione Puglia è radicale e negativa: “
Non coglie nel segno sul punto l’assunto difensivo che fa leva sulla asserita legittimità della retribuzione di posizione in quanto finalizzata a remunerare funzioni gestionali affidate non in via temporanea ma continuativa. In proposito, per vero, è appena il caso di osservare che la stessa attribuzione di funzioni gestionali affidate non in via temporanea, ma stabile e duratura al segretario generale –sia pure attraverso diversi provvedimenti a tempo riguardanti distinti servizi– si appalesa contra legem perché effettuata in difetto dei presupposti normativi”.
C’è un vizio di legittimità genetico e non superabile nella scelta di attribuire funzioni gestionali ai segretari comunali. Che, per altro, sebbene spesso ottengano queste funzioni a seguito delle “contrattazioni” spesso improprie coi sindaci, poi pagano molto caramente, in termini di serenità operativa e condizioni di lavoro, la disponibilità data a riscontro delle maggiorazioni contrattuali.
Nel caso di specie, lo sconcerto mostrato dalla Corte dei conti, sorge anche solo guardando l’incredibile elenco di incarichi dirigenziali assegnati al segretario, con molteplici decreti sindacali:
   - gestione dell’Ufficio Legale,
   - gestione della Segreteria Comunale,
   - gestione della Presidenza del Consiglio Comunale,
   - gestione del Servizio Sistemi Informativi e Statistica,
   - gestione del Contratto d’Area,
   - gestione del del 2° Settore “Attuazione Politiche per l’Occupazione”,
   - gestione del del 5° Settore “Attuazione Politiche Sociali, Educative, Culturali e Ricreative”,
   - gestione dell’Ufficio di Piano.
Una “non organizzazione”, uno schema organizzativo semplicemente assurdo e non credibile, con una concentrazione direzionale ingiustificabile, implausibile e oggettivamente irrazionale.
Per altro, spiega la sentenza della Sezione Puglia “
nessuno dei competenti decreti sindacali di conferimento evidenzia (se non nel limitato caso di cui al decreto n. 52 del 13.10.2010, in cui il segretario è stato incaricato ad interim, per tre giorni, della gestione del Settore Bilancio a causa del congedo del titolare dell’ufficio) alcun elemento da cui arguire la mancanza in concreto di idonee professionalità all’interno dell’Ente o la presenza di situazioni contingenti di sorta, ulteriori rispetto alla richiamata astratta esigenza di riorganizzare gli uffici, o a quella generica di sgravare il dirigente fino ad allora designato dal relativo carico”.
Indicazioni che sarebbero state ancor più generali, in considerazione della dimensione del comune, di quasi 60.000 abitanti, che, secondo la Corte “induce ad ipotizzare –in difetto di contrarie allegazioni– un organico dirigenziale di assoluto rilievo e consistenza, anche in termini di presenza di idonee figure dirigenziali nei settori di competenza gestionale affidati, invece, al segretario”.
La conclusione della Corte è caustica: “In definitiva,
il sistema ordinamentale sopra tratteggiato [...] non consente che ai segretari siano conferite funzioni gestionali in pianta stabile, se non nei casi limite sopra indicati (comuni privi di idonee figure dirigenziali, situazioni di paralisi gestionale, ecc.) e previa adeguata motivazione”.
Laddove i segretari sono caricati di queste funzioni, la verifica puntuale spesso porterebbe ad osservare situazioni del tutto improprie, come quelle della sentenza, in cui la caccia alla mostrina di “dirigente apicale” porta a situazioni paradossali e dannose per l’erario; oppure, a situazioni del tutto opposte, nelle quali, specie in piccoli comuni, il segretario viene subissato di funzioni e competenze, senza mezzi, senza strumenti, con strutture spesso torpide, che agiscono a “tenaglia” con l’amministrazione nello schiacciare l’ordinato svolgersi delle competenze della figura.
La Corte costituzionale con la sentenza 22.02.2019 n. 23 ha perso l’occasione enorme di riallineare l’ordinamento a logica e razionalità. La sentenza della Corte dei conti della Puglia è lì, scolpita, a ricordarci di questa occasione drammaticamente sfuggita.

 

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ATTI AMMINISTRATIVIE' inammissibile, per carenza del requisito della lesività, il ricorso proposto per l'annullamento giurisdizionale di un atto comunale recante una mera “diffida” ad eseguire interventi urgenti di messa in sicurezza di immobili.
Trattasi, infatti, di atto che assume carattere meramente preparatorio, a rigore nemmeno necessario, rispetto all'adozione della successiva ordinanza contingibile ed urgente, prevista dall’art. 54, comma 2, del T.U.E.L., la quale costituisce il provvedimento conclusivo del procedimento.
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Per poter essere eseguita, l'ordinanza contingibile ed urgente può dirigersi nei confronti del destinatario solamente per la realizzazione di lavori su beni di cui lo stesso è proprietario e che rientrino nella sua disponibilità ossia che si trovi in rapporto tale con la fonte di pericolo da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di rischio.
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Invero, con specifico riferimento all’ultimo atto indicato, va richiamata la pacifica giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. per tutte, Consiglio di Stato, sez. V, 20.08.2015, n. 3955; TAR Campania, Napoli, sez. V, 26.05.2016, n. 2719 e 15.12.2016, n. 5781), secondo cui è inammissibile, per carenza del requisito della lesività, il ricorso proposto per l'annullamento giurisdizionale di un atto comunale recante una mera “diffida” ad eseguire interventi urgenti di messa in sicurezza di immobili. Trattasi, infatti, di atto che assume carattere meramente preparatorio, a rigore nemmeno necessario, rispetto all'adozione della successiva ordinanza contingibile ed urgente, prevista dall’art. 54, comma 2, del T.U.E.L., la quale costituisce il provvedimento conclusivo del procedimento.
2.2. Da quanto precede emerge, con tutta evidenza, che gli odierni ricorrenti, al momento dell’emissione delle ordinanze sindacali impugnate, non avevano la materiale disponibilità dell’immobile in questione e che tale situazione di fatto, non conforme a quella di diritto, è dipendente dal comportamento inerte tenuto dallo stesso Comune di Napoli, il quale non ha ancora provveduto a sgomberare lo stabile dagli occupanti sine titulo ed a restituirlo agli aventi diritto, così come statuito nella sentenza del Tribunale di Napoli n. 683/2014.
2.3. Orbene, le riferite circostanze sono sufficienti a fondare la diagnosi di illegittimità dei provvedimenti in discussione, siccome carenti, anzitutto, del necessario presupposto soggettivo, atteso che i ricorrenti, al momento della loro adozione, non avevano la disponibilità materiale dei beni in questione e, pertanto, non erano nella condizione di eliminare la riscontrata situazione di pericolo (cfr, ex multis, TAR Liguria, sez. I, 19.04.2013, n. 702 e 27.01.2016, n. 82; TAR Campania, Napoli, sez. V, 16.04.2007, n. 3722). Invero, per poter essere eseguita, l'ordinanza contingibile ed urgente può dirigersi nei confronti del destinatario solamente per la realizzazione di lavori su beni di cui lo stesso è proprietario e che rientrino nella sua disponibilità ossia che si trovi in rapporto tale con la fonte di pericolo da consentirgli di eliminare la riscontrata situazione di rischio.
Nel caso di specie risulta pertanto scorrettamente esercitato il potere di ordinanza ex art. 54 T.U.E.L., non potendo esigersi dai privati l’esecuzione dei lavori ivi indicati e l’obbligo di non far praticare i luoghi da terzi prima dell’avvenuto reintegro nel possesso, sgombero e ripristino dello stato dei luoghi a cura del Comune di Napoli.
Risulta pertanto, fondata, oltre che assorbente, la censura dedotta nell’ambito del primo motivo di mancanza del requisito soggettivo necessario per configurare la legittimazione passiva dei ricorrenti
(TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 01.08.2019 n. 4227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

COMPETENZE PROGETTUALINel nostro ordinamento, il riparto delle competenze professionali tra la figura dell’ingegnere e quella dell’architetto è tuttora dettato dal R.D. 23.10.1925 n. 2537 che, all’art. 51, riconosce spettanti alla professione d'ingegnere le progettazioni per le costruzioni e per le industrie, per i lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, per le costruzioni di ogni specie, per le macchine e gli impianti industriali, nonché in generale applicative della fisica, con i rilievi geometrici e le operazioni di estimo.
Ai sensi dell’art. 52, invece, formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative, ad eccezione delle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico e il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla legislazione sui beni culturali, che sono di spettanza esclusiva della professione di architetto.
In sostanza, la competenza professionale dell’architetto concorre con quella dell’ingegnere per la progettazione delle sole opere di edilizia civile, essendo riservate alla professione ingegneristica le progettazioni di tutti i lavori non compresi nella costruzione di edifici.
In estrema sintesi tutte le progettazioni tecniche che non attengono all’edilizia civile rientrano nell’ambito delle competenze dei soli ingegneri, mentre la progettazione attinente all’edilizia civile può essere svolta anche dagli architetti, oltre che dagli ingegneri.
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Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente afferma che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa, in quanto la sua offerta tecnica, per la parte relativa alla componente impiantistica dei gas medicali, sarebbe stata illegittimamente sottoscritta da un architetto e non invece da un ingegnere, secondo quanto disposto dagli artt. 51, 52 e 54 del R.D. 13.10.1925 n. 2537 recante il Regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto.
Il rilievo è fondato.
Sul punto il Collegio ritiene di non discostarsi dal proprio orientamento di recente confermato, secondo cui “nel nostro ordinamento, il riparto delle competenze professionali tra la figura dell’ingegnere e quella dell’architetto è tuttora dettato dal R.D. 23.10.1925 n. 2537 che, all’art. 51, riconosce spettanti alla professione d'ingegnere le progettazioni per le costruzioni e per le industrie, per i lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, per le costruzioni di ogni specie, per le macchine e gli impianti industriali, nonché in generale applicative della fisica, con i rilievi geometrici e le operazioni di estimo; ai sensi dell’art. 52, invece, formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative, ad eccezione delle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico e il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla legislazione sui beni culturali, che sono di spettanza esclusiva della professione di architetto; in sostanza, la competenza professionale dell’architetto concorre con quella dell’ingegnere per la progettazione delle sole opere di edilizia civile, essendo riservate alla professione ingegneristica le progettaioni di tutti i lavori non compresi nella costruzione di edifici” (cfr. TAR Campania, Napoli, I Sez. I, 20.04.2016 n. 1968; Id. 14.09.2016, n. 4299).
In estrema sintesi tutte le progettazioni tecniche che non attengono all’edilizia civile rientrano nell’ambito delle competenze dei soli ingegneri, mentre la progettazione attinente all’edilizia civile può essere svolta anche dagli architetti, oltre che dagli ingegneri (cfr. TAR Campania, Sez. I, 15.01.2019, n. 231).
Ora, è vero che il Disciplinare di gara (pag. 10) prevedeva espressamente che la documentazione relativa all’offerta tecnica dovesse essere timbrata e firmata “da un tecnico abilitato alla professione (ingegnere e/o architetto)”, ma tale riferimento doveva essere letto secondo diritto nel senso, cioè, che occorreva comunque la sottoscrizione da parte di un tecnico abilitato -un ingegnere ovvero un architetto a seconda del contenuto dell’offerta tecnica- con la conseguenza che nel caso di interventi di carattere non edilizio, e quindi non di competenza di un architetto, la proposta dovesse essere sottoscritta da un ingegnere, in quanto unico tecnico abilitato a farlo, non potendo la lex specialis derogare al riparto di competenze legislativamente disegnato, ma anzi dovendo essere letta (in tal senso deve intendersi l’alternativa “e/o" di cui al Disciplinare) come operante un rinvio alle predette norme di legge.
Del resto, ai fini della valutazione delle competenze necessarie alla sottoscrizione della parte impiantistica, occorre tenere conto che nel caso di specie oggetto dell’offerta migliorativa era un impianto relativo a gas medicali, ovvero una tipologia di intervento che non rientra nell’ambito delle opere ancillari a quelle civili (ad esempio impianti idraulici ed elettrici ad uso abitativo) sulle quali si potrebbe ipotizzare una competenza anche degli architetti, trattandosi di opere, appunto, normalmente collegate a quelle edili/civili.
Invece, l’impianto in questione è autonomo rispetto alle opere edilizie ed è verosimilmente connotato da proprie peculiarità tecniche di tipo ingegneristico, non rilevando quale fosse l’incidenza percentuale di tale lavorazione rispetto a quelle complessivamente richieste (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.11.2018, n. 2018) e senza che potesse ammettersi soccorso istruttorio, atteso che la sottoscrizione da parte di un professionista “abilitato” costituiva un elemento qualificante dell’offerta la cui mancanza era sanzionata espressamente a pena di esclusione nel Disciplinare.
In definitiva il motivo si rivela fondato l’offerta della controinteressata andava esclusa secondo quanto previsto espressamente dal Disciplinare.
Il ricorso deve pertanto essere accolto e l’aggiudicazione deve essere annullata, mentre nulla deve essere disposto con riguardo alla domanda di declaratoria di inefficacia del contratto e di subentro, avendo l’ASL intimata dichiarato che il contratto non è stato ancora stipulato (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 30.07.2019 n. 4169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIE' ancora attuale la ripartizione delle competenze tra architetti e ingegneri risultante dagli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto) e succ. mod., in quanto le previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore dall’art. 1 del d.P.R. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli artt. 16 (per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A), di cui allo stesso d.P.R., e sono compatibili col nuovo assetto degli studi, perciò tuttora applicabili.
Pertanto, la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D..

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   1) – la competenza concorrente di ingegneri e architetti si ha soltanto nell’ambito delle opere di edilizia civile e per gli impianti tecnologici strettamente connessi a edifici e fabbricati ed in tale senso ha deciso questo Consiglio di Stato nella sentenza n. 1550/2013 citata dagli appellanti;
Restano pertanto di competenza esclusiva degli ingegneri, ai sensi dell’art. 51 del R.D. n. 2357 del 1925, gli interventi edilizi ed urbanistici che consistano in “progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche”, quando non siano connessi a determinati edifici o fabbricati, cioè attengano alle opere di urbanizzazione primaria.
In senso contrario non si può argomentare, nel caso di specie, mediante il riferimento ad alcuni soltanto dei lavori di somma urgenza indicati dal Comune, per i quali varrebbe la competenza concorrente (poiché attinenti ad opere riguardanti edifici, scolastici o vincolati), senza considerare che nell’ordinanza sindacale n. 179 del 2014 sono elencati numerosi altri lavori non connessi ad edifici (interventi di riparazione di ponti, strade e infrastrutture idrauliche) e di portata tale da dover essere ascritti alla competenza esclusiva degli ingegneri.
Analogamente è a dirsi per le opere inserite nel Piano Triennale dei Lavori Pubblici, che comprende interventi dell’un tipo e dell’altro, e comunque interventi relativi alla viabilità ed alle infrastrutture di competenza esclusiva degli ingegneri;
   2) - quanto alla competenza esclusiva degli architetti sugli immobili di interesse storico-artistico, non risulta significativo, nell’economia della sentenza di primo grado, il riferimento alla competenza concorrente degli ingegneri per quanto riguarda la “parte tecnica”.
Piuttosto, il primo giudice ha inteso sottolineare, non tanto la marginalità in assoluto della competenza esclusiva degli architetti che interessa gli edifici civili con rilevante carattere artistico e quelli vincolati, quanto la marginale importanza che tali competenze rivestono se riferite al Settore Lavori Pubblici di un comune –tanto più che tale affermazione trova riscontro concreto nel Piano Triennale dei Lavori Pubblici del Comune che prevede un numero piuttosto ridotto di interventi su immobili vincolati.
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4. I motivi possono essere trattati unitariamente, prendendo le mosse dalla giurisprudenza richiamata in sentenza e negli atti di parte, secondo cui è ancora attuale la ripartizione delle competenze tra architetti e ingegneri risultante dagli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto) e succ. mod., in quanto le previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore dall’art. 1 del d.P.R. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli artt. 16 (per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A), di cui allo stesso d.P.R., e sono compatibili col nuovo assetto degli studi, perciò tuttora applicabili (come riconosciuto da Cons. Stato, IV, 05.06.2009, n. 4866 e id., VI, 15.03.2013, n. 1550, nonché di recente id., V, 21.11.2018, n. 6593).
Pertanto, la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr. Cons. Stato, IV, 22.05.2000, n. 2938; id., V, 06.04.1998, n. 416; id., IV, 19.02.1990, n. 92).
4.1. Tutto ciò premesso, i motivi di appello, come appresso richiamati mediante l’indicazione del numero, vanno respinti per le ragioni seguenti:
   1) – la competenza concorrente di ingegneri e architetti si ha soltanto nell’ambito delle opere di edilizia civile e per gli impianti tecnologici strettamente connessi a edifici e fabbricati ed in tale senso ha deciso questo Consiglio di Stato nella sentenza n. 1550/2013 citata dagli appellanti; restano pertanto di competenza esclusiva degli ingegneri, ai sensi dell’art. 51 del R.D. n. 2357 del 1925, gli interventi edilizi ed urbanistici che consistano in “progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche”, quando non siano connessi a determinati edifici o fabbricati, cioè attengano alle opere di urbanizzazione primaria; in senso contrario non si può argomentare, nel caso di specie, mediante il riferimento ad alcuni soltanto dei lavori di somma urgenza indicati dal Comune di Novi Ligure, per i quali varrebbe la competenza concorrente (poiché attinenti ad opere riguardanti edifici, scolastici o vincolati), senza considerare che nell’ordinanza sindacale n. 179 del 2014 sono elencati numerosi altri lavori non connessi ad edifici (interventi di riparazione di ponti, strade e infrastrutture idrauliche) e di portata tale da dover essere ascritti alla competenza esclusiva degli ingegneri; analogamente è a dirsi per le opere inserite nel Piano Triennale dei Lavori Pubblici, che comprende interventi dell’un tipo e dell’altro, e comunque interventi relativi alla viabilità ed alle infrastrutture di competenza esclusiva degli ingegneri;
   2) - quanto alla competenza esclusiva degli architetti sugli immobili di interesse storico-artistico, non risulta significativo, nell’economia della sentenza di primo grado, il riferimento alla competenza concorrente degli ingegneri per quanto riguarda la “parte tecnica” (che trova parziale smentita nel precedente di questo Consiglio di Stato n. 12/2014 citato dagli appellanti); piuttosto, il primo giudice ha inteso sottolineare, non tanto la marginalità in assoluto della competenza esclusiva degli architetti che interessa gli edifici civili con rilevante carattere artistico e quelli vincolati, quanto la marginale importanza che tali competenze rivestono se riferite al Settore Lavori Pubblici di un comune –tanto più che tale affermazione trova riscontro concreto nel Piano Triennale dei Lavori Pubblici del Comune di Novi Ligure che prevede un numero piuttosto ridotto di interventi su immobili vincolati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 17.07.2019 n. 5012 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: In ordine alla delimitazione delle competenze tra l’attività dei geometri e quella degli ingegneri, possono riportarsi le puntuali e condivisibili cui è giunta la giurisprudenza laddove si precisa quanto segue: “A norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei geometri:
   a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
   b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, l. 05.11.1971, n. 1086, e art. 17, l. 02.02.1974, n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri".

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6. Con il secondo e quinto motivo di appello si contesta il capo di sentenza che ha ravvisato la violazione dell’art. 16 del r.d. n. 274/1929 con riferimento alla professionalità specifica del geometra che ha redatto –come nella vicenda qui in esame- il progetto di ricostruzione di un edificio sulla cui base è stata rilasciata la concessione edilizia ritenuta illegittima dal giudice di prime cure.
In particolare, con il secondo motivo si lamenta: Mancata valutazione di un fatto. Omesso esame di motivo di diritto. Pronuncia ultra petita della sentenza di primo grado.
Il progetto della struttura, contrariamente a quanto affermato nella sentenza gravata, era assistito da progetto strutturale redatto da ingegnere. Su tale argomento il Tribunale non si pronuncia nonostante l'argomento sia stato spiegato a pag. 6 della memoria del 09.05.2012. Quindi, il progetto della struttura è stato all'origine redatto da un architetto mentre il geometra ha redatto il progetto d'insieme facendo proprie le valutazioni e gli elaborati relativi alla struttura già realizzati dal progettista laureato.
6.1. Con il quinto motivo si lamenta: Ulteriore violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Erroneità della motivazione. Carenza di presupposto.
Il Comune –con il presente motivo– riprende le considerazioni già svolte in riferimento alla professionalità specifica del geometra che dovrebbe essere parametrata al carattere modesto della costruzione aspetto questo rimesso alla piena discrezionalità tecnica del Comune e, dunque, sottratto alla valutazione del Collegio.
6.2. I motivi sono infondati.
Rispetto alle questioni agitate nella presente controversia il Collegio ritiene di dover richiamare il condiviso approdo giurisprudenziale cui è pervenuto il Consiglio di Stato (V, 23.02.2015, n. 883; su cui pure CGA, sentenza n. 74 del 03.03.2017) che in una vicenda del tutto analoga a quella qui in discussione ha avuto modo di precisare che: "In ordine alla delimitazione delle competenze tra l’attività dei geometri e quella degli ingegneri, possono riportarsi le puntuali e condivisibili cui è giunta la giurisprudenza, come si evincono dalla sentenza di questa stessa Sezione n. 2537 del 28.04.2011, nella quale si precisa quanto segue: “A norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei geometri:
   a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
   b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, l. 05.11.1971, n. 1086, e art. 17, l. 02.02.1974, n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.".

Nella fattispecie qui in esame la concessione edilizia impugnata attiene alla ricostruzione di un edificio di tre elevazioni in zona sismica. Si tratta di un aspetto che il giudice di prime cure ha giustamente posto in rilievo e che depone nel senso della illegittimità della concessione impugnata per essere il progetto redatto da un geometra, mentre nessun rilievo può assumere il fatto che il parere favorevole del Genio Civile di Catania sia stato espresso sul progetto strutturale redatto da un architetto, perché trattasi di un aspetto estraneo alla doglianza avanzata dai ricorrenti introduttivi che hanno dedotto l’illegittimità della concessione edilizia perché il progetto di ricostruzione dell’edificio in questione è stato elaborato da un geometra.
Conseguentemente il Comune si è illegittimamente determinato in senso favorevole ai richiedenti, non curante che il territorio comunale ricade in zona sismica e che la ricostruzione di un edificio di tre elevazioni non può considerarsi un’opera modesta
(CGARS, sentenza 31.12.2018 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALILa possibilità di scindere la progettazione architettonica dai calcoli strutturali, attraverso distinti incarichi professionali affidati rispettivamente a un geometra e a un ingegnere, è coerente con la descrizione delle competenze professionali dei geometri contenuta nell’art. 16 del RD 274/1929.
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(f) per quanto riguarda le opere in cemento armato, la difesa del Comune (v. memoria depositata il 19.10.2017) ha chiarito che i relativi calcoli sono stati effettuati da un ingegnere. Sussistono dunque tutte le garanzie necessarie per l’incolumità delle persone. La possibilità di scindere la progettazione architettonica dai calcoli strutturali, attraverso distinti incarichi professionali affidati rispettivamente a un geometra e a un ingegnere, è coerente con la descrizione delle competenze professionali dei geometri contenuta nell’art. 16 del RD 274/1929 (v. CS Sez. II 04.09.2015 n. 2539; TAR Brescia Sez. II 18.04.2013 n. 361) (TAR Lombardia-Brescia, Sez, II, sentenza 19.02.2018 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

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EDILIZIA PRIVATAPer pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; detta situazione di inedificabilità, prodotta dal vincolo cimiteriale, è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338 comma 5, r.d. 01.07.1934, n. 1265.
Si tratta di una disciplina che, per le ragioni sin qui esposte, opera indipendentemente dal suo recepimento nello strumento urbanistico e prevale sugli strumenti urbanistici difformi.
Ne deriva che, a maggior ragione, prevale anche su una deliberazione consiliare di riduzione della fascia di rispetto, che –avendo riguardo al suo contenuto– possiede una natura latamente regolamentare o di pianificazione e come tale va disapplicata.
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Sempre per pacifica giurisprudenza, la situazione d'inedificabilità prodotta dal vincolo cimiteriale è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, t.u. leggi sanitarie: invero, tale ultima previsione “non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura”.
Tra queste ultime sono ricomprese deroghe relative a nuovi piani urbanistici: ai sensi dell'art. 338, comma 5, t.u. 27.07.1934, n. 1265 il Consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici “per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie”.
Tuttavia, sempre per giurisprudenza, la deroga al vincolo non può applicarsi a fattispecie relative all’edilizia residenziale privata, chiarendosi che “la locuzione "per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico" deve essere interpretata nel senso che gli interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento sono solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza pubblica e destinati a soddisfare interessi pubblicistici di rilevanza almeno pari a quelli posti a base della fascia di rispetto dei duecento metri”.
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Deve invero rammentarsi che, per pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale; detta situazione di inedificabilità, prodotta dal vincolo cimiteriale, è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, comma 5, r.d. 01.07.1934, n. 1265 (Consiglio di Stato sez. IV, 06/10/2017, n. 4656).
Si tratta di una disciplina che, per le ragioni sin qui esposte, opera indipendentemente dal suo recepimento nello strumento urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2018, n. 6891; Consiglio di Stato, sez. IV, 23.04.2018, n. 2407) e prevale sugli strumenti urbanistici difformi (Consiglio di Stato, sez. VI , 02.07.2018, n. 4018).
Ne deriva che, a maggior ragione, prevale anche su una deliberazione consiliare di riduzione della fascia di rispetto, che –avendo riguardo al suo contenuto– possiede una natura latamente regolamentare o di pianificazione e come tale va disapplicata (sulla disapplicazione degli atti a natura regolamentare, vedasi da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, 04.02.2019, n. 821, Consiglio di Stato, sez. VI , 24.10.2017, n. 4894).
Pertanto, il primo e principale argomento di ricorso non può trovare accoglimento.
Quanto al secondo aspetto che caratterizza la fattispecie deve rammentarsi che, sempre per pacifica giurisprudenza, la situazione d'inedificabilità prodotta dal vincolo cimiteriale è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell' art. 338, quinto comma, t.u. leggi sanitarie (Consiglio di Stato, sez. IV , 13.12.2017, n. 5873, che specifica che tale ultima previsione “non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura”; sulla necessità di stretta interpretazione delle deroghe di cui al quinto comma dell’art. 338 cit., si veda Consiglio di Stato, sez. IV , 06.10.2017, n. 4656).
Tra queste ultime sono ricomprese deroghe relative a nuovi piani urbanistici: ai sensi dell'art. 338, comma 5, t.u. 27.07.1934, n. 1265 il Consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici “per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie” (sul punto, vedasi TAR, Ancona, sez. I , 19.02.2018, n. 125).
Tuttavia, sempre per giurisprudenza, la deroga al vincolo non può applicarsi a fattispecie relative all’edilizia residenziale privata, chiarendosi che “la locuzione "per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico" deve essere interpretata nel senso che gli interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento sono solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza pubblica e destinati a soddisfare interessi pubblicistici di rilevanza almeno pari a quelli posti a base della fascia di rispetto dei duecento metri” (Cassazione penale , sez. III, 13/01/2009, n. 8626, e richiami di giurisprudenza, sia penale che amministrativa, ivi riportati) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 15.07.2019 n. 9358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza ampiamente consolidata, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 (e dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990) determina una situazione di inedificabilità ex lege e non necessita di essere recepito dagli strumenti urbanistici, sui quali si impone come limite legale nei confronti delle previsioni urbanistiche locali eventualmente incompatibili.
Il vincolo ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di edifici o costruzioni all’interno della fascia di rispetto, a tutela dei molteplici interessi pubblici cui quest’ultima presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
A escludere l’inedificabilità non rilevano la tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo comma dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il limite della funzionalità all’utilizzo degli edifici stessi.
La situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nel quinto comma dell’art. 338, norma eccezionale e di stretta interpretazione che non presidia interessi privati e opera in relazione a specifiche domande edificatorie, nel senso che l’autorizzazione eventualmente rilasciata è frutto di una valutazione caso per caso e non può mai costituire la base legale di un’autorizzazione a costruire in futuro nella fascia di rispetto.
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2.1. Il motivo è infondato.
L’art. 338 R.D. n. 1265/1934 fa divieto di costruire intorno ai cimiteri “nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
La disposizione è stata modificata dalla legge n. 166/2002 mediante la sostituzione, per quanto qui interessa, dei commi quinto e settimo, i quali rispettivamente stabiliscono:
   - “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”;
   - “All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457”.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, cui il collegio intende dare continuità, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 (e dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990) determina una situazione di inedificabilità ex lege e non necessita di essere recepito dagli strumenti urbanistici, sui quali si impone come limite legale nei confronti delle previsioni urbanistiche locali eventualmente incompatibili. Il vincolo ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di edifici o costruzioni all’interno della fascia di rispetto, a tutela dei molteplici interessi pubblici cui quest’ultima presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale. A escludere l’inedificabilità non rilevano la tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo comma dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il limite della funzionalità all’utilizzo degli edifici stessi (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato sez. IV, 23.04.2018, n. 2407; id., sez. VI, 27.02.2018, n. 1164; id., sez. VI, 06.10.2017, n. 4656; id., sez. V, 18.01.2017, n. 205; TAR Toscana, sez. III, 22.10.2018, n. 1351; id., 02.02.2015, n. 183; id., 12.11.2013, n. 1553; id., 12.07.2010, n. 2446; id., 11.06.2010, n. 1815).
La situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nel quinto comma dell’art. 338, norma eccezionale e di stretta interpretazione che non presidia interessi privati e opera in relazione a specifiche domande edificatorie, nel senso che l’autorizzazione eventualmente rilasciata è frutto di una valutazione caso per caso e non può mai costituire la base legale di un’autorizzazione a costruire in futuro nella fascia di rispetto (cfr. Cons. Stato, IV, n. 4656/2017, cit., e i precedenti ivi richiamati).
Nella specie, a tacere d’altro, il ricorrente non ha allegato l’esistenza di alcun profilo di interesse generale in virtù del quale il Comune intimato avrebbe dovuto prendere in considerazione in suo favore l’ipotesi della deroga.
Né è dimostrata la sussistenza delle condizioni richieste dal settimo comma dell’art. 338, che, come detto, disciplina gli interventi di recupero o funzionali all’utilizzo degli edifici esistenti. Più in particolare, non vi sono elementi oggettivi a conferma della tesi secondo cui le opere da sanare sarebbero compatibili con gli stringenti limiti derivanti dall’esistenza del vincolo cimiteriale e che, di conseguenza, il Comune avrebbe errato nel qualificarle come nuove costruzioni.
3. In forza delle considerazioni che precedono, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.07.2019 n. 1048 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa consolidata giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti.
A conferma del particolare rigore che presidia l’interpretazione dell’art. 338 cit.
R.D. n. 1265/1934 va ricordato che numerose sono le pronunce intervenute a individuare portata e limiti delle modifiche apportate all’art. 338 cit. dalla novella del 2002 (peraltro inapplicabile alla fattispecie ratione temporis), rispetto a richieste di privati.
Si è, infatti, affermato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti).
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L’esistenza del vincolo cimiteriale nell’area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo, comportando l’inedificabilità assoluta, impedisce il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 33, l. n. 47 del 1985, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell’opera con i valori tutelati dal vincolo.
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7. Il motivo è infondato e va rigettato.
7.1. La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (da ultimo sez. VI, n. 1164 del 2018; sez. IV, n. 5873 del 2017) ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti.
7.1.1. A conferma del particolare rigore che presidia l’interpretazione dell’art. 338 cit. va ricordato che numerose sono le pronunce intervenute a individuare portata e limiti delle modifiche apportate all’art. 338 cit. dalla novella del 2002 (peraltro inapplicabile alla fattispecie ratione temporis), rispetto a richieste di privati (Cons. Stato sez. IV n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014).
Si è, infatti, affermato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti).
7.2. Dall’applicazione dei principi richiamati alla fattispecie consegue la manifesta infondatezza dell’appello.
Nella controversia non è messa in discussione la costruzione abusiva del manufatto all’interno della fascia di rispetto di ml 200 dal cimitero. Si deduce, infatti, l’erronea ricomprensione dello stesso nel centro abitato, perché non basata su idonea delibera comunale di perimetrazione, ed il carattere isolato della costruzione; tutto al fine di sostenere che il Comune avrebbe dovuto valutare la compatibilità dell’immobile con il vincolo, sull’erroneo presupposto che la presenza di alcuni edifici nella fascia di rispetto non concreta di per sé una violazione della stessa.
8. Naturalmente, dall’esistenza del vincolo che comporta l’inedificabilità dell’area di rispetto, deriva l’esclusione di ogni condono, ai sensi dell’art. 33, co. 1, lett. d), della l. n. 47 del 1985.
La giurisprudenza è univoca in tal senso per i vincoli riconducibili alla suddetta disposizione (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, n. 3860 del 2017, n. 4564 del 2015), tra i quali, in particolare, il vincolo cimiteriale (Cons. Stato, sez. VI, n. 3410 del 2014; sez. IV, n. 6547 del 2009; sez. IV, n. 1185 del 2007).
Infatti, secondo i principi enucleati dalla suddetta giurisprudenza, l’esistenza del vincolo cimiteriale nell’area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo, comportando l’inedificabilità assoluta, impedisce il rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 33, l. n. 47 del 1985, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta compatibilità dell’opera con i valori tutelati dal vincolo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.07.2019 n. 4692 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACom'è noto, il vincolo cimiteriale persegue una triplice finalità:
   - in primo luogo, vuole assicurare condizioni di igiene e dì salubrità mediante la conservazione di una sorta di "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero;
   - in secondo luogo è finalizzato a garantire la tranquillità ed il decoro ai luoghi di sepoltura;
   - in terzo luogo è diretto a consentire futuri ampliamenti dell'impianto funerario.
Proprio in considerazione di tale ultima finalità, l'attuale quarto comma dell'art. 338 R.D. n. 1265/1934 -modificato dall'art. 28, comma 1, lett. b), L. 01.08.2002, n. 166- ha ulteriormente limitato la possibilità di derogare al divieto assoluto di inedificabilità, circoscrivendola alle sole ipotesi di costruzione di opere afferenti nuovi impianti cimiteriali o ampliamento di quelli esistenti, peraltro riferita a due tassative ipotesi quali le particolari condizioni locali (quindi, ove non sia possibile provvedere altrimenti); ovvero, che l'impiantò cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi, o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
La modifica della disciplina del vincolo cimiteriale quindi, nel restringere le ipotesi di derogabilità della fascia di rispetto, ricompresa nei 200 m. dal perimetro dell'impianto funerario alle sole opere afferenti gli impianti cimitériali, riconferma la natura assoluta del vincolo di inedificabilità ivi insistente per ogni altra opera.
Inoltre, deve evidenziarsi che la norma di cui all'art. 338 mira ad assicurare condizioni di igiene e salubrità nell'area posta intorno al cimitero, a garantire la tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura ed infine a consentire futuri ampliamenti del cimitero medesimo.
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Pertanto, l'art. 338, comma 1, T.U. cit., il cui testo è stato parzialmente modificato dall'art. 28 della L. 01.08.2002, n. 166, che ha peraltro confermato il limite della zona di rispetto, nel vietare la costruzione di nuovi edifici o fabbricati nel raggio di 200 m. dai cimiteri, si riferisce a qualsiasi tipo di costruzione anche se destinata ad uso diverso da quello di abitazione, come ha confermato pacifica giurisprudenza, che ha avuto modo di riconoscere che il vincolo di inedificabilità sull'area di rispetto cimiteriale è assoluto.
Infatti, anche le opere edilizie qualificate come pertinenze soggiacciono all'obbligo di conformità allo strumento urbanistico e, a più forte ragione, al vincolo urbanistico di grado superiore, derogabile solo "ex lege" e posto per la salvaguardia di interessi rilevanti.
Com'è noto, il predetto vincolo cimiteriale persegue una triplice finalità:
   - in primo luogo, vuole assicurare condizioni di igiene e dì salubrità mediante la conservazione di una sorta di "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero;
   - in secondo luogo è finalizzato a garantire la tranquillità ed il decoro ai luoghi di sepoltura;
   - in terzo luogo è diretto a consentire futuri ampliamenti dell'impianto funerario.
Proprio in considerazione di tale ultima finalità, l'attuale quarto comma del predetto art. 338 -modificato dall'art. 28, comma 1, lett. b), L. 01.08.2002, n. 166- ha ulteriormente limitato la possibilità di derogare al divieto assoluto di inedificabilità, circoscrivendola alle sole ipotesi di costruzione di opere afferenti nuovi impianti cimiteriali o ampliamento di quelli esistenti, peraltro riferita a due tassative ipotesi quali le particolari condizioni locali (quindi, ove non sia possibile provvedere altrimenti); ovvero, che l'impiantò cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi, o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
La modifica della disciplina del vincolo cimiteriale quindi, nel restringere le ipotesi di derogabilità della fascia di rispetto, ricompresa nei 200 m. dal perimetro dell'impianto funerario alle sole opere afferenti gli impianti cimitériali, riconferma la natura assoluta del vincolo di inedificabilità ivi insistente per ogni altra opera.
Inoltre, deve evidenziarsi che la norma di cui all'art. 338 mira ad assicurare condizioni di igiene e salubrità nell'area posta intorno al cimitero, a garantire la tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura ed infine a consentire futuri ampliamenti del cimitero medesimo (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 04.07.2019 n. 4587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina di cui all'art. 338 del Testo Unico delle leggi sanitarie vieta l'edificazione in fascia di rispetto di manufatti che per inamovibilità e incorporazione al suolo costituiscono delle costruzioni edilizie.
Il vincolo cimiteriale, come è noto, ha carattere assoluto, valevole per ogni singolo fabbricato e per ogni tipo di costruzione trattandosi di un divieto di edificazione posto a tutela della natura e della salubrità dei luoghi, per cui non opera alcuna distinzione tra manufatti, riguardando anche gli eventuali manufatti (in ipotesi) pertinenziali.

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3. Deve inoltre osservarsi, come bene ha evidenziato il TAR, che le opere abusive in esame si trovano in zona di rispetto cimiteriale, ovvero ad una distanza inferiore al fissato limite di rispetto al cimitero di Quarto e la disciplina di cui all'art. 338 del Testo Unico delle leggi sanitarie vieta l'edificazione in fascia di rispetto di manufatti che per inamovibilità e incorporazione al suolo costituiscono delle costruzioni edilizie, con la conseguenza che il fabbricato dell’appellante è del tutto incompatibile con la disciplina di tutela in questione.
Il vincolo cimiteriale, come è noto, ha carattere assoluto, valevole per ogni singolo fabbricato e per ogni tipo di costruzione trattandosi di un divieto di edificazione posto a tutela della natura e della salubrità dei luoghi, per cui non opera alcuna distinzione tra manufatti, riguardando anche gli eventuali manufatti (in ipotesi) pertinenziali (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 04.07.2019 n. 4586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa consolidata giurisprudenza sulla materia ha nello specifico chiarito che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
   d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quinto comma, norma che non presidia interessi privati e non può quindi legittimare interventi edilizi futuri su un’area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   e) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della fascia inedificabile.
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13. Egualmente infondato si presenta anche il motivo di appello con il quale si vuole affermare la compatibilità dell’intervento, quand’anche necessitante di permesso di costruire, con gli interessi e i valori che il cosiddetto vincolo cimiteriale di cui all’art. 338, comma 1, del r.d. n. 1265/1934 (T.U.L.S.) è chiamato a salvaguardare. Tale vincolo, infatti, si connota come di inedificabilità assoluta e conseguente inderogabilità, almeno per regola generale, dalla pianificazione urbanistica comunale (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 12.02.2019, n. 1013; id., 15.10.2018, n. 5911; id., Sez. IV, 06.10.2017, n. 4656).
Dispone dunque il ridetto art. 338, comma 1, che: “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Il quinto comma a sua volta, nel testo da ultimo sostituito dall’art. 28, comma 1, lett. b), della legge n. 166/2002, aggiunge che: “Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
La consolidata giurisprudenza sulla materia, dalla quale non è motivo di discostarsi, ha nello specifico chiarito che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici (v. Cass. civ., Sez. I, 20.12.2016, n. 26326);
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, Sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, Sez. IV, 22.11.2013, n. 5544; Cass. civ., Sez. I, 17.10.2011, n. 2011; id., Sez. I, n. 26326 del 2016, cit.);
   d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quinto comma, norma che non presidia interessi privati e non può quindi legittimare interventi edilizi futuri su un’area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   e) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico -come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; nonché id., 04.07.2014, n. 3410).
Orbene, ritiene il Collegio che nella vicenda in esame da un lato manchi la prevista connotazione delle opere realizzate, per cui si verte nella fattispecie di vincolo assoluto di inedificabilità contemplato dal primo comma della disposizione; dall’altro non sussista l’interesse pubblico alla riduzione dell’area, per cui la relativa estensione deve essere confermata nei termini indicati dal legislatore (sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 09.03.2016, n. 949).
14. Da quanto sopra, discende anche l’infondatezza dell’ulteriore motivo col quale si assume che il TAR avrebbe dovuto disporre ex officio una più approfondita istruttoria per verificare se il Comune avesse “modulato” il vincolo di rispetto cimiteriale in sede di pianificazione urbanistica così da escludere che vi rientrasse l’area interessata dalle serre dell’appellante.
Il ricordato carattere assoluto del vincolo e il suo imporsi anche sulle eventuali diverse previsioni degli strumenti urbanistici rende ragione dell’adeguatezza e sufficienza della motivazione con cui il primo giudice, sulla scorta delle risultanze in atti, ha ritenuto mantenuta l’estensione di legge dei 200 metri, non essendo stato dimostrato l’avvenuto intervento di modifiche con la procedura “rafforzata” con cui il Comune, sussistendone i presupposti, avrebbe potuto incidere sulla fascia di rispetto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 13.06.2019 n. 3952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo cimiteriale previsto dall’art. 338 r.d. 1265/1934, (secondo cui “i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”) costituisce vincolo ex lege a carattere pubblicistico che prevale anche sulle diverse valutazioni del Prg e relative destinazioni urbanistiche.
Trattasi, in particolare, di vincolo di inedificabilità assoluta e non relativa, tenuto conto che il caso di specie non rientra nelle eccezioni relative all’esecuzione di opera pubblica o attuazione di un intervento urbanistico.
Il vincolo in questione, in conclusione, non rientra nella sfera di operatività dell’art. 32 L. 47/1985 e le opere realizzate, pertanto, non sono suscettibili di sanatoria.
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Secondo i principi enucleati dalla giurisprudenza, la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo in considerazione dell’interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, a mente del quale “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
La disposizione ora citata appartiene al novero delle norme eccezionali e di stretta interpretazione, non mirando alla soddisfazione di interessi privati.
Tanto comporta che la procedura di riduzione della fascia cimiteriale inedificabile è attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili, mentre il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti).
La conclusione è in linea con il più recente orientamento del Consiglio di Stato che, nella materia che occupa, ha precisato che “La tutela dei molteplici interessi pubblici che il vincolo generale previsto dall’art. 338 r.d. n. 1265 del 1934 presidia impone che i possibili interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento siano solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della fascia di rispetto di duecento metri. Pertanto, il comma 5 dell’art. 338 cit. non può essere interpretato nel senso di consentire, eccezionalmente, con il parere favorevole della Asl, interventi urbanistici volti a soddisfare interessi pubblici, nei quali siano ricompresi –quali interventi privati di interesse pubblico- gli insediamenti produttivi e le strutture turistico-ricettive".
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13.3- Deve premettersi che, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente (motivo n. 2 e 3), il vincolo cimiteriale previsto dall’art. 338 r.d. 1265/1934, (secondo cui “i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”) costituisce vincolo ex lege a carattere pubblicistico che prevale anche sulle diverse valutazioni del Prg e relative destinazioni urbanistiche (nel caso di specie, in particolare, l’area ricade, in parte, in zona F4: zone di interesse pubblico destinate a parcheggi: fuoriterra, interrati, a raso).
13.4- Trattasi, in particolare, di vincolo di inedificabilità assoluta e non relativa, tenuto conto che il caso di specie non rientra nelle eccezioni relative all’esecuzione di opera pubblica o attuazione di un intervento urbanistico.
13.5- Il vincolo in questione, in conclusione, non rientra nella sfera di operatività dell’art. 32 L. 47/1985 e le opere realizzate, pertanto, non sono suscettibili di sanatoria (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 15/10/2018, n. 5911).
13.6. – Deve perciò ritenersi che l’esistenza del vincolo cimiteriale nell'area nella quale sono state realizzate le opere abusive, comportando l'inedificabilità assoluta, impedisce in radice il rilascio dell’accertamento di conformità, senza necessità di compiere ulteriori valutazioni.
13.7- Tale conclusione non muta neppure a seguito delle modifiche apportate all'art. 338 rd cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di privati.
Secondo i principi enucleati dalla giurisprudenza (Cons. Stato sez. IV n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014), infatti, la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo in considerazione dell’interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, a mente del quale “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
La disposizione ora citata appartiene al novero delle norme eccezionali e di stretta interpretazione, non mirando alla soddisfazione di interessi privati.
Tanto comporta che la procedura di riduzione della fascia cimiteriale inedificabile è attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili, mentre il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti) (conforme Consiglio di Stato sez. VI, 15/10/2018, n. 5911).
La conclusione è in linea con il più recente orientamento del Consiglio di Stato che, nella materia che occupa, ha precisato che “La tutela dei molteplici interessi pubblici che il vincolo generale previsto dall’art. 338 r.d. n. 1265 del 1934 presidia impone che i possibili interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento siano solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della fascia di rispetto di duecento metri. Pertanto, il comma 5 dell’art. 338 cit. non può essere interpretato nel senso di consentire, eccezionalmente, con il parere favorevole della Asl, interventi urbanistici volti a soddisfare interessi pubblici, nei quali siano ricompresi –quali interventi privati di interesse pubblico- gli insediamenti produttivi e le strutture turistico-ricettive" (Consiglio di Stato sez. IV, 05/12/2018, n. 6891) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 04.06.2019 n. 798 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza in tema di vincolo cimiteriale è particolarmente rigorosa:
   - per costante giurisprudenza, si tratta di un vincolo assoluto e inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo diverso contenute negli strumenti urbanistici. Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai successivi commi 3 e 4 dello stesso articolo (ndr art. 338 TULLSS), si interpretano quindi come finalizzate al pubblico interesse, in particolare all'esigenza di ampliare il cimitero stesso, e quindi non si considerano utilizzabili per consentire la costruzione di edifici a privati;
   - la previsione normativa ha efficacia immediata e diretta ed è idonea anche ad imporsi ad una pianificazione urbanistica eventualmente difforme.
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Per contro, come ampiamente osservato dall’amministrazione resistente, la giurisprudenza in tema di vincolo cimiteriale è particolarmente rigorosa: “per costante giurisprudenza, si tratta di un vincolo assoluto e inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo diverso contenute negli strumenti urbanistici: così C.d.S. sez. VI 15.10.2018 n. 5911 e sez. V 03.05.2007 n. 1933. Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai successivi commi 3 e 4 dello stesso articolo (ndr art. 338 TULLSS), si interpretano quindi come finalizzate al pubblico interesse, in particolare all'esigenza di ampliare il cimitero stesso, e quindi non si considerano utilizzabili per consentire la costruzione di edifici a privati: così la già citata 5911/2018 e sez. V 11.03.1995 n. 377” (Cons. St., sez. VI, n. 1013/2019); la previsione normativa ha efficacia immediata e diretta ed è idonea anche ad imporsi ad una pianificazione urbanistica eventualmente difforme (Tar Piemonte n. 18/2012) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 30.04.2019 n. 526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La precarietà o meno di un’opera non è un elemento di per sé rilevante ai fini del rispetto delle distanze ed in particolare, con riguardo alla fascia di rispetto cimiteriale e relativo vincolo.
In merito al vincolo cimiteriale, infatti, non rileva tanto la precarietà o meno di una costruzione od opera, quanto la compatibilità della struttura in esame con il rispetto degli interessi pubblici che detto vincolo è diretto a tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, da un lato, e la sacralità del luogo, dall’altro.
Al riguardo, si richiama l’insegnamento secondo il quale <<il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura>>.
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Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici.
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che, rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti);
   c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5).
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto) difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.

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Fermo quanto sopra detto, peraltro, occorre sottolineare che la precarietà o meno di un’opera non è un elemento di per sé rilevante ai fini del rispetto delle distanze ed in particolare, con riguardo alla fascia di rispetto cimiteriale e relativo vincolo.
In merito al vincolo cimiteriale, infatti, non rileva tanto la precarietà o meno di una costruzione od opera, quanto la compatibilità della struttura in esame con il rispetto degli interessi pubblici che detto vincolo è diretto a tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, da un lato, e la sacralità del luogo, dall’altro.
Pertanto, in ogni caso, l’intervento edilizio posto in essere da parte ricorrente oggetto del presente giudizio risulta rilevante ai fini del rispetto della disciplina relativa al c.d. vincolo cimiteriale.
Al riguardo, si richiama l’insegnamento secondo il quale <<il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura>> (C. Stato, sez. IV , 13/12/2017, n. 5873).
Ebbene, nel caso di specie, se una mera tettoia meramente precaria può, eventualmente, considerarsi rispettosa di tale vincolo, ancorché realizzata all’interno della c.d. fascia di rispetto cimiteriale, non confliggendo con esso proprio per la sua intrinseca amovibilità e per la natura aperta della struttura, lo stesso non può dirsi per un edificio completamente chiuso e la cui finalità denota un utilizzo duraturo, che, insistendo all’interno della fascia di rispetto, si pone inevitabilmente in contrasto con gli interessi sottesi al vincolo cimiteriale predetto.
2.2. Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici (in ordine ai predetti principi si vedano, tra le altre, C. Stato, sez. IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato, sez. VI, 02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez. IV, 13/12/2017, n. 5873).
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che, rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti);
   c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5) (in ordine ai principi di cui sopra vi vedano, tra le altre, C. Stato, sez. IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato, sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato , sez. VI, 27/07/2015, n. 3667). Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti delle modifiche apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di privati (C. Stato sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato, sez. VI, 02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez. IV, 06/10/2017, n. 4656).
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto) difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
In ogni caso, quand’anche si dovessero ritenere astrattamente applicabili le disposizioni eccezionali e derogatorie dell’art. 338 citato ad una fattispecie in sanatoria quale quella in esame, in concreto, nel giudizio che ci occupa, tali norme non sarebbero invocabili da parte ricorrente in quanto eventuali deroghe al limite di 200 metri della c.d. fascia cimiteriale sono ammissibili solo purché sia mantenuta la distanza minima di 50 m tra la struttura cimiteriale e l’opera in contestazione
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, il vincolo cimiteriale è un vincolo assoluto e inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo diverso contenute negli strumenti urbanistici.
Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai commi 3 e 4 dell'art. 338 del TULS 22.07.1934 n. 1265, si interpretano quindi come finalizzate al pubblico interesse, in particolare all’esigenza di ampliare il cimitero stesso, e quindi non si considerano utilizzabili per consentire la costruzione di edifici a privati.

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2.1 Il vincolo per cui è causa è quello stabilito a tutela dei cimiteri dall’art. 338, comma 1, del TULS 22.07.1934 n. 1265, per cui “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E' vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Per costante giurisprudenza, si tratta di un vincolo assoluto e inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo diverso contenute negli strumenti urbanistici: così C.d.S. sez. VI 15.10.2018 n. 5911 e sez. V 03.05.2007 n. 1933.
Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai successivi commi 3 e 4 dello stesso articolo, si interpretano quindi come finalizzate al pubblico interesse, in particolare all’esigenza di ampliare il cimitero stesso, e quindi non si considerano utilizzabili per consentire la costruzione di edifici a privati: così la già citata 5911/2018 e sez. V 11.03.1995 n. 377 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.02.2019 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVILa rinuncia al mandato da parte del difensore della parte ricorrente non è di ostacolo alla trattazione della causa, in virtù del principio di ultrattività del mandato defensionale desumibile dall’art. 85 cod. proc. civ. (applicabile al processo amministrativo ai sensi dell’art. 39, comma 1, cod. proc. amm.).
Ed invero, la rinuncia al mandato non determina alcun effetto interruttivo del processo ai sensi dell’art. 79 cod. proc. amm., posto che in ossequio al principio della perpetuatio dell’ufficio defensionale, consacrato negli artt. 85 e 301 cod. proc. civ., il difensore rinunciante, fino alla sua sostituzione, conserva lo ius postulandi con riguardo alla causa in corso, e ciò sia per quanto riguarda la legittimazione a ricevere gli atti nell'interesse del mandante, sia per quanto riguarda la legittimazione a compiere atti nell'interesse di quest’ultimo.
In altri termini, non può ammettersi una vacatio dello ius postulandi, che continua a sussistere in capo al difensore rinunciante, non impedendo la stessa rinuncia il passaggio in decisione del ricorso, in quanto il difensore che abbia rinunciato è tenuto a svolgere le sue funzioni fino alla sua sostituzione.
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1. Il Collegio osserva preliminarmente che la rinuncia al mandato da parte del difensore della parte ricorrente non è di ostacolo alla trattazione della causa, in virtù del principio di ultrattività del mandato defensionale desumibile dall’art. 85 cod. proc. civ. (applicabile al processo amministrativo ai sensi dell’art. 39, comma 1, cod. proc. amm.).
Ed invero, la rinuncia al mandato non determina alcun effetto interruttivo del processo ai sensi dell’art. 79 cod. proc. amm., posto che in ossequio al principio della perpetuatio dell’ufficio defensionale, consacrato negli artt. 85 e 301 cod. proc. civ., il difensore rinunciante, fino alla sua sostituzione, conserva lo ius postulandi con riguardo alla causa in corso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.01.2019, n. 294; Cons. Stato, sez. V, 23.11.2018, n. 6627), e ciò sia per quanto riguarda la legittimazione a ricevere gli atti nell'interesse del mandante, sia per quanto riguarda la legittimazione a compiere atti nell'interesse di quest’ultimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.06.2018, n. 3597; Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2018, n. 1115; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.03.2019, n. 1448).
In altri termini, non può ammettersi una vacatio dello ius postulandi, che continua a sussistere in capo al difensore rinunciante (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.10.2018, n. 6064; TAR Lazio Roma, sez. I-ter, 15.11.2018, n. 11046), non impedendo la stessa rinuncia il passaggio in decisione del ricorso, in quanto il difensore che abbia rinunciato è tenuto a svolgere le sue funzioni fino alla sua sostituzione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.07.2014, n. 3956)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un soppalco rientra nell’ambito degli interventi edilizi minori per i quali non è richiesto il permesso di costruire sola qualora abbia caratteristiche tali da non incrementare la superficie dell’immobile.
Tuttavia, quest’ultima ipotesi si verifica solo nel caso in cui lo spazio realizzato col soppalco consista in un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone.
Al contrario, qualora il soppalco determini un aumento della superficie utile dell’unità con conseguente aggravio del carico urbanistico, rientra nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia necessitando, quindi, di un titolo abilitativo.
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7. L’appello è fondato.
Al riguardo, è utile richiamare la giurisprudenza amministrativa, la quale ha messo in luce che la realizzazione di un soppalco rientra nell’ambito degli interventi edilizi minori per i quali non è richiesto il permesso di costruire sola qualora abbia caratteristiche tali da non incrementare la superficie dell’immobile. Tuttavia, quest’ultima ipotesi si verifica solo nel caso in cui lo spazio realizzato col soppalco consista in un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone.
Al contrario, qualora il soppalco determini un aumento della superficie utile dell’unità con conseguente aggravio del carico urbanistico, rientra nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia necessitando, quindi, di un titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09.07.2018, n. 4166) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.07.2019 n. 4780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito un'abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
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6. E’ condivisibile viceversa la valutazione del TAR in ordine alla “natura interna delle opere realizzate, non assoggettabili a permesso di costruire, peraltro del tutto irrilevanti, stante la loro modestissima entità, in termini edilizi”.
Ai sensi dell’art. 10, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 “sono subordinati a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”.
Nel caso di specie, è indubbio che l’opera realizzata sia di modeste dimensioni e, benché abbia determinato un aumento della superficie, si può affermare che la modificazione riguardi comunque la diversa organizzazione interna degli spazi e che pertanto non fosse soggetta a permesso di costruire.
Tale conclusione è coerente con quanto ritenuto da questo Consiglio secondo cui “la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito un'abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto” (Cons. Stato, sez. VI, n. 985/2017).
Peraltro, ove anche ritenuto non riconducibile alla nozione di opere interne, l’intervento per cui è causa in relazione all’epoca di sua esecuzione sarebbe stato al più soggetto a DIA, anziché a permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 05.07.2019 n. 4668 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile e in particolare quello che non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé stante.

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Ai sensi dell’art. 26 della legge n. 47 del 1985, non erano “soggette a concessione né ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con i regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della sagoma della costruzione, dei prospetti, né aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari, non modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari, non rechino pregiudizio alla statica dell’immobile… Ai fini dell’applicazione del presente articolo non è considerato aumento delle superfici utili l'eliminazione o lo spostamento di pareti interne o di parti di esse”.
In base a tale disciplina, il soppalco, comportando indubitabilmente l’aumento di superfici utili e incidendo sulla statica dell’immobile, non avrebbe potuto rientrare nelle opere interne, potendo se mai essere qualificata come ristrutturazione edilizia per cui era necessaria la concessione edilizia ai sensi dell’art. 9 della legge n. 47 del 1985 (che rinviava all’art. 31, comma 1, lettera d), della legge n. 431 del 1978, che definiva “gli interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti”).
Su tale disciplina era intervenuto l’art. 2, comma 60, della legge n. 662 del 1996, che ha modificato l’art. 4 della legge 04.12.1993, n. 493, prevedendo la denuncia di inizio attività per “a) opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo; b) opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti consistenti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell’edificio; c) recinzioni, muri di cinta e cancellate; d) aree destinate ad attività sportive senza creazione di volumetria; e) opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell’immobile; f) revisione o installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e realizzazione di volumi tecnici che si rendano indispensabili, sulla base di nuove disposizioni”.
Ritiene il Collegio che anche l’applicazione di tale disposizione, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non consenta di ritenere i soppalchi soggetti solo alla DIA (comunque non presentata nel caso di specie) e, quindi, la loro esecuzione in assenza di DIA soggetta al regime sanzionatorio della sola sanzione pecuniaria, in quanto si tratta sì di opere interne che non incidono evidentemente sul prospetto e sulla sagoma dell’immobile, ma ne possono pregiudicare la statica, in relazione alla posa di solai intermedi.
Inoltre, se le modifiche introdotte dalle legge n. 662 del 1996, prevedevano la DIA anche per gli interventi di “restauro e risanamento conservativo” (che, in base alla definizione della legge n. 431 del 1978, comma 1, lettera c), come anche in base a quella di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, prevede il “rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso”), non modificavano per la “ristrutturazione edilizia” il regime della legge n. 47 del 1985, per cui restava necessaria la concessione edilizia.
Ne deriva che anche in relazione al periodo di vigenza della legge n. 662 del 1996, deve farsi applicazione del consolidato orientamento giurisprudenziale, ribadito anche di recente da questo Consiglio, per cui i soppalchi possano ritenersi opere interne non soggette a concessione in relazione alle concrete caratteristiche del manufatto; in particolare è, quindi, necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile e in particolare quello che non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé stante (Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2018, n. 2701; id., 27.11.2017, n, 5517; id., 02.03.2017, n. 985).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie è evidente che i soppalchi concretamente realizzati non possano ritenersi mere opere interne non soggette a permesse di costruire, essendo stato di fatto realizzato un nuovo ampio locale nell’appartamento, delle dimensioni di un altro medio appartamento (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 4386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Funzione del certificato di agibilità.
Il rilascio del certificato di agibilità non appare idoneo ad attestare la conformità edilizia dell’immobile, considerati i diversi ambiti di operatività dei citati titoli, fondati su presupposti diversi e non sovrapponibili: il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie e urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza.
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Inoltre, a prescindere dal tema dell’affidamento, il rilascio del certificato di agibilità non appare idoneo ad attestare la conformità edilizia dell’immobile, considerati i diversi ambiti di operatività dei citati titoli, fondati su presupposti diversi e non sovrapponibili: il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza (Consiglio di Stato, V, 29.05.2018, n. 3212; TAR Lazio, Roma, II-bis, 04.06.2019, n. 7180) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 1482 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATAIl permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili, dato che il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza.
Pertanto, ai fini dell’agibilità rilevano esclusivamente i presupposti stabiliti dall’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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Considerato che:
   - con il ricorso introduttivo del presente giudizio le società Ed.Im.Ri. S.r.l. e Nu.Si.Im.Co. S.r.l. Unipersonale hanno agito per l’annullamento della determinazione in epigrafe indicata, con la quale Roma Capitale ha disposto la sospensione, senza un termine determinato, dell'efficacia della segnalazione certificata di agibilità parziale presentata 23.03.2017, relativa al fabbricato con destinazione residenziale e non residenziale sito in Roma, Largo ... nn. 15, 19, 21, 23, 25, 27, 29, 31, 33, formulando, altresì, riserva di proposizione della domanda risarcitoria;
...
Ritenuto che:
   - il ricorso si palesa fondato;
   - la sospensione dell’efficacia risulta essere stata disposta da Roma Capitale “sine die”, oltre la scadenza del termine di 30 giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio dall’art. 19, commi 3 e 6-bis, della l. n. 241/1990, in assenza di ogni esplicitazione dell’attualità dell’interesse pubblico e di qualsiasi ponderazione degli altri interessi pubblici e privati coinvolti, nonché al di fuori di qualsiasi valutazione dei profili di igiene che avrebbero potuto condurre ad un eventuale giudizio di inabitabilità e dunque allo sgombero dell’edificio, bensì esclusivamente sulla base di asserite carenze documentali;
   - emerge per tabulas dagli atti prodotti dalla parte ricorrente che le carenze documentali poste a fondamento della determinazione adottata sono in larga parte insussistenti, venendo in rilievo documentazione già allegata alla segnalazione, e, per la restante parte, con precipuo riferimento al nulla osta di regolarità urbanistica, del tutto ultronee, afferendo a profili radicalmente estranei ai fini della valutazione avente ad oggetto l’agibilità del fabbricato;
   - come chiarito dalla consolidata giurisprudenza anche del Giudice d’Appello, il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili, dato che il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2018, n. 3212; id., sez. IV, 24.10.2012 n. 5450; id, sez. V, 30.04.2009 n. 2760);
   - pertanto, ai fini dell’agibilità rilevano esclusivamente i presupposti stabiliti dall’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001;
   - anche con riferimento all’impianto di illuminazione, la circostanza, valorizzata dalla difesa dell’amministrazione, della mancanza del collaudo dello stesso non è idonea a legittimare la determinazione adottata, sia alla luce della comunicazione trasmessa all’Inail concernente al conformità della messa a terra dell’impianto di illuminazione, sia tenuto conto della omessa esplicitazione di qualsivoglia carenza in concreto riscontrata;
   - alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso va, quindi, accolto, con assorbimento delle ulteriori deduzioni e, per l’effetto la determinazione impugnata va annullata (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 04.06.2019 n. 7180 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 24, I co, del T.U. n. 380/2001 il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, ma tale accertamento ha proprio l’integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato come presupposto giuridico di ammissibilità dell’istanza stessa alla successiva istruttoria di merito.
Sicché, appaiono assolutamente erronei i precedenti dei TAR (isolati e comunque i risalenti nel tempo) per i quali il certificato di agibilità sarebbe finalizzato solo al controllo di tipo igienico-sanitario, con esclusione di qualsiasi riferimento alla conformità dell’edificio al progetto approvato.
In tale scia, si deve poi annotare che la sentenza impugnata richiama in modo assolutamente fuorviante la decisione della Sez. V di questo Consiglio Stato 30.04.2009 n. 2760, che afferma esattamente il contrario di quanto il TAR vorrebbe fargli dire. In tale sentenza, infatti, si specifica testualmente che è:
   - ”… la stessa legge ad individuare, nella necessaria conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del suddetto certificato.
   - … Ancor prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualunque destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (corretto uso del suolo, difesa dell'ambiente, salubrità degli abitati, sicurezza e stabilità delle costruzioni, ecc.)”.
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L’istituto dell’abitabilità per le residenze e dell’agibilità per gli usi non abitativi, originariamente introdotto con l’art. 221 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (T.U. Leggi Sanitarie), era diretta ad accertare che “…che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
Tale disposizione, fu confermata dalla norma di semplificazione procedimentale di cui all’art. 4 del D.P.R. 22.04.1994, n. 425 (abrogato dall'art. 136, comma 2, d.p.r. n. 380/2001) per cui “...il direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità rispetto al progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti”.
Il precetto è stato infine riprodotto nell’art. 25, lett. b), che pone, tra i presupposti necessari dell’istanza di agibilità, la necessaria allegazione di una … “dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità, di conformità dell'opera rispetto al progetto approvato”.
Pertanto, ai sensi dell’art. 24, I co, del T.U. n. 380/2001 il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, ma tale accertamento ha proprio l’integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato come presupposto giuridico di ammissibilità dell’istanza stessa alla successiva istruttoria di merito.
In ragione della lettera delle disposizioni sopra ricordate, appaiono assolutamente erronei i precedenti dei TAR (isolati e comunque i risalenti nel tempo) per i quali il certificato di agibilità sarebbe finalizzato solo al controllo di tipo igienico-sanitario, con esclusione di qualsiasi riferimento alla conformità dell’edificio al progetto approvato.
In tale scia, si deve poi annotare che la sentenza impugnata richiama in modo assolutamente fuorviante la decisione della Sez. V di questo Consiglio Stato 30.04.2009 n. 2760, che afferma esattamente il contrario di quanto il TAR vorrebbe fargli dire. In tale sentenza, infatti, si specifica testualmente che è:
   - ”… la stessa legge ad individuare, nella necessaria conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del suddetto certificato.
   - … Ancor prima della logica giuridica è d'altronde la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualunque destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (corretto uso del suolo, difesa dell'ambiente, salubrità degli abitati, sicurezza e stabilità delle costruzioni, ecc.)
” (così la sentenza n. 2760 cit.).
Del tutto inconferente al presente contendere è al riguardo anche il riferimento nella sentenza all’art. 26 del T.U.E.D., secondo cui il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del potere dell’Amministrazione di dichiarazione di inagibilità.
Tale disposizione è infatti manifestamente diretta all’ipotesi che successivamente si verifichi il venir meno dei requisiti igienico-sanitari previsti dall’art. 222 r.d. 27.07.1934, n. 1265: si tratta dunque di una norma di ordine pubblico che non ha rilievo procedimentale, ma carattere sostanziale, essendo finalizzata alla successiva tutela degli interessi generali alla sicurezza ed alla salubrità degli immobili.
Quanto al secondo profilo erroneamente il TAR afferma, a fondamento della sua decisione, che si dovrebbe distinguere tra i “due aspetti, quello pubblicistico e quello privatistico” e che comunque “… il mancato completamento delle opere di urbanizzazione riguarda profili di natura contrattuale non incidenti sugli aspetti di sicurezza e igienico-sanitari e sulla formazione del silenzio assenso riguardo la domanda di agibilità.”
Esattamente l’appellante afferma, infatti, che l’accertamento della piena conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle prescrizioni del permesso di costruire (ma anche, come si vedrà, alle disposizioni della convenzione urbanistica) costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità.
In conseguenza ha ragione Ve. quando contesta il presupposto logico e giuridico delle affermazioni che il TAR ha posto a fondamento della ritenuta formazione del silenzio-assenso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.10.2012 n. 5450 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, denunce palesi. Chi è segnalato ha diritto di sapere da chi è accusato. Il Tar Liguria: il cittadino che subisce un sopralluogo è portatore di un interesse qualificato.
Non c'è privacy per le spie. Chi subisce in casa un sopralluogo della polizia municipale alla ricerca di un abuso edilizio ha diritto a sapere chi lo ha segnalato al Comune. E ciò perché in Italia «non esistono denunce segrete»: al privato deve essere consegnata un copia dell'esposto presentato contro di lui anche se la verifica ha avuto esito negativo.
È quanto emerge dalla sentenza 07.06.2019 n. 510, pubblicata dalla I Sez. del TAR Liguria.
Trasparenza e responsabilità. Il ricorso è accolto perché il cittadino è portatore di un interesse qualificato a conoscere il nome di chi lo accusa: il Comune ha 20 giorni di tempo per tirare fuori le carte. Non convince la tesi secondo cui il no all'accesso agli atti non incide sul diritto di difesa. Sbaglia l'avvocatura civica quando esclude l'ostensione dell'esposto in tema di abusi edilizi, anche quando pende una causa civile contro il condominio, perché con l'esito negativo basta il verbale del sopralluogo ad attestare che l'immobile è in regola dal punto di vista urbanistico ed edilizio. La privacy è tutelata ad esempio in caso di dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva: divulgare i nomi potrebbe esporli ad azioni discriminatorie o indebite pressioni da parte del datore.
Per il resto, non ha diritto alla riservatezza chi assume iniziative che comunque incidono sulla sfera giuridica di terzi. Il nostro ordinamento, scrivono i giudici, è ispirato a principi democratici di trasparenza e responsabilità che impediscono di tenere nascosto il nome dell'autore di denunce, segnalazioni o esposti.
L'atto esce dal controllo dell'autore una volta entrato nella sfera di conoscenza dell'amministrazione: costituisce il presupposto dell'attività ispettiva e riguarda direttamente il soggetti inciso in qualità di denunciato; il quale, dunque, ha diritto a conoscere per intero i documenti utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza.
Denunce, effetti limitati. Il Comune, poi, non può ordinare al condomino di abbattere la veranda solo perché il vicino lo denuncia.
L'amministrazione, infatti, non deve farsi carico di questioni privatistiche nel momento in cui è chiamata ad assentire l'opera edilizia.
È quanto emerge dalla sentenza n. 1593/2018, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Campania.
Accolto il ricorso del singolo proprietario esclusivo che vuole costruire due verandine e una pensilina. L'autotutela scatta perché con l'esposto del vicino emergono «aspetti controversi» sul diritto di proprietà dei balconi «incriminati». Ma non sussistono i presupposti affinché il Comune possa rimangiarsi il permesso di costruire in sanatoria: manca l'assenso del condominio agli interventi. E ciò perché al momento in cui l'ente locale concede il titolo in sanatoria non conosce i limiti condominiali al progetto laddove è controversa la titolarità dei balconi e dei passetti oggetto dell'intervento.
Dagli allegati tecnici all'istanza di accertamento di conformità emerge che si tratta di opere effettuate su balconate di pertinenza dell'appartamento di proprietà del richiedente. E se la questione della titolarità risulta incerta, non è certo il Comune a doverla chiarire: la circostanza esula dai poteri di verifica affidatigli in sede di rilascio del titolo edilizio. Né si può ordinare la demolizione sul rilievo che i manufatti incidono sull'estetica del fabbricato: il decoro architettonico dell'edificio condominiale è un'altra questione privatistica di cui non deve ingerirsi l'amministrazione.
Diritto di sapere anche per chi rischia il processo. E se invece la segnalazione anonima ha esito positivo? Chi è denunciato ai vigili urbani ha comunque diritto a vedere l'esposto anche quando rischia il processo per abuso edilizio. La comunicazione della polizia municipale alla procura della repubblica, infatti, non rientra fra le attività di polizia giudiziaria: il destinatario del controllo ha l'interesse qualificato a conoscere le carte da cui emergerebbe il reato.
È quanto stabilisce la sentenza n. 11188/2015, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lazio.
Sbaglia il comando della polizia locale a rispondere al proprietario dell'immobile che l'accesso all'esposto è precluso dall'articolo 329 cpp in quanto è stata comunicata una notizia di reato. In realtà il responsabile dei lavori ha diritto a leggere la denuncia: in questo caso la comunicazione dei vigili in Procura non rientra fra le attività di polizia giudiziaria, mentre chi è soggetto a un controllo o a un'ispezione ha l'interesse qualificato a conoscere tutti i documenti dai quali scaturisce l'iniziativa.
Nel nostro caso la polizia municipale, in quanto espressione del Comune, agisce nell'ambito della sua attività istituzionale, che è amministrativa e non come polizia giudiziaria quando ha ricevuto l'esposto dal terzo. Risulta dunque esclusa l'applicazione della regola secondo cui gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'interessato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Deve invece riconoscersi al proprietario dell'immobile nei guai per l'opera edilizia la sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale di accedere ad esposti o denunce presentati nei suoi confronti.
Diritto alla trasparenza anche per le persone giuridiche. Il diritto alla trasparenza, poi, va riconosciuto alle persone giuridiche oltre che a quelle fisiche. La società additata in un esposto rivolto al Comune sulla sua attività ha diritto a conoscerne il contenuto anche se l'atto proviene da un privato: è infatti esclusa la tutela della riservatezza invocata dall'amministrazione quando il documento va comunque a incidere sulla sfera giuridica della compagine.
È quanto emerge dalla sentenza n. 898/2017, pubblicata dalla terza sezione del Tar Toscana.
La srl ha diritto all'ostensione anche se le carte richieste non risultano strumentali a un'eventuale difesa in giudizio: la società che si trova esposta a un controllo a un'ispezione è titolare di un interesse qualificato a ottenere tutti i documenti utilizzati, compresi gli atti di iniziativa e preiniziativa.
Poteri repressivi. È escluso, tuttavia, che il Comune possa far finta di niente di fronte all'istanza di uno dei condomini che vuole siano puniti gli abusi edilizi compiuti da un altro. E ciò per due motivi: da una parte è possibile ricorrere alla procedura del silenzio-adempimento dell'ente locale sui mancati controlli alle opere realizzate senza titolo dal vicino; dall'altra l'amministrazione deve comunque dar seguito alla domanda della parte privata anche quando la ritiene inammissibile.
È quanto emerge dalla sentenza n. 3454/2019, pubblicata dalla sezione II-bis del Tar Lazio.
Accolto solo in parte il ricorso proposto da uno dei proprietari esclusivi contro il silenzio serbato dall'amministrazione: gli uffici devono fornire almeno un riscontro entro novanta giorni alla denuncia rivolta contro due condomini del piano terra.
In entrambi i casi gli immobili sorgono manufatti negli spazi di distacco dal fabbricato contro il divieto contenuto nel regolamento condominiale, secondo cui le aree devono rimanere destinate a giardino. Ma per un'opera pende una causa davanti al Tar e per l'altra la domanda di condono: si tratta del box realizzato dai precedenti proprietari. In ogni caso il Comune deve rispondere all'istanza del privato che lo sollecita a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia: sono escluse soltanto le domande pretestuose. E se l'inadempimento continua si può ottenere la nomina di un commissario che provveda. Il singolo condomino, tuttavia, non può pretendere che si dia seguito all'obbligo di sistemare a giardino gli spazi assunto dal Comune quando ha rilasciato il permesso di costruire.
Sbaglia infine l'ente locale a ignorare la diffida proposta dall'amministratore condominiale, che è legittimato ad agire ex articoli 1130 e 1131 c.c.: l'iniziativa rientra nel potere di compiere atti conservativi nei confronti del fabbricato.
Lo precisa la sentenza 297/2018, pubblicata dalla sezione seconda bis del Tar Lazio
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2019).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un esposto non può considerarsi un fatto circoscritto al suo autore e all’Amministrazione competente all’avvio di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti comunque incisi in qualità di “denunciati”.
Merita di essere condiviso, quindi, il prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza e responsabilità, non ammette la possibilità di “denunce segrete”: colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell’esercizio del potere di vigilanza, a partire dagli atti di iniziativa e di preiniziativa quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti.

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In data 10.12.2018, personale del Comune di Genova eseguiva un sopralluogo presso l’unità immobiliare di proprietà del ricorrente sita in via ... n. 17/1.
All’esito del sopralluogo, veniva esclusa la sussistenza di irregolarità edilizie con la relazione prot. n. 433333 del 14.12.2018.
Avendo informalmente appreso che l’attività di controllo aveva tratto impulso da un esposto di privati, l’interessato chiedeva l’ostensione di tale atto e degli eventuali allegati con istanza presentata al Comune di Genova in data 15.01.2019.
Il Comune respingeva l’istanza con provvedimento del 31 gennaio successivo, poiché “l’esposto svolge un ruolo meramente sollecitatorio rispetto ad una funzione” che la pubblica amministrazione “deve comunque generalmente esercitare, indipendentemente da segnalazioni private”.
Nella motivazione del diniego, si fa anche riferimento ad un “costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla Civica Avvocatura, secondo il quale gli esposti in materia di abusivismo edilizio non sarebbero ostensibili” e si rileva che l’acquisizione dell’esposto non sarebbe giustificata neppure dalla pendenza di una causa civile con il condominio, attesa la sufficienza del verbale di sopralluogo ad attestare la regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile.
L’interessato ha impugnato il diniego di accesso con ricorso notificato il 01.03.2019 e depositato il successivo 7 marzo, sollevando specifiche contestazioni in ordine ai motivi su cui esso fonda.
Resiste il Comune di Genova che, dando lealmente atto dell’esistenza di difformi orientamenti giurisprudenziali in materia, argomenta in favore dell’opzione che esclude l’ostensibilità di un esposto da cui non sarebbe evincibile alcun elemento utile di conoscenza, salvo il nome del denunciante.
...
La questione inerente alla sussistenza di un diritto di accesso agli esposti in materia di abusivismo edilizio (e, più in generale, agli atti di impulso che abbiano dato origine a verifiche, ispezioni o altri procedimenti di accertamento di illeciti a carico di privati) ha dato luogo a soluzioni giurisprudenziali non univoche.
Secondo un primo orientamento, il diniego di accesso a tali atti è legittimo in quanto non incide sul diritto di difesa del soggetto che, a fronte dell’intervenuta notifica del verbale conclusivo dell’attività ispettiva, non avrebbe alcun interesse a conoscere il nome dell’autore dell’esposto (cfr., fra le ultime, TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 17.10.2018, n. 772).
Tale conclusione appare condivisibile laddove sussista una particolare esigenza di tutelare la riservatezza dell’autore della segnalazione, come nel caso delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva che, qualora divulgate, potrebbero comportare azioni discriminatorie o indebite pressioni da parte del datore di lavoro (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24.11.2014, n. 5779).
Al di fuori di tali particolari ipotesi, la tutela della riservatezza non può assumere un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato dei soggetti che abbiano assunto iniziative comunque incidenti nella sfera giuridica di terzi: il principio di trasparenza che informa l’ordinamento giuridico ed i rapporti tra consociati e pubblica amministrazione si frappone, infatti, ad una soluzione che impedisca all’interessato di conoscere i contenuti degli esposti e i loro autori, anche nel caso in cui i conseguenti accertamenti abbiano dato esito negativo.
Occorre anche considerare che, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza della pubblica amministrazione, l’esposto costituisce un presupposto dell’attività ispettiva, sicché il suo autore perde il controllo di un atto uscito dalla sua sfera volitiva per entrare nella disponibilità dell’amministrazione.
Per tali ragioni, la presentazione di un esposto non può considerarsi un fatto circoscritto al suo autore e all’Amministrazione competente all’avvio di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti comunque incisi in qualità di “denunciati” (Cons. Stato, sez. VI, 25.06.2007, n. 3601).
Merita di essere condiviso, quindi, il prevalente orientamento giurisprudenziale, secondo cui il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza e responsabilità, non ammette la possibilità di “denunce segrete”: colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell’esercizio del potere di vigilanza, a partire dagli atti di iniziativa e di preiniziativa quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (TAR Firenze, sez. I, 03.07.2017, n. 898; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.07.2016, n. 980; TAR Lazio, Roma, sez. III, 01.06.2011, n. 4989; Cons. Stato, sez. V, 19.05.2009, n. 3081).
Sulla base delle suesposte argomentazioni, stante la fondatezza nel merito del ricorso, deve disporsi l’annullamento del gravato provvedimento di rigetto dell’istanza di accesso documentale, con contestuale ordine al Comune di Genova di esibire al ricorrente, mediante estrazione di copia, l’esposto che ha dato origine al menzionato sopralluogo presso il suo immobile e la documentazione ad esso eventualmente allegata, entro il termine di giorni venti dalla comunicazione o, se antecedente, dalla notificazione della presente sentenza (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 07.06.2019 n. 510 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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Al riguardo si legga anche:
  
Denuncia abuso edilizio: è segreta? (02.07.2019 - link a www.laleggepertutti.it).

 

IN EVIDENZA

URBANISTICA: VIA per un piano attuativo.
L’allegato IV (punto 7.b) al d.lgs. 152 del 2006 (richiamato dalla previsione di cui all’articolo 6, comma 7, del medesimo articolato normativo) impone di assoggettare a V.I.A. i “progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari”; in tale ipotesi la competenza spetta alla Regione, come conferma la previsione di cui all’allegato C (punto 7.b.1.) della l.r. 5 del 2010.
Non rileva la circostanza che le aree del soggetto attuatore abbiano superficie inferiore ai 10 ettari, atteso che ciò che va verificato è la superficie dell’intero piano (fattispecie relativa a piano attuativo di riqualificazione urbanistica in ambito industriale/terziario)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.04.2019 n. 933 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
... per l'annullamento:
A) Per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
   a) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona (VA) n. 93 del 26.05.2017 recante “Adozione piano attuativo Ch.It.”;
   b) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona (VA) n. 125 del 20.07.2017 recante “Esame osservazioni ed approvazione P.A. Ch.It.”;
   c) della relazione sulle osservazioni pervenute redatta dal Responsabile del Settore Territorio in data 14.07.2017;
...
1. L’associazione “Comitato ValleOlonaRespira”, in persona del legale rappresentante pro tempore, e i signori Gi.Ga. e Da.Ra. adiscono questo Tribunale chiedendo l’annullamento:
   a) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona n. 93 del 26.05.2017 recante “Adozione piano attuativo Ch.It.”;
   b) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona (VA) n. 125 del 20.07.2017 recante “Esame osservazioni ed approvazione P.A. Ch.It.”;
   c) della relazione sulle osservazioni pervenute redatta dal Responsabile del Settore Territorio in data 14.07.2017;
   d) nonché di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque connesso.
2. In punto di fatto, i ricorrenti deducono che:
   a) “a cavaliere del territorio dei Comuni di Olgiate Olona (VA) e Castellanza (VA) sorge un imponente compendio immobiliare comunemente denominato Polo Chimico “ex Montedison” della superficie di mq 260.390, di cui mq 151.353 ricompresi nel perimetro del territorio del Comune di Ogliate Olona e mq 109.037 in Comune di Castellanza”;
   b) l’attività industriale nel settore della chimica all’interno del Polo “ex Montedison” è ormai quasi totalmente dismessa e, per tale motivo, i P.G.T. dei comuni di Olgiate Olona e Castellanza prevedono, per le parti di rispettiva competenza, destinazione sostanzialmente produttiva e terziaria delle aree, soggetta a piano attuativo disciplinato dalle Norme di Attuazione del Piano delle Regole;
   c) lo strumento urbanistico del comune di Olgiate Olona colloca l’area “ex Montedison” nell’ambito D2, regolato dall’articolo 19 delle Norme di Attuazione del Piano delle Regole a mente del quale è consentito l’intervento “attraverso piano esecutivo convenzionato con possibilità di Unità Minime di Intervento secondo quanto previsto dal precedente art. 5, con esclusione degli interventi manutentivi” (e comprensivi quindi di frazionamenti di edifici o di proprietà esistenti con o senza opere edilizie, ristrutturazione edilizia, ampliamento e sopralzo, demolizione con ricostruzione, nuova costruzione);
   d) l’articolo 5 delle N.d.A. stabilisce che, “al fine di favorire l’attuazione del Piano di Governo del Territorio gli strumenti di pianificazione attuativa relativi agli ambiti D2, possono essere attuati, su parere favorevole dell’Amministrazione Comunale, anche per Unità Minime di Intervento (UMI)”, rappresentate da aree, inserite all’interno dei perimetri come sopra definiti, facenti capo ad un’unica proprietà;
   e) la previsione impone, inoltre, la presentazione del Piano attuativo da parte della maggioranza assoluta dei proprietari, “corredato da un progetto planivolumetrico di massima riferito all’intera area perimetrata nelle tavole di P.G.T., definito nelle sue componenti tipologiche e di destinazione d’uso, con indicazione delle sagome di ingombro e coperture dei singoli edifici”; inoltre, si impone al progetto di individuare la viabilità interna, le aree di uso pubblico, le aree da cedere in proprietà al Comune nonché le opere di sistemazione delle aree libere;
  f) con deliberazione del Consiglio comunale n. 37 del 25.09.2014, il comune di Olgiate Olona approva un protocollo di intesa con il comune di Castellanza per il coordinamento delle iniziative urbanistiche riguardanti l’area del Polo Chimico “
ex Montedison”, finalizzato a dotare l’area in questione di un “piano di riqualificazione urbanistica unitario, non parcellizzato, giusta le rilevanti problematiche di interesse per entrambi i Comuni contermini”;
   g) la porzione di area sita nel comune di Olgiate Olona (pari mq 151.353) è suddivisa in quattro distinte proprietà di cui mq. 98.318 di titolarità di Ch.It. s.r.l., mq 26.641 di Pe. s.p.a., mq 24.083 di Ce. s.r.l., e mq 118 di Yu.Im. S.r.l.;
   h) la sola Ch.It. si attiva per attuare il P.A. previsto dal P.d.R. del P.G.T. proponendo all’Amministrazione comunale di Olgiate Olona due diverse istanze di adozione che vengono, tuttavia, rigettate;
   i) con successiva deliberazione di Giunta comunale n. 93 del 26.05.2017 l’Amministrazione adotta il piano attuativo “Ch.It.” e contestualmente ne dispone il deposito presso gli Uffici comunali per consentire la proposizione di osservazioni ed opposizioni;
   l) presentano osservazioni il Comitato ricorrente ed alcuni cittadini;
   m) l’Amministrazione comunale delibera di approvare definitivamente il piano adottato sulla scorta della relazione di controdeduzioni redatta dal Responsabile del Settore Territorio.
3. I ricorrenti, premessa la loro legittimazione processuale, articolano nove motivi di ricorso.
...
3.3. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione del combinato disposto degli articoli 6, comma 7, del d.lgs. 152/2006 e del relativo allegato IV che impone la verifica di V.I.A. per i “progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari”.
Osservano che il Piano attuativo impegni 147.394,31 mq di terreno, ridisegnando completamente la fisionomia del Polo Chimico “ex Montedison” nella porzione in cui ricade nel comune di Olgiate Olona. Inoltre, osservano coma la normativa in materia di V.I.A. risulta violata anche in relazione ai parcheggi atteso che l’allegato B della L.r. 5 del 2010 impone, al punto 7.b5), l’assoggettamento a V.I.A. dei progetti che prevedono la realizzazione di parcheggi ad uso pubblico con capacità superiore a 550 posti auto.
Nel caso in esame, lo stato di progetto del piano attuativo prevede la realizzazione di 1.451 posti auto ed ulteriori 668 posti auto compresi nelle aree a standard di progetto.
3.4. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la mancata verifica dell’incidenza paesistica del piano, necessaria in considerazione della portata ed estensione dello stesso.
...
3.7. Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’articolo 2 del d.lgs. 30.04.1992, n. 258 e del D.M. 05.11.2001, n. 6792 (recante “Norme funzionali e geometriche per la costruzione delle strade”) in relazione all’intervento di risistemazione della via Morelli, ritenuto non conforme alla regole indicate.
...
12. Affermata la legittimazione dell’associazione ricorrente, può procedersi ad esaminare il merito del ricorso.
12.1. Ritiene il Collegio di incentrare la disamina sulla prima parte del terzo motivo con il quale il Comitato lamenta la violazione del combinato disposto degli articoli 6, comma 7, del d.lgs. 152/2006 e del relativo allegato IV che impone la verifica di V.I.A. per i “progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari”. Osserva che il Piano attuativo impegna 147.394,31 mq di terreno, ridisegnando completamente la fisionomia del Polo Chimico “ex Montedison” nella porzione in cui ricade nel comune di Olgiate Olona.
12.2. Il motivo è fondato.
12.3.
L’allegato IV (punto 7.b) al d.lgs. 152 del 2006 (richiamato dalla previsione di cui all’articolo 6, comma 7, del medesimo articolato normativo) impone di assoggettare a V.I.A. i “progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari”. In tale ipotesi la competenza spetta alla Regione, come conferma la previsione di cui all’allegato C (punto 7.b.1.) della L.r. 5 del 2010.
12.4. Nelle memorie conclusive il comune di Olgiate Olona e la controinteressata deducono la non operatività delle previsione affermando che “il soggetto attuatore è Ch.It. e le aree di proprietà che compongono il Piano Attuativo sono pari a mq. 93.977,61”, rinviando, sul punto alle tavole 4 e 8 allegate al Piano e notando come la circostanza risulti comprovata dalla previsioni di cui all’articolo 1 del Piano. La sommatoria delle aree indicate di proprietà Ch.It. è, infatti, pari alla cifra indicata con conseguente non applicazione delle previsioni richiamate.
12.5. Osserva il Collegio che nella tavola 1 si inserisce il rilievo aerofotogrammetrico del Piano che consente di apprezzarne l’estensione. La successiva tavola 2 indica il perimetro di piano che è riportato anche nella tavola 3 con indicazione dell’estensione della varie proprietà interessate.
In particolare, si legge in tale documento che l’area di Ch.It. s.r.l. inserita nel perimetro di piano è pari a 93.318 mq; tuttavia, si indicano come interne al Piano le aree di Pe. s.p.a. (per un’estensione pari a 26.641 mq), nonché di Ce. s.r.l. (per un’estensione pari a 24.083 mq), e di Yu.Im. s.r.l. (per un’estensione pari a 118 mq).
La sommatoria delle aree interne al Piano è indicata in mq 149.160. Del pari la tavola 4 a cui rinviano il Comune e la controinteressata disegna il perimetro di piano (indicata mediante tratto discontinuo) all’interno del quale compaiono tutte le aree sopra indicate. La ricomprensione di tale aree emerge anche dalla successiva tavola 5 ove si indicano gli edifici da mantenere e da demolizione, tra cui alcuni collocati su aree di proprietà di Ce. s.r.l. e Pe. s.p.a..
Ancora, la verifica della superficie coperta e della s.l.p. è eseguita su tutte le aree esaminate (cfr., tavola 8.2 ove si indica che la superficie fondiaria totale è pari a 147.394,31). E ancora le tavole 10.2. e 11.2. effettuano, rispettivamente, una verifica dei posti auto e delle aree a standard su tutte le proprietà indicate.
12.6. In tale contesto fattuale, non rileva la circostanza che il soggetto attuatore sia Ch.It. s.r.l.
Ciò che va verificato è, infatti, la superficie del Piano che, nel caso di specie, supera il dato normativo previsto. Lo conferma la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che impone di far riferimento alla superficie, che, come spiegato, supera il limite normativo e, quindi, impone l’assoggettamento a V.I.A. dell’area (cfr. C.G.U.E., sez. III, 21.12.2016, in C-444/15).
Né risulta fondato sostenere che l’estensione del piano debba essere circoscritta alla sola proprietà Ch.It. s.r.l. in ragione della previsione sulle U.M.I di cui all’articolo 5 delle N.d.A. del P.G.T..
Prevede tale disposizione che, “al fine di favorire l’attuazione del Piano di Governo del Territorio gli strumenti di pianificazione attuativa relativi agli ambiti D2, possono essere attuati, su parere favorevole dell’Amministrazione Comunale, anche per Unità Minime di Intervento”, rappresentate da “da aree, inserite all’interno dei perimetri come sopra definiti, facenti capo ad un’unica proprietà”.
In tale ipotesi, il P.A. deve essere presentato da almeno la “maggioranza assoluta dei proprietari, assumendo valore di pianificazione attuativa limitatamente all’UMI individuata in sede di presentazione”. A tale scopo “il Piano, oltre agli elaborati di legge sopra descritti riferiti alla UMI, dovrà essere corredato da un progetto planivolumetrico di massima riferito all’intera area perimetrata nelle tavole di P.G.T., definito nelle sue componenti tipologiche e di destinazione d’uso, con indicazione delle sagome di ingombro e coperture dei singoli edifici; il progetto dovrà altresì individuare la viabilità interna, le aree di uso pubblico, le aree da cedere in proprietà al Comune nonché le opere di sistemazione delle aree libere”.
Sostiene il comune di Olgiate Olona che le tavole allegate dai numeri 5 a 11 assumerebbero un mero valore indicativo. Tuttavia, una simile prospettazione risulta contradditoria rispetto a quanto argomentato dal Comune nella memoria difensiva del 22.11.2017 ove si afferma “che quanto ad obblighi previsti in convenzione [gli altri proprietari] dovranno adeguarsi per una visione unitaria dell'intervento”.
In tal modo, si riconosce, invero, agli obblighi imposti la valenza di pianificazione. In ogni caso,
la possibilità di prevedere unità minime di intervento non risulta, in alcun modo, idonea a deflettere dal generale principio affermato dalla giurisprudenza interna ed eurounitaria che afferma la valenza sostanziale della V.I.A. che, come tale, implica “la complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, al fine di valutare in concreto -alla luce delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d. "opzione zero"- il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socioeconomica perseguita (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2018, n. 1230).
Ne consegue che la possibilità di sviluppo del P.A. mediante singole unità non può, ovviamente, comportare la non applicazione della normativa V.I.A. in ragione dell’intero perimetro del Piano. Tanto più che, nel caso di specie gli interventi indicati contemplano (seppur in parte; cfr., tavola 5 delle demolizioni) le altre aree e, pertanto, non può ritenersi che le tavole abbiano mera valenza indicativa.
12.7. In definitiva, la prima parte del terzo motivo di ricorso deve essere accolto con annullamento degli atti impugnati. L’accoglimento di tale motivo consente al Collegio di assorbire gli ulteriori motivi di ricorso stante l’integrale realizzazione dell’interesse fatto valere dall’Associazione Comitato “ValleOlonaRespira” e la portata integralmente demolitoria dell’annullamento disposto.
13. In definitiva:
   a) deve dichiararsi estinto per rituale rinuncia ex articolo 35, comma 2, lettera c), il giudizio tra i signori Da.Ra. e Gi.Ga. e la controinteressata Ch.It. s.r.l.;
   b) deve dichiararsi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse ex articolo 35, comma 1, lettera c), il ricorso dei signori Da.Ra. e Gi.Ga. contro il comune di Olgiate Olona;
   c) deve dichiararsi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse ex articolo 35, comma 1, lettera c), la domanda riconvenzionale della Ch.It. s.r.l. nei confronti dei signori Da.Ra. e Gi.Ga. e dell’Associazione Comitato “ValleOlonarespira”;
   d) deve accogliersi il ricorso dell’Associazione Comitato “ValleOlonarespira” nei sensi e nei limiti indicati in motivazione.

URBANISTICA: Via, Vas e Aia - Vas - Progetti di sviluppo di aree urbane - Piano di lottizzazione (residenziale) superiore a 10 ettari, ma non riguardante il riassetto o lo sviluppo di aree urbane esistenti - Assoggettabilità a VAS - Esclusione - Attivazione cautelare della verifica di assoggettabilità - Legittimità.
L'allegato 4 alla parte II del Dlgs 152/2006 individua tra le opere sottoposte alla verifica di assoggettabilità a VAS (punto 7-b) i "progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ettari" nonché i "progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all'interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari".
Il piano di lottizzazione (residenziale) che interessa una superficie pari a 114.822,74 mq, ma non riguarda il riassetto o lo sviluppo di aree urbane esistenti, non solo non è direttamente soggetto a VAS ma non ricade in nessuna delle due ipotesi di verifica di assoggettabilità.
Cautelativamente, tuttavia, in forza del principio secondo cui l'amministrazione deve comunque accertare se le opere, anche di piccole dimensioni, producano impatti significativi sull'ambiente (v. articolo 6, comma 3, del Dlgs 152/2006), l'attivazione della verifica di assoggettabilità appare corretta.
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... per l'annullamento:
   - della deliberazione consiliare n. 77 del 21.12.2010, con la quale è stato approvato il piano di lottizzazione residenziale n. 12;
   - della deliberazione consiliare n. 61 dell’08.09.2010, con la quale il predetto piano di lottizzazione è stato adottato;
...
1. Le ricorrenti Ca.Co.Po.Pa. e Co.Ab. il Te. sono cooperative sociali che hanno come scopo statutario l’assegnazione ai soci di abitazioni in proprietà, locazione, o godimento con altre forme contrattuali.
2. Per quanto riguarda l’interesse a promuovere il presente ricorso, le ricorrenti sono promissarie acquirenti di terreni situati nel Comune di Montichiari e inseriti nel piano di lottizzazione n. 12.
Più in dettaglio, Ca.Co.Po.Pa. ha sottoscritto in data 22.12.2006 un preliminare di acquisto relativo ai mappali n. 76 e 77 con i proprietari Ez.Be. e Ma.Pa.. In seguito, con accordo del 03.05.2007, la predetta cooperativa ha ceduto il 50% dei diritti sull’area alla cooperativa Ma.Un.. Quest’ultima è stata incorporata in Co.Ab. il Te. in data 28.03.2009 (v. visura camerale).
3. In data 27.03.2009 i controinteressati, tra cui i danti causa delle ricorrenti, hanno presentato al Comune il progetto del piano di lottizzazione n. 12, che prevede un’importante edificazione residenziale a sud dell’azienda agricola di Gi.Ca.Pi. e Al.Pi., dove è presente un allevamento di bovini con circa 300 capi.
Il comparto, che si trova in zona C2 (residenziale di espansione) ha una superficie pari a 114.822,74 mq e un volume edificabile pari a 120.010 mc. Rispetto alle strutture dell’allevamento i nuovi edifici si posizionano, nel punto più vicino, a una distanza di circa 100 metri.
4. La ASL di Brescia Distretto di Montichiari con nota del 31.12.2009 ha espresso parere negativo sul progetto, in quanto la distanza dall’allevamento, seppure conforme alle previsioni del regolamento locale di igiene del Comune, è inferiore alla misura di 500 metri stabilita dal regolamento di igiene tipo approvato con deliberazione del direttore generale n. 797 del 17.11.2003.
5. Nonostante il parere negativo della ASL, il Comune con deliberazioni consiliari n. 61 dell’08.09.2010 e n. 77 del 21.12.2010 ha rispettivamente adottato e approvato il piano di lottizzazione.
...
Sulla procedura di VAS
27. L’allegato 4 alla parte II del Dlgs. 152/2006 individua tra le opere sottoposte alla verifica di assoggettabilità a VAS (punto 7-b) i “progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ettari” nonché i “progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all'interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari”.
Il piano di lottizzazione in questione interessa una superficie pari a 114.822,74 mq, ma non riguarda il riassetto o lo sviluppo di aree urbane esistenti. Pertanto, non solo non è direttamente soggetto a VAS ma non ricade in nessuna delle due ipotesi di verifica di assoggettabilità.
28. Cautelativamente, in forza del principio secondo cui l’amministrazione deve comunque accertare se le opere, anche di piccole dimensioni, producano impatti significativi sull'ambiente (v. art. 6, comma 3, del Dlgs. 152/2006), l’attivazione della verifica di assoggettabilità appare corretta. In concreto, l’esame delle criticità della lottizzazione è stato effettuato dalla conferenza di servizi del 15.06.2010, che si è soffermata anche sul problema della distanza minima dall’allevamento.
29. Per quanto riguarda la distinzione tra autorità competente e autorità procedente (v. art. 5 e 12 del Dlgs. 152/2006), si rinvia all’interpretazione giurisprudenziale che considera normale la collocazione delle stesse all’interno del medesimo ente, trattandosi di funzioni non in rapporto di contrapposizione o controllo, ma chiamate a collaborare allo scopo di consentire una decisione finale basata sul necessario approfondimento tecnico (v. CdS Sez. IV 12.01.2011 n. 133; TAR Brescia Sez. II 02.05.2013 n. 400) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 29.04.2014 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA – LAVORI PUBBLICI: VIA - Per insediamenti abitativi - Normativa regionale – Fattispecie.

Non essendo applicabile al caso di specie la normativa regionale in materia di grandi insediamenti commerciali (tale non essendo un insediamento residenziale con albergo), per decidere dell'assoggettabilità di un intervento edilizio a VIA occorre guardare alle altre previsioni normative regionali e non a considerazioni ulteriori sul generico pregio dell'area interessata, che nella specie assoggettano a verifica di VIA gli interventi tra i 10 e i 40 ettari che sia all'interno di aree urbane esistenti, ciò che nella specie, ad un accertamento di fatto dei luoghi, ricorre, con conseguente legittimità dei successivi dinieghi di costruire.

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VIA - Mancata verifica di sottoposizione dell'intervento a VIA - Inidoneità dei documenti presentati alla valutazione - Richiesta di integrazione documentale prima di procedere alla VIA - Necessità.

I principi di partecipazione al procedimento e di leale cooperazione fra P.A. ed amministrati, nonché quello di economicità, vanno interpretati nel senso che l'amministrazione, ove nutra dubbi sulla possibilità di accogliere l'istanza del privato, debba prioritariamente chiedere a quest'ultimo i chiarimenti che consentirebbero di evitare un esito negativo, o comunque un esito al quale il privato non è indifferente (come nel caso in cui gli si imponga l'obbligo di procedere a VIA).

Se, dunque, non è in questione il merito della vicenda, ma solo l'idoneità dei documenti presentati a valutarlo, l'amministrazione dovrà richiedere ulteriore documentazione prima di valutare se l'incertezza non sia superabile se non con la compiuta procedura di VIA.

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… per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, AVVERSO ORD. DIR. 04.11.2005 n. 187: SOSPENSIONE LAVORI DI ESECUZIONE OPERE DI URBANIZZAZIONE; PROVV. DIR. 31.07.2006 n. 21843: DENEGATO PROVVEDIMENTO AUTORIZZATIVO UNICO ED ATTI CONNESSI.

La “La.Im. S.r.l.” [d’ora in avanti, soltanto “La.”] è proprietaria in Mantova di un appezzamento di terreno di 334.727 mq, distinto al Catasto di detto Comune al foglio 40, mappali 22, 38, 40, 42, 43, 44, 112, 114, 124, 135 e 166, sito in prossimità della sponda est del Lago Inferiore e classificato dal vigente P.R.G. come parte del “Comparto Strada Cipata 1”, zona C soggetta a piano attuativo obbligatorio; del comparto in questione fa parte anche altro terreno contermine, di 23.460 mq, distinto al Catasto comunale allo stesso foglio 40, mappali 39, 58 e 59 e di proprietà di un terzo soggetto, certa Co.Im. S.a.s. di Co.Gi. (per tutti i dati citati, peraltro non controversi in causa, v. comunque il doc. 13 ricorrente, copia convenzione urbanistica, ove anche gli esatti estremi dei terreni di cui consta il comparto).

In particolare, una variante al P.R.G. di Mantova approvata da ultimo con delibera consiliare 07.09.2004 n. 82 (doc. 7 ricorrente, copia di essa; v. anche il doc. 4 depositato dal Comune in ossequio all’ordinanza istruttoria 1-17.01.2007 n. 101 di questo Tribunale, ove un estratto della cartografia di piano e copia delle N.T.A. nelle quali è compreso il comparto di cui si tratta; il dato comunque è sempre non controverso) ha dapprima impresso la suddetta classificazione al terreno in parola; in attuazione di tale variante, è stato poi adottato e approvato, con delibere consiliari 02.12.2004 n. 112 e 10.02.2005 n. 14 (doc.ti 10 e 11 ricorrente, copia di esse), il piano attuativo previsto dallo strumento generale, integrato il 28.02.2005 dalla relativa convenzione urbanistica conclusa fra il Comune, la La. e la ricordata Co. S.a.s. (doc. 13 ricorrente cit., copia convenzione).

A norma del piano attuativo e della convenzione citati, la La. programma allora un intervento di superficie complessiva di 308.187 mq, ripartiti in 142.811 mq a destinazione residenziale e terziaria, 109.719 a parco pubblico, 20.977 a parcheggio pubblico, 28.629 a strade ed il residuo a rispetto stradale; sulla superficie a ciò destinata programma poi 184.899 mc di edificazione- corrispondenti ad una superficie lorda di pavimento di 61.633 mq destinati a residenza e, in piccola parte, ad albergo- per 1233 abitanti teorici insediabili (per tutto ciò, v. § 2 della convenzione urbanistica, doc. 13 ricorrente citato).

Per l’intervento descritto, la La. presenta al Comune la richiesta di provvedimento autorizzativo unico necessaria a realizzare le opere di urbanizzazione privata di cui al piano attuativo, richiesta comprensiva di istanza di autorizzazione paesistica e di denuncia inizio attività (cfr. nel doc. 16 ricorrente, copia contratto di appalto, l’allegato C, che comprende le copie delle relative richieste); a fronte di ciò ottiene il 01.06.2005 la sostanziale approvazione dell’Ente Parco del Mincio, nel cui perimetro si trova il terreno interessato e che si limita ad una breve serie di prescrizioni relative all’illuminazione stradale (doc. 14 ricorrente, copia parere Ente citato: si nota che essa occupa una sola facciata di foglio); e contestualmente il rilascio della autorizzazione paesistica 02.04.2005 n. 74 (doc. 15 ricorrente, copia di essa); procede allora ad appaltare le opere in questione (doc. 16 ricorrente, cit.).

Peraltro, il 14.11.2005, la La. riceve notifica dell’ordinanza comunale 187/2005, la quale in sintesi premette da un lato che l’area oggetto dell’intervento è soggetta a “vincolo apposto con D.M. 26.05.1970 ‘dichiarazione di notevole interesse pubblico degli spondali del Lago di Mezzo ed Inferiore’”, a “vincolo automatico ai sensi dell’art. 142, lettere b) e f), del d.lgs. 22.01.2004 n. 42” ed è inoltre “compresa all’interno della perimetrazione del Piano territoriale di coordinamento del Parco regionale del Mincio”; dall’altro che l’intervento in corso di realizzazione deve essere sottoposto in ragione delle sue caratteristiche a verifica di sottoponibilità a valutazione di impatto ambientale e a studio di incidenza delle possibili sue conseguenze sul vicino sito naturalistico di interesse comunitario denominato “Vallazza”; ciò premesso ordina la “sospensione dei…lavori in corso presso l’area del Piano di lottizzazione Strada Cipata n. 1 dalla data di notifica della presente ordinanza sino all’esito dell’istruttoria…” (doc. 1 ricorrente, copia ordinanza citata).

Consultando gli atti richiamati nella predetta ordinanza di sospensione, la La. apprende allora in primo luogo che ad avviso della competente struttura regionale l’intervento in questione, di superficie superiore a 10 ha, va ritenuto ai sensi del punto 7.7 della delibera 18.12.2003 n. VII/15701 come “ambito urbano”, soggetto quindi a verifica di assoggettabilità a v.i.a. “in quanto il relativo perimetro risulta contiguo, per oltre il 50% della sua estensione, ad aree azzonate dal vigente P.R.G. come A, B,C, D e servizi a valenza comunale” (cfr. doc. 2 ricorrente, copia nota 27.10.2005 prot. n. 32149 del Dirigente della struttura valutazione impatto ambientale della Regione Lombardia); apprende poi che ad avviso dell’Ente Parco del Mincio “per l’espressione dei pareri di competenza è necessario che la documentazione di progetto venga integrata da uno studio di incidenza…sul sito di importanza comunitaria Vallazza” (doc. 4 ricorrente, copia nota 19.10.2005 del Direttore del parco del Mincio).

Avverso tali atti, meglio indicati in epigrafe, la La. ha proposto il ricorso principale, articolato in tre censure, riportabili secondo logica ai seguenti quattro motivi:

- con il terzo motivo (pp. 16-27 del ricorso principale), si deduce la violazione delle norme concernenti l’assoggettabilità a v.i.a., in particolare del D.P.R. 12.04.1996, art. 1, comma 6, in relazione dell’allegato B punto 7.

In proposito, si evidenzia ancora quanto sopra esposto, ovvero che a monte dell’impugnata sospensione lavori vi è la nota 27.10.2005 prot. n. 32149 del Dirigente della struttura valutazione impatto ambientale della Regione Lombardia (doc. 2 ricorrente cit., copia di essa), secondo la quale l’intervento in parola è soggetto a verifica di assoggettabilità a v.i.a. perché “con riferimento all’allegato B al D.P.R. 12.04.1996, punto 7, lettera b, l’ambito di intervento di estensione superiore a 10 ha può essere classificato (ai sensi del punto 7.7 dell’allegato A alla deliberazione della Giunta regionale della Lombardia 18.12.2003 n. 7/15701 in calce alla presente) come ‘ambito urbano’ in quanto il relativo perimetro risulta contiguo, per oltre il 50% della sua estensione, ad aree azzonate dal vigente P.R.G. come A, B, C, D e servizi a valenza comunale” (cfr. sempre doc. 2 ricorrente cit.).

Ciò posto, si evidenzia altresì che la citata delibera della Giunta regionale 18.12.2003 n. 7/15701 (doc. 3 ricorrente, copia di essa) riguarda in realtà i progetti di centri commerciali e di grandi strutture di vendita, non quindi gli insediamenti residenziali come quello per cui è causa.

In tali termini, si deduce l’illegittimità della nota regionale, e in via derivata dell’ordinanza di sospensione che la recepisce, sotto due distinti profili. In primo luogo, si afferma che sarebbe illogico volere applicare ad un intervento residenziale un criterio dettato in origine, come si è visto, per il settore commerciale.

In tal senso, si osserva che il concetto di “ambito urbano” di cui alla delibera 18.12.2003 n. 7/15701 non potrebbe in ogni caso assumere valenza generale, riferita agli interventi di ogni specie, perché definito in rapporto alla classificazione dei vari comuni operata dal Programma per lo sviluppo del settore commerciale, e quindi all’evidenza valido solo per tali fini, e che comunque la delibera in parola, ove fosse ritenuta applicabile puramente e semplicemente anche a fattispecie diverse da quelle contemplate in modo espresso, sarebbe da ritenere illegittima per illogicità.

In secondo luogo, si afferma che comunque nemmeno applicando in via diretta la normativa del D.P.R. 12.04.1996 si potrebbe argomentare la necessità di assoggettare l’intervento in parola a verifica di sottoponibilità a v.i.a.

Si osserva infatti in tal senso che a norma dell’allegato B punto 7 del decreto in parola, un intervento di costruzione di superficie superiore a 10 ettari, ma inferiore a 40 ettari come il presente, è soggetto alle norme sulla v.i.a. solo qualora si configuri come “progetto di sviluppo urbano all’interno di aree urbane esistenti”.

Tale non sarebbe l’intervento in esame, il quale si collocherebbe all’esterno dell’area urbana, configurerebbe un progetto di sviluppo di “aree urbane nuove o in estensione”, e quindi sarebbe soggetto alle norme sulla v.i.a. solo ove superasse i 40 ha di estensione, il che nella specie pacificamente non avviene;

10. La questione della necessità o no di sottoporre l’intervento per il quale è processo a verifica di assoggettabilità a v.i.a. va allora decisa in base alle norme, pure richiamate dalla nota regionale 27.10.2005 prot. n. 32149, del D.P.R. 12.04.1996, che contrariamente a quanto sostenuto in sede di discussione dal patrocinio del Comune resistente hanno valore non meramente esemplificativo. In altri termini, un dato intervento è soggetto o no alla procedura in esame se rientra o no in una delle previsioni della norma, e non può invece esservi assoggettato in base a considerazioni ulteriori sul generico pregio dell’area interessata.

11. Ciò posto, le norme rilevanti per gli interventi di costruzione come quello in questione sono, come ricordato in narrativa, quelle dell’allegato B punto 7 del decreto citato, valide per i casi come il presente, in cui, come ricordato in narrativa, è interessata una zona al momento non costituita in area protetta.

Le norme in questione distinguono allora fra progetto di sviluppo situato “all’interno di aree urbane esistenti, soggetto a verifica di v.i.a. sol che superi i 10 ettari di estensione, e progetto di sviluppo relativo ad “aree urbane nuove o in estensione, soggetto invece a verifica di v.i.a. nel solo caso in cui superi i 40 ettari.

Poiché il progetto della La., come è incontestato, supera i 10 ettari, ma è inferiore ai 40, la sua soggezione alla procedura in parola dipende dalla sua appartenenza alla prima o alla seconda categoria, che quindi vanno previamente definite.

12. Occorre partire in proposito dal concetto di area urbana, che, come correttamente ricordato dalla difesa della ricorrente (cfr. in part. il doc. 51 cit. a p. 6), appartiene alla scienza urbanistica, come tale è dato per presupposto dalla normativa, e si identifica, per vero anche alla luce del senso comune, con un’area edificata in modo compatto e continuo, delimitata da zone agricole, prive di edificazione, ovvero da interruzioni fisiche naturali od artificiali: in tal senso si condivide la definizione generale riportata dall’esperto di parte ricorrente arch. Pi., nel documento appena citato, che argomenta in modo coerente e corretto da opere generalmente apprezzate nel settore, e non è stato contestato sul punto specifico.

13. Accettato il concetto generale di cui sopra, il Collegio ritiene però di dissentire dalle conclusioni che lo stesso esperto di parte ritiene di trarne quanto al caso concreto.

Osservando la tavola 1 a pag. 8 del doc. 51 di parte ricorrente, la quale riproduce la conurbazione di Mantova, si possono per quanto interessa individuare due insediamenti: l’uno, contraddistinto con il numero “1” nella tavola in parola, corrisponde al centro storico di Mantova; l’altro, entro il quale dovrebbe situarsi il complesso La., è contraddistinto con il numero “3” e comprende gli abitati di Frassino, Lunetta e Virgiliana e il complesso industriale del petrolchimico.

Secondo l’architetto Pi., gli insediamenti 1 e 3 citati costituirebbero aree urbane distinte, in quanto fra le due vi sarebbe l’interruzione rappresentata dal corso del Mincio, che in quel punto forma i laghi Superiore, di Mezzo ed Inferiore. Ne seguirebbe allora che l’intervento della La., situato fra il margine dell’insediamento 3 e la riva dei laghi, dovrebbe integrare un progetto di sviluppo in espansione di area esistente, appunto l’area urbana 3, che si andrebbe a sviluppare verso il Mincio (doc. 51 ricorrente, pp. 12 e 13).

14. Il ragionamento appena riferito, peraltro, sta e cade con la premessa per cui gli insediamenti 1 e 3 costituirebbero, appunto, aree urbane distinte, in altre parole con l’effettiva idoneità del corso del Mincio a fungere da “interruzione” fra le due, nel senso proprio della definizione proposta.

E’ tale premessa che il Collegio non ritiene di condividere, osservando come, in base alla stessa tavola 1 citata, oltre che per fatto notorio, gli insediamenti 1 e 3 siano uniti fra loro da due ponti sul Mincio, che fungono da collegamento agevolmente praticabile, sì che di interruzione vera e propria fra le due aree non si può parlare, dato che i cittadini dal corso d’acqua nella loro quotidiana esperienza possono in sostanza prescindere nei loro spostamenti di vita sociale e di lavoro.

Ciò corrisponde anche al dato, sempre di comune esperienza, per cui il centro storico e i quartieri circostanti di Mantova –ma lo stesso si potrebbe dire per molte altre città non solo italiane- costituiscono ormai un tutto unitario, che come tale deve essere apprezzato in tutti i casi di pianificazione ampiamente intesa.

Ne segue la necessità di considerare l’intervento della La. come progetto di sviluppo all’interno di area urbana, soggetto quindi a verifica di v.i.a. per le ragioni già esposte. Ne segue, secondo logica, la legittimità dei successivi dinieghi di permesso di costruire pronunciati dal Comune, in quanto fondati sul presupposto della necessità di sottoporre l’intervento alla verifica stessa (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 06.11.2007 n. 1161 - link a giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALa cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale, la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale, in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni, delle quali le principali, rilevanti nella vicenda esaminata, sono costituite:
   a) dall'essere i terreni in questione, se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
   b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere, cioè, tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di fabbricabilità originano, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni, attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.

A titolo di esempio,
si potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la "cessione di cubature" fra terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di "affollamento edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove fosse consentita la "cessione di cubatura" fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; essendo, infatti, evidente che ove fosse consentito l'asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte.
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In merito alla cessione di cubatura da un lotto all'altro, va
richiamata l'attenzione sul significativo dato fattuale, più volte correttamente valorizzato dai giudici del merito, dell'assenza del necessario requisito della "contiguità" dei fondi, intesa nel senso che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza.
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Nel valutare il motivo di impugnazione avente ad oggetto la corretta applicabilità alla fattispecie della cessione di cubatura, la sentenza richiamata ha ricordato che essa è un istituto di fonte negoziale, la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale (per tutte si richiama Consiglio di Stato, Sezione V, 28.06.2000, n. 3636), in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Specifica però la sentenza che tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni, delle quali le principali, rilevanti nella vicenda esaminata, sono costituite:
   a) dall'essere i terreni in questione, se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
   b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere, cioè, tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di fabbricabilità originano, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni, attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
A titolo di esempio, la sentenza ricorda come si potrebbe verificare, laddove si ritenesse legittima la "cessione di cubature" fra terreni fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di "affollamento edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove fosse consentita la "cessione di cubatura" fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; essendo, infatti, evidente che ove fosse consentito l'asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte.
Venendo poi all'esame del caso di specie, la sentenza 8635/2015 rileva come terreni utilizzati in quell'occasione non fossero tra loro adiacenti e, sebbene tutti tipizzati come agricoli, presentassero indici di fabbricabilità fra loro difformi, per essere quelli cedenti classificati nello strumento urbanistico locale come E2 e forniti di un indice di fabbricabilità 0,03 mc/mq, mentre quelli cessionari erano, invece, classificati come E3 e caratterizzati dal minore indice 0,01 mc/mq, con la conseguenza che attraverso l'asservimento dei primi ai secondi si era ottenuto l'effetto di violare il rapporto di edificabilità proprio di questi ultimi, con palese compromissione delle finalità urbanistiche che siffatta previsione perseguiva.
Il Collegio rilevava quindi la illegittimità della cessione di cubatura fra terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi e l'abusività dell'utilizzo di tale strumento negoziale, in quanto grossolanamente volto alla elusione dei principi e delle regole in materia di pianificazione edilizia, abusività ritenuta poi ridondante in senso negativo sia sulla legittimità dei permessi a costruire in tal modo rilasciati dal Comune di Morciano di Leuca che sulla efficacia delle autorizzazioni paesaggistiche richiamate nell'articolato capo di imputazione.
Tali argomentazioni sono state ribadite, negli stessi termini, in una successiva pronuncia (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Nespoli ed altri, non massimata), riguardante terreni che, sebbene tutti classificati come agricoli, presentavano indici di fabbricabilità fra loro difformi, essendo stati quelli cedenti, in quanto tipizzati nello strumento urbanistico locale come E2, forniti di un indice di fabbricabilità 0,03 mc./mq. e quelli cessionari, tipizzati come E3, caratterizzati, invece, dal minore indice 0,01 mc./mq. (si vedano anche, sullo stesso tema e relativamente a vicende analoghe, Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambone, non massimata; Sez. 3, n. 30025 del 04/12/2017 (dep. 2018), Scrudato, non massimata; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano e altri, Rv. 271770; Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Melcarne, non massimata; Sez. 3, n. 52605 del 04/10/2017, Renna, non massimata; Sez. 3, n. 26714 del 14/01/2015, Tedoldi , non massimata).
La sentenza 35166/2017, nel ribadire l'orientamento espresso con la sentenza 8635/2014, ha anche evidenziato che a ciò non osta una precedente pronuncia di questa Sezione (Sez. 3, n. 28225 del 03/05/2011, Panada, Rv. 262512, non massimata sul punto), la quale ha, in realtà, unicamente escluso la rilevanza degli strumenti urbanistici comunali che, nella sentenza impugnata, la Corte di appello richiama nel sostenere la tesi della vigenza dell'art. 51 legge regionale 56/1980.
Anche in ipotesi di aree entrambe tipizzate come zona agricola E2 ed avente il medesimo indice di fabbricabilità non può essere esclusa la illegalità dell'operazione effettuata.
Va infatti richiamata l'attenzione sul significativo dato fattuale, più volte correttamente valorizzato dai giudici del merito, dell'assenza del necessario requisito della "contiguità" dei fondi, intesa nel senso che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza (così Cons. Stato Sez. V n. 6734, 30.10.2003; Sez. V n. 400, 01.04.1998 e, più recentemente, TAR Campania (Salerno) Sez. H n. 1675 del 19/07/2016).
Tali principi sono stati richiamati anche da questa Corte (Sez. 3; n. 33884 del 12/07/2006, Ferrara, Rv. 235054; Sez. 3, n. 10122 del 22/01/2013, Scrudato, non massimata; Sez. 3, n. 26714 del 14/01/2015, Tedoldi, non massimata) anche con specifico riferimento alla vicenda in esame (Sez. 3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini ed altri, non massimata) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2018 n. 51833).

EDILIZIA PRIVATAPer condiviso indirizzo interpretativo la legittimità della cessione di cubatura richiede non solo l’omogeneità d’area territoriale, ma anche la contiguità dei fondi.
Se la giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti riferiti ad aree anche se non contigue sul piano fisico, purché vicine in modo significativo, in concreto essa ha chiarito che deve ritenersi significativa già una distanza tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e, in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento.

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Il diniego del permesso di costruire in sanatoria è stato giustificato col contrasto dell’intervento con le norme tecniche di attuazione del vigente piano regolatore generale, per le seguenti motivazioni: «al P.d.C. vengono accorpati al fine di raggiungere la cubatura necessari[a] lotti non contigui ma distanti qualche chilometro, pertanto neanche ragionevolmente vicini al fondo oggetto di edificazione. Inoltre la variante non sana in alcun modo il cambio di destinazione d’uso rilevata. Pertanto permangono e aumenti considerevoli di volumetria e superficie in contrasto con l’art. 32, comma 1, lett. b e c, del DPR 380/2001 smi, essendo stati gli immobili alienati come civile abitazione in contrasto con la zona omogenea G3, in contrasto con la lett. a, comma 1, dell’art. 32 citato».
...
Il ricorso non merita accoglimento.
La società ricorrente non contesta la circostanza di fatto che i fondi asserviti distano tra loro qualche chilometro, ma ne sostiene l’irrilevanza opinando sufficiente che tra gli stessi vi sia omogeneità di destinazione urbanistica.
In senso contrario, però, va osservato che per condiviso indirizzo interpretativo la legittimità della cessione di cubatura richiede non solo l’omogeneità d’area territoriale, ma anche la contiguità dei fondi, e che, se la giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti riferiti ad aree anche se non contigue sul piano fisico, purché vicine in modo significativo, in concreto essa ha chiarito che deve ritenersi significativa già una distanza tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e, in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento (cfr. C.d.S., sez. VI, 14.04.2016, n. 1515).
Applicando tali principi al caso in esame, dunque, è dirimente che i fondi asserviti, pur situati nello stesso contesto territoriale, sono distanti tra loro qualche chilometro e, pertanto, privi del requisito della contiguità.
Tanto basta al rigetto del ricorso, poiché quando una determinazione amministrativa si fonda su una pluralità di ragioni ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, come avviene nel caso in esame, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso sfugga all'annullamento (ex multis, cfr. C.d.S., Sez. V, 06.03.2013, n. 1373; sez. VI, 27.02.2012, n. 1081 sez. VI, 29.03.2011, n. 1897).
Ciò, infatti, comporta la carenza d’interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze, posto che, se anche si rivelassero fondate, il loro accoglimento non sarebbe, comunque, idoneo a soddisfare il suo interesse ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 05.05.2017, n. 2421).
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 02.10.2018 n. 5737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Il protocollo d’intesa con cui il Comune assume impegni con un privato ha natura contrattuale.
Il protocollo d’intesa tra Comune e privato anche se origina dal perseguimento di una finalità pubblica non esclude il carattere iure privatorum degli impegni assunti tra le parti. E non si può lamentare alcuna illegittimità dell’intesa se firmata dal capo staff del sindaco e non dal dirigente competente.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 21.06.2018 n. 16327 ha, infatti, cassato la decisione di merito che aveva ritenuto mero atto politico d’indirizzo il protocollo e privo di stringenti impegni contrattuali, che possano, in particolare determinare l’inadempimento della Pa con le normali conseguenze risarcitorie.
Il Comune di Roma aveva concluso un protocollo d’intesa con la Siae per lo sgombero di un immobile su cui la società intendeva svolgere operazioni redditizie ma che invece ne era impedita in quanto lo stabile era occupato in parte da famiglie e in parte da realtà associative. Il Comune aveva assunto la custodia del bene e soprattutto, ciò che qui rileva, l’impegno a riconsegnare entro tre mesi l’immobile «liberato» dagli occupanti senza titolo.
L’emergenza abitativa aveva posto il Comune in una posizione di tolleranza per provvedere allo sgombero delle parti dell’immobile fruite come residenze familiari solo successivamente all’aver individuato altri alloggi idonei. Impegno rispettato a metà dall’ente locale che, sebbene, fosse riuscito a sgomberare le famiglie non aveva invece restituito il pieno diritto di godimento al proprietario per quanto riguardava la realtà associativa presente al piano terra e seminterrato. Per tale inadempimento la Siae chiedeva al giudice civile il risarcimento del danno patito per non aver potuto ancora procedere a effettuare operazioni redditizie come l’affitto o la vendita sul bene.
Il giudice di secondo grado aveva negato alla Siae -che richiedeva il risarcimento dei danni al Comune- che il protocollo su cui si fondava la sua domanda fosse un negozio giuridico perfetto di diritto privato. Prima di tutto sostenevano i giudici che un protocollo d’intesa non potesse mai essere uno di quei contratti di natura privata che conclude la pubblica amministrazione, poiché per sua natura è un atto di indirizzo politico e non può determinare obbligazioni a carico della parte pubblica. E che inoltre l’atto non sarebbe perfezionato in quanto non reca la firma dell’organo gestionale, e non rappresentativo, competente per materia del Comune. La sentenza con una lunga disamina contraddice entrambe le censure della Corte di merito che aveva respinto -ribaltando il giudizio di primo grado- la domanda risarcitoria della Siae.
Prima di tutto la Cassazione affronta il tema del perfezionamento dell’impegno contrattuale del Comune verso la società e chiarisce che nei negozi giuridici di diritto privato conclusi dalla Pa va comunque apposta la firma di chi riveste il ruolo apicale di governo non bastando l’impegno sottoscritto dal solo dirigente amministrativo di settore. Non si poteva quindi negare la natura di impegno contrattuale alla determinazione presa dal Comune col Protocollo d’intesa, firmata dal capo staff del sindaco, ad assumersi la responsabilità di custode del bene al fine di provvedere allo sgombero e senza prevedere alcun compenso per la proprietà.
Il ruolo pubblico e politico del Comune nel farsi carico della vicenda nasce da una di quelle vicende che sono oggetto dell’azione di governo di un ente locale, cioè l’emergenza abitativa, cui non sapeva come far fronte se non dandosi un termine congruo per provvedervi. E qui sta la vera precisazione della Cassazione che fa notare che la natura puramente contrattuale di un rapporto giuridico in cui la pubblica amministrazione sia in una posizione di fondamentale parità col privato discenda dal fatto che il contratto non mira allo svolgimento di un’azione pubblica o al raggiungimento di un fine pubblico, come esempio nelle convenzioni o concessioni.
Che all’origine della scelta del Comune di farsi custode e carico di un impegno verso la Siae ci fosse la finalità pubblica di fronteggiare l’emergenza abitativa tenendo ferma l’occupazione per almeno altri 90 giorni dalla firma dell’intesa, nulla toglie alla natura contrattuale di quanto promesso dalla Pa. Quindi nei rapporti tra società e Comune ciò che rileva è l’adempimento o meno delle obbligazioni previste (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.06.2018).
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MASSIMA
2. Con il secondo motivo di impugnazione si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 4 D.lgs. n. 165 del 2001 ex articolo 360, numero 3, cod. proc. civ..
Ritiene la parte ricorrente che il protocollo in questione non debba essere inquadrato nella categoria dell'atto politico o di indirizzo politico poiché, per definizione, tale attività è svolta dagli organi costituzionali dello Stato e consiste nella formulazione di scelte con le quali si individuano i fini che lo Stato intende perseguire in un determinato momento storico attraverso l'attività amministrativa; inoltre, secondo la dottrina prevalente, l'attività di indirizzo politico non costituisce una quarta funzione dello Stato rispetto alle tre tradizionali (normativa, giurisdizionale, amministrativa); in più detta attività, sotto il profilo formale, si esprime attraverso una ben determinata tipologia di atti come leggi oppure risoluzioni, direttive, mozioni interrogazioni e interpellanze.
2.1.
La norma di riferimento è l'art. 4 del D.lgs. n. 165 del 2001 -contenente le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche-, la quale, nel qualificare le attività di indirizzo politico-amministrativo, e in particolare le funzioni e responsabilità al suo interno (ex art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 2 del d.lgs n. 470 del 1993 poi dall'art. 3 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 1 del d.lgs. n. 387 del 1998) indica che gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
   a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
   b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
   c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
   d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
   e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
   f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
   g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Nel secondo comma si stabilisce che «ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa , della gestione e dei relativi risultati».
Al terzo comma indica inoltre che «le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative», mentre al quarto comma sancisce che «le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro».
Alla luce di questa norma,
la Corte di merito ha desunto che il protocollo d'intesa in esame, qualificandosi come atto di contenuto politico, non potesse generare un impegno negoziale nei confronti dell'ente proprietario del bene occupato preso in custodia, sull'assunto che l'atto è stato emesso dall'organo di vertice che era in grado di esprimere un'azione di indirizzo e controllo, e non di attuare e gestire i relativi risultati, mancando l'assenso dell'organo interno preposto.
2.2. La norma in esame non può valere per affermare che l'atto in questione non costituisca una valida fonte di obbligazione a carico del Comune solo perché non è stato seguito dal perfezionamento di un negozio sottoscritto dal dirigente provvisto delle necessarie competenze e funzioni:
è principio generale del diritto amministrativo (di cui si rinviene conferma nell'art. 4 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165) che, nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, le cui strutture siano connotate da organizzazione gerarchica, la delegabilità delle funzioni, da parte dell'organo posto al vertice, ai collaboratori dotati di adeguate qualifiche e cognizioni, costituisce la regola, salvo che la legge non disponga diversamente, prevedendo una competenza funzionale ed inderogabile dell'organo apicale (v. Cass. n. 10202/2010), evenienza, questa, non riscontrabile nella specie (v. anche Cass. 9441/2001). 
Gli enti territoriali sono certamente organismi strutturati gerarchicamente al loro interno, ma non devono ritenersi sottratti alla regola di cui all'art. 4 D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 che dopo avere, al comma 1, riservato agli organi di Governo, le «funzioni di indirizzo politico-amministrativo», successivamente elencando una serie di atti di tal genere, al successivo comma 2 attribuisce una competenza generale residuale ai "dirigenti" per l'adozione degli «atti e provvedimenti amministrativi», comprensiva, segnatamente, di quelli che impegnano l'«amministrazione verso l'esterno», precisando poi, al comma 3, che le attribuzioni dei dirigenti possono essere «derogate soltanto espressamente ed opera di specifiche disposizioni legislative».
Pertanto,
la norma in esame non può certamente intendersi nel senso di escludere, pur in presenza di un potere di delega interna di funzioni, la sussistenza del relativo potere in capo agli organi apicali della pubblica amministrazione, essendo tale norma intesa a sancire il principio di ripartizione di competenze e di «normale delegabilità e attribuzione delle funzioni non politiche» alla base della piramide gerarchica, salvo diversa disposizione di legge.
2.3. Posta questa premessa in linea di diritto,
si rileva come il documento sottoscritto, innanzitutto, non possa sussumersi nella categoria di puro atto programmatico o politico solo perché denominato come Protocollo d'intesa e proveniente dall'organo di vertice designato ad attuare l'attività di indirizzo e controllo politico sul territorio del Comune di Roma in una situazione di emergenza abitativa.
Il documento in esame, oltre all'intento di trovare una soluzione politica e amministrativa alla situazione di tensione abitativa correlata all'occupazione abusiva da parte di terzi della proprietà immobiliare della società ricorrente, contiene una chiara e inequivocabile assunzione di puntuali e specifici impegni nei confronti della società ricorrente da parte del Comune che ha regolarmente sottoscritto l'atto; e, quanto al contenuto, è dato leggere che il Comune si è reso garante, assumendone la custodia con ogni relativa responsabilità, della liberazione dell'immobile, facendosi carico delle spese di gestione e impegnandosi entro 90 giorni a individuare spazi alternativi per le predette associazioni e a effettuare la riconsegna dei locali alla SIAE.
2.4.
Sulla nozione di atto politico si deve fare riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale «alla nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di atto-provvedimento emanato dal governo, e cioè dall'autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anziché nell'esercizio di attività meramente amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2012, n.  2588), ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione» (v. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.11.2011 n. 6083; Consiglio di Stato, sez. IV, 12.03.2001 n. 1397; Consiglio di Stato, 08.07.2013 n. 3609).
2.5. Alla luce di quanto sopra, il Protocollo di intesa in oggetto, sottoscritto dalla società proprietaria del bene, per la parte che inerisce agli obblighi assunti dalla PA verso quest'ultima, non si pone certamente nell'alveo dell'atto di indirizzo politico, di mero contenuto programmatico, non avendo esso alcuna attinenza con la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri.
All'opposto, detto documento contiene un impegno preciso dell'ente territoriale nei confronti del proprietario dei beni occupati a fronte della necessità del Comune, questa sì di rilievo pubblico, di risolvere un'emergenza abitativa che gli compete.
I due diversi piani di vincolo giuridico assunto nei confronti del proprietario del bene, da un lato, e di motivo «politico» dall'altro alla propria autodeterminazione, tuttavia, non possono confondersi, trovandosi in tale documento un contenuto inequivocabilmente negoziale e generatore di obblighi nei confronti di un soggetto privato, con specifica previsione, da parte della PA, di assumere la custodia del bene e di garantire la restituzione del bene a fronte di una rinunzia temporanea, da parte del proprietario del bene, a esercitare i propri diritti di autotutela, all'epoca già avviati mediante denunce penali e richieste d'intervento da parte della forza pubblica.
2.6. Quanto sopra considerato
permette di rilevare come sia del tutto riduttivo qualificare l'atto in questione come atto politico di contenuto programmatico solo in virtù della posizione apicale dell'organo della Pubblica Amministrazione che lo ha sottoscritto, senza tenere conto del contenuto, in esso racchiuso, di impegno formale nei confronti del soggetto proprietario del bene che, confidando nell'adempimento delle obbligazioni ivi portate, ha rinunziato ad esercitare i propri diritti, in tal modo venendo incontro all'esigenza del Comune di risolvere in via politico-amministrativa l'emergenza abitativa da cui originava l'occupazione del bene da parte di terzi.
Il Comune, invero, si è reso garante del rilascio al legittimo proprietario del bene immobile entro un determinato termine, assumendone la custodia, i relativi oneri e la responsabilità nei confronti proprietario
. A p. 29 del negozio in questione si parla di impegno negoziale e, quindi, considerando la causa sottostante e gli interessi in gioco, le circostanze del caso e la natura degli obblighi assunti depongono a favore dell' inquadramento del rapporto nell'alveo del negozio costituente fonte di obbligazioni iure privatorum.
2.7. Peraltro,
la presenza di obbligazioni di matrice contrattuale mette in rilievo anche la sussistenza della giurisdizione dell'AGO, considerato che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il cosiddetto «petitum» sostanziale che ne è l'oggetto (cfr. Cass. S.U., sentenza n. 8227 del 03.04.2007).
Difatti, la domanda proposta concerne in via diretta e immediata non tanto l'esercizio del potere dell'autorità amministrativa di provvedere alla organizzazione e alla modalità di prestazione di un servizio pubblico, bensì la mancata osservanza entro i tempi previsti degli specifici obblighi assunti nei confronti del privato, fonte di danno per il privato.
Nell'ambito di un negozio concluso dalla pubblica amministrazione iure privatorum, con indicazione delle modalità e dei termini di adempimento tipiche di una negoziazione tra privati, non è difatti configurabile un potere discrezionale dell'amministrazione in termini di scelta sul se, come e quando adempiere l'obbligazione assunta, il cui comportamento va, quindi, valutato alla stregua di un qualsiasi privato contraente, senza alcuna limitazione, per il giudice ordinario, nella indagine diretta ad accettarne l'eventuale responsabilità per inadempimento (v. Cass., SS.UU., Sentenza n. 2618 del 22/07/1968).
2.8. Il negozio in questione, per come è strutturato, non rientra neanche nella speciale categoria delle convenzioni tra pubblica amministrazione e privati, che ricomprende i «contratti ad oggetto pubblico» e i contratti «ad evidenza pubblica», ove in quest'ultima ipotesi non è presente una regolazione degli aspetti patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto contraente con la pubblica amministrazione. In questi casi, una volta scelto il contraente, il negozio stipulato successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce immediatamente nella più generale disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato tra privati.
Così infatti dispone l'art. 11 della l. n. 241/1990 che prevede un regime di tipo amministrativo per tali convenzioni. Il Consiglio di Stato, difatti, ha già avuto modo di osservare (Sez. IV, 03.12.2015 n. 5510), con considerazioni riconfermate successivamente (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016), che il rapporto amministrazione/concessionario, fondato sulle (usualmente definite) «concessioni/contratto», proprio in ragione delle sue peculiarità originate dall'inerenza all'esercizio di pubblici poteri, non ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell'ambito di applicazione delle disposizioni del codice civile, le quali, se possono certamente trovare applicazione in quanto compatibili ovvero se espressamente richiamate, tuttavia non costituiscono la disciplina ordinaria di tali convenzioni, né ciò è indicato dalla l. n. 241/1990, ed in particolare dall'art. 11.
Nell'ambito dell'art. 11, sotto la comune dizione di accordi, coesistono sia contratti propriamente detti, sia accordi procedimentali, e l'applicazione dei principi in tema di obbligazioni e contratti agli accordi dell'amministrazione (riconducibili o meno alla generale figura del contratto) trova in ogni caso un limite, e dunque una conseguente necessità di adattamento, nella immanente presenza dell'esercizio di potestà pubbliche, e nelle finalità di pubblico interesse cui le stesse sono teleologicamente orientate.
Come la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. V, 05.12.2013 n. 5786; 14.10.2013 n. 5000), fermi i casi di contratti integralmente di diritto privato (per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico l'amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma meramente dai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, sempre in quanto compatibili con essi e salvo che non sia diversamente previsto.
Ciò, ovviamente, non esclude -sussistendone i presupposti sopra delineati- che il giudice possa fare applicazione anche della disciplina dell'inadempimento del contratto, allorché una parte del rapporto contesti un inadempimento degli obblighi di fare (Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2012 n. 2433).
2.9. Nel caso delle convenzioni che accedono all'esercizio di potestà amministrativa concessoria -dove è chiara la natura latamente contrattuale dell'atto bilaterale, stante la regolazione di aspetti patrimoniali- ben possono trovare applicazione le disposizioni in tema (di obbligazioni e contratti, nei limiti sopra descritti.
Difatti, tale applicazione non può esservi, se non considerando la persistenza (ed immanenza) del potere pubblico, dato che l'atto fondativo del rapporto tra amministrazione e concessionario non è la convenzione, bensì il provvedimento concessorio, rispetto al quale la prima rappresenta solo uno strumento ausiliario, idoneo alla regolazione (subalterna al provvedimento) di aspetti patrimoniali del rapporto. Le considerazioni espresse con riferimento particolare ai cd. «contratti ad oggetto pubblico», ben possono essere ribadite, sia pure con i necessari adattamenti di specie, alle ipotesi di contratti cd. «ad evidenza pubblica», laddove non è presente una regolazione degli aspetti patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto contraente con la pubblica amministrazione.
Tuttavia, anche in questi casi, una volta scelto il contraente, il contratto stipulato successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce immediatamente nella più generale disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato tra privati. Ciò è a tutta evidenza negato dalla stessa presenza di una (copiosa) disciplina speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in ragione della particolare natura dello stesso. 
Anche in tale caso, tale particolare natura non è costituita dall'essere la pubblica amministrazione quale soggetto contraente, bensì dall'essere la causa e l'oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto, e dunque con l'adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive prestazioni (a seconda dei casi, l'opus o il servizio). In primo luogo, dunque, vi è una disciplina speciale, che giustifica la propria ragionevolezza sulla altrettanto speciale natura del contratto; in secondo luogo, vi è una possibile applicazione delle norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, che "sconta" la differente natura della causa e dell'oggetto dei medesimi contratti pubblici (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016).
2.10. Tutto quanto sopra osservato risulta utile per tracciare la distinzione tra contratto pubblico e negozio privato alla luce dei variegati rapporti che la Pubblica Amministrazione può oggi intrattenere con i privati. La definizione del contratto quale «contratto pubblico», difatti, non indica esclusivamente (e semplicisticamente) la presenza di un soggetto pubblico quale parte contraente, bensì una oggettiva finalità di pubblico interesse perseguita per il tramite del contratto e del suo adempimento.
Tale finalità non costituisce (né lo potrebbe) una «immanenza» esterna al contratto, ma essa conforma il contratto medesimo, ed in particolare -proprio in ragione delle definizioni che il diritto privato ne offre- gli elementi essenziali della causa e dell'oggetto. Per un verso, infatti, la finalità di pubblico interesse entra nella definizione di causa, sia ove intesa quale funzione obiettiva economico- sociale del negozio, sia ove intesa quale funzione obiettiva giuridico-individuale dell'atto; per altro verso, essa conforma l'oggetto del contratto, ossia il contenuto del medesimo. Ciò comporta che, laddove l'interprete debba giudicare della illiceità o meno della causa di un contratto pubblico, ovvero della impossibilità (materiale o giuridica) o della illiceità dell'oggetto di tale contratto, non può non ricordare che tali elementi essenziali sono diversamente conformati, e dunque richiedono una verifica che tenga conto di tale loro specificità.
Allo stesso modo, quanto sin qui descritto si riflette anche sul rapporto contrattuale, sull'adempimento del contratto e sulle ipotesi di risoluzione del medesimo, così come contemplate dal codice civile. D'altra parte, è sempre la particolarità del contratto pubblico a giustificare una tutela anche penale dei contratti della Pubblica Amministrazione (art. 355, inadempimento di contratti di pubbliche forniture; art. 356, frode nelle pubbliche forniture), dove l'interesse pubblico -che, come si è detto, conforma causa ed oggetto del contratto- acquista rango di bene giuridico tutelato dalla norma penale (Cass. pen., sez. VI, 27.02.2013 n. 23819; 05.12.2007 n. 16428; 11.11.2004 n. 47194).
2.11. In definitiva,
è solo in ragione di una analisi dettagliata e specifica, che tenga conto delle considerazioni sin qui espresse, che può concludersi per la applicabilità o meno di norme ed istituti del codice civile ai contratti della pubblica amministrazione, ridenti soprattutto a quelle particolari ipotesi (contratti ad oggetto pubblico, contratti ad evidenza pubblica), in cui il contratto, dotato di «tipicità» propria conferita da norme di diritto pubblico, non risulta, fin dal suo momento genetico, regolato dal diritto privato.
2.12. Ragionando alla luce di quanto sopra detto, si rileva che il contenuto dell' atto stipulato, in quanto regolatore di un diritto di godimento di un bene privato, non presenta il contenuto di negozio ad evidenza pubblica o ad oggetto pubblico. Sotto il profilo del rapporto tra contenuto e forma, l'atto presenta la firma in calce del capo "staff" del sindaco. In aggiunta a ciò, all'atto della consegna al proprietario dell'immobile di parte dei locali sgomberati, avvenuta in data 23.02.2009, il contenuto degli impegni verso il proprietario è stato confermato sempre dallo stesso Comune in persona del dottor Cl.Co. (documento 12, pagina 2, riga 6), ove si legge che il Comune, nel riconfermare l'impegno assunto il 26.01.2009 alla restituzione del bene immobile occupato da terzi al proprietario entro 90 giorni al massimo, assume la custodia dei suddetti locali e le parti concordano con le associazioni che ne manterranno la disponibilità sino al termine pattuito scadente il 09.05.2009, sotto la responsabilità del Comune.
E' altrettanto indiscusso che il Comune ha volontariamente e tempestivamente dato esecuzione alla prima parte dell'impegno assunto, relativa al trasferimento dei nuclei familiari occupanti abusivi, provvedendo allo sgombero di gran parte dell'immobile e alla riconsegna dello stesso al ricorrente, fatta eccezione per i locali per cui è controversia, posti al piano terra e al piano interrato. Con la condotta di parziale adempimento degli obblighi assunti, gli organi gestionali del Comune hanno manifestato la volontà di tener fede agli impegni assunti «in forma di protocollo di intesa» nei confronti del privato. Il tenore del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto dalla parte pubblica contraente, pertanto, sono tutti elementi incompatibili con un'attività di mero indirizzo politico o con un'attività partecipativa del privato alla realizzazione di un interesse pubblico nei termini sopra meglio specificati.
2.13. Quanto alla forma dell'atto stipulato dal privato con la pubblica amministrazione, deve osservarsi che vale il principio in base al quale «
in tema di contratti degli enti pubblici territoriali e con particolare riferimento al conferimento di incarichi professionali, la regola generale secondo la quale gli eventuali vizi della deliberazione di autorizzazione a contrarre hanno rilievo esclusivamente nell'ambito interno all'organizzazione dell'ente, ma non incidono sulla validità ed efficacia del contratto privatistico di prestazione d'opera professionale, non esclude che il legislatore possa dettare, anche in questo campo, norme imperative, le quali trovano applicazione nei rapporti intersoggettivi, e condizionano pertanto la stessa validità dei contratti di diritto privato stipulati dalla Pubblica Amministrazione. Tale è il caso dell'art. 23 del d.l. 24.04.1989, n. 66, convertito in legge 03.02.1989, n. 144, il quale, subordinando l'effettuazione di qualsiasi spesa ad una deliberazione autorizzativa adottata nelle forme di legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché all'impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati, detta una disposizione che incide anche sui rapporti tra l'Amministrazione ed i terzi» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del 08/02/2006).
Nell'ipotesi in esame, tuttavia, il Comune non si è impegnato al versamento di alcun corrispettivo a favore dell'ente proprietario, essendosi limitato ad assumere la custodia e la gestione del bene del proprietario occupato da terzi e a garantirne il rilascio entro un determinato tempo, impegnandosi a individuare entro 90 giorni spazi alternativi per le associazioni occupanti e per effettuare la riconsegna dei locali al proprietario del bene, previo espletamento delle eventuali formalità connesse al sequestro.
Si tratta, da una parte, di una dichiarazione di pubblici intenti della pubblica amministrazione, nell'ambito dell'attività di gestione di un'emergenza che coinvolgeva le associazioni occupanti, rientrante nella competenza politico-amministrativa del territorio che gli è propria (non in grado di rilevare per il contraente, costituendo semmai un motivo interno al negozio) e, dall'altra, di una corrispondente obbligazione di presa in custodia e gestione in autonomia del bene privato, senza previsione di impegni di spesa a favore del proprietario che si è limitato ad accettare la proposta del Comune e a rinunciare alla disponibilità del bene a fronte dell'impegno assunto dal Comune.
2.14. Quanto alla necessità della sottoscrizione dell'atto da parte funzionario titolare si rammenta il precedente di questa Corte, Sez. 1, Sentenza n. 5642 del 24/06/1997, in cui è stato affermato che «
per il perfezionamento dei contratti stipulati dalle amministrazioni comunali è necessaria una manifestazione documentale della volontà negoziale da parte del sindaco, organo rappresentativo abilitato a concludere, in nome e per conto dell'ente territoriale, negozi giuridici, mentre devono ritenersi, all'uopo, inidonee le deliberazioni adottate dalla giunta o dal consiglio municipale, attesane la caratteristica di atti interni, di natura meramente preparatoria della successiva manifestazione esterna di volontà negoziale. Ne consegue che un contratto non potrà dirsi legittimamente perfezionato ove la volontà di addivenire alla sua stipula non sia, nei confronti della controparte, esternata, in nome e per conto dell'ente pubblico, da quell'unico organo autorizzato a rappresentarlo».
Nel caso di specie l'impegno assunto il 26.01.2009 nei confronti del proprietario proviene dal «capo staff del Sindaco» ed è stato riconfermato successivamente da un funzionario qualificatosi quale incaricato del Comune di Roma.
Pertanto, anche sotto il profilo funzionale, l'atto è riconducibile all'organo che rappresenta l'ente territoriale, sicché alla controparte privata non potrebbe legittimamente opporsi il mancato perfezionamento di un procedimento interno e amministrativo ai fini della sua efficacia, posto che -per i motivi anzidetti- la circostanza che il Protocollo d'intesa in questione non sia stato convalidato da un organo interno a ciò preposto non può influire sulla natura ed efficacia dell'atto, ove sussista un requisito di neutralità in termini di oneri di bilancio per l'amministrazione, come nel caso in questione.
2.15. In definitiva,
l'ipotesi de qua si configura in termini di una negoziazione e disposizione di diritti soggettivi attinenti alla proprietà di un bene con relativa assunzione di obblighi di gestione e custodia da parte del consegnatario del bene (pubblica amministrazione), e con corrispondente rinuncia del proprietario titolare all'esercizio dei diritti entro un termine pattiziamente convenuto; sul piano negoziale, e nel rispetto delle forme previste nel negozio sottoscritto, vi è dunque la stipula da parte dell'ente territoriale di un vero e proprio impegno nei confronti del proprietario, sottoscritto da soggetti formalmente abilitati a impegnare il Comune; se l'intesa convenuta appare atto programmatico e politico, lo è solo con riguardo all'organo e alle finalità pubbliche perseguite dall'ente territoriale nel volere assumere la gestione del bene privato per risolvere una questione di rilievo sociale; tuttavia tale ultimo aspetto, attinente al motivo sottostante al negozio, non vale certamente a mutare la natura degli obblighi specificamente assunti nei confronti del privato, a fronte del sacrificio imposto sui suoi diritti inerenti alla proprietà.
Il tenore del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto dalla parte pubblica contraente sono tutti elementi incompatibili con un'
attività di mero indirizzo politico, la quale per sua natura ha contenuti meramente programmatici, volti ad indicare le scelte da adottare e le finalità da perseguire in relazione a questioni di carattere generale, o comunque destinate ad intere categorie o settori di interesse, rimettendo ad atti successivi la concreta attuazione in relazione alle singole fattispecie.
2.16. Tutto quanto sopra osservato conduce a ritenere che
la Corte d'appello ha erroneamente qualificato l'atto in questione come atto politico e programmatico, anziché come negozio giuridico regolato dalla disciplina generale del negozio giuridico di diritto privato (iure privatorum) con assunzioni di obblighi da parte della Pubblica Amministrazione.
Né la convenzione stipulata, come sopra visto, può rientrare nella particolare categoria dei negozi ad evidenza pubblica o ad oggetto pubblico. Ne consegue che, stante la natura contrattuale del negozio in questione, deve dichiararsi la nullità della sentenza che ha escluso l'applicazione e l'interpretazione della disciplina del contratto, in accoglimento del secondo motivo.

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAEDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, luglio 2019).
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Per quanto riguarda la guida “Ristrutturazioni edilizie: le agevolazioni fiscali”, come si ricorderà, dal 30.06.2019 (data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 34/2019) i contribuenti che beneficiano della detrazione spettante per gli interventi effettuati per il conseguimento di risparmi energetici (cioè quelli indicati nell’articolo 16-bis, comma 1, lettera h, del Testo unico delle imposte sui redditi) possono scegliere di cedere il corrispondente credito in favore del fornitore dei beni e servizi necessari alla loro realizzazione.
A sua volta, il fornitore ha facoltà di cedere il credito d’imposta ricevuto ai suoi fornitori di beni e servizi, con esclusione della possibilità di ulteriori cessioni da parte di questi ultimi. Non è prevista, in ogni caso, la cessione a istituti di credito e a intermediari finanziari.
Con il
provvedimento 31.07.2019 n. 660057/2019 di prot. l’Agenzia delle entrate ha stabilito che la cessione dei crediti va comunicata, a pena d’inefficacia, entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese che danno diritto alle detrazioni e con le stesse modalità specificate dal provvedimento del 18.04.2019 (punto 4). I crediti ceduti sono utilizzabili dal cessionario, esclusivamente in compensazione, in 10 quote annuali di pari importo.
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni degli edifici sarà l’amministratore del condominio a dover comunicare la cessione sempre entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese, ma con le modalità individuate dal provvedimento del 28.08.2017 (punto 4.2).

EDILIZIA PRIVATAEDILIZIA PRIVATA: SISMA BONUS: LE DETRAZIONI PER GLI INTERVENTI ANTISISMICI (Agenzia delle Entrate, luglio 2019).
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La guida recepisce le disposizioni contenute nel provvedimento 31.07.2019 n. 660057/2019 di prot. del direttore dell’Agenzia delle entrate in materia di cessione del credito corrispondente alle detrazioni per interventi di riduzione del rischio sismico ed è stata aggiornata per recepire le modalità attuative di un’altra importante novità contenuta nel decreto legge n. 34/2019.
Come ha previsto l’articolo 10, comma 2, il contribuente che ha diritto alla detrazione per aver realizzato interventi di adozione di misure antisismiche, ha ora la possibilità di scegliere, invece che la detrazione, un contributo di pari ammontare, sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto al fornitore che ha eseguito gli stessi lavori. Il fornitore è rimborsato mediante un credito d’imposta, da utilizzare esclusivamente in compensazione in 5 quote annuali di pari importo, oppure può cedere il credito ricevuto ai suoi fornitori di beni e servizi.
Al riguardo, il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate ha indicato come e quando esercitare l’opzione per avere il contributo e ha stabilito le regole per il recupero del credito da parte del fornitore. La scelta di usufruire del contributo deve essere comunicata all’Agenzia delle entrate, a pena d’inefficacia, entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese che danno diritto alle detrazioni.
Trovano spazio nella guida, infine, le indicazioni sulle modalità attuative della cessione del credito corrispondente alla detrazione spettante per l’acquisto di case antisismiche (art. 46-quater del decreto legge n. 50/2017) che si trovano in zone classificate a rischio sismico 1, 2 e 3. In particolare, la cessione dei crediti va comunicata all’Agenzia delle entrate, a pena d’inefficacia, entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese. Solo per quelle sostenute fino al 31.12.2018 la comunicazione va effettuata dal 16.10.2019 al 30.11.2019 e il credito ceduto è reso disponibile al cessionario a decorrere dal 10.12.2019.

EDILIZIA PRIVATAEDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, luglio 2019).

EDILIZIA PRIVATAEDILIZIA PRIVATA: SISMA BONUS: LE DETRAZIONI PER GLI INTERVENTI ANTISISMICI (Agenzia delle Entrate, luglio 2019).

APPALTICALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA - Modelli esemplificativi di esclusione automatica delle offerte ai sensi dell’art. 97 del D.lgs. 50/2016, Codice dei contratti pubblici, a seguito delle modifiche introdotte dal dl. 32/2019, convertito con modificazioni della l. 55/2019 (ANCE, luglio 2019).

APPALTIIstruzioni di carattere generale relative all’applicazione del Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 50/2016) (MIUR, quaderno n. 1 - 27.06.2019).

VARI: LE AGEVOLAZIONI FISCALI SULLE SPESE SANITARIE (Agenzia delle Entrate, giugno 2019).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVIOggetto: Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA) (in corso di registrazione presso la Corte dei conti - circolare 01.07.2019 n. 1/2019).

ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Chiarimenti applicativi in materia di pausa obbligatoria (art. 23 del CCNL Comparto Funzioni Centrali sottoscritto il 12.02.2018) (nota 10.05.2019 n. 3446 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGOLe regole del nuovo contratto «tagliano» la retribuzione di posizione dei dipendenti in convenzione.
La modalità per calcolare la retribuzione di posizione dei dipendenti in convenzione introdotta con il contratto 21.05.2018, ha lasciato l'amaro in bocca ai responsabili degli enti locali prevedendo importi che rischiano di essere molto più bassi rispetto a quelli calcolati con le vecchie regole. Per questo motivo, un ente, si è rivolto all'Aran per avere qualche chiarimento in più.
Nel parere 19.06.2018 n. 12615 di prot. l'Agenzia riassume con chiarezza la situazione, lasciando importanti spiragli di azione.
Criteri di calcolo
Gli enti locali in base all'articolo 30 del Dlgs 267/2000 possono stipulare convenzioni per svolgere in forma associata alcune funzioni. Allo stesso tempo, è anche possibile condividere i propri dipendenti su più enti (articolo 14 del contratto 22.01.2004). Gli istituti sono diversi ma si incrociano per quanto riguarda la corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato ai dipendenti incaricati di posizione organizzativa.
Nello specifico va ricordato che secondo l'articolo 14 era possibile che la retribuzione di posizione salisse fino a un massimo di 16.000 euro, importo che poi i Comuni aderenti allo scavalco condiviso avrebbero dovuto dividersi sia dal punto di vista finanziario sia per la verifica dei propri limiti di spesa di personale e di trattamento accessorio. L'azione però era veramente semplice: dall'evidente maggiore responsabilità per la gestione di due o più enti, veniva riconosciuto a seguito di nuova pesatura l'incremento della retribuzione fino ai 16.000 euro previsti dalla norma.
Nuove regole
Con il contratto 21.05.2018 le cose, però, cambiano. L'articolo 17, comma 6, prevede che ciascun ente debba corrispondere la retribuzione di posizione rapportando il valore della pesatura dell'area del singolo ente in base alle ore di servizio che il dipendente svolge. Solo l'ente utilizzatore può integrare l'importo di una somma massima del 30% della retribuzione attribuita. Di fatto, se da una parte si semplificano le modalità di calcolo e di imputazione delle somme tra le varie amministrazioni, dall'altra non è semplice giungere all'importo complessivo di 16.000 come in passato, rendendo l'istituto poco appetibile ai responsabili.
L'Aran, nel parere in esame, ricorda però che la nuova disposizione non si applica al caso delle convenzioni disciplinate dall'articolo 30 del Dlgs 267/2000 laddove gli enti costituiscano uffici unici. In questo caso, infatti, l'ente capofila a cui sono demandate le funzioni e i rispettivi dipendenti, provvederà a pesare autonomamente l'area per giungere, eventualmente, anche ai 16.000 euro. Si potrebbe, quindi, in questo modo by-passare le criticità evidenziate dall'applicazione dell'articolo 17, comma 6, del contratto 21.05.2018 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2019).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: G. Gagliardini, L’accesso civico generalizzato alle procedure di affidamento dei contratti pubblici (16.08.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. La divisione della giurisprudenza amministrativa sull’ammissibilità dell’accesso civico generalizzato agli atti delle procedura di affidamento dei contratti pubblici; 1.1. L’orientamento dell’esclusione; 1.2. La tesi dell’applicazione; 2. Le ragioni (ulteriori) dell’applicazione dell’acceso universale nelle gare d’appalto; 3. Le esclusioni e i limiti all’accesso generalizzato alle procedure di gara; 3.1. I divieti temporanei di accesso; 3.2. I divieti assoluti di accesso; 3.3. L’inaccessibilità dei dati personali dei dipendenti dell’operatore economico; 3.4. L’inaccessibilità del know-how delle imprese; 4. Considerazione finale: il deferimento all’Adunanza Plenaria dell’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli atti delle procedure di gara.

URBANISTICA: C. Guarisco, Piani di lottizzazione: efficacia superiore a 10 anni per le pattuizioni tra privati (01.08.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Lombardi, La problematica definizione dell’ambito soggettivo di applicazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di dati, informazioni e documenti previsti dal d.lgs. 33/2013 (31.07.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. Gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di dati, informazioni e documenti nel d.lgs. 33/2013. 3. I destinatari del d.l.gs. 33/2013. 3.1. Le pp.aa. 3.2. Gli enti pubblici economici. 3.3. Gli altri soggetti di diritto privato. 4. Osservazioni conclusive.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Cicala, RISORSE PER IL FINANZIAMENTO DEL SALARIO ACCESSORIO: IL PARERE DELLA RGS - Commento al parere della Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato protocollo n. 257831 del 18.12.2018 (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: R. Sacchi, NUOVA PIATTAFORMA ANAC PER TRASMISSIONE PIANO ANTICORRUZIONE E RELAZIONE DEL RESPONSABILE ANTICORRUZIONE: INDICAZIONI OPERATIVE (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019).

LAVORI PUBBLICI: M. Terzi, LAVORI DI SOMMA URGENZA: LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE DI BILANCIO 2019 ED IL RECENTE ORIENTAMENTO DELLA CORTE DEI CONTI (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Bertuzzi, La normativa ambientale in materia di sfalci e potature e abbruciamento di rifiuti vegetali e agricoli alla luce della L. 37/2019 (23.07.2019 - link a www.tuttoambiente.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOStraordinario nel caso di trasferta del dipendente. Non condivisibili tesi dell'Aran (22.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTetto di spesa unico per le assunzioni negli enti locali. Fondi differenziati per la contrattazione decentrata (22.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Conflitto di interessi negli appalti e nelle pratiche amministrative: tracciamento e dichiarazioni (18.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: C. Guarisco, Recinzione del fondo: è possibile vietarne la costruzione solo in presenza di preminenti interessi pubblici (18.07.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com).

APPALTI: S. Usai, LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE 55/2019 - II PARTE (LE PROCEDURE D ’ACQUISTO NEL SOTTO SOGLIA COMUNITARIO) (PublikaDaily n. 14 - 17.07.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, CODICE DI COMPORTAMENTO: GLI OBBLIGHI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E LE COMUNICAZIONI DEI DI PENDENTI (PublikaDaily n. 14 - 17.07.2019).

EDILIZIA PRIVATA: A. Tudor, Edificazione e distanze dai corsi d’acqua (08.07.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it).

PUBBLICO IMPIEGOFalso materiale ed ideologico una mera irregolarità formale? Assurdo semplicemente pensarlo (06.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Distanze tra edifici: i nuovi scenari aperti dall'interpretazione autentica dello ^Sblocca Cantieri^ (05.07.2019 - link a www.dirittopa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI dirigenti a contratto debbono avere requisiti ben superiori alla semplice esperienza professionale (05.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl peso della pesatura delle PO (04.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: S. Usai, LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE 55/2019: LE SOSPENSIONI E LE NORME SPERIMENTALI (PublikaDaily n. 13 - 03.07.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Sacchi, L’APPLICAZIONE DEL D.LGS. 39/2013 NEGLI ENTI LOCALI (PublikaDaily n. 13 - 03.07.2019).

APPALTIDifferenze tra indagini di mercato, trattativa diretta previa acquisizione di preventivi e Rdo (02.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Distanze tra edifici: qualcosa può cambiare (02.07.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni Organizzative: nessun obbligo di modificare la pesatura a seguito del Ccnl 21.05.2018 (28.06.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

APPALTI: E. Leonetti, Sblocca-cantieri: le principali novità sui contratti pubblici dopo la conversione (IFEL, 20.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONeo sindaci: niente spoil system su dirigenti e posizioni organizzative di ruolo (31.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: L. Oliveri, Eliminare l’abuso d’ufficio? No, grazie (26.05.2019 - link a https://phastidio.net).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProgressioni orizzontali limitate al massimo al 50%? Non condivisibili le conclusioni del Mef (22.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl termine del 20.05.2019 entro il quale incaricare le posizioni organizzative non è vincolante (15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

NOTE, COMUNICATI E CIRCOLARI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: CATASTO DELLE TORRI DI RAFFREDDAMENTO (Regione Lombardia, nota 05.08.2019 n. 28244 di prot.).
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ALLEGATI: file 1 - file 2 - file 3 - file 4

APPALTIOggetto: Legge di conversione del decreto “sblocca cantieri”, n. 55 del 14.06.2019. Aggiornamento sui nuovi termini di pagamento (ANCE di Bergamo, circolare 05.08.2019 n. 197).

EDILIZIA PRIVATAModalità attuative delle disposizioni di cui all’articolo 10, commi 1 e 2, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
Cessione del credito corrispondente alla detrazione spettante all’acquirente delle unità immobiliari, di cui all’articolo 16, comma 1-septies, del decreto-legge 04.06.2013, n. 63 (c.d. SISMABONUS ACQUISTI).
Cessione del credito corrispondente alla detrazione spettante per gli interventi di cui all'articolo 16-bis, comma 1, lettera h), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22.12.1986, n. 917 (Agenzia delle Entrate, provvedimento 31.07.2019 n. 660057 di prot.).
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Al riguardo si legga anche:
  
Sconto in fattura ecobonus e sismabonus: dalle Entrate il provvedimento attuativo. L’opzione va comunicata all’Agenzia delle Entrate, a pena d’inefficacia, nell’area riservata del sito internet dell’Agenzia, entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese che danno diritto alle detrazioni. Unicmi: lo sconto in fattura è applicabile solo con il consenso del costruttore di serramenti (01.08.2019 - link a www.casaeclima.com).

URBANISTICA: Oggetto: Adeguamento del Piano Territoriale Regionale, ai sensi dell’art. 22, comma 1-bis, della l.r. 11.03.2005 n. 12 (Regione Lombardia, nota 26.07.2019 n. 32483 di prot.).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIBollo su documenti informatici: applicazione e modalità per pagarlo.
Con due distinte risposte, l’Agenzia fa chiarezza su alcuni aspetti pratici del tributo in caso di atti prodotti digitalmente. Tra l’altro, spiega come si realizza il presupposto impositivo dell’imposta.
Per i contratti pubblici formati all’interno del Mercato elettronico della pa (Mepa) e i relativi documenti redatti e firmati in formato elettronico, il Bollo va assolto con il contrassegno telematico o in modalità virtuale.
Per il rilascio, invece, dei duplicati informatici di atti amministrativi informatici, l’imposta non sempre si applica.

In sintesi, le risposte nn. 321 e 323 del 25.07.2019 fornite dall’Agenzia delle entrate a due istanze di interpello.
I due quesiti
Il primo dubbio (
risposta 25.07.2019 n. 321) è formulato da un ente che opera tramite Mepa per l’affidamento di contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, con la conseguente produzione di documenti in formato elettronico e firmati digitalmente. L’istante chiede in che modo deve assolvere il Bollo su questi atti prodotti digitalmente, prospettando, al contempo tre differenti procedure: virtualmente (presentando una domanda ad hoc all’ufficio delle Entrate competente), con contrassegno telematico e tramite modello F24.
Il secondo quesito (
risposta 25.07.2019 n. 323), proposto da una Regione, è in sostanza una domanda puntuale: se i duplicati informatici di documenti amministrativi anch’essi informatici, prodotti in conformità alle disposizioni del Codice dell’amministrazione digitale (Cad), debbano essere assoggettati all’imposta di bollo.
Le due risposte
Le conclusioni dell’Agenzia naturalmente non possono prescindere dalle norme di riferimento, quindi, in relazione alla prima domanda i tecnici del Fisco “rispolverano” gli articoli 3 e 15, del Dpr n. 642/1972, i quali rispettivamente dispongono che l’imposta di bollo su documenti informatici si versa ”…mediante pagamento … ad intermediario convenzionato con l’Agenzia delle Entrate, il quale rilascia, con modalità telematiche, apposito contrassegno;… in modo virtuale, mediante pagamento dell’imposta all’ufficio dell’Agenzia dell’entrate o ad altri uffici autorizzati o mediante versamento in conto corrente postale” (articolo 3) – in caso di pagamento con modalità virtuale “… l’interessato deve presentare apposita domanda –di autorizzazione– corredata da una dichiarazione (…) contenente l’indicazione del numero presuntivo degli atti e documenti che potranno essere emessi e ricevuti durante l’anno” (articolo 15).
E queste sono le uniche due strade percorribili dall’istante per assolvere l’imposta di bollo: in modo virtuale, presentando agli uffici dell’Agenzia territorialmente competenti apposita richiesta di autorizzazione o mediante versamento ad un intermediario convenzionato con le Entrate, che rilascia l’apposito contrassegno. Mentre è esclusa l’ultima via proposta, vale a dire il pagamento tramite modello F24, che si utilizza solo in caso di “documenti informatici fiscalmente rilevanti”, vale a dire libri, registri e altri documenti rilevanti ai fini tributari (articolo 6, Dm 17.06.2014).
Per quanto riguarda la seconda domanda, l’Amministrazione richiama la disciplina contenuta negli articoli n. 1, comma 1, della tariffa, parte prima, allegata al Dpr n. 642/1972, e n. 5, comma 1, lettera b), dello stesso Dpr, in base ai quali, nell’ordine, “per le copie dichiarate conformi, l’imposta, salva specifica disposizione, è dovuta indipendentemente dal trattamento previsto per l’originale” e “per copia si intende la riproduzione, parziale o totale, di atti, documenti e registri dichiarata conforme all’originale da colui che l’ha rilasciata”.
Pertanto, il presupposto per l’applicazione del Bollo si realizza quando sulle copie è presente la dichiarazione di conformità all’originale, per le quali l’imposta dovuta è nella misura di 16 euro.
Spostando poi l’attenzione sui documenti informatici, l’Agenzia osserva che il Cad (Dlgs n. 82/2005) dispone che “i duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle linee giuda” (comma 1, dell’articolo 23-bis), cioè attraverso “processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione, o su un sistema diverso, contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine”. Quindi, sostiene l’amministrazione, così ottenuto, dal punto di vista tecnico il duplicato è identico e indistinguibile dall’originale.
Pertanto, il presupposto impositivo dell’imposta di bollo si realizza solo per le copie informatiche di documenti informatici munite di dichiarazione di conformità all’originale attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Tanto premesso, considerato che, come dichiarato dalla Regione istante, sulle copie digitali dei documenti amministrativi dematerializzati (decreti del presidente della giunta regionale, del segretario generale, dei direttori generali, dei vicedirettori generali e dei dirigenti) non vi è alcuna dichiarazione di conformità all’originale, per il loro rilascio non è prevista l’applicazione dell’imposta di bollo (25.07.2019 - tratto da e link a www.fiscooggi.it).
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OGGETTO: Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212. Applicazione dell’imposta di bollo sul duplicato informatico di un documento amministrativo informatico prodotto in conformità alle disposizioni del Codice dell’Amministrazione Digitale. Articolo 1, comma 1, della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26.10.1972, n. 642 (Agenzia delle Entrate, risposta 25.07.2019 n. 323).
  
OGGETTO: Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212. Modalità di assolvimento dell’imposta di bollo per i contratti pubblici formati all’interno del MEPA, e gli allegati documenti redatti in formato elettronico firmati digitalmente. Articolo 3 del d.P.R. 26.10.1972 n. 642 (Agenzia delle Entrate, risposta 25.07.2019 n. 321).

EDILIZIA PRIVATAIstanze di denuncia opere edilizie: trattamento fiscale ai fini del bollo.
Imposta nella misura di 16 euro per foglio sulle domande presentate alla pa per eseguire lavori strutturali in cemento armato. Gli allegati tecnici, invece, scontano il tributo solo in caso d’uso (25.07.2019 - link a www.fiscooggi.it).
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OGGETTO: Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212. Applicazione dell’imposta di bollo alle attestazioni di deposito dei documenti allegati alla denuncia di opere edilizie in cemento armato. Articoli 2, 3, 4 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26.10.1972
 (Agenzia delle Entrate, risposta 25.07.2019 n. 319).
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QUESITO
Il Comune di XXX –Area Sportello Unico per l’Edilizia- fa presente che ai sensi dell’articolo 3, comma 1 del d.P.R. n. 642 del 1972, tutte le istanze presentate ad una pubblica amministrazione scontano l’imposta di bollo.
Al riguardo, l’ente istante precisa che relativamente alla denuncia di opere edilizie in cemento armato, richiede l’assolvimento dell’imposta di bollo nella misura di 16.00 euro per i seguenti documenti:
   a) deposito della documentazione strutturale;
   b) deposito per gli interventi di sopraelevazioni (per i quali è obbligatorio il parere tecnico);
   c) deposito delle varianti;
   d) deposito della dichiarazione di fine lavori e collaudo.
Premesso quanto sopra, il Comune interpellante chiede, quindi, di conoscere se sia corretto richiedere l’assolvimento dell’imposta di bollo per i predetti documenti.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Con riferimento al quesito di cui al punto sub a), concernente l’applicazione dell’imposta di bollo al deposito della documentazione strutturale, si fa presente che il d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia”, all’articolo 65, comma 1, dispone che “Le opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico, che provvede a trasmettere tale denuncia al competente ufficio tecnico regionale”.
I successivi commi 3 e 4 del predetto articolo 65, prevedono, altresì, che alla denuncia devono essere allegati il progetto dell’opera in triplice copia, firmato dal progettista, una relazione illustrativa in triplice copia firmata dal progettista e dal direttore dei lavori, e che al costruttore, all’atto stesso della presentazione, sia restituita una copia del progetto e della relazione con l’attestazione di avvenuto deposito.
Da quanto sopra rappresentato, occorre distinguere il trattamento tributario da applicare, ai fini dell’imposta di bollo alle attestazioni di avvenuto deposito di opere in cemento armato rilasciate dallo “sportello unico” ed agli allegati tecnici relativi alla denuncia dei lavori.
A tal proposito, si osserva che le attestazioni di avvenuto deposito rilasciate ai sensi dell’articolo 65, comma 4, del testo unico sono soggette all’imposta di bollo, fin dall’origine, nella misura di euro 16,00 per ogni foglio ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26.10.1972, n. 642, che contempla, gli “Atti e provvedimenti degli organi dell’amministrazione dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, (…) rilasciati (…) a coloro che ne abbiano fatto richiesta.”
In tal senso, l’amministrazione finanziaria si è espressa con la risoluzione del 27.03.1984 n. 302570, in cui ha si afferma che la copia della denuncia delle opere in conglomerato cementizio, munita dell’attestazione di avvenuto deposito, rilasciata dal competente ufficio al denunciante è soggetta a bollo fin dall’origine ai sensi dell’articolo 6 (ora articolo 4) della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 642 del 1972.
Con riferimento agli allegati tecnici relativi alla denuncia dei lavori, inoltre, con la medesima risoluzione è stato precisato, che gli elaborati tecnici presentati ai competenti uffici a corredo delle predette denunce, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 2, secondo comma, del predetto d.P.R. n. 642 del 1972 e dell’articolo 46 (ora articolo 28) dell’allegata tariffa, parte seconda, sono soggetti all’imposta di bollo solo in caso d’uso, cioè qualora ne sia richiesta la registrazione.
In merito al quesito di cui al punto sub b) concernente l’applicazione dell’imposta di bollo al deposito di sopraelevazioni, si rileva che la legge regionale della XXX 12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche), all’articolo 8, commi 1-bis ed 2, stabilisce che la realizzazione degli interventi di sopraelevazione degli edifici è subordinata al rilascio da parte dell’autorità competente, del provvedimento di autorizzazione o di diniego entro sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza.
La Delib. G.R. 30.03.2016, n. 10/5001 prevede, inoltre, che l’istanza per il rilascio dell’autorizzazione di cui all’articolo 8, comma 2, della legge regionale n. 33 del 2015 è presentata prima dell’avvio dei lavori.
Relativamente al trattamento tributario ai fini dell’imposta di bollo delle istanze, si osserva che l’articolo 3, comma 1, della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 642 del 1972, dispone che è dovuta l’imposta di bollo, fin dall’origine, nella misura di euro 16,00, per ogni foglio, per le “…Istanze, petizioni, ricorsi (…) diretti agli uffici e agli organi, anche collegiali dell’Amministrazione dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, (…), tendenti ad ottenere l’emanazione di un provvedimento amministrativo o il rilascio di certificati, estratti, copie e simili”.
A parere della scrivente nell’ambito applicativo del richiamato articolo 3 della tariffa, parte prima, devono essere ricondotte anche le istanze dirette allo sportello unico dell’edilizia al fine di ottenere l’autorizzazione a realizzare interventi di sopraelevazione degli edifici e, pertanto, scontano l’imposta di bollo, fin dall’origine, nella misura di euro 16,00 per ogni foglio.
Per completezza si precisa che anche il provvedimento di autorizzazione o di diniego alla sopraelevazione deve essere assoggettato all’imposta di bollo, nella misura di euro 16,00 per ogni foglio, ai sensi del sopra richiamato articolo 4, comma 1, della tariffa, parte prima allegata al d.P.R. n. 642 del 1972.
Per quanto concerne, invece, il deposito delle varianti di cui al punto sub c) si osserva che l’articolo 65, comma 5, del citato d.P.R. n. 380 del 2001, dispone “Anche le varianti che nel corso dei lavori si intendono introdurre alle opere di cui al comma 1, previste nel progetto originario, devono essere denunciate, prima di dare inizio alla loro esecuzione, allo sportello unico …”.
Relativamente al trattamento ai fini dell’imposta di bollo del deposito delle varianti, si rileva che, se a seguito della presentazione delle stesse lo sportello unico non avvia alcun procedimento amministrativo finalizzato all’emanazione di alcun provvedimento finale, ma si limita esclusivamente ad acquisire detta documentazione agli atti, non possono essere ricondotte nella nozione di istanze e pertanto, non assoggettate all’imposta di bollo fin dall’origine ai sensi dell’articolo 3 della tariffa allegata al richiamato d.P.R. n 642 del 1972 Con riferimento, poi ai certificati di fine lavori e collaudo di cui al punto sub d) si osserva che il citato d.P.R. n. 380 del 2001, all’articolo 65, comma 6, stabilisce che “A strutture ultimate, entro il termine di sessanta giorni, il direttore dei lavori deposita presso lo sportello unico una relazione, redatta in triplice copia, sull’adempimento degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 …”.
Il successivo articolo 67, comma 7, prevede che: “Il collaudatore redige, sotto la propria responsabilità, il certificato di collaudo in tre copie che invia al competente ufficio tecnico regionale e al committente, dandone contestualmente comunicazione allo sportello unico”.
Con riferimento al trattamento da riservare ai fini dell’imposta di bollo, alla relazione da effettuare a struttura ultimata, questa amministrazione ha già avuto modo di chiarire, con la risoluzione del 29.05.2009 n. 139/E, che la stessa debba qualificarsi come scrittura privata, contenente una dichiarazione unilaterale e, pertanto, soggetta all’imposta di bollo, ai sensi dell’articolo 2 della tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 1972, nella misura di euro 16,00, per ogni foglio.
Il predetto articolo dispone, infatti, l’applicazione dell’imposta di bollo per le “Scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali con le quali si creano, si modificano, si estinguono, si accertano o si documentano rapporti giuridici di ogni specie, descrizioni, constatazioni e inventari destinati a far prova tra le parti che li hanno sottoscritti”.
Ad analoghe conclusioni questa amministrazione è giunta con riferimento al certificato di collaudo (cfr. risoluzione del 27/03/2002 n. 97/E).
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Al riguardo si legga anche:
  
Opere edilizie in cemento armato: il trattamento fiscale delle istanze di denuncia ai fini del bollo (29.07.2019 - www.casaeclima.com).

INCARICHI PROGETTUALIOGGETTO: CHIARIMENTI SUL DECRETO DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 17.06.2016 AVENTE AD OGGETTO “APPROVAZIONE DELLE TABELLE DEI CORRISPETTIVI COMMISURATI AL LIVELLO QUALITATIVO DELLE PRESTAZIONI DI PROGETTAZIONE ADOTTATO AI SENSI DELL'ART. 24, COMMA 8, DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 50 DEL 2016 (Consiglio Nazionale dei Geologi, circolare 22.07.2019 n. 435).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Irpef: le somme corrisposte da una P.A. a dipendenti di altre P.A. per funzioni di collaudo tecnico rientrano tra i redditi di lavoro dipendente.
...
OGGETTO: Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212. Somme e valori corrisposti da una amministrazione pubblica diversa da quella cui appartiene il dipendente pubblico. Articolo 49, comma 1, del TUIR
(Agenzia delle Entrate, risposta 22.07.2019 n. 289).
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QUESITO
L’Istante, ente pubblico non economico, riferisce di avere conferito un incarico, con proprio decreto del Presidente, per l’espletamento di funzioni di collaudo tecnico-amministrativo, ad un dipendente di altra Pubblica Amministrazione, autorizzato dall’ente di appartenenza ai sensi dell’articolo 53 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165. Tale norma non consente –in assenza di preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza- al dipendente pubblico lo svolgimento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio.
L’Istante premette che le infrastrutture in corso devono essere collaudate da apposite Commissioni in conformità all’articolo 102 del d.lgs. n. 50 del 2016 e che l’incarico di componente di Commissione è conferito a soggetti appartenenti a varie categorie professionali (quali architetti, ingegneri, esperti contabili, giudici ecc..) per la verifica dell’avanzamento dei lavori sotto il profilo tecnico, giuridico e contabile.
Detto incarico si protrae per più periodi d’imposta, con diverse sedute di Commissione, ed il relativo compenso è erogato, ai sensi dell’articolo 61, comma 9, della legge 06.08.2008, n. 133.
L’Ente istante precisa, altresì, che come previsto dal citato articolo 61, comma 9, “Il 50 per cento del compenso spettante al dipendente pubblico per l’attività di componente o di segretario del collegio arbitrale è versato direttamente ad apposito capitolo del bilancio dello Stato; (…); la medesima disposizione si applica al compenso spettante al dipendente pubblico per i collaudi svolti in relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”.
L’Istante evidenzia che in sede di rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico esterno, l’Amministrazione di appartenenza ha comunicato al proprio dipendente, che l’incarico deve essere caratterizzato da occasionalità e non deve presentare profili, anche potenziali, di conflitto di interesse rispetto all’attività istituzionale.
Ciò posto, l’Istante chiede di conoscere se tali emolumenti debbano considerarsi redditi assimilati al lavoro dipendente, ai sensi dell’articolo 50, comma 1, lett. c-bis), del TUIR (in quanto somme relative alla partecipazione a collegi e commissioni) o redditi per prestazioni occasionali, tenuto conto, tra l’altro, delle precisazioni fornite dall’Amministrazione di appartenenza, in base alle quali “si tratta di incarico saltuario ed occasionale senza vincoli di subordinazione col soggetto conferente e compatibile con lo status di pubblico dipendente” (cfr. all. 1).
SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE
L’Istante ritiene corretto poter ricondurre i compensi in esame tra i redditi assimilati al lavoro dipendente, ai sensi dell’articolo 50, comma 1, lett. c-bis), del TUIR, trattandosi di somme percepite “a qualunque titolo (...) nel periodo di imposta (…) in relazione alla partecipazione a collegi e commissioni”.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
L'articolo 50 del d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (TUIR) ricomprende tra i redditi assimilati al lavoro dipendente:
   - "le indennità e i compensi percepiti a carico di terzi dai prestatori di lavoro dipendente per incarichi svolti in relazione a tale qualità, ad esclusione di quelli che per clausola contrattuale devono essere riversati al datore di lavoro e di quelli che per legge debbono essere riversati allo Stato" (lettera b);
   - “le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, (…) in relazione (…) alla partecipazione a collegi e commissioni (…) sempre che gli uffici o le collaborazioni non rientrino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente (…)” (lettera c-bis).
Con riferimento alla citata lettera b) dell’articolo 50 del TUIR, la circolare n. 326 del 23.12.1997 (par. 5.3) ha chiarito, tra l’altro, che detti compensi –che il prestatore di lavoro percepisce da soggetti diversi dal proprio datore di lavoro, e a carico di terzi– hanno natura di reddito assimilato a quello di lavoro dipendente ove derivanti da “incarichi svolti in relazione alle funzioni della propria qualifica e in dipendenza del proprio rapporto di lavoro”.
Rientrano in tale categoria, ad esempio, i compensi per la partecipazione a taluni comitati tecnici, organi collegiali, commissioni di esami, organi consultivi di enti privati o pubblici, ivi compresi quelli percepiti da dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici per prestazioni comunque rese in connessione con la carica o in rappresentanza degli enti di appartenenza.
La citata circolare n. 326 del 1997 ha chiarito, altresì, che la relazione tra l’espletamento dell’incarico e la qualifica di lavoratore dipendente sussiste anche “nel caso in cui risulti, per legge, regolamento, altro atto amministrativo, statuto o capitolato, che l’incarico debba essere affidato ad un componente della categoria alla quale il contribuente appartiene”.
Il medesimo documento di prassi ha chiarito, infine, che, in ogni caso, laddove eventuali somme e valori siano corrisposti da una amministrazione pubblica diversa da quella cui appartiene il dipendente pubblico, essi costituiscono redditi di lavoro dipendente. Nel caso di specie, l’incarico di membro della Commissione di collaudo al dipendente di ALFA, che è un’amministrazione pubblica, è stato conferito con decreto del Presidente dell’ente pubblico non economico.
A tal riguardo, l’Istante ha precisato che “le infrastrutture in corso devono essere collaudate da apposite commissioni, ai sensi dell’articolo 102 del DLGS n. 50 del 2016” (Codice dei contratti pubblici).
In particolare, il comma 6 della citata norma prevede che “Per effettuare le attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti di cui al comma 2, le stazioni appaltanti nominano tra i propri dipendenti o dipendenti di altre amministrazioni pubbliche, da uno a tre componenti con qualificazione rapportata alla tipologia e caratteristica del contratto, in possesso dei requisiti di moralità, competenza e professionalità”.
Tenuto conto della normativa e della prassi consolidata richiamata, si ritiene che i predetti compensi percepiti dall’ingegnere incaricato, in quanto erogati da una amministrazione pubblica (ovvero l’Autorità istante) differente da quella, parimenti pubblica, di appartenenza, costituiscano redditi di lavoro dipendente, ai sensi dell’articolo 49 del TUIR.
Sono redditi di lavoro dipendente, infatti, ai sensi dell’art. 51, comma 1, del TUIR, tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce nel periodo d’imposta, a qualunque titolo, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro, e quindi tutti quelli che siano in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro medesimo, anche se non provenienti direttamente dal datore di lavoro (principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente e totale imponibilità di tutto ciò che il dipendente riceve).
Con riferimento, infine, alla soluzione prospettata dall’istante, secondo cui gli emolumenti in questione sarebbero riconducibili ai redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui alla lettera c-bis) dell’articolo 50 del TUIR (collaborazioni coordinate e continuative), si osserva che, nel caso di specie, la prestazione richiesta è collegata ai compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro del dipendente. A tale proposito, la circolare 06.07.2001, n. 67/E ha chiarito che le prestazioni che rientrano nei compiti istituzionali del lavoratore dipendente non possono ricondursi ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, rimanendo attratte nel reddito di lavoro dipendente.
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Al riguardo si legga anche:
  
Se l’incarico è attribuito da un’altra Pa i redditi sono da lavoro dipendente (16.08.2019 - link a www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: LE NOVITÀ DEL “DECRETO CRESCITA” (D.L. 34/2019) DOPO LA CONVERSIONE IN LEGGE (ANCE di Bergamo, circolare 12.07.2019 n. 177).

ENTI LOCALI: Atto di indirizzo ex art. 154, comma 2, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sulla precisazione della definizione di "società a controllo pubblico" ai sensi e per gli effetti di cui al testo unico in materia di società a partecipazione pubblica approvato con decreto legislativo 19.08.2016, n. 175 (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli enti locali, atto di indirizzo 12.07.2019).

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: Aggiornamento Linee Guida Anac n. 1 sugli affidamenti S.I.A. (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 09.07.2019 n. 406).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Decreto Legge 30.04.2019, n. 34 convertito, con modificazioni, nella legge 28.06.2019, n. 58 (“Decreto Legge Crescita”) - Misure fiscali d’interesse (ANCE, 01.07.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Contributi regionali per la rimozione dell’amianto: approvazione Bando (ANCE di Bergamo, circolare 28.06.2019 n. 164).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Entra in vigore la legge Sblocca cantieri: come cambiano per i comuni per le procedure sismiche (ANCI Lombardia, circolare 27.06.2019 n. 190/2019).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTIDecreto-legge 30.04.2019, n. 34, recante “Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi” convertito nella legge 28.06.2019, n. 58 - Nota di lettura delle norme di interesse per i Comuni (ANCI-IFEL, 27.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALIOggetto: Rinnovo Amministrazioni Comunali. Nomina del Segretario comunale (Prefettura di Milano, nota 18.06.2019 n. 128832 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAtto di indirizzo ex art. 154, comma 2, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 sull’interpretazione ed applicazione dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, circa l’ambito di operatività del divieto imposto di conferire incarichi, cariche e collaborazioni, esclusivamente a titolo gratuito, a soggetti già collocati in quiescenza (Ministero dell'Interno, chiarimento 24.05.2019).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 12.08.2019, "Quinto aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 06.08.2019 n. 11796).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 del 09.08.2019 "Assestamento al bilancio 2019-2021 con modifiche di leggi regionali" (L.R. 06.08.2019 n. 15).
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Di interesse si leggano:
  
● Art. 13 - (Modifica alla l.r. 19/2008)
   ● Art. 19 - (Modifiche all’art. 45 della l.r. 70/1983)
   ● Art. 20 - (Modifiche all’art. 25 della l.r. 12/2005)

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 02.08.2019, "Ricorso della Presidenza del Consiglio dei ministri n. 56 del 07.05.2019 – Pubblicazione disposta dal Presidente della Corte costituzionale a norma dell’art. 20 delle Norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale" (P.C.M., Atto di Promovimento 07.05.2019 n. 56).
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RICORSO
per la Presidenza del Consiglio dei ministri (codice fiscale n. 97163520584), in persona del Presidente p.t., ex lege rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato (codice fiscale n. 80224030587) presso i cui uffici domicilia ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12, fax 06-96514000, pec ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it
NEI CONFRONTI
dalla Regione Lombardia (codice fiscale n. 80050050154), con sede in Milano, piazza Città di Lombardia n. 1, in persona del Presidente pro tempore,
per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge regionale 04.03.2019 n. 4, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità): abrogazione del Capo III «Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali» del Titolo VI e introduzione del Titolo VI-bis «Norme in materia di medicina legale, polizia mortuaria, attività funebre», pubblicata sul BUR n. 10 dell’08.03.2019.
Si impugna, come da delibera del Consiglio dei ministri in data 23.04.2019, la legge della Regione Lombardia n. 4 del 2019, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità): abrogazione del Capo III «Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali» del Titolo VI e introduzione del Titolo VI-bis «Norme in materia di medicina legale, polizia mortuaria, attività funebre», giacché presenta i seguenti profili d’illegittimità costituzionale.
L’art. 1 della legge in esame, nell’introdurre il Titolo VI-bis nell’ambito della legge regionale 30.12.2009, n. 33, aggiunge a quest’ultima legge numerose norme in materia di polizia mortuaria e di attività funebre.
Varie disposizioni, tra quelle aggiunte, sono tuttavia incostituzionali sotto diversi aspetti: alcune norme si pongono infatti in contrasto con i principi fondamentali in materia di «tutela della salute», in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., altre invadono la competenza statale in materia di ordinamento civile, violando l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., altre infine invadono la competenza esclusiva statale in materia di stato civile e anagrafi di cui all’art. 117, secondo comma, lettera i), della Costituzione.
In particolare:
   1)
L’art. 1 della legge regionale in esame, nell’aggiungere l’art. 69 e l’art. 73 alla legge regionale n. 33 del 2009, invade la competenza esclusiva statale in materia di Stato civile e anagrafi di cui all’art. 117, secondo comma, lettera i), della Costituzione.
Infatti l’art. 69, comma 3, che prevede la richiesta dell’ufficiale di stato civile per l’accertamento di morte da parte del medico, e l’art. 73, che prevede autorizzazioni dell’ufficiale di stato civile in materia di cremazione e di dispersioni delle ceneri, attribuiscono agli ufficiali di stato civile compiti ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati negli articoli 71, 72 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000, recante il «Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile»;
   2) L’art. 1 della legge regionale in esame, nell’aggiungere l’art. 71 alla legge regionale n. 33 del 2009, invade la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, in violazione dell’art. 117, secondo comma lettera l), della Costituzione.
Il precitato art. 71, commi 2, 3 e 4 prevede che «2. Nel caso in cui la persona deceduta ha disposto l’utilizzo del proprio cadavere per finalità di studio, ricerca e insegnamento, i congiunti o conviventi ne danno comunicazione al comune che autorizza il trasporto, previo assenso e a spese dell’istituto ricevente.
3. A seguito di interventi chirurgici in strutture ospedaliere del territorio comunale il cittadino decide se donare eventuali parti anatomiche riconoscibili per finalità di studio, ricerca o insegnamento o se richiederne la sepoltura.
4. Presso ciascun comune del territorio regionale è istituito un registro degli enti autorizzati che abbiano fatta richiesta di utilizzare cadaveri o parti anatomiche riconoscibili per finalità di studio, ricerca o insegnamento. Il regolamento di cui all’art. 76 disciplina le modalità di attuazione del presente comma».
Tale articolo, nel prevedere, tra l’altro, che -a seguito di interventi chirurgici in strutture ospedaliere del territorio comunale- il cittadino possa decidere se donare eventuali parti anatomiche riconoscibili per finalità di studio, ricerca o insegnamento o se richiederne la sepoltura, incide sulle prerogative dello Stato in materia di «ordinamento civile» ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
Da una ricostruzione del quadro normativo della materia, emerge infatti che la disciplina degli aspetti in parola è demandata allo Stato, che ha emanato vari provvedimenti in merito e ne sta perfezionando la regolamentazione.
In particolare:
   - il decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1990, n. 285, recante Regolamento della polizia mortuaria (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 239 del 12.10.1990), all’art. 40, stabilisce che è lecito l’utilizzo di cadaveri ai fini dell’insegnamento e delle indagini scientifiche sia pure nei limiti previsti dagli articoli 8, 9 e 10.
Nello specifico l’art. 40 prevede che: «1. La consegna alle sale anatomiche universitarie dei cadaveri destinati, a norma dell’art. 32 del testo unico delle leggi sulla istruzione superiore, approvato con regio decreto 31.08.1933, n. 1592, all’insegnamento ed alle indagini scientifiche deve avvenire dopo trascorso il periodo di osservazione prescritto dagli articoli 8, 9 e 10.
2. Ai cadaveri di cui al presente articolo deve essere sempre assicurata una targhetta che rechi annotate generalità».
Secondo il disposto dell’art. 41, comma 2, del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 285 «il prelevamento e la conservazione di cadaveri e di pezzi anatomici, ivi compresi i prodotti fetali, devono essere di volta in volta autorizzati dall’autorità sanitaria locale sempre che nulla osti da parte degli aventi titolo».
In ogni caso ai sensi dell’art. 42 del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 285, dopo le indagini e gli studi, «i cadaveri di cui all’art. 40, ricomposti per quanto possibile, devono essere consegnati all’incaricato del trasporto al cimitero».
   - Con legge 01.04.1999, n. 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti), art. 3 è stato disciplinato il «Prelievo di organi e di tessuti», disponendo quanto segue: «Il prelievo di organi e di tessuti è consentito secondo le modalità previste dalla presente legge ed è effettuato previo accertamento della morte ai sensi della legge 29.12.1993, n. 578, e del decreto del Ministro della sanità 22.08.1994, n. 582».
Fermo restando il divieto di prelievo delle gonadi e dell’encefalo (art. 3, comma 3) e, altresì, il divieto della manipolazione genetica degli embrioni ai fini del trapianto di organo (art. 3, comma 4) e il rispetto delle prescrizioni di dichiarazioni di volontà in ordine alla donazione, i prelievi di organi e di tessuti disciplinati dalla legge n. 91 -come disposto dall’art. 6- «sono effettuati esclusivamente a scopo di trapianto terapeutico».
   - Con precedente legge 02.04.1968, n. 519 recante «Modifiche alla legge 03.04.1957, n. 235, relativa ai prelievi di cadaveri a scopo di trapianto terapeutico», si prevedeva il prelievo «su tutti i deceduti sottoposti a riscontro diagnostico a norma dell’art. 1 della legge 01.02.1961, n. 83, a meno che l’estinto non abbia disposto contrariamente invita, in maniera non equivoca e per iscritto».
A titolo esaustivo si ricorda infine che è all’esame del Parlamento l’Atto Senato n. 733 «Norme in materia di disposizioni del proprio corpo e dei tessuti post mortem ai fini di studi, formazione e di ricerca scientifica», prossimo alla discussione in aula.
   3) Numerose norme, introdotte dall’art. 1 della legge in esame a modifica della citata legge regionale Lombardia n. 33/2009, non sono in linea con i principi fondamentali in materia di «tutela della salute» contenuti nella normativa statale di riferimento, e segnatamente nel decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990, recante l’«Approvazione del regolamento di polizia mortuaria», in violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
In particolare:
   a) varie norme profilano fattispecie non previste dal decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990 e contrastano principalmente con le disposizioni del Capo IX del menzionato decreto del Presidente della Repubblica, recante «Disposizioni generali sul servizio dei cimiteri». In particolare:
      - l’art. 70-bis, che istituisce le «Case funerarie».
Tale articolo introduce, di fatto, una fattispecie attualmente non prevista dalla normativa statale in materia, e in particolare dalle disposizioni del menzionato Capo IX del decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990, recanti le «Disposizioni generali sul servizio dei cimiteri del decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990»;
      - l’art. 74, rubricato «Attività funebre», laddove, al comma 1, lettera e), annovera tra le prestazioni che l’attività funebre può assicurare, i trattamenti di tanatocosmesi, contempla prestazioni non previste dalle norme statali;
      - l’art. 74-bis, rubricato «Centri servizi», laddove qualifica il centro servizi come «una impresa che svolge attività funebre ai sensi dell’art. 74», disciplina una fattispecie, della quale peraltro non è chiara la differenza rispetto all’impresa funebre, che non è prevista a livello nazionale;
      - l’art. 75, comma 8, lettera a), che prevede che il comune possa autorizzare «la costruzione e l’uso di aree e spazi per la sepoltura di animali d’affezione»,
non è in linea con la normativa statale e in particolare con il Capo IX, «Disposizioni generali sul servizio dei cimiteri», del menzionato decreto del Presidente della Repubblica, che non prevede tale facoltà;
      - l’art. 76, comma 1, lettera e), rubricato «Regolamento di attuazione», che prevede la tumulazione nei «loculi areati»
contrasta con la normativa statale vigente in materia. Attualmente, infatti, le sepolture areate, nonostante i consistenti vantaggi che offrono, anche in termini igienico-sanitari (quali, ad esempio, l’eliminazione dei fenomeni percolativi, il drastico abbattimento dell’incidenza su esumazioni ed estumulazioni, etc.) non sono previste dalla normativa statale;
   b) l’art. 72, comma 1, che prevede che «Al fine di consentire lo svolgimento dei riti funebri, il trasferimento deve comunque essere effettuato entro ventiquattro ore dal rilascio della certificazione attestante il termine delle operazioni di prelievo di organi o di riscontro diagnostico, ovvero dal rilascio del nulla osta al seppellimento o alla cremazione da parte dell’autorità giudiziaria»
contrasta con le previsioni contenute nell’art. 8 e nell’art. 10, nonché nel «Capo IV - Trasporto dei cadaveri», del menzionato decreto del Presidente della Repubblica, secondo le quali il trasporto di salma può avvenire solo se siano ancora trascorse ventiquattro ore dal decesso.
Inoltre la formulazione poco chiara dell’art. 72 si presta ad interpretazioni ambigue, dalle quali potrebbe discendere anche l’elusione della necessaria autorizzazione comunale al trasporto delle salme prevista dall’art. 23 del decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990;

   c) l’art. 75, laddove, al comma 4, consente di devolvere in toto la gestione e la manutenzione dei cimiteri a soggetti privati,
contrasta con l’art. 51 del decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990, che assegna i compiti di manutenzione, ordine e vigilanza dei cimiteri al comune, in ragione dei rilevanti interessi igienico-sanitari sottesi a tali attività;
   d) l’art. 75, comma 8, lettera c), laddove consente al Comune di autorizzare «la costruzione di cappelle private fuori dal cimitero, purché contornate da un’area di rispetto» -in combinato disposto con l’art. 76, comma 1, lettera g), che rinvia al regolamento attuativo l’ampiezza minima e massima di dette aree-
diverge dall’art. 104, decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990 cit. che impone specifiche regole e distanze in ordine all’area di rispetto che circonda le cappelle private.
Detta norma statale prevede infatti la «costruzione ed il loro uso ... soltanto quando siano attorniate per un raggio di metri 200 da fondi di proprietà delle famiglie che ne chiedano la concessione e sui quali gli stessi assumano il vincolo di inalienabilità e di inedificabilità»;

   e) l’art. 75, comma 11, laddove prevede che «il comune autorizza la costruzione di nuovi cimiteri, l’ampliamento o la ristrutturazione di quelli esistenti, previo parere vincolante dell’ATS e dell’ARPA, secondo le rispettive competenze. La soppressione di cimiteri è autorizzata dall’ATS»,
non risulta in linea con quanto previsto sul punto dall’art. 96 del decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990, secondo il quale nessun cimitero può essere soppresso se non per ragioni di dimostrata necessità, e la soppressione viene deliberata dal consiglio comunale, sentito il coordinatore sanitario della unità sanitaria locale competente per territorio;
   f) l’art. 75, comma 13, prevede che «Gli animali di affezione, per volontà del defunto o su richiesta degli eredi, possono essere tumulati in teca separata, previa cremazione, nello stesso loculo del defunto o nella tomba di famiglia, secondo le disposizioni contenute nel regolamenta di cui all’art. 76 e nel regolamento comunale».
Tale norma, consentendo di deporre nel loculo del defunto o nella tomba di famiglia, sia pur in teca separata e previa cremazione, i resti degli animali di affezione, introduce una facoltà assolutamente estranea alla normativa statale in materia e contrasta in particolare con l’art. 50 del citato decreto del Presidente della Repubblica, secondo il quale nei cimiteri sono ricevuti, quando non venga richiesta altra destinazione, i cadaveri delle sole persone.
Tanto rappresentato, considerato che, per gli aspetti tecnici, la materia in oggetto ricade in ambito sanitario, le disposizioni regionali indicate sub 3) contrastano con i principi fondamentali in materia di «tutela della salute», in violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Si conclude pertanto affinché sia dichiarata l’illegittimità costituzionale nei sensi testé esposti dell’art. 1, nelle parti sopra specificate, della legge della Regione Lombardia n. 4 del 2019, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità): abrogazione del Capo III «Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali» del Titolo VI e introduzione del Titolo VI-bis «Norme in materia di medicina legale, polizia mortuaria, attività funebre», per violazione: dell’art. 117, terzo comma, Cost.; dell’art. 117, secondo comma lett. l), Cost.; dell’art. 117, secondo comma, lettera i), della Cost..

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 dell'01.08.2019, "Profili applicativi in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche, di cui alla l.r. 33/2015, a seguito dell’entrata in vigore della l. 55/2019" (circolare regionale 29.07.2019 n. 9).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2019, "Ulteriori determinazioni in ordine alla gestione del servizio sanitario e sociosanitario regionale per l’esercizio 2019 – secondo provvedimento 2019" (deliberazione G.R. 23.07.2019 n. 1986).
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Di particolare interesse si leggano:
  
● 2.3. CATASTO DELLE TORRI DI RAFFREDDAMENTO - CONDENSATORI EVAPORATIVI
   ● 6.1. PARERI OBBLIGATORI PER L’APPROVAZIONE DI PROGETTI DI EDILIZIA SANITARIA

APPALTI: G.U. 29.07.2019 n. 176 "Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici" (Ministero dell'Interno, decreto 15.07.2019).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 15.07.2019 "Adeguamento del Piano Territoriale Regionale, ai sensi dell’art. 22, comma 1-bis, della l.r. 11.03.2005 n. 12" (deliberazione G.R. 09.07.2019 n. 1882).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 12.07.2019 n. 162 "Modifiche al decreto 28.02.2014 in materia di regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle strutture turistico-ricettive in aria aperta (campeggi, villaggi turistici, ecc.) con capacità ricettiva superiore a 400 persone" (Ministero dell'Interno, decreto 02.07.2019).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U. 11.07.2019 n. 161 "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, coordinato con la legge di conversione 28.06.2019, n. 58, recante: «Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi»".

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 09.07.2019, "Determinazione per l’anno 2019 della percentuale di maggiorazione del contributo base ex art. 6, c. 1, lett. i) e c. 10 del r.r. 27.07.2009, n. 2 e s.m.i., attuativo della l.r. 27.06.2008, n. 19 al fine dell’erogazione del contributo ordinario per il medesimo anno alle unioni di comuni lombarde per la gestione associata di funzioni e servizi comunali" (decreto D.S. 05.07.2019 n. 9933).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 dell'08.07.2019, "Quarto aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all'esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 27.06.2019 n. 9458).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: G.U. 29.06.2019 n. 151, suppl. ord. n. 26/L, "Testo del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, coordinato con la legge di conversione 28.06.2019, n. 58, recante: «Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 23 del 07.06.2019, "Legge di revisione normativa e di semplificazione 2019" (L.R. 06.06.2019 n. 9).
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Di interesse si leggano:
  
● Art. 14 - (Modifiche all’art. 10.2 della l.r. 31/2008)
 
 ● Art. 15 - (Modifiche agli artt. 24 e 34 della l.r. 31/2008)
   ● Art. 16 - (Inserimento del Capo VII-ter nella l.r. 31/2008)
   ● Art. 17 - (Modifiche agli artt. 42, 47 e 50 della l.r. 31/2008)
   ● Art. 29 - (Modifica all’art. 6 della l.r. 11/2014)
   ● Art. 35 - (Inserimento dell’art. 23-bis nella l.r. 33/2009 e abrogazione dell’art. 20 della l.r. 48/1988)
   ● Art. 36 - (Inserimento dell’art. 60-bis1 nella l.r. 33/2009) --->
(Istituzione presso i comuni del catasto delle torri evaporative di raffreddamento a umido e dei condensatori evaporativi)
   ● Art. 42 - (Modifiche agli artt. 82, 91-bis, 91-quater e 91-quinquies e abrogazione degli artt. 78-bis e 79-bis della l.r. 31/2008)
   ● Art. 45 - (Modifiche agli artt. 15 e 59 della l.r. 12/2005)
   ● Art. 47 - (Modifiche all’art. 42 della l.r. 6/2012 e conseguente modifica all’art. 3-bis della l.r. 9/2001)
   ● Art. 52 - (Modifica all’art. 22-ter della l.r. 86/1983)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Contenuti della relazione quinquennale sullo stato acustico del Comune ai sensi dell’articolo 7, comma 5, della legge quadro sull’inquinamento acustico n. 447/1995, come modificato dall’articolo 11, comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 42/2017, e in attuazione dell’articolo 27, comma 2, del medesimo decreto legislativo (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.04.2019 n. 105).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENiente incentivi tecnici se l'Ente fa ricorso al partenariato pubblico-privato.
L'incentivo previsto dall'articolo 113 del Dl 50/2016 non spetta se l'ente realizza le opere con strumenti di partenariato pubblico privato.

Con il parere 18.07.2019 n. 309 e parere 18.07.2019 n. 311 la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia torna sulla questione di massima già enunciata dalla Sezione Autonomie (deliberazione 25.06.2019 n. 15 sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 giugno) per ribadire che gli incentivi in questione vanno al personale dipendente dell'ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche in quelli di concessione.
Questi compensi costituiscono un «di cui» delle spese per contratti di appalto e non c'è alcun elemento che possa estendere le disposizioni in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture.
La Sezione delle autonomie aveva, peraltro, rimarcato la difficile conciliabilità del compenso incentivante con le diverse caratteristiche strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto essenzialmente, quelli di appalto comportano spese e quelli di concessioni entrate. Inoltre, è stato rilevato, nel caso di operazioni di notevole entità, che prevedere di pagare incentivi a fronte di flussi di entrata che potrebbero essere incerti esporrebbe l'ente al rischio di insostenibilità. Né si può far affidamento su clausole contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali in quanto non previste per legge, che prevedano la remunerazione dell'incentivo al concessionario.
Con il parere 18.07.2019 n. 310, la Corte lombarda, nel richiamare un precedente parere della Sezione di controllo per la Basilicata, ha rammentato poi che la disciplina degli incentivi tecnici deve necessariamente essere in linea con quella che presiede alla realizzazione di opere e lavori pubblici e, dunque, con le regole che disciplinano la programmazione e l'esecuzione delle opere e dei lavori pubblici, il reperimento delle risorse finanziarie, la predisposizione degli strumenti di bilancio e i principi contabili che presiedono alla sua gestione.
Il ricorso alla prestazione incentivante deve dunque risultare necessariamente coerente con gli strumenti di programmazione economico-finanziaria dell'ente, in particolare con il programma biennale degli acquisti di beni e servizi e con la programmazione dei lavori pubblici disciplinato dall'articolo 21 del Dlgs 50/2016, non essendo possibile procedere alla remunerazione degli incentivi per funzioni tecniche in assenza della necessaria fase della programmazione di acquisti e lavori pubblici e di una procedura comparativa.
Infine, nel riconoscere l'incentivabilità delle funzioni tecniche negli appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria, la Corte ha rimarcato che l'attività deve risultare caratterizzata da problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all'amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara.
In questo contesto normativo e giurisprudenziale compete all'ente interessato la valutazione della sussistenza, in concreto, di attività effettivamente incentivabili e la misura del compenso premiante da riconoscere nel rispetto dei limiti fissati dalla legge (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.07.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa richiesta di parere formulata dal comune su come calcolare l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 per il leasing in costruendo presuppone a monte una valutazione sull’applicabilità della disciplina di cui all’art. 113 citato ad istituti giuridici diversi dai contratti di appalto, quali la concessione o il leasing in costruendo.
Sul punto la sez. Autonomie si è espressa negando un’interpretazione estensiva ed analogica dell’art. 113 che “è calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente si riferisce)”.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale comporta che resti conseguentemente assorbita ogni ulteriore valutazione sul quesito posta dal comune istante.
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Il Sindaco del Comune di San Vittore Olona (MI) ha formulato una richiesta di parere riguardante l’applicazione dell’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 in relazione all’istituto giuridico del Partenariato Pubblico-Privato (P.P.P.) che si realizza mediante proposta di locazione finanziaria di opera pubblica ai sensi dell’art. 187 del su indicato decreto legislativo, avente ad oggetto la progettazione, il finanziamento, la realizzazione, la manutenzione e gestione di opera pubblica.
Tanto premesso, il Sindaco ha formulato il seguente quesito: “…se il fondo per le funzioni tecniche di cui al comma 2 del succitato art. 113 viene calcolato sull’importo dei lavori o sul valore complessivo dell’appalto che è pari alla sommatoria dei canoni di leasing….
In via preliminare, si rammenta che questa Sezione di controllo aveva, con deliberazione 14.03.2019 n. 96 cui si fa rinvio, ritenuto opportuno deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente questione interpretativa di massima di carattere generale: “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio”.
La su indicata questione riguarda, all’evidenza, una valutazione, a monte, sull’applicabilità stessa dell’art. 113 cit., in caso di istituti giuridici diversi dai contratti di appalto (come nella situazione specifica della concessione, che ha portato al deferimento de quo), ma che, a ben guardare, non può non coinvolgere anche altre tipologie di contratti, disciplinati dal D.Lgs n. 50/2016, così come, per l’appunto, il leasing in costruendo, oggetto della richiesta di parere da parte del Comune di San Vittore Olona.
Sulla base delle suesposte considerazioni, questa Sezione, nella camera di consiglio del 22.05.2019, ha sospeso la decisione sul su indicato parere, in attesa della pronuncia sulla questione di massima da parte della Sezione delle autonomie.
...
Con la deliberazione 25.06.2019 n. 15, la Sezione delle autonomie, investita della questione di massima dal Presidente della Corte dei conti con ordinanza n. 10 del 02.05.2019 ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174/2012, ha enunciato il seguente principio di diritto: “
Alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione”.
Per la soluzione delle questioni sopra elencate, la Sezione delle autonomie ha ritenuto imprescindibile risolvere la prima parte del primo quesito posto da questa Sezione, e cioè “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni” in quanto dirimente ai fini del riscontro anche dei successivi.
Condividendo le perplessità interpretative ed applicative segnalate da questa Sezione remittente, legate alla riconoscibilità dell’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del codice dei contratti pubblici anche in caso di concessioni, la Sezione delle autonomie ha osservato come “una piana lettura di quest’ultima disposizione non può indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione”, dovendosi piuttosto osservare che “il citato art. 113 è calibrato inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto”; ciò in particolare alla luce dell’attuale disposto del comma 5-bis della stessa norma, da cui si desume univocamente che i compensi incentivanti “per chiara affermazione del legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.
È stato ulteriormente osservato, al riguardo, che la specialità della fattispecie dei compensi incentivanti di cui trattasi “ha richiesto una disciplina espressa e compiuta, che è declinata nell’art. 113, con indicazione degli ambiti, delle modalità di finanziamento e delle relative procedure di quantificazione e individuazione delle destinazioni, nonché della natura degli emolumenti accessori (e per quest’ultimo profilo è stato necessario un ulteriore intervento legislativo). Non sembra praticabile, quindi, un’interpretazione estensiva ed analogica”.
In conclusione, la Sezione delle autonomie ha ritenuto che “
per ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche si dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di concessione”.
In considerazione di quanto suesposto, e nel convincimento che il principio di diritto enunciato dalla Sezione romana, trovi completa e totale applicazione non solo nell’ipotesi di concessione, ma anche nel caso in cui la questione attenga ad altre forme contrattuali come, per l’appunto, nel caso di forme di “Partenariato Pubblico Privato”, il Collegio, nell’aderire all’interpretazione seguita dalla Sezione delle autonomie, ritiene che vada adottata un’interpretazione estensiva della su indicata prospettazione esegetica anche nei confronti dei contratti di leasing in construendo, oggetto della richiesta di parere che ne occupa. In disparte, l’espresso rinvio, tra l’altro, dell’art. 179, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016 (Partenariato pubblico-privato) al precedente art. 164, comma 2, dettato in tema di concessioni, ai fini dell’individuazione delle norme da applicare.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale, legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche in caso di contratti di partenariato P.P., comporta che resti conseguentemente assorbita ogni ulteriore valutazione sul quesito posta dal comune istante (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.07.2019 n. 311).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHENon è possibile procedere alla remunerazione degli incentivi per funzioni tecniche in assenza della necessaria fase della programmazione di acquisti e lavori pubblici e di una procedura comparativa.
I compensi incentivanti in parola sono erogabili, in caso di appalti di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità.
Compete all’ente interessato la valutazione circa la sussistenza, in concreto, di attività effettivamente incentivabili nel quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
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Il Presidente della Provincia di Bergamo ha inviato la richiesta di parere sopra indicata in materia di incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e s.m.i.
In particolare, il Presidente dell’Ente sopra richiamato, premessi alcuni riferimenti alla giurisprudenza contabile in materia, con particolare riguardo ai principi di diritto enucleati dalla Sezione delle Autonomie nella deliberazione 09.01.2019 n. 2, chiede, per quanto possibile evincere dall’istanza:
   1. se “è possibile riconoscere l’incentivo anche per le attività connesse all’esecuzione di lavori che per il loro importo non richiedono l’inserimento nel programma di lavori pubblici;
   2. se, con riguardo agli appalti relativi a servizi e forniture, «è corretto ritenere che l’incentivo possa essere previsto nel solo caso in cui “deve essere nominato” il direttore dell’esecuzione» e “quindi nel solo caso di servizi di importo superiore a 500.000;
   3. se è possibile “ritenere che la previsione dell’incentivo negli stanziamenti di spesa previsti per i singoli appalti sia una previsione non obbligatoria ma anzi consentita nel solo caso di procedure di particolare complessità;
...
In ossequio alla costante giurisprudenza delle Sezioni di controllo le questioni poste nella richiesta di parere in esame possono essere analizzate in chiave generale e astratta, non essendo scrutinabili nel merito istanze concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici, in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei conti, incompatibile con le funzioni alla stessa attribuite dal vigente ordinamento e con la sua fondamentale posizione di indipendenza e neutralità.
Conseguentemente, il Collegio prenderà in esame i quesiti formulati dall’Amministrazione comunale offrendo una lettura interpretativa generale del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, non potendo costituire, di contro, oggetto di valutazione da parte della Sezione i profili inerenti alla legittimità delle singole corresponsioni dei predetti incentivi al personale dell’Ente.
Posto quanto sopra, i quesiti formulati dall’Ente saranno esaminati nei loro aspetti generali ed astratti, dovendosi, altresì, rimarcare, avuto riguardo a quanto osservato nell’istanza in esame, che questa Sezione ritiene di non avere competenze né in ordine al chiarimento dei principi espressi in materia dalla Sezione delle Autonomie, né, in generale, in merito all’interpretazione di decisioni di altre Sezioni della Corte dei conti.
La risposta nel merito ai quesiti posti presuppone una sintetica disamina del quadro normativo di riferimento e dei principali orientamenti espressi dalla giurisprudenza contabile in materia.
L’art. 113 del menzionato d.lgs. n. 50/2016 fissa la possibilità di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Amministrazioni pubbliche espletante specifiche attività all’interno delle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Nello specifico, la norma in discorso prevede che, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici possano destinare ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2% modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse ivi espressamente indicate (programmazione della spesa per investimenti, valutazione preventiva dei progetti, predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, funzioni di RUP, direzione dei lavori o direzione dell’esecuzione e collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti).
La costituzione del fondo non è prevista da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale.
Rispetto alla normativa previgente (art. 93, comma 7-bis e ss., del d.lgs. 12.04.2006, n. 163) la disposizione in esame trova espressa applicazione non solo per gli appalti di lavori, ma anche per quelli relativi a servizi o forniture nel caso in cui (secondo le integrazioni apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56) sia stato nominato il direttore dell’esecuzione.
Il tenore letterale della norma, che fa espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una procedura comparativa (cfr., ex multis, di questa Sezione parere 09.06.2017 n. 190; Sez. controllo Puglia deliberazione 09.02.2018 n. 9 e parere 22.05.2019 n. 52; Sez. controllo Marche parere 08.06.2018 n. 28; Sez. controllo Liguria parere 21.12.2018 n. 136; Sez. controllo Piemonte parere 09.10.2017 n. 177).
Il ricorso al predetto meccanismo premiale è subordinato alla preventiva approvazione, da parte dell’Amministrazione, di un regolamento interno e alla conclusione di un accordo di contrattazione decentrata in cui vanno regolati i criteri di ripartizione fra i dipendenti interessati.
Nel succitato regolamento -la cui adozione è considerata, nella giurisprudenza contabile (cfr., ex multis, Sez. controllo Veneto parere 07.09.2016 n. 353; Sez. controllo Regione autonoma Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6) condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo- vanno individuate le modalità ed i criteri della ripartizione dei compensi incentivanti, oltre alla percentuale, che, comunque, non può superare i limiti quantitativi posti dalla medesima norma.
In particolare il comma 3 dell’art. 113 prevede che “l’ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2” possa essere ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, con le modalità sopra indicate, “tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”. Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture; attivazione di tirocini formativi e di orientamento; svolgimento di dottorati di ricerca, etc.).
La norma fissa, inoltre, un limite individuale alla corresponsione degli incentivi in parola, stabilendo che, complessivamente, nel corso dell’anno, un singolo dipendente non possa percepire emolumenti di importo superiore al 50% del proprio trattamento economico annuo lordo. Il comma 3 precisa, inoltre, che gli importi indicati devono essere “comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione”.
L’art. 1, comma 526, della legge 27.12.2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) ha introdotto il comma 5-bis all’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 il quale prevede testualmente che «Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Il nuovo intervento normativo ha definitivamente chiarito che gli incentivi per le funzioni tecniche non fanno carico ai capitoli della spesa del personale, ma devono essere ricompresi nel quadro economico del singolo contratto: com’è noto, sulla base dello ius superveniens, la Sezione delle Autonomie (intervenendo nuovamente sulla questione alla luce del mutato contesto normativo di seguito alle deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24) ha affermato che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 (Corte Conti, Sezione delle autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Ancora,
il prevalente orientamento della giurisprudenza consultiva (in termini Sez. controllo Toscana parere 10.10.2018 n. 63; Sez. controllo Liguria parere 21.12.2018 n. 136; Sez. controllo Puglia parere 12.12.2018 n. 162) rimarca come l’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016, allo scopo di erogare l’incentivo, richieda l’effettivo svolgimento di una delle attività tassativamente elencate dalla norma di riferimento.
Difatti (cfr. Sez. controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57)
gli incentivi devono essere correlati allo svolgimento delle prestazioni tecniche realmente svolte, in modo da remunerare il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai dipendenti; sotto questo profilo la norma, al comma 3, prevede che la corresponsione dell’incentivo sia disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti.
Tanto premesso, è possibile passare all’esame nel merito della richiesta di parere avanzata dalla Provincia di Bergamo.
Con il primo quesito l’Ente chiede se sia possibile riconoscere l’incentivo anche per le attività connesse all’esecuzione di lavori che per il loro importo non richiedono l’inserimento nel programma di lavori pubblici.
Sul punto la Sezione, nel rammentare le condizioni sopra indicate ai fini della legittima corresponsione dei compensi in discorso, richiama all’attenzione dell’istante le osservazioni, formulate dalla giurisprudenza di questa Corte già nel previgente quadro normativo in tema di incentivi tecnici, secondo cui (cfr. Sez. controllo Basilicata, parere 12.02.2015 n. 3)
la disciplina degli stessi deve necessariamente essere in linea “con quella che presiede alla realizzazione di opere e lavori pubblici”, segnatamente con le regole che “disciplinano la programmazione e l’esecuzione delle opere e dei lavori pubblici, il reperimento delle relative risorse finanziarie, la predisposizione degli strumenti di bilancio e i principi contabili che presiedono alla sua gestione”, dovendosi, in particolare, notare che mentre il programma triennale costituisce momento di “identificazione e quantificazione dei bisogni e delle priorità dell’Ente”, “è con l’inserimento del lavoro o dell’opera nell’elenco annuale che si passa alla fase della verifica della sostenibilità finanziaria della stessa in relazione alle risorse dell’Ente”.
Del resto, già nella citata deliberazione 14.03.2019 n. 96, la Sezione ha avuto modo di rilevare che
il ricorso alla prestazione incentivante deve risultare necessariamente coerente con gli strumenti di programmazione economico-finanziaria dell’ente, con particolare riguardo al programma biennale degli acquisti di beni e servizi e alla programmazione dei lavori pubblici di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016, in linea, peraltro, con la centralità della fase della programmazione evidenziata dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. il parere 13.02.2017 n. 351 del Consiglio di Stato n. 351/2017, approvato nell’Adunanza della Commissione speciale del 09.01.2017, sullo schema di decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze recante “Procedure e schemi-tipo redazione e pubblicazione programma triennale lavori pubblici, programma biennale acquisizione di forniture e servizi relativi elenchi e aggiornamenti annuali, art. 21, comma 8, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”).
Più di recente, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte nel parere 19.03.2019 n. 25, ha espresso l’avviso -da cui questa Sezione non rinviene ragioni per discostarsi- per cui, avuto riguardo al principio del buon andamento dell’azione amministrativa fissato dall’art. 97 Cost.,
non sia possibile procedere alla remunerazione degli incentivi per funzioni tecniche in assenza della descritta e necessaria fase della programmazione di acquisti e lavori pubblici (declinata all’art. 21 del d.lgs. n. 50/2016) e di una procedura comparativa.
Va, peraltro, precisato che
l’art. 21, comma 3, del codice dei contratti pubblici dispone che il programma triennale dei lavori pubblici e i relativi aggiornamenti annuali contengano i lavori di importo stimato pari o superiore a 100.000 euro, lasciando impregiudicata, per le amministrazioni aggiudicatrici, la facoltà di includere nei programmi anche interventi di importo inferiore a detta soglia.
Con il secondo quesito l’Ente chiede se, relativamente agli appalti di servizi e forniture, sia corretto ritenere che il compenso premiante possa essere riconosciuto nel solo caso in cui risulti obbligatoria la nomina del direttore dell’esecuzione e, quindi, nel solo caso di servizi di importo superiore a 500.000.
In proposito la Sezione richiama quanto già osservato nella propria precedente deliberazione 14.03.2019 n. 96.
Nella circostanza è stato osservato come, per effetto delle modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017,
i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta -come osservato dalla Sezione delle Autonomie nella precitata deliberazione 09.01.2019 n. 2- secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
L’art. 111, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 prevede che, di norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture coincida il responsabile unico del procedimento, ma la disciplina di attuazione contenuta nelle Linee guida A.N.AC. n. 3 – par. 10.2 sopra richiamate individua espressamente i casi in cui il direttore dell’esecuzione del contratto non può coincidere con il responsabile del procedimento (tra cui proprio quelli di prestazioni di importo superiore a 500.000 euro e interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico).
Dal disposto normativo sopra richiamato risulta, dunque, che,
nei suddetti casi, anche ai fini dell’erogazione dei predetti compensi incentivanti nell’ambito di servizi e forniture, la figura del direttore dell’esecuzione del contratto deve essere diversa da quella del responsabile unico del procedimento: diversamente opinando, in siffatte ipotesi, “nessun dipendente svolgente le funzioni enumerate dal comma 2 dell’articolo 113 può percepire compensi incentivanti (in questi termini cfr. Sez. controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57).
Sulla questione si è recentemente espressa anche la Sezione regionale di controllo per il Veneto nel parere 21.05.2019 n. 107 che
ha escluso la possibilità di inserire, nel regolamento comunale approvato ai sensi dell’art. 113, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016, disposizioni derogatorie del predetto precetto normativo che riconoscano detto compenso anche per appalti aventi ad oggetto prestazioni di valore inferiore a € 500.000 o per i quali non sussista l’obbligo di nominare come direttore dell’esecuzione un soggetto diverso dal RUP.
Con il terzo quesito si chiede se, alla luce dell’inciso contenuto al comma 2, dell’art. 113 sopra richiamato -che collega la remunerazione delle funzioni tecniche ivi indicate alla necessità di “consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”- sia d’uopo “ritenere che la previsione dell’incentivo negli stanziamenti di spesa previsti per i singoli appalti sia una previsione non obbligatoria ma anzi consentita nel solo caso di procedure di particolare complessità”.
Sul punto la Sezione non può che richiamare il rispetto delle rigorose condizioni sostanziali e procedurali che legittimano l’erogazione dell’incentivo di cui trattasi, la cui finalità, come recentemente osservato è “anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva” (così Sez. controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57, cit.); ciò nel quadro di un accrescimento di “efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso d’opera” (Sez. controllo Toscana parere 14.12.2017 n. 186).
In tale quadro si colloca l’avviso espresso dalla Sezione delle autonomie nella deliberazione 09.01.2019 n. 2 che, nel riconoscere, sempre nel rispetto delle suddette condizioni previste dalla norma, l’incentivabilità delle funzioni tecniche
negli appalti di manutenzione straordinaria e ordinariadi particolare complessità”, ha rimarcato che “l’attività deve risultare caratterizzata da problematiche realizzative di particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da parte del personale interno all’amministrazione affinché il procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti posti a base di gara, del progetto”.
Nel predetto contesto normativo e giurisprudenziale compete all’ente interessato la valutazione circa la sussistenza, in concreto, di attività effettivamente incentivabili (in questi termini, da ultimo, Sezione regionale di controllo per il Veneto parere 09.04.2019 n. 72) e la misura del compenso premiante da riconoscere nel rispetto dei limiti fissati dalla legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.07.2019 n. 310).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEAlla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 s.m.i., gli incentivi per funzioni tecniche ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale, legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche in caso di contratti di concessione, importa che restino conseguentemente assorbiti gli ulteriori quesiti posti dal Comune di Voghera.
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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Voghera (PV), in vista dell’affidamento in concessione, mediante procedura ad evidenza pubblica, della gestione della segnaletica direzionale, di impianti pubblicitari di servizio, di impianti pubblicitari e di cartellonistica stradale sul suolo pubblico, ha investito questa Sezione dei seguenti quesiti:
   1. «se anche nel caso in cui il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, l’incentivo per funzioni tecniche debba essere determinato sul valore posto a base di gara e quindi sul fatturato presunto»;
   2. «in caso affermativo, considerato che il canone è versato in quote annuali nella misura di € 20.500 e che l’incentivo, pari a € 62.500, deve invece essere riconosciuto in correlazione all’esigibilità della prestazione effettivamente svolta, se è corretto che l’Ente anticipi, a valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da erogare al personale dipendente»;
   3. «considerato che l’art. 113, comma 5-bis, d.lgs. 50/2016 prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavoro, servizi e forniture” quale condizione per poter considerare detti importi esclusi dal limite di cui all’art. 23, comma 2, d.lgs. 75/2017 (Corte Conti Sezione delle Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6), e che in questo caso non vi è un capitolo di spesa in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione della concessione, in questo caso come occorre contabilizzare l’importo per incentivi per soddisfare la condizione necessaria all’esclusione dal limite previsto per il salario accessorio»;
   4. se «stante il combinato disposto degli articoli 31, comma 5 e 113, comma 2, ult. Cpv. del D.Lgs. 50/2016 e viste le Linee guida ANAC n. 3, approvate con deliberazione n. 1007 dell’11/10/2017, con cui al punto 10.2 è stato definito l’importo massimo e la tipologia dei servizi e forniture per le quali il RUP può coincidere con il direttore dell’esecuzione del contratto, è legittimo, nel caso prospettato, riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche nel caso in cui, con provvedimento dirigenziale, sia nominato direttore dell’esecuzione il RUP. In caso affermativo se è corretto corrispondere al medesimo dipendente l’incentivo sia per le funzioni di RUP che di direttore dell’esecuzione del contratto».
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Con la deliberazione 14.03.2019 n. 96 cui si fa rinvio, questa Sezione, dopo aver dichiarato inammissibile l’ultimo quesito posto dall’Ente in quanto afferente ad una questione di ordine meramente gestionale e, come tale rimessa, alla discrezionalità e responsabilità dell’istante, ha ritenuto opportuno, a monte, deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente questione interpretativa di massima di carattere generale: “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio”.
Nell’ipotesi in cui la questione di massima sopra illustrata fosse stata definita nel senso dell’ammissibilità degli incentivi per funzioni tecniche in ipotesi di concessioni, la Sezione ha ritenuto che le problematiche poste dal Comune, in particolare con il terzo e il quarto quesito, potessero dare luogo alle ulteriori seguenti questioni di massima da porre all’attenzione della sede nomofilattica, dirimenti ai fini della necessità di orientare in termini generali l’autonomia regolamentare dei soggetti interessati:
   - “quali siano le corrette modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto di concessione”;
e, sempre in via subordinata:
   - “se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e individuali, che devono essere osservati nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno specifico stanziamento previsto nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1 dello stesso art. 113”.
Le questioni sopra enunciate sono state, così, rimesse al Presidente della Corte dei conti per la valutazione sull’opportunità di deferimento delle stesse alla Sezione delle autonomie o alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012 n. 174 (convertito, con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213).
Con la deliberazione 25.06.2019 n. 15, la Sezione delle autonomie, investita della questione di massima dal Presidente della Corte dei conti con ordinanza n. 10 del 02.05.2019 ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174/2012, ha enunciato il seguente principio di diritto: “
Alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione”.
Per la soluzione delle questioni sopra elencate, la Sezione delle autonomie ha ritenuto imprescindibile risolvere la prima parte del primo quesito posto da questa Sezione, e cioè “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni” in quanto dirimente ai fini del riscontro anche dei successivi.
Condividendo le perplessità interpretative ed applicative segnalate da questa Sezione remittente, legate alla riconoscibilità dell’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del codice dei contratti pubblici anche in caso di concessioni, la Sezione delle autonomie ha osservato come “una piana lettura di quest’ultima disposizione non può indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione”, dovendosi piuttosto osservare che “il citato art. 113 è calibrato inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto”; ciò in particolare alla luce dell’attuale disposto del comma 5-bis della stessa norma, da cui si desume univocamente che i compensi incentivanti “per chiara affermazione del legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.
È stato ulteriormente osservato, al riguardo, che la specialità della fattispecie dei compensi incentivanti di cui trattasi “ha richiesto una disciplina espressa e compiuta, che è declinata nell’art. 113, con indicazione degli ambiti, delle modalità di finanziamento e delle relative procedure di quantificazione e individuazione delle destinazioni, nonché della natura degli emolumenti accessori (e per quest’ultimo profilo è stato necessario un ulteriore intervento legislativo). Non sembra praticabile, quindi, un’interpretazione estensiva ed analogica”.
In tale prospettiva la Sezione delle autonomie ha condiviso talune criticità applicative prospettate da questa Sezione remittente, rimarcando la difficile conciliabilità del compenso in esame con le “diverse caratteristiche strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto essenzialmente, quelli di appalto comportano spese e quelli di concessioni entrate”; inoltre, è stato rilevato, “nel caso di operazioni di notevole entità, prevedere di pagare incentivi a fronte di flussi di entrata che potrebbero essere incerti esporrebbe l’ente al rischio di insostenibilità. Né si può far affidamento su clausole contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali in quanto non previste per legge, che prevedano la remunerazione dell’incentivo in capo al concessionario”.
In conclusione, la Sezione delle autonomie ha ritenuto che “per ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche si dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di concessione”.
Questa Sezione regionale, pertanto, in applicazione del sopra richiamato principio di diritto, aderisce all’interpretazione seguita dalla Sezione delle autonomie in forza della quale, alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale, legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche in caso di contratti di concessione, importa che resti conseguentemente assorbita ogni ulteriore valutazione sugli altri quesiti posti dal Comune di Voghera (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.07.2019 n. 309).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici solo per i contratti d'appalto. Non per le concessioni.
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere destinati al personale dipendente degli enti locali esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.

Con la deliberazione 25.06.2019 n. 15 la sezione autonomie della Corte conti ha fornito l'esatta portata applicativa dell'art. 113 del Codice appalti (dlgs n. 50/2016), ponendo un freno ai tentativi interpretativi di alcune sezioni regionali (Veneto e Lombardia) che invece avevano optato per letture estensive.
La sezione autonomie ha osservato che il Codice ha compiutamente disciplinato i contratti di concessione distinguendoli da quelli di appalto. E quando invece ha voluto riferirsi ad entrambe le tipologie ha usato l'espressione più generica «contratti pubblici». Non solo. L'art. 113, ha chiarito la Corte, «è inequivocabilmente calibrato sui contratti di appalto» come dimostra la lettura dei commi 1, 2, 3 e 5 ma soprattutto il disposto del comma 5-bis, aggiunto dalla legge di bilancio 2018, che così recita: «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
Secondo la Corte è proprio quest'ultima disposizione a risultare decisiva per risolvere la questione, dal momento che i compensi incentivanti costituiscono un «di più» delle spese per i contratti d'appalto e non vi è «alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le disposizioni dell'articolo anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture».
Non solo. Le remunerazioni per funzioni tecniche sono escluse dal tetto di spesa per le retribuzioni previsto dai vincoli di finanza pubblica, in quanto partecipano della stessa natura dei contratti cui accedono (articolo ItaliaOggi del 29.06.2019).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEConcessioni di lavori o servizi definitivamente fuori dagli incentivi tecnici.
All'apertura sulla possibile remunerazione degli incentivi tecnici anche allo operazioni di partenariato pubblico privato, dove trovano posto anche le concessioni di lavori o servizi, si era pronunciata la Corte dei conti del Veneto (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.07.2018), successivamente stoppata dalla sezione Lombardia (deliberazione 14.03.2019 n. 96), a seguito di rilevanti dubbi sulla percorribilità di questa apertura, rimettendo la questione di massima alla Sezione delle Autonomie.
Quest'ultima, con la deliberazione 25.06.2019 n. 15, evitando interpretazione analogiche o estensive, ha negato la possibilità di remunerare le concessioni di lavori o di servizi (e in generale tutte le operazioni di partenariato pubblico privato) per la piana lettura dell'articolo 113 del Dlgs n. 50/2016, che al comma 1 stabilisce in modo inequivocabile che «fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti», escludendo in via diretta le concessioni di lavori o di servizi.
La ricostruzione della sezione Veneto
Pur evidenziando difficoltà nell'interpretazione che estenda anche alle concessioni di lavori o di servizi la remunerazione degli incentivi tecnici, i giudici contabili veneti (parere 21.06.2018 n. 198
e parere 27.11.2018 n. 455) ne hanno consentito la rimuneratività, sia in considerazione della unitarietà della nozione di contratti pubblici, sia in riferimento ad altri articoli del codice dei contratti che prevedono le stesse figure professionali previste per gli appalti pubblici (Responsabile unico del procedimento; collaudatore della esecuzione dei contratti).
I dubbi della sezione Lombardia
I giudici contabili lombardi (deliberazione 14.03.2019 n. 96) pur condividendo le indicazioni dei colleghi veneti, tuttavia se ne dissociano a fronte di alcuni problemi operativi di difficile soluzione. Anzi ne fiutano i pericoli, spostando l'attenzione sulla possibile ricaduta, in termini di programmazione e impatto sul bilancio degli enti locali, del riconoscimento di questi ulteriori incentivi, che dovrebbero coerentemente inserirsi nel programma biennale degli acquisti di beni e servizi, nonché nella programmazione dei lavori pubblici.
A differenza dei contratti di appalto, infatti, i cui oneri finanziari gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture, per i contratti di concessione non c'è un capitolo di spesa dedicato, in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione del contratto.
Il rischio, pertanto, sarebbe quello che, per l'ente concedente, potrebbero derivare oneri non sostenibili, soprattutto ove si tratti di concessioni relative a lavori o servizi con elevato volume d'affari e in fase di programmazione non sia stato adeguatamente ponderato e parametrato, anche a tali fini, il canone dovuto dal concessionario, quale unica entrata destinata al finanziamento della premialità.
Proprio in considerazione di tali rilevanti dubbi, il collegio contabile ha chiesto uno specifico intervento della sezione delle Autonomie.
Le indicazione della sezione Autonomie
Per i giudici della nomofilachia contabile, anche a fronte dei rischi paventati di dover fare ricorso a uno stanziamento di spesa specifico non previsto per legge e, quindi, di dubbia legittimità, senza contare che la copertura finanziaria, essendo legata alla riscossione dei canoni concessori, resta gravata da un margine di aleatorietà, dispone della non estensibilità ai contratti di concessione di lavori e servizi degli incentivi, sulla base della sola lettura dell'articolo 113 del codice dei contratti.
Quest'ultimo articolo, infatti, al comma 1, prevede che «fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti» escludendo in tal modo eventuali incentivi per concessione di lavori o di servizi.
Pertanto, lanciando un monito alle sezione regionali, non è possibile con operazioni ermeneutiche estensive dichiarare cose diverse da quanto stabilito dalla legge, in quanto tale operazione di lettura travalica la competenza di chi è chiamato a interpretare e applicare le norme (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.06.2019).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEAlla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.
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   - Vista la deliberazione 14.03.2019 n. 96, con la quale la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, in riferimento alla richiesta di parere presentata dal Sindaco del Comune di Voghera, ha rimesso al Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, e dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, una questione di massima in merito alla riconoscibilità degli incentivi per funzioni tecniche, nel caso di concessione di servizi con procedura ad evidenza pubblica, nonché, in via subordinata, alle corrette modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto di concessione e alla possibilità di esclusione di detti incentivi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017;
...
PREMESSO
1. Il Comune di Voghera (PV), in vista dell’affidamento in concessione, mediante procedura ad evidenza pubblica, della gestione della segnaletica direzionale, di impianti pubblicitari di servizio, di impianti pubblicitari e di cartellonistica stradale sul suolo pubblico, ha investito la Sezione regionale di controllo per la Lombardia dei seguenti quesiti:
   1. «se anche nel caso in cui il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, l’incentivo per funzioni tecniche debba essere determinato sul valore posto a base di gara e quindi sul fatturato presunto»;
   2. «in caso affermativo, considerato che il canone è versato in quote annuali nella misura di € 20.500 e che l’incentivo, pari a € 62.500, deve invece essere riconosciuto in correlazione all’esigibilità della prestazione effettivamente svolta, se è corretto che l’Ente anticipi, a valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da erogare al personale dipendente»;
   3. «considerato che l’art. 113, comma 5-bis, d.lgs. 50/2016 prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavoro, servizi e forniture” quale condizione per poter considerare detti importi esclusi dal limite di cui all’art. 23, comma 2, d.lgs. 75/2017 (Corte Conti Sezione delle Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6, e che in questo caso non vi è un capitolo di spesa in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione della concessione, in questo caso come occorre contabilizzare l’importo per incentivi per soddisfare la condizione necessaria all’esclusione dal limite previsto per il salario accessorio»;
   4. se «stante il combinato disposto degli articoli 31, comma 5 e 113, comma 2, ult. Cpv. del D.Lgs. 50/2016 e viste le Linee guida ANAC n. 3, approvate con deliberazione n. 1007 dell’11/10/2017, con cui al punto 10.2 è stato definito l’importo massimo e la tipologia dei servizi e forniture per le quali il RUP può coincidere con il direttore dell’esecuzione del contratto, è legittimo, nel caso prospettato, riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche nel caso in cui, con provvedimento dirigenziale, sia nominato direttore dell’esecuzione il RUP. In caso affermativo se è corretto corrispondere al medesimo dipendente l’incentivo sia per le funzioni di RUP che di direttore dell’esecuzione del contratto».
La Sezione remittente ha dichiarato inammissibile l’ultimo quesito (se sia legittimo riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche al RUP nominato, con provvedimento dirigenziale, direttore dell’esecuzione del contratto e se sia possibile riconoscere al medesimo dipendente l’incentivo tanto per le funzioni di RUP che per quelle di direttore dell’esecuzione), ritenendolo relativo ad una questione di ordine meramente gestionale e, come tale rimessa, alla discrezionalità e responsabilità dell’ente istante.
In via meramente collaborativa la Sezione ha comunque osservato che «
i compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il direttore dell’esecuzione, nomina richiesta -come recentemente osservato dalla Sezione delle autonomie nella precitata deliberazione 09.01.2019 n. 2- secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di particolare complessità».
2. Per quanto riguarda il primo quesito posto dalla Sezione remittente («se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio») va subito precisato che, in realtà, esso deve essere scomposto in due parti: la prima relativa alla questione della riconoscibilità degli incentivi tecnici anche nel caso di contratti di “concessione” e non di “appalto”; la seconda, eventuale e solo in caso di risposta affermativa alla prima, relativa al parametro da utilizzare per la determinazione del compenso in questa specifica fattispecie.
Con riferimento alla riconoscibilità dell’incentivo in caso di contratti di concessione, sono richiamate, in proposito, due deliberazioni della Sezione regionale di controllo per il Veneto (parere 21.06.2018 n. 198
e parere 27.11.2018 n. 455) secondo le quali gli incentivi sarebbero da riconoscere anche nel caso di contratti di concessione.
La predetta Sezione, pur partendo dalle difficoltà ermeneutiche dovute alla sedes materiae (in quanto l’art. 113, che disciplina gli incentivi è collocato nel titolo II della seconda parte del codice, dedicata ai contratti di appalto), nonché alla individuazione della portata del rinvio alle disposizioni codicistiche in tema di appalto contenuto all’art. 164, comma 2 (in particolare se detto «rinvio vada inteso esclusivamente con riferimento agli aspetti prettamente procedurali dell’esecuzione del contratto o, in senso più ampio, a tutte le norme, con l’unico limite della “compatibilità”, che disciplinano la fase dell’esecuzione, ivi compresa la disposizione sull’incentivabilità delle funzioni tecniche»), è giunta tale conclusione sulla base delle argomentazioni di seguito sinteticamente riportate.
   a) La tesi estensiva sarebbe suffragata da ampiezza di argomenti testuali e logico-sistematici da cui si evince che «quando il legislatore abbia inteso non incentivabili attività annoverabili tra le funzioni tecniche svolte nell’ambito di certi contratti pubblici lo ha fatto esplicitamente».
   b) L’incentivabilità delle funzioni tecniche sarebbe prevista in altre disposizioni del codice espressamente applicabili anche alle concessioni o indistintamente riferite a tutti i contratti pubblici: tali situazioni sono ritenute rinvenibili nell’art. 31, comma 12, in riferimento al ruolo e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e nelle concessioni, nonché nell’art. 102, comma 6, il quale prevede che il compenso spettante per l’attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti pubblici (senza alcuna distinzione) è ricompreso, per i dipendenti della stazione appaltante, nell’ambito dell’incentivo di cui all’art. 113.
   c) Rileverebbe, ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di incentivi per funzioni tecniche, una nozione unitaria di contratti pubblici imposta dal diritto positivo (cfr. art. 3, comma 1, lett. dd), del Codice) e comprensiva sia dei contratti di appalto che di concessione, con la fondamentale differenza del c.d. rischio operativo insito nella concessione che giustifica la diversa forma di remunerazione accordata, in tale caso, all’operatore economico.
   d) L’ipotesi estensiva sarebbe confortata anche dalla ratio sottesa al riconoscimento del meccanismo premiale, che sarebbe «anzitutto quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con aggravio della spesa complessiva» (SRC Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).
La Sezione remittente richiama, in proposito, anche le deliberazioni della Sezione regionale di controllo Toscana, parere 10.10.2018 n. 63; della Sezione Puglia parere 12.12.2018 n. 162; della Sezione delle autonomie deliberazione 09.01.2019 n. 2. Si precisa che si tratta di pronunce, comunque, che non hanno affrontato casi di contratti di concessione.
Conclusivamente, la Sezione rimettente, pur ritenendo condivisibile la posizione assunta dalla Sezione Veneto, ha ritenuto di dover chiedere una pronuncia di orientamento generale in ordine all’incentivabilità delle funzioni tecniche in materia di concessioni, in assenza di un dato positivo univoco, nonché in considerazione della specialità che contraddistingue la disciplina degli incentivi per le funzioni tecniche rispetto al principio generale della onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici.
La Sezione sottolinea, altresì, l’attenzione alla possibile ricaduta, in termini di programmazione e impatto sul bilancio degli enti locali, del riconoscimento di questi ulteriori incentivi, che dovrebbero coerentemente inserirsi nel programma biennale degli acquisti di beni e servizi, nonché alla programmazione dei lavori pubblici di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Sulla base di dette argomentazione viene formulata la prima parte del primo quesito posto alla Sezione delle autonomie e cioè «se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni…».
3. Con la seconda parte del primo quesito si chiede «se (…) il compenso premiale, anche laddove il flusso economico derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone concessorio».
Nei contratti di appalto, infatti, gli oneri finanziari per siffatti compensi gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture: pertanto, già nell’ambito delle risorse destinate al contratto pubblico, una parte viene accantonata per detta finalità.
Come rilevato dal rappresentante dell’Ente istante, per il contratto di concessione che ha dato luogo alla richiesta di parere, non vi è un capitolo di spesa dedicato in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione del contratto.
La Sezione Lombardia, in adesione ad un precedente orientamento già espresso dalla Sezione Veneto (parere 27.11.2018 n. 455, anche alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa), è dell’avviso che l’incentivo per funzioni tecniche in caso di concessioni, dovrebbe essere determinato non già con riferimento al canone dovuto dal concessionario, ma solo con riguardo al valore posto a base di gara.
Si ipotizza, inoltre, che nell’ambito della libertà contrattuale dell’Amministrazione potrebbe essere prevista, in sede di corrispettivo, una modalità di finanziamento degli oneri connessi, con soluzioni negoziali che pongano di fatto a carico del concessionario la quota di compenso incentivante da riconoscere al personale dell’Ente (SRC Veneto parere 21.06.2018 n. 198).
Peraltro, la Sezione remittente rileva che per l’ente concedente potrebbero derivare oneri non sostenibili, soprattutto ove si tratti di concessioni relative a lavori o servizi con elevato volume d’affari e in fase di programmazione non sia stata adeguatamente ponderato e parametrato, anche a tali fini, il canone dovuto dal concessionario, quale unica entrata destinata al finanziamento della premialità.
4. Con il secondo quesito si chiede in via subordinata «quali siano le corrette modalità di contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto di concessione».
Ai sensi dell’art. l’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs. n. 50/2016, gli incentivi in discorso gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture.
L’Ente chiede se sia corretto che anticipi, a valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da erogare al personale dipendente per le prestazioni incentivate sopra richiamate. In proposito la Sezione richiama in primo luogo il costante orientamento della giurisprudenza contabile (cfr. Sezione regionale di controllo Toscana, parere 10.10.2018 n. 63; Sezione regionale di controllo Liguria, parere 21.12.2018 n. 136) che rimarca come l’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016, allo scopo di erogare l’incentivo, richieda l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento.
Inoltre, osserva che, in caso di concessione (ove se ne ammettesse la praticabilità), per la previsione di apposito stanziamento destinato ad alimentare il fondo di cui all’art. 113, comma 2, appare necessaria un’attenta valutazione in ordine alle risorse a tale scopo devolvibili e in merito all’opportunità di adottare specifiche misure prudenziali rispetto al rischio di mancata riscossione del canone da parte del concessionario.
5. Con il terzo quesito si chiede «se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e individuali, che devono essere osservati nell’erogazione possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs. 50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno specifico stanziamento previsto nel bilancio dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1 dello stesso art. 113».
La remittente richiama quanto affermato dalla Sezione delle autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6), in ordine al fatto che con l’inserimento del predetto comma 5-bis all’interno dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, il legislatore ha inteso compiere «un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche» e che «l’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale».
I profili problematici individuati dalla Sezione remittente sono dati dalla circostanza che:
   a) gli oneri in questione devono trovare copertura negli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o, comunque, “nei bilanci delle stazioni appaltanti”;
   b) come chiarito dalla Sezione delle autonomie (cfr. deliberazione 26.04.2018 n. 6 e deliberazione 09.01.2019 n. 2) gli emolumenti sono erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture, e ciò «comporta che gli stessi si configurino, non più solo come spesa finalizzata ad investimenti, ma anche come spesa di funzionamento e, dunque, come spesa corrente», con la conseguenza che l’impegno di spesa va assunto, a seconda della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o nel Titolo II dello stato di previsione del bilancio.
La Sezione remittente, infatti, ritiene necessario chiarire in via nomofilattica se l’inclusione dell’incentivo nel medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture si ponga sempre come condicio sine qua non ai fini dell’esclusione dal limite normativo previsto per il salario accessorio dall’art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017, atteso che per quanto riguarda i contratti di concessione si dovrebbe far riferimento ad uno stanziamento ad hoc, al di fuori di quanto espressamente previsto per i contratti di lavori servizi e forniture.
CONSIDERATO
1. Per la soluzione delle questioni sottoposte all’esame della Sezione delle autonomie, come sopra riepilogate, appare imprescindibile risolvere la prima parte del primo quesito posto dalla Sezione istante, e cioè “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di concessioni”.
La risposta a questo quesito, evidentemente, condiziona i successivi. Anche se, come si riferirà, in definitiva l’esame delle richieste subordinate contribuisce a far chiarezza sulla principale.
2. Ritiene innanzi tutto il Collegio che l’interpretazione estensiva propugnata dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto, dalla quale prende le mosse la Sezione lombarda, suscita perplessità. La stessa Sezione remittente, peraltro, pur affermando una sostanziale adesione all’orientamento citato non può esimersi dal rilevare una serie di criticità interpretative ed applicative, sulla scorta delle quali ha ritenuto, infatti, di portare la problematica all’attenzione della sede nomofilattica. Le perplessità involgono sia il profilo sistematico, sia quello testuale, e, non da ultimo, gli aspetti relativi alle concrete modalità attuative, nell’ipotesi in cui si addivenisse ad una soluzione affermativa.
3. Sotto il profilo sistematico, si rileva che il codice dei contratti ha compiutamente disciplinato i contratti di concessioni chiarendone le differenze con quelli di appalto. Tant’è che le due tipologie sono trattate in parti diverse dell’apparato normativo: nella seconda i contratti di appalto, in cui sono disciplinati anche gli incentivi per funzioni tecniche, nella terza le concessioni.
4. E la circostanza non è irrilevante, in quanto il legislatore, quando ha voluto, ha specificatamente richiamato insieme le due tipologie (v., ad es., art. 5, 6, 7, 17, 23, 30, 31), oppure ha genericamente fatto riferimento a “contratti pubblici”, come categoria omnicomprensiva (v., ad es. art. 4, principi relativi all’affidamento di contratti pubblici esclusi). In questo senso conforta anche l’art. 3 (definizioni) del codice dei contratti, che al comma 1, lett. dd), definisce «”contratti” o “contratti pubblici”, i contratti di appalto o di concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti in essere dalle stazioni appaltanti».
Viene precisato, quindi, cosa si intenda quando nell’articolato si usano i termini “contratti” e “contratti pubblici”, nelle occasioni in cui si tratta del più ampio genus comprendente sia i contratti di appalto, sia i contratti di concessione, ma non imponendo una lettura sempre e comunque unitaria, di talché si possa usare indifferentemente una tipologia specifica piuttosto che l’altra.
L’art. 164, che apre la parte terza del codice, dedicata alle concessioni, al comma 2 (Oggetto e ambito di applicazione), indica puntualmente (e con il limite della compatibilità) gli ambiti per i quali si deve fare rinvio alle disposizioni contenute nelle parti prima e seconda: «2. Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice, relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione».
Una piana lettura di quest’ultima disposizione non può indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia applicabile ai contratti di concessione.
Il fatto che l’art. 31 disciplini congiuntamente, sia per gli appalti che per le concessioni, la figura del Responsabile Unico del Procedimento non è di per sé dirimente circa l’ammissibilità del compenso per entrambe le situazioni. Né appare decisivo il richiamo all’art. 102, il quale al secondo periodo del comma 6 prevede che «Il compenso spettante per l'attività di collaudo è contenuto, per i dipendenti della stazione appaltante, nell'ambito dell'incentivo di cui all'articolo 113, (…)». L’art. 102 in discorso, infatti, pur riferendosi ai contratti pubblici in generale, pone attenzione a profili che caratterizzano i contratti per lavori e per forniture di beni e servizi e il rinvio all’art. 113 va letto in questa prospettiva.
5. D’altro canto, il citato art. 113 è calibrato inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto. Ed invero:
   - nel comma 1 si stabilisce che gli oneri per gli incentivi in questione “fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”;
   - nel comma 2 si istituisce un fondo “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1”, e le risorse finanziarie che lo alimentano (nella misura non superiore al 2%) sono “modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”;
   - nei commi 3 e 5 si fa riferimento all’acquisizione di lavori servizi e forniture;
   - il comma 5-bis, infine, sancisce che “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Quest’ultima disposizione (aggiunta dall'art. 1, comma 526, l. 27.12.2017, n. 205, a decorrere dal 01.01.2018) appare inequivocabilmente dirimente della questione sollevata. I compensi incentivanti, infatti, per chiara affermazione del legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture.
6. Giova esaminare, ai fini della fondatezza della prospettiva indicata, l’ultimo quesito posto, relativo all’esclusione o meno dei compensi di cui si tratta dal vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
Si rammenta che l’orientamento della Corte, a partire dal 2009 (cfr.
deliberazione 13.11.2009 n. 16; deliberazione 04.10.2011 n. 51) era stato nei sensi di escludere gli incentivi tecnici (in origine limitati alla progettazione) dal computo della dinamica retributiva assoggettata a vincoli di finanza pubblica. Tanto sulla base della considerazione, in buona sostanza, che si trattasse di una spesa ancorata agli investimenti, non riconducibile, quindi, alla spesa corrente di cui il personale costituisce una cospicua parte.
Con l’adozione del nuovo codice dei contratti (d.lgs. n. 50/2016) poiché l’art. 113, nella sua formulazione originaria, prevedeva l’erogazione dei compensi per funzioni tecniche sia nel caso di opere pubbliche, sia nel caso di acquisto di beni e servizi, la “confusione” delle due ipotesi aveva fatto ritenere che detta spesa fosse da riferirsi a quella corrente e quindi concorresse alla determinazione del trattamento retributivo massimo previsto dalla legislazione vincolistica in materia (cfr. deliberazione 06.04.2017 n. 7, confermata da deliberazione 10.10.2017 n. 24).
Con l’introduzione nell’art. 113 del sopra richiamato comma 5-bis, la Sezione è nuovamente tornata sul tema, pronunciandosi, questa volta, per l’esclusione delle forme incentivanti dal tetto retributivo. In sostanza si è ritenuto che il legislatore con l’integrazione della norma abbia inteso mutare la natura di questa specifica voce di spesa, attribuendola, a seconda della tipologia dei contratti, ai lavori o a beni e servizi. Con la deliberazione 26.04.2018 n. 6 la Sezione delle autonomie ha infatti chiarito che «l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici».
Da quanto precede si può dedurre che:
   - le remunerazioni per funzioni tecniche sono escluse dal tetto di spesa per le retribuzioni previsto dai vincoli di finanza pubblica, in quanto partecipano della stessa natura dei contratti cui accedono;
   - gli incentivi sono stati individuati espressamente e in forma tipica dal legislatore. Non può essere diversamente interpretato il tenore del comma 5-bis, in quanto si riferisce ai capitoli di spesa per contratti di appalto.
Conseguentemente, non può essere ipotizzata un’altra forma di incentivazione ex art. 113 che sia riconoscibile ma assoggettabile al regime vincolistico.
Pertanto, al Collegio non appare condivisibile l’affermazione secondo la quale “quando il legislatore abbia inteso non incentivabili attività annoverabili tra le funzioni tecniche svolte nell’ambito di certi contratti pubblici lo ha fatto esplicitamente”. La specialità della fattispecie, in realtà, ha richiesto una disciplina espressa e compiuta, che è declinata nell’art. 113, con indicazione degli ambiti, delle modalità di finanziamento e delle relative procedure di quantificazione e individuazione delle destinazioni, nonché della natura degli emolumenti accessori (e per quest’ultimo profilo è stato necessario un ulteriore intervento legislativo). Non sembra praticabile, quindi, un’interpretazione estensiva ed analogica.
7. La Sezione remittente, pur dichiarando un’adesione, in linea generale, all’indirizzo delineato dalla Sezione controllo Veneto, opportunamente individua una serie di criticità, assorbite dalla riposta negativa alla questione principale, ma la cui emersione, in verità, supporta la correttezza della soluzione sopra proposta.
Un primo problema nasce dal fatto che le diverse caratteristiche strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto essenzialmente, quelli di appalto comportano spese e quelli di concessioni entrate, ha portato a dubitare se, in ipotesi, il parametro per la determinazione del fondo per i compensi incentivanti sia da individuarsi nell’importo a base di gara o con riferimento al canone dovuto dal concessionario. La soluzione proposta dell’importo a base di gara non sarebbe scontata, in quanto i flussi finanziari derivanti da questa tipologia son ben diversi da quelli di appalto. Inoltre, l’opzione non è scevra di implicazioni critiche.
Infatti, ben rappresenta la Sezione istante che, soprattutto nel caso di operazioni di notevole entità, prevedere di pagare incentivi a fronte di flussi di entrata che potrebbero essere incerti esporrebbe l’ente al rischio di insostenibilità. Né si può far affidamento su clausole contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali in quanto non previste per legge, che prevedano la remunerazione dell’incentivo in capo al concessionario. In realtà, si dovrebbe far ricorso ad uno stanziamento di spesa specifico, che, come si è detto, non è previsto per legge e che appare, quindi, di dubbia legittimità. Senza contare che la copertura, essendo legata alla riscossione dei canoni concessori, resta gravata da un margine di aleatorietà.
8. In conclusione,
per ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche si dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di concessione. Operazione, questa, che appare travalicare la competenza di chi è chiamato ad interpretare ed applicare le norme.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la deliberazione 14.03.2019 n. 96, enuncia i seguenti principi di diritto: «
Alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d. lgs. 18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di contratti di concessione» (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 25.06.2019 n. 15).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale alla commissione di concorso che forma una graduatoria errata.
Alla commissione di concorso è richiesto uno standard minimo professionale nella valutazione dei titoli dei candidati al momento della formazione della graduatoria, specialmente quando una sua errata valutazione possa comportare un ribaltamento della posizione utile del candidato che aspira alla copertura del posto a vantaggio del secondo classificato.
In caso di annullamento della graduatoria disposto dal tribunale amministrativo, pertanto, le spese inutilmente sopportate dall'ente pubblico devono essere poste a carico della commissione che abbia operato al di sotto della ordinaria esigibilità.

Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei conti della Toscana (sentenza 20.06.2019 n. 262).
La vicenda
Il bando di concorso per la nomina a tempo determinato di un addetto stampa prevedeva il possesso dell'iscrizione all'albo dei pubblicisti o dei giornalisti, mentre per la formazione della graduatoria la commissione avrebbe dovuto valutare i candidati secondo questi punteggi: «Titoli di studio: diploma di laurea o laurea specialistica in materie attinenti fino a 20 punti; Titoli culturali o professionali, fino ad un massimo di 30 punti; 3. Curriculum fino ad un massimo di 40 punti; colloquio fino ad un massimo di 10 punti».
Avverso la scelta del candidato vincitore, il secondo idoneo in graduatoria chiedeva alla commissione di modificare la medesima, in considerazione del fatto che al vincitore erano stati attribuiti dei punteggi sul titolo di studio della laurea che non possedeva. A seguito di questa richiesta, la commissione di concorso confermava il vincitore modificando tuttavia i punteggi complessivi dei titoli, avendo proceduto da un alto alla eliminazione del punteggio erroneamente attribuito al vincitore nel titolo di studio, ma dall'altro lato modificava anche il punteggio dei titoli culturali e professionali in modo tale da far restare immutata la graduatoria.
Il Tar cui era ricorso il candidato estromesso annullava la graduatoria e condannava l'ente pubblico alle spese di giudizio, che la procura contabile riteneva inutilmente sborsate dall'ente pubblico e quindi configuranti danno erariale da porre a carico della commissione di concorso, che era interamente rinviata a giudizio.
La conferma del danno erariale
Il collegio contabile toscano ha preliminarmente evidenziato come la medesima commissione abbia inizialmente corretto il proprio errore per aver attribuito un punteggio su un titolo di studio non posseduto dal candidato risultato vincitore, ammettendo i propri sbagli. La sussistenza della colpa grave è dovuta sicuramente alla imperizia con la quale la commissione di concorso ha proceduto all'attribuzione di un punteggio inesistente al vincitore della selezione, imperizia questa che giustifica da sola il danno erariale che è pari al valore del rimborso delle spese di giudizio sopportate dall'ente pubblico.
Per i giudici contabili, infatti, la colpa grave è caratterizzata dal comportamento il cui grado di diligenza, perizia, prudenza, correttezza e razionalità sono da ritenersi inferiori allo standard minimo professionale esigibile e tale da rendere prevedibile o probabile il concreto verificarsi dell'evento dannoso (tra le tante: Corte conti, Sezione II Appello, sentenza n. 611/2011 e Sezione I Appello n. 357/2018).
Secondo la Corte dei conti, pertanto, l'errore commesso dalla commissione di concorso è da classificarsi al di sotto della ordinaria esigibilità, con la conseguenza del danno erariale subito dall'ente pubblico pari alle spese di giudizio sopportate inutilmente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 00.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGODanno erariale, prescrizione e responsabilità solidale tra dirigente e responsabile del procedimento.
La sentenza 17.06.2019 n. 117 della Corte di Conti, Sez. III Giur.le Centrale d’Appello, merita particolare attenzione poiché affronta due temi frequenti nei giudizi contabili, offrendo utili chiarimenti.
L’uno riguarda la condivisione della responsabilità per il danno erariale tra il dirigente e il responsabile del procedimento; l’altro il termine di prescrizione e, nella specie, il momento della sua decorrenza in materia di indebite erogazioni quando soggetto erogante e soggetto concedente non coincidano.
Solidarietà tra dirigente e responsabile del procedimento
In linea generale e di principio il dirigente è responsabile del danno erariale prodotto dall’atto amministrativo (illegittimo) di cui è firmatario.
Tale responsabilità può essere condivisa, in ragione dell’apporto causale, con il responsabile del procedimento.
Ai sensi dell’art. 5 e ss, Legge 241/1990 quest’ultimo è tenuto a curare l’istruttoria e tutti quegli adempimenti previsti dalla legge e/o delegati dal dirigente, necessari alla formazione della volontà amministrativa. Il dirigente può accogliere i risultati dell’istruttoria e, dunque, provvedere di conseguenza oppure può respingerli, sollecitando ulteriori attività di accertamento, ovvero rinunciare all’adozione dell’atto.
Recentemente è stata apprezzata una certa tendenza di alcuni dirigenti a ridurre e/o esimersi dalla propria responsabilità amministrativa riversandola sul responsabile del procedimento. Taluni, addirittura, per fortuna molto pochi, usano dell’istituto allo scopo di precostitursi un coobbligato solidale, una sorta di assicurazione gratuita per la responsabilità professionale.
Il giudice contabile, con la sentenza in nota, ha precisato che la responsabilità per danno erariale derivante dall’emissione di una illegittima e dannosa determina dirigenziale vada attribuita al solo dirigente quando “manchi del tutto l’evidenza della partecipazione alla fase istruttoria del responsabile del procedimento”, evidenza da individuarsi almeno nella presentazione per la firma della bozza del provvedimento finale.
La formale attribuzione della responsabilità del procedimento, infatti, “non è elemento sufficiente, di per sé, a fondare una sua responsabilità per l’emissione di atti a conclusione di procedimenti nei quali non sia concretamente intervenuto”.
Lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui –pur essendo intervenuto– non abbia firmato (con il dirigente) l’atto amministrativo incriminato.
La prescrizione del danno
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice contabile (SS.RR., 15.01.2003, n. 2/QM) “l’art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, nel costituire declinazione della regola generale sulla prescrizione dei diritti espressa nell’art. 2935 c.c., deve essere interpretato nel senso che la prescrizione non può decorrere prima che il “fatto” (cioè “l'evento” dannoso, costituito da condotta e depauperamento patrimoniale) sia conosciuto, o conoscibile secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’ente danneggiato.”
Nel caso all’esame della Corte -indebite erogazioni- deve escludersi che il dies a quo della prescrizione possa identificarsi con l’erogazione del beneficio, poiché nel particolare procedimento mancava, al momento dell’erogazione, una “conoscibilità oggettiva” dell’illecito da parte dell’ente erogatore il quale non era né il soggetto concedente né l’intestatario di poteri di controllo.
Sono atti interruttivi del decorso del termine prescrizionale, tra gli altri, la notifica dell’invito a dedurre e la notificazione dell’atto di citazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019).

APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI: Il servizio di trasporto scolastico comunale è un "servizio pubblico" e, come tale, deve comportare l'integrale copertura dei costi secondo quanto stabilito dall'articolo 117 del Tuel.
Il servizio di trasporto scolastico è un servizio pubblico di trasporto escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale.
L'ente è tenuto, in sede di copertura, alla stretta osservanza delle disposizioni dell'art. 117 TUEL, vale a dire, che per il principio dell'equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura, l'erogazione del servizio pubblico deve avvenire in equilibrio ai sensi dell'art. 117 TUEL, circostanza che presuppone un'efficace rappresentazione dei costi ed una copertura nel rispetto dei criteri generali di cui alla norma del Testo unico degli enti locali.
In tal modo l'erogazione del servizio non solo non può essere gratuita per gli utenti ma la sua copertura deve avvenire mediante i corrispettivi versati dai richiedenti il servizio. Ciò anche alla luce della nuova connotazione conferita dall'articolo 5, comma 2, del D.lgs. 63/2017, a mente del quale gli enti locali assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del servizio scolastico.
Il servizio è assicurato su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati.
Il D.lgs. 63/2017 non ha inciso nell'ambito delineato in via generale dalle menzionate disposizioni del TUEL ed anzi ha introdotto una disciplina specifica, che si innesta nell'ampio perimetro disciplinato dall'articolo 112 del Tuel, il quale attribuisce agli enti la gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e delle attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
Ma soprattutto il richiamato articolo 5 del D.lgs. 63/2017 prevede una espressa clausola di invarianza finanziaria, richiedendo che il servizio di trasporto vada realizzato "senza determinare nuovi e maggiori oneri per gli enti territoriali" e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta da parte dell'utenza quale corrispettivo della prestazione ricevuta.
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Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Biandrate (NO) ha, preliminarmente, riferito che l’Amministrazione comunale, dopo aver completato i lavori di costruzione del nuovo complesso scolastico nel quale è stata trasferita l’attività didattica della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e di quella secondaria, per agevolare l’utenza al fine di raggiungere la nuova struttura, sita nel medesimo territorio comunale, ha ritenuto di attivare, “in via del tutto sperimentale”, un servizio di trasporto scolastico comprendente il percorso tra la piazza attigua dell’edificio scolastico precedente e l’ingresso del nuovo plesso.
Conseguentemente, l’Ente, nell’eventualità che il detto servizio di trasporto scolastico venga in prosieguo portato a regime, formula a questa Sezione la seguente richiesta di parere: “se le quote di partecipazione finanziaria correlate al servizio che verranno erogate dall’utenza dovranno completamente concorrere alla copertura integrale della spesa del medesimo; e ciò anche per assicurare il conseguente equilibrio economico-finanziario in funzione del principio di invarianza finanziaria di cui all’art. 5, comma 2, del D.lgs. n. 63/2017, secondo cui il servizio di trasporto va realizzato senza determinare nuovi e maggiori oneri per gli Enti territoriali ed in base al quale le quote di partecipazione diretta nella loro interezza debbono coprire integralmente la spesa complessiva del servizio”.
...
Venendo al merito, posto che il quesito concerne l’interpretazione della normativa sulla copertura della spesa del servizio di trasporto scolastico in relazione all’entità delle quote di partecipazione finanziaria a carico dell’utenza, ritiene la Sezione, preliminarmente, di confermare che la giurisprudenza contabile, conformemente all’avviso espresso nella stessa richiesta di parere, appare, allo stato, consolidata nel senso di ritenere che il servizio di trasporto scolastico sia pleno iure un servizio pubblico di trasporto, e, come tale, escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale (v., Sezione Controllo Campania, parere 21.06.2017 n. 222; id., Sezione Controllo Sicilia, parere 10.10.2018 n. 178).
Come noto, i servizi a domanda individuale trovano classificazione nel dm 31.12.1983, emanato in attuazione del dl 28.02.1983 n. 55, come convertito dalla legge 26.04.1983 n. 131.
Detto decreto, che elenca la tipologia dei servizi suddetti, esclude espressamente, dalla categoria dei servizi a domanda individuale, quelle attività che “siano state dichiarate gratuite per legge nazionale o regionale”, provvedendo all’individuazione e, quindi, alla declaratoria specifica delle singole tipologie di attività qualificabili come servizi a domanda individuale.
Per quanto di interesse nella presente sede, l’elenco in esame non ricomprende espressamente il servizio di trasporto scolastico, mentre, in materia di istruzione, prevede i servizi di asilo nido e corsi extrascolastici che non siano previsti come obbligatori dalla legge (nn. 3 e 6). Più in particolare, la magistratura contabile (v., deliberazioni citate) ha evidenziato come né il Dl 55/1983, convertito dalla richiamata legge 131/1983, né il decreto 31.12.1983 del Ministero dell'Interno ricomprendano tra i servizi pubblici locali a domanda individuale quello di trasporto scolastico.
Non ritenendo di dissentire dal richiamato indirizzo interpretativo, del quale, anzi, se ne condividono le argomentazioni a sostegno, la Sezione, in occasione dello scrutinio del presente quesito, ritiene di ribadire il principio secondo cui
il trasporto scolastico è un servizio pubblico, ma non potendo essere classificato tra quelli a domanda individuale, non possono allo stesso reputarsi applicabili i conseguenti vincoli normativi e finanziari che caratterizzano i servizi pubblici a domanda individuale, espressamente individuati dal menzionato D.M. n. 131/1983.
La natura di servizio pubblico, in quanto oggettivamente rivolto a soddisfare esigenze della collettività, comporta, pertanto, che per il trasporto scolastico siano definite dall’Ente adeguate tariffe a copertura dei costi, secondo quanto stabilito dall'articolo 117 del Tuel.
In effetti, per tutti i servizi pubblici, anche non definibili “a domanda individuale”, come nella specie, l’art. 117 TUEL stabilisce che:
   "1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi pubblici in misura tale da assicurare l'equilibrio economico-finanziario dell'investimento e della connessa gestione. I criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono i seguenti:
a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di ammortamento tecnico-finanziario;
      b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito;
      c) l'entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del servizio;
      d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
   2. La tariffa costituisce il corrispettivo dei servizi pubblici; essa è determinata e adeguata ogni anno dai soggetti proprietari, attraverso contratti di programma di durata poliennale, nel rispetto del disciplinare e dello statuto conseguenti ai modelli organizzativi prescelti.
   3. Qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall'ente pubblico per effetto di particolari convenzioni e concessioni dell'ente o per effetto del modello organizzativo di società mista, la tariffa è riscossa dal soggetto che gestisce i servizi pubblici
".
Pertanto,
fermo restando che l’erogazione del servizio pubblico debba avvenire in equilibrio ai sensi dell’art. 117 TUEL –circostanza che ovviamente presuppone una efficace rappresentazione dei costi ed una copertura nel rispetto dei criteri generali di cui alla norma del Testo unico degli enti locali- l’erogazione dello stesso non solo non può essere gratuita per gli utenti ma la sua copertura deve avvenire mediante i corrispettivi versati dai richiedenti il servizio (cfr. SRC Sicilia parere 25.02.2015 n. 115, SRC Molise parere 14.09.2011 n. 80, SRC Campania parere 25.02.2010 n. 7), di modo che le quote di partecipazione finanziaria, correlate al servizio e poste a carico dell’utenza, dovranno completamente concorrere alla copertura integrale della spesa del medesimo.
Detto orientamento trova assoluto ed inequivoco riscontro nella stessa giurisprudenza amministrativa, ad avviso della quale, in occasione dell’erogazione di un servizio pubblico, gli Enti “…saranno tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza delle disposizioni dell’art. 117 TUEL, in particolare, del principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura, principio che riguarda indistintamente tutti i servizi pubblici erogati dall’ente locale, a prescindere dalla forma contrattuale di affidamento del servizio" (v., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2537).
Simile interpretazione riceve pieno ed incontrovertibile conforto da ulteriori recenti arresti giurisprudenziali contabili (v., Sezione regionale di controllo della Sicilia, parere 10.10.2018 n. 178), che, analizzando la natura del servizio di trasporto degli alunni organizzato dai Comuni nell'ambito del diritto allo studio, hanno reso un’interpretazione conforme all’indirizzo sopra enunciato alla luce della nuova connotazione conferita dall'articolo 5, comma 2, del Dlgs 63/2017.
A mente del citato disposto dell’art. 5, comma 2, del decreto legislativo 63/2017, infatti,
gli enti locali “assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole primarie statali per consentire loro il raggiungimento della più vicina sede di erogazione del servizio scolastico. Il servizio è assicurato su istanza di parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati”.
Il D.lgs. 63/2017, secondo l’indirizzo giurisprudenziale richiamato, non solo non ha inciso nell’ambito delineato in via generale dalle menzionate disposizioni del TUEL, bensì ha introdotto una disciplina specifica, che si innesta nell'ampio perimetro disciplinato dall'articolo 112 del Tuel, il quale attribuisce agli enti la gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e delle attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
Ma soprattutto
il richiamato articolo 5 del D.lgs. 63/2017 prevede una espressa clausola di invarianza finanziaria, richiedendo che il servizio di trasporto vada realizzato “senza determinare nuovi e maggiori oneri per gli enti territoriali” e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta da parte dell’utenza quale corrispettivo della prestazione ricevuta.
Deve, quindi, concludersi nel senso che, ferme restando le scelte gestionali e l'individuazione dei criteri di finanziamento demandate alla competenza dell'ente locale, il quadro normativo sopra delineato non consenta l'erogazione gratuita del servizio di trasporto pubblico scolastico, servizio che deve avere a fondamento una adeguata copertura finanziaria necessariamente riconducibile nei limiti fissati dai parametri normativi del Tuel, alla luce della espressa previsione normativa della corresponsione della quota di partecipazione diretta da parte degli utenti, quota la quale, nel rispetto del rapporto di corrispondenza tra costi e ricavi, non può non essere finalizzata ad assicurare l’integrale copertura dei costi del servizio (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 06.06.2019 n. 46).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONessun margine per nuove posizioni organizzative dal riallineamento retributivo negli Enti senza dirigenti.
Il decreto Semplificazioni (Dl 135/2018) ha previsto la possibilità di poter incrementare le retribuzioni di posizione dei titolari di posizione organizzativa, nei soli enti privi di dirigenti, in base ai maggiori valori previsti dal nuovo contratto delle Funzioni locali, ma condizionando questa maggiore spesa a una equivalente riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
I maggiori importi ottenuti, considerati dal legislatore fuori dai tetti del salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), non potranno essere distratti per il pagamento di nuove posizioni organizzative ma solo di quelle esistenti. La equivalente riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato richieste dalla normativa non potrà che riferirsi alla capacità assunzionale disponibile e non alle assunzioni attivate mediante la mobilità volontaria neutra, stante la loro soggezione ai soli limiti della spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013.

Sono questi i chiarimenti della Corte dei conti della Lombardia nel parere 23.05.2019 n. 210.
Le disposizioni del decreto Crescita
L'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018 ha previsto che, per i soli Comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (salario accessorio non superiore a quello sostenuto nell'anno 2016), non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa del comparto Funzioni locali «limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario».
I dubbi di un Comune
La disposizione legislativa ha generato alcuni dubbi in merito all'utilizzazione del differenziale ottenuto da un possibile riallineamento al nuovo contratto per i titolari di posizione organizzativa, il cui importo massimo è passato da 12.911,42 a 16.000,00 euro, da finanziare mediante una correlata riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
Il primo dubbio riguarda la possibilità di poter destinare, questo maggior valore, complessivamente ottenuto su tutte le posizioni organizzative presenti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto delle funzioni locali (21.05.2018), per finanziare l'acquisizione di una nuova posizione organizzativa. Il secondo dubbio riguarda il termine di assunzione di personale a tempo indeterminato, ossia se il riferimento debba essere fatto alla spesa del personale per assunzioni a tempo indeterminato ivi inclusa la mobilità volontaria.
Le indicazioni del collegio contabile
In merito al differenziale indicato nel decreto Semplificazioni, per il giudici contabili lombardi l'importo non potrà che essere riferito ai soli titolari di posizione organizzativa presenti alla data della stipula del nuovo contratto, finanziando il maggior importo ottenuto con una equivalente riduzione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, nel rispetto del limite della spesa del personale (media spesa sostenuta nel triennio 2011-2013).
Di conseguenza è escluso che questo maggior valore acquisito a seguito del riallineamento ai valori più alti previsti dal nuovo contratto, possa essere separato per poter remunerare una nuova posizione organizzativa, essendo la sua destinazione unicamente vincolata ad aumentare l'importo delle posizioni organizzative presenti alla data del contratto.
Avuto riguardo, invece, alla riduzione della spesa del personale, questa non potrà che riferirsi a una riduzione del valore finanziario del turn-over (ossia alla capacità assunzionale disponibile) mentre la mobilità volontaria, qualora realizzata da due amministrazioni soggette ai vincoli del turn-over (e quindi neutra), incontrerà il solo limite della spesa sostenuta che non potrà in ogni caso superare il valore medio del triennio 2011-2013 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, aumento della retribuzione solo per incarichi già esistenti.
Negli enti privi di dirigenza, l'esclusione dal computo del tetto del salario accessorio 2016 degli incrementi del costo per la retribuzione di posizione e di risultato dei titolari di posizione organizzativa può avvenire solo per gli incarichi già in essere alla data del 21.05.2018.
Il maggior importo che deriva da questi incrementi può essere compensato solo utilizzando la capacità assunzionale a tempo indeterminato e non anche i risparmi derivanti dalla mancata assunzione mediante l'istituto della «mobilità neutra».

Possono così essere sintetizzate le conclusioni cui giunge la Corte dei conti Lombardia con il parere 23.05.2019 n. 210, in risposta a un ente locale che ha posto alcuni dubbi applicativi sulla corretta applicazione dell'articolo 11-bis, comma 2, del decreto Semplificazioni.
L'esclusione dal tetto del salario accessorio
In primo luogo, l'ente locale ha chiesto se la disposizione di maggior favore introdotta dal Dl 135/2018, a favore degli enti privi di dirigenza, debba essere riferita alla singola posizione organizzativa o all'importo complessivo delle posizioni organizzative dell'ente, con possibilità, ad esempio, di istituirne una nuova. Per i giudici contabili non ci sono dubbi: la disposizione consente una deroga al tetto del salario accessorio 2016 solo per la parte relativa alla differenza tra gli importi già riconosciuti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto (21.05.2018) e l'eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già esistenti.
Pertanto, solo questo differenziale potrà essere escluso dal computo del limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dl 75/2017. In ogni modo, viene puntualizzato che l'incremento potrà avvenire solo se viene rispettato il limite di spesa di personale che per i Comuni oltre mille abitanti è dato dalla media delle corrispondenti somme del triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille abitanti dal tetto dell'anno 2008.
Il finanziamento
Altro aspetto posto all'attenzione della Corte riguarda la corretta interpretazione nell'inciso utilizzato dalla norma in esame nella parte in cui si stabilisce che i maggiori costi derivanti da questi incrementi sono «a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore».
La disposizione, viene precisato nella deliberazione, deve essere letta nel senso che la quota destinata alla maggiorazione dell'indennità di posizione e di risultato delle posizioni organizzative ha quale effetto quello di limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato a valere sulle capacità assunzionali, come le assunzioni con concorso o con scorrimento di graduatorie, e non anche quelle derivanti da assunzioni di personale mediante l'istituto della mobilità volontaria proveniente da enti soggetti a vincoli assunzionali (mobilità neutra) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).
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PARERE
Il Sindaco del comune di San Vittore Olona (MI)
con la nota sopra indicata ha formulato i seguenti quesiti: “in merito all'applicazione del comma 2 dell'art. 11-bis del decreto legge 14.12.2018 n. 135 convertito con legge 11.02.2019, n. 12 per un Comune privo di dirigenza.
In particolare, si chiede:
   - se il possibile aumento dell'indennità di posizione riguarda la singola posizione organizzativa o l'importo complessivo delle posizioni organizzative dell'ente anche ad esempio costituendone una ulteriore;
   - se il "medesimo risparmio sulle assunzioni a tempo indeterminato" riguarda la capacità assunzionale (assunzioni a mezzo di concorsi) o anche le mobilità ex art. 30 d.lgs. 165/2001
”.
...
I quesiti formulati chiedono di interpretare l’art. 11-bis, comma 2, del d.l. 135/2018 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019 che recita ”Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali - Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”.
Come è noto, l’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 dispone l’invarianza della spesa al 2016 relativa al trattamento accessorio del personale, comprensiva anche dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni organizzative.
L’art 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 consente una deroga alla disposizione appena ricordata, per i comuni privi di dirigenza, disponendo che
l’invarianza della spesa non si applica alle indennità dei titolari di posizioni organizzative, di cui agli artt. 13 e ss. del CCNL relativo al comparto funzioni locali, limitatamente alla differenza tra gli importi già attribuiti alla data di entrata in vigore del contratto (21.05.2018) e l’eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già esistenti, ai sensi dell’art. 15 del CCNL in parola.
Il differenziale da escludere dal computo di cui all’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 è soltanto la maggiorazione delle indennità attribuite alle posizioni organizzative già in servizio al momento dell’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale. Tale maggiorazione deve, in ogni caso, essere contenuta nei limiti di spesa per il personale, prevista dai commi 557-quater e 562 dell’art. 1 della legge n. 296/2006.
Per quanto riguarda il secondo quesito, questa Sezione ritiene che la spesa del personale derivante dall’istituto della mobilità abbia come limite il rispetto dell’art. 1, comma 557-quater ovvero del comma 562 della legge n. 296/2006, stante la neutralità della stessa, sempre che l’ente cedente sia sottoposto a vincoli assunzionali.
Da ultimo, si evidenzia che, una volta che l’ente decida di avvalersi della possibilità prevista dalla normativa in parola la quota destinata alla maggiorazione dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni organizzative negli enti privi di dirigenti ha come effetto di limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato (assunzioni che non siano quelle attuate con l’istituto della mobilità che incontrano soltanto il limite sopra richiamato).
Infatti, le suddette risorse ”sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”, ossia del valore finanziario corrispondente al valore della maggiorazione in esame, così come disposto dal predetto art. 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018.

LAVORI PUBBLICILegittimo il contributo a fondo perduto per un'opera pubblica d'interesse sovracomunale.
Al Comune è consentito erogare un finanziamento a fondo perduto a favore di un altro ente, per la realizzazione di un'opera pubblica concertata in ambito metropolitano e funzionale al conseguimento di un interesse pubblico per la comunità locale.
Questo il principio affermato dalla Corte dei Conti, Sezione di controllo per il Veneto, con il parere 23.05.2019 n. 135, che chiarisce entro quali limiti il potere decisionale del Comune possa disporre l'impiego di risorse a favore del territorio, nel delicato frangente in cui un contributo sia destinato al sostegno di un'iniziativa che dovrebbe andare a beneficio non esclusivo della collettività di riferimento.
Il caso
Nel caso di specie, si trattava di un'opera finalizzata alla viabilità stradale d'interesse sovracomunale, da realizzarsi in seguito a un accordo tra enti assunto in sede di una conferenza metropolitana.
La conferenza si configura quale organo della città metropolitana –ente territoriale entrato in vigore il 01.01.2015, per effetto della legge 56/2014– e si colloca nel solco delle convenzioni disciplinate dall'articolo 30 del Tuel, dando luogo a una forma di partenariato di «tipo debole», ossia non destinato a costituire un soggetto con veste giuridica autonoma rispetto a quella dei soggetti contraenti.
In questo contesto, un Comune ha interpellato la Sezione di controllo per sapere se l'ente possa erogare un contributo finalizzato a un intervento sulla rete stradale che insiste sul territorio di più enti, senza che l'attribuzione di risorse possa equivalere a un depauperamento del patrimonio comunale, in ragione del fatto che il contributo dovrebbe andare a beneficio non esclusivo della collettività di riferimento, ma anche di quella insediata presso un differente territorio.
La decisione
La Sezione ha osservato preliminarmente che, secondo l'articolo 13 del Tuel, il Comune esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico.
I giudici hanno rilevato che, sotto il profilo specifico inerente alla gestione della rete stradale (articolo 14 del Dlgs 285/1992 - codice della strada) il Comune è chiamato, quale ente proprietario delle strade, a provvedere alla loro manutenzione e gestione, al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione sul territorio.
Accertata la competenza dell'ente locale in materia di interventi a sostegno della viabilità stradale, il collegio ha affermato, in linea di principio, che «se l'azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, l'erogazione di un finanziamento non può equivalere a un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico, effettuato dal soggetto che riceve il contributo».
La Sezione si è spinta ad asserire che la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che l'attribuzione persegua i fini dell'ente pubblico, fermo restando che nel caso di ricorso a soggetti privati l'amministrazione dovrà aver cura di individuare il beneficiario secondo i principi di parità di trattamento e non discriminazione che devono caratterizzare l'azione amministrativa, evitando l'attribuzione di vantaggi ingiustificati a soggetti terzi.
Per quanto riguarda il tema dell'erogazione di risorse a beneficio non esclusivo del territorio locale, i giudici hanno delimitato il potere decisionale dell'ente affermando che una scelta può ritenersi legittima «se e nella misura in cui l'impegno finanziario del Comune contributore sia proporzionato al beneficio che ne trae la propria collettività di riferimento».
La questione viene pertanto rimessa alle valutazioni discrezionali del Comune, quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio, ma con l'importante precisazione che non è preclusa, in linea di principio, l'erogazione di risorse nel quadro sopra descritto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.07.2019).
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In merito alla possibilità di erogare ad un altro Comune, in base ad una convenzione che disciplini i reciproci rapporti, un contributo a fondo perduto finalizzato alla realizzazione di un'opera pubblica, rilevante per il conseguimento, da parte del Comune richiedente, di un interesse pubblico per la comunità.
La giurisprudenza contabile ha avuto modo di elaborare da tempo il principio generale per il quale, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico, effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
In particolare, è stato evidenziato che: “
all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto. Infatti, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo” .
Dunque, sotto tale profilo “
il baricentro dell’attenzione circa il corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai attestato in correlazione con l’effettiva realizzazione di un interesse pubblico (riferibile all’ente interessato) a prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale” .
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale, o comunque del beneficiario dell’intervento del Comune, la giurisprudenza consultiva della Corte dei conti ha precisato che
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico; chiarendo peraltro che ogniqualvolta l’Amministrazione ricorra a soggetti privati per raggiungere i propri fini (e, conseguentemente, riconosca loro benefici di natura patrimoniale) le cautele debbono essere maggiori, rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa.
Va infatti considerato, inoltre, che
qualunque genere di intervento economico dell’amministrazione comunale, per potersi qualificare in termini di legittimità della sottostante azione, deve necessariamente sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il Comune è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità.

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Il Sindaco del Comune di Albignasego (PD), premettendo che il Comune intende dare attuazione alle previsioni contenute nel Piano di assetto del territorio intercomunale (PATI), che prevedono la realizzazione di una viabilità d’interesse sovracomunale, ha richiesto a questa Sezione un parere in merito alla possibilità di erogare ad un altro Comune, in base ad una convenzione che disciplini i reciproci rapporti, un contributo a fondo perduto finalizzato alla realizzazione di un'opera pubblica, rilevante per il conseguimento, da parte del Comune richiedente, di un interesse pubblico per la comunità.
...
II. Il quesito formulato attiene sotto un aspetto generale alla tematica della possibile destinazione di fondi comunali ad interventi relativi a beni di proprietà di un soggetto giuridico diverso.
Occorre tuttavia affrontare alcune questioni preliminari al fine di inquadrare la fattispecie specifica, relativa ad un intervento su rete stradale all’interno degli enti della cosiddetta “comunità metropolitana di Padova”.
Va innanzitutto premesso che il Comune, secondo l’art. 13 del TUEL, esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico.
Sotto il profilo inerente alla gestione della rete stradale, ai sensi dell’art. 14 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada) il Comune è chiamato, quale ente proprietario delle strade, a provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi al fine di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione.
La suddetta regola del resto è altresì contenuta nell’art. 39 della legge 20.03.1865 n. 2248 (Legge sulle opere pubbliche) – allegato F, che pone infatti a carico dei comuni gli oneri di “costruzione, sistemazione e mantenimento” delle strade comunali così come specularmente l’art. 37 pone a carico delle province i medesimi oneri relativi alle strade provinciali.
Richiamata per sommi capi la normativa, necessario all’analisi del caso concreto risulta l’inquadramento della cornice giuridica entro cui il Comune intende realizzare lo spostamento patrimoniale di cui trattasi.
Va dunque necessariamente premesso che il 31.05.2003, in seguito all’accordo tra fra la Provincia di Padova e i Comuni di Abano Terme, Cadoneghe, Casalserugo, Limena, Maserà di Padova, Noventa Padovana, Padova, Ponte San Nicolò, Rubano, Saonara, Selvazzano Dentro, Vigodarzere, Vigonza, Villafranca Padovana, si è costituita la Conferenza metropolitana di Padova (deliberazione n. 37 del 25.03.2003 del Consiglio comunale di Padova), con la volontà di sviluppare iniziative concertate in ambito metropolitano nelle varie sfere di attribuzione degli Enti locali al fine di coordinare azioni ed interventi ed ottimizzare le risorse. Il Comune Albignasego ha aderito alla Conferenza il 18.03.2005, come risulta dall’integrazione per adesione all’accordo di costituzione della Conferenza pubblicato sul portale internet della Conferenza.
In tale contesto, il PATI rappresenta lo strumento di pianificazione strutturale del territorio della “comunità metropolitana di Padova” (che comprende gli enti aderenti alla Conferenza metropolitana di cui sopra) redatto alla luce delle disposizioni normative contenute nella nuova legge urbanistica regionale n. 11 del 23.04.2004. Il relativo Documento preliminare è stato approvato dalle Giunte comunali della comunità metropolitana e dalla Giunta provinciale, e l'Accordo di pianificazione sottoscritto in data 23.01.2006, poi integrato in data 21.07.2008 con l'adesione del Comune di Abano Terme.
Il Comune di Albignasego asserisce di voler stipulare, nell’ambito definito dal PATI, una convenzione con il Comune capoluogo.
Appare qui implicito il richiamo alle convenzioni di cui all’art. 30 del TUEL, che costituiscono un’ipotesi speciale di accordi tra Pubbliche amministrazioni, istituto di carattere generale contemplato dall’art. 15 legge 07.08.1990, n. 241. Esse realizzano una forma di partenariato cosiddetta di tipo debole che, diversamente dal partenariato di tipo forte, non si concretizza nella costituzione di un soggetto fornito di una veste giuridicamente autonoma rispetto a quella dei soggetti contraenti.
Le convenzioni ex art. 30 TUEL sono pertanto riconducibili a contratti di diritto pubblico, che istituiscono una forma di cooperazione tra gli enti locali per l’esercizio di funzioni amministrative comuni. Lo strumento, già di per sé pienamente legittimo per regolare i rapporti reciproci tra enti locali in ordine ad azioni di interesse comune, si inserisce peraltro in una cornice precostituita, rappresentata dal PATI, che dovrebbe garantire possibilità di ponderazione di costi e benefici nell’interno di un quadro di interventi coordinato e concordato nell’ambito dello stesso territorio.
Peraltro, afferendo all’esercizio di funzioni amministrative fondamentali degli Enti Locali, le convenzioni ex art. 30 TUEL non rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione in materia di contratti pubblici, in quanto non lesive del principio di concorrenza (Corte Giustizia U.E., Grande Sezione, 19.12.2012, in C-159/11 Azienda Sanitaria di Lecce, dove si afferma che “le norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici non sono applicabili ai contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a condizione che tali contratti siano stipulati esclusivamente tra enti pubblici, senza la partecipazione di una parte privata, che nessun prestatore privato sia posto in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, e che la cooperazione da essi istituita sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico” e che “il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui […] tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti”).
In relazione a tale profilo
si deve quindi rimarcare l’opportunità di valorizzazione dello strumento convenzionale, per definire con precisione le reciproche obbligazioni, al fine di evitare il rischio che l’ente si ritrovi esposto a situazioni non programmate.
III. Inquadrata così la fattispecie, si tratta di stabilire se sia possibile lo spostamento patrimoniale da un ente all’altro per finalità d’interesse della collettività dei cui interessi l’ente contributore è rappresentativo, ma per interventi da realizzarsi entro l’ambito di competenza dell’ente sovvenzionato.
La giurisprudenza contabile, nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha avuto modo di elaborare da tempo il principio generale per il quale, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico, effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 31.05.2012 n. 262,
parere 17.10.2014 n. 262 e parere 11.09.2015 n. 279, Sezione regionale di controllo per il Piemonte parere 24.03.2016 n. 29).
In particolare, è stato evidenziato che: “
all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto. Infatti, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo” (parere 31.05.2012 n. 262 cit.).
Dunque, sotto tale profilo “
il baricentro dell’attenzione circa il corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai attestato in correlazione con l’effettiva realizzazione di un interesse pubblico (riferibile all’ente interessato) a prescindere dal formale soggetto destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale” (parere 24.03.2016 n. 29 cit.).
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo comunale, o comunque del beneficiario dell’intervento del Comune, la giurisprudenza consultiva della Corte dei conti ha precisato che
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico; chiarendo peraltro che ogniqualvolta l’Amministrazione ricorra a soggetti privati per raggiungere i propri fini (e, conseguentemente, riconosca loro benefici di natura patrimoniale) le cautele debbono essere maggiori, rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (parere 11.09.2015 n. 279 cit.).
La peculiarità della fattispecie conduce ad analizzare un ulteriore profilo.
Va infatti considerato che
qualunque genere di intervento economico dell’amministrazione comunale, per potersi qualificare in termini di legittimità della sottostante azione, deve necessariamente sottendere alla realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata sul territorio, posto che il Comune è l'ente locale che rappresenta e cura gli interessi della propria comunità (parere 24.03.2016 n. 29 cit.).
Nel caso specifico, infatti, il contributo dovrebbe andare a beneficio non esclusivo della collettività di riferimento dell’ente erogatore, ma anche di quella insediata presso un differente territorio. In sostanza, una parte delle risorse a disposizione dell’ente andrebbe a beneficio di una collettività i cui interessi non sono rappresentati dall’ente. Ciò è legittimo se e nella misura in cui l’impegno finanziario del Comune contributore sia proporzionato al beneficio che ne trae la propria collettività di riferimento.
Se è corretta la valutazione fatta propria dall’Amministrazione richiedente il parere, riportata in fatto (vale a dire che a godere dei maggiori benefici dell’intervento sarebbe il Comune di Albignasego) la vicenda realizza da un punto di vista economico una negoziazione di esternalità positive, poiché l’ente che dovrebbe investire nella viabilità genererebbe così facendo un vantaggio per l’ente limitrofo e dunque convenientemente quest’ultimo, tramite lo strumento convenzionale, provvede allora ad accollarsi il relativo onere, cosa che consente la realizzazione dell’intervento ritenuto altrimenti non sufficientemente vantaggioso dal Comune proprietario del tratto.
Spetterà al Comune valutare che l’esposizione finanziaria aggiuntiva sia proporzionata all’effettivo beneficio della collettività del cui interesse esso è esponenziale, affinché l’operazione non si concretizzi in un depauperamento del patrimonio dell’ente, che sarà da ritenersi tale solo in quanto non bilanciato dal relativo beneficio atteso (parere 11.09.2015 n. 279 cit. afferma l’esistenza di un “principio generale per cui l’attribuzione patrimoniale è da considerarsi lecita solo se finalizzata allo svolgimento di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata sul territorio sul quale insiste il Comune” chiarendo che “in ogni caso, l’eventuale attribuzione dovrà essere conforme al principio di congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale”).
Entro il sopra delineato quadro complessivo l’Amministrazione comunale dovrà pertanto procedere ad effettuare le valutazioni discrezionali di propria spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio.

INCARICHI PROFESSIONALIDanno erariale per la consulenza esterna che prova a superare il parere negativo dei revisori.
L'ente non è abilitato a superare il parere negativo dell'organo di revisione contabile ricorrendo a una consulenza esterna, sia per l'autosufficienza della struttura interna a risolvere le problematiche sollevate, sia in quanto non è possibile duplicare le attività di esclusiva competenza dei revisori dei conti.

Queste le conclusioni cui giunge la Corte dei conti della Lombardia con la sentenza 31.10.2018 n. 214.
L'impasse dell'ente a causa del parere negativo dei revisori
Dovendosi approvare il bilancio consuntivo, il collegio dei revisori dei conti rilevava una non corretta contabilizzazione di alcune poste riferite, in particolare, a una discordanza tra valori inseriti in bilancio e nella delibera dei lavori commissionati, oltre a un’errata contabilizzazione di interventi di manutenzioni interamente spesati nell'esercizio pur avendo natura pluriennale. Il parere negativo sul consuntivo si ripercuoteva anche sul bilancio di previsione, con il particolare rischio di non permettere all'ente di rispettare le scadenze previste per la loro approvazione.
Le motivazioni per l'affidamento dell'incarico esterno
Per sbloccare l'iter di approvazione del bilancio consuntivo e del preventivo, il responsabile della spesa oggetto di contestazione, unitamente al responsabile finanziario e al direttore generale, anche a fronte dell'imminente scadenza dei termini previsti dalla legge, affidavano in via diretta un incarico a una società di revisione esterna. Ciò sia per controllare la correttezza dei rilievi avanzati dall'organo di revisione, sia per porre un eventuale rimedio contabile nell'ipotesi di veridicità delle annotazioni negative sull'operato dell'ente.
Il direttore generale, inoltre, riteneva legittimo affidare a un terzo indipendente la valutazione delle poste di bilancio in contestazione, in quanto tale tipologia di verifica rappresenta, a suo dire, la modalità normalmente utilizzata anche nel settore delle imprese laddove si manifesti un contrasto tra amministratori e organi di controllo.
I rilievi dell'organo di revisione contabile -tra i cui compiti rientra anche quello di garantire la legittimità e la correttezza dell'azione amministrativa e contabile- sull'inutile spesa sopportata dall'ente, mediante duplicazione delle attività riservate in via esclusiva al controllo interno, causavano il rinvio a giudizio per danno erariale dei soggetti che a vario titolo avevano operato illegittimamente.
Le conclusioni
Secondo la Corte dei conti Lombardia non può non essere rilevato come nel nostro ordinamento giuridico le amministrazioni pubbliche debbano prioritariamente provvedere ai propri compiti e funzioni con la propria organizzazione e con proprio personale, salvo il ricorso a consulenti esterni nelle limitate ipotesi previste dalla legge, stante il loro carattere eccezionale e riguardante situazioni di assoluta mancanza di professionalità interne.
Nel caso specifico, la controversia riguarda i rilievi dell'organo di revisione contabile, questioni di non elevata complessità e, dunque, prive di quelle peculiari connotazioni che avrebbero potuto consentire di poter percorrere la strada alternativa del ricorso all'ausilio di terzi a titolo oneroso.
In presenza di divergenze, tra organo di amministrazione attiva e organo di controllo interno, che rappresenta una situazione di normale conflittualità, la soluzione avrebbe dovuto obbligatoriamente essere ricercata tra l'ente e l'organo di revisione, non certo ricorrendo a prestazioni esterne di tipo oneroso.
In conclusione, per la Corte dei conti le spese sostenute per l'affidamento dell'incarico esterno vanno considerate quale danno erariale, in considerazione della deviazione ai principi di sana gestione amministrativa. Il danno va addebitato ai soggetti che tale inutile spesa deciso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.11.2018).
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DIRITTO
Non essendoci questioni in rito da affrontare si può passare alla disamina del merito del giudizio.
Il Collegio evidenzia al riguardo che, in condivisione delle considerazioni svolte dalla Procura,
opera un principio basilare nel nostro ordinamento giuridico, da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, in virtù del quale le Amministrazioni pubbliche debbono prioritariamente provvedere ai propri compiti ed alle proprie funzioni con la propria organizzazione e con proprio personale, riservando ad ipotesi eccezionali e puntualmente disciplinate dal legislatore ogni eventuale deroga al principio stesso.
Si tratta di un principio che trova il proprio fondamento nei principi, con copertura costituzionale, del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, corroborati dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica.
In altri termini,
la facoltà di ricorrere a consulenti esterni non può considerarsi una prerogativa arbitraria di chi amministra, ma va collocata nell’ambito di precisi contesti normativi predisposti dal legislatore, il quale la consente solo in termini assolutamente residuali, con rigorose garanzie procedimentali, e per periodi limitati.
Al riguardo, in condivisione dei richiami giurisprudenziali di cui all’atto di citazione (in particolare, pag. 15), deve farsi pregnante riferimento a quanto già affermato da questa Corte, con le ampie ed articolate motivazioni di cui alla sentenza 18.04.2017 n. 112 della I Sezione centrale d’Appello (cfr. anche la richiamata sentenza 18.04.2012 n. 303 della III Sezione centrale d’Appello), cui può sostanzialmente rinviarsi, anche ai sensi dell’art. 17 delle norme di attuazione del codice della giustizia contabile.
Sul piano fattuale non può che rilevarsi che la fattispecie controversa (rectius: i rilievi dei revisori) si riferisce ad una problematica circoscritta e di non particolare complessità, e, dunque, priva di quelle peculiari connotazioni che avrebbero potuto consentire percorrere la strada alternativa del ricorso all’ausilio di terzi a titolo oneroso. Di fatto, nella fattispecie, si trattava di dover esaminare le valutazioni, mirate su questioni specifiche, divergenti da quelle dell’Amministrazione attiva, dell’organo di controllo interno, e quindi risolvere nella maniera più appropriata le questioni emerse in sede di interlocuzione interna tra organi aventi funzione diversa, già compensati con esborso a carico del pubblico bilancio.
L’ Amministrazione avrebbe dovuto, poiché non si ignorano comunque le problematiche nascenti da rapporti conflittuali che possono insorgere tra organi di amministrazione attiva e organo di controllo interno, ricercare una soluzione proporzionata e adeguata, senza ricorrere onerosamente ad un soggetto esterno, a titolo oneroso, e ciò al di là del nomen utilizzato per qualificare la prestazione di c.d. limited review richiesta all’esterno, che, peraltro, risultando affidata ad un organo di esclusiva scelta dell’Amministrazione attiva, nemmeno garantiva, ex ante, la rivendicata imparzialità di un (pur comunque non ammissibile) parere di tipo “arbitrale” diretto a regolare e ad eventualmente conciliare le opposte posizioni che si confrontavano nella fattispecie.
Per l’effetto,
si ravvisano, allo stato, in capo agli odierni convenuti pienamente sussistenti gli elementi costitutivi della responsabilità per il danno erariale arrecato all’Azienda Ospedaliera:
   1) il rapporto d’impiego e/o di servizio in ragione del quale si è verificato il comportamento pregiudizievole foriero di danno;
   2) il danno erariale cagionato all’Amministrazione di appartenenza;
   3) il nesso di causalità tra l’evento lesivo e il comportamento posto in essere;
   4) l’elemento soggettivo della colpa grave.

Nel dettaglio, come già nell’invito a dedurre e poi nell’atto introduttivo, l’attrice Procura ha rappresentato con riferimento alle singole responsabilità, l’importo che ciascun convenuto è tenuto a risarcire alla stregua del ruolo e della funzione svolta nella vicenda in esame.
Il dott. PE., nella sua qualità di responsabile della U.O.C. Approvvigionamenti Logistica e Servizi Alberghieri della A.O. Bolognini di Seriate (BG), ha adottato la determinazione n. 7 del 07.02.2012, avente ad oggetto l’illegittima acquisizione in affidamento diretto del servizio di attività di limited review per l’U.O.C. Ragioneria allo Studio KPMG S.p.A. L’incidenza causale di siffatta condotta, costituita dall’emanazione dell’atto illecito, è stata quantificata in misura pari al 40% dell’esborso, ossia per Euro 3.630,00, oltre accessori.
Il dott. DO., nella sua qualità di responsabile della U.O.C. Ragioneria della A.O. Bolognini di Seriate (BG), ha richiesto l’affidamento del servizio di limited review ad una società esterna, come richiamato nella stessa determinazione in contestazione e come emerge dall’e-mail del 01.02.2012 con cui il medesimo inviava al dott. Pe. e al dott. Ve. l’elenco delle aziende da invitare, corredato da un capitolato del servizio di limited review da commissionare. L’incidenza causale di questa condotta, costituita dalla proposta dell’atto illecito, tenendo conto che si trattava di supportare proprio la U.O.C. di cui il Do. era direttore, è stata quantificata in misura pari al 40% dell’esborso, ossia per Euro 3.630,00, oltre accessori.
Il dott. VE., nella sua qualità di Direttore Amministrativo dell’A.O. Bolognini, ha avallato la proposta di affidare l’incarico in contestazione. si richiama l’e-mail del 01.02.2012 inviata alla Regione Lombardia con cui l’Amministrazione regionale veniva informata delle intenzioni della A.O. di affidare l’attività ad una società esterna nei seguenti termini: “in considerazione del permanere della valutazione negativa da parte del Collegio Sindacale si informa che l’Azienda intende attivare una limited review affidata ad una società di revisione indipendente, a cui verrà chiesto di esprimere una valutazione (limitata ai punti in contestazione del bilancio consuntivo 2010)..”. L’incidenza causale di siffatta condotta è stata quantificata in misura pari al 15% dell’esborso, ossia per Euro 1.361,25, oltre accessori.
Il dott. AM., nella sua qualità apicale di Direttore Generale dell’A.O. Bolognini, a conoscenza dell’intera vicenda, è stato destinatario della segnalazione da parte del Presidente del Collegio Sindacale dell’illegittimità dell’incarico in contestazione. La Procura ha richiamato in proposito la nota n. 6970 del 29.02.2012 indirizzata al Presidente del Collegio Sindacale, ove il D.G. sosteneva la legittimità dell’incarico esterno, facendo proprie le motivazioni alla base della limited review, consistita nell’“affidare a un terzo indipendente la valutazione delle poste di bilancio in contestazione. Tale tipologia di verifica rappresenta la modalità normalmente utilizzata anche nel settore delle imprese laddove si manifesti un contrasto tra amministratori e organi di controllo…Per tutto quanto sopra esposto, non si ravvedono profili di “illegittimità” o di “anomalia” nella determinazione n. 7 del 07.02.2012".
L’incidenza causale di siffatta duplice condotta omissiva è stata quantificata in misura pari al 5% dell’esborso, ossia per Euro 453,75, oltre accessori.
Tuttavia, quanto alla sussistenza e all’entità del danno (elemento oggettivo), sussistente nella fattispecie, la Sezione reputa che –valutate le singole responsabilità- possa trovare applicazione l’istituto della riduzione dell’addebito, attesa la peculiarità del contesto, evidenziata dettagliatamente dai difensori dei convenuti, nel quale è maturata la vicenda all’esame della Sezione, con particolare riferimento all’impellenza di giungere all’approvazione del bilancio consuntivo 2010 evitando le conseguenze negative che la mancata approvazione avrebbe avuto a cascata anche sul bilancio consuntivo 2011.
Non si è dunque trattato di una sprezzante violazione delle regole contabilistiche formali e sostanziali che disciplinano la spesa pubblica, bensì della ricerca di una soluzione prospetticamente rivolta alla composizione di contrasti, la quale, se pur illegittima e dannosa, va valutata con proporzionalità e congruità.
Ritiene pertanto il Collegio che, anche in considerazione dell’attività comunque svolta in favore dell’Ente e dei risultati realizzati, nonché tenuto conto del comportamento non collaborativo dei revisori, i convenuti vadano condannati a risarcire all’ Azienda Ospedaliera Bolognini un importo ridotto del 50% (€ 4.537,50) rispetto a quello indicato dalla Procura attrice, già rivalutato, oltre agli interessi legali dal deposito della presente sentenza al saldo, da imputarsi in via parziaria e nelle stesse percentuali di ripartizione indicate dalla Procura stessa.
P.Q.M
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale Lombardia
CONDANNA
I convenuti al pagamento della somma complessiva pari ad € 4.537,50 a favore dell’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate così suddivisa:

FE.PE. € 1.815,00 (pari al 40%);
AL.DO. € 1.815,00 (pari al 40%);
GI.VE. € 680,62 (pari al 15%);
AM.AM. € 226,87 (pari al 5%), già rivalutata, oltre ad interessi legali dal deposito della presente sentenza fino al soddisfo.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza e si liquidano nelle stesse percentuali a carico dei convenuti in € 380,54 (trecentottanta/54) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 31.10.2018 n. 214).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIIl segretario comunale non può invadere la sfera di competenza del responsabile di ragioneria.
Il Segretario comunale non può emettere e reiterare un ordine di servizio per ottenere dal responsabile dei servizi finanziari l’emissione dei mandati di pagamento dei rimborsi forfettari a favore della collaboratrice a titolo gratuito.

È quanto afferma la Corte dei conti, Sez. giurisdiz. per la Lombardia, con la sentenza 31.10.2018 n. 213.
Il fatto
La sezione regionale di controllo per la Lombardia ha condannato per danno erariale il Segretario generale di un comune lombardo, il quale ha ordinato al Responsabile dei servizi finanziari di emettere mandati di pagamento a titolo di rimborso spese forfettario nei confronti di una collaboratrice, senza la dovuta giustificazione contabile.
La Giunta comunale conferiva un incarico a titolo gratuito a una ex dipendente dell’Ente in quiescenza, a prosecuzione dello svolgimento delle funzioni e delle mansioni svolte in precedenza per tutta la durata della sua carriera lavorativa come dipendente dello stesso Comune.
L’incarico prevedeva un rimborso spese mensile, previa rendicontazione delle spese da parte della stessa.
Il Segretario comunale, nella qualità di responsabile degli affari generali, poneva in essere gli atti liquidazione che venivano contestati dall’ufficio di ragioneria, in quanto carenti di documentazione giustificativa.
Per superare l’impasse, il Segretario generale emetteva e reiterava un ordine di servizio per ottenere dal predetto responsabile l’emissione dei mandati di pagamento dei rimborsi forfettari.
La decisione
La sentenza di condanna evidenzia che il Segretario generale ha posto in essere un comportamento inequivocabilmente in contrasto con quei criteri di efficienza, efficacia e rispetto delle norme di buona gestione, cui ogni Pubblica amministrazione deve improntare la propria azione.
Per il collegio giudicante, il rimborso spese deliberato in favore della ex dipendente dell’Ente era stato espressamente subordinato dall’Amministrazione alla produzione di idonea documentazione giustificativa che è imposta dai generali principi cui devono uniformarsi le procedure di erogazione delle spese poste a carico dei bilanci pubblici.
Negli stessi termini dispone la specifica normativa che, nel sancire il divieto per la Pa di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già dipendenti pubblici collocati in quiescenza, fa salvi gli incarichi a titolo gratuito e subordina a rendiconto gli eventuali rimborsi.
Conclusioni
Il principio enunciato è chiaro, nel senso che è contrario al precetto costituzionale del buon andamento il comportamento del Segretario comunale, il quale, in quanto massima autorità burocratica dell’Amministrazione locale, avrebbe dovuto, prima di ognuno, accertarsi la corrispondenza della richiesta di rimborso rispetto al disciplinare dì incarico.
Un appunto vale anche per il responsabile di ragioneria, il quale non avrebbe dovuto dissentire dall’ordine di servizio, in ragione del proprio ufficio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018).
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MOTIVI della DECISIONE
Non essendoci questioni preliminari di rito da valutare si passa ad esaminare il merito della causa.
La fattispecie per cui è causa concerne una ipotesi di responsabilità amministrativa, in relazione alla quale il convenuto è chiamato a rispondere, a titolo di colpa grave, di un danno che la Procura attrice assume essere stato subito dal Comune di Bienno.
Tanto considerato, il Collegio procede quindi a valutare la sussistenza degli elementi richiesti dalla legge per il configurarsi della responsabilità amministrativa contestata con l’atto introduttivo: l’elemento oggettivo, cioè l’effettivo prodursi di un danno pubblico, la cui entità va valutata alla luce delle risultanze probatorie prodotte in causa; l’elemento soggettivo, vale a dire un comportamento gravemente colposo (o doloso), ed il nesso di causalità tra il comportamento e l’evento.
Osserva il Collegio che nessun dubbio sussiste in ordine alla sussistenza, nella specie, dell’elemento oggettivo dell’illecito erariale, della condotta gravemente colposa imputabile al convenuto e del nesso di causalità.
L’indagine istruttoria esperita dal Pubblico Ministero contabile, con l’acquisizione dei pertinenti atti, ha accertato che è stato posto in essere un comportamento inequivocabilmente in contrasto con quei criteri di efficienza, efficacia e rispetto delle norme di buona gestione, cui ogni pubblica Amministrazione deve improntare la propria azione.
I fatti di causa, nella loro materiale sussistenza, sono quelli riportati nell’atto di citazione ed in tutti gli altri documenti di causa
In piena adesione alla tesi argomentativa attrice, il Collegio osserva che il “rimborso spese” deliberato in favore della ex dipendente dell’Ente era stato espressamente subordinato dall’amministrazione alla produzione di idonea documentazione giustificativa che, oltre ad essere prevista dalla lex specialis applicabile al procedimento de quo, è imposta dai generali principi cui devono uniformarsi le procedure di erogazione delle spese poste a carico dei bilanci pubblici.
Negli stessi termini dispone la specifica normativa che, nel sancire il divieto per la P.A. di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già dipendenti pubblici collocati in quiescenza, fa salvi gli incarichi a titolo gratuito e subordina a rendiconto gli eventuali rimborsi (art. 5, comma 9, D.L. 95/2012 convertito nella legge n. 135/2012).
In questa prospettiva, la condotta tenuta dal convenuto St. appare tanto più grave, poiché ha disposto i pagamenti citati nonostante i ripetuti rilievi di criticità sollevati dal responsabile del servizio finanziario, e ciò pur rivestendo una funzione apicale e dunque essendo in possesso di un bagaglio di conoscenze professionali tali da poter imprimere all’azione amministrativa un crisma di legalità e correttezza.
Come rappresentato da parte attrice, il ricorso all’incarico a titolo gratuito, con la corresponsione di un rimborso forfettario, ha dissimulato l’esecuzione di un vero e proprio rapporto di lavoro a termine.
Depongono in tal senso, come chiaramente esposto in citazione dalla Procura, <<la concreta articolazione del rapporto de quo, instaurato all’indomani del pensionamento della collaboratrice con la presenza in servizio della stessa in giorni ed orari definiti (rilevata con cartellino a tempo), la corresponsione di un rimborso forfettario svincolata da ogni giustificazione circa le spese sostenute dalla stessa ed infine le stesse ammissioni formulate da Stanzione in sede di controdeduzioni con il riconoscimento delle circostanze che il rapporto ha avuto ad oggetto, per un periodo limitato, le stesse mansioni esercitate dalla collaboratrice prima del collocamento a riposo e che è stato utilizzato come modalità per far fronte all’ ordinaria funzionalità dell’ uffici anagrafe e stato civile>>.
Ne consegue la constatazione di una chiara violazione della disposizione legislativa richiamata, la cui ratio è quella di evitare che il conferimento di incarichi sia utilizzato dalla P.A. per continuare ad avvalersi di dipendenti collocati in quiescenza, e per attribuire ai medesimi responsabilità rilevanti, aggirando l’istituto del pensionamento e le disposizioni sul reclutamento del personale, ispirate al contenimento della spesa pubblica.
Conclusivamente quindi
il Collegio, alla stregua delle considerazioni sopraesposte, ritiene ravvisarsi in capo al predetto soggetto tutti i necessari elementi costitutivi della responsabilità per il danno erariale arrecato al patrimonio del Comune:
   1) il rapporto di servizio in ragione del quale si è verificato il comportamento pregiudizievole;
   2) il nesso di causalità tra il comportamento posto in essere dal convenuto e l’evento contestato;
   3) l’elemento soggettivo della colpa grave.

Quanto alla sussistenza e all’entità del danno (elemento oggettivo), sussistente nella fattispecie, la Sezione reputa tuttavia che possa trovare applicazione l’istituto della riduzione dell’addebito, attesa la peculiarità del contesto, evidenziata dal difensore del convenuto, nel quale è maturata la vicenda all’esame della Sezione, con particolare riferimento all’impellenza delle esigenze lavorative conseguenti all’accorpamento di Enti e alla scarsità di risorse umane disponibili nell’immediatezza.
Ritiene pertanto il Collegio che, anche in considerazione dell’attività comunque svolta in favore dell’Ente e dei risultati realizzati, nonché tenuto conto della responsabilità condivisa dei membri della Giunta comunale, il convenuto vada condannato a risarcire al Comune di Bienno un importo pari ad € 7.000,00, già rivalutato, oltre agli interessi legali dal deposito della presente sentenza al saldo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia,
disattesa ogni contraria eccezione, deduzione e richiesta,
CONDANNA
il convenuto Gi.ST. al pagamento, in favore del Comune di Bienno, della somma di € 7.000,00 (settemila/00), già rivalutata, oltre agli interessi legali, a decorrere dal deposito della presente sentenza sino al saldo (Corte dei conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 31.10.2018 n. 213).

PUBBLICO IMPIEGOBanditi i commenti lesivi per la p.a.. No a provvedimenti asfittici.
Con sentenza 15.10.2018 n. 241, la Corte conti Toscana ha condannato i membri della Commissione disciplinare di un comune per aver irrogato una sanzione a un dipendente, rivelatasi illegittima in sede giurisdizionale di lavoro.
I componenti della Commissione avevano adottato un provvedimento sanzionatorio nei confronti del dipendente, per avere quest'ultimo postato sul proprio profilo Facebook un'informazione riguardante l'amministrazione, non astenendosi dall'esprimere un commento personale ritenuto lesivo per l'immagine dell'ente.
A seguito di ricorso del dipendente, la sezione lavoro del Tribunale competente ha annullato il provvedimento, ritenendo legittimo il comportamento del ricorrente, contestualmente condannando l'ente a spese e accessori. La grave negligenza è stata rinvenuta nelle valutazioni espresse nella sentenza di accoglimento del ricorso di lavoro, la quale definisce in termini eloquenti, «asfittico», il provvedimento disciplinare adottato nei confronti del dipendente.
L'art. 10 del codice di comportamento dei dipendenti pubblici adottato con dpr 62/2013 dispone che il dipendente, nei rapporti privati, non può assumere alcun comportamento che possa essere nocivo all'immagine dell'amministrazione.
In sostanza, non è in discussione la sussistenza o meno del potere sanzionatorio in sede disciplinare di un'amministrazione nei confronti di un proprio dipendente, asseritamente per violazione del citato art. 10 del codice di comportamento, bensì la sua concreta applicazione nel caso effettivo: rileva non il «se», bensì il «come» dell'esercizio del potere sanzionatorio.
Nondimeno in tali casistiche, la carenza provvedimentale è da ritenersi di grave entità, in considerazione della consolidata giurisprudenza di merito, ordinaria e amministrativa
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).
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FATTO
Con atto di citazione depositato il 04.08.2017 il Procuratore regionale ha citato in giudizio Za.An., Pe.Gi. e Ve.Ma., dipendenti del Comune di Capalbio, a titolo di colpa grave, in quanto ritenuti responsabili di un danno arrecato all’ente quantificato in € 6.980,10.
I fatti causativi del pregiudizio asserito possono essere così riassunti.
I convenuti odierni, nella loro qualità di componenti di Commissione disciplinare del comune di Capalbio, avevano adottato un provvedimento sanzionatorio, emesso in data 25.11.2015, nei confronti di un’altra dipendente, tale Bl.An., consistente in un “richiamo scritto”, avendo la stessa “postato sul proprio profilo Facebook un’informazione riguardante l’Amministrazione ed il Servizio affari generali” non astenendosi dall’esprimere un commento personale ritenuto lesivo per l’immagine dell’ente.
A seguito di ricorso coltivato dall’interessata, il Tribunale di Grosseto – Sezione Lavoro, con sentenza n. 78/2016 ha annullato il provvedimento sanzionatorio, ritenendo legittimo il comportamento della ricorrente Bl., e condannando l’ente alla rifusione delle spese di lite per € 2.501,00 oltre accessori, cui si sono aggiunti € 2.918,24 quali spese per l’assistenza legale fornita dall’avv. An. in favore dell’ente.
A seguito del deposito dell’atto introduttivo, il Presidente della Sezione, ritenendo di poter procedere al procedimento per ingiunzione di cui all’art. 131 del D.Lgs n. 174/2016, ha adottato il decreto n. 27/2017 del 21.09.2017, stabilendo, per ognuno dei convenuti, a ristoro del danno contestato, il pagamento di € 1.300,00 comprensivi di interessi, oltre spese di giudizio.
Il provvedimento, ritualmente notificato, è stato accettato dal sig. Za. in data 23.11.2017 e dal sig. Pe. in data 12 dicembre.
Nel corso dell’odierna udienza, non costituitasi la convenuta, il P.M. ha chiesto la condanna della Verdone al pagamento di un terzo della somma inizialmente contestata, pari ad € 2.326,00.
La causa è quindi passata in decisione.
Considerato in
DIRITTO
Preliminarmente occorre dichiarare la contumacia della convenuta ai sensi dell’art. 93 del Codice.
Nel merito la domanda è fondata.
La grave negligenza contestata alla convenuta è stigmatizzata lucidamente dalle valutazioni espresse nella sentenza di accoglimento del ricorso presentato dalla Bl. innanzi al giudice del lavoro di Grosseto, territorialmente competente, il quale nella sua sintetica disamina definisce asfittico il provvedimento disciplinare adottato nei confronti della stessa Bl..
In buona sostanza,
in questa sede non è in discussione la sussistenza o meno del potere sanzionatorio, in sede disciplinare, dell’Amministrazione di Capalbio nei confronti di una sua dipendente, asseritamente per violazione dell’art. 10 del regolamento che disciplina il comportamento dei dipendenti pubblici, recepite nell’art. 8, c. 1, del codice di comportamento dei dipendenti del comune di Capalbio, adottato con delibera commissariale n. 16 del 12.03.2014, bensì la sua concreta applicazione nel caso che ci occupa.
Quindi non l’an bensì il quomodo di tale esercizio, che evidentemente non ha colto nel segno di evidenziare le difettosità, lesive per il prestigio dell’Amministrazione di appartenenza, non evidenziate dalla convenuta (unitamente agli altri due componenti) nella produzione dell’annullato provvedimento.
La carenza provvedimentale messa in atto è da ritenersi, peraltro, di elevata gravità, anche in considerazione della ormai copiosa giurisprudenza formatasi in sede di giurisdizione di merito, sia in sede di A.G.O., sia in sede di giurisdizione amministrativa.
Sussistono, comunque, ragionevoli motivazioni per una riduzione dell’addebito contestato, quantificabile, pertanto, in € 1.500,00 oltre interessi legali dal deposito al soddisfo.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Toscana, definitivamente pronunciando nel giudizio n. 60852, respinta ogni contraria istanza ed eccezione
DICHIARA
VE.Ma. contumace nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 60852 del registro di Segreteria;
CONDANNA
VE.Ma. al pagamento, in favore del comune di Capalbio (GR), della somma di € 1.500,00 aumentata degli interessi legali dal deposito al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 15.10.2018 n. 241).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTimbratura del cartellino, danno all'immagine sproporzionato se la violazione è di poche ore.
La lotta ai furbetti del cartellino ha portato il legislatore delegato all'adozione dei misure sanzionatorie particolarmente incisive (procedura acceleratoria del licenziamento, sospensione cautelare del dipendente) ma con eccesso di delega non avendo previsto che, in caso di tenuità del fatto, il danno all'immagine, la cui quantificazione spetta in via equitativa al giudice contabile, prevede un importo minimo non proporzionato non lasciando alcun margine al giudice adito.

L’eccezione è stata sollevata davanti alla Corte costituzionale dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per l'Umbria, con l'ordinanza 09.10.2018 n. 76.
La vicenda
Una dipendente comunale, addetta all'ufficio del turismo, ha certificato, in quattro giorni diversi e non continuativi, il proprio orario di uscita un’ora dopo quello reale (alle 17.00 invece che alle 18.00 come falsamente attestato). Il Procuratore ha, pertanto, quantificato il danno erariale pari a 64,81 euro, mentre per il danno all'immagine ha dovuto quantificare la misura minima prevista dal l’articolo 55-quater, comma 3-quater, del Dlgs 165/2001 secondo cui «L'ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
La dipendente si è difesa sostenendo oltre l'irrilevanza e la tenuità dei fatti, l'illegittimità costituzionale della sanzione afflittiva per danno all'immagine, per avere la norma indicato un valore minimo della sanzione da comminare senza alcuno spazio decisivo del giudice contabile, con la conseguenza che, a fronte di 64,81 euro di danno da mancata prestazione lavorativa, la quantificazione del danno all'immagine risultava pari a 20.000 euro.
L'ordinanza dei giudici contabili
Secondo il collegio contabile non ci sono dubbi circa una condotta di falsa attestazione della presenza in servizio della dipendente che ha alterato i sistemi di rilevamento della presenza con modalità fraudolente. Il danno erariale è stato, pertanto, quantificato in complessive 4 ore certificate nel periodo osservato di falsa presenza in servizio. I dipendenti pubblici, infatti, sono tenuti al rispetto di un orario di lavoro e sono obbligati a prestarlo secondo le modalità, le forme e i tempi stabiliti dal datore di lavoro pubblico.
Pertanto, la dipendente, in violazione delle regole di condotta e degli obblighi di presenza in servizio, ha modificato il proprio orario di uscita, anticipandolo di un'ora rispetto a quello da lei dichiarato e attestato, disvelando una predeterminazione intenzionale. Il numero di ore certificato dalla dipendente, ma non effettivamente svolto, va considerato danno erariale e come tale va addebitato alla convenuta.
Sul danno all'immagine
Per i l Collegio contabile non c’è alcun dubbio circa la corresponsione del danno all'immagine, quale posta risarcitoria corrispondente alle ore remunerate ma non svolte dalla dipendente ma il giudice contabile non può infliggere una sanzione minore del minimo obbligatorio di sei mensilità previsto dal legislatore. Nel caso di specie, il Collegio contabile precisa come, le stesse disposizioni legislative, prevedono un danno all'immagine che «comunque … non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento», privando in tal modo lo stesso giudice contabile di una autonoma determinazione e quantificazione dell'effettivo danno subito dall'ente.
In altri termini, il legislatore delegato non avrebbe dovuto introdurre norme di diritto sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione del danno all'immagine da falsa attestazione della presenza in servizio fissando una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo che potrebbe essere in concreto sproporzionata come nel caso di specie.
Essendo la previsione irragionevole, atteso che obbliga il giudice contabile a irrogare una condanna sanzionatoria senza tener conto dell'offensività in concreto della condotta posta in essere, anche in presenza di una tenuità del fatto accertato nel caso concreto, gli atti devono essere trasmessi alla Consulta per la verifica di costituzionalità della norma (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, per i tetti di spesa vale il bilancio.
Gli enti locali senza la dirigenza hanno un problema: come conteggiare il valore di competenza delle posizioni organizzative ai fini della verifica dei limiti al trattamento accessorio complessivo. Finalmente, arriva il chiarimento da tanto atteso.

La Corte dei conti della Sicilia, con il parere 03.10.2018 n. 172 ha concluso che il parametro da utilizzare è la somma stanziata a bilancio.
L'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 prevede che l'ammontare complessivo del trattamento accessorio non possa superare ciascun anno quello dell'anno 2016. La norma sostituisce le precedenti disposizioni, ovvero l'articolo 9, comma 2-bis, del Dl 78/2010 e l'articolo 1, comma 236, della legge 208/2015.
Come ormai più volte ribadito, nelle limitazioni non si può considerare solo l'importo corrispondente al fondo delle risorse decentrate, ma va incluso anche l'aggregato riconosciuto ai dipendenti di titolari di posizione organizzativa, corrispondente alla retribuzione di posizione e di risultato. Nella base di calcolo dell'anno 2016, quindi, anche questo valore andrà indicato, come poi andrà verificato di anno in anno per rispettare il “tetto”.
Per gli enti con la dirigenza, la problematica dell'anno 2016 non esiste, in quanto, gli incarichi di posizione organizzativa erano finanziati all'interno del fondo. Quindi, basta prendere questo valore che il limite è determinato.
Gli enti senza la dirigenza
Per gli enti senza la dirigenza, invece, le posizioni organizzative erano imputate a bilancio e quindi è più difficile capire a quali importi fare riferimento. Infatti, nella richiesta di parere contenuta nella delibera in esame è stato chiesto alla Corte dei conti se si debba fare riferimento:
   • alla ipotetica struttura organizzativa esistente nell'ente nell'anno 2016 e quindi all'ipotetica spesa per il trattamento accessorio per le posizioni organizzative che l'ente avrebbe potuto sostenere, nei limiti di spesa del personale all'epoca vigenti, sulla base della pesatura esistente nell'anno 2016;
   • al valore impegnato sul bilancio 2016 complessivo sia a titolo di indennità di posizione che a titolo indennità di risultato (senza tenere pertanto in considerazione le eventuali minori somme corrisposte per decurtazioni assenza per malattia o per mancato raggiungimento degli obiettivi);
   • oppure se l'ente deve fare riferimento a quelle effettivamente erogate e riferite all'esercizio 2016.
Conclusioni
Domande più che mai opportune che hanno avuto una risposta chiara: il limite non può essere quello quantificato tenendo conto della ipotetica struttura organizzativa né quello relativo alle somme effettivamente erogate e riferite all'esercizio 2016, piuttosto deve essere quello rappresentato dall'ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel medesimo esercizio finanziario.
E così si chiude un cerchio. Infatti, anche il contratto 21.05.2018 usa un termine molto simile a quello utilizzato dai magistrati contabili facendo riferimento al valore delle posizioni organizzative “finalizzato” a retribuzione di posizione e risultato. Poiché le posizioni organizzative sono appunto finanziate a bilancio (e non in un fondo!) il parametro di riferimento non può che essere quello dell'importo stanziato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al lordo degli oneri al dipendente che svolge attività extra non autorizzata.
Un dipendente pubblico non può svolgere lavoro subordinato a favore di terzi senza la preventiva autorizzazione dell'ente di appartenenza.
Lo ha ribadito la Corte dei conti del Lazio con la sentenza 26.09.2018 n. 492, condannando un impiegato dell'Inps alla restituzione dei compensi lordi illegittimamente percepiti dal settembre 2004 al dicembre 2006, per un importo di poco superiore a 50 mila euro.
Secondo le circostanze emerse, in tale periodo il dipendente aveva svolto attività lavorativa retribuita come cameriere senza essere autorizzato dal proprio ente, in violazione del dovere di imparzialità ed esclusività del rapporto di servizio con l'amministrazione.
Le regole
Questa materia è stata disciplinata dal legislatore con l'articolo 53, comma 7, del Dlgs 165/2001, in base al quale «i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza».
La previa autorizzazione della Pa non riveste carattere meramente formale, in quanto è compito dell'amministrazione espletare un'istruttoria in ordine all'istanza del dipendente, per verificare in primis l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.
Lo stesso comma precisa che in caso di violazione del principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego «il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti».
Il successivo comma 7-bis dell'articolo sopra richiamato stabilisce inoltre che «l'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti». In linea con tale disposto, la Corte dei conti del Lazio interviene e condanna il dipendente convenuto in giudizio in base a un'istruttoria che dopo l'esame delle eccezioni preliminari accerta la sussistenza di un danno erariale causato dalla violazione dei doveri di imparzialità ed esclusività del rapporto di servizio con l'amministrazione, mediante lo svolgimento di attività lavorativa privata remunerata.
Il conteggio del rimborso
Un aspetto rilevante della pronuncia è rappresentato dal fatto che i giudici respingono l'istanza della difesa che, per quanto riguarda la remunerazione dell'imputato, contesta la parametrazione al lordo dei compensi ricevuti.
Il collegio afferma sul punto che «dal dato normativo si evince come il danno erariale sia costituto dall'ammontare del compenso da corrispondere, non già dalla somma di cui il dipendente ha mantenuto la disponibilità dopo aver adempiuto ai propri obblighi fiscali e contributivi».
Sotto questo profilo, si osserva che il criterio per la quantificazione del danno erariale è stato più volte oggetto di esame della magistratura contabile, che si è espressa da ultimo con la pronuncia della prima sezione centrale d'Appello n. 218/2018. L’orientamento maggioritario va nel senso che ai fini del danno erariale il calcolo va effettuato al lordo degli oneri riflessi e fiscali (tra le tante: sentenze III sezione d'appello n. 189/2013; II sezione n. 116/2010; sezione d'Appello per la Sicilia n. 379/2011 e n. 22/2012; Sezione Lombardia n. 89/2013; Sezione Toscana n. 188/2013).
L’assunto trova la sua ragion d'essere nel fatto che le differenze retributive costituite dalle imposte e dai contributi previdenziali si configurano come una voce di spesa che viene a gravare ingiustificatamente sul bilancio della Pa, per effetto del comportamento illecito tenuto dal dipendente responsabile.
In definitiva, anche se il dipendente pubblico ha tratto dalle prestazioni illegittime un importo di minore entità, egli si rende comunque responsabile per ogni ulteriore onere che, con l'agire contra legem, ha indirettamente arrecato in pregiudizio al patrimonio della Pa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.10.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco per la revoca anticipata della posizione organizzativa.
La revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa di un dipendente, al di fuori delle regole legislative e contrattuali, la cui illegittimità sia stata accertata dal Tribunale del lavoro, comporta la responsabilità in capo al sindaco che l’ha adottata, con conseguente danno erariale pari alla retribuzione di posizione e di risultato riconosciuta dal giudice al dipendente estromesso.

Queste le indicazioni della sentenza 24.09.2018 n. 59 della Corte dei conti, Sez. giurisdiz. regionale per il Molise.
Il caso
Il sindaco di un Comune ha estromesso il responsabile dell'ufficio tecnico per una serie di inadempimenti. Data la mancanza di altri professionisti, prima che si svolgesse il concorso per la categoria giuridica D3 non posseduta dal dipendente, gli incarichi apicali erano stati conferiti per diversi anni a professionisti esterni mediante specifica convenzione.
Il giudice del lavoro adito dal dipendente ha riconosciuto l'illegittimità della revoca anticipata, effettuata in violazione di legge e del contratto collettivo nazionale che scandiscono procedure tipizzate, come in caso di intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi soggetti a valutazione annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall'ente. Il primo cittadino è stato, pertanto, rinviato a giudizio dalla Procura per il danno erariale causato dall'illegittima estromissione del dipendente al di fuori delle procedure tipizzate previste dalla normativa.
Il sindaco si è difeso sostenendo di aver correttamente agito per il superiore pubblico interesse al fine di una gestione efficiente che avrebbe potuto essere assicurata dall'apporto di professionisti esterni convenzionati e, successivamente, mediante assunzione di uno specialista attraverso un concorso pubblico. Il sindaco ha precisato, inoltre, che lo stesso Tar ha dato ragione al Comune sull'indizione del concorso per la categoria giuridica D3, dove era richiesta la laurea non posseduta dal dipendente, e rigettato l'impugnazione da parte del dipendente che non ha potuto partecipare per mancanza del titolo di studio richiesto.
Le conclusioni del collegio contabile
Secondo i giudici contabili molisani non può non essere evidenziata la colpa grave da parte del sindaco che non ha seguito le indicazioni contrattuali, in merito alla revoca anticipata della posizione organizzativa, tanto da essere l'amministrazione condannata dal giudice del lavoro al pagamento della retribuzione di posizione e di risultato per un periodo di circa tre anni, ossia fino alla conclusione della nomina del vincitore del concorso pubblico. L'illegittimità discende, inoltre, dalla non corretta applicazione della normativa del testo unico che prevede la possibilità di conferire incarichi all'esterno solo in mancanza di professionalità interne che, nel caso di specie, vi erano.
Pertanto, conclude il collegio contabile, ferma rimanendo la contrarietà alla legge della revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa, anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall'ente risulta in contrasto con le disposizioni normative. Il danno erariale causato all'ente corrisponde alla condotta contra legem da parte del sindaco, infatti ove queste condotte non fossero state poste in essere (procedimento di cosiddetta eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe avuta una sentenza di condanna del Comune e dunque gli esborsi inutili non si sarebbero realizzati.
Rispetto a questi inutili esborsi il collegio contabile riconosce, tuttavia, una riduzione essendo la decisione stata presa pur sempre in ambito collegiale dalla giunta comunale pur essendo il solo sindaco l'effettivo proponente e colui che ne ha dato attuazione con i successivi provvedimenti monocratici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018).
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DIRITTO
   [1] In via pregiudiziale, occorre innanzitutto esaminare l'eccezione di difetto di giurisdizione di questa Corte (ex art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994), rilevabile d'ufficio sebbene tardivamente avanzata dal convenuto avuto riguardo in particolare alla rivendicata natura discrezionale della determinazione di revoca dell'incarico in danno del geom. To..
In proposito, giova innanzitutto premettere che nella specie l'Organo requirente contesta l'illecito esercizio del potere di revoca di incarico dirigenziale e successivo conferimento ad esterni, per il quale appare probabilmente più corretta una qualificazione in termini di manifestazione negoziale (determinazione datoriale) di autonomia privata ex art. 1322 c.c. (pur con gli adattamenti dogmatici conseguenti alla natura pubblica dell'Ente conferente), piuttosto che quale manifestazione di discrezionalità amministrativa, insindacabile nel merito ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994 .
Ad ogni modo, con riguardo a quest'ultimo principio normativo, il Collegio non può che richiamare l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui "la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente pubblico. Infatti, se da un lato, in base all'art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti, dall'altro lato, l'art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità) dell'azione amministrativa. Pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti. Inoltre l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore. Più in generale è stato altresì precisato che il comportamento contra legem del pubblico amministratore non è mai al riparo dal sindacato giurisdizionale non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile” (Cass. SS.UU. sent. n. 1979 del 2012; cfr: Cass. SS.UU., sent. n. 4283/2013).
Il Collegio ritiene dunque di dover dichiarare la sussistenza della giurisdizione di questa Corte in ordine al sindacato sulla illiceità delle menzionate determinazioni datoriali, in ordine alle quali, peraltro, l'Organo requirente ha contestato, come meglio si dirà nel prosieguo, specifiche violazioni della vigente normativa.
   [2] In via preliminare, occorre esaminare l'eccezione di nullità dell'atto di citazione per ritenuta violazione dell'art. 17, comma 30-ter, del D.L. n. 78 del 2009, avanzata dal convenuto in quanto non vi sarebbe stata, in tesi, una previa specifica e concreta notizia di danno erariale.
In proposito, il Collegio rileva l'inammissibilità dell'eccezione ex art. 90, comma 3, del d.lgs. n. 174/2016 (codice di giustizia contabile), in quanto proposta soltanto nella memoria di costituzione tardivamente depositata.
Ad ogni modo, pare utile rammentare che le SS.RR. (sent n. 12/QM/2011) di questa Corte hanno chiarito che ““Il significato da attribuire all’espressione “specifica e concreta notizia di danno”, recata dall’art. 17, comma 30-ter, in esame, è così precisato: il termine notizia, comunque non equiparabile a quello di denunzia, è da intendersi, secondo la comune accezione, come dato cognitivo derivante da apposita comunicazione, oppure percepibile da strumenti di informazione di pubblico dominio; l’aggettivo specifica è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di fatti, tale da non apparire generica, bensì ragionevolmente circostanziata; l’aggettivo concreta è da intendersi come obiettivamente attinente alla realtà e non a mere ipotesi o supposizioni. L’espressione nel suo complesso deve, pertanto, intendersi riferita non già ad una pluralità indifferenziata di fatti, ma ad uno o più fatti, ragionevolmente individuati nei loro tratti essenziali e non meramente ipotetici, con verosimile pregiudizio per gli interessi finanziari pubblici, onde evitare che l’indagine del PM contabile sia assolutamente libera nel suo oggetto, assurgendo ad un non consentito controllo generalizzato””.
Inoltre, le SS.RR. hanno specificato che “per “fattispecie direttamente sanzionate dalla legge” devono intendersi quelle in cui non soltanto è prevista una sanzione pecuniaria come conseguenza dell’accertamento di responsabilità amministrativa, ma in cui la norma definisce altresì l’automatica determinazione del danno, mentre va escluso che possano rientrarvi le ipotesi in cui la legge si limiti a prevedere che una certa fattispecie “determina responsabilità erariale”, o espressioni simili. In ipotesi di fattispecie direttamente sanzionate dalla legge, di cui sopra, pur escludendosi la sanzione di nullità ex art. 17, cit., in quanto l’attività istruttoria è legittimata direttamente dalla legge, restano fermi i principi fissati dalla Corte costituzionale. Ulteriore corollario di tale criterio interpretativo è che nell’ipotesi in cui è la legge stessa a imporre un obbligo di comunicazione al PM contabile, quest’ultimo resta abilitato a compiere accertamenti istruttori, tale essendo la ratio di simili prescrizioni legislative, non superate dall’art. 17 medesimo””.
Orbene, con riguardo al caso di specie, la notitia damni è consistita nella trasmissione alla Procura contabile, da parte della Sezione regionale di Controllo per il Molise (destinataria per errore di comunicazione proveniente dal Comune), della delibera consiliare n. 19 del 28/11/2013, con la quale l'Ente ha riconosciuto un debito fuori bilancio a vantaggio del suddetto dipendente, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 167/2000.
Peraltro, il Comune ha trasmesso detta delibera di riconoscimento di debito fuori bilancio in adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 23, comma 5, della legge n. 289/2002, ai sensi del quale "I provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente Procura della Corte dei conti" (e non già alla Sezione regionale di Controllo, n.d.r.).
Pertanto, trattandosi di ipotesi di adempimento di obbligo di comunicazione specificamente previsto dalla legge, la Procura contabile deve ritenersi legittimata, tanto più alla luce del menzionato orientamento del giudice della nomofilachia contabile, a compiere accertamenti istruttori e quindi ad esercitare, ove ne ricorrano i presupposti, l'azione di responsabilità amministrativa per danno all'erario.
   [3] Nel merito, ai fini della ricostruzione dell’elemento oggettivo dell’illecito amministrativo-contabile contestato, occorre preliminarmente riepilogare la successione dei fatti maggiormente rilevanti ai fini del giudizio.
Innanzitutto, occorre evidenziare che il sig. Ma.To., assunto con concorso pubblico come geometra part-time dall'01/01/1991 nella VI qualifica funzionale, è stato individuato come responsabile del servizio “area tecnica e gestione R.S.U. e tosap” già con delibera di Giunta comunale n. 129 del 30/10/1997.
Con successiva delibera di Giunta Comunale n. 79 del 24.09.1998, il geom. To.Ma. è stato poi inquadrato, ai sensi di legge, nel VII livello (oggi cat. D), con successivo riconoscimento della progressione cat. D3 dall'01/01/2001.
Dopo aver approvato il regolamento di organizzazione e funzionamento degli Uffici e dei Servizi (Delibera di G.M. n. 12 del 02.02.1999), il Comune, con delibera consiliare n. 23 del 18.07.1999, ha approvato uno schema di convenzione per l'eventuale conferimento a personale esterno dell'incarico, di durata annuale, di Responsabile dell'Ufficio Tecnico comunale, motivata con la asserita situazione deficitaria dell'Ufficio (ritardi nei tempi di risposta, anche in ragione del rapporto a tempo parziale del responsabile).
Quanto al ruolo svolto dal Sindaco A.P., nella delibera si legge innanzitutto che questi “ha predisposto con l’esecutivo uno schema […]” di deliberazione.
Inoltre, nell’ambito del dibattito consiliare, il consigliere Ro. faceva “rilevare che il contenuto della convenzione è illegittimo perché privo dei requisiti di legge che consentono l'eventuale attuazione della convenzione. Si precisa inoltre che le motivazioni previste in detta convenzione sono inadeguate ed insufficienti. Il servizio riguardante l'ufficio tecnico comunale è svolto da un dipendente che ha i requisiti per svolgere in maniera adeguata i compiti dell'ufficio stesso, avendone capacità professionale e l'inquadramento del relativo livello.
Non risulta agli atti presenti in questo Consiglio Comunale, che ci sia stata una adeguata ed efficace indagine da far apparire conveniente l'attribuzione dell'incarico a persone esterne, né risulta agli atti l'esserci stato un contatto con l'attuale responsabile dell'ufficio tecnico finalizzato a risolvere eventualmente quello che si intende risolvere con l'affidamento di che trattasi.
Precisa che a suo parere che le motivazioni addotte dal presidente non giustificano l'irragionevole esborso di risorse per attuare la convenzione medesima.
Preannuncia ed invita anche la minoranza a prendere tale posizione ad un eventuale ricorso alle vie legali e presso gli organi tutori per far sì l'eventuale provvedimento positivo non abbia seguito.
Fa rilevare che trattandosi di problemi che interessano il personale proporrà in prima istanza opposizione al CO.RE.CO. Sez. di Isernia per poi adire eventualmente anche gli uffici della Corte dei Conti
”.
La delibera riporta altresì che, a fronte di dette perplessità (e di quelle di un ulteriore consigliere comunale), il Sindaco ha preso la parola sostenendo l’insussistenza di aggravi di spesa e la necessità di migliorare l’andamento dell’ufficio tecnico.
A seguito di detta delibera consiliare, il CORECO di Isernia, con ordinanza n. 648 adottata nella seduta del 26/08/1999, ha invitato il Consiglio comunale di Pettoranello a procedere ad un riesame del deliberato ex art. 17, comma 39, della legge n. 127/1997, avendo rilevato i seguenti vizi di legittimità:
   - “manca il parere tecnico di cui all’art. 53 della legge n. 142/1990;
   - la funzione che si intende affidare al tecnico esterno, come rilevasi dallo schema di convenzione approvato, rientra tra i compiti istituzionali del tecnico comunale il cui posto è presente e coperto in pianta organica
”.
Tuttavia, il Consiglio comunale, con delibera n. 34 del 28/09/1999, ha riapprovato la delibera n. 23/1999, senza apportare alcuna modifica.
Ancora una volta, dal testo della delibera si evince il ruolo dominante assunto dal Sindaco A.P. (si parla di delibera assunta su “sua proposta”), che, dinanzi all'assemblea e pur a fronte di un intervento di un consigliere che evidenziava la mancata eliminazione dei vizi di legittimità evidenziati dal Co.re.co, ha giustificato la mancanza del parere del responsabile tecnico e ha ribadito la ritenuta assenza di aggravi economici per l’ente (non sarebbe stato necessario, in tesi, neppure il parere di regolarità contabile, essendo un mero atto di indirizzo).
Ad ogni modo, questa vicenda dell’adozione dello schema di delibera di approvazione di convenzione di affidamento di incarico esterno, pur essendo significativa al fine di ricostruire l’elemento soggettivo dell’illecito contestato, non risulta aver avuto seguito concreto nell’immediato (sarà solo successivamente presa a riferimento per gli incarichi esterni), in quanto parecchi mesi dopo, a seguito della delibera di Giunta n. 25 del 31/03/2000 di individuazione delle aree e dei servizi, il Sindaco A. P. ha adottato il decreto n. 930 del 03.04.2000, di nomina del geom. To.Ma. a responsabile dell'area tecnico-manutentiva.
Detto provvedimento sindacale di nomina, con efficacia “per tutta la durata del mandato amministrativo, salvo revoca”, ha espressamente provveduto ad assegnare al geom. To.Ma., quale dipendente di categoria D, la responsabilità dell’area tecnica Tosap, opere pubbliche, urbanistica, gestione del territorio, servizi tecnico-manutentivi del patrimonio e degli impianti di pubblica illuminazione, rete idrica, fognante-depurazione, P.r.g. e strumenti attuativi, protezione civile, rifiuti urbani (limitatamente al servizio di raccolta, smaltimento e predisposizione dei ruoli) e responsabile unico dei LL.PP., assegnandogli le conseguenti risorse umane, e riconoscendogli altresì la correlata retribuzione di posizione e di risultato.
Tuttavia, a soli circa due mesi e mezzo dal conferimento, il Sindaco A.P., dopo aver contestato per iscritto in data 10/06/2000 al geom. To. ritenute carenze dell'ufficio tecnico invitandolo a fornire risposta scritta in merito entro giorni 15 (dette contestazioni sono state puntualmente e documentatamente confutate dall'interessato con comunicazione prot. n. 1825 del 27/06/2000), ha adottato (addirittura prima della scadenza dei 15 giorni assegnati per la difesa dalle contestazioni) un ulteriore decreto sindacale ma di revoca, il n. 1792 del 23.06.2000, in quanto il nominato "non svolge con puntualità gli incarichi che la Giunta comunale e lo scrivente gli conferiscono".
In proposito, pare appena il caso di evidenziare la patente contrarietà alla normativa pro tempore vigente del menzionato provvedimento di revoca, come peraltro già incidentalmente accertato dalla menzionata sentenza del Tribunale di Isernia.
In particolare, l’art. 51 comma 6, della legge n. 142/1990, espressamente delimitava il potere sindacale di revoca nei seguenti termini: gli incarichi “sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del Sindaco o del Presidente della Provincia, della Giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi loro assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo 25.02.1995, n. 77, e successive modificazioni, o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dall'articolo 20 del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e dai contratti collettivi di lavoro”.
Ancora più puntualmente, il CCNL pro tempore vigente, all’articolo 9, commi 3 e seguenti, delimitava il potere di revoca degli incarichi nei seguenti termini: “3. Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi. 4. I risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di cui al presente articolo sono soggetti a valutazione annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall’ente. La valutazione positiva dà anche titolo alla corresponsione della retribuzione di risultato di cui all’art. 10, comma 3. Gli enti, prima di procedere alla definitiva formalizzazione di una valutazione non positiva, acquisiscono in contraddittorio, le valutazioni del dipendente interessato anche assistito dalla organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da persona di sua fiducia; la stessa procedura di contraddittorio vale anche per la revoca anticipata dell’incarico di cui al comma 3”.
Peraltro, successivamente a detta revoca, evidentemente adottata in difetto degli stringenti presupposti previsti dalla disciplina pro tempore vigente, la Giunta comunale ha provveduto, pur avendo l’Ente a disposizione le competenze del geom. Ma.To., a conferire i seguenti incarichi esterni per la copertura del posto di responsabile dell’area tecnica (dapprima affidato per breve tempo al Segretario comunale, fatto estraneo alle contestazioni attoree):
   1) Ing. Ma. De Vi.: d.g.m. n. 64 del 30.06.2000 per il periodo 01.07.2000-30.6.2001 e n. 90 del 29.06.2001 per il periodo 01.07.2001-30.6.2002, per un compenso complessivo erogato pari a € 10.006,82;
   2) Ing. Ar.Mi.: d.g.m. n. 20 del 15.02.2002 per il periodo 15.02.2002-15.05.2002, d.g.m. n. 72 del 10.05.2002 per il periodo 16.05.2002-15.06.2002, d.g.m. n. 97 del 21.06.2002 per il periodo 16.06.2002-30.08.2002, d.g.m. n. 125 del 27.08.2002 per il periodo 01.09.2002-31.10.2002, d.g.m. n. 168 del 31.10.2002 per il periodo 01.11.2002-31.12.2002, d.g.m. n. 195 del 21.12.2002 per il periodo 01.01.2003-30.06.2003, d.g.m. n. 85 del 17.06.2003 per il periodo 01.07.2003-31.12.2003 per un compenso complessivo erogato pari a € 8.330,32;
   3) Arch. Mi.D'Am.: d.g.m. n. 112 del 31.07.2003 per il periodo 01.08.2003-30.11.2003 per un compenso complessivo erogato pari a € 2.633,93;
   4) Ing. Fr.La.: d.g.m. n. 163 dell'11.11.2003 per il periodo 13.11.2003-13.02.2004, d.g.m. n. 67 del 29.04.2004 per il periodo 13.03.2004-13.05.2004 per un compenso complessivo erogato pari a € 8.901,46.
In particolare, si osserva che nella prima delibera giuntale di conferimento di incarico esterno, poi reiterata, si motiva l’adozione del provvedimento con l’urgenza determinatasi “a causa della revoca” disposta dal Sindaco, non si riscontra il parere di regolarità tecnica (viene riportato esclusivamente il parere di regolarità contabile) e si prende a modello di conferimento lo schema di convenzione già approvato con delibera consiliare n. 23/1999.
Come evidenziato dalla menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, il Testo Unico per gli Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000; per il primo incarichi si veda l’art. 51 della legge n. 142/1990 nel testo pro tempore vigente, poi confluito nel T.U.) consente l’affidamento all’esterno di incarichi dirigenziali (art. 110, comma 1), solo previa previsione statutaria, ed inoltre condiziona in ogni caso l’affidamento di incarichi di responsabilità fuori dotazione organica alla “assenza di professionalità analoghe presenti nell’ente”.
Peraltro, detto limite della “assenza di professionalità analoghe presenti all’interno dell’Ente” è stato ribadito dall’art. 39 dello Statuto dell’ente approvato con deliberazione C.C. n. 16 del 05/04/2001 ed anche successivamente dall’art. 35 del regolamento uffici e servizi (senza distinzione tra incarichi ricompresi e non ricompresi nella dotazione organica) approvato con delibera di Giunta n. 138/2012, provvedimento che ha altresì determinato la nuova dotazione organica prevedendo, accanto ad un posto di istruttore direttivo D/1, un posto di responsabile del servizio D/3 (qualifica peraltro posseduta anche dal geom. To. a decorrere dal 01.01.2001; sulla unitarietà/inscindibilità, economica e giuridica, delle diverse posizioni nell’ambito della categoria D, si veda, ex pluribus, Cass. sent. n. 24356/2017).
Pertanto, ferma rimanendo la contrarietà a legge della suddetta revoca di incarico, anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall’ente risulta in contrasto con le riferite disposizioni normative.
A seguito delle suddette condotte contra ius, il Tribunale di Isernia, con la richiamata sentenza n. 285/2012, in parziale accoglimento della domanda del geom. To., ha condannato il Comune di Pettoranello del Molise a corrispondere al dipendente l’indennità di retribuzione e l’indennità di risultato nella misura indicata nel decreto del Sindaco n. 930 del 03/04/2000, dalla data dell’01/02/2001 all’01/06/2004, oltre interessi legali.
L’importo è stato poi rideterminato a seguito di transazione stipulata tra le parti in data 20/11/2013 (conclusa nonostante il Comune avesse già proposto appello, in contrasto con la valutazione del suo stesso difensore, avverso detta sentenza del Tribunale di Isernia), concordando l'importo da riconoscere al sig. To. in euro 35.350,00 omnicomprensivi, da rateizzare in tre esercizi finanziari.
In particolare, la Procura ha documentato l’effettivo pagamento di detto importo, costituente danno erariale, secondo le modalità di seguito riportate e per un totale di euro 34.624,13:
   - per la annualità 2013 a € 11.333,15, pagati il 19.12.2013 su mandati n. 829 (€ 7.030,00), n. 830 (€ 1.865,60), n. 831 (€ 597,55) e n. 832 (€ 1.840,00) del 12.12.2013;
- per la annualità 2014 a € 11.490,98, pagati su mandati n. 703 (€ 1.673,03 pagato il 22.12.2014), n. 705 (€ 597,51 pagato il 22.12.2014), n. 706 (€ 2.190,88 pagato il 17.12.2014 del 2.12.2014, n. 787 del 17.12.2014 (€ 7.029,56 pagato il 18.12.2014);
   - per la annualità 2015 a € 11.800,00 (acconto di € 8.939,70, come da cedolino di febbraio 2016).
A detto ammontare corrisposto dal Comune al sig. To., la Procura ha ritenuto di dover assommare, ai fini della quantificazione del danno erariale, l’importo di euro 3.000,00 liquidato dal Comune con determina del responsabile del settore finanziario (mandati del 15/02/2013 n. 96 di € 2.000,00 e n. 97 € 1.000,00) a vantaggio dell’avv. Co. per la difesa dinanzi al Tribunale di Isernia, nonché l’importo di euro 345,50 a titolo di contributo unificato per il deposito del ricorso di appello avverso la più volte menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, per un importo totale del danno contestato di euro 37.969,63 (euro 34.624,13 + euro 3.000,00 + euro 345,50).
In proposito, sul terreno della ricostruzione del nesso di causalità, non può che osservarsi, innanzitutto, che il richiamato danno all'erario risulta causalmente collegato alla riferita condotta contra ius posta in essere dal convenuto; infatti ove dette condotte non fossero state poste in essere (procedimento di c.d. eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe avuta una sentenza di condanna del Comune (e la transazione, pure posta in essere successivamente alla scadenza del mandato sindacale del convenuto) e dunque gli esborsi in questione (in assenza delle specifiche prestazioni direttive del geom. To.) non si sarebbero realizzati.
Nel contempo, richiamando nozioni generali relative all'illecito colposo, non può che convenirsi che l'evento dannoso si presenta ictu oculi come conseguenza prevedibile della lesione del bene giuridico tutelato dalla norma violata, essendo ovviamente preventivabile l'instaurazione di un contenzioso (e la probabile condanna dell'Ente) a seguito di provvedimento illegittimo di revoca di assegnazione di funzioni di responsabile di un servizio.
Né tanto meno può fondatamente sostenersi che l'intervenuta successiva transazione (o anche la delibera di riconoscimento di debito fuori bilancio), in quando adottate da soggetti diversi dal convenuto, abbiano prodotto l'interruzione del nesso di causalità, tenuto conto che dette condotte non costituiscono affatto comportamento da solo sufficiente a determinare l'evento (cfr. art. 41 c.p.) ed anzi non hanno neppure comportato un mero incremento del danno all'erario conseguente alla condotta contra ius dell'Ente (e alla correlata condanna patita dal Comune dinanzi al G.O.).
Tuttavia, ritiene il Collegio che non possa esser ascritto alla condotta del convenuto l’esborso relativo al contributo unificato per il ricorso in appello, considerato (non tanto che la decisione di esperire il gravame è stata assunta da soggetti diversi dal convenuto, ma) che questa è stata presa nonostante parere contrario del legale incaricato, il quale, con comunicazione datata 18.03.2013, ha fatto presente all’amministrazione pro tempore in carica che “stante l'accoglimento parziale della domanda attorea, adeguatamente motivata in sentenza, allo stato è opportuno valutare la ipotesi di non proporre appello principale avverso la predetta Sentenza”.
Pertanto, il danno eziologicamente riconducibile alla condotta del convenuto, ammonta, ad avviso del Collegio, ad euro 37.624,13.
   [4] Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, dall’esame degli atti emerge, ictu oculi, la gravità della colpa ascrivibile al convenuto.
Invero, l’evidenza del dato normativo relativo al conferimento e alla revoca di incarichi dirigenziali, insieme con la descritta successione di atti, evidenzia la grave colpa del Sindaco innanzitutto nell’adozione del decreto di revoca n. 1792 del 23/06/2000, assunto in carenza dei presupposti di legge, dopo soli due mesi e mezzo dal provvedimento di conferimento delle medesime funzioni, adottato dallo stesso Sindaco, nonché addirittura prima della scadenza del termine assegnato dallo stesso primo cittadino al geom. To. per la difesa dalle suddette contestazioni.
Peraltro, la gravità del comportamento colposo del convenuto riceve conferma e rafforzamento anche alla luce della coordinata vicenda relativa all’intervento del CORECO, e, comunque, al ruolo svolto dal Sindaco nei consigli comunali in questione, vicenda che evidenzia la piena consapevolezza (c.d. colpa cosciente) del sig. A.P. in ordine alla illegittimità dell’affidamento all’esterno degli incarichi in questione, avendo l’ente a disposizione la professionalità del geom. To..
   [5] Quanto alla richiesta applicazione del potere riduttivo, ritiene il Collegio di potere addivenire ad una sostanziale decurtazione dell'importo di condanna ex art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994 (e già ex art. 52 del T.U. approvato con R.D. n. 1214/1934, art. 83 del R.D. n. 2440/1923 e art. 19 del D.P.R. n. 3/1957), tenuto conto della circostanza che, ferma rimanendo la centralità eziologica della determinazione di revoca, la convenzione tipo per l'attribuzione dei futuri possibili incarichi esterni è stata adottata dal consiglio comunale (pur con il ruolo dominante del Sindaco A.P.) e che gli incarichi esterni sono stati attribuiti dalla Giunta comunale (pur presieduta dal Sindaco A.P.).
Pertanto, alla luce del complesso delle riferite argomentazioni giuridico-fattuali, il Collegio, seppure in parziale difformità rispetto al quantum del danno risarcendo richiesto dall'Organo requirente, ritiene di dover accogliere la domanda attorea con conseguente condanna del convenuto a risarcire, a beneficio del Comune di Pettoranello di Molise (IS), il danno all'erario prodotto nella misura complessiva di euro 25.000,00 (comprensiva di rivalutazione monetaria sino alla data del deposito della presente sentenza), oltre interessi come per legge.
   [6] Il regime giuridico delle spese di giudizio resta influenzato dal principio della soccombenza (art. 31 c.g.c.). Esse vengono liquidate, in favore dello Stato, con nota a margine del funzionario di segreteria.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Molise, disattesa ogni contraria istanza, deduzione od eccezione, definitivamente pronunciando, accoglie parzialmente la domanda attorea e per l'effetto condanna il sig. Pa.An. al risarcimento, a vantaggio del Comune di Pettoranello di Molise, del danno di euro 25.000,00 comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data di deposito della sentenza e sino all'effettivo pagamento (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Molise, sentenza 24.09.2018 n. 59).

SEGRETARI COMUNALIDanno erariale al segretario che si è liquidato indennità non dovute.
La retribuzione di direttore generale in Comuni con meno di 100mila abitanti, le indennità di risultato senza che siano stati fissati precedentemente gli obbiettivi e la retribuzione individuale di anzianità non dovuta sono le poste di danno attribuite in via diretta al beneficiario che in qualità di segretario comunale rivestiva una posizione che costituisce la massima espressione amministrativa di un ente locale.

Queste sono le indicazioni della Corte dei conti della Toscana con la sentenza 07.09.2018 n. 217.
I fatti contestati
La procura erariale ha contestato al sindaco e al segretario comunale l'erogazione di compensi non dovuti e in particolare, un'indennità di direttore generale fuori dai presupposti previsti dalle norme, l'erogazione della retribuzione di risultato massima nonostante la mancata assegnazione di obiettivi ex ante e, infine, l'erogazione di una retribuzione individuale di anzianità interamente recuperabile in quanto avvenuta con occultamento doloso e quindi non prescritta.
A seguito delle deduzioni del sindaco che aveva anche richiesto un parere a un avvocato esterno in merito alle indennità corrisposte, la Procura ne ha escluso la responsabilità concentrando la propria attenzione sul solo segretario comunale anche in considerazione della sua peculiare posizione di massima espressione amministrativa di un ente locale.
Il segretario ha impostato la sua difesa sul maggior danno erariale della Ria evidenziando l'archiviazione del fatto doloso da parte della procura penale. La Corte dei conti, ha ribadito l'indipendenza del giudizio contabile su quello penale, e ha condiviso le proposte di danno erariale così come formulate dalla procura.
Sulla retribuzione di direttore generale
In merito alla retribuzione aggiuntiva di direttore generale, il collegio contabile ha rilevato come la figura del direttore generale, che precedentemente poteva anche essere attribuita al segretario comunale con specifica indennità, è stata eliminata dalla legge 191/2009 per i comuni con meno di 100mila abitanti. Pertanto le retribuzioni corrisposte e non dovute, per gli anni non prescritti, sono state considerate danno erariale da addebitare alla convenuta.
Sulla retribuzione di risultato
L'altra posta di danno è l'erogazione della retribuzione di risultato che le disposizioni contrattuali (articolo 42 del Ccnl del 16.05.2001) correlano al grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati con valutazione dei risultati conseguiti e verifica e definizione di meccanismi e strumenti di monitoraggio dei costi, dei rendimenti e dei risultati. La norma richiede la preventiva assegnazione di obiettivi specifici, il successivo accertamento dei risultati raggiunti e infine la fissazione di parametri per la corretta misurazione degli stessi risultati.
Alla richiesta della procura di fornire documentazione in merito, il segretario non ha chiarito in alcun modo i criteri e gli indicatori utilizzati per la valutazione, in difformità da quanto stabilito sia in sede amministrativa che giudiziaria (parere Aran n. Seg-026; parere del ministero dell'Interno 30.11.2012; delibera Corte dei conti Lombardia n. 63/2008 e sentenza Corte dei conti Lazio n. 71/2018).
Sull'importo della Ria
L'ultima posta di danno erariale accertata si riferisce alla maggior quota di Ria percepita, che sulla base di una certificazione della convenuta era stata fissata in 167 euro mensili anziché annuali come sarebbe dovuta essere. La presenza dell'autocertificazione rende dolosa l'attribuzione della maggiore retribuzione e conseguentemente annulla l'effetto della prescrizione permettendo quindi di effettuare i conteggi del danno sull'intero periodo.
In particolare, gli addebiti mossi alla convenuta partono dall'occultamento doloso e dalla dichiarazione resa all'ente. Il dolo è configurato non solo nel fatto che il segretario comunale non ha ottemperato all'obbligo giuridico di informare, ma anche perché ha adottato comportamenti volti a perpetrare l'inganno comunicando fatti non corrispondenti al vero e creando un illecito affidamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGOChi altera la timbratura del cartellino risponde anche di danno all'immagine della PA.
Con la sentenza 04.09.2018 n. 523, la Sez. II giurisdizionale d’appello della Corte dei conti fa chiarezza su due questione importanti, relative alla responsabilità contabile dei cosiddetti «furbetti del cartellino». In particolare, la Corte ha chiarito tanto la decorrenza della prescrizione del danno erariale dalla mancata presenza in servizio, quanto i limiti di imputabilità del danno all’immagine subito dalla Pa, presso la quale svolgono servizio i dipendenti assenteisti.
L’approfondimento
La Corte dei conti spiega come, nel caso dell’assenteismo, l’occultamento doloso è attività che, da chiunque commessa, va considerata nel suo significato oggettivo in ordine alla decorrenza della prescrizione per tutti i soggetti partecipi del danno erariale, seppure in termini di colpa grave.
Ciò in quanto quella attività si pone come impedimento di ordine giuridico all’esercizio del diritto. L’articolo 1, comma 2, della legge n. 20/1994, infatti, non fa alcun riferimento ad un’attività di occultamento effettuata dal debitore, diversamente dall’articolo 2941, comma 1, n. 8, c.c. («La prescrizione rimane sospesa: (…) tra il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia scoperto»), per cui il «doloso occultamento» è una fattispecie rilevante non tanto soggettivamente (in relazione ad una condotta occultatrice posta in essere dal debitore), ma obiettivamente (in relazione all’impossibilità dell’Amministrazione di conoscere il danno e, quindi, di azionarlo in giudizio ex articolo 2935 c.c.).
Nel caso di occultamento doloso, il termine di decorrenza della prescrizione non può che agganciarsi alla data della scoperta del fatto, poiché, quando ricorre una fattispecie di fatto delittuoso in cui si deve ritenere in re ipsa la sussistenza di un doloso occultamento del danno, ciò «comporta un obiettivo impedimento ad agire di carattere giuridico e non di mero fatto».
L’azione contabile, peraltro, può essere iniziata non allorché il fatto viene meramente scoperto, ma solo da quando esso assume una sua concreta qualificazione giuridica, atta ad identificarlo come presupposto di una fattispecie dannosa. I fatti materiali dannosi aventi rilevanza penale, ad esempio, assumono una concreta qualificazione giuridica –normalmente– al momento dell’emissione del rinvio a giudizio in sede penale (per cui scatta l’obbligo di informativa ai sensi dell’articolo 129, comma 3, disp. att. c.p.p.), non rilevando neppure un’eventuale e mera notizia del fatto.
Il danno all’immagine della Pa
In relazione al danno all’immagine, prodotto a carico della Pa per l’assenteismo dei propri infedeli dipendenti, questo si verifica qualora i comportamenti contestati non consistano in assenze dissimulate per intere giornate, ma in un esiguo monte di ore, evidentemente corrispondenti ad allontanamenti dall’ufficio o ritardi in ingresso, ed in relazione ai quali non soccorre, tuttavia, un supporto indiziario strutturato, adeguato ed idoneo ad assurgere a prova del fatto che le differenze tra i files day del sistema informatizzato e le autodichiarazioni richieste siano il risultato di un comportamento finalizzato alla frode ed al profitto, piuttosto che il margine accettabile ed inevitabile di non concordanza tra un sistema automatizzato di registrazione delle presenze e le autodichiarazioni ex post richieste a soggetti sollecitati ad uno sforzo di memoria, perciò solo fallibile, in merito alle presenze in ufficio nei mesi precedenti.
Nello specifico del danno all’immagine emerge una interpretazione non corretta dell’articolo 55-quinquies del Dlgs n. 165/2001 (introdotto dall’articolo 69, del Dlgs n. 150/2009) per il quale è tenuto al risarcimento del danno all’immagine subito dall’amministrazione il «lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio mediante alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente».
Per cui, ogni qualvolta non vi sarebbe stata alcuna alterazione dei sistemi di rilevamento, non conseguirebbe responsabilità per danno all’immagine. La giurisprudenza della Corte (Sezione III, n. 64/2018, 542/2016, 440/2015 e Sezione I, n. 262/2016 e 476/2015), invece, è orientata nel senso di ritenere integrata la fattispecie nella falsa attestazione della presenza che avvenga tanto con l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ma anche con altri comportamenti quali quello di giustificare l’assenza dal servizio mediante falsa certificazione medica o falsa attestazione di uno stato di malattia, che non implicano una manomissione della strumentazione di rilevazione delle presenze, che rappresenta un elemento rafforzativo dell’atteggiamento soggettivo dell’agente nell’assumere la condotta.
Nel caso, peraltro, in cui il comportamento illecito è stato solo disvelato attraverso le autodichiarazioni, ma le false attestazioni della presenza sono frutto di una precedente non corretta marcatura dell’apposito cartellino segnatempo valutata in termini dolosi, è, quindi, tale da potersi applicare la normativa particolare prevista dall’articolo 55-quinquies del Dlgs n. 165/2001 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.09.2018).

EDILIZIA PRIVATAIl Fondo rotativo per le demolizioni abusive è indebitamento.
La Corte dei conti, sezione controllo per Campania, con il parere 01.08.2018 n. 100, ha affrontato la questione della qualificazione e del trattamento contabile del fondo rotativo previsto dell'articolo 32, comma 12, del decreto legge 269/2003, per dare copertura alle spese per demolizioni giudiziali e amministrative di opere abusive.
Caso e quadro normativo
La norma prevede l'istituzione del «Fondo per le demolizioni delle opere abusive», finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza interessi, per finanziare i costi degli interventi di demolizione delle opere abusive. Stabilisce, inoltre, che le anticipazioni siano restituite al fondo al massimo in cinque anni, grazie alle somme riscosse dagli esecutori degli abusi.
In caso di mancato rimborso, il Comune procede alla riscossione mediante ruolo. Qualora le somme anticipate non siano restituite, il ministro dell'Interno provvede al rimborso alla Cassa depositi e prestiti, trattenendo le somme dai trasferimenti erariali in favore dei Comuni.
Un sindaco campano ha chiesto chiarimenti circa le modalità di contabilizzazione del fondo rotativo e, in particolare, se questo possa qualificarsi come «partita di giro», dunque non tra le forme d'indebitamento e neutro ai fini equilibri di bilancio.
La decisione
La Corte ricorda che la Cassa depositi e prestiti ha disciplinato il funzionamento del fondo, prevedendo, fra le altre cose, l'obbligo del rilascio da parte del Comune richiedente della delegazione di pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, come previsto dall'articolo 206 del Tuel, relativo all'esercizio nel quale è stato previsto il ricorso all'anticipazione.
La Corte non ha condiviso la tesi del Comune che ritiene che l'istituto in esame sia soltanto una partita di giro, ma, secondo l'interpretazione unanime della magistratura contabile, lo qualifica come una forma d'indebitamento sottoposta a tutti i limiti di legge, inclusi quelli che ne vietano l'utilizzo agli enti in dissesto.
La Corte, infatti, ha già chiarito in passato che il Fondo ha natura di strumento di finanziamento per le Pa locali, che sono tenute alla restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e prestiti indipendentemente dal recupero o meno le somme necessarie per la demolizione dell'opera abusiva. Qualora non provvedano direttamente, il ministero dell'Interno deve eseguire il versamento alla Cassa depositi e prestiti e, in seguito, trattenere l'importo, comprensivo delle spese, da ogni trasferimento di competenza degli enti locali inadempienti.
I precedenti
Già il
parere 11.04.2013 n. 76 della Sezione controllo del Piemonte ha precisato che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia pure senza interessi, implicano che le somme del «Fondo per le demolizioni delle opere abusive» rientrino fra le forme d'indebitamento ai sensi dell'articolo 202 del Tuel. La stessa Cassa depositi e prestiti prevede il rilascio da parte degli enti locali della delegazione di pagamento prevista dall'articolo 206 del Tuel, quale garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti.
Le risorse del fondo rotativo, dunque, non possono essere considerate alla stregua di «trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico», poiché si tratta di un finanziamento con specifica destinazione e con obbligo di restituzione. Le risorse provenienti dal fondo devono essere allocate, quindi al Titolo V dell'entrata e, riguardo al loro utilizzo, si applicano tutte le disposizioni in materia d'indebitamento e di pareggio di bilancio.
Sulla stessa scia si pongono le Sezioni riunite per la Regione Sicilia in sede consultiva (
parere 08.03.2013 n. 14), per le quali il fondo costituisce una vera e propria forma d'indebitamento ai sensi dell'articolo 3, comma 17, della legge 350/2003. Ne deriva il divieto di utilizzo in caso di ricorso alla procedura di riequilibrio disciplinata dall'articolo 243-bis del Tuel.
Le conseguenze
La Sezione Campania, pertanto, anche tenuto conto della delegazione di pagamento, conferma che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia pure in assenza d'interessi, implica che le somme del fondo rientrino fra le forme d'indebitamento disciplinate dall'articolo 202 del Tuel.
Di conseguenza, il Comune dissestato non può, sino al ritorno in bonis, attivare il fondo rotativo, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio. Quest'operazione, pertanto, non può qualificarsi come partita di giro. Nelle partite di giro e nei servizi in conto terzi, difatti, l'entrata o l'uscita finanziaria è obbligatoriamente correlata a equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
Da ciò deriva, tanto nei vecchi come nei nuovi principi contabili, la sostanziale neutralità dell'operazione, nel senso che entrate e spese si equivalgono, le prime coprendo esattamente le seconde. Nel caso del fondo rotativo, invece, se chi ha commesso l'illecito edilizio non ottempera al pagamento dei costi per la demolizione forzata, il Comune è obbligato a pagare le spese, mentre le somme versate dalla Cassa depositi e prestiti costituiscono una semplice “anticipazione” per far fronte a una momentanea carenza di liquidità, con ciò escludendosi la possibile qualificazione dell'istituto come partita di giro.
L'attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura alle demolizioni giudiziali rappresenta, a fronte di un recupero solo aleatorio, dunque un vero e proprio indebitamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2018).
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MASSIMA
La Sezione non condivide la prospettazione del comune rogante per la quale l'istituto del fondo rotativo presso la cassa depositi e Prestiti di cui all'art. 32, co. 12, d.l. n. 269/2003, conv. da l. n. 326/2003 al fine di garantire copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) sia solo una partita di giro che non incide sugli equilibri presenti e futuri di bilancio.
Aderisce all'interpretazione unanime della Corte dei conti che lo colloca all'interno della categoria dell'indebitamento, sottoposta a tutti i limiti di legge, inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto.
La Sezione ribadisce dunque che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica che le somme del "Fondo per le demolizioni delle opere abusive" erogate dalla CDP s.p.a. rientrano fra le forme di indebitamento ex art. 202 del Tuel.
Al comune, laddove dichiarato dissestato, è preclusa, sino al ritorno in bonis, l'attivazione del fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o amministrative, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio.
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Il Sindaco del Comune di Lacco Ameno (NA) chiede lumi in merito alla interpretazione dell’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003 e, in particolare, se l’attivazione del “fondo rotativo presso la cassa depositi e Prestiti di cui all’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003, convertito dalla l. n. 326/2003 al fine di garantire copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) e amministrative (in numero rilevante), può qualificarsi come “partita di giro”, non rientrante, in quanto tale, tra le forme di indebitamento previste, con conseguente sua irrilevanza sugli equilibri finanziari ed economici presenti e futuri di un comune, quale il comune di Lacco Ameno, con un cospicuo numero di procedimenti demolitori da evadere e già soggetto alla procedura di dissesto finanziario.
Il Sindaco reputa che “le risorse che provengono dal “Fondo per le demolizioni delle opere abusive" non possano essere considerate alla stregua di 'trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico", poiché le stesse danno luogo a un finanziamento avente una specifica destinazione, con obbligo irrevocabile di restituzione, la cui copertura non è garantita (essendo il recupero delle somme dal condannato-esecutato incerto ed occasionale, condizionalo dalla sua concreta solvibilità)” ed evidenzia che:
   “a) la stessa Cassa depositi e prestiti, nella della disciplina contrattuale alla quale subordina l'accesso al fondo, prevede espressamente il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall'art, 206 del citato T.U. quale garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti;
   b) ad analoghe conclusioni sulla natura del trasferimento in questione perviene la Commissione ARCONET (Armonizzazione contabile degli Enti territoriali) nel suo parere del 13.04.2016 reso ai sensi dell’art. 3-bis del decreto legislativo n. 118 del 2011 corretto e integrato dal decreto legislativo n. 126 del 2014
”.
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C. Venendo all’esame del merito della questione proposta, la disposizione recata dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003 citato in epigrafe, ha introdotto nell'ordinamento nuove «misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali».
Nell'ambito di tali misure, il comma 12 ha autorizzato la Cassa depositi e prestiti S.p.A. a costituire un Fondo di rotazione dell’importo massimo di 50 milioni di euro, denominato “Fondo per le demolizioni delle opere abusive”, finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza interessi, per finanziare i costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto la Cassa depositi e prestiti è autorizzata a mettere a disposizione l'importo massimo di 50 milioni di euro per la costituzione, presso la Cassa stessa, di un Fondo di rotazione denominato Fondo per le demolizioni delle opere abusive per la concessione ai Comuni e ai soggetti titolari dei poteri di cui all'articolo 27, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche avvalendosi delle modalità di cui all’articolo 2, comma 55, della legge 23.12.1996, n. 662, e all’articolo 41, comma 4, del decreto legislativo 06.06.2001, n. 380, di anticipazioni, senza interessi, sui costi relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive anche disposti dall'Autorità giudiziaria e per le spese giudiziarie, tecniche e amministrative connesse. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in un periodo massimo di cinque anni, secondo modalità e condizioni stabilite con decreto del ministro dell'Economia e delle finanze, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, utilizzando le somme riscosse a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo del credito l'amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante ruolo ai sensi del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46. Qualora le somme anticipate non siano rimborsate nei tempi e nelle modalità stabilite, il ministro dell'Interno provvede al reintegro alla Cassa depositi e prestiti, trattenendone le relative somme dai fondi del bilancio dello Stato da trasferire a qualsiasi titolo ai comuni.".
Questa Sezione non condivide la prospettazione del comune rogante che reputa che l’istituto in esame sia soltanto una partita di giro che non incide sugli equilibri presenti e futuri di bilancio e aderisce all’interpretazione unanime della Corte dei conti -di seguito richiamata- che lo colloca all’interno della categoria dell’indebitamento, sottoposta a tutti i relativi limiti di legge, inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto come Lacco Ameno.
La Corte dei conti ha già chiarito in passato
la natura del Fondo quale strumento di finanziamento per le Amministrazioni locali che sono tenute alla restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A. indipendentemente dalla circostanza che abbiano recuperato o meno le somme necessarie per la demolizione dell’opera abusiva. Qualora non provvedano direttamente, il Ministero dell’Interno deve effettuare il versamento alla Cassa depositi e prestiti S.p.A. e, successivamente, trattenere l’importo, comprensivo delle spese, da ogni trasferimento di pertinenza degli Enti locali inadempienti (cfr. parere 11.04.2013 n. 76 Sezione controllo per il Piemonte).
La natura di anticipazione e l’obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica che le somme del “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” erogate dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A. rientrino fra le forme di indebitamento alle quali possono ricorrere gli Enti locali ai sensi dell’art. 202 del TUEL. A questa conclusione, peraltro, è giunta anche la Cassa depositi e prestiti S.p.A. che nell’ambito della disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al fondo prevede il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206 del TUEL, quale garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti. Conseguentemente, le risorse che provengono dal “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” non possono essere considerate alla stregua di “trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico” poiché si tratta di un finanziamento avente una specifica destinazione, con obbligo irrevocabile di restituzione. Le risorse provenienti dal “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” devono essere allocate, quindi al Titolo V dell’entrata e in relazione al loro utilizzo si applicano tutte le disposizioni in materia di indebitamento e di Patto di stabilità interno attualmente previste” (cfr. parere 11.04.2013 n. 76 cit.).
Anche le Sezioni riunite per la regione siciliana in sede consultiva (cfr. parere 08.03.2013 n. 14) hanno trattato dell’istituto in esame evidenziando come “
l’accesso al Fondo di rotazione che qui ci occupa, realizza, come di tutta evidenza, un’operazione che comporta l’acquisizione di risorse aggiuntive, per effettuare spese per le quali non é già prevista idonea copertura di bilancio” e che “Tale operazione, esente da corresponsione di interessi passivi ma gravata di una quota delle spese di gestione del Fondo, fa sorgere un’obbligazione debitoria a carico del Comune, suscettibile di esecuzione per compensazione da parte del Ministero dell’Interno, a carico di qualsiasi altro trasferimento a favore degli enti locali previsto dalla legge, che prescinde dall’effettivo recupero di tali somme, da parte dell’ente locale, in danno dei soggetti obbligati alla demolizione”.
In base della considerazione per cui l’eventuale ricorso al Fondo di cui all’art. 32, comma 12, del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, come una vera e propria forma di indebitamento, per come sopra specificato, la predetta sezione della Corte riteneva che esso deve ritenersi precluso in presenza dell’avvenuta attivazione della procedura di riequilibrio di cui all’art. 243-bis, del T.U. n. 267/2000 (cfr. Sezioni riunite per la regione siciliana in sede consultiva, parere 08.03.2013 n. 14).
Va ribadita pertanto che la natura di anticipazione e l’obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica, comunque, che le somme del “Fondo per le demolizioni delle opere abusive” erogate dalla Cassa depositi e prestiti s.p.a. rientrino fra le forme di indebitamento di cui all’art. 202 del T.U. n. 267 del 2000.
Del medesimo avviso è, peraltro, anche la Cassa depositi e prestiti che, nell’ambito della disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al fondo, prevede il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206 del citato.
Ciò premesso
è evidente che al comune, laddove dichiarato dissestato, è preclusa, sino al ritorno in bonis, l’attivazione del fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o amministrative, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio.
La predetta operazione non può qualificarsi come “partita di giro”, locuzione che contraddistingue, nella contabilità finanziaria di un ente pubblico, l’entrata o l’uscita finanziaria correlata a equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
E’ da precisare che nelle partite di giro così come nelle partite per conto terzi vi è una sostanziale neutralità dell’operazione, nel senso che entrate e spese si equivalgono ovvero le prime coprono esattamente le seconde; tanto si ricava anche dai nuovi principi contabili che sanciscono quanto segue: ”La necessità di garantire e verificare l’equivalenza tra gli accertamenti e gli impegni riguardanti le partite di giro o le operazioni per conto terzi, attraverso l’accertamento di entrate cui deve corrispondere, necessariamente, l’impegno di spese correlate (e viceversa) richiede che, in deroga al principio generale n. 16 della competenza finanziaria, le obbligazioni giuridicamente perfezionate attive e passive che danno luogo a entrate e spese riguardanti le partite di giro e le operazioni per conto terzi, siano registrate ed imputate all’esercizio in cui l’obbligazione è perfezionata e non all’esercizio in cui l’obbligazione è esigibile” (Allegato A/2, n. 4/2, al D.Lgs. 118/2011 PRINCIPIO CONTABILE APPLICATO CONCERNENTE LA CONTABILITA’ FINANZIARIA, 7.2).
Nella fattispecie oggetto del parere
se chi ha commesso l’illecito edilizio non ottempera al pagamento delle spese di demolizione forzata (caso frequente), è onere del Comune pagare le predette spese mentre le somme versate dalla cassa depositi e Prestiti costituiscono una semplice “anticipazione” per far fronte a momentanea carenza di liquidità. Anche da questo punto di vista, è da escludere che tale anticipazione possa considerarsi una partita di giro.
L’attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura alle demolizioni giudiziali equivale, pertanto, a fronte di un recupero solo aleatorio, un vero e proprio indebitamento suscettibile di alimentare, in futuro, le condizioni di una nuova crisi finanziaria che il comune stesso, mediante la procedura di risanamento, è obbligato ad evitare (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 01.08.2018 n. 100).

INCARICHI PROFESSIONALILa giurisprudenza contabile, nel tempo, ha elaborato una serie di principi e criteri direttivi in materia di affidamento di incarichi di studio e consulenza a soggetti esterni all'amministrazione e cioè:
   a) il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
   b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto non implicante svolgimento di attività continuativa, ma, anzi, la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento dell'incarico del quale debbono costituire l'oggetto;
   c) l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità e della temporaneità;
   d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente; e) il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
   f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
   g) l'incarico non deve essere generico od indeterminato;
   h) i criteri di conferimento non debbono essere generici; ne consegue l'illegittimità e la sussistenza di un danno erariale a fronte di un incarico assolutamente generico e non motivato.

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1. Nel merito, con motivi sostanzialmente riproduttivi delle difese svolte in primo grado, e del medesimo tenore (tranne che per un aspetto riguardante l'appellante Bi.Lo., per quanto appresso si dirà) gli appellanti sostengono la legittimità e l'opportunità degli incarichi di consulenza affidati all'avv. Mi., alla luce da un lato del licenziamento per giusta causa del dirigente dott. Lu.Mu. e, dall'altro, della rispondenza degli incarichi conferiti e delle relative determine ai criteri stabiliti dall'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001.
I motivi, come sottolineato dalla Corte di primo grado, sono infondati.
In un breve ma doveroso excursus della normativa in materia di incarichi esterni conferiti dalle Pubbliche Amministrazioni, la legislazione di riferimento si è evoluta da ipotesi residuali e frammentarie (art. 380 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3 - T.U. sugli impiegati civili dello Stato, in materia di incarichi conferiti da ministri a professori universitari ed esperti; art. 1 del D.P.R. 28.05.1981, n. 247; l'art. 1 del d.l. 26.11.1981, n. 678, conv. con legge 26.01.1982, n. 12, sul blocco degli organici delle USL; infine, l'art. 14, comma 8, della legge 20.05.1985, n. 207, recante la disciplina transitoria per l'inquadramento del personale non di ruolo delle (ex) USL) a ipotesi generalizzate a tutto il settore pubblico, disciplinando regole e princìpi che peraltro già da diversi anni avevano trovato ampia considerazione nella giurisprudenza contabile.
Nel riportarsi all'ampia descrizione della materia contenuta nella sentenza di primo grado (e prima ancora nella decisione di questa Sezione centrale di Appello n. 611 del 2012), merita in questa sede ricordare che
negli ultimi anni il legislatore è intervenuto più volte in sede di legge finanziaria -artt. 34 della legge 27.12.2002, n. 289 e 3 della legge 24.12.2003, n. 350- con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa; sempre al medesimo scopo di contenere le relative spese, l’articolo 1, commi 9 e 11, del d.l. 12.07.2004, n. 168, convertito con legge 30.07.2004, n. 191, poneva un limite alla spesa per gli incarichi per le regioni, le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, prevedendo altresì che l’affidamento d’incarichi, in assenza dei presupposti stabiliti dall’articolo 1, comma 9, “… costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale”.
In ordine a tale normativa
è intervenuta la circolare 15.07.2004 n. 4 della Funzione pubblica, nella quale si afferma (in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte dei conti nella materia, puntualmente richiamata) la possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione solo per prestazioni di elevata professionalità, contraddistinte da una elevata autonomia nel loro svolgimento, tale da caratterizzarle quali prestazioni di lavoro autonomo; l’affidamento dell’incarico a terzi può, dunque, avvenire solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non sia in grado di far fronte ad una particolare e temporanea esigenza con le risorse professionali presenti in quel momento al suo interno.
Le disposizioni dei commi 9 e 11 dell’articolo 1 della legge n. 191/2004 sono state sostituite, a decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11 e 42, della legge 30.12.2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), il cui contenuto è stato peraltro illustrato dalle SS.RR. della Corte dei conti, con deliberazione n. 6/2005, “Linee di indirizzo e criteri interpretativi sulle disposizioni della legge 30.12.2004, n. 311 (finanziaria 2005) in materia di affidamento d’incarichi di studio o di ricerca ovvero di consulenza (art. 1, commi 11 e 42)”.
Più in particolare, il comma 11, che si applica alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, dispone che
il conferimento dell’incarico deve essere adeguatamente motivato ed “… è possibile soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero nelle ipotesi di eventi straordinari”.
Le amministrazioni statali, gli enti pubblici nazionali non economici e le regioni possono, quindi, conferire incarichi esterni solo nei casi previsti dalla legge nazionale o dalle leggi regionali, salvi gli eventi straordinari. La norma ha poi confermato il limite della spesa per il conferimento degli incarichi esterni, determinandolo nell’importo erogato per lo stesso oggetto nel 2004.
Più di recente, l'esigenza di contenimento della spesa pubblica ha originato numerosi interventi legislativi (D.L. n. 223/2006, convertito con L. n. 248/2006), il decreto sullo sviluppo economico (D.L. 112/2008, conv. in legge n. 133/2008), il decreto legislativo c.d. Brunetta, n. 150/2009, il D.L. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010.
I principi recati da tali ultime normative –che sostanzialmente confermano, seppure con ulteriori vincoli e limitazioni, quelli già in vigore– sono stati oggetto anch’essi di apposita deliberazione 24.04.2008 n. 6 della Corte dei conti, Sezione delle autonomie, che ha precisato i criteri interpretativi delle nuove norme.
La giurisprudenza contabile, nel tempo, ha elaborato una serie di principi e criteri direttivi in materia di affidamento di incarichi di studio e consulenza a soggetti esterni all'amministrazione:
   a) il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
   b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto non implicante svolgimento di attività continuativa, ma, anzi, la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento dell'incarico del quale debbono costituire l'oggetto;
   c) l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità e della temporaneità;
   d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente; e) il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
   f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
   g) l'incarico non deve essere generico od indeterminato;
   h) i criteri di conferimento non debbono essere generici; ne consegue l'illegittimità e la sussistenza di un danno erariale a fronte di un incarico assolutamente generico e non motivato
(Corte dei conti, Sez. I app., 02.09.2008, n. 393, 17.09.2007, n. 248 e 31.05.2005, n. 187; Sez. II, 11.06.2001, n. 208; Sez. III, 06.02.2006, n. 74 e 13.04.2005 n. 183; Sez. sic. appello, 02.04.2002, n. 46 e 01.08.2000, n. 100; SS.RR., 12.06.1998, n. 27).
Anche la Sezione controllo enti di questa Corte, già nella deliberazione 22.07.1994, n. 33, aveva rappresentato la necessità di evitare che l’affidamento di incarichi a terzi si traducesse in forme atipiche di assunzione, con la conseguente elusione delle disposizioni sul reclutamento e delle norme in materia di contenimento della spesa.
Alla luce della rassegna normativa e giurisprudenziale sopra richiamata, le determine di conferimento e gli incarichi che ne sono oggetto non rispondono ai criteri sopra indicati.
Infatti, come posto in evidenza nella decisione impugnata, essi riguardavano, sostanzialmente, un'attività amministrativa, ossia di studio delle possibili vertenze che potevano scaturire dai rapporti contrattuali facenti capo al Consiglio regionale, nonché –per come si desume dalle dichiarazioni dell'avv. Mi. e dal contratto– una serie di attività di supporto, alquanto generiche, all'attività contrattuale o all'esecuzione di sentenze della Giustizia amministrativa o di precedenti rapporti contrattuali, oltre a varie attività di assistenza legale e di supporto tecnico al datore di lavoro, anche per l'affidamento di contratti.
A tale proposito non si fa alcun riferimento, né nelle delibere di conferimento, né nelle dichiarazioni del Mi., alla necessità di riordinare il settore precedentemente diretto dal dott. Mu., licenziato senza preavviso, necessità a cui si sarebbe dovuto porre rimedio con un'idonea copertura di organico ovvero con la riorganizzazione del settore dirigenziale, come, poi, è avvenuto.
Mancano, quindi, tutti gli elementi che permetterebbero di connotare come di alta specificità ovvero straordinarietà il conferimento al consulente di tali compiti, come, pure, la limitazione a periodi ristretti, poiché l'incarico di fatto è continuato per oltre un anno, e senza rilevare quello, non oggetto del giudizio, protrattosi nel corso del 2007, apparendo, quindi, un modo surrettizio per comare il vuoto di organico determinatosi.
D'altro canto, non risponde neppure a verità che l'Avvocatura regionale avesse l'obbligo di rendere pareri e consulenze esclusivamente nei confronti della Giunta, con esclusione di altri organi ed enti regionali. Se è vero, infatti, che la L.R. n. 11 del 1991 disciplina l'ordinamento amministrativo della Giunta regionale e individua l'Avvocatura come servizio di quest'ultima, è anche vero che l'Avvocatura poteva rendere pareri legali, a richiesta degli organi, aree e settori dell'ente, in ordine a problemi giuridici derivanti dall'applicazione di leggi e di regolamenti, attività legali con rilevanza interna ed esterna, e similari.
Sarebbe, infatti, paradossale escludere il possibile intervento dell'Avvocatura “Regionale” dall'attività di ausilio del Consiglio regionale e ammettere, per converso, la legittimità di contratti a tempo determinato con consulenti esterni, in contrasto con le finalità di contenimento della spesa come sopra ricordate e di autosufficienza delle pubbliche amministrazioni.
L'assenza in organico di figure idonee per l'espletamento dell'incarico, assunta dagli appellanti, non è rilevante in questa sede, perché, pur prendendo atto dell'esiguità del personale addetto al Consiglio, va sottolineato che si trattava di personale che non avrebbe mai potuto trattare le questioni oggetto della consulenza, che presupponevano un adeguato titolo di studio e dovevano, quindi, essere appannaggio di una figura dirigenziale ovvero dell'Avvocatura.
Gli appellanti non avrebbero dovuto limitarsi, come peraltro hanno fatto solo ex post, a lamentare genericamente l'esiguità dell'organico del personale, ma avrebbero dovuto indicare –come ben esposto nell'atto di citazione– i motivi per i quali le attività consulenziali non potevano essere svolti dal Servizio Programmi e contratti, retto, tra l'altro, dalla dott.ssa Bi., ovvero dall'Avvocatura regionale, che non è stata neppure richiesta di fornire assistenza in merito.
L'appellante Bi. lamenta, tra l’altro, anche l’assenza del nesso eziologico
tra la sua condotta e il supposto danno, sostenendo l’estraneità agli atti “genetici” di conferimento dell’incarico (determina n. 91/VIII del 21.02.2008 e relativa e coeva convenzione), mentre la successiva determina n. 283/VIII del 10.07.2008 sarebbe una mera conseguenza di quella emessa dal Dirigente del settore amministrazione n. 249 del 20.06.2008.
Tale conclusione non può essere condivisa, poiché tramite la determina da lei firmata, assieme al dott. Si., è stata resa esecutiva la precedente attività e quindi la condotta della Bianco si inserisce nella sequenza causale con apporto fattivo e decisivo.
In ordine all’elemento soggettivo, la sentenza impugnata non merita le censure descritte negli atti di appello.
Mette conto sottolineare la particolare competenza degli appellanti, dirigente di Settore il primo e dell’Ufficio contratti la seconda, con conseguente doverosa conoscenza delle norme di legge e di regolamento e della disciplina degli incarichi esterni.
Trattasi, a tutta evidenza, di attività contra legem, per giunta reiterata nel tempo e addirittura con un conferimento di incarico antecedente rispetto alla determina di affidamento, per come si legge nella determina n. 91 del 21.02.2008, che sottolineava che, con decorrenza 01.01.2008, il consulente aveva già cominciato a prestare la propria opera professionale.
Quindi, sono del tutto pretestuosi i motivi di entrambi gli appellanti, volti a censurare l’asserita carenza motivazionale della sentenza di primo grado al riguardo (Corte dei Conti, Sez. I centrale d'appello, sentenza 18.04.2017 n. 112).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: Nel rispetto della disciplina vincolistica di settore anche di livello regionale, nel corso dell’esercizio 2017, i proventi connessi agli oneri di urbanizzazione e alla monetizzazione degli standard qualitativi aggiuntivi possono essere utilizzati per finanziare una spesa in conto capitale.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da parte del comune, che “tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.

Ne consegue che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica –da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi e destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano.
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Il Sindaco del Comune di Novedrate (CO) -dopo aver rappresentato che tra gli obiettivi strategici dell’azione amministrativa rientra l’acquisizione al patrimonio comunale del fabbricato storico denominato “Villa Casana”, della Cappella Gentilizia e del parco circostante attualmente di proprietà privata da conseguire mediante la permuta di un’area comunale posta all’interno dell’area di trasformazione afferente all’obiettivo strategico in cui la complessiva operazione si inscrive e dopo aver, altresì, ricordato che il Comune risulta tenuto al versamento anche di una somma pari alla differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta– ha rivolto alla Sezione il seguente quesito:
se è possibile far fronte alla suddetta differenza di valore utilizzando all’uopo lo standard qualitativo aggiuntivo pari ad euro 300.000,00, il fondo per il Centro storico nella misura del 3% ed i proventi da permessi di costruire (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) che il privato dovrà versare nelle casse dell’Ente per la realizzazione dell’intervento edilizio programmato. Si precisa, nel contempo, che è intenzione delle parti sottoscrivere il contratto di permuta entro il corrente anno stante l’utilizzo per fini tipici degli oneri di urbanizzazione previsto a decorrere dall'esercizio 2018 dalla Legge n. 232/2016, articolo 1, commi 460-461”.
...
2. Giova preliminarmente evidenziare come la materia oggetto del quesito in esame è stata, di recente, oggetto, nei suoi principi generali, di analisi da parte di questa Sezione nella deliberazione n. 81/2017/PAR. Facendo applicazione dei principi affermati in tale pronuncia, deve preliminarmente ricordarsi, sul piano generale, che, nei principi contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 (allegato 1) si esplicita che:
   - “è il complesso unitario delle entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la totalità delle sue spese durante la gestione”;
   - “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento”.
Nei predetti principi, dunque, viene ribadito il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
2.1. Ciò premesso, essendo l’operazione di permuta sopra richiamata finalizzata all’acquisizione al patrimonio comunale di un fabbricato storico e di alcune pertinenze, che sarebbero complessivamente destinate allo svolgimento di alcune funzioni pubbliche, essa si sostanzierebbe, come noto, in una spesa in conto capitale. Alla stessa può, dunque, farsi ancora fronte, nel corrente esercizio, con l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione (per il successivo esercizio 2018, cfr. commi 460-461 dell’art. 1 della Legge n. 232/2016, che non contemplano, tra le operazioni finanziabili con in predetti oneri, l’acquisizione di immobili).
2.2. Facendo nuovamente applicazione dei principi generali fissati nella richiamata deliberazione n. 81/2017/PAR, può passarsi ad affrontare il profilo attinente all’utilizzo dei proventi relativi allo standard qualitativo aggiuntivo, tenuto conto del combinato disposto dell’art. 90 e dell’art. 46, comma 1, della legge regionale lombarda 11.03.2005, n. 12. Tali disposizioni prevedono, infatti, che:
   Art. 90 - Aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.
1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle attrezzature esistenti nel territorio comunale, in coerenza con quanto sancito dall’articolo 9, comma 4.
2. In caso di accertata insufficienza o inadeguatezza di tali attrezzature ed aree, i programmi integrati di intervento ne individuano le modalità di adeguamento, quantificandone i costi e assumendone il relativo fabbisogno, anche con applicazione di quanto previsto dall’articolo 9, commi 10, 11 e 12.
3. Qualora le attrezzature e le aree risultino idonee a supportare le funzioni previste, può essere proposta la realizzazione di nuove attrezzature indicate nel piano dei servizi di cui all’articolo 9, se vigente, ovvero la cessione di aree, anche esterne al perimetro del singolo programma, purché ne sia garantita la loro accessibilità e fruibilità.
4. È consentita la monetizzazione della dotazione di cui al comma 1 soltanto nel caso in cui il comune dimostri specificamente che tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico. In ogni caso la dotazione di parcheggi pubblici e di interesse pubblico ritenuta necessaria dal comune deve essere assicurata in aree interne al perimetro del programma o comunque prossime a quest’ultimo, obbligatoriamente laddove siano previste funzioni commerciali o attività terziarie aperte al pubblico.
5. Nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano.
   Art. 46 - Convenzione dei piani attuativi.
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica;
   b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all’entità ed alle caratteristiche dell’insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale;
   c) altri accordi convenuti tra i contraenti secondo i criteri approvati dai comuni per l’attuazione degli interventi.
2. La convenzione di cui al comma 1 può stabilire i tempi di realizzazione degli interventi contemplati dal piano attuativo, comunque non superiori a dieci anni.

Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da parte del comune, che “tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.

2.3. Ne consegue, per quanto qui maggiormente interessa, che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica –da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi e destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano (cfr. parere 15.11.2012 n. 487 di questa Sezione).
2.4. A non diverse conclusioni può pervenirsi in riferimento all’utilizzo del “fondo per il Centro storico”, sulla cui natura e funzione non è fornito alcun dettaglio nella richiesta di parere in esame, ove lo stesso sia costituito con contributi qualificabili come standard qualitativi aggiuntivi.
2.5. Resta, comunque, fermo che, come del resto affermato dallo stesso Ente nella richiesta di parere, la delineata operazione deve essere posta in essere nel pieno rispetto del disposto del comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n. 98/2011, non trattandosi di permuta “pura” (cfr. deliberazione di questa Sezione n. 97/2014/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.04.2017 n. 100).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICAPer espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, TUEL) l'avanzo di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente derivante dall'estinzione anticipata dei mutui, per la parte dell'avanzo non vincolata a finalità specifiche.
Il comune può, in termini di programmazione, reperire le risorse per l'estinzione anticipata del mutuo tra i proventi derivanti da standard qualitativi urbanistici.
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Il sindaco del Comune di Carate Brianza (MB) ha formulato alla Sezione una richiesta di parere concernente la possibilità di finanziare l’estinzione anticipata di un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ricorrendo, rispettivamente, ai proventi derivanti da uno standard qualitativo urbanistico per la parte capitale, all’avanzo di amministrazione accertato e disponibile per la parte concernente la penale per l’estinzione anticipata.
In subordine, ove non fosse possibile utilizzare a tal fine i proventi dello standard urbanistico, si chiede se sia possibile provvedervi per intero, per la quota capitale e per la penale, tramite il solo avanzo di amministrazione, comunque accertato e disponibile.
...
1. Appare opportuno analizzare, primariamente, la questione della destinabilità delle somme ricavate da proventi per standard qualitativi urbanistici per lo specifico scopo della estinzione di un mutuo.
In proposito, occorre ricordare che ai sensi dell’art. 162, anche per il bilancio degli enti locali, vigono i principi di unicità, universalità e integrità del bilancio (art. 162, comma 1, T.U.E.L.). Infatti:
   · tutte le entrate dell’ente locale vanno a costituire, a prescindere dalla loro origine, un’unica fonte, finalizzata alla copertura di tutte le spese pubbliche, con l’eccezione, appunto delle entrate a specifica destinazione ex art. 195 T.U.E.L e la gestione conto terzi, per cui sussiste una correlazione precisa tra entrata e spesa (unità);
   · non sono ammesse gestioni “fuori bilancio”, cioè fuori dall’ordinario controllo autorizzatorio esercitato col bilancio di previsione, se non nei casi espressamente autorizzati dalla legge (universalità del bilancio). A dimostrazione di ciò, sono tassative sia le ipotesi di riconoscimento di debiti fuori bilancio (art. 194 T.U.E.L.) che le gestioni conto terzi (art. 168 T.U.E.L.);
   · infine, ogni voce deve essere inserita al “lordo”, senza compensazioni tra voci in entrata e voci in uscita, anche quando, come nel caso di specie, per effetto di rimborsi o conguagli, la spesa non sia integralmente imputabile all’ente, ma solo parzialmente (integrità e principio di chiarezza del bilancio).
Questa preliminare considerazione porta a ritenere di per sé improprio ogni ragionamento sulla diretta correlazione tra una voce delle entrate e delle uscite, nel caso di specie tra singole fonte di finanziamento del bilancio (proventi da standard urbanistici, allocati al Titolo IV delle entrate) e una voce specifica delle uscite (spese per rimborso prestiti, Titolo III).
Il principio di unità riceve una specifica deroga, come si diceva, nel caso di entrate a specifica destinazione (art. 195 T.U.E.L.), peraltro, avendo riguardo alla gestione per cassa.
La specifica destinazione, tra l’altro, sulla base dei dati forniti dal comune, non caratterizzerebbe il provento dello standard urbanistico, la cui finalizzazione, se prevista, è il risultato di una determinazione amministrativa e non di una disposizione di legge.
Infatti, come evidenziato nella delibera Lombardia n. 282/2012/PRSE la destinazione rilevante ai fini dell’art. 195 non può essere generica, ma deve essere, come risulta dalla lettera della norma, “specifica” nonché derivante da apposite disposizioni di legge o regolamentari che consentono di derivarne, a fini contabili, una simile qualificazione.
La specifica destinazione, infatti, è la risultante di due elementi: a) la etero destinazione; b) il collegamento diretto tra fonte e spesa da effettuare.
Quanto al primo elemento, ci si riferisce alla circostanza che la destinazione deve avere fondamento in disposizioni normative di legge o regolamentari.
Quanto al secondo, il vincolo rilevante ai fini della gestione di cassa e dei limiti stabiliti dall’art. 195, deve essere tale da tradursi in un legame specifico tra la fonte di finanziamento e le specifiche opere o finalità, tant’è che la mancata realizzazione della spesa nei termini previsti può comportare, per l’ente locale, un dovere di restituzione.
Diverso discorso va fatto, invece, per le entrate in conto capitale in generale: esse sono piuttosto gravate da un vincolo di destinazione non specifico, ma generico, rilevante ai fini della sana gestione di competenza: l’esistenza di una simile destinazione generica si ricava, indirettamente, dall’art. 162, comma 6, T.U.E.L., secondo cui la spesa corrente deve essere finanziata con entrate ordinarie della medesima specie, salvo eccezioni di legge; la spesa in conto capitale, peraltro, può essere finanziata tanto con il surplus di entrate correnti (c.d. avanzo di bilancio, ai sensi dell’art. 199 T.U.E.L., lett. b), con l’avanzo di amministrazione nei caso in cui ciò sia funzionale all’estinzione anticipata di mutui (art. 199 T.U.E.L. lett. d), nonché, ovviamente, con entrate in conto capitale tassativamente elencate (art. 199 T.U.E.L., nelle lettere non precedentemente elencate). Si tratta, quindi, di un vincolo rilevante in termini di equilibri di bilancio.
Peraltro, quando il vicolo di destinazione assume il carattere della specificità, esso si espleta non più genericamente e al solo a livello di competenza, ma anche a livello di cassa (art. 195 T.U.E.L)..
1.1. Tanto premesso, appare chiaro che nulla osta a che l’amministrazione, nell’ambito delle operazioni in conto capitale, ritenga di individuare l’indiretta fonte del finanziamento dell’estinzione in un provento specifico, specie in sede di bilancio di previsione, fermo restando che in sede gestionale non ci sarà alcun vincolo diretto tra l’una fonte e l’altra spesa né in termini di competenza, né tanto meno di cassa, rilevando soltanto l’equilibrio complessivo della gestione corrente e, correlativamente, quella in conto capitale ai sensi del combinato disposto degli artt. 162 e 199 T.U.E.L..
In altre parole, l’equilibrio tra fonti di finanziamento e investimenti rileva in una duplice ottica: in quella della programmazione puntuale degli investimenti (che consente di individuare un collegamento singolare e indiretto tra entrata e spesa) nonché in quella della valutazione complessiva degli equilibri di bilancio (in sede preventiva e di rendiconto). In questi termini va letto l’art. 199 T.U.E.L. che, secondo una concezione di tipo aziendalistico, individua le fonti finanziamento secondo una precipua elencazione riconducibile alla dicotomica classificazione fonti interne (lettere a-e) e fonti esterne (lettere f-g).
Nel caso prospettato si tratta non tanto di finanziarie un investimento ex novo, quanto di re-internalizzarne la fonte, da esterna ad interna, attraverso l’estinzione anticipata di un mutuo, con la diminuzione degli oneri correnti del debito contratto, ovvero la spesa per interessi passivi.
2. I quesiti qui proposti, in definitiva, mirano ad ottenere delucidazioni circa le possibili forme di finanziamento di tale re-internalizzazione. Per comodità espositiva si ritiene di invertire l’ordine dei quesiti, scandagliando preliminarmente la possibilità di finanziare tale estinzione prima con il solo avanzo di amministrazione, poi con un provento specifico di Titolo IV (proventi da standard qualitativo urbanistico).
2.1. Per espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, T.U.E.L.) l’avanzo di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente derivante dall’estinzione anticipata dei mutui. Tale possibilità era stata evidenziata in via giurisprudenziale da questa Sezione (delibere nn. 36 e 40/2007/PAR) già prima delle novelle di cui agli art. 11 del D.L. n. 159/2007, conv. L. n. 222/2007 e, di presso, dell’art. 2, comma 13, della L. n. 244/2007, che ha modificato in parte qua l’art. 187, comma 2, del T.U.E.L., prevedendo la prefata possibilità di utilizzazione.
La Sezione, inoltre, partendo dalla considerazione che la penale è un corrispettivo per il recesso anticipato dal mutuo, sul versante della spesa ha ritenuto di fare le seguenti valutazioni: poiché la penale può essere virtualmente considerata un’operazione di attualizzazione di una spesa corrente riflessa su esercizi futuri, ferma restando l’utilizzabilità dell’avanzo come unitaria fonte di finanziamento dell’estinzione (cfr. delibera 546/2010/PAR nonché 317/2011/PAR e infine 288/2012/PAR), si è ritenuto che la sede appropriata per l’allocazione della correlativa spesa fosse il Titolo I, mentre per la parte in conto capitale il Titolo III (Spese per rimborso di prestiti).
Peraltro, l’utilizzabilità unitaria dell’avanzo a fini di finanziamento dell’estinzione anticipata, per la stesse considerazioni preliminari, trova un limite in quella parte dell’avanzo che è vincolata a finalità specifiche. Infatti, il corrispettivo per la penale potrà essere finanziato solo con la parte non vincolata per la spesa in conto capitale o di altro genere.
2.2. Per quanto concerne invece la destinazione di proventi specifici del titolo IV all’estinzione di mutui (segnatamente i proventi derivanti da standard qualitativi urbanistici), richiamato il principio di unità del bilancio, non può che rammentarsi che (in termini di equilibri complessivi) la spesa in conto capitale deve tendenzialmente essere finanziata con entrate in conto capitale. Pertanto, ben può il Comune, in termini di programmazione, reperire le risorse per l’estinzione anticipata del mutuo tra quelle che rivengono dai prefati proventi urbanistici.
Il vincolo di gestione, per competenza, su tali risorse si tradurrà, a fine esercizio, in un vincolo sull’avanzo di amministrazione, il quale potrà essere utilizzato per l’estinzione negli esercizi successivi, nei termini sopra specificati, solo per la parte capitale del debito, potendo invece il Comune utilizzare per il pagamento della penale solo la parte libera dell’avanzo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.11.2012 n. 487).

A.N.AC.

PUBBLICO IMPIEGOIl comandante della polizia locale può fare anche il responsabile anticorruzione e trasparenza in Comune.
Sull'opportunità di attribuire le funzioni di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza al comandante della polizia locale esprime orientamento favorevole l'Anac con la delibera 20.06.2019 n. 333.
L'Autorità giunge a questa conclusione facendo riferimento alla legge quadro 65/1986 sull'ordinamento della polizia locale, al comma 221, articolo 1, della legge 208/2015 (legge di stabilità 2016) e alla pronuncia del Consiglio di Stato n. 2174/2019.
Il quadro normativo
In base alla legge quadro, il personale che svolge servizio di polizia locale, compreso il comandante, può esercitare funzioni di polizia locale, giudiziaria, stradale e ausiliarie di pubblica sicurezza.

Con il comma 221, articolo 1, della legge di stabilità 2016 è stato sancito il superamento del principio di specialità delle funzioni di polizia municipale, in ragione del contenimento della spesa per il personale delle pubbliche amministrazioni locali e regionali, attraverso strumenti di flessibilità nella ripartizione delle funzioni e dei compiti interni all'ente, che seppur previsto per i comuni di consistenza organica tali da prevedere al vertice dei settori posti di rilievo dirigenziale, è comunque estendibile anche ai comuni di minori dimensioni, stante il fatto che anche in questi ultimi si pongono esigenze di riordino delle competenze introdotte dalla legge di stabilità.
Infatti, il comma 221 stabilisce che «Le regioni e gli enti locali provvedono alla ricognizione delle proprie dotazioni organiche dirigenziali secondo i rispettivi ordinamenti, nonché al riordino delle competenze degli uffici dirigenziali, eliminando eventuali duplicazioni. Allo scopo di garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale.».
La norma ha quindi reso possibile il conferimento di incarichi dirigenziali senza alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale.
Il Consiglio di Stato
Con la pronuncia n. 2174/2019, il Consiglio di Stato ha stabilito che l'attribuzione al settore della polizia locale di compiti ulteriori rispetto a quelli in origine svolti, anche se di carattere gestionale e di amministrazione attiva correlati alle tipiche funzioni di polizia amministrativa e giudiziaria e di pubblica sicurezza previste dalla legge quadro n. 65/1986 è coerente con il disegno di razionalizzazione e di accorpamento delle strutture perseguito dalla legge di stabilità per il 2016.
Pertanto, l'Anac ritiene che, seppur la valutazione sul requisito di esclusività della funzione di dirigente comandante del corpo di Polizia locale non le spetti, alla stessa, invece, compete di potersi esprimere sull'opportunità di attribuire a tale soggetto anche l'incarico e le funzioni di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
Preliminarmente Anac precisa che nell'ordinamento non sussiste alcuna incompatibilità tra lo svolgimento del ruolo di Rpct e quello di comandante del corpo di Polizia locale. La questione, dunque, per Anac può essere affrontata in termini di opportunità o meno dello svolgimento contemporaneo delle due funzioni.
La giurisprudenza ha sempre imposto cautela circa l'affidamento di incarichi gestionali al comandante della polizia locale per via delle situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi che potrebbero crearsi. In questo contesto si è inserita la legge di stabilità 2016 che ha ritenuto legittimi negli enti locali assetti organizzativi in cui si affidano ai comandanti della Polizia locale compiti ulteriori, seppur collegati alle tipiche funzioni previste dalla legge quadro 65/1986.
Conclusioni
Secondo l'Anac, quindi, in coerenza l'obiettivo perseguito dalla legge di stabilità per il 2016 e considerata la pronuncia del Consiglio di Stato n. 2174/2019, può essere attribuito al comandante della Polizia anche l'incarico di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
In tal caso l'organo di indirizzo dell'amministrazione cui spetta il compito di nominarlo avrà l'onere di valutare se l'eventuale commistione e cumulo tra le funzioni di vigilanza e di controllo tipiche della polizia locale e le funzioni amministrative e gestionali proprie di altri incarichi dirigenziali in capo alla figura dirigenziale del comandante capo della polizia locale possano essere confliggenti con le funzioni tipiche del Rpct, evitando che si configurino situazioni, anche potenziali, di conflitto d'interessi tra le diverse attività svolte (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.06.2019).

LAVORI PUBBLICI: Concessione lavori, gestione da privilegiare. Delibera Anac su affidamento con l’offerta più vantaggiosa.
In una concessione di lavori pubblici è inopportuno assegnare più di dieci punti a valutazioni agli elementi soggettivi; da privilegiare i profili gestionali.
Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il Parere di Precontenzioso 29.05.2019 n. 452  reso pubblico nei giorni scorsi e relativa ad una bando per procedura aperta per l'affidamento in concessione mediante project financing, ai sensi dell'art. 183, comma 15, del codice dei contratti pubblici, con diritto di prelazione da parte del promotore, della concessione per la progettazione ed esecuzione degli interventi di recupero funzionale e riqualificazione e gestione del mercato coperto sito a Ferrara.
Il focus da parte dell'Anac su questo bando nasce dall'esercizio della vigilanza che l'Autorità svolge sull'andamento del mercato e che presta attenzione soprattutto alla fattispecie più complesse e innovative. Il caso esaminato è quello del bando, pubblicato il 17.04.2019, con termine di presentazione delle offerte 19.06.2019 per un valore totale della concessione pari a 6,4 milioni di cui 2,7 per le opere da eseguire, con spesa a totale carico del concessionario, e con criterio di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, come prescritto dall'art. 183 del codice appalti.
L'Anac, esaminati gli atti di gara, ha rilevato alcune criticità in relazione all'attribuzione dei punteggi concernenti i diversi elementi e sub-elementi di valutazione dell'offerta tecnica. A tale proposito la norma di riferimento è il citato articolo 183 che al comma 5 prevede, oltre a quanto previsto dall'articolo 95 del codice, che debba essere assicurato che l'esame delle proposte risulti esteso agli aspetti relativi alla qualità del progetto definitivo presentato, al valore economico e finanziario del piano e al contenuto della bozza di convenzione.
L'obiettivo della disposizione, ha detto l'Anac è assicurare che la valutazione compiuta dalla stazione appaltante sia indirizzata «non solo alla fase progettuale e di realizzazione delle opere, ma anche a quella successiva relativa alla gestione delle stesse; infatti, la qualità, la coerenza e la solidità del progetto gestionale costituiscono garanzia di affidabilità del livello qualitativo previsto nell'ambito del progetto definitivo delle opere, soprattutto nei casi, come quello in esame, in cui queste ultime devono essere eseguite esclusivamente con risorse a carico del soggetto proponente».
I criteri di valutazione adottati dalla stazione appaltante non paiono, però, all'Anac «rispondenti alla disposizione normativa e alla finalità a essa sottesa» e vengono citati, a titolo esemplificativo, l'assegnazione di soli 7 punti complessivi nell'ambito della valutazione dell'elemento economico dell'offerta; per l'Anac si tratta di un «punteggio irrilevante, in quanto addirittura inferiore rispetto a quello conseguibile in caso di possesso di una certificazione di gestione ambientale (8 punti)».
Negativo anche attribuire 15 punti all'organigramma aziendale e 8 al possesso di un certificato di gestione ambientale, criteri soggettivi che dovrebbero attenere alla precedente fase di qualificazione, ma che possono essere considerati, secondo l'Anac a condizione che «incidano in maniera diretta sulla qualità della prestazione» e che complessivamente non superino 10 punti (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019).

LAVORI PUBBLICIConcessioni in pf, gestione da raffrontare nell’offerta. Deliberazione Anac su aggiudicazione con il project finance.
Per valutare una offerta di project finance occorre procedere a una comparazione delle offerte ricevute riferita non solo alla fase progettuale e di realizzazione delle opere, ma anche a quella successiva relativa alla gestione delle stesse.

È quanto ha sottolineato l'Autorità anticorruzione (Anac) con il
Parere di Precontenzioso 29.05.2019 n. 452 nel quale sono stati affrontati alcuni elementi connessi all'interpretazione dell'articolo 183 del codice appalti.
L'Anac ha precisato che ai fini dell'aggiudicazione di una concessione mediante finanza di progetto, l'art. 183, comma 5, del codice prescrive che, oltre a quanto previsto dall'articolo 95 del decreto 50, in tema di criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, deve essere assicurato che l'esame delle proposte risulti esteso agli aspetti relativi alla qualità del progetto definitivo presentato, al valore economico e finanziario del piano e al contenuto della bozza di convenzione. La previsione del codice, ha detto l'Authority, è funzionale a valorizzare la finalità dell'istituto attraverso un comportamento virtuoso delle stazioni appaltanti che intendano ricorrere al project finance.
Per l'Anac le amministrazioni devono svolgere la procedura di aggiudicazione con una complessiva comparazione delle offerte ricevute, assicurandosi che la stessa sia riferita, non solo alla fase progettuale e di realizzazione delle opere, ma anche a quella successiva relativa alla gestione delle stessa. Infatti, la qualità, la coerenza e la solidità del progetto gestionale costituiscono garanzia di affidabilità del livello qualitativo previsto nell'ambito del progetto definitivo delle opere, soprattutto nei casi in cui devono essere eseguite esclusivamente con risorse a carico del soggetto proponente.
Nel caso esaminato, l'Anac ha rilevato che i criteri di valutazione indicati dalla stazione appaltante per la procedura di aggiudicazione non risultavano rispondenti alle finalità della disposizione del codice: i criteri devono essere infatti non solo proporzionati, ma anche attinenti all'oggetto del contratto, che nel caso in esame concerne oltre all'esecuzione dei lavori, anche la gestione dell'opera.
L'Anac si è occupata anche dell'offerta relativa al tempo di realizzazione dell'intervento precisando che «la riduzione del tempo di redazione del progetto deve essere inclusa nell'offerta economica». La precisazione è funzionale a chiarire, nel caso sottoposto all'esame dell'Autorità, che «la conoscenza di elementi economico-temporali da parte della commissione, nella fase della valutazione dell'offerta tecnica, appare di per sé idonea a determinare anche solo in astratto un condizionamento dell'operato della commissione medesima, alterando o perlomeno rischiando potenzialmente di alterare la serenità e l'imparzialità dell'attività valutativa della commissione».
Per questa ragione, ha detto l'Anac, è corretto stabilire che nessun elemento economico, ma nemmeno temporale, debba essere reso noto alla commissione medesima prima che questa abbia effettuato le proprie valutazioni sull' offerta tecnica (articolo ItaliaOggi del 21.06.2019).

INCARICHI PROGETTUALIProgettisti tutelati. Niente prestazioni senza compenso. Il chiarimento nelle linee guida aggiornate dell’Anac.
Illegittimo chiedere al progettista, senza un incremento del compenso, prestazioni ulteriori rispetto a quelle oggetto dell'affidamento.

È questo il chiarimento principale fornito dall'Autorità nazionale anticorruzione con la delibera 15.05.2019 n. 417 che aggiorna le Linee guida n. 1 (facoltative) in tema di affidamento di servizi di ingegneria e architettura, già approvate con una prima delibera n. 973 del 14/09/2016 e successivamente aggiornate con delibera del Consiglio dell'Autorità n. 138 del 21/2/2018. La nuova delibera prima di entrare in vigore dovrà essere pubblicata sulla gazzetta ufficiale.
Tre i chiarimenti forniti dall'Anac.
Il primo attiene alla necessità di dare piena attuazione al principio dell'equo compenso, in considerazione della sempre più frequente richiesta, da parte delle stazioni appaltanti, di prestazioni ulteriori rispetto a quelle oggetto dell'affidamento, a celle della stipula del contratto. Per fare fronte a questa anomalia nella delibera viene chiarito che «al fine di garantire il principio dell'equo compenso, al professionista non possono essere richieste prestazioni ulteriori rispetto a quelle a base di gara, che non sono state considerate ai fini della determinazione dell'importo a base di gara».
Quindi quel che conta è l'oggetto delle prestazioni indicate negli atti di gara, la cui quantificazione come onorario deve risultare dal calcolo allegato al disciplinare, e ogni attività ulteriore non può essere ricondotta nel compenso iniziale ma deve essere oggetto di un atto aggiuntivo e di pattuizione separata rispetto al compenso iniziale.
Un secondo chiarimento riguarda i requisiti del soggetto mandatario di un raggruppamento temporaneo che «indipendentemente dal fatturato complessivo/speciale posseduto, dai servizi precedentemente svolti e dal personale tecnico di tutti i partecipanti al raggruppamento, dimostra il possesso dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna mandante».
Infine una importante indicazione viene data rispetto all'attribuzione dei punteggi in fase di valutazione delle offerte laddove l'Anac ritiene «preferibile» l'utilizzo della formula c.d. «bilineare» che ha l'effetto di limitare gli effetti delle offerte di maggiore ribasso, «attribuire un punteggio elevato al punto di flesso al fine di disincentivare offerte contenenti ribassi elevati non in linea con la previsione sull'equo compenso di cui dell'art. 13-bis della legge 31/12/2012, n. 247».
L'indicazione, unitamente a quella già fornita sull'apertura delle offerte di prezzo dei concorrenti che hanno superato un determinato punteggio tecnico, dovrebbe consentire di limitare ribassi che oggi sono, in media, del 40%
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGONiente incarico direttivo a chi ha condanne non definitive per reati tentati.
Il regime dell'inconferibilità degli incarichi in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione va esteso anche alle ipotesi di condanna non definitiva rimaste allo stadio del tentativo poiché anche in questi casi è compromessa l'imparzialità e la credibilità dell'azione pubblica. Scopo delle norme vigenti è evitare che l'esercizio della funzione amministrativa avvenga per mano di soggetti che abbiano dimostrato la propria inidoneità alla spendita di poteri pubblici in conformità ai principi di imparzialità e buon andamento. Il delitto tentato è a tutti gli effetti un delitto «perfetto» e non una sorta di sottofattispecie del delitto consumato, essendo in esso presenti tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, di qualsivoglia ipotesi di reato.

Con la delibera 17.04.2019 n. 447, l'Anac ribalta il proprio precedente orientamento.
Il precedente orientamento Anac
In passato l'Anac si è già espressa sulla questione tuttavia affermando che il regime dell'inconferibilità non può estendersi anche alle ipotesi dei reati commessi nella forma del tentativo. In sintesi rientra nella discrezionalità del legislatore identificare le ipotesi relative ai reati consumati, comportanti quale conseguenza della violazione degli obblighi di fedeltà del pubblico dipendente, l'impossibilità di conferire allo stesso un incarico dirigenziale, ovvero lo svolgimento di una funzione dirigenziale.
La nuova lettura
Nella Delibera l'Anac spiega che il periodo di inconferibilità individuato dalla normativa non si configura come una misura sanzionatoria di natura penale o amministrativa, ma come strumento di prevenzione della corruzione e di garanzia dell'imparzialità dell'amministrazione.
A ben vedere la nuova linea interpretativa dell'Anac si basa sulla considerazione che il regime dell'inconferibilità, in quanto preposto al soddisfacimento di particolari esigenze proprie della funzione amministrativa e dell'ente presso cui il soggetto condannato è incardinato, non è un effetto penale della condanna, ma un effetto del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per l'accesso alle cariche pubbliche e per il loro mantenimento.
Requisito che deve tutelare l'immagine dell'amministrazione pubblica e che quindi decade anche in caso di delitti solo tentati.
Delitto consumato e delitto tentato
Se si pone attenzione al sistema normativo nel suo insieme, si può notare che se è vero che il codice penale quando considera una fattispecie di reato, la intende nella sua forma consumata, essendo sempre necessario nel caso di condotta che si sia arrestata allo stadio del tentativo richiamare la normativa penalistica in ordine all'idoneità degli atti con riferimento a un criterio non semplicemente probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, bensì in relazione alla autentica possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone, è altrettanto vero che le disposizioni sull'inconferibilità degli incarichi non catalogano i singoli reati la cui commissione può essere causa di inconferibilità, ma si limitano a indicare in astratto un genere di reati, precisamente quelli contro la pubblica amministrazione, così ricomprendendo tutte le fattispecie che rientrano in questa categoria.
In altre parole per quanto riguarda il bene giuridico tutelato, non si può in alcun modo distinguere le fattispecie consumate da quelle tentate, essendo esso in entrambe le ipotesi individuabile nell'imparzialità e nel buon andamento dell'azione amministrativa così come declinati nella Carta costituzionale.
A ben vedere dunque se non si applicasse il regime dell'inconferibilità anche alle fattispecie di delitto solo tentato si verificherebbe un'illogica, irrazionale contraddizione strutturale nell'ordinamento e, quindi sul piano concreto, un vero e proprio vuoto di tutela dell'imparzialità dell'azione della pubblica amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.06.2019).

APPALTIFirma digitale sull’offerta equivale a quella su carta. Lo ha stabilito una deliberazione dell’autorità anticorruzione.
La firma digitale su un'offerta è del tutto equivalente a quella apposta su un documento cartaceo; è illegittimo richiedere la sottoscrizione per esteso di ogni pagina dell'offerta e quindi è illegittima l'esclusione dalla gara del concorrente che abbia siglato digitalmente.
Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione nel Parere di Precontenzioso 03.04.2019 n. 276 - rif. PREC 23/19/L in risposta all'istanza di precontenzioso del 09.01.2019 con la quale una società che aveva partecipato ad una gara d'appalto aveva rappresentato di essere stata illegittimamente esclusa dalla procedura, all'esito delle integrazioni documentali presentate in sede di soccorso istruttorio, per aver trasmesso la copia del protocollo di integrità di Roma Capitale senza rispettare le disposizioni del disciplinare di gara. Quest'ultimo prevedeva che il documento fosse debitamente sottoscritto e timbrato su ogni pagina dal titolare, o dal legale rappresentante o di altra persona e munita di specifici poteri di firma dal titolare.
Diversamente, il concorrente aveva inviato il documento in forma di file in formato «pdf» sottoscritto digitalmente, nel presupposto che fosse equivalente alla firma autografa. La gara veniva bandita con procedura negoziata in base all'articolo 36, comma 2, lett. c), del codice appalti per l'affidamento dell'appalto biennale di manutenzione ordinaria e pronto intervento di edifici scolastici (asili nido, scuole dell'infanzia, scuole primarie, scuole secondarie di primo grado di competenza del Municipio XI di Roma), e veniva svolta sulla piattaforma telematica Mepa di Consip.
Dopo avere accertato che la sottoscrizione sul documento, in funzione di dichiarazione di accettazione, era stata apposta da un procuratore speciale della società munito dei poteri di firma degli atti di gara, l'Anac ha affermato che la firma digitale equivale alla firma autografa apposta su un documento cartaceo e che la sottoscrizione del relativo file «.p7m», regolarmente effettuata secondo lo standard CAdES, è da ritenersi pienamente idonea ad assolvere alla funzione di attestare la provenienza dell'atto in capo al suo autore.
Dal momento che la procedura era stata svolta sulla piattaforma telematica Mepa di Consip, ha detto l'Anac, va anche ricordato che ai sensi dell'art. 24, comma 2, del dlgs 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale) l'apposizione della firma digitale integra e sostituisce l'apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere ad ogni fine previsto dalla normativa vigente.
Alla luce di questa precisazione e della necessità di rispettare il principio della tassatività delle cause di esclusione, oggi previsto dall'art. 83, comma 8, del codice dei contratti pubblici, nonché i principi della massima partecipazione, di non aggravamento del procedimento e di proporzionalità, non è quindi legittima la richiesta della lex specialis di gara che preveda, pena l'esclusione, la sottoscrizione per esteso di ogni pagina dell'offerta. Nell'ottica del superamento dell'imposizione di adempimenti meramente formali, l'Anac ha ritenuto che fosse del tutto sufficiente la singola sottoscrizione digitale del protocollo di integrità, da ritenersi equivalente rispetto alle clausole del disciplinare (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOLa notizia di reato fa ruotare i dirigenti.
È in pubblicazione on-line la deliberazione dell'Anac sull'attuazione della misura della rotazione straordinaria di cui all'art. 16, comma 1, lettera l-quater, del dlgs n. 165/2001 alla quale devono adeguarsi tutte le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 , ai sensi dell'art. 27 dello stesso decreto.
La rotazione straordinaria ricorre «nei casi di avvio di procedimenti penali», senza che la disposizione precisi né il momento né le fattispecie. Di qui l'intervento chiarificatore dell'Anac che, rivedendo l'orientamento espresso nell'aggiornamento 2018 al Pna (in cui l'applicazione della misura straordinaria coincideva «con la conoscenza della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari, ovvero di atto equipollente») ora reputa ricondursi il momento dell'applicazione alla fase dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato di cui all'art. 335 c.p.p..
Quanto alle fattispecie rilevanti, l'Autorità ha ritenuto di riferirsi all'elencazione dei reati «per fatti di corruzione» contenuta nell'art. 7 della legge 69 del 2015 (artt. 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis c.p.) ossia concussione, corruzione, peculato, traffico di influenze illecite, turbativa d'asta.
La rotazione straordinaria si applica anche nel caso di determinati procedimenti disciplinari, ritenendosi rilevanti, ad avviso dell'Anac, quelli avviati dall'amministrazione per comportamenti che possono integrare fattispecie di natura corruttiva considerate nei reati predetti. La misura della rotazione straordinaria, di natura preventiva e non disciplinare, consiste in un provvedimento avente natura di atto amministrativo, adeguatamente motivato e assunto in contraddittorio con l'interessato, impugnabile davanti al giudice amministrativo territorialmente competente, con il quale viene stabilito che la condotta corruttiva imputata può pregiudicare l'immagine di imparzialità dell'amministrazione e si individua il diverso ufficio al quale il dipendente viene trasferito (in diversa sede o con attribuzione di diverso incarico nella stessa sede dell'amministrazione).
In analogia con quanto previsto dalla legge n. 97/2001, in caso di obiettiva impossibilità (ad es. incarico di vertice), il dipendente è posto in aspettativa o in disponibilità con conservazione del trattamento economico in godimento.
La rotazione in esame, comportando il trasferimento a diverso ufficio, consiste nell'anticipata revoca dell'incarico dirigenziale, con assegnazione ad altro incarico ovvero, in caso di impossibilità, con assegnazione a funzioni «ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specificamente previsti dall'ordinamento» (art. 19, comma 10, dlgs n. 165/2001).
Con riferimento alla durata della misura, l'Anac ritiene che, dovendo il provvedimento coprire la fase che va dall'avvio del procedimento all'eventuale decreto di rinvio a giudizio, il termine entro il quale esso perde efficacia dovrebbe esser più breve dei cinque anni previsti dalla legge n. 97/2001.
Consapevole delle lacune del quadro normativo in materia, l'Autorità suggerisce che potrebbero essere colmate dalle amministrazioni, in sede di regolamento sull'organizzazione degli uffici o di regolamento del personale (articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019).

APPALTIBeni e servizi fuori dal Mepa fino a 5mila euro, Anac dice «no» al frazionamento degli appalti.
Entro i 5.000 euro le amministrazioni non hanno l'obbligo di utilizzare le piattaforme telematiche per l'acquisto di beni e servizi, ma devono fare particolare attenzione per evitare frazionamenti di appalti di maggior valore.
Il documento posto in consultazione dall'Autorità nazionale anticorruzione per l'adeguamento delle linee guida sugli affidamenti sottosoglia pone l'attenzione sulla modifica apportata all'articolo 1, comma 450, della legge 296/2006 dall'articolo 1, comma 130, della legge 145/2018, con l'innalzamento della soglia di franchigia, nell'ambito della quale le amministrazioni pubbliche possono fare a meno di utilizzare il Mepa o le piattaforme telematiche messe a disposizione dai soggetti aggregatori regionali.
Nelle linee guida n. 4 l'Anac aveva individuato il valore determinato dal comma 450 dal 2016 (1.000 euro) come dato dimensionale di riferimento per gli acquisti di modesto importo, in ordine al quale era possibile non applicare il principio di rotazione. Nella relazione accompagnatoria alle modifiche delle linee guida, l'Autorità evidenzia come, in base alla modifica della disposizione con il nuovo valore apportata dalla legge di bilancio 2019, debba essere valutata l'opportunità di innalzare a 5.000 euro anche la soglia introdotta nelle linee guida n. 4 con riferimento all'obbligo di rotazione, chiarendo che la modifica comporterebbe sicuramente una semplificazione, ma al tempo stesso, avrebbe un impatto significativo su un numero estremamente elevato di affidamenti di piccolo importo: l'Anac individua in circa quattro milioni il numero medio annuo di affidamenti di importo inferiore a 5.000 euro.
La nuova soglia contenuta nel comma 450 dell'articolo 1 della legge 296/2006 ha anche un'implicazione operativa molto rilevante dato che innalza il valore di riferimento entro il quale le amministrazioni non sono tenute a utilizzare il Mepa o comunque le piattaforme telematiche messe a disposizione dai soggetti aggregatori regionali o altri mercati elettronici. La particolare franchigia non è toccata nemmeno dall'obbligo generale di utilizzo di strumenti informatici per le comunicazioni e lo scambio di informazioni previsto dal 18.10.2018 dall'articolo 40, comma 2, del Dlgs 50/2016 per tutte le procedure disciplinate dal codice dei contratti pubblici (quindi anche per quelle sottosoglia).
L'Anac, con il comunicato del presidente del 30.10.2018, aveva chiarito come l'obbligo dettato dall'articolo 40 non incidesse sulle procedure effettuate per acquisti entro i 1.000 euro che potevano quindi essere gestite dalle amministrazioni con soluzioni diverse dalle piattaforme. L'innalzamento della soglia con la modifica apportata dalla legge di bilancio 2019 amplia lo spazio nell'ambito del quale le amministrazioni possono operare per l'acquisto di beni e servizi con strumenti più flessibili (ad esempio, gestendo con la posta elettronica certificata le richieste di preventivi e la formazione dei contratti con il metodo dello scambio delle lettere secondo gli usi del commercio).
Il ministero delle Infrastrutture, rispondendo a un quesito posto da una stazione appaltante, in una Faq del 20 gennaio di quest'anno conferma sia l'interpretazione resa dall'Anac sia l'obbligo di utilizzo del Mepa o di altre piattaforme telematiche oltre i 5.000 euro, quindi anche nella fascia dell'affidamento diretto sino ai 40.000 euro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGOAnac, arriva l’elenco delle accuse che obbligano alla rotazione di dirigenti e dipendenti.
Anac ha posto in consultazione on-line la bozza di delibera in materia di applicazione della misura della rotazione straordinaria prevista dall'articolo 16, comma 1, lettera l-quater, del Dlgs 165/2001. I contributi possono essere trasmessi fino all'8 marzo.
La norma prevede che i dirigenti «provvedono al monitoraggio delle attività nell'ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell'ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva».
Considerata la genericità della norma su molteplici aspetti, tra cui la mancata elencazione dei reati presupposto (la disposizione fa riferimento a «condotte di natura corruttiva») che fanno scattare la misura, l'Autorità ha ritenuto con questa delibera di doverne precisare il contenuto e, se necessario, riconsiderare anche alcuni propri precedenti orientamenti espressi in occasione dei piani nazionali anticorruzione adottati.
Destinatari e natura della misura
Preliminarmente l'Anac chiarisce la platea dei soggetti destinatari della norma, il provvedimento motivato con il quale l'Amministrazione valuta se ricorrere alla misura della rotazione straordinaria è obbligatorio per le amministrazioni pubbliche indicate all'articolo 1, comma 2, della legge 165/2001, mentre è facoltativo per gli enti pubblici economici e per gli enti di diritto privato in controllo pubblico.
Quanto alla natura della misura, questa è da intendersi di tipo preventivo e, quindi, a tutela dell'immagine dell'amministrazione e non come misura sanzionatoria, si tratta in sostanza di valutare se allontanare dall'ufficio un dipendente che con la sua presenza può pregiudicare l'immagine di imparzialità dell'Amministrazione. Il provvedimento potrebbe anche non disporre la rotazione, ratio della norma è quello di indurre l'Amministrazione ad una valutazione improntata alla trasparenza e tesa alla tutela della propria immagine, per questo l'Autorità considera la motivazione l'elemento qualificante del provvedimento.
Destinatario della misura è tutto il personale, dirigente e non, compreso quello a tempo determinato; Anac si sofferma poi sugli incarichi amministrativi di vertice (come definiti dal decreto legislativo 39/2013) con specifico riferimento ai segretari generali e capi dipartimento, quali affidatari di incarichi fiduciari.
In questo caso l'Amministrazione valuterà se applicare la misura della rotazione straordinaria o mantenere l'incarico, in ogni caso, ad avviso dell'Autorità, l'Amministrazione è comunque tenuta ad adottare un provvedimento che disponga l'applicazione della misura o la conferma dell'incarico e, quindi, della fiducia in attesa degli esiti del procedimento penale.
Qualora disponga la misura, trattandosi di incarico di vertice, di fatto sarà impossibile applicare la rotazione in quanto non modificabile in un diverso incarico all'interno dell'amministrazione, e questo si tradurrà in un collocamento in aspettativa se dipendente dell'amministrazione o in una revoca senza conservazione del contratto se non è dipendente.
I reati
Quanto ai reati presupposto che fanno scattare la misura della rotazione straordinaria, considerata l'espressione generica usata dal legislatore che, invece di elencare specifici reati, rinvia genericamente a «condotte di natura corruttiva», Anac ritiene che per l'individuazione di queste condotte si possa fare riferimento all'elencazione dei reati contenuti nell'articolo 7 della legge 69/2015 (in relazione ai quali è prevista l'informativa del Pubblico ministero nei confronti dell'Autorità anticorruzione), vale a dire i delitti indicati dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale. In sintesi, si tratta di corruzione, concussione, peculato, traffico di influenze e turbativa d'asta.
La tempistica
Altro passaggio generico della disposizione -chiarito nella bozza della delibera- è l'individuazione del momento in cui il provvedimento di rotazione straordinaria debba essere assunto. L'articolo 16, comma 1, lettera l-quater si riferisce all'«avvio di procedimenti penali», momento che non coincide con una fase specifica del rito penale.
Anac ritiene che il momento debba coincidere con l'iscrizione del soggetto nel registro delle notizie di reato, in quanto con tale atto prende avvio il procedimento penale. Tuttavia, considerata la possibilità di accedere al registro esclusivamente per la persona alla quale il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori, l'Autorità raccomanda alle amministrazioni di inserire nei propri codici di comportamento il dovere in capo ai dipendenti coinvolti in procedimenti penali di comunicare immediatamente l'avvio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.02.2019).

APPALTIPer lavori fino a 150mila euro affidamenti con 3 preventivi. L’Anac chiarisce le modalità di applicazione della deroga introdotta dalla manovra.
L’affidamento diretto degli appalti di lavori tra i 40mila e i 150mila euro, consentito dalla manovra 2019, deve essere preceduto dalla richiesta di tre preventivi.

Il documento posto in consultazione dall’Anac per l’adeguamento delle linee-guida n. 4 sugli affidamenti sottosoglia (osservazioni entro il 21 febbraio) chiarisce l’applicazione della deroga introdotta dal comma 912 della legge 145/2018.
L’Anac evidenzia le novità che coinvolgono il solo settore dei lavori pubblici consentendo per il 2019, l’affidamento diretto, previa consultazione di tre operatori, tra 40mila e 150mila euro (invece della procedura negoziata con 10 invitati), e l’affidamento con procedura negoziata previa consultazione di almeno 10 operatori economici tra 150mila e 350mila euro (invece della procedura negoziata con 15 invitati).
L’Autorità specifica che per il 2019, per gli affidamenti di lavori, valgono le soglie introdotte dalla legge 145/2018, ma soprattutto fornisce un’interpretazione finalizzata a chiarire il significato da attribuire alla locuzione «affidamento diretto previa consultazione di tre operatori», contenuta nella disposizione della legge di bilancio 2019. In quella espressione, infatti, sono accostati termini che connotano due procedure diverse: l’affidamento diretto e la procedura negoziata.
L’Anac rileva come la procedura introdotta in via transitoria dalla norma della legge n. 145/2018 possa essere interpretata nel senso che, per gli affidamenti tra 40mila e 150mila euro, per il 2019 è possibile ricorrere all’affidamento diretto previa richiesta di tre preventivi.
In ordine alle modalità di acquisizione dei preventivi, le stazioni appaltanti dovrebbero adottare soluzioni (anche differenziate) rapportate alla tipologia e all’importo dell’affidamento, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, e del principio di rotazione, ad esempio ricorrendo alla costituzione di elenchi di operatori economici da cui selezionare gli operatori a cui richiedere la presentazione del preventivo, oppure a indagini di mercato.
L’Anac, quindi, evidenzia che la disciplina per gli affidamenti di lavori introdotta per la fascia 40mila-150mila euro non comporta un confronto competitivo (quindi una gara ad invito, come invece previsto dall’articolo 36, comma 2, lettera b), del Dlgs 50/2016), ma una semplice acquisizione di preventivi, valutata dalla giurisprudenza come percorso nel quale si sviluppano trattative parallele con i differenti operatori economici.
Questo percorso dovrà essere modulato dalle stazioni appaltanti in termini più semplificati per i valori più limitati (ad esempio con preventivi nei quali i profili esecutivi dell’appalto siano schematizzati e sintetizzati) e con maggiori accorgimenti (ad esempio elevando il livello di specificazione delle condizioni di esecuzione dell’appalto, con l’allegazione al preventivo di un capitolato più dettagliato) (articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2019).

APPALTI: Per il parere di precontenzioso all’Anac bisogna informare tutti gli interessati.
La stazione appaltante o l'operatore economico che richiede un parere di precontenzioso all'Anac è obbligato a dare comunicazione della presentazione dell'istanza a tutti i soggetti interessati alla questione.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha approvato il nuovo regolamento (delibera 09.01.2019 n. 10) in materia di pareri richiesti in relazione alla soluzione di controversie emerse nelle procedure di gara, nell'ambito del quale ha introdotto alcune soluzioni semplificative.
Obbligo comunicativo
Una delle più significative è proprio l'introduzione dell'obbligo comunicativo sulla presentazione dell'istanza da parte del soggetto che richiede il parere nei confronti di tutti gli altri interessati: qualora la comunicazione non sia effettuata, la richiesta è improcedibile.
L'Anac, che in base all'articolo 211 del codice dei contratti deve rendere il parere entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta, chiarisce che sono inammissibili le istanze dirette a far valere l'illegittimità di un atto della procedura di gara autonomamente impugnabile, rispetto al quale siano già decorsi i termini di impugnazione in sede giurisdizionale.
In aderenza all'articolo 211 del codice, le nuove disposizioni attuative specificano in dettaglio le modalità di presentazione dell'istanza sia da parte di un singolo soggetto (la stazione appaltante o un operatore economico concorrente alla gara), sia in forma congiunta.
Procedure semplificate
Il regolamento propone anche alcune disposizioni volte a ottimizzare la resa dei pareri per le gare di minore complessità, introducendo una procedura semplificata e una motivazione sintetica nei casi in cui la questione oggetto dell'istanza riguardi una gara il cui valore sia di importo inferiore alla soglia comunitaria per servizi e forniture e inferiore a 1.000.000 euro per i lavori, nonché qualora appaia di pacifica risoluzione tenuto conto, in particolare, di precedenti pronunce sull'argomento.
Il parere può essere rilasciato dall'Anac, in forma semplificata, anche con mero rinvio a precedenti pareri già adottati, nel caso di pareri non vincolanti, in appalti sopra soglia, o in caso di pareri vincolanti, ove gli stessi siano di pacifica risoluzione (articolo 11, comma 5).
Le nuove regole saranno applicate anche alle richieste di parere per le quali, presentate prima dell'entrata in vigore del regolamento (10 febbraio), non sia stato ancora avviato il procedimento, sempre che ne ricorrano i requisiti in base ai nuovi presupposti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.02.2019).

APPALTI: Offerta economica più vantaggiosa, non può incidere più del 30%. Limite inderogabile nella valutazione dell'Oepv secondo l'Anac.
Se si aggiudica un appalto con l'offerta economicamente più vantaggiosa il limite massimo del 30% non è mai derogabile, anche se la prestazione ha carattere di omogeneità.
È quanto ha stabilito l'Anac con il Parere di Precontenzioso 09.01.2019 n. 7 - rif. PREC 183/18/F concernente una procedura aperta per la fornitura, per due anni, di materiale di osteosintesi che, per un importo base d'asta di oltre 2 milioni di euro, doveva essere aggiudicato con il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa.
Una società aveva eccepito la violazione dell'art. 95, comma 10-bis, del codice dei contratti pubblici dal momento che la stazione appaltante aveva quantificato nel 40% il peso del punteggio da attribuire alla componente «prezzo» dell'offerta, invece di rispettare il limite massimo del 30%.
L'articolo 95, comma 10-bis, introdotto dal decreto correttivo del 2017 prevede che «la stazione appaltante, al fine di assicurare l'effettiva individuazione del miglior rapporto qualità-prezzo, valorizza gli elementi qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30%».
La stazione appaltante aveva difeso la scelta sostenendo che, alla luce delle indicazioni contenute nelle linee guida Anac n. 2 sull'offerta economicamente più vantaggiosa, «la scelta di prevedere una soglia massima del 30%, per l'attribuzione del punteggio economico, non ha trovato fondamento negli orientamenti dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), apparendo eccessivamente limitante per la valorizzazione dell'offerta economica, in particolare in quei mercati dove le forniture possono presentare un elevato grado di omogeneità».
Da ciò la stazione appaltante aveva fatto discendere che «in un contesto di omogeneità dei prodotti sul mercato, di dare maggiore peso all'offerta economica, nell'intendimento di assicurare maggiore risparmio di spesa, a tutto vantaggio del bilancio aziendale».
L' Anac ha bocciato questa tesi ritenendola «del tutto infondata» ribadendo che nelle linee guida si afferma il principio generale che si deve attribuire al prezzo un punteggio limitato (al di sotto del 30%) se si vuole apprezzare la parte qualitativa dell'offerta o scoraggiare ribassi eccessivi ritenuti difficilmente perseguibili dagli operatori economici.
L'Anac ha chiarito, però, che l'avere affermato che «si deve attribuire un peso maggiore alla componente prezzo quando le condizioni di mercato sono tali che la qualità dei prodotti offerti dalle imprese è sostanzialmente analoga» significa che il peso del prezzo può essere maggiore degli altri casi, ma sempre calibrato nel limite di legge del 30%.
Quindi una percentuale del 40% per l'offerta economica prevista dal bando di gara viene ritenuta illegittima. In ogni caso, quando le prestazioni contrattuali presentano un elevato grado di omogeneità (qualitativa) è sempre possibile utilizzare anche esclusivamente il criterio del minor prezzo, ma deve trattarsi, appunto, di «forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato» ai sensi dell'art. 95, comma 4, lett. b)
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIConflitto d'interessi fra segretario generale e candidato al concorso, serve un «legame professionale».
Vi è conflitto d'interessi fra segretario generale, valutatore e candidato a un concorso presso l'ente, qualora la collaborazione professionale tra gli stessi presupponga una comunione di interessi economici o di vita di particolare intensità, presentando sistematicità, stabilità, continuità tali da configurare un legame professionale. Inoltre l'esistenza di contenziosi promossi nei confronti del segretario generale non comporta l'automatico obbligo di astensione di quest'ultimo ma la necessità di una valutazione del caso concreto. Infine, il codice di comportamento dell'ente deve prevedere distinti obblighi di astensione per evitare situazioni di conflitto di interessi (anche solo potenziale), da parte dello stesso responsabile anticorruzione.

Con la delibera 19.12.2018 n. 1186, l'Anac ha dunque affrontato lo spinoso campo dei conflitti d'interesse del segretario generale che riveste anche il ruolo di responsabile anticorruzione.
Le segnalazioni pervenute all'Anac
È stata segnalata all'Anac la presunta violazione da parte di un segretario generale/responsabile anticorruzione, della normativa sul conflitto di interessi, con violazione dell'obbligo di astensione dalla valutazione dei candidati a incarichi di direzione. In particolare, viene evidenziato nelle segnalazioni che il procedimento di valutazione dei candidati sarebbe stato inficiato dalla mancata astensione del segretario generale, in considerazione dei rapporti fiduciari tra lo stesso e alcuni candidati a causa di precedenti incarichi ricoperti da questi ultimi nell'ente.
Sono stati segnalati anche ulteriori casi di presunto conflitto di interessi, riconducibili a contenziosi in corso con il segretario generale. Infine il codice di comportamento dell'ente, pur disciplinando le ipotesi di conflitto di interessi, non contempla l'ipotesi di coincidenza fra la figura dirigenziale apicale e responsabile anticorruzione, per cui la fattispecie in esame, in cui il conflitto di interessi risiederebbe proprio in capo al responsabile anticorruzione, è priva di regolamentazione.
Conflitto di interessi a seguito di precedenti rapporti professionali e...
L'Anac ha affermato che i principi in materia di astensione e ricusazione del giudice trovano applicazione anche nello svolgimento delle procedure concorsuali, in quanto connessi al corretto esercizio delle funzioni pubbliche. Qualora un componente della commissione sia in situazione di incompatibilità, ha il dovere di astenersi. La Pa, valutata l'esistenza dei presupposti, ha l'obbligo di disporre la sostituzione del componente.
L'Autorità osserva che alla luce della giurisprudenza in tema di concorsi, la collaborazione professionale tra candidato e valutatore, per assurgere a causa di incompatibilità, deve presupporre una comunione di interessi economici o di vita di speciale intensità. Deve essere costante, solida, persistente. Nel caso di specie, il segretario generale ha intrattenuto rapporti professionali con alcuni candidati a cui ha attribuito negli anni incarichi dirigenziali.
...a seguito di contenziosi in corso
L'Anac precisa che l'esistenza di contenziosi nei confronti della Pa non comporta l'automatico obbligo di astensione. Necessita valutazione della fattispecie concreta al fine di vagliare, anche per opportunità, la necessità dell'astensione. In particolare l'Autorità ritiene che qualora il funzionario interessato sia indotto, per decisione autonoma o della Pa, ad astenersi dal procedimento, l’astensione debba investire tutti gli atti del procedimento.
Infine, l'Anac sollecita l'introduzione nel codice di comportamento dell'ente, di specifici obblighi di astensione del responsabile anticorruzione, finalizzati a evitare conflitti d'interesse reale (o potenziale) da applicarsi al responsabile anticorruzione, qualunque ruolo ricopra (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.01.2019).

APPALTI: Dall’Anac i nuovi contributi di gara.
L'Anac ha definito per il 2019 (delibera 19.12.2018 n. 1174) gli importi e le modalità di versamento del contributo che devono corrispondere all'Autorità le stazioni appaltanti e gli operatori economici per gli affidamenti di lavori, servizi e forniture, nonché le società organismo di attestazione previste dall'articolo 84 del Dlgs 50/2016.
Si tratta dei contributi che servono per coprire i costi di funzionamento dell'Autorità, per la parte non finanziata dal bilancio dello Stato, nel rispetto comunque del limite massimo dello 0,4% del valore complessivo del mercato di competenza così come previsto dall'articolo 1, comma 67, della legge 23.12.2005 n. 266.
Esenzioni
Sono esenti solo le procedure svolte nell'ambito della ricostruzione, pubblica e privata, a seguito degli eventi sismici del 2016 e 2017, in base alle delibere Anac n. 359/2017 e 1078/2018; nonché gli affidamenti oggetto del decreto Affari esteri e della cooperazione internazionale del 02.11.2017 n. 192.
Per queste eccezioni il responsabile del procedimento deve inviare esclusivamente a protocollo@pec.anticorruzione.it, entro i 15 giorni solari successivi alla pubblicazione della procedura, la richiesta di esonero mediante specifici moduli.
Importi
Sono confermati quelli validi per il 2018. La tassa gara va pagata in relazione agli importi a base di gara. A partire da 40mila e fino a 150mila euro le stazioni appalti dovranno versare 30 euro, importo massimo 500 euro per valori da 20 milioni i poi.
Le stazioni appaltanti devono effettuare il pagamento entro il termine di scadenza del bollettino MAV (pagamento Mediante Avviso), emesso da Anac ogni quadrimestre, per un importo complessivo pari alla somma delle contribuzioni dovute per tutte le procedure attivate nel periodo.
Il pagamento della tassa gara da parte dei concorrenti è condizione di ammissibilità alle procedure di affidamento. La mancata dimostrazione dell'avvenuto versamento è causa di esclusione in base all'articolo 1, comma 67, della legge 266/2005. Per le procedure suddivise in lotti l'importo dovuto dalle stazioni appaltanti va calcolato applicando la contribuzione corrispondente al valore complessivo posto a base di gara. Gli operatori economici che partecipano a procedure, articolate in più lotti, devono versare il contributo, nella misura corrispondente al valore di ogni singolo lotto per il quale presentano offerta.
ll mancato pagamento della contribuzione da parte di stazioni appaltanti e Soa determina l'avvio della procedura di riscossione coattiva, mediante ruolo, delle somme non versate sulle quali saranno dovute, oltre agli interessi legali, le maggiori somme ai sensi della normativa vigent, mentre in caso di versamento di contribuzioni non dovute ovvero di versamenti effettuati in misura superiore a quella dovuta, si può inoltrare all'Anac un'istanza motivata di rimborso, con allegata idonea documentazione giustificativa.
Omesso versamento
Il Tar Milano, con la sentenza 25/2019, ha chiarito che non è ammesso il soccorso istruttorio per sanare il pagamento della tassa gara, così anche la sentenza del Tar Lazio 11263/ 2018.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza 1572/2018, ha evidenziato come, a prescindere da una specifica previsione nella lex di gara, l'omesso pagamento del contributo non può essere sanato dopo la scadenza del termine perentorio di presentazione delle offerte poiché il mancato pagamento del contributo previsto per tutti gli appalti pubblici costituisce una condizione di ammissibilità dell'offerta e la sanzione dell'esclusione dalla gara deriva direttamente dall'articolo 1, comma 67, della legge 266/2005.
FAQ
Come indicato dalle Faq, disponibili sul sito di Anac, la base di gara è un valore stimato, valutato dalla stazione appaltante al momento dell'invio del bando di gara o al momento in cui la stazione appaltante avvia la procedura di affidamento del contratto. Il calcolo del valore è basato sull'importo totale pagabile al netto dell'Iva, comprensivo degli oneri della sicurezza e di qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto.
L'operatore economico, anche non italiano, è tenuto al pagamento del contributo, ove previsto, anche se nel bando di gara o nella lettera di invito non sia indicato l'obbligo. In caso di annullamento della gara, inoltre, non è ammesso il rimborso per la stazione appaltante: il contributo deve essere versato indipendentemente dal buon esito della procedura – anche in caso di gara deserta. Per l'operatore economico il rimborso è ammesso solo se la procedura non è stata avviata ovvero non sono state aperte anche solo le buste amministrative.
La Soa è tenuta al pagamento della contribuzione dovuta entro novanta giorni dall'approvazione del proprio bilancio. Può chiedere la rateizzazione del contributo dovuto, incrementato degli interessi legali da calcolare a decorrere dal 91° giorno successivo all'approvazione del proprio bilancio alla data di effettivo pagamento. Il contributo dovrà, comunque, essere completamente corrisposto non oltre il 31 dicembre dell'anno di competenza (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).

INCARICHI PROGETTUALIServizi di punta, divieto di frazionamento soft. Il requisito non va posseduto da tutte le imprese del gruppo.
In un appalto di servizi tecnici, il divieto di frazionamento dei «servizi di punta», in caso di raggruppamenti di concorrenti, non è legittimo che sia inteso nel senso che ciascun partecipante al raggruppamento debba possedere il requisito per intero.
È quanto ha chiarito l'Anac con il Parere di Precontenzioso 28.11.2018 n. 1101 - rif. PREC 216/18/S nell'ambito di una procedura di affidamento di servizi di ingegneria e architettura.
La delibera interviene su una richiesta di parere relativa a una previsione del disciplinare di gara dalla quale sembrava desumersi che ciascun partecipante al Raggruppamento temporaneo di imprese (Rtp) dovesse possedere il requisito dei due servizi cosiddetti di punta maturati negli ultimi dieci anni per ogni singola categoria e per l'intero importo, mentre in realtà, secondo una interpretazione pro concorrenziale, sarebbe stato sufficiente che il possesso integrale fosse dimostrato da almeno uno dei componenti del raggruppamento stesso.
L'Autorità precisa che già nelle linee guida 1/2016 si prevede che in caso di raggruppamento temporaneo di progettisti il requisito dei due servizi «di punta» non sia frazionabile.
Ciò premesso, la delibera specifica però che la non frazionabilità deve essere intesa nel senso che «i cosiddetti servizi di punta, a differenza degli altri requisiti, devono essere posseduti integralmente da almeno uno dei soggetti presenti nel raggruppamento, in conformità con l'orientamento giurisprudenziale consolidato». Invece non è corretto interpretare la non frazionabilità del requisito dei servizi di punta non «nel senso che ciascun componente del raggruppamento debba possedere il requisito per intero» perché così facendo ci si porrebbe in contrasto con la logica del raggruppamento stesso, diretta a garantire la massima partecipazione alla gara.
È sufficiente, invece, che tale requisito sia posseduto per intero da un singolo componente del raggruppamento, in quanto il principio della non frazionabilità dei due servizi di punta in capo a un solo soggetto del raggruppamento temporaneo risponde all'interesse che vi sia un livello minimo di capacità per la partecipazione alle gare d'appalto, ovvero all'interesse a non polverizzare eccessivamente i requisiti di partecipazione.
In tale senso l'Anac si era espressa anche con il Bando-tipo n. 3 (in realtà un vero e proprio disciplinare di gara-tipo) che al punto 7.4 specifica che, in caso di raggruppamento temporaneo di progettisti di tipo «orizzontale», il possesso dei due servizi di punta relativi alla singola categoria e ID deve essere dimostrato da un solo soggetto del raggruppamento o, in alternativa, può essere dimostrato da due componenti diversi del medesimo raggruppamento.
È infatti chiaro per Anac che il divieto di frazionamento riguarda il singolo servizio di ogni «coppia» di servizi, così come si chiarisce al punto n. 7 della nota illustrativa al Bando tipo n. 3 e al recente chiarimento relativo al divieto di frazionamento dei due servizi di punta pubblicato sul sito dell'Autorità il 19.11.2018. Invece, in caso di raggruppamento temporaneo di progettisti di tipo «verticale», ciascun componente deve possedere il requisito dei due servizi di punta in relazione alle prestazioni che intende eseguire, fermo restando che il mandatario deve possedere i due servizi attinenti alla prestazione principale
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2018).

APPALTINuove regole per chiedere pareri consultivi all'Anac. Da oggi in vigore il regolamento pubblicato in G.U. il 20/12/2018.
In vigore da oggi il nuovo regolamento Anac per le richieste di pareri non vincolanti in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza, nonché in materia di contratti pubblici; per gli appalti potranno formulare richieste di parere le stazioni appaltanti e i soggetti portatori di interesse (le associazioni e i comitati); il parere dovrà essere emesso entro 120 giorni.
Sono queste le novità del nuovo regolamento Anac (che sostituisce il precedente del 20.07.2016) emesso con la delibera 21.11.2018 n. 1102, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 25 del 20.12.2018, che entra in vigore oggi.
Nel nuovo regolamento viene preliminarmente precisato che è in capo all'Autorità l'attività consultiva, con riferimento a fattispecie concrete, in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza, con particolare riguardo alle problematiche interpretative e applicative della legge 06.11.2012, n. 190 e dei suoi decreti attuativi e, in materia di contratti pubblici, con particolare riguardo alle problematiche interpretative e attuative del Codice, fatta eccezione per i pareri di precontenzioso di cui all'art. 211, comma 1.
L'attività consultiva è esercitata, oltre che nei casi previsti dalla legge Severino (art. 1, comma 2, lettere d ed e), nonché dall'art. 16, comma 3 della legge 39/2013, «quando la questione sottoposta all'attenzione dell'Autorità presenta una particolare rilevanza sotto il profilo della novità, dell'impatto socio-economico o della significatività dei profili problematici posti in relazione alla corretta applicazione delle norme indicate nel comma 1 del provvedimento».
L'Autorità chiarisce che l'adozione di pareri non vincolanti in materia di contratti pubblici, nonché in tema di prevenzione della corruzione, richiesti con riferimento a casi concreti in ordine alla corretta interpretazione e applicazione della disciplina di settore, fatta eccezione per i pareri di precontenzioso di cui all'art. 211 del dlgs n. 50/2016, costituisce una funzione strettamente connessa con le funzioni di regolazione e di vigilanza dell'Autorità, in quanto volta a fornire indicazioni ex ante e a orientare l'attività alle amministrazioni, nel pieno rispetto della discrezionalità che le caratterizza.
L'Autorità potrà essere interessata da una richiesta di parere da una pluralità di soggetti, in relazione alle diverse materie per le quali è prevista la funzione consultiva: ad esempio per i pareri previsti all'art. 1, comma 2, lettera d), della legge n. 190 del 2012, dal ministro per la pubblica amministrazione; per i pareri previsti all'art. 1, comma 2, lettera e), della legge n. 190 del 2012, dalle amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici nazionali.
Il parere Anac sarà richiesto in merito all'applicazione della disciplina per la prevenzione della corruzione e trasparenza, con particolare riguardo alla legge n. 190/2012 e ai relativi decreti attuativi.
Infine, per quanto riguarda il codice dei contratti pubblici, potranno rivolgersi all'Anac «le stazioni appaltanti, come definite all'art. 3, comma 1, lettera o), del codice nonché i soggetti portatori di interessi collettivi costituiti in associazioni o comitati». In ogni caso il parere dovrà essere reso entro 120 giorni
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

LAVORI PUBBLICIAnticipazione prezzi pure per lavori sotto soglia Ue. La stazione appaltante deve pagarla sempre all'appaltatore.
L'anticipazione prezzi per gli appalti di lavori non può essere limitata ai soli appalti sopra la soglia Ue di 5,5 milioni; non è vero che l'obbligo di corresponsione dell'anticipazione da parte della stazione appaltante all'appaltatore non si applica alle procedure di importo inferiore alla soglia Ue.
Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con il Parere di Precontenzioso 14.11.2018 n. 1050 - rif. PREC. 201/18/L.
Il committente aveva sostenuto che il divieto di anticipazione del prezzo inserito nel capitolato speciale d'appalto relativo ad una gara di importo di circa un milione di euro sarebbe pienamente valido alla luce di un'interpretazione sistematica del testo di legge. Infatti, sempre secondo la stazione appaltante, l'art. 35 che prevede al comma 18 l'obbligo di corresponsione dell'anticipazione da parte della stazione appaltante all'appaltatore riguarda le procedure sopra soglia comunitaria e sembrerebbe non applicarsi alla procedura di cui all'oggetto che invece è di importo inferiore a tale soglia e quindi disciplinata dal successivo art. 36 in cui dell'anticipazione del prezzo non si fa menzione.
L'Autorità ha affermato invece che l'anticipazione spetta in ogni caso, «indipendentemente dalla richiesta dell'impresa, entro sei mesi dalla data dell'offerta». L'Anac innanzitutto ricostruisce la natura dell'istituto evidenziandone la finalità di consentire all'appaltatore di affrontare le spese iniziali necessarie all'esecuzione del contratto è stato oggetto di numerose modifiche normative.
L'anticipazione, dopo che nel 2013, per favorire gli investimenti e dare impulso all'imprenditoria, in una fase di stagnazione economica e di crisi del mercato, è stata ripristinata sia pure temporaneamente nell'importo del 10%, poi del 20%. Con l'entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti di cui al dlgs n. 50/2016, al comma 18, dell'articolo 35 viene istituzionalizzata l'anticipazione del 20% calcolata non più sull'importo contrattuale, come nella corrispondente previsione del vecchio Regolamento all'art. 140, dpr 207/2010, ma sul «valore stimato dell'appalto».
È precisato, per altro, che tale anticipazione deve essere corrisposta all'appaltatore entro quindici giorni dall'effettivo inizio dei lavori ed è subordinata alla costituzione di garanzia fideiussoria bancaria o assicurativa di importo pari all'anticipazione maggiorato del tasso di interesse. La norma di cui all'articolo 35 ha quindi valenza generale e «la ratio che sorregge il principio di anticipazione delle somme erogate dall'amministrazione è di dare impulso all'iniziativa imprenditoriale, assicurando la disponibilità delle stesse nella delicata fase di avvio dei lavori e di perseguire il pubblico interesse alla corretta e tempestiva esecuzione del contratto».
A nulla vale quindi invocare il divieto di cui alla «tacitamente abrogata» legge nel decreto legge n. 79/1997, peraltro «non avrebbe senso», ha proseguito l'Anac, «precludere tale facoltà di accesso all'anticipazione per affidamenti di importo inferiore che spesso vedono protagoniste imprese di dimensioni medio piccole e più tutelate dal legislatore»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2018).

QUESITI & PARERI

APPALTIIl subappalto dopo la conversione del decreto cd Sblocca Cantieri.
Domanda
Come è cambiato l’istituto del subappalto con la conversione del decreto c.d. “Sblocca Cantieri”?
Risposta
La legge n. 55/2019 di conversione del decreto-legge 32 del 18.04.2019 c.d. sblocca cantieri, ha modificato in modo significativo il contenuto originale dello stesso, comportando non pochi problemi in capo agli operatori del settore che si trovano a dover applicare differenti disposizioni a seconda della data di pubblicazione del bando o lettera d’invito, oltre a queste continue operazioni di adeguamento della documentazione di gara.
Tra gli istituti maggiormente attenzionati non solo a livello comunitario ma anche in ambito più prettamente locale, quello del subappalto, che con la legge di conversione passa dalla soglia del 50% al 40% del valore complessivo dell’appalto
[1], salvo diversa (inferiore) percentuale scelta dalle stazioni appaltanti, ed in quanto ovviamente la prestazione presenti delle caratteristiche tali da rendere assolutamente rilevante l’esecuzione prevalente da parte del soggetto aggiudicatario in luogo a quella del subappaltatore. Per le opere di cui all’art. 89, co. 11, del codice, ovvero le SIOS, rimane il limite del 30% dell’importo delle stesse, da non computarsi ai fini del raggiungimento della soglia generale di cui all’art. 105, co. 2 (art. 1, co. 2, del D.M. 10.11.2016 n. 248).
Questo almeno fino al 31.12.2020 avendo il legislatore per alcune disposizioni relative all’istituto del subappalto, analogamente ad altre norme del codice, optato per la sospensione sperimentale.
Purtroppo non abrogata, anzi ritornata in vigore e poi sospesa la norma che prevede per le gare sopra-soglia o per quelle particolarmente esposte al rischio di infiltrazione mafiosa, come individuate al comma 53 dell’art. 1 della l. 190/2012 l’obbligo di indicare la terna dei sub-appaltatori. Disposizione che ha portato a notevoli problemi interpretativi e applicativi in sede di gara, per la difficoltà di disciplinare l’istituto del soccorso istruttorio con l’eventuale omessa o incompleta dichiarazione della terna, oltre all’esclusione del concorrente per mancanza dei requisiti in capo ai subappaltatori. Conseguentemente fino alla stessa data non c’è l’onere di verificare l’assenza in capo ai subappaltatori dei motivi di esclusione specifici di cui all’art. 80 del codice.
Anche l’art. 174, co. 2, ultimo periodo, che prevede l’obbligo di indicare la terna nel caso di subappalto nella concessione di servizi o lavori, viene sospeso dalla legge di conversione. Sul punto si ritiene utile precisare come dalla lettura dell’articolo emerga che l’eventuale subappalto, sia esso necessario, ovvero ai fini della qualificazione, o meramente facoltativo non preveda limiti quantitativi e neppure la richiesta di una specifica autorizzazione da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice, prevedendo il comma 2 il solo l’obbligo di indicare in sede di offerta le parte del contratto di concessione che si intende subappaltate a terzi.
In sede di conversione, inoltre, viene poi reintrodotto il divieto, in precedenza soppresso, di affidare il subappalto ad altro soggetto partecipante alla medesima gara, e si ritorna al pagamento diretto dei subappaltatori nei casi previsti ante decreto legge.
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[1] Ai sensi dell’art. 1, comma 18, primo periodo, della legge n. 55 del 2019, nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti, fino al 31 dicembre 2020, in deroga all’art. 105, co. 2, del codice, fatto salvo quanto previsto da comma 5 del medesimo articolo, il subappalto è indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non può superare la quota del 40 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture.
Fino alla medesima data di cui al periodo precedente, sono altresì sospese l’applicazione del comma 6 dell’art. 105 e del terzo periodo del comma 2 dell’art. 174, nonché le verifiche in sede di gara di cui all’art. 80 del medesimo codice, riferite al subappaltatore
(31.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOObblighi di trasparenza per gli incaricati di posizione organizzativa.
Domanda
Nel nostro ente (con dirigenza) sono state nominate, di recente, delle posizioni organizzative, ex art. 13 e seguenti del CCNL Funzioni locali. Su dieci P.O., cinque hanno anche delle deleghe dirigenziali. I restanti cinque non l’hanno.
Come si deve comportare l’ente per ciò che concerne gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle P.O.?
Risposta
Per effetto dell’articolo 14, commi 1 e 1-quinquies, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo inserito dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, gli obblighi di pubblicazione e trasparenza per le posizioni organizzative sono notevolmente differenziati a seconda delle seguenti casistiche:
   • Posizione organizzativa in ente con dirigenza, senza delega dirigenziale;
   • posizione organizzativa in ente senza dirigenza o con delega dirigenziale.
Per gli incaricati di posizione organizzativa, negli enti CON dirigenza e SENZA delega dirigenziale, l’obbligo è ristretto alla pubblicazione del curriculum, redatto in conformità al vigente modello europeo.
Il documento va pubblicato nella sezione Amministrazione trasparente > Personale > Posizioni organizzative.
Il termine per provvedere alla pubblicazione è previsto entro tre mesi dal conferimento e l’obbligo decade dopo tre anni dalla cessazione dall’incarico. L’aggiornamento del curriculum, deve avvenire in modo “tempestivo” (art. 8, d.lgs. 33/2013), se si verificano delle variazioni significative rispetto a quelle pubblicate.
Per gli incaricati di posizione organizzativa negli enti senza dirigenza e in quelli con dirigenti e delega dirigenziale, gli obblighi restano quelli riportati nel comma 1, del citato art. 14 e sono i seguenti:
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 7.
Per gli obblighi della lettera f) –situazione reddituale e patrimoniale– è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 20/2019, che ha escluso l’obbligo per i dirigenti e le P.O., con la sola eccezione dei titolari degli incarichi dirigenziali, previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. 165/2001.
Per la seconda tipologia di incarichi, gli obblighi vengono assolti –entro tre mesi dal conferimento dell’incarico– con pubblicazione dei dati e delle informazioni su Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di incarichi dirigenziali (dirigenti non generali). I dati dovranno essere pubblicati in tabelle che distinguano le seguenti situazioni:
   • dirigenti;
   • dirigenti individuati discrezionalmente;
   • titolari di posizione organizzativa con funzione dirigenziali.
Anche in questo caso, l’aggiornamento dei dati deve essere tempestivo e l’obbligo cessa, dopo tre anni dal termine dell’incarico di P.O. (art. 14, comma 2, d.lgs. 33/2013) (30.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIOLa verifica dell'interesse culturale dei beni.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 42/2004, introduce all'art. 12 il procedimento per la verifica dell’interesse culturale dei beni mobili ed immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli enti pubblici ed alle persone giuridiche private senza fine di lucro.
L’art. 12 prevede che tutti i beni che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, siano sottoposti all'accertamento dell’interesse culturale attraverso una procedura che prevede l’invio dei dati identificativi e descrittivi delle cose immobili e mobili ai fini della valutazione di merito da parte dei competenti uffici del Ministero.
Un Comune riceve da un soggetto privato la proposta di cessione, a titolo oneroso, del diritto di utilizzo della propria banca dati, formata da documenti di testo e fotografici pubblici e privati, riguardanti la storia del Comune, dalle origini fino alla sua costituzione formale, avvenuta oltre 60 anni fa.
Tale banca dati costituisce un vero e proprio archivio storico, dal 1857 al 1960, comprendente foto del paese, mappe del litorale dell’IGM di F., mappe catasto terreni, etc.
Le fonti archivistiche consultate e dalle quali è stata tratta la documentazione che si vorrebbe cedere, a titolo oneroso, al Comune proviene da Archivi di Stato, di Comuni e Province, Archivi parrocchiali, universitari e dell’Agenzia delle Entrate.
Si chiede di conoscere se, a vostro parere:
   - tale proposta rientri nella particolare attività di vendita o commercio di archivi o singoli documenti o beni librari, particolarmente delicata poiché potrebbe coinvolgere anche beni culturali sottoposti a tutela, ai sensi del citato decreto legislativo;
   - alla luce della normativa vigente, sia onere del Comune eventuale cessionario dei beni, sottoporre la proposta del soggetto privato alla previa vigilanza della competente soprintendenza archivistica e bibliografica per l’autorizzazione o dichiarazione di interesse culturale, ovvero avvalersi della collaborazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
O se, al contrario, spetti al cedente la verifica de quo, prima di intraprendere ogni azione di vendita/donazione della banca dati in oggetto.
RISPOSTA:
Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è stato già oggetto di modifiche introdotte con i due decreti legislativi nn. 156 e 157 del 24.03.2006 ed è in attesa di ulteriore revisione per impulso del Ministero dei Beni Culturali.
Sul piano squisitamente operativo uno degli aspetti, maggiormente problematici è rappresentato proprio dal procedimento di verifica di interesse culturale di cui all’art. 12 di cui al quesito.
Così come confezionata la disposizione legislativa ha comportato difficoltà interpretative -riguardanti specialmente le limitazioni soggettive da applicare al procedimento di che trattasi- tra i fruitori della norma e gli stessi soggetti chiamati ad applicarla.
Il procedimento amministrativo per dettato normativo stabilisce con chiarezza che può essere avviato d’ufficio o su richiesta dei singoli soggetti cui i beni appartengono, ma non esprime una altrettanto chiara individuazione dei diversi termini iniziali del procedimento nelle due ipotesi.
Con tutta probabilità nella mente del legislatore il fulcro sta nella ricezione della documentazione relativa al bene da sottoporre a verifica da parte dell’Agenzia del Demanio, indipendentemente dal suo avvio nelle distinte ipotesi.
In buona sostanza la durata del procedimento è fissata in gg. 60, di cui 30 per il completamento della istruttoria (Soprintendenza). Ferma ogni fondata perplessità sul rispetto dei termini fissati nonostante la dichiarazione di perentorietà, ci sembra interessante il fatto che il risultato della verifica, connesso all’inserimento in un archivio informatico per finalità di monitoraggio del patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi, estende le disposizioni procedimentali "...omissis...” anche agli immobili appartenenti alle regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché alla proprietà degli altri enti ed istituti pubblici (comma 12).
Ciò che a noi precipuamente interessa è di individuare l’ambito soggettivo di applicazione per eventualmente escludere dal regime normativo il caso descritto dal quesito.
In proposito va detto che ciascun provvedimento individua i soggetti destinatari del provvedimento finale riferito al c.d. procedimento di verifica dell’interesse.
In rapida sintesi facendo riferimento anche alle disposizioni che li nominano, i soggetti sono:
   a) le Amministrazioni dello Stato (D.L. n. 269/2003, d.lgs. n. 42/2004 e D.M. 28.02.2005);
   b) le Regioni, le Province, le Città metropolitane ed i Comuni (norme c/s);
   c) enti ed istituti pubblici (norme c/s);
   d) persone giuridiche private senza fine di lucro (D.M. 25.01.2005);
   e) istituti ed enti religiosi (Accordo 08.03.2005).
Si può agevolmente notare che trattasi di soggetti pubblici o ad essi equiparati. Esiste poi un regime differenziato di tutela per le cose di interesse storico artistico in relazione alla natura giuridica dei soggetti cui le cose appartengono –privati o “pubblici”- (già dalla legge n. 1089/1939).
Tra i due regimi differenziati l’elemento discriminante è rappresentato dal modo di individuazione dei beni oggetto di tutela.
Per i privati, infatti, occorre un provvedimento ad hoc dell’Amministrazione –debitamente notificato- che assoggetti il bene al regime di vincolo, mentre per quei soggetti definibili “pubblici” l’assoggettamento alla tutela avviene ex lege, ovverosia attraverso disposizioni ad hoc.
Tra i privati si devono far rientrare tutti quei soggetti che dotati di personalità giuridica non perseguano un fine di lucro, come ad esempio gli enti ecclesiastici legalmente riconosciuti, associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni private che abbiano acquistato la personalità giuridica mediante un formale riconoscimento, ma senza fini di lucro.
Un ulteriore criterio da tenere come parametro di riferimento è costituito dal diverso livello dell'interesse che il bene deve avere per assumere la qualità di bene culturale.
I soggetti interessati da tale procedimento sono anche i privati e le persone giuridiche private con scopo di lucro, con la conseguenza che “trattandosi in definitiva di competizione di diversi interessi entrambi di rango costituzionale, quale quello alla tutela del patrimonio artistico da un lato, e quello della proprietà privata dall'altro” (Cons. Stato, sez. VI, 27.08.2001, n. 4508, in Riv. giur. ed., 2001, I, p. 1167) è stato previsto un procedimento particolarmente rigoroso e tuzioristico.
Stando al citato principio, per i beni pubblici (ed assimilati) l'interesse di riferimento è solo quello "semplice" (art. 10 comma primo) e cioè senza altra aggettivazione, mentre per i beni dei privati l'interesse deve essere «particolarmente importante» [art. 10, comma 3, lettera a)] e addirittura "eccezionale" per i beni indicati nel citato dispositivo (lettera e)
Per i beni di appartenenza privata, quindi, il regime di tutela viene rinviato al momento della relativa dichiarazione o, per meglio dire, al momento dell'inizio della fase procedimentale, individuato dalla norma nella comunicazione dell'avvio del procedimento (articolo 14 comma 1).
Sembra anche opportuno segnalare in proposito che l’obiettivo è quello di tutelare in maniera preventiva tutti quei beni che, per la loro natura e per la loro appartenenza, rivestono un potenziale interesse culturale, dall'altro la necessità di un procedimento che consenta la liberalizzazione della circolazione (esigenza quest'ultima particolarmente avvertita allorché si è attuata una politica di alienazione di parte del patrimonio pubblico).
In ordine alla efficacia, è prevalente l'opinione che il provvedimento ha natura meramente dichiarativa in quanto concernente una qualità oggettiva del bene, “in esso intrinsecamente presente”. Quest'ultima tesi -che in passato la Corte costituzionale ha fatto propria respingendo ogni dubbio di incostituzionalità della L. n. 1089/1939 ed ogni tentativo di pretendere la corresponsione di un indennizzo a ristoro del pregiudizio derivante dall'imposizione del vincolo- appare preferibile, ove si consideri che l'interesse culturale di un bene non viene creato dal provvedimento amministrativo, che si limita a riconoscerlo, rivelarlo e dichiararlo pubblicamente, ma esiste sin dall'origine.
La giurisprudenza amministrativa regionale ci è d’ausilio nel ricordarci che, come ogni provvedimento amministrativo la dichiarazione deve essere supportata da una valida motivazione con particolare riguardo “all'esistenza degli elementi fattuali e di giudizio giustificativi dell'interesse artistico o storico atto a determinare l'imposizione del vincolo, così da rendere possibile la ricostruzione dell'iter logico seguito dall'amministrazione” (Tar Veneto, sez. II, 29.10.1996, n. 1801, in Giur. mer., 1997, p. 603), nonché “deve accertare il collegamento dei beni e della loro utilizzazione con gli accadimenti della storia e della cultura, individuando l'interesse particolarmente importante del bene, che può dipendere o dalla qualità dell'accadimento che col bene appare collegato o dalla particolare rilevanza che il bene stesso ha rivestito per la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura” (C.d.S., Sez. VI, 24.03.2003, n. 1496).
CONCLUSIONI
Quale che sia il procedimento di verifica, esso spetta al MIBAC (Ministero per i beni e le attività culturali), in ordine alla esistenza o meno dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (categoria questa ultima entro la quale potrebbe astrattamente rientrare il caso esposto dal quesito).
Si ricorda anche che l'attivazione su richiesta della parte si fonda sulla possibilità che, attraverso tale procedura, si ottenga la liberalizzazione del bene da ogni vincolo in ordine alla tutela ed alla circolazione.
L'esito della verifica, che viene proposta d'ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono (comma 2 articolo 12), può risultare negativo ovvero positivo.
Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato riscontrato l'interesse sopra evidenziato, le cose medesime sono escluse dal regime di tutela (comma 4, articolo 12).
Si ricorda per completezza di trattazione che avverso la dichiarazione di cui all'articolo 13 è ammesso ricorso al Ministero, per motivi di legittimità e di merito, entro trenta giorni dalla notifica della dichiarazione (articolo 16).
Fermo restando quanto sopra chiarito e salva la possibilità da parte del privato interessato di avviare il procedimento di verifica - diretto non di certo all’ente locale coinvolto - chi scrive ritiene che, salvo smentita da parte dell’Organo Ministeriale valutatore, dei beni immateriali in questione, per come descritti dal quesito e consistenti in una mera, se pure finalizzata e tematica raccolta documentativa e di quant'altro concernente la storia culturale e sociale del Comune, non sarà positivamente riscontrato, accertato e dichiarato l’interesse culturale ex art. 12 del Codice.
In ogni caso, soltanto successivamente ad un eventuale riscontro positivo, l’amministrazione locale potrà valutare l’ipotesi di acquisizione del bene al proprio patrimonio, a titolo grazioso o oneroso rispettando ogni disposizione legislativa (Tuel) e regolamentare (Regolamento di Contabilità) al fine di adottare dei legittimi e regolari provvedimenti comunali acquisitivi (tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasformazione part-time.
Domanda
Può essere negata la richiesta da parte di un lavoratore di avere il proprio rapporto di lavoro trasformato da tempo pieno a tempo parziale?
Risposta
Con l’art. 73 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, in legge n. 133 del 2008, è stato modificato il regime giuridico relativo alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time, con una novella all’art. 1, comma 58, della legge n. 662 del 1996. Inoltre, sempre con il medesimo provvedimento, è stato modificato il comma 59 del citato articolo, incidendo sulla destinazione finanziaria dei risparmi derivanti dalla trasformazione dei rapporti.
In sintesi, le novità apportate con il decreto-legge n. 112 del 2008 riguardano i seguenti aspetti:
   • è stato eliminato ogni automatismo nella trasformazione del rapporto, che attualmente è subordinato alla valutazione discrezionale dell’amministrazione interessata;
   • stata soppressa la mera possibilità per l’amministrazione di differire la trasformazione del rapporto sino al termine dei sei mesi nel caso di grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa;
   • è stata contestualmente introdotta la possibilità di rigettare l’istanza di trasformazione del rapporto presentata dal dipendente nel caso di sussistenza di un pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione;
   • è stata innovata la destinazione dei risparmi derivanti dalle trasformazioni, prevedendo che una quota sino al 70% degli stessi possa essere destinata interamente all’incentivazione della mobilità, secondo le modalità ed i criteri stabiliti in contrattazione collettiva, per le amministrazioni che dimostrino di aver proceduto ad attivare piani di mobilità e di riallocazione di personale da una sede all’altra.
Non vi è quindi nessun automatismo, ma la trasformazione deve sempre essere concessa (25.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIOAcquisto complesso immobiliare da destinare a nuova sede protezione civile.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, introdotto dall’art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo modificato dall’art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017, stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all’acquisto di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a comprovarne l’indispensabilità e l’indilazionabilità, nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
L’art. 1, c. 905, lett. d), L. n. 145/2018, stabilisce che, a decorrere dall’esercizio 2019, il suddetto comma 1-ter non si applica ai comuni e alle loro forme associative che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre.
L’art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall’art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all’art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall’art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in tutto o in parte con legge regionale.

Il Comune riferisce di avere individuato un capannone nella zona industriale ove vorrebbe trasferire la nuova sede della protezione civile ed espone che per detto capannone e per il terreno su cui insiste è stato emesso avviso d’asta giudiziaria per l’unico complesso immobiliare, cui il Comune vorrebbe partecipare quale offerente, autorizzato da delibera consiliare ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL), e motivando l’iniziativa con il perseguimento della cura di uno specifico interesse pubblico.
Sulla legittimità di detta operazione, il Comune chiede un parere, avuto riguardo al divieto di acquisto per gli amministratori dei beni affidati alla loro cura, di cui all’art. 1471 c.c.
L’art. 1471 c.c., stabilisce che “non possono essere compratori nemmeno all’asta pubblica, né direttamente, né per interposta persona”, tra gli altri, “gli amministratori dei beni dello Stato, dei comuni, delle province o degli altri enti pubblici, rispetto ai beni affidati alla loro cura”.
Il divieto in commento è sancito a pena di nullità (art. 1471, ultimo comma, c.c.) ed è volto a garantire che chi amministra beni pubblici abbia a tutelare effettivamente gli interessi affidati alle sue cure e non contrapponga o sovrapponga ad essi il proprio personale interesse
[1]. Si tratta dunque di una norma che mira a scongiurare situazioni di conflitto di interessi in cui possono incorrere gli amministratori comunali, rispetto ai beni del comune [2], cioè ai beni dell’ente amministrato [3].
Nel caso di specie, è il Comune che intende acquistare il complesso immobiliare di cui si tratta per destinarlo alla nuova sede della protezione civile, per cui non viene in considerazione il divieto di acquisto di cui all’art. 1471 c.c., riferito al divieto per gli amministratori, nella loro persona, di acquistare beni di proprietà comunale.
Peraltro, per quanto concerne gli acquisti di immobili da parte degli enti locali, vengono in considerazione vincoli finanziari in tema di contenimento della spesa pubblica, in relazione ai quali, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato dall’art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere dall’01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento.
Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a valere su risorse stanziate con apposita delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica o cofinanziate dall’Unione europea ovvero dallo Stato o dalle regioni e finalizzate all’acquisto degli immobili stessi. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio previo rimborso delle spese.
L’art. 1, comma 905, lett. d), L. n. 145/2018
[4] , ha previsto che a decorrere dall’esercizio 2019, ai comuni e alle loro forme associative che approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell’anno precedente non trovano applicazione, tra l’altro, le disposizioni di cui all’art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011.
Sul piano dell’ordinamento regionale, l’art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall’art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all’art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall’articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
Alla luce del quadro normativo delineato, compete all’Ente verificare nel caso concreto la possibilità di procedere all’acquisto del complesso immobiliare di cui si tratta, accertando la ricorrenza dei presupposti legittimanti richiesti dalla normativa statale, oppure la possibilità di applicare la norma regionale citata. A quest’ultimo riguardo, si precisa che la stessa postula che nei decreti di assegnazione dei fondi regionali di finanziamento vi sia la specifica previsione delle somme a disposizione per l’acquisto degli immobili di interesse.
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[1] Cfr. Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi, Dizionario giuridico del notariato: nella casistica pratica, Giuffrè, 1006, p. 396.
[2] Cfr. Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, pareri del 6 aprile 2009 e 22.11.2004. Il Ministero dà un’interpretazione ampia della locuzione “amministratori” destinatari del divieto, comprensiva del Sindaco, degli assessori, dei consiglieri, in considerazione della valenza generale che riveste l’individuazione delle categorie degli amministratori effettuata dal comma 2 dell’art. 77 del TUEL.
Nel senso di un’accezione ampia della nozione di amministratori di cui all’art. 1471, anche la giurisprudenza di merito: Appello Milano, 28.04.1961, GI, 1961, I, 2, 538, richiamata da Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi, op. cit., p. 397.
Sulla scia di detto orientamento, questo Servizio ha affermato l’applicazione del divieto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., agli organi di governo dell’ente locale, e dunque sindaco, assessori, consiglieri: v. nota n. 8965 del 31.05.2007 e nota n. 7440/2017.
[3] Cfr. Francesco Caringella, Giuseppe De Marzo, Manuale di diritto civile, Volume 3, Giuffrè Editore, 2008, p.1068.
[4] Recante: “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2009 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021”
(24.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTIE' confermata la possibilità di "uscire dalla CUC" per i Comuni non capoluogo di Provincia?
La conversione in legge del cosiddetto "Decreto Sblocca cantieri" (L. 14.06.2019, n. 55, art. 1 ha previsto la seguente disposizione "Al fine di rilanciare gli investimenti pubblici e di facilitare l'apertura dei cantieri per la realizzazione delle opere pubbliche, per le procedure per le quali i bandi o gli avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, per le procedure in relazione alle quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte, nelle more della riforma complessiva del settore e comunque nel rispetto dei princìpi e delle norme sancite dall'Unione europea, in particolare delle direttive n. 2014/23/UE, n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, fino al 31.12.2020, non trovano applicazione, a titolo sperimentale, le seguenti norme del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50: a) articolo 37, comma 4, per i comuni non capoluogo di provincia, quanto all'obbligo di avvalersi delle modalità ivi indicate".
Tale norma prevede quindi un regime temporaneo (31.12.2020) di disapplicazione della disciplina sulle centrali uniche di committenza dell'art. 37 del Codice degli Appalti consentendo agli enti locali di non ricorrere a centrali uniche di committenza o stazioni uniche appaltanti.
Trattandosi di una facoltà occorre precisare che:
   - gli enti locali che già aderiscono ad una CUC dovranno concordare eventuali modalità di "uscita dalla CUC" ovvero attendere l'eventuale scadenza della gestione in forma associata;
   - gli enti potranno decidere di mantenere alla Centrale Unica di Committenza alcune funzioni o servizi;
   - gli enti potranno aderire ad altra forma di gestione associata dei servizi e delle funzioni;
   - gli enti potranno mantenere la Centrale Unica di Committenza e tutte le funzioni già assegnate anche in relazione alla temporaneità della norma derogatoria.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 37
D.L. 18.04.2019, n. 32
L. 14.06.2019, n. 55, art. 1
(24.07.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTINomina e costituzione delle commissioni di gara dopo la legge di conversione n. 55/2019 del decreto Sblocca Cantieri.
Domanda
Alla luce delle nuove disposizioni contenute nella legge 55/2019 ed in particolare della sospensione dell’obbligo di nominare i commissari di gara attingendoli dall’albo dell’ANAC (peraltro non ancora avviato) si chiede di comprendere in che modo la stazione appaltante, ora, può procedere con l’individuazione dei commissari da far partecipare alla commissione di gara.
Ad esempio, la commissione di gara può essere composta interamente da commissari interni e, soprattutto, nel caso di un Comune, la presidenza può essere ricoperta dal responsabile del servizio (che poi dovrà gestire il contratto)?
Risposta
La legge di conversione del DL 32/2019, n. 55/2019 ha sospeso –fino al 31/12/2020- la procedura di avvio dell’albo disponendo che le commissioni di gara vengono nominate dalla stazione appaltante interessata con previe regole di competenza e trasparenza.
Nel periodo indicato, quindi, è il RUP della stazione appaltante che verifica e propone i potenziali commissari di gara (e ne proporrà la nomina al proprio dirigente/responsabile del servizio).
Secondo l’articolo 216, comma 12, del codice dei contratti –come in altre circostanze rilevato– la stazione appaltante dovrebbe “veicolare” tale attività istruttoria/propositiva del RUP dotandosi di proprie regole interne (un proprio regolamento e/o atto di indirizzo generale).
In giurisprudenza si è a lungo discusso sulla necessità o meno di una previa regolamentazione interna.
In tempi recentissimi, però, si è giunti ad un momento di sintesi –di estremo rilievo– espresso dal Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza del 10.07.2019 n. 4865 che, semplificando, disconosce questa esigenza.
Nel confermare la sentenza di primo grado (TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, n. 5/2019), nel caso di specie, il ricorrente, tra le altre censurava il provvedimento della nomina della commissione di gara avvenuto senza la previa definizione delle regole di trasparenza e competenza.
Il giudice rammenta che “sebbene sia preferibile la previa incorporazione delle regole di procedure in un atto fonte della stazione appaltante, l’operato non diventa illegittimo per il sol fatto della mancata previa formalizzazione di dette regole”. E’ sempre necessario, prosegue la sentenza, dimostrare in concreto, la mancanza/carenza delle condizioni di trasparenza e competenza. Circostanza che nel caso di specie non si è verificata, con conseguente condivisione di quanto affermato dal TAR Veneto, ossia, che “la nomina della commissione giudicatrice” è apparsa “sufficientemente sostenuta dalla produzione dei curricula dei singoli componenti e dalla formulazione, da parte di ciascuno di essi, delle dichiarazioni sostitutive attestanti l’insussistenza di eventuali cause di incompatibilità rispetto all’incarico ricevuto”.
In definitiva, la mancata adozione di criteri interni non determina per ciò stesso illegittimità della nomina, ciò che diventa importante è che il procedimento del RUP sia oggettivo e trasparente (con nomina di soggetti competenti). In questo senso, a titolo esemplificativo, potrebbe essere sufficiente una verifica interna sui soggetti competenti (attraverso la valutazione dei curricula) e/o applicare i principi desumibili dal pregresso articolo 84 del decreto legislativo 163/2006. Ad esempio, nel caso in cui si intenda nominare soggetti iscritti in albi è bene richiedere la presentazione di una rosa di nomi da cui attingere anche attraverso il sorteggio o previa valutazione dei curricula.
Il RUP potrebbe anche decidere di pubblicare un avviso pubblico.
Fondamentale è la circostanza che la determina di nomina della commissione di gara contenga un chiaro apparato motivazionale su come siano stati individuati i commissari (e si giustifichi l’esperienza/la competenza). Altro obbligo è una adeguata applicazione della rotazione.
Circa la presidenza, è bene annotare che il responsabile di servizio (per gli enti locali, ai sensi dell’articolo 107 del decreto legislativo 267/2000) dovrebbe presiedere le proprie commissioni soprattutto se è soggetto diverso dal RUP ed in ogni caso si sia limitato ad approvare gli atti tecnici (capitolato e criteri di valutazione) predisposti da altri soggetti. La giurisprudenza ha infatti sostenuto che la pretesa incompatibilità deve trovare una adeguata prova da parte di chi solleva le censure.
In ogni caso, attraverso previe regole interne –in questo caso necessarie– è possibile che la presidenza venga assegnata ad un diverso responsabile di servizio (24.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALINomina di un RPCT diverso dal vicesegretario.
Domanda
Nel nostro comune è vacante il posto di segretario comunale da molti mesi. Per sopperire a tale vacanza è stato nominato un vicesegretario che lo sostituisce. Nel frattempo il Sindaco ha nominato Responsabile Anticorruzione e Trasparenza un altro funzionario del comune e non il vicesegretario.
La nomina è legittima ?
Risposta
L’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, prevede che negli enti locali, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza sia individuato (dal sindaco, nei comuni) –di norma– nel segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata determinazione.
Come si può notare, la nomina del segretario comunale, in qualità di RPCT, rappresenta la situazione di “normalità”, ma non è l’unica ed esclusiva prevista dalle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione.
Per ciò che concerne l’incarico di vicesegretario occorre rifarsi, invece, all’articolo 97, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce che il ROUS (Regolamento di organizzazione uffici e servizi), può prevedere un vicesegretario, con il compito di coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di assenza o impedimento.
Nel caso specifico segnalato nel quesito, non si ritiene che le funzioni svolte dal vicesegretario comunale debbano, per forza o in automatico, riguardare anche l’incarico di RPCT.
La diversa valutazione compiuta dal sindaco, che ha individuato un altro responsabile, è certamente legittima e dovrà essere debitamente sostenuta dalle motivazioni inserite nell’atto di nomina (23.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOUfficio di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di staff:
   • non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove selettive;
   • non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
  • non richiede specifica esperienza professionale;
   • non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o professionale;
   • non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
   • prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
   • non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni locali;
   • non pone alcun limite alla retribuzione;
   • non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del destinatario;
   • è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
   a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
   b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore: "Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
   1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
   2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
   3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.
   3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale
" (18.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI SERVIZIRichiesta del DURC ai fini dei pagamenti tra enti locali.
Il rapporto convenzionale tra l’UTI (Unione Territoriale Intercomunale), che agisce quale centrale di committenza, e i Comuni che fruiscono del servizio erogato dalla controparte contrattuale dell’UTI medesima non si ritiene annoverabile tra le tipologie di accordo tra pubbliche amministrazioni che ricadono nell’ambito oggettivo di applicazione del DURC.
L’Unione Territoriale Intercomunale rappresenta che, su delega di 21 Comuni, provvede a gestire il servizio di raccolta rifiuti, che è stato affidato in appalto ed è regolato da apposito contratto.
I rapporti tra l’Unione e i Comuni sono disciplinati da specifica convenzione, ai sensi della quale l’Unione medesima provvede mensilmente a liquidare le fatture emesse dall’appaltatore, richiedendo poi ai Comuni il pagamento della quota di loro spettanza.
Poiché un Comune ha recentemente sospeso i pagamenti, in quanto il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dell’UTI risulterebbe irregolare, quest’ultima chiede di conoscere se nei rapporti economici tra enti locali debba essere obbligatoriamente richiesto il DURC.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza si formulano le seguenti considerazioni.
Occorre, preliminarmente, rilevare che la disciplina del DURC si rinviene in una pluralità di norme, contenute in contesti legislativi diversi.
Ai fini di cui si discute, la principale disposizione di riferimento è costituita dall’art. 2, commi 1 e 1-bis, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210
[1], i quali dispongono, rispettivamente, che «Le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare alla stazione appaltante la certificazione relativa alla regolarità contributiva [2] a pena di revoca dell’affidamento» e che la medesima certificazione «deve essere presentata anche dalle imprese che gestiscono servizi e attività in convenzione o concessione con l’ente pubblico, pena la decadenza della convenzione o la revoca della concessione stessa».
Per quanto attiene all’ambito dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture occorre anche richiamare, in particolare, l’art. 31 del decreto-legge 21.06.2013, n. 69
[3], il cui comma 4 dispone che il DURC deve essere acquisito da amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti in determinate fasi della procedura di gara e del rapporto contrattuale, inclusa quella del “pagamento degli stati di avanzamento dei lavori o delle prestazioni relative a servizi e forniture”.
Ne deriva, pertanto, che l’UTI (controparte contrattuale del fornitore del servizio) deve necessariamente acquisire il DURC dell’appaltatore per poter procedere ai pagamenti in suo favore.
[4]
Per quanto attiene, invece, alle convenzioni, si osserva che l’art. 2, comma 1-bis, del D.L. 210/2002 fa riferimento unicamente alle “
imprese” che gestiscono, attraverso tale forma contrattuale, servizi e attività pubblici. Ciò potrebbe far ritenere che l’adempimento in esame non si estenda alla diversa fattispecie di convenzionamento tra soggetti pubblici, ma così non è.
Va, infatti, segnalato che l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture –sulla scorta dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza comunitaria– ha ritenuto che anche gli accordi tra pubbliche amministrazioni, ove non ricorrano determinate condizioni, devono ritenersi assoggettabili alla normativa sui contratti pubblici
[5].
L’Autorità, dopo aver rilevato che la Corte di Giustizia ha più volte affermato «il principio secondo cui un’amministrazione pubblica può adempiere ai compiti ad essa attribuiti attraverso moduli organizzativi che non prevedono il ricorso al mercato esterno per procurarsi le prestazioni di cui necessita, avendo piena discrezionalità nel decidere di far fronte alle proprie esigenze attraverso lo strumento della collaborazione con le altre autorità pubbliche»
[6] chiarisce, nel contempo, che la medesima Corte «ha dichiarato non conforme al diritto comunitario escludere a priori dall’applicazione delle norme sugli appalti i rapporti stabiliti tra amministrazioni pubbliche, indipendentemente dalla loro natura».
Viene, in particolare, evidenziato che la Corte di Giustizia afferma che «la normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è applicabile agli accordi a titolo oneroso conclusi tra un’amministrazione aggiudicatrice ed un’altra amministrazione aggiudicatrice, intendendo con tale espressione un ente che soddisfa una funzione di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale e che, quindi, non esercita a titolo principale un’attività lucrativa sul mercato»
[7].
Con riferimento all’ordinamento interno, poi, l’Autorità afferma la piena legittimità dell’impiego dello strumento convenzionale di cui all’art. 15, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241 –ai sensi del quale «Anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 14
[8], le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.»– precisando quali caratteri esso deve possedere, affinché non si configuri un’ipotesi di elusione della normativa sugli appalti pubblici [9].
Relativamente al significato da attribuire all’espressione “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, contenuta del predetto comma 1, l’Autorità rileva che la sua formulazione sembra circoscrivere la possibilità di stipulare accordi alle ipotesi in cui sia necessario disciplinare un’attività che risponde non solo all’interesse di entrambe le parti, ma che è anche comune.
Poiché l’art. 15 della L. 241/1990 «prefigura un modello convenzionale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni coordinano l’esercizio di funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in modo complementare e sinergico, ossia in forma di “reciproca collaborazione” e nell’obiettivo comune di fornire servizi “indistintamente a favore della collettività e gratuitamente” (cfr. Cass. civ., 13.07.2006, n. 15893)» l’Autorità afferma che si comprende, allora, perché la norma non contrasta con la normativa a tutela della concorrenza: le amministrazioni decidono di provvedere direttamente con propri mezzi allo svolgimento dell’attività ripartendosi i compiti, il che vale a dire, trattandosi di una collaborazione, che entrambi i soggetti forniscono un proprio contributo.
Qualora, invece, un ente si procuri il bene di cui necessita per il conseguimento degli obiettivi assegnati a fronte del pagamento del rispettivo prezzo il discorso è diverso: in siffatta situazione, sia che ci si rivolga ad un privato, sia che ci si rivolga ad un soggetto pubblico, è difficile sostenere l’applicabilità dello schema della collaborazione, atteso che si è di fronte ad uno scambio tra prestazioni corrispettive che risponde alla logica del contratto e che perciò richiede, in assenza di altre circostanze esimenti, l’espletamento di una gara pubblica
[10].
In considerazione di quanto fin qui illustrato, si ritiene che il rapporto convenzionale tra l’UTI, che agisce quale centrale di committenza, e i Comuni che fruiscono del servizio erogato dalla controparte contrattuale dell’UTI medesima non risulti annoverabile tra le tipologie di accordo tra pubbliche amministrazioni che ricadono nell’ambito oggettivo di applicazione del DURC.
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[1] Convertito, con modificazioni, dalla legge 22.11.2002, n. 266.
[2] L’art. 16-bis, comma 10, del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.01.2009, n. 2, dispone che «le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d’ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (DURC) dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i casi in cui è richiesto dalla legge».
[3] Convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
[4] Si veda anche il comma 7 del medesimo art. 31, ai sensi del quale «Nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai fini della verifica amministrativo-contabile, i titoli di pagamento devono essere corredati dal documento unico di regolarità contributiva (DURC) anche in formato elettronico.».
[5] V. par. 2 della determinazione 21.10.2010, n. 7.
[6] Al riguardo l’Autorità sostiene che «A ben vedere, quella esposta è la stessa ratio che è alla base dell’esenzione dall’espletamento della gara nell’ipotesi di utilizzo dell’in house providing: anche in questo caso l’amministrazione opta per una scelta contraria al processo di outsourcing, stabilendo di affidare l’attività a cui è interessata ad un altro ente che solo formalmente è distinto dalla propria organizzazione, ma su cui sostanzialmente essa esercita un controllo analogo a quello che espleterebbe nei confronti di un proprio servizio e che realizza con essa la parte più importante della sua attività.».
[7] L’Autorità richiama anche la risoluzione del Parlamento Europeo del 18.05.2010, che ha ribadito la legittimità di forme di collaborazione pubblico-pubblico che «non rientrino nel campo d’applicazione delle direttive sugli appalti pubblici, a condizione che siano soddisfatti tutti i seguenti criteri:
   • lo scopo del partenariato è l’esecuzione di un compito di servizio pubblico spettante a tutte le autorità locali in questione,
   • il compito è svolto esclusivamente dalle autorità pubbliche in questione, cioè senza la partecipazione di privati o imprese private,
   • l’attività in questione è espletata essenzialmente per le autorità pubbliche coinvolte.».
[8] L’articolo regolamenta la conferenza di servizi.
[9] A tal fine, risulta chiarito che: «1. l’accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l’obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalità istituzionali degli enti coinvolti;
   2. alla base dell’accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilità;
   3. i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono l’accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno;
   4. il ricorso all’accordo non può interferire con il perseguimento dell’obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. […]».
[10] L’Autorità ricorda che il giudice amministrativo (cfr. TAR Puglia–Lecce, sez. I, 21.07.2010, n. 1791) ha svolto le medesime considerazioni, affermando che «difetta l’interesse comune nell’accordo interamministrativo quando un’amministrazione ha inteso acquisire da un’altra amministrazione un servizio di proprio esclusivo interesse verso corrispettivo. […] La presenza di un corrispettivo è dunque da considerarsi quale elemento sintomatico della qualificazione dell’accordo alla stregua di appalto pubblico, da assoggettare alla relativa disciplina secondo le prescrizioni del codice degli appalti.»
(18.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATAA seguito dell'approvazione della cosiddetta “legge sulla concretezza” gli Enti pubblici dovranno approvare un nuovo piano triennale e costituire il Nucleo previsto dalla legge o sono adempimenti centralizzati?
La L. 19.06.2019, n. 56 "Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo" ha previsto all'art. 1 due nuovi strumenti per realizzare interventi di miglioramento dell'attività della Pubblica Amministrazione:
   - l'istituzione del "Nucleo della Concretezza";
   - l'approvazione del "Piano triennale delle azioni concrete per l'efficienza delle pubbliche amministrazioni".
Il Nucleo è una struttura unica, realizzata a livello centrale presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Anche il "Piano triennale delle azioni concrete per l'efficienza delle pubbliche amministrazioni" è unico e centralizzato ed è predisposto annualmente dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri e viene approvato con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell'interno, previa intesa in sede di Conferenza unificata (per la parte relativa alle azioni da effettuare nelle regioni, negli enti strumentali regionali, negli enti del Servizio sanitario regionale e negli enti locali).
I singoli Enti non hanno dunque competenze o oneri specifici se non quelli relativi a:
   - dare attuazione alle misure contenute nel piano;
   - fornire supporto alle attività del Nucleo, se richiesti;
   - rispondere ad eventuali osservazioni contenuti nei verbali di sopralluogo del Nucleo entro 3 giorni;
   - comunicazione al nucleo, entro 15 giorni, delle misure attuative.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165
L. 19.06.2019, n. 56, art. 1
 (17.07.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTICriteri di aggiudicazione nel nuovo Decreto cd Sblocca Cantieri.
Domanda
Secondo alcuni autori il termine “verifica della documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’art. 80” deve intendersi nel senso di controllo in sede di gara della veridicità di quanto dichiarato dall’operatore, mediante richiesta, anche tramite AVCPass, della documentazione a comprova dei requisiti riportati nel DGUE.
È necessario procedere a queste operazioni? Inoltre è corretto che la stazione appaltante personalizzi il DGUE?
Risposta
La funzione del DGUE è quella di creare a livello comunitario un modello, appunto unico, in ordine alle dichiarazioni del possesso dei requisiti generali e speciali, di estremo vantaggio per gli operatori economici che non si vedono costretti alla lettura e compilazione di diversi fac simili proposti dalle Amministrazioni, ma che possono riutilizzare un documento già in loro possesso e precompilato, rispetto al quale dovranno eventualmente inserire i dati relativi alla gara di riferimento, nonché eventuali aggiornamenti.
La personalizzazione da parte della Stazione Appaltante del DGUE vanifica la funzione stessa del modello, rendendo in qualche modo inutile il co. 4 dell’art. 85, del codice, che appunto prevede la possibilità per gli operatori economici di “riutilizzare il DGUE utilizzato in una procedura d’appalto precedente purché si confermino che le informazioni ivi contenute siano ancora valide”.
Proprio in ragione del principio di semplificazione, che le Amministrazioni per quanto difficile devono cercare di realizzare nell’interesse del mercato, si ritiene corretto richiedere in sede di gara il possesso dei requisiti mediante la presentazione del Documento di gara unico europeo (DGUE) redatto in conformità al modello di formulario approvato con Regolamento di esecuzione UE 2016/7 della Commissione del 05.01.2016 e secondo lo schema di cui al DM del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti del 18.07.2016 o s.m., allegando, per quanto non previsto nel predetto schema ministeriale, a seguito delle modifiche al codice dei contratti, un proprio modello di dichiarazione integrativa (art. 80, comma 5, lett. c-bis, c-ter, c-quater, f-bis e f-ter del Codice).
Con riferimento inoltre alla necessità di verificare tutti gli operatori in sede di gara, si ritiene di non aderire alla posizione evidenziata nel quesito, almeno fino a quando non sarà completamente operativa la BDNCP, in linea con quanto evidenziato dallo stesso Consiglio di Stato nella recente sentenza n. 4364 del 25.06.2019, che rispetto alla censura di parte ricorrente di omessa verifica dei requisiti in sede di gara, ha evidenziato come sia sufficiente osservare che l’art. 32, co. 7, d.lgs. 50/2016 rimanda la verifica del possesso dei requisiti alla fase successiva all’aggiudicazione, quale condizione integrativa dell’efficacia di quest’ultima, con la conseguenza che quanto dichiarato dagli operatori economici concorrenti nella domanda di partecipazione e nel DGUE costituisce prova documentale sufficiente del possesso dei requisiti dichiarati, dovendo essere basata su tali dichiarazioni la relativa valutazione ai fini dell’ammissione e della partecipazione alla gara.
Inoltre, fatte salve diverse previsioni della “lex specialis” e fatto comunque salvo l’esercizio delle facoltà riconosciute alla stazione appaltante dall’art. 85, co. 5, d.lgs. 50/20169, soltanto all’esito della gara, dopo l’approvazione della proposta di aggiudicazione ed il provvedimento di aggiudicazione, si procede alla verifica del possesso dei prescritti requisiti (17.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIPubblicazione atti per micro-acquisti.
Domanda
Abbiamo letto, da qualche parte, che le pubblicazioni su Amministrazione trasparente > Bandi di gara e contratti, valgono solamente per le forniture di beni e servizi sopra a 1.000 euro.
Dal momento che dal 01.01.2019, i micro-acquisti si possono effettuare sino a 5.000 euro, si chiede se le pubblicazioni degli atti per l’affidamento di beni e servizi sino a tale soglia siano sottratte dall’obbligo della trasparenza.
Risposta
Prima di rispondere al quesito, è conveniente fornire un consiglio, che è il seguente: è conveniente non “leggere da qualche parte” qualcosa, di cui non si ha cognizione, senza nemmeno fare riferimento ad uno straccio di norma di legge. Il rischio grosso che si corre è quello di sbagliare bersaglio: come in questo caso.
Finito il suggerimento, si affronta la questione posta.
Per gli obblighi di pubblicità e trasparenza per l’acquisto di beni, servizi e lavori, occorre fare riferimento all’articolo 37, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 che, al comma 1, recita: "1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 9-bis e fermi restando gli obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti pubblicano:
   a) i dati previsti dall’art. 1, comma 32 della legge 06.11.2012, n. 190;
   b) gli atti e le informazioni oggetto di pubblicazione ai sensi del d.lgs. 18.04.2016, n. 50
.".
In base all’articolo 1, comma 32, della legge 190/2012, le stazioni appaltanti, devono pubblicare “in ogni caso”:
   • il CIG
   • la struttura proponente;
   • l’oggetto del bando;
   • l’elenco degli operatori invitati a presentare offerte;
   • l’aggiudicatario;
   • l’importo di aggiudicazione;
   • i tempi di completamento dell’opera, servizio o fornitura;
   • l’importo delle somme liquidate.
Le pubblicazioni di cui sopra (quelle riferite al comma 32), limitatamente alla parte dei lavori, si intendono assolte attraverso l’invio dei dati all’ex AVCP, ora ANAC.
Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all’anno precedente, sono pubblicate (anche) in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici. Sull’argomento, per ulteriore approfondimento, si rinvia alla Delibera ANAC n. 39 del 20.01.2016
[1].
Per ciò che concerne, invece, gli obblighi di trasparenza fissati dal Codice dei contratti (d.lgs. 50/2016 e successive modificazioni ed integrazioni), va fatto riferimento all’articolo 29, rubricato “Principi in materia di trasparenza”, dove, al comma 1, si specifica che devono essere pubblicati, tra le altre informazioni, Tutti gli atti relativi alle procedure per l’affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere.
Combinando, quindi, le due disposizioni, sopra meglio citate, gli obblighi di pubblicità e trasparenza della sezione Bandi di gara e contratti –la sezione più popolosa del sito, si immagina– devono essere assolti per tutti gli atti, di qualsiasi importo, senza esclusione alcuna.
Venendo alla questione delle soglie, va ricordato che l’articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, prevedeva l’obbligo di fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti (per esempio: le centrali di acquisto regionali), per affidamenti di bene e servizi superiori a 1.000 euro.
Con il comma 130, articolo 1, della legge 145/2018 (legge di stabilità 2019), dal 01.01.2019, la soglia di esenzione –dall’obbligo di ricorrere al mercato elettronico– è stata elevata da 1.000 a 5.000 euro. Restano invariati, pertanto, tutti gli obblighi di trasparenza, anche per forniture di importi inferiori.
-----------------
[1] Delibera numero 39 del 20.01.2016, recante “Indicazioni alle Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione e di trasmissione delle informazioni all’Autorità Nazionale Anticorruzione, ai sensi dell’art. 1, comma 32 della legge n. 190/2012, come aggiornato dall’art. 8, comma 2, della legge n. 69/2015” (16.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Verifica dello stato legittimo degli immobili risalenti nel tempo (Regione Emilia Romagna, nota 11.07.2019 n. 592534 di prot.).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi PO e superamento limiti.
Domanda
Il Sindaco ha firmato dei decreti di nomina dei Responsabili dei Servizi corrispondendo importi di retribuzione di posizione che non rispettano il tetto del 2016. Cosa ci suggerite?
Risposta
In risposta al vostro quesito, innanzitutto suggeriamo di verificare se il calcolo dei valori delle posizioni organizzative sono stati effettuati tenendo in considerazione il concetto di “destinato” o meglio dire “finalizzato” all’istituto così come riassunto dalla Corte dei conti della Sicilia nella Deliberazione n. 172/2018: “il limite massimo di spesa di riferimento, pertanto, non può essere quello quantificato tenendo conto della ipotetica struttura organizzativa né quello relativo alle somme effettivamente erogate e riferite all’esercizio 2016, piuttosto deve essere quello rappresentato dall’ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel medesimo esercizio finanziario, nel rispetto del contratto di lavoro e dei vincoli di finanza pubblica”.
Di fatto, nel 2017 non potevano essere stanziate somme in misura incompatibili con l’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 che prevede di non superare il trattamento accessorio del 2016, tetto che va rispettato come unico aggregato tra fondo e posizioni organizzative.
Pertanto, già in fase di attribuzione delle somme per retribuzione di posizione e di risultato, l’ente avrebbe dovuto preoccuparsi di verificare il rispetto della norma.
Purtroppo, però, dal momento in cui viene identificato l’importo in un decreto del Sindaco, tale somme diventa a nostro parere esigibile da parte del lavoratore, il quale, se non corrisposta potrebbe rivolgersi al giudice del lavoro.
Va però altresì precisato che, in ogni caso, il Sindaco non ha un’autonoma e illimitata discrezionalità nell’aumentare gli importi delle posizioni organizzative, in quanto il sistema ha sempre previsto la necessità di avere nell’ente criteri per la graduazione delle aree. Quindi, in assenza di questi, c’è da chiedersi se i decreti di nomina del Sindaco siano legittimi o non possano essere anche rivisti in autotutela.
In ogni caso, tornando alla questione, se dalla somma aritmetica dei valori come sopra determinati risulta che un ente non ha rispettato il tetto dell’anno di riferimento, non vi è alcun dubbio che ha creato un superamento del vincolo finanziario che dovrà essere recuperato negli anni successivi.
Ora, se diamo per assodato che i valori delle p.o. siano “giusti” e quindi quelli stanziati, l’ente non avrebbe potuto stanziare quelle somme di parte variabile nel fondo negli anni di riferimento perché quei valori portano al superamento del limite che, appunto, ora dovrà essere recuperato sui fondi degli anni successivi.
Se invece l’ente ritiene che l’errore sia nella quantificazione del valore delle p.o. dovrà agire in autotutela con la revisione dei decreti di nomina (11.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIL’affidamento dei lavori nell’ambito di importi compresi tra i 40mila ed i 150mila euro.
Domanda
La legge 55/2019 ha modificato l’articolo 36 del decreto legislativo 50/2016 ed ha previsto una nuova possibilità di affidamento diretto per lavori compresi tra i 40mila euro ed i 150mila. La disposizione prevede che l’affidamento diretto possa avvenire solo “previa valutazione di tre preventivi”.
Si chiede se può essere chiarita la dinamica concreta del procedimento di affidamento.
In particolare, per reperire i tre preventivi è necessario utilizzare un avviso pubblico per le manifestazioni di interesse – nell’ambito delle quali scegliere (magari ad estrazione) o è possibile agire anche con altre modalità?
Risposta
La recente legge di conversione (con modifiche) del DL 32/2019 c.d Sblocca Cantieri, approdata in G.U. con il numero 55/2019 ed entrata in vigore il 18 giugno, tende –sulla carta– a semplificare il procedimento di affidamento di lavori (e non solo nell’ambito degli importi riportati nel quesito).
In merito, l’articolo 36, comma 2, lett. a), limitando il discorso ai lavori pubblici, prevede che per gli appalti “di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori” si può procedere “mediante affidamento diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti” e che “l’avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati”.
La norma contiene anche un riferimento alla rotazione degli inviti che –pur apparendo diretta ai servizi ed alle forniture– deve comunque ritenersi applicabile anche nel caso di specie non foss’altro per il richiamo espresso nel comma 1 dell’articolo 36.
Come si è rilevato in altre circostanze, la norma replica una disposizione oramai abrogata contenuta nel comma 942, art. 1, della legge di bilancio 145/2018. Questa norma invece del verbo “valutare” conteneva il riferimento alla consultazione (dei tre operatori economici).
Attualmente, in mancanza di indicazioni operative specifiche (salvo alcune indicazioni contenute nel nuovo schema di linee guida n. 4 dell’ANAC riferite però alla disposizione pregressa contenute nella legge di bilancio), gran parte dei commenti hanno rilevato che la nuova previsione avrebbe ampliato la discrezionalità del RUP nella scelta degli operatori economici a cui far presentare il preventivo da valutare.
Sotto il profilo pratico operativo, a parere di chi scrive, la norma sembra avere inciso soprattutto sulla procedura (propedeutica) di reperimento/individuazione degli operatori economici.
Nel senso che, se ante modifica apportata dal decreto legislativo 55/2019 il RUP doveva –in relazione agli importi pari o superiori ai 40mila euro– necessariamente avvalersi dell’avviso pubblico per ottenere la manifestazione di interesse (o, se presente dell’albo dei prestatori), alla luce dell’attuale norma l’indagine di mercato può essere svolta in modo informale purchè oggettiva e trasparente.
Ad esempio, il RUP potrebbe utilizzare, per avere almeno i tre preventivi, dati già in suo possesso, oppure in possesso di altre stazioni appaltanti (che abbiano appaltato lavori simili) o anche consultare la realtà locale se adeguata ai lavori da espletare.
Individuati i soggetti economici può con questi (almeno tre) avviare le trattative per ottenere i preventivi di spesa da “confrontare”.
Ovviamente tale percorso istruttorio dovrà trovare adeguata illustrazione nella determinazione di affidamento ed in ogni caso l’attività svolta deve essere trasparente ed oggettiva.
In alternativa, il RUP potrebbe avviare la classica indagine con avviso pubblico, magari a contenuto semplificato fornendo termini adeguati per presentare il preventivo.
Da rammentare che rimane ferma la prerogativa di avviare un procedimento ordinario (10.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

TRIBUTII Comuni di questa Unione lamentano che molti titolari di esercizi non sono in regola con i pagamenti di tasse e tributi locali e vorrebbero condizionare l'efficacia delle autorizzazioni alla regolarizzazione, analogamente a quanto effettuato per il DURC in altri settori.
E' possibile e legittima una delibera di questo genere?

Una risposta positiva è stata data a tale quesito, che rappresenta una problematica diffusissima a livello nazionale, con la L. 28.06.2019, n. 58 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, recante misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi" (cosiddetto Decreto Crescita).
La norma introdotta dispone "Gli enti locali competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti attività commerciali o produttive possono disporre, con norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte dei soggetti richiedenti".
L'art. 15-ter in questione, inserito durante l'esame presso la Camera dei deputati, consente agli enti locali di subordinare alla verifica della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte dei soggetti richiedenti il rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi rinnovi, inerenti attività commerciali o produttive.
Tale previsione, per essere applicabile, deve passare da una approvazione mediante delibera consiliare nella forma del regolamento comunale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34
L. 28.06.2019, n. 58, art. 1
(10.07.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALITrasmissione dei Piani Anticorruzione.
Domanda
A quale autorità va trasmesso il Piano Anticorruzione adottato nel comune, ogni anno, entro il 31 gennaio? Al Dipartimento della Funzione pubblica o all’ANAC?
Risposta
In base alla prima versione della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), tutte le amministrazioni, compresi i comuni, dovevano trasmettere il Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) al Dipartimento della Funzione pubblica. Lo prevedeva l’articolo 1, comma 8, della legge 190/2012 e il Piano Nazionale Anticorruzione (P.N.A.) approvato dalla CIVIT con deliberazione n. 72 datata 11.09.2013.
Successivamente, con l’avvento dell’ANAC, in tutte le comunicazioni pubblicate dall’Autorità Nazionale (delibere e Piano Nazionale) veniva stabilito che il Piano non dovesse essere spedito, ma solamente pubblicato –come previsto all’art. 10, comma 8, del d.lgs. 33/2013– nel sito web dell’ente, nelle sezioni:
   • Amministrazione trasparente > Disposizioni generali > Piano triennale prevenzione della corruzione e trasparenza;
   • Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione
[1].
Con le modifiche apportate dall’articolo 41, comma 1, lettera g), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, alla legge 190/2012, l’indicazione inserita prevedeva l’invio del Piano, da parte della Giunta –che lo approva– all’ANAC, anche se non erano mai state definitive le modalità di trasmissione.
La questione dell’invio dei Piani Anticorruzione all’ANAC, pare essere stata affrontata, ora, in via definitiva, mediante predisposizione di una piattaforma on-line.
La lieta novella è stata partecipata mediante pubblicazione nel sito dell’ANAC, del Comunicato del Presidente Raffaele Cantone del 12.06.2019
[2].
Nel Comunicato, infatti, si prevede che:
   • a partire dal 13.06.2019 è possibile effettuare la registrazione dei RPCT presso il sistema di autenticazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione;
   • la piattaforma per l’acquisizione dei Piani triennali e delle relazioni annuali sarà on-line dal 01.07.2019;
   • i responsabili della prevenzione della corruzione e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, degli enti pubblici economici e non economici, degli ordini professionali e delle società in controllo pubblico dovranno procedere alla registrazione e all’accreditamento disponibile sulla pagina di registrazione e profilazione utenti della sezione Servizi del sito internet dell’ANAC;
   • una volta registrati, i Responsabili potranno usufruire dei seguenti servizi ad accesso riservato:
      a) l’accesso alla piattaforma per le rilevazioni delle informazioni relative ai Piani;
      b) l’accesso alla piattaforma per la redazione della relazione annuale;
      c) l’accesso al forum dei Responsabili anticorruzione e trasparenza, che sarà successivamente reso disponibile.
Anche se nel Comunicato non se ne fa cenno, si ritiene che l’invio dei Piani Anticorruzione valga dal prossimo PTPCT che dovrà essere approvato entro il 31.01.2020.
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[1] Tra le altre si veda: Comunicato del Presidente ANAC del 15.02.2015, consultabile cliccando qui
[2] pagina web linkata
(09.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente non revocabile. Decide la maggioranza, non il capogruppo. Sulla disciplina delle commissioni lo statuto rinvia al regolamento dell’ente
Può essere revocato il presidente di una delle commissioni permanenti in virtù di una mera comunicazione effettuata dal proprio capogruppo al presidente del consiglio comunale?

L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo statuto l'istituzione facoltativa delle commissioni consiliari, con il solo vincolo del rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione. I poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori sono demandati al regolamento.
Lo statuto di un ente dispone che i presidenti delle commissioni consiliari permanenti sono eletti fra i componenti di ciascuna commissione con il voto della maggioranza dei suoi componenti e cessano dalla carica per dimissioni o perché lo richiede almeno la maggioranza dei consiglieri componenti, rinviando al regolamento la disciplina del numero delle commissioni, la loro composizione, i poteri, l'organizzazione e tutto ciò che attiene al loro funzionamento.
Il regolamento comunale prevede che le commissioni sono composte mediante designazione da parte dei gruppi consiliari con proposta scritta di ciascun presidente del gruppo al presidente del consiglio.
Con una espressione difforme dalla previsione statutaria, viene stabilito che «il presidente del consiglio, preso atto della costituzione delle commissioni procede alla elezione dei presidenti delle commissioni mediante votazione palese scegliendoli, per ciascuna commissione tra i componenti della stessa».
Il decreto legislativo n. 267/2000 non prevede espressamente la possibilità di revocare il presidente del consiglio. Per quanto concerne la tematica della ammissibilità della revoca del presidente del consiglio o del presidente della commissione consiliare, entrambe figure di garanzia, in carenza di una specifica previsione statutaria, si registrano posizioni contrastanti in giurisprudenza. In alcune pronunce si tende ad affermarne l'illegittimità, mentre, in altre, l'assenza nelle norme statutarie di una specifica disciplina della revoca «non ne inibisce di per sé la possibilità di ricorrervi» (Tar Lazio n. 8881/2008).
Lo statuto comunale, oltre a disciplinare le modalità di elezione dei presidenti, fornisce anche chiare indicazioni in ordine alla loro cessazione dalla carica, è a queste che, occorre attenersi.
Pertanto, fatte salve le dimissioni volontarie dell'interessato, solo la maggioranza della commissione può deliberarne la sostituzione con altro componente della medesima commissione, essendo invero limitata l'attività dei capigruppo consiliari alla mera indicazione dei componenti delle commissioni su designazione dei gruppi di appartenenza, i quali, tuttavia, ai sensi del regolamento possono, comunque, sostituire i propri rappresentanti all'interno delle commissioni (articolo ItaliaOggi del 05.07.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Allattamento genitore lavoratore autonomo.
Domanda
Un papà chiede le 2 ore di allattamento giornaliere per suo figlio. La madre è lavoratrice autonoma e gode dell’indennità di maternità riconosciuta dall’INPS. La domanda del padre può essere accolta?
Risposta
I riposi giornalieri del padre, meglio noti come le 2 ore di allattamento, sono disciplinati all’art. 40 del d.lgs. 151/2001.
La norma di legge prevede che al padre siano riconosciuti 2 periodi di riposo della durata di 1 ora ciascuno (se l’orario di lavoro è di almeno 6 ore) solo nelle seguenti ipotesi:
   a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
   b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga
   c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
   d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
L’alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da parte del padre è prevista solo in relazione alla madre «lavoratrice dipendente» che non se ne avvalga.
Quindi, solo se la madre è lavoratrice subordinata, è prevista la regola dell’alternatività, ovvero il padre può godere dei riposi giornalieri solo se la madre non se ne avvale. Vale a dire che se la madre subordinata è in congedo di maternità, il padre non può godere dei riposi giornalieri.
Al contrario, nel caso di madre “lavoratrice autonoma” non vi è alcun divieto normativo di cumulo tra godimento dell’indennità di maternità e la fruizione dei riposi giornalieri.
Le ragioni della diversa disciplina nascono dalla diversa condizione lavorativa delle madri, meno tutelata dal punto di vista economico per la lavoratrice autonoma rispetto alle garanzie che la legge offre alla lavoratrice dipendente.
La cumulabilità del congedo di maternità della lavoratrice autonoma con i riposi giornalieri del padre è confermata dalla Cassazione con sentenza n. 22177 del 12.09.2018 (04.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIOEstinzione concessione cimiteriale a seguito di estumulazione.
In caso di concessione rilasciata per la tumulazione in loculo comunale di salma individuata nel contratto, in dottrina e in giurisprudenza si ritiene che l’estumulazione del feretro determini l’estinzione della concessione per esaurimento della funzione.
Il Comune riferisce di una concessione cimiteriale, della durata di novantanove anni, con la quale è stato attribuito al concessionario ed eredi l’uso di un loculo
[1] per l’“inumazione” (rectius tumulazione) individuale della salma (del figlio del concessionario) indicata nel contratto. Gli eredi del concessionario, successivamente deceduto, hanno fatto istanza al Comune di estumulare dal loculo detta salma, al fine di ridurla in cassetta ossario e ritumularla nello stesso loculo, ove hanno manifestato la volontà di riporre in futuro anche la salma della madre [2].
Il Comune ritiene di poter accogliere la domanda di estumulazione, mentre è dell’avviso di non consentire la tumulazione nel loculo di cui si tratta di un feretro diverso da quello del soggetto nominalmente individuato nella concessione, in quanto osserva che il loculo è stato concesso per un determinato scopo e di conseguenza l’estumulazione determina l’estinzione della concessione per esaurimento della finalità per cui la stessa è stata fatta. Sulla correttezza o meno di siffatta impostazione il Comune chiede parere.
Sentita l’Area promozione salute e prevenzione della Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità, si esprime quanto segue.
Si premette che l’attività di questo Servizio consta nel fornire un supporto giuridico generale sulle questioni poste dagli enti, che possa essere di aiuto per la soluzione dei casi concreti che li riguardano, in relazione alle loro peculiarità.
Si precisa altresì che questo Servizio non è deputato ad esprimere considerazioni sugli atti negoziali stipulati dall’Ente, la cui interpretazione compete solo alle parti da cui provengono e, in ultima istanza, al giudice competente eventualmente adito.
Un tanto premesso, in via collaborativa si esprimono le seguenti considerazioni.
Dalla lettura del contratto di concessione, emerge che il Comune dà e concede e il privato contraente “accetta, si obbliga e stipula per sé ed eredi l’uso del loculo …per inumazione della salma” della persona ivi identificata.
In particolare, per quanto concerne gli eredi, nel contratto si specifica che alla morte del concessionario “il diritto di uso, relativo al loculo concesso, passerà alla morte del concessionario agli eredi”, con l’espressa riserva che il “Comune non riconoscerà mai, per i relativi diritti ed obblighi, che uno solo degli eredi”, da designarsi nei modi ivi stabiliti.
Il diritto di uso concesso non potrà in nessun modo e per nessun titolo essere ceduto ad altri, eccettuato quanto previsto per gli eredi.
Dalle espressioni sopra richiamate, sembrerebbe che il contratto attribuisca al concessionario e agli eredi il diritto di tumulare nel loculo il feretro del soggetto ivi espressamente e nominativamente indicato.
A voler assumere, muovendo dal tenore letterale del contratto, che il Comune abbia concesso e il concessionario abbia accettato (per sé e i suoi eredi) l’uso del loculo per la tumulazione di una salma specifica, questo porterebbe a ritenere che l’estumulazione di quel feretro determini l’estinzione della concessione per esaurimento della finalità per cui questa era stata chiesta ed ottenuta.
E così, con specifico riferimento all’ipotesi del posto a tumulazione individuale (colombario, loculo, a seconda delle denominazioni localmente usate, che possono essere variamente diversificate) concesso “esclusivamente” per il feretro di defunto determinato o comunque per il quale l’atto di concessione specifichi che la concessione è stata fatta per accogliervi quel determinato feretro, la dottrina ha osservato che qualora venga richiesta l’estumulazione del feretro di destinazione, si ha l’effetto che viene ad esaurirsi il fine originario per cui era sorta la concessione e, conseguentemente, si ha l’estinzione della concessione
[3].
Peraltro, si ribadisce che, trattandosi di atto negoziale, la relativa interpretazione compete unicamente alle parti, con la conseguenza che il Comune potrebbe anche aderire ad un’interpretazione del contratto di concessione diversa da quella che appare corrispondente al tenore letterale dello stesso.
Al riguardo, risulta ad ogni modo utile suggerire al Comune di regolamentare espressamente l’istituto della concessione di loculi di proprietà comunale, per uso esclusivamente di salma determinata oppure per uso del concessionario e dei suoi familiari, anche per quanto concerne la fattispecie dell’estinzione.
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[1] Trattasi di loculo di proprietà del Comune.
[2] Della persona la cui salma è ivi tumulata.
[3] Sereno Scolaro, Le concessioni cimiteriali, Maggioli, 2008, pagg. 220-222. Lo stesso autore osserva inoltre che, nel caso in cui invece, a fronte di una concessione d’uso stipulata per una determinata salma, il loculo venisse utilizzato per altra persona, si avrebbe la fattispecie della decadenza della concessione per inadempimento contrattuale, consistente nel fatto del mancato uso del loculo per la destinazione impressa nell’atto di concessione (cfr. Sereno Scolaro, La polizia mortuaria, op. cit, p. 280). Si veda anche TAR Parma 12.06.2006, n. 290, che evidenzia come la concessione cimiteriale sia strettamente connessa e subordinata alla permanenza in loco della salma e si estingua quando questa sia estumulata. Cfr. nota n. 1956 del 13.02.2018 di questo Servizio
(04.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: rispetto delle distanze tra fabbricati siti nel medesimo lotto ed appartenenti ad unico proprietario – fabbricato parzialmente interrato a destinazione accessoria- fabbricati privi di finestre e/o vedute - parere (Legali Associati per Celva, nota 04.07.2019 - tratto da www.celva.it).

APPALTIAppalti pubblici.
Con il decreto "sblocca cantieri" era stata inserita l'inversione nell'apertura delle buste mediante la modifica dell'art. 36, comma 5. Gli uffici di questo Ministero, chiedono se tale possibilità sussista anche se non risulta confermata nella conversione in legge.

Il decreto "sblocca cantieri" (D.L. 18.04.2019, n. 32) aveva modificato l'art. 36, comma 5, del Codice degli appalti disponendo "Le stazioni appaltanti possono decidere che le offerte siano esaminate prima della verifica della documentazione relativa al possesso dei requisiti di carattere generale e di quelli di idoneità e di capacità degli offerenti. Tale facoltà può essere esercitata se specificamente prevista nel bando di gara o nell'avviso con cui si indice la procedura. Se si avvalgono di tale facoltà, le stazioni appaltanti verificano in maniera imparziale e trasparente che nei confronti del miglior offerente non ricorrano motivi di esclusione e che sussistano i requisiti e le capacità di cui all'articolo 83 stabiliti dalla stazione appaltante; tale controllo è esteso, a campione, anche sugli altri partecipanti, secondo le modalità indicate nei documenti di gara. Sulla base dell'esito di detta verifica, si procede eventualmente a ricalcolare la soglia di anomalia di cui all'articolo 97. Resta salva, dopo l'aggiudicazione, la verifica sul possesso dei requisiti richiesti ai fini della stipula del contratto".
Tale disciplina non è stata in effetti confermata e la L. 14.06.2019, n. 55 ha anzi abrogato il comma in questione.
Tuttavia l'art. 1, comma 3, della legge di conversione ha disposto "Fino al 31.12.2020 si applica anche ai settori ordinari la norma prevista dall'articolo 133, comma 8, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, per i settori speciali", introducendo pertanto una disciplina transitoria ma del tutto analoga a quella precedentemente contenuta nel citato comma.
Infatti l'art. 133, comma 8, dispone "Nelle procedure aperte, gli enti aggiudicatori possono decidere che le offerte saranno esaminate prima della verifica dell'idoneità degli offerenti. Tale facoltà può essere esercitata se specificamente prevista nel bando di gara o nell'avviso con cui si indice la gara. Se si avvalgono di tale possibilità, le amministrazioni aggiudicatrici garantiscono che la verifica dell'assenza di motivi di esclusione e del rispetto dei criteri di selezione sia effettuata in maniera imparziale e trasparente, in modo che nessun appalto sia aggiudicato a un offerente che avrebbe dovuto essere escluso a norma dell'articolo 136 o che non soddisfa i criteri di selezione stabiliti dall'amministrazione aggiudicatrice".
Ciò detto è confermata l'inversione procedimentale, applicabile ai settori ordinari, sopra e sotto la soglia comunitaria.
Si segnala che tale procedura, potenzialmente utile in caso di un elevato numero di partecipanti, comporta una serie di criticità pratiche dovute all'eventuale ricalcolo delle soglie di anomalia in caso di esito negativo delle verifiche successive della idoneità con potenziale aumento del contenzioso.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 133
D.L. 18.04.2019, n. 32
L. 14.06.2019, n. 55, art. 1
(03.07.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

APPALTI: Le modifiche dei criteri di aggiudicazione tra DL 32/2019 e provvedimento di conversione.
Domanda
Vorremmo, se possibile, avere un dettaglio delle modifiche apportate dal DL 32/2019 in tema di criteri di aggiudicazione e se i RUP sono obbligati ad utilizzare –nelle acquisizioni sotto la soglia comunitaria– il solo criterio del minor prezzo.
Risposta
Il D.L. 32/2019 (c.d. Sblocca Cantieri) ha modificato profondamente la dinamica di acquisizione delle commesse in ambito sotto soglia comunitario (come definita nell’articolo 35 del codice dei contratti) ma, ancor di più, lo stesso provvedimento di conversione (Legge 14/06/2019 n. 55, pubblicata in G.U. del 17/06/2019) soprattutto in materia di acquisizione di lavori pubblici.
Le modifiche, come emerge dal quesito, hanno riguardato anche i criteri di aggiudicazione ed anche in questo caso occorre segnalare un ritorno “al passato” con il provvedimento di conversione del DL citato.
Mentre il DL 32/2019 imponeva (ed impone fino all’entrata in vigore del provvedimento di conversione) – in ambito sotto la soglia comunitaria l’utilizzo del criterio del minor prezzo (salve le eccezioni dell’articolo 95 di cui si dirà più avanti) il provvedimento di conversione ristabilisce l’equiordinazione tra criteri anche nel sotto soglia comunitario. Pertanto, a differenza dell’attuale regime l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (al netto delle ipotesi in cui questo risulti obbligatorio ai sensi dell’articolo 95, comma 3, del codice dei contratti) non dovrà più essere motivato dal RUP.
Sotto si riportano le disposizioni a confronto per meglio intendere le modifiche apportate:

Art. 36, comma 9-bis in vigore dal 19 aprile (come modificato dal DL 32/2019)
   9-bis. Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla base del criterio del minor prezzo ovvero, previa motivazione, sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Emendamento apportato con il provvedimento di conversione (legge 14/06/2019 n. 55 pubblicata in G.U. del 17/06/2019, in vigore dal 18.06.2019)
   9-bis. Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla base del criterio del minor prezzo ovvero sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Anche l’articolo 95, per ciò che in questa sede interessa ha subito delle modifiche dalla recente decretazione.
Il comma 3 dell’articolo 95 dispone sui casi in cui il criterio del minor prezzo non può essere utilizzato (insiste un vero e proprio obbligo di utilizzo esclusivo del criterio in argomento).
In primo luogo i “contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi ad alta intensità di manodopera” sempre fatta salva la possibilità degli affidamenti diretti e quindi entro i 40mila euro (in cui è possibile utilizzare il criterio del minor prezzo).
L’obbligo del multicriterio insiste per aggiudicare i “i contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e intellettuale di importo pari o superiore a 40.000 euro” e – secondo la nuova ipotesi introdotta dal DL confermata la legge di conversione “i contratti di servizi e le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo”.
Le modifiche hanno riguardato anche il comma 4 dell’articolo 95. Con il DL l’unica ipotesi residua era quella dell’aggiudicazione di servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni risultano definite dal mercato (quindi a prescindere dalla soglia di affidamento). Per effetto del recente intervento in Adunanza Plenaria, l’utilizzo del minor prezzo sarà solo possibile nel caso in cui i servizi non siano ad alta intensità di manodopera (precisazione introdotta con la legge di conversione per effetto del pronunciamento itntervenuto in sede di A.P. n. 8/2019) (03.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La pubblicazione della relazione di fine mandato.
Domanda
Siamo un ente di circa 10mila abitanti e, in prossimità della scadenza del mandato, desideriamo conoscere anticipatamente cosa prevede la legge in merito alla redazione e pubblicazione della Relazione di fine mandato. Potreste cortesemente sintetizzarci le disposizioni in materia, comprese le eventuali sanzioni relative?
Risposta
La relazione di fine mandato è sottoposta a precisi vincoli procedurali, previsti dall’articolo 4 del decreto legislativo n. 149/2011. I soggetti interessati sono:
   a) il responsabile del servizio finanziario, che si occupa del la redazione o il segretario comunale in sua vece
   b) il sindaco, che la deve sottoscrivere;
   c) l’organo di revisione che la certifica.
Il termine per l’adempimento è fissato al sessantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato.
Entro e non oltre quindici giorni dalla sottoscrizione, la relazione deve essere certificata dall’organo di revisione dell’ente locale, che ha il compito di attestare la veridicità dei contenuti e la loro corrispondenza con i documenti contabili e di programmazione finanziaria dell’ente.
Entro i tre giorni successivi, il sindaco, deve trasmettere la relazione e la certificazione dell’organo di controllo, alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
Entro i sette giorni successivi alla certificazione, l’ultimo obbligo riguarda la pubblicazione sul sito istituzionale –queste le precise indicazioni della norma– con evidenza della data di trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33/2013, in materia di obblighi di trasparenza e pubblicazione.
Nel silenzio della norma, si ritiene opportuno che la relazione venga pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito web istituzionale > sotto sezione ‘Organizzazione’ > ‘Organi di indirizzo politico-amministrativo’.
È, inoltre, consigliabile prevedere la pubblicazione della relazione di fine mandato anche all’interno della home page del sito, con la finalità di garantire maggiormente l’esercizio effettivo del controllo democratico del cittadino, secondo le indicazioni dei giudici contabili.
La tempistica delle scadenze è rimarcato anche dalle conseguenze sanzionatorie di carattere pecuniario, che accompagnano il mancato rispetto dell’obbligo di redazione e di pubblicazione nel sito dell’ente della relazione di fine mandato.
Le sanzioni previste consistono nel dimezzamento, per i tre mesi successivi, delle indennità del sindaco. La decurtazione si estende, nel solo caso di mancata predisposizione della relazione, al responsabile finanziario o al segretario comunale, che non l’hanno predisposta.
La norma richiede, inoltre, che il sindaco dia notizia della mancata pubblicazione della relazione, motivandone le ragioni, nella pagina principale del sito istituzionale dell’ente.
Sull’argomento può essere opportuno, consultare la deliberazione n. 15/2019/VSG del 23.01.2019 (Corte dei Conti – sezione regionale di controllo per la Campania), con la quale sono stati trasmessi alla Procura contabile competente, gli atti inerenti al mancato invio della relazione di fine mandato, da parte di un ente coinvolto nel rinnovo del consiglio comunale.
In particolare, si evidenzia che la Corte dei Conti, nel disporre l’irrogazione delle conseguenti sanzioni, precisa che esse sono, in ogni caso, di esclusiva spettanza dell’ente locale, dovendo essere attuate dagli uffici appositamente preposti alla liquidazione delle competenze (02.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

TRIBUTI: La salvaguardia degli equilibri di bilancio e la modifica delle tariffe ed aliquote dei tributi comunali.
Domanda
In vista dell’ormai prossima salvaguardia degli equilibri di bilancio (art. 193 del TUEL) entro il mese di luglio, è possibile deliberare una riduzione delle aliquote dei tributi comunali?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento al comma 3 dell’art. 193 del TUEL. Esso prevede che ai fini della salvaguardia degli equilibri di bilancio, fermo restando quanto stabilito dal successivo art. 194, comma 2, in materia di rateizzazione dei debiti fuori bilancio riconosciuti come legittimi, per l’anno in corso e per i due successivi possono essere utilizzate le seguenti risorse:
   a) le possibili economie di spesa;
   b) tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti dall’assunzione di prestiti e di quelle con specifico vincolo di destinazione;
   c) i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento a squilibri di parte capitale.
Solo in ultima battuta, qualora non vi si possa provvedere con le modalità sopra elencate è possibile impiegare la quota libera del risultato di amministrazione.
Per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga all’art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296, l’ente può infine modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la data ultima del 31 luglio di ogni anno, contestualmente all’adozione del provvedimento consiliare di salvaguardia degli equilibri di bilancio. Il suddetto comma 169 della L. 296/2006 prevede che le tariffe e le aliquote relative ai tributi siano deliberate entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione.
Se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio, purché entro il suddetto termine, esse hanno comunque effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento. In caso di mancata approvazione entro detto termine, si intendono prorogate di anno in anno le tariffe e le aliquote già vigenti. La leva fiscale è pertanto uno degli strumenti che il Legislatore ha messo a disposizione degli enti locali per fronteggiare situazioni di squilibrio del proprio bilancio che dovessero emergere in sede di salvaguardia.
In merito alla possibilità di ridurre le tariffe e le aliquote relative ai propri tributi la risposta al quesito del lettore è negativa. In tale senso si è infatti espresso il Mef con risoluzione n. 1/DF del 29/05/2017, nella quale si afferma che: “(…) la variazione delle aliquote e delle tariffe contemplata da tale ultima disposizione –in quanto costituisce una delle misure preordinate al ripristino del pareggio di bilancio, da esperire laddove “i dati della gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo”– deve necessariamente consistere in un aumento delle aliquote o tariffe medesime, non potendosi invocare l’esigenza di salvaguardare gli equilibri di bilancio al fine di procedere ad una modifica in diminuzione oltre il termine del bilancio di previsione. (…)”.
Lo stesso orientamento era già stato formulato dalla Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Calabria, nella deliberazione n. 5 del 30.01.2014, nella quale si precisava come, in virtù dell’art. 193, comma 3, del TUEL, “(…) nel solo caso in cui risulti necessario per il ripristino degli equilibri di bilancio, l’ente locale può modificare (evidentemente in aumento) le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza” entro il termine previsto dalla norma stessa.
Quindi, concludendo: un eventuale manovra sulle tariffe e aliquote tributarie può essere, in sede di salvaguardia, solo in aumento. Fino allo scorso anno ciò poteva essere fatto solo per i tributi esclusi dal blocco disposto dall’art. 1, comma 26 della L. 208/2015 (ovvero: TARI e contributo di sbarco).
In tal senso si era espressa la Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con parere n. 133 del 27.04.2016. Da quest’anno l’aumento può invece avvenire su tutti i tributi locali, essendo venuto meno il suddetto blocco a partire dal 01/01/2019 (01.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAAnche per le richieste di agibilità pendenti deve essere presentata la S.C.I.A. di cui all'art. 24 del T.U. edilizia.
DOMANDA:
Un Comune riferisce che, in data 25/06/2008, una società presentava richiesta di agibilità per un immobile ai sensi dell'art. 25 del DPR 380/2001 in allora vigente.
Tuttavia, stante l'incompletezza della pratica, l’ufficio richiedeva in data 14/07/2008 la documentazione integrativa mancante, rappresentando –in coerenza con quanto previsto dal c. 5 dell'art. 25 sopra citato– che venivano così interrotti i termini per il rilascio dell’atto amministrativo e che gli stessi sarebbero decorsi nuovamente dalla data di integrazione.
Dopo circa un decennio di inattività la ditta ha prodotto la documentazione mancante (tutta risalente agli anni 2008-2009) chiedendo il rilascio del certificato di agibilità come previsto ex art. 25 DPR 380/2001.
Nel frattempo, però, il D.Lgs. n. 222/2016 ha abrogato l’articolo 25 e sostituito l’art. 24 prevedendo l’attestazione dell’agibilità mediante segnalazione certificata.
Così stando le cose il Comune chiede se, a completamento della pratica, sia necessaria la presentazione di apposita segnalazione certificata ai sensi del vigente art. 24 con decorrenza dalla presentazione della Scia stante l’abrogazione del procedimento previsto dall’art. 25, ovvero se sia ancora possibile il rilascio ad oggi del richiesto certificato ( o ipotizzare la formazione di un silenzio assenso)
RISPOSTA:
I problemi di diritto prospettati possono essere risolti facendo ricorso ad una corretta applicazione, in relazione al procedimento amministrativo in generale, del principio tempus regit actum.
Il richiamato principio comporta infatti che la Pubblica amministrazione deve considerare anche le modifiche normative intervenute durante il procedimento, non potendo considerare l'assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell'atto che vi ha dato avvio, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento avviato ad istanza di parte deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale, e non al tempo della presentazione della domanda da parte del privato, dovendo ogni atto del procedimento amministrativo essere regolato dalla legge del tempo in cui è emanato in dipendenza della circostanza che lo jus superveniens reca sempre una diversa valutazione (Consiglio di Stato sez. IV, 13/04/2016, n. 1450).
Così risolta alla radice la questione si tenga comunque presente, per mera completezza, come nel caso di specie la normativa sopravvenuta preveda di ottenere l'agibilità solo ed esclusivamente mediante attestazione-SCIA: è conseguentemente venuta meno, con l'abrogazione dell'art. 25, ogni previsione che legittimava l'adozione di uno specifico provvedimento di certificazione di agibilità.
Tutto ciò premesso e considerato nel caso di specie dovrà essere richiesta la presentazione di apposita SCIA per come attualmente previsto dall'art. 24 del d.P.R. 380/2001 (01.07.2019 - link a www.conord.eu).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il presidente non fa cambi.
Si può prevedere una norma regolamentare che conferisca al presidente del consiglio comunale il potere di sostituire i consiglieri nell'ambito delle commissioni consiliari?

La proposta di modifica di un comune del regolamento sulle commissioni consiliari prevede che ogni consigliere dovrebbe essere rappresentato in almeno due commissioni. Ove tale obiettivo non si realizzi, si prevede che sia il presidente del consiglio comunale, sentita la conferenza dei capigruppo e il gruppo interessato, ad effettuare le sostituzioni rispettando il criterio della rappresentanza proporzionale tra minoranza e maggioranza, privilegiando le sostituzioni nell'ambito del medesimo gruppo o, in caso di impossibilità, operando le relative sostituzioni nell'ambito dello stesso schieramento.
Al riguardo, si osserva che, come noto, le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto. Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Con riferimento allo specifico caso, non si rinvengono criticità circa la previsione concernente la partecipazione di ogni consigliere in almeno due commissioni, mentre desta perplessità la parte della proposta di modifica regolamentare che conferisce al presidente il potere di nominare i commissari effettuando le relative sostituzioni. Tale modifica, infatti, non sembra coerente con il principio elettivo che regola le commissioni consiliari.
In virtù di tale modifica la stessa commissione potrebbe essere partecipata da commissari eletti dal consiglio comunale e da commissari designati quali sostituti in virtù di un atto adottato da un organo monocratico (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un amministratore comunale presidente di un’associazione che riceve dal Comune un contributo sulla base di una convenzione stipulata per la gestione di servizi scolastici.
Sussiste la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, punto 2), prima parte, del D. Lgs. 267/2000 per un consigliere comunale che riveste la carica di presidente di una associazione di solidarietà familiare che organizza servizi didattico/educativi nell’ambito di un progetto al quale compartecipa finanziariamente il Comune stesso.
Il Comune chiede di valutare se sussista la causa di incompatibilità disciplinata dall’art. 63, comma 1, punto 2), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 per un consigliere comunale che riveste la carica di presidente di una associazione di solidarietà familiare costituita per favorire l’organizzazione di servizi a sostegno dei compiti familiari educativi e di cura.
Tra il Comune e l’associazione esiste una convenzione che disciplina lo svolgimento di attività integrative di sostegno scolastico/educativo da parte di quest’ultima e l’uso dei locali di proprietà comunale; il Comune compartecipa finanziariamente al progetto didattico-educativo presentato dall’associazione, a titolo di rimborso spese e tenuto conto delle disponibilità di bilancio dell’Ente, previa rendicontazione delle spese sostenute. Il progetto viene gestito attraverso un accordo di partenariato fra il Comune e l’associazione ed è inserito nell’ambito degli interventi previsti dalla deliberazione della Giunta regionale n. 2386 del 14.12.2018, la cui attuazione è stata delegata all’Azienda per l’Assistenza Sanitaria del territorio.
Per l’esame della fattispecie segnalata vengono in rilievo sia l’ipotesi di incompatibilità statuita dall’art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, sia quella di cui al successivo n. 2), prima parte, del d.lgs. 267/2000.
La prima norma citata prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale l’amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il dieci per cento del totale delle entrate dell’ente.
Per quanto concerne il requisito soggettivo, affinché venga in rilievo la causa di incompatibilità, il consigliere comunale deve rivestire all’interno dell’associazione il ruolo di amministratore, ovvero di persona che possiede poteri di gestione e/o decisione all’interno dell’ente; nel caso di specie, la qualità di amministratore del presidente è indubbia, poiché lo stesso Statuto dell’associazione prevede all’art. 21 che “Il Presidente agisce in nome e per conto dell’Associazione e ha la firma sociale”. Per quanto concerne poi il termine “ente”, esso va inteso in senso lato e comprende anche gli organismi, come l’associazione in argomento, privi di personalità giuridica.
[1]
Per quanto concerne il concetto di “sovvenzione”, questa deve consistere in un’erogazione continuativa a titolo gratuito, volta a consentire all’ente sovvenzionato di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituito. La legge richiede che la sovvenzione debba possedere complessivamente tre caratteri: la continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere una tantum o occasionale, la notevole consistenza, ovvero il suo apporto deve essere superiore al dieci per cento delle entrate annuali dell’ente e la facoltatività (in tutto o in parte), nel senso che non deve derivare da un obbligo di legge o convenzionale.
[2] Infine, la dottrina ha sottolineato come il concetto di sovvenzione si diversifica dal concetto di “corrispettivo”, per cui non si ha sovvenzione nel caso in cui la somma corrisposta avvenga in relazione a prestazioni svolte in favore dell’ente. [3]
Nel caso di specie, tenuto conto del fatto che le sovvenzioni che l’associazione riceve dal Comune sono dovute in forza della convenzione e dell’accordo di partenariato sottoscritti fra i due soggetti nei termini indicati in premessa e che le stesse sono frutto di un corrispettivo che il Comune riconosce all’associazione per lo svolgimento di una serie di attività di carattere didattico, educativo e di aggregazione sociale, si ritiene che non sussistano gli elementi richiesti per il concretizzarsi della fattispecie di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, n. 1), seconda parte, del TUEL.
Come anticipato, potrebbe venire in rilievo anche la causa di incompatibilità disciplinata dal successivo n. 2), prima parte, del medesimo comma 1 dell’art. 63 del TUEL.
Ai sensi della citata norma, non può rivestire la carica di consigliere comunale colui che, come amministratore, ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune. Sulla presenza del requisito soggettivo nella fattispecie in esame si è già detto in relazione alla precedente causa esaminata; per completezza, si segnala ora che l’assenza di finalità di lucro nell’associazione non è sufficiente ad escludere la sussistenza dell’ipotesi di incompatibilità, atteso che il comma 2 dell’art. 63 del TUEL ha escluso l’applicazione della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in cooperative o consorzi di cooperative iscritte regolarmente nei pubblici registri.
[4]
Nel merito, si rappresenta che la ratio della causa di incompatibilità in esame (annoverabile tra le cosiddette “incompatibilità di interessi”) consiste nell'impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli del comune o i quali comunque si trovino in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità.
[5]
La formulazione assai ampia della disposizione in esame ("servizi nell'interesse del comune") è giustificata proprio dalla menzionata ratio: il legislatore, infatti, intende comprendere in essa, nel modo più ampio possibile, tutte le ipotesi, in cui la "partecipazione" in servizi imputabili al comune e, per ciò stesso, di interesse generale, possa dar luogo, nell'esercizio della carica del "partecipante", eletto amministratore locale, ad un conflitto tra interesse particolare di questo soggetto e quello generale dell'ente locale.
[6]
Ne discende che la nozione di partecipazione deve assumere un significato il più possibile esteso e flessibile, al fine di potervi ricomprendere forme di partecipazione eterogenee e che è irrilevante la natura, pubblicistica o privatistica, dello strumento prescelto dall’ente locale per la realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
[7]
Dalla lettura della convenzione e dell’accordo di partenariato, si evince che le attività poste in essere dall’associazione si concretizzano nell’organizzazione di diversi servizi nell’ambito didattico ed educativo, quali quello di doposcuola per gli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado, la creazione e gestione della “sezione primavera” della scuola dell’infanzia, la predisposizione del servizio mensa per tutti gli alunni, dei servizi di accompagnamento degli alunni sullo scuolabus e dell’accoglienza/postaccoglienza scolastica, nonché l’organizzazione e la gestione di centri estivi in favore di bambini e ragazzi.
Occorre pertanto valutare in concreto se l’associazione, attraverso le attività educative e ricreative sopra elencate, svolga un servizio nell’interesse dell’Amministrazione comunale, atteso che dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che qualsiasi attività che venga svolta a favore dell’ente nell’ambito delle competenze istituzionali attribuite a quest’ultimo e mediante l’esercizio dei poteri normativi ed amministrativi conferitigli, appare idonea a concretizzare l’incompatibilità.
[8]
A parere dello scrivente, non vi è dubbio che i servizi educativi e ricreativi gestiti dall’associazione rientrino tra i fini istituzionali del Comune e siano svolti nell’interesse dello stesso; un tanto è anche sancito nella convenzione quale presupposto per la partecipazione finanziaria dell’Ente al progetto dell’associazione, laddove si riconosce l’importanza e l’utilità sociale delle attività erogate in favore della comunità ed in particolar modo dei minori (art. 14 della convenzione).
Per i motivi sopraesposti, si ritiene che la posizione dell’amministratore possa essere riconducibile alla causa di incompatibilità di cui alla prima parte del punto 2) del comma 1 dell’art. 63 del D.Lgs. 267/2000.
A tale proposito, si ricorda che la valutazione della concreta sussistenza dell'incompatibilità è rimessa al consiglio comunale, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, mediante l’attivazione della procedura prevista dall'art. 69 del TUEL, che garantisce il contraddittorio tra organo ed amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa di incompatibilità contestata.
[9]
---------------
[1] In tal senso si sono espresse sia la dottrina (cfr., tra gli altri, Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale, Giuffrè, 2000) che la giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 2068 del 22.06.1972).
[2] Si sottolinea che il carattere della facoltatività viene interpretato dal Ministero dell’interno in modo più restrittivo, per cui, a giudizio del dicastero, la sovvenzione è facoltativa nel senso e nei limiti in cui non trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Per una trattazione completa ed esaustiva del concetto di sovvenzione ed, in generale, della causa di incompatibilità in esame, si vedano i pareri dello scrivente Servizio prot. n. 11420 del 27.07.2015 e n. 33168 del 31.12.2014.
[3] Cfr. Pinto – D’Alfonso, Incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità e status degli amministratori locali, Maggioli, 2003, pagg. 195 e seguenti.
[4] Cfr. parere Ministero dell’interno 11.01.2011, consultabile cliccando qui.
[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 44 del 1997, n. 450 del 2000 e n. 220 del 2003.
[6] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 550 del 16.01.2004.
[7] Cfr. pareri Ministero dell’interno 11.11.2014 e 12.03.2010.
[8] Cfr. Pinto – D’Alfonso, opera citata nella nota 3 e Cassazione civile, n. 550/2004.
[9] Cfr. Corte di Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 12529 del 12.11.1999 e n. 12809 del 10.07.2004
(27.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Acquisto quote società che svolge attività analoghe – dismissione quote società partecipata ex art. 24, D.Lgs. n. 175/2016.
   (1) L’acquisto di partecipazioni societarie da parte delle pp.aa. sottostà agli stringenti oneri motivazionali stabiliti dall’art. 5, D.Lgs. n. 175/2016, rimessi alla discrezionalità (e responsabilità) dell’ente, chiamato, tra l’altro, a dar conto della convenienza economica dell’operazione finanziaria e della sua compatibilità con i principi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa. In particolare, ove si tratti di quote di società che svolgono attività analoghe a quelle svolte da altre società partecipate, qualora il processo di acquisto dovesse riuscire a realizzarsi, nel rispetto della rigorosa procedura dell’art. 5 richiamato, al momento della revisione periodica annuale delle partecipazioni, ai sensi dell’art. 20, D.Lgs. n. 175/2016, dovrebbe ancora essere motivata la partecipazione al capitale di società che svolgono attività analoghe.
   (2) Per quanto concerne la dismissione di partecipazioni in sede di revisione straordinaria, ex art. 24, D.Lgs. n. 175/2016, finalizzata ad eliminare quelle non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, la giurisprudenza ha affermato che “Una volta che l’ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza nel capitale di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto di conservare partecipazioni azionarie”.

Il Comune riferisce di aver deliberato, nel settembre 2017, a seguito della revisione straordinaria delle partecipazioni, ai sensi dell’art. 24, D.Lgs. n. 175/2016, “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica” (di seguito Testo unico)
[1], la dismissione delle quote di una società a partecipazione pubblica (di seguito, Società X) che opera nel campo dei servizi di igiene ambientale e che in particolare si occupa della gestione dei rifiuti urbani e assimilati, motivando che detta società “non gestisce alcun servizio di interesse generale a beneficio della comunità” di riferimento.
In particolare l’Ente –considerato l’art. 4, c. 1, Testo unico, che in generale vieta le “partecipazioni non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”, avuto riguardo al successivo comma 2 del medesimo art. 4, che consente le partecipazioni in società esclusivamente nelle ipotesi ivi indicate, tra cui, la “produzione di un servizio di interesse generale” (lett. a), e visto l’art. 24 del Testo unico che impone la revisione straordinaria, tra l’altro, nelle ipotesi di cui all’art. 4– ha verificato per l’alienazione delle quote della Società X la sussistenza della motivazione che detta Società “non gestisce alcun servizio di interesse generale a beneficio della comunità” di riferimento.
Il Comune ha dunque esperito la gara per la vendita delle quote di cui si tratta e, poiché questa è andata deserta, chiede se sia possibile acquistare quote in un’altra società di proprietà pubblica (di seguito, Società Y), pur non avendo trovato alcun ente disposto a subentrare nelle quote della Società X, e spiega che “pur avendo le due società finalità analoghe
[2]” la nuova partecipata “offre una peculiare gestione dei servizi più confacente alle esigenze dell’Ente”.
Un tanto premesso, si esprimono sulla questione posta delle considerazioni in generale, in tema di acquisto delle partecipazioni societarie e di alienazione delle partecipazioni detenute, a seguito di revisione straordinaria ex art. 24 del Testo unico, che l’Ente potrà valutare per i provvedimenti più opportuni da prendere nel caso concreto. E ciò lungi da qualsiasi valutazione circa le motivazioni verificate dall’Ente per l’alienazione delle quote, ai sensi dell’art. 24 in argomento.
Ed invero, come ha osservato la Corte dei conti, le norme in tema di razionalizzazione delle partecipazioni societarie detenute dalle pp.aa. disciplinano limiti generali di finanza pubblica alla detenzione di quote di società partecipate, e la decisione circa l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale, rientrando nella discrezionalità e responsabilità dell’amministrazione
[3].
Per quanto concerne l’acquisto di partecipazioni societarie, è necessario muovere dall’art. 4 del Testo unico che affronta il tema relativo alle finalità perseguibili attraverso le società a partecipazione pubblica e stabilisce come principio generale che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società” (comma 1).
Tale principio generale viene meglio declinato al comma 2, ove si prevede che è ammessa la partecipazione pubblica all’interno di società esclusivamente per lo svolgimento delle attività specificamente indicate, tra cui “la produzione di un servizio di interesse generale […]” (c. 2, lett. a).
Un tanto precisato, il Testo unico impone stringenti oneri motivazionali a supporto della decisione dell’ente pubblico di procedere all’acquisizione di una partecipazione societaria.
In particolare, in forza dell’art. 5 (Oneri di motivazione analitica) del Testo unico –con l’eccezione dei casi in cui la costituzione di una società o l’acquisto di una partecipazione, anche attraverso aumento di capitale, avvenga in conformità a espresse previsioni legislative– l’atto deliberativo di acquisto deve essere analiticamente motivato sia rispetto alla necessità della società per il perseguimento delle finalità istituzionali di cui al succitato art. 4 del decreto, sia rispetto alle ragioni e finalità che giustificano la scelta.
La motivazione deve essere fornita anche sul piano della convenienza economica e in ordine alla possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio tramite affidamento a operatori privati. La giustificazione, inoltre, deve dare conto della compatibilità della scelta con i principi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa.
Inoltre, attesa la necessità di tutelare il principio comunitario di libera concorrenza, l’atto deliberativo dovrà dare conto anche della compatibilità dell’intervento finanziario rispetto alla disciplina europea in materia di aiuti di Stato alle imprese
[4].
L’atto deliberativo di acquisizione della partecipazione deve essere inviato, prima
[5] dell’acquisizione, alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti a “fini conoscitivi” e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può esercitare i propri poteri di legge.
Avuto riguardo al caso concreto, l’Ente dovrà specificare nell’atto di acquisto la situazione di criticità derivante dal fatto di svolgere la Società Y “funzioni analoghe” a quelle della Società X e motivare la sua scelta con riferimento a tutte le peculiarità che connotano il caso concreto e avuto riguardo alla convenienza economica e a tutti i rigorosi parametri motivazionali fissati dall’art. 5 del Testo unico richiamato.
In particolare sotto il profilo delle “funzioni analoghe”, l’art. 20, comma 2, del Testo unico, rubricato “Razionalizzazione periodica delle partecipazioni pubbliche”, prevede che le pp.aa., in sede di revisione periodica annuale delle partecipazioni, predispongano – ove ricorrano determinati presupposti, tra cui “partecipazioni in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali” (lett. c) – “un piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione”.
E dunque, nell’ipotesi in cui l’Ente dovesse eventualmente riuscire a realizzare il processo di acquisizione delle quote della Società Y, nel rispetto dell’art. 5 richiamato, in sede di revisione periodica delle partecipazioni, ai sensi dell’art. 20, D.Lgs. n. 175/2016, dovrà motivare il perdurare di quelle stesse condizioni sussistenti al momento dell’acquisto delle quote nella Società Y, qualora a quel tempo il Comune fosse ancora in possesso delle partecipazioni della Società X.
Ed invero –afferma la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti– il processo di razionalizzazione –nella sua formulazione straordinaria e periodica– rappresenta il punto di sintesi di una valutazione complessiva, discrezionale dell’ente territoriale, della convenienza a mantenere in essere partecipazioni societarie rispetto ad altre soluzioni. Tutto ciò nell’ottica di una maggiore responsabilizzazione degli enti soci i quali sono tenuti a procedimentalizzare ogni decisione in materia, non soltanto in fase di acquisizione delle partecipazioni ma anche in sede di revisione, per verificare la permanenza delle ragioni del loro mantenimento
[6].
Nel senso della necessità della razionalizzazione, da valutare da parte dell’ente, nell’esercizio della discrezionalità amministrativa, in base alla concreta convenienza economica, si è espressa ancora la Corte dei conti Lombardia, con riferimento ad un caso di partecipazioni detenute da un ente locale in due società affidatarie di servizi differenti, entrambi previsti nell’oggetto sociale delle società stesse
[7].
Ebbene, la Corte, nell’osservare che in quel caso un potenziale elemento di razionalizzazione appare la gestione dei due distinti servizi pubblici in un’unica società, riconduce la questione alla necessità che l’ente, esercitando la discrezionalità amministrativa, motivi espressamente sulla scelta effettuata che può consistere sia in una misura di riassetto (alienazione/razionalizzazione/fusione) sia nel mantenimento della partecipazione senza interventi
[8].
E d’altra parte –non manca di rimarcare la Sezione– la scelta dell’ente sarà vagliata dalla Corte in sede di controllo successivo: il Testo unico attribuisce, infatti, alla Corte dei conti specifica potestà di controllo successivo sia sul processo di razionalizzazione periodica (art. 20, commi 3 e 4), che su quello di revisione straordinaria (art. 24, comma 3). Ed è in quel momento che verrà effettuata ogni valutazione circa l’aderenza del piano di razionalizzazione alla normativa in materia
[9].
L’Ente dovrà dunque motivare in sede di razionalizzazione periodica la situazione di criticità di cui all’art. 20, c. 2, lett. c), fintantoché permarrà la partecipazione al capitale di società che svolgono attività analoghe.
A questo proposito, si esprimono ulteriori considerazioni sull’interruzione del rapporto societario tra l’ente e la Società X, nelle ipotesi di cui all’art. 24, Testo unico, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale in materia.
Come visto sopra, l’art. 24 ha imposto una revisione straordinaria di tutte le quote societarie detenute dalle pp.aa. finalizzata alla loro razionalizzazione nei casi previsti dall’art. 20, che, tra l’altro, include le ipotesi di cui all’art. 4, secondo cui sono vietate le partecipazioni non strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’Ente (comma 1) e sono ammesse, tra le altre, quelle per la “produzione di un servizio di interesse generale” (comma 2, lett. a). Alla luce di tale impianto normativo, l’Ente ha motivato la dismissione, ai sensi dell’art. 24 del Testo unico, adducendo che la Società X “non gestisce alcun servizio di interesse generale a beneficio della comunità di riferimento”.
La Società interessata ha rilevato, a sua volta, che la dismissione non è obbligatoria ex lege, per il fatto di svolgere –la Società medesima– attività di produzione di un servizio di interesse generale ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. a), sebbene non affidatole dal Comune, e di non ricadere in alcuna delle ipotesi di cui all’art. 20, c. 2, D.Lgs. n. 175/2016. Un tanto ferma restando la libera determinazione del Comune in ordine alla cessione delle quote, il quale dovrà attenersi alle disposizioni dell’Assemblea dei soci.
Lungi dall’entrare nei rapporti tra il Comune e la Società X, rispetto ai quali competenti ad esprimersi sono solo le parti interessate e, in ultima analisi, il Giudice competente eventualmente adito, si richiama l’orientamento espresso dalla giurisprudenza con riferimento alla normativa previgente in tema di società a partecipazione pubblica, ma che appare attuale alla luce del vigente Testo unico, che ha proseguito nell’obiettivo della razionalizzazione delle partecipazioni societarie, eliminando quelle non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali.
La Corte dei conti Friuli Venezia Giulia, sez. reg. contr., deliberazione 23.12.2015, n. 158, ha affermato che “una volta che l’ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strettamente indispensabile la presenza nel capitale di società estranee alle proprie finalità istituzionali, nell’ambito delle previsioni dell’art. 3, commi 27-29, della legge 244/2007, come integrato dall’art. 1 comma 569, della legge 147/2013, qualora per qualsiasi causa non sia riuscito a dismettere la propria partecipazione, potrà farsi liquidare dalla società partecipata il valore del suo investimento in base ai criteri fissati dall’art. 2347-ter, secondo comma, del codice civile. In base al rinvio a tale norma codicistica, quindi, il socio ha diritto alla liquidazione delle azioni per le quali intende procedere alla dismissione” secondo i parametri ivi indicati.
Ed ancora la Corte dei conti Friuli Venezia Giulia n. 158/2015 ha affermato che sia che la decisione di dismissione delle quote sia stata presa “sulla base di una decisione privatistica, oppure in conseguenza degli obblighi di legge … gli effetti saranno sostanzialmente convergenti, conducendo in ogni caso … in assenza di compratori interessati a subentrare, all’applicazione dei criteri di liquidazione della quota, sulla base dell’art. 2437-ter cod. civ.”.
E questo orientamento si pone in linea con quello già espresso dal Giudice amministrativo, secondo cui “Una volta che l’ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza nel capitale di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto di conservare partecipazioni azionarie estranee alle finalità istituzionali. Di qui l’applicabilità dell’art. 3 comma 29, L. n. 244/2007 […]
[10].
E queste tesi sembrerebbero ragionevolmente potersi sostenere anche oggi, alla luce della disciplina del D.Lgs. n. 175/2016, che ha abrogato le disposizioni sopra richiamate della L. n. 244/2007 e ha introdotto, per l’ipotesi di dismissione delle quote in sede di revisione straordinaria, ex art. 24 del Testo unico, il meccanismo della liquidazione delle quote non alienate, secondo l’art. 2437-quater codice civile espressamente richiamato
[11].
E l’art. 2437-quater cod. civ. –osserva la Corte dei conti– configura il normale procedimento del recesso, con il suo ordine graduale, che prevede l’offerta della partecipazione in prelazione agli altri soci; in subordine a terzi e, solo in assenza di interessati, alla società stessa, attingendo da riserve disponibili e capitale sociale, sicché sussiste la partecipazione fino al completamento del processo di liquidazione
[12].
In particolare, la Corte dei conti sottolinea la previsione del quarto comma dell’art. 2437-quater del codice civile, secondo cui in caso di mancato collocamento (presso altri soci o terzi) “le azioni del recedente vengono rimborsate mediante acquisto da parte della società utilizzando riserve disponibili anche in deroga a quanto previsto dal terzo comma dell’art. 2357
[13].
Si osserva infine che il Testo unico ha abrogato (e non riproposto) l’art. 1, c. 569-bis, L. n. 244/2007, che attribuiva alla competenza dell’assemblea dei soci l’approvazione del provvedimento di cessazione della partecipazione societaria. Peraltro, anche nella vigenza di detta norma, l’assemblea –come chiarito dalla giurisprudenza– doveva comunque tener conto delle conclusioni riportate nel piano di razionalizzazione
[14].
---------------
[1] L’art. 24 del Testo unico (Revisione straordinaria delle partecipazioni) ha posto a carico delle amministrazioni pubbliche, l’obbligo di effettuare entro il 30.09.2017, una ricognizione di tutte le partecipazioni possedute, direttamente e indirettamente alla data di entrata in vigore del decreto (23.09.2016), al ricorrere di determinate condizioni, finalizzata ad una loro razionalizzazione nei casi previsti dall’art. 20.
Nello specifico, la razionalizzazione riguarda: società che non rientrano in alcune delle categorie di cui all’art. 4; società che non soddisfano i requisiti di cui all’art. 5 del Testo unico in relazione alla procedura di costituzione delle società a partecipazione pubblica o all’acquisto di partecipazioni in società già costituite; società che versano in una delle situazioni di criticità di cui all’art. 20, c. 2: società con limiti di fatturato o scarso numero di dipendenti; società che svolgono attività analoghe a quella di altre società; società che hanno riportato perdite reiterate nel quinquennio, che necessitano di azioni di contenimento costi o di iniziative di aggregazione.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 24 del Testo unico, la revisione straordinaria costituisce, per gli enti territoriali, aggiornamento del piano operativo di razionalizzazione già adottato a norma della legge di stabilità 2015 (art. 1, c. 612, L. n. 190/2014).
[2] In particolare, gli statuti di entrambe le società contemplano il servizio che l’Ente vorrebbe affidare alla Società Y.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 22.11.2017, n. 335.
[4] Roberto De Luca, Il nuovo testo unico sulle società partecipate: obblighi di modifiche statutarie e nuovi aspetti operativi, Roma, 15.01.2017, p. 14.
[5] Cfr. Ufficio studi CODAU, Il nuovo testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (D.Lgs. 19.08.2016, n. 175); Roberto De Luca, documento cit., p. 14.
[6] Cfr. Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, deliberazione 21.07.2017, n. 19, recante: “Linee di indirizzo per la revisione straordinaria delle partecipazioni di cui all’art. 24, D.Lgs. n. 175/2016”.
[7] Fattispecie diversa da quella in esame –ove l’Ente vorrebbe affidare alla Società Y un servizio che anche la Società X contempla nel proprio statuto, ma che non le è stato affidato dall’Ente– ma a questa accomunata sotto il profilo dell’inclusione del servizio da affidare negli oggetti sociali di entrambe le società.
[8] Le conclusioni della Corte dei conti lombarda appaiono in linea con le sue premesse sulla competenza dell’ente, nella sua discrezionalità e responsabilità, circa l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica (v. sopra, nota 2).
[9] Cfr. Corte dei conti Lombardia n. 335/2017 cit.
[10] Tar Brescia, sez. I, 13.10.2015, n. 1305.
[11] Detto meccanismo si applica anche alla razionalizzazione periodica delle quote (art. 20, c. 7, Testo unico).
[12] Corte dei conti, sez. reg. contr. per la Regione Lombardia, deliberazione 09.03.2018, n. 79. La Corte dei conti lombarda osserva come l’unica deroga alla disciplina codicistica del recesso attenga ai casi del sesto e settimo comma dell’art. 2347-quater: in altre parole, in assenza di utili e riserve disponibili (o nel caso di società unipersonale) non sarebbe consentita la riduzione del capitale sociale per evitare lo scioglimento.
[13] Corte dei conti Lombardia n. 79/2018 cit.
[14] In questo senso esplicitava, infatti, la Corte dei conti n. 158/2015, cit., che “La decisione di dismissione di partecipazioni adottata dall’ente pubblico partecipante al capitale di una certa società, pertanto, dovrà trovare un recepimento dagli altri soci, chiamati ad adottare misure volte alla cessazione della qualità di socio.
Qualora, invece, l’assemblea adottasse delle decisioni non rispondenti al contenuto del piano di razionalizzazione, si avrebbe l’impossibilità per l’organo amministrativo di darvi attuazione, per effetto dell’espressa previsione contenuta nell’ultima parte del comma 569-bis, recentemente introdotto dal DL 78/2015 (“qualunque delibera degli organi amministrativi e di controllo interni alle società oggetto di partecipazione che si ponga in contrasto con le determinazioni assunte e contenute nel piano operativo di razionalizzazione è nulla ed inefficacie”)”.
L’orientamento della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia viene richiamato dalla Corte dei conti, Sez. reg. contr. per la Puglia, decisione 12.07.2016, n. 134, di parificazione del rendiconto generale per l’esercizio finanziario 2015. La Corte pugliese afferma che il ruolo dell’assemblea previsto dall’art. 1, comma 569-bis, L. n. 147/2013, si incentra esclusivamente sulle modalità attuative della dismissione della partecipazione confermata dall’ente in sede di piano di razionalizzazione e sulla conseguente liquidazione del valore della quota e non può certo concretarsi in una decisione contraria alla volontà dell’ente pubblico partecipante di recedere dalla compagine societaria poiché, in tal caso, le valutazioni dell’ente territoriale circa la dismissione di partecipazioni non indispensabili alle proprie finalità istituzionali (art. 1, comma 611, lett. a), L. n. 190/2014) risulterebbero condizionate alla volontà di un soggetto terzo (l’assemblea) in palese contraddizione con la stessa ratio normativa in materia di organismi partecipati volta ad assicurare il contenimento della spesa, il buon andamento dell’azione amministrativa e la tutela della concorrenza
(25.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Convocazioni, atti dovuti. Insindacabili dal presidente del consiglio. Spetta all’assemblea decidere sull’ammissibilità degli argomenti.
Può il presidente del consiglio negare la convocazione dell'assemblea richiesta da un quinto dei consiglieri ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 perché l'argomento oggetto della richiesta era stato già esaminato in altra seduta consiliare?
L'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede l'obbligo di convocazione del consiglio, con inserimento nell'ordine del giorno delle questioni proposte, quando venga richiesto, tra gli altri, da un quinto dei consiglieri.
La giurisprudenza prevalente in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (si veda, in particolare, Tar Piemonte, sez. Il, 24.04.1996, n. 268).
Nel caso specifico, ai sensi dell'art. 39, comma 1, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che l'assemblea possa pronunciarsi sull'eventuale richiesta di ritiro di un argomento all'ordine del giorno (c.d. «questione pregiudiziale»).
Ciò posto, il presidente del consiglio è tenuto ad attenersi alla vigente disciplina regolamentare, spettando al potere sovrano dell'assemblea decidere, in via pregiudiziale, sull'ammissibilità della discussione degli argomenti inseriti nell'ordine del giorno
(articolo ItaliaOggi del 21.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Comune di Villeneuve - rete fognaria pubblica - interferenza con lavori di nuova costruzione - richiesta di spostamento delle condotte - parere (Legali Associati per Celva, nota 21.06.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: realizzazione di opere in difformità dal titolo edilizio – sanatoria parziale – configurabilità – parere (Legali Associati per Celva, nota 11.06.2019 - tratto da www.celva.it).

APPALTI: OGGETTO: requisiti generali di cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016 – permanenza in fase esecutiva – condanna non definitiva per il reato di corruzione – rilevanza ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c) – parere (Legali Associati per Celva, nota 13.05.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOAcquisto di fondi per la realizzazione di aree pubbliche.
DOMANDA:
Un Comune rappresenta che, dopo aver accantonato una quota di avanzo vincolato derivante da monetizzazioni aree di standard urbanistiche, vorrebbe impegnarlo per l'acquisizione di un terreno adiacente ad un campo da calcio che era stato concesso in comodato al Comune e che il proprietario vuole vendere o, altrimenti, vedersi restituito.
RISPOSTA:
In relazione al supposto impiego di dette risorse per l'acquisto del sedime adiacente all'impianto sportivo comunale si osserva quanto segue.
L'art. 46 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005 prevede testualmente, per quanto qui più interessa, che: “La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150) , deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica
;”.
A sua volta, poi, tale previsione va letta in combinato disposto con il successivo art. 90 avente ad oggetto le aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale ove, tra le altre condizioni, viene precisato che “Nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.
Orbene, date per legittime le monetizzazioni degli standard già svolte, l’utilizzo delle risorse derivanti è subordinata alla verifica a valle, da parte del Comune, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi sia destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano (cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia, del. 100/2017) (31.03.2019 - link a www.conord.eu).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Realizzazione di nuova strada da parte di privati con spese ed oneri a loro carico – successiva cessione delle aree stradali al Comune – parere (Legali Associati per Celva, nota 26.03.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Comune di Châtillon – necessità titolo abilitativo opere precedenti legge n. 765/1967 – Regolamento comunale del 1938 disciplinante fattispecie autorizzatorie – applicabilità – parere (Legali Associati per Celva, nota 26.03.2019 - tratto da www.celva.it).

PATRIMONIO: OGGETTO: Ampliamento del cimitero comunale su aree private – acquisizione al patrimonio comunale ed accatastamento del sedime - parere legale (Legali Associati per Celva, nota 22.02.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Strada consortile – fattispecie caratterizzata da rischio per incolumità di persone e cose - obblighi di legge in capo all’Amministrazione comunale - parere (Legali Associati per Celva, nota 01.02.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Comune di Gressan – permesso di costruire – sottozona Eg49 – ristrutturazione, cambio di destinazione d’uso, ampliamento e potenziamento di azienda agricola – interpretazione NTA – parere (Legali Associati per Celva, nota 08.01.2019 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Conferenza di servizi semplificata e asincrona ex art. 14-bis della legge n. 241/1990 – Assenso implicito – Sportello unico – Potere di autotutela – Parere (Legali Associati per Celva, nota 04.12.2018 - tratto da www.celva.it).
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Allegati alla richiesta di parere:
  
allegato 1 -
allegato 2 - allegato 3

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità nel Pubblico Impiego prima dei Concorsi: non è più obbligatoria.
Con il Decreto Concretezza ci sono novità sulla mobilità nel Pubblico Impiego prima dei Concorsi: non sarà più necessario espletare le Mobilità in maniera propedeutica rispetto ai concorsi.

La legge 56/2019 (cd. Legge concretezza) porta una ventata di aria nuova per le pubbliche amministrazioni. Soprattutto per quanto riguarda assunzioni e procedure concorsuali.
L’art. 3 introduce misure per accelerare le assunzioni ed il ricambio generazionale, nel solco già previsto dalla legge di bilancio, dal D.L. 4/2019 e dal decreto crescita. In attesa dei provvedimenti attuativi le Pa possono procedere, fin da subito ad assunzioni di personale a tempo indeterminato. Nel limite corrispondente ad una spesa pari al 100 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente.
E’ inoltre consentito il cumulo delle risorse, corrispondenti a economie da cessazione del personale già maturate, destinate alle assunzioni per un arco temporale di cinque anni.
Mobilità nel Pubblico Impiego prima dei Concorsi
Fino ad ora l’istituto della mobilità era disciplinato all’art. 30 del d.lgs. 165 del 2001.
Il quale, nel prevedere la possibilità per le amministrazioni di ricoprire posti vacanti mediante il passaggio diretto di dipendenti che abbiano già ricoperto il posto (es. distacco o comando) o che abbiano comunque già conseguito la stessa qualifica presso altra amministrazione, obbligava le medesime ad attivare le procedure di mobilità prima di espletare un concorso pubblico.
La disposizione chiariva, inoltre, che le amministrazioni dovevano, in via preliminare, provvedere all’immissione in ruolo di quei dipendenti che, prestando servizio in posizione di comando o di fuori ruolo, avessero fatto domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui si trovano effettivamente a svolgere la propria attività lavorativa
Come recita l’art. 3 al comma 8: “Misure per accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica amministrazione”:
Fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145, al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, nel triennio 2019-2021, le procedure concorsuali bandite dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e le conseguenti assunzioni possono essere effettuate senza il previo svolgimento delle procedure previste dall’articolo 30 del medesimo decreto legislativo n. 165 del 2001.
Quindi la vecchia normativa adesso è sostituita dalla nuova (22.07.2019 - tratto da e link a www.lentepubblica.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAStretta su terre e rocce da scavo. Obiettivo: protezione del territorio dall’inquinamento. Da Ispra e Minambiente regole su gestione dei residui e bonifi ca delle aree agricole.
Stretta sulla gestione fuori dalle severe regole sui rifiuti delle terre e rocce escavate nel corso di attività di costruzione e bonifiche ad hoc per le aree agricole contaminate da inquinanti. Seppur a diverso titolo, mirano entrambi alla tutela del territorio gli ultimi atti adottati rispettivamente dal sistema nazionale per la protezione dell'ambiente («Snpa», costituito da Ispra e agenzie regionali/provinciali) e dal ministero dell'ambiente.
A recare quelle che si tradurranno in nuovi oneri per gli operatori interessati sono le Linee guida Snpa 09.05.2019 n. 54 sulla corretta applicazione della disciplina per l'utilizzo dei materiali da scavo e il neo decreto del ministero dell'ambiente del 01.03.2019 n. 46 recante specifiche e inedite regole per bonifica, ripristino ambientale e messa in sicurezza di aree destinate a produzione agricola e allevamento oggetto di inquinamento.
Terre e rocce da scavo. Le neo linee guida del Sistema di protezione dell'ambiente ruotano intorno al dpr 120/2017, il regolamento che detta le specifiche norme per la gestione delle terre e rocce escavate nel corso di attività di realizzazione di opere, compresa la loro eventuale componente antropica (quali i residui di produzione/consumo accumulatisi nel tempo, noti come «materiali di riporto»).
I chiarimenti Snpa vertono sulle tre categorie di terre e rocce da scavo che il dpr 120/2017 disciplina declinando le regole generali di tutela ambientale previste dal dlgs 152/2006 (Codice ambientale), in base alle quali (articolo 185): sono a monte esclusi dalla disciplina sui rifiuti (comma 1, lettera b) il terreno compreso il suolo non escavato, anche se contaminato (fermi restando gli obblighi di bonifica) e (lettera c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione riutilizzato pedissequamente in situ; può invece essere (comma 4) rifiuto, sottoprodotto (ossia o materiale «end of waste» (in base alla fattispecie ricorrente) il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale utilizzati fuori sito di provenienza; sono rifiuti le terre escavate e contaminate.
Tra i chiarimenti delle Linee guida Ispra 54/2019 assumono primaria rilevanza le indicazioni sulle condizioni da osservare per gestire legittimamente fuori dal campo di applicazione della disciplina sui rifiuti, in particolare, «il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato».
L'Ispra chiarisce sul punto che il requisito del «riutilizzo allo stato naturale» è soddisfatto solo ove le terre siano impiegate nella loro condizione originaria di pre-scavo come al momento della rimozione.
Sotto tale profilo, dunque, nessuna manipolazione, lavorazione, operazione, trattamento è ammissibile sulle terre in parola al fine di gestirle fuori dal regime dei rifiuti, neanche il trattamento rientrante nella c.d. «normale pratica industriale»; attività, quest'ultima, rilevante unicamente ai fini dell'assoggettabilità di alcune terre escavate al diverso regime di favore riservato ai «sottoprodotti» (ossia ad alcuni scarti con vocazione di riutilizzo senza radicali trasformazioni e impatto su uomo e ambiente).
Ed è proprio in relazione alle condizioni che permettono di ricondurre i materiali escavati (non escludibili a monte dalla disciplina sui rifiuti ex art. 185 Codice ambientale) sotto l'articolata disciplina dei sottoprodotti che vertono gli ulteriori chiarimenti dell'Ispra. Le Linee 54/2019 fanno luce sulle plurime e peculiari condizioni da rispettare per gestire in deroga al regime dei rifiuti le terre e rocce da scavo non contaminate e destinate ad essere trasportate extra sito, ossia: l'essere dette terre originate da un processo produttivo di cui costituiscono parte integrante ma il cui scopo non è la loro generazione; l'esistenza della certezza che saranno riutilizzate nel corso dello stesso o di altro processo di produzione o utilizzazione; il fatto che il riutilizzo sarà diretto e senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla «normale pratica industriale»; la condizione che tale ulteriore utilizzo sarà legale (nel senso che i materiali risponderanno qualitativamente a standard di prodotto e non provocheranno impatti negativi su ambiente e salute).
L'Ispra si sofferma in particolare sul delicato tema dei trattamenti che possono essere applicati (senza farle cadere nella disciplina sui rifiuti) alle terre escavate e destinate al diretto riutilizzo, ossia sui trattamenti qualificati come «normale pratica industriale».
In estrema sintesi, le Linee guida chiariscono che alla luce della normativa applicabile e della giurisprudenza di riferimento costituiscono «normale pratica industriale» unicamente i trattamenti aventi le seguenti caratteristiche: hanno ad oggetto materiali da scavo che soddisfano i requisiti di qualità ambientale (più sopra ricordati); sono effettuati esclusivamente al fine di migliorare le caratteristiche meccaniche dei materiali per renderne l'utilizzo più efficace e/o allo scopo di migliorarne le caratteristiche merceologiche per renderne l'utilizzo maggiormente produttivo; non richiedono l'installazione di specifiche infrastrutture operative che generano impatti negativi complessivi ambientali e sulla salute.
La bonifica di aree agricole. L'altra novità in tema di tutela del territorio, come accennato, è costituita dal decreto 01.03.2019 n. 46 (G.U. del 07.06.019 n. 46), regolamento mediante il quale il ministero dell'ambiente ha, in attuazione del Codice ambientale, dettato specifiche regole per la bonifica, il ripristino ambientale e la messa di sicurezza delle aree destinate alla produzione agricola e all'allevamento.
Il neo decreto introduce un regime ad hoc per i particolari terreni, una disciplina speciale che prevale dunque (pur ricalcandone l'architettura) sulle generali regole dettate dal dlgs 152/2006 per la bonifica dei siti inquinati.
A distingue le speciali norme da quelle previste dal Codice ambientale è in primo luogo la previsione di peculiari valori limite di sostanze chimiche il cui superamento fa scattare gli obblighi di approfondimento del tenore dell'inquinamento e (ove necessario) di adozione delle conseguenti misure di tutela ambientale.
La destinazione dei terreni giustifica altresì gli specifici obblighi di analitica verifica di eventuali contaminazioni dovute alla vicinanza sia attuale che pregressa di impianti industriali o di gestione rifiuti. I controlli sulla presenza di inquinanti dovranno altresì interessare particolari matrici ambientali, tra cui gli stessi prodotti agroalimentari destinati al consumo.
Peculiari anche i tipi di intervento da effettuare sui terreni contaminati, i quali dovranno privilegiare azioni di fito/bio-risanamento in situ invece di scavo, rimozione e trasporto fuori sito delle matrici contaminate.
In base al regime transitorio previsto dal dm 46/2019 i procedimenti di bonifica che al 22.06.2019 (data di entrata in vigore delle nuove regole) risultano essere già stati avviati sub generali regole ex dlgs 152/2006 ma ancora non conclusi (con l'emanazione da parte delle Autorità competenti del relativo decreto di approvazione degli interventi) restano disciplinati dal regime generale ex Codice ambientale; con la facoltà per i proponenti degli interventi di chiedere però a stretto giro (entro il 19 dicembre 2019) l'applicazione delle nuove peculiari norme
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2019).

APPALTI: Portale per gli obblighi della p.a.. Informativa semplificata per le stazioni appaltanti. Attiva dal 1° luglio la piattaforma on-line del Servizio contratti pubblici (Scp) del Mit.
 È attivo, da lunedì 1° luglio, il portale unico on-line del ministero delle infrastrutture e trasporti con tutti i contratti pubblici di lavori, forniture e servizi; servirà a semplificare gli obblighi informativi delle stazioni appaltanti, a rendere più agevole l'accesso ai bandi di gara e la programmazione, ma anche ad analizzare con maggiore efficacia gli effetti delle politiche infrastrutturali.
Si tratta della piattaforma informatica del Servizio contratti pubblici (Scp) del Mit che ha visto coinvolti il dicastero di Porta Pia e gli osservatori regionali dei contratti pubblici, mediante la realizzazione della cooperazione applicativa tra la piattaforma nazionale e i sistemi informatizzati regionali. A loro volta le regioni e le province autonome hanno adattato i propri sistemi informativi alle specifiche tecniche condivise e indicate dal ministero delle infrastrutture realizzando quindi una piattaforma unica della trasparenza e pubblicità delle procedure di gara e della programmazione.
Il sistema permetterà di semplificare l'attività delle stazioni appaltanti con riferimento agli obblighi informativi previsti dal codice dei contratti pubblici, ma anche di migliorare l'accesso ai dati relativi ai bandi, avvisi ed esiti di gara, nonché alla programmazione di lavori, beni e servizi delle amministrazioni, assicurandone la massima trasparenza. Inoltre, attraverso la piattaforma verranno resi più efficaci gli strumenti di analisi e di valutazione delle politiche pubbliche sugli investimenti.
A decorrere dallo scorso 1° luglio, le pubbliche amministrazioni e i soggetti tenuti agli obblighi di pubblicità di cui al comma 2 dell'articolo 29 ed al comma 7 dell'articolo 21 del codice dei contratti pubblici li assolveranno utilizzando le nuove modalità rese disponibili dal Sistema a rete Mit (Scp)-regioni e province autonome. L'articolo 29, comma 2, impone infatti la pubblicazione di tutti gli atti relativi alla programmazione e alle procedure di affidamento (compresi quelli sulle composizioni delle commissioni giudicatrici e i curriculum dei commissari), nonché degli esiti di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Il comma 7 dell'articolo 21 attiene invece alla fase di programmazione e in particolare al programma biennale degli acquisiti di beni e servizi e al programma triennale dei lavori pubblici con i conseguenti aggiornamenti annuali, in attuazione del decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, 16.01.2018, n. 14. Anche questa documentazione finirà sulla piattaforma Scp del Mit.
Dal 1° luglio, quindi, le stazioni appaltanti statali e di livello centrale e le stazioni appaltanti di ambito locale con sede nelle regioni-province autonome che non hanno ancora attivato un proprio sistema informativo sono quindi tenuti ad adempiere agli obblighi informativi, accedendo all'indirizzo https://www.serviziocontrattipubblici.it. Le stazioni appaltanti di ambito locale con sede nelle regioni e province autonome che hanno attivato un proprio sistema informativo dovranno pubblicare su questi sistemi, i bandi, gli avvisi e gli esiti di gara, i programmi di lavori, beni e servizi, secondo le indicazioni fornite dagli osservatori regionali o da strutture equivalenti. In caso di utilizzo della piattaforma Scp quest'ultima reindirizzerà le stazioni appaltanti direttamente sui sistemi informativi regionali attivi.
Infine, il Servizio contratti pubblici continuerà a garantire il servizio di supporto tecnico giuridico a tutte le stazioni appaltanti di ambito nazionale e territoriale sulla corretta applicazione della disciplina dei contratti pubblici, per assicurare uniformità di indirizzi ed evitare molteplicità di soluzioni operative (articolo ItaliaOggi del 05.07.2019).

LAVORI PUBBLICI: Opere programmabili senza entrate accertate.
Per programmare le opere pubbliche non è obbligatorio aver accertato preventivamente le entrate necessarie al loro finanziamento.

È uno dei chiarimenti forniti dall'Ifel nel recente focus dedicato alle novità introdotte dal decimo correttivo ai principi contabili degli enti territoriali (dm 01.03.2019), i cui effetti operativi si spiegheranno anche sul prossimo Documento unico di programmazione (Dup) 2020-2022, da presentare entro il prossimo 31 luglio.
Molte sono le domande che gli addetti ai lavori si stanno ponendo in questi giorni concitati e colmi di scadenze. In particolare, i dubbi riguardano il raccordo fra la progettazione dell'opera e il suo inserimento nella programmazione. In base alle nuove regole, la spesa riguardante il livello minimo di progettazione richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici, è registrata nel bilancio di previsione prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce.
Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi generali riguardanti gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche (ossia il Dup), individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
Quindi: i) il Dup contiene in sé il programma triennale; ii) per poter inserire un'opera in programmazione occorre disporre di un livello minimo di progettazione; iii) la spesa per la progettazione minima precede lo stanziamento dell'opera; iv) la spesa per la progettazione minima è spesa d'investimento, a condizione che il Dup preveda l'opera e ne indichi le fonti di finanziamento.
Ma a questo punto sembra deliberarsi un corto circuito: se non ho la progettazione minima l'opera non posso inserirla nel programma triennale, e quindi nel Dup. L'Ifel chiarisce che ai fini dell'inserimento della spesa di progettazione di primo livello nel titolo II, l'ente deve già essersi determinato a realizzare l'opera, anche se formalmente non inserita nel programma triennale, e avere individuato le necessarie fonti di finanziamento.
Per cui, le opere, anche se non inserite nel triennale, dovranno comunque essere programmate nel Dup. Nella fase previsionale le entrate non devono essere state accertate per avviare il percorso che porterà all'ottenimento della progettazione di primo livello e all'inserimento dell'opera nel programma triennale e nel bilancio di previsione (articolo ItaliaOggi del 05.07.2019).

EDILIZIA PRIVATADemolizione e ricostruzione, va conservata l'area di sedime.
Nella demolizione e ricostruzione di un fabbricato, intervento che rientra nella ristrutturazione edilizia da realizzare con semplice Scia (articolo 22 del Dpr 380/2001) va rispettato non più solo il volume ma anche l'area di sedime del fabbricato originario, e cioè la sua impronta a terra.

La rilevante novità arriva dal decreto Sblocca-cantieri, il Dl 32/2019 convertito dalla legge 55/2019 che, oltre a riformare il codice dei contratti pubblici, contiene disposizioni in materia di rigenerazione urbana, la cui ratio, è bene evidenziarlo per capirne il senso, è quella di garantire una drastica riduzione del consumo di suolo.
La nuova disposizione è l'ultima in ordine di tempo nell'ambito della nozione di demolizione e ricostruzione, più volte modificata dal legislatore. Prima, intesa come fedele ricostruzione del fabbricato, compresa sagoma, volumetria, area di sedime, materiali; poi, più semplicemente intesa come ricostruzione con la stessa volumetria e non anche sagoma (se non per gli immobili sottoposti a vincoli in base al Dlgs 42/2014).
Con la legge 98/2013, infatti, il legislatore aveva trasferito dalla nozione di «nuova costruzione» (per cui è necessario il permesso di costruire) a quella di "ristrutturazione" (per cui è sufficiente la Scia) l'intervento di demolizione e ricostruzione senza il rispetto della sagoma, quest'ultima poi definita dal regolamento edilizio tipo varato dalla Conferenza unificata nell'Intesa del 20.10.2016 come la conformazione plano-volumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato in senso orizzontale verticale.
Adesso, invece, il decreto Sblocca-cantieri fa segnare un ritorno al passato riproponendo l'obbligo di rispettare anche l'area di sedime nella demolizione e ricostruzione. La norma, tuttavia, non incide sulla formulazione dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del Dpr 380/2001 (testo unico dell'edilizia), che definisce il concetto di demolizione e ricostruzione all'interno della nozione di ristrutturazione edilizia, ma invece aggiunge un nuovo comma all'articolo 2-bis dello stesso Dpr n. 380 in tema di deroghe ai limiti di distanza tra fabbricati.
Si è quindi ingenerato un difettoso coordinamento normativo fra le due disposizioni del testo unico dell'edilizia e cioè l'articolo 3, comma 1, lettera d), che non impone nell'ambito della ristrutturazione l'obbligo di mantenimento della sagoma e dunque dell'area di sedime dell'edificio ricostruito rispetto a quello demolito e il comma 1-ter aggiunto all'articolo 2-bis che invece proprio per questi intereventi edilizi impone il mantenimento dell'area di sedime e dunque della sagoma.
Sarà, dunque, compito della giurisprudenza amministrativa dare una risposta ai molti dubbi che già sono sorti fra gli addetti lavori (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.07.2019).

APPALTIAffidamento diretto fino a 150mila euro, anche dopo lo Sblocca-cantieri si applica il principio di rotazione.
I preventivi non possono essere richiesti sempre agli stessi soggetti, ma nelle procedure negoziate si può invitare il contraente uscente con una forte motivazione L'affidamento dei contratti sottosoglia è soggetto, tra l'altro, al principio di rotazione. Quest'ultimo è infatti richiamato in primo luogo dal comma 1 dell'articolo 36 del D.lgs. 50/2016, che lo prevede ai fini degli inviti e degli affidamenti, anche al fine di assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione alle gare delle micro, piccole e medie imprese. In secondo luogo, l'applicazione del principio di rotazione viene ribadita ai commi successivi con specifico riferimento agli inviti da effettuare nell'ambito delle procedure negoziate.
Le modalità di applicazione del principio di rotazione sono state oggetto di una copiosa giurisprudenza, che si è in particolare pronunciata in relazione all'invito del contraente uscente, assumendo in via prevalente una posizione negativa. Anche recentemente il Consiglio di Stato è intervenuto con due pronunce che si sono espresse in termini negativi, aderendo a un'interpretazione rigida del suddetto principio. Nel contempo sono intervenute le novità dettate dal Decreto sblocca cantieri, rispetto alle quali va verificato se e in che misura continui ad operare il principio di rotazione nei termini delineati dalla giurisprudenza prevalente.
Le nuove norme del Decreto sblocca cantieri Come è noto il Decreto sblocca cantieri ha in parte ridisegnato le regole per l'affidamento dei contratti sottosoglia. Ha infatti previsto per gli affidamenti ricompresi tra 40.000 euro e 150.000 euro per i lavori ovvero la soglia comunitaria per i servizi e le forniture l'affidamento diretto.
Quest'ultimo tuttavia deve essere preceduto dalla valutazione di tre preventivi per i lavori, mentre per i servizi e le forniture è necessario procedere al confronto tra almeno cinque operatori economici scelti tramite indagine di mercato o elenchi precostituiti, nel rispetto del criterio di rotazione degli inviti. Limitatamente ai lavori sono previste due ulteriori fasce di importo, tra 150.000 e 350.000 euro e tra 350.000 euro e un milione di euro. Per entrambe è previsto l'affidamento previo svolgimento in di una procedura negoziata previa consultazione di operatori economici selezionati tramite indagine di mercato o elenchi precostituiti, sempre nel rispetto del criterio di rotazione degli inviti.
Ciò che cambia è solo il numero dei soggetti da invitare, che è di dieci per la prima fascia e di quindici per la seconda. Come si vede, il principio di rotazione viene esplicitamente ribadito nel caso degli inviti alle procedure negoziate. Nulla viene detto invece per gli affidamenti ricompresi tra 40.000 e 150.000 euro relativi a lavori, per i quali viene unicamente richiamata la previa valutazione di tre preventivi. Si deve tuttavia ritenere che anche in quest'ultimo caso sia applicabile il principio di rotazione, nel senso che i preventivi non possono essere richiesti sempre ai medesimi soggetti.
Depone in questo senso innanzi tutto il richiamo al principio di rotazione contenuto nel comma 1, che quindi si estende a tutti gli affidamenti dei contratti sottosoglia, qualunque sia la modalità di affidamento. Inoltre, valgono considerazioni di carattere sistematico, relative alla coerenza complessiva delle regole dettate. Sarebbe cioè incoerente che il principio di rotazione, applicabile per tutte le altre fasce di importo, non trovasse spazio solo per la fascia ricompresa tra 40.000 e 150.000 euro. L'invito del contraente uscente Uno degli aspetti focali su cui si è concentrata l'attenzione della giurisprudenza è quello relativo alla posizione del contraente uscente rispetto all'applicazione del principio di rotazione.
La giurisprudenza prevalente si è espressa nel senso della rigorosa applicazione del principio di rotazione, in base al quale l'ente appaltante, come regola generale, non deve procedere all'invito di colui che risulta titolare del contratto immediatamente precedente a quello oggetto di affidamento.
Secondo questo orientamento la regola generale può subire eccezioni solo in presenza di circostanze particolari, e cioè in considerazione del numero ridotto di operatori presenti sul mercato, del grado di soddisfazione maturato nel precedente rapporto contrattuale o ancora dell'oggetto e delle caratteristiche del mercato di riferimento. In ogni caso, l'eventuale invito del contraente uscente deve essere sorretto da una attenta motivazione, sussistendo al riguardo un onere di motivazione rafforzato.
Alla base di questa posizione che tende ad escludere l'invito del contraente uscente la giurisprudenza ha esplicitato due ordini di ragioni. Da un lato vi sarebbe la necessità di evitare il consolidamento di rendite di posizione contrarie all'apertura al mercato, specie in danno delle piccole e medie imprese. Dall'altro opererebbe l'esigenza di evitare la posizione di vantaggio di cui godrebbe il contraente uscente, in virtù del maggior bagaglio informativo di cui lo stesso sarebbe titolare in virtù del rapporto contrattuale pregresso. 
Recentemente il Consiglio di Stato ha sottolineato -eliminando ogni dubbio al riguardo- che il divieto di invitare il contraente uscente vige anche nell'ipotesi in cui l'ente appaltante abbia espletato un'indagine di mercato per l'individuazione dei soggetti da invitare. Il giudice amministrativo ha evidenziato come il principio di rotazione riguardi la fase degli inviti, e quindi trovi spazio anche nell'ipotesi in cui gli inviti siano diramati a seguito di un'indagine di mercato (Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2019, n. 3831).
Nella pronuncia il giudice amministrativo respinge anche ogni dubbio di costituzionalità sulla norma che impone il principio di rotazione negli inviti e sull'interpretazione della stessa nei termini indicati. Non vi sarebbe infatti contrasto con l'articolo 41 della Costituzione che tutela l'iniziativa economica privata in quanto, a fronte di una norma pro competitiva che tende ad aprire il mercato ad altri operatori, vi sarebbe una compressione degli interessi del contraente uscente ma nei limiti della proporzionalità. Quest'ultimo, infatti, dovrebbe "saltare" solo il primo affidamento successivo a quello del rapporto contrattuale di cui risulta titolare.
D'altro canto non si potrebbe invocare neanche un contrasto con l'articolo 97 relativo al buon andamento dell'amministrazione in quanto il principio di rotazione aumenterebbe le possibilità di partecipazione di altri operatori, favorendo l'efficienza e l'economicità delle prestazioni da rendere a favore della pubblica amministrazione. In realtà queste considerazioni così radicali lasciano aperta qualche perplessità.
L'eliminazione di ogni possibilità di competere per il contraente uscente, che non può essere chiamato neanche a partecipare a una procedura di gara, appare effettivamente come una compressione della libertà di iniziativa economica privata, che non sembra agevole considerare proporzionata per il solo fatto che riguarda solo il primo affidamento successivo al rapporto contrattuale di cui lo stesso è titolare. 
Anche sotto il profilo del possibile contrasto con l'articolo 97 andrebbe forse considerato che l'ente appaltante deve comunque rinunciare salvo fornire una dettagliata motivazione della scelta contraria ad invitare un operatore che per ipotesi ha fornito prestazioni ottimali nel corso del rapporto precedente. Con un evidente riflesso potenzialmente negativo sul buon andamento dell'azione amministrativa. Nella stessa logica di applicazione rigida del principio di rotazione nei confronti del contraente uscente si colloca un'altra recente pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, 12.06.2019, n. 3943, che ha ritenuto che tale principio sia applicabile anche se il precedente affidamento sia avvenuto a seguito di una procedura aperta o ristretta.
Rispetto alle finalità cui tale principio è preordinato non rileva infatti che la scelta originaria del contraente uscente sia avvenuta tramite una procedura ad evidenza pubblica, quanto piuttosto la posizione "privilegiata" che quest'ultimo assume e che prescinde dalle modalità attraverso le quali tale posizione si è formata. La rotazione negli affidamenti diretti e negli inviti. Pur riconoscendo che le motivazioni addotte dalla giurisprudenza in merito alla rigida applicazione del principio di rotazione hanno una loro validità, appare opportuna una distinzione a seconda che l'ente appaltante proceda per mezzo di affidamento diretto ovvero con una procedura negoziata a inviti (o a un affidamento previa consultazione di tre preventivi).
L'affidamento diretto in senso proprio è consentito per la conclusione di contratti fino a 40.000 euro. In questo caso il principio di rotazione si risolve nel divieto di rinnovare fiduciariamente un contratto senza che vi sia alcuna apertura alla concorrenza. Assume quindi massimo valore l'esigenza di evitare il consolidarsi di rendite di posizione, che avverrebbe al di fuori e a prescindere da qualunque confronto con il mercato. La situazione si presenta in termini diversi nell'ipotesi in cui l'ente appaltante proceda allo svolgimento di una procedura negoziata a inviti (e, in misura più attenuata, al confronto di tre preventivi).
In questo caso il divieto di invitare il contraente uscente appare meno convincente. Quest'ultimo infatti non è destinatario di un affidamento diretto, ma viene messo in competizione con altri concorrenti, e può per ipotesi risultare aggiudicatario del nuovo contratto solo se la sua offerta risulta più conveniente rispetto a quella degli altri invitati. Né sembra sufficiente a giustificare il divieto di invito la situazione di asimmetria informativa di cui il contraente uscente beneficerebbe, posto che la stessa può assumere un ruolo molto diverso a seconda della tipologia di prestazione oggetto di affidamento.
Si deve allora ritenere che nel caso di procedura negoziata a inviti possa essere particolarmente valorizzata, ai fini di consentire l'invito del contraente uscente, la particolare soddisfazione che l'ente appaltante abbia conseguito nello svolgimento del precedente rapporto contrattuale. Non si vede infatti ragione per la quale, di fronte a un'ottima prestazione svolta, l'ente appaltante debba aprioristicamente privarsi della possibilità di invitare il contraente uscente, che comunque viene messo in competizione con altri concorrenti.
D'altronde anche parte della giurisprudenza, anche se minoritaria, ha affermato che il principio di rotazione deve considerarsi servente e strumentale al principio di concorrenza e non può risolversi in un ostacolo ad esso. Pertanto il contraente uscente che abbia ben operato può partecipare alla gara, se ciò rappresenta un'estensione della platea degli offerenti (Tar Lazio, Sez. I-ter, 18.06.2018, n. 6838) (articolo Quotidiano del Sole 24 Ore Edilizia e Territorio del 05.07.2019).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso civico senza più paletti. I costi del personale non devono gravare sui richiedenti. Circolare del ministro Bongiorno sul Foia. Arriva una procedura guidata per i cittadini.
Accesso civico senza paletti. Le pubbliche amministrazioni non avranno più scuse: dovranno consentire a tutti i cittadini, che abbiano interesse ad accedere a dati e documenti detenuti dalle p.a., di esercitare tale diritto senza, per esempio, costringerli a sobbarcarsi i costi per il personale impiegato nella trattazione delle richieste di accesso. Un costo che «grava sulla collettività che intenda dotarsi di un'amministrazione moderna e trasparente» e per questo non può essere scaricato sui cittadini. I costi a carico di chi presenta istanza di accesso devono essere chiari e determinati in anticipo mediante un tariffario da prospettare al richiedente prima della riproduzione dei documenti.

Dopo la circolare del 2017, il dipartimento della Funzione pubblica torna a dettare i chiarimenti sull'accesso civico generalizzato (cosiddetto Foia, acronimo di Freedom of information act) che, seppur in vigore dal 23.12.2016, ha richiesto la necessità di un nuovo intervento.
Ieri (circolare 01.07.2019 n. 1/2019), il ministro per la pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, ha firmato una nuova circolare sul Foia per precisare alcuni dubbi applicativi rimasti insoluti in questo primo biennio di applicazione. «L'obiettivo è promuovere un'attuazione del Foia sempre più rigorosa e uniforme», ha dichiarato il numero uno di palazzo Vidoni. «La circolare intende dare risposta alle numerose esigenze emerse nel corso degli ultimi due anni», fornendo «indirizzi e chiarimenti a tutte le amministrazioni in merito agli aspetti organizzativi, procedimentali e tecnologici connessi a un'efficiente gestione del Foia».
L'utilizzo delle nuove tecnologie
E proprio l'utilizzo delle tecnologie informatiche sarà cruciale per ridurre gli ostacoli e promuovere un sempre più ampio utilizzo dell'istituto. Gli interventi che la Funzione pubblica metterà in campo andranno in una duplice direzione: supportare i cittadini nella presentazione delle richieste di accesso e le p.a. nella gestione delle domande. Per i cittadini è in arrivo sul sito www.foia.gov.it una procedura guidata che faciliterà i richiedenti nella corretta individuazione della tipologia di accesso e della p.a. destinataria della richiesta. Mentre le amministrazioni vengono invitate a mettere a disposizione degli utenti un modulo on-line che consenta di specificare l'ambito di riferimento dei dati e i documenti richiesti, facilitando così l'individuazione della p.a. competente.
Le nuove tecnologie dovranno anche aiutare le p.a. a trattare celermente le richieste. «Una volta che l'istanza di accesso sia stata acquisita dall'amministrazione è necessario che la stessa venga tempestivamente inoltrata all'ufficio che detiene i dati o i documenti richiesti», ammonisce la circolare del ministro Bongiorno. Di qui l'invito alle pubbliche amministrazioni a utilizzare sistemi di protocollo informatico e gestione documentale più evoluti.
Spetterà al Responsabile per la transizione al digitale, a cui il Codice dell'amministrazione digitale affida il compito di promuovere la diffusione nella p.a. dei sistemi di protocollo informatico, «adottare gli interventi di evoluzione e configurazione dei sistemi già in uso che si rendano necessari» per facilitare la diffusione del Foia. E proprio in quest'ottica, la Funzione pubblica ha predisposto un documento con le specifiche tecniche per l'implementazione del registro degli accessi Foia, disponibile sul sito www.foia.gov.it.
Regolamenti interni
La circolare si sofferma anche sui confini del diritto di accesso civico e sulla possibilità per gli enti pubblici di sottrarre all'accesso alcune materie. La nota ribadisce che le p.a. «non possono individuare con regolamento alcune categorie di atti sottratte all'accesso generalizzato», chance invece prevista dalla legge n. 241/1990 in materia di accesso procedimentale. La conseguenza è che «un generale riferimento a regolamenti che prevedano categorie di documenti sottratte all'accesso potrebbe non essere sufficiente a respingere un'istanza di accesso generalizzato, considerando che le categorie di documenti devono essere interpretate in senso restrittivo».
Notifiche ai controinteressati
La nota del ministro Bongiorno detta chiarimenti anche in materia di notifica ai controinteressati, ossia i soggetti che dall'esercizio del diritto di accesso civico possono subire un pregiudizio concreto a interessi privati quali la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza della corrispondenza o ancora interessi economici e commerciali quali proprietà intellettuale, diritto d'autore e segreti commerciali.
Il decreto trasparenza prevede che ai controinteressati venga inviata comunicazione dell'accesso civico generalizzato o con raccomandata o per via telematica. Ma cosa accade quando il numero di controinteressati è elevato? La circolare suggerisce in primis di usare la Pec. E se i controinteressati sono talmente tanti da rischiare di arrecare un serio pregiudizio al buon andamento della p.a. a causa dell'onerosità dell'attività di notifica con raccomandata, «l'amministrazione potrà consentire l'accesso parziale, oscurando i dati personali o le parti dei documenti richiesti che possano comportare un pregiudizio concreto agli interessi privati» (articolo ItaliaOggi del 02.07.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni nei comuni e nelle regioni. Tra molti dubbi applicativi. Esclusi territori autonomi, province, città metropolitane e unioni.
La legge di conversione del decreto crescita conferma le nuove modalità di computo delle capacità assunzionali, con pochissime modifiche rispetto al testo iniziale. I destinatari delle disposizioni contenute nell'articolo 33 sono solo regioni a statuto ordinario e comuni. Non, quindi, regioni a statuto speciale, né province, città metropolitane o unioni di comuni.
Gli enti potranno assumere a tempo indeterminato sino ad una spesa complessiva per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico dell'amministrazione, non superiore al valore soglia definito come percentuale, anche differenziata per fascia demografica, della media delle entrate correnti relative agli ultimi tre rendiconti approvati; per le regioni occorrerà considerare questa media delle entrate correnti al netto di quelle la cui destinazione è vincolata, ivi incluse, per le finalità di cui al presente comma, quelle relative al servizio sanitario nazionale ed al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione; i comuni, invece, le considereranno al netto del fondo crediti dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Il meccanismo, però, è subordinato all'approvazione dei decreti che stabiliranno i valori soglia, al di sotto dei quali sarà possibile assumere senza limitazioni percentuali del turnover. Gli enti che si troveranno al di sopra del valore soglia avranno tempo fino al 2025 per mettersi in regola; nel frattempo potranno ridurre il costo complessivo del personale anche assumendo con un tasso inferiore al 100% del turnover. Se al 2025 saranno ancora non in regola, potranno assumere solo entro il 30% del turnover. Non è stata introdotta nessuna norma di diritto transitorio che chiarisca come gli enti possono assumere fino all'adozione dei decreti citati prima.
C'è chi parla dell'applicazione delle regole sulle assunzioni «previgenti»; una soluzione che appare non corretta, proprio perché le regole poste adesso dalla conversione del decreto sono altre. Appare più coerente ammettere che gli enti interessati possano assumere, sapendo che in conseguenza della spesa potrebbero trovarsi al di sopra del valore soglia di loro competenza: ma avrebbero ben sei anni per rimediare. Nemmeno è stato chiarito se questo nuovo computo delle capacità assunzionali implica l'implicita abolizione del tetto di spesa consistente nella media della spesa di personale del triennio 2011-2013.
Tale abolizione tacita potrebbe considerarsi avvenuta a condizione che l'aggregato «spesa di personale» rilevante ai fini del decreto sia considerato identico all'aggregato preso in considerazione per determinare il tetto di spesa. Né è stato reso più chiaro l'ultimo periodo dei commi 1 e 2 dell'articolo 33, ai sensi del quale il limite al trattamento accessorio del personale, consistente nel tetto del 2016 deve essere adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l'invarianza del valore medio pro-capite, riferito all'anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31.12.2018.
Non si capisce se si debba computare un unico valore medio pro capite, comprensivo anche delle risorse per le retribuzioni di posizione e risultato delle posizioni organizzative o se per queste ultime occorra un autonomo valore medio pro capite (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGO40% in più di stipendio per i dipendenti comunali equiparati in Friuli-Venezia Giulia ai regionali.
La rivoluzione nel pubblico impiego parte del Friuli-Venezia Giulia: i dipendenti comunali (nuovi assunti) saranno equiparati nel trattamento economico e nei benefit a quelli regionali. È facile prevedere che anche chi già lavora nei Comuni finirà per ottenere la parità.
Non si tratta di poca cosa: i dipendenti regionali friulani percepiscono circa il 40% in più dei loro colleghi comunali, per i quali, quindi, il salto è olimpico (a proposito).
Secondo l'assessore regionale alla Funzione pubblica, Sebastiano Callari, in questo modo sarà cancellata l'aspirazione dei dipendenti comunali a farsi trasferire in Regione e inoltre non ci saranno più rinunce a entrare in organico presso piccoli Comuni disagiati.
Oggi in Friuli-Venezia Giulia la Regione dà lavoro a 3.700 persone, i Comuni a 9.300. L'età media è 54 anni. Dice Callari: «Parificheremo gli emolumenti ma intendiamo estendere anche agli enti locali i benefit che la Regione garantisce ai suoi dipendenti e che in passato sono strati interpretati come privilegi. Sono invece dei programmi di welfare che è giusto abbiano anche i dipendenti in forza ai Comuni».
Sulla diligenza vogliono però salire i comunali anche delle altre parti d'Italia. E sono già pronti con fischietti e cartelli (articolo ItaliaOggi del 27.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCategorie protette: dalla Funzione pubblica le istruzioni su quote, collocamento, e sanzioni.
Soggetti beneficiari, quota d'obbligo, collocamento obbligatorio, sanzioni.
La direttiva 24.06.2019 n. 1/2019 del ministro per la Pubblica amministrazione è un documento che affronta a 360 gradi tutte le regole per la gestione delle categorie protette alla luce delle diverse disposizioni normative che si sono succedute nel tempo.
Dal Dipartimento della Funzione Pubblica giunge, quindi, un vero e proprio vademecum capace di riassumere sia i principi generali che le azioni concrete ed operative in materia di disabili.
Il comitato di garanzia
Al centro delle misure di sostegno alle categorie protette il ruolo principale di attore è svolto dal comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni. La mancata costituzione dell'organismo, comporta responsabilità dei dirigenti da valutare anche per il raggiungimento degli obiettivi.
Il documento si sposta, poi, a esaminare nel dettaglio le varie tipologie di categorie protette. La parte del leone la fa sicuramente l'articolo 1 della Legge 12.03.1999 numero 68 che ricomprende il cosiddetto contesto delle «invalidità».
Particolarmente interessante è la spiegazione del calcolo della quota d'obbligo, della gestione della mobilità e della compensazione territoriale. Si ricorda che i datori di lavoro sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie sopra richiamate in questa misura:
   - sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti;
   - due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
   - un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti.
Le modalità per assumere
Vengono, inoltre, chiariti i diversi rapporti tra l'assunzione mediante avviamento, attraverso chiamata nominativa e il concorso con riserva. È anche necessario un approfondimento sulle varie tipologie di convenzioni e sullo svolgimento di tirocini formativi e di orientamento. Uno specifico paragrafo è dedicato alle assunzioni obbligatorie con riguardo ai servizi di polizia e di protezione civile per i quali è indicato che in tali ambiti il collocamento dei disabili è previsto nei soli servizi amministrativi.
Sempre della legge 68/1999 viene esaminato il caso delle categorie protette previste dall'articolo 18, comma 2. In questo caso si fa riferimento agli orfani e ai coniugi dei superstiti deceduti per causa di lavoro o per causa di guerra e di servizio e il documento analizza, ancora una volta, la quota d'obbligo le eventuali sanzioni e le modalità concrete di assunzione obbligatorio.
Vittime del terrorismo e della criminalità organizzata
La seconda sezione della direttiva prende in esame le nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata: si fa riferimento alle categorie protette così come identificate dall'articolo 1, comma 2, della legge 407/1998.
Nell'ordinamento legislativo italiano sono altresì presenti altre tre tipologie di categorie protette che vengono equiparate alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata. Il ministro per la Pubblica amministrazione, ci ricorda che stiamo parlando delle vittime del dovere, per le quali il documento precisa che debbano intendersi i soggetti di cui all'articolo 3 della legge 13.08.1980 n. 466, e, in genere, gli altri dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subìto un'invalidità permanente in attività di servizio o nell'espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi particolari. Il documento conclude esaminando la casistica dei soggetti caduti sul lavoro e dei testimoni di giustizia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019).

APPALTISblocca-cantieri, sospeso fino a fine 2020 l'obbligo di indicare almeno tre subappaltatori.
Fino al 31.12.2020 le stazioni appaltanti devono specificare negli atti di gara la quota di lavori, servizi o forniture da subappaltare, mentre gli operatori economici concorrenti che intendono subappaltare parti di attività non hanno più l'obbligo di indicare la terna dei subappaltatori.
La disciplina della quota subappaltabile è modificata temporaneamente dal comma 18, articolo 1, della legge n. 55/2019 sospendendo fino alla fine del prossimo anno la previsione, contenuta nel comma 6, articolo 105, del codice dei contratti pubblici, relativa alla necessaria indicazione di almeno tre subappaltatori, in caso di volontà del concorrente di subappaltare.
Cosa prevede la norma a tempo
La disposizione prevede anzitutto che le amministrazioni aggiudicatrici specifichino nel bando il subappalto, determinandone quindi l'indicazione obbligatoria per tutte le tipologie di appalti (fatta eccezione per quelli compresi nell'allegato IX, per i quali l'articolo 105 non rientra tra le norme applicabili).
Le stazioni appaltanti hanno possibilità di individuare la quota subappaltabile entro il limite del 40%, statuito dalla norma transitoria, tenendo conto che tale limite amplia quello previgente (30%), ma configura comunque un'eccezione rispetto all'ordinamento eurounitario, nel quale il subappalto non ha vincoli quantitativi.
Le disposizioni dell'art. 105 del codice dei contratti pubblici relative alle condizioni particolari per il subappalto e al suo procedimento autorizzativo permangono invariate, quindi le amministrazioni, in sede di valutazione del subappalto richiesto dall'appaltatore, devono verificare che non sia affidato a un operatore economico che ha partecipato alla gara (poiché in base alla legge n. 55/2019 permane il divieto specifico).
Adeguare bandi e disciplinari di gara
In relazione alla procedura di gara, sino al 31.12.2020 nelle gare non deve essere più richiesta la terna dei subappaltatori agli operatori economici concorrenti che dichiarino di voler subappaltare (permanendo invece l'obbligo di indicazione delle tipologie di attività e della quota che si intende subappaltare).
L'eliminazione dell'obbligo vale sia per le gare soprasoglia (nelle quali era generalizzato) sia in quelle sottosoglia (nelle quali era richiesto solo in caso di attività assoggettate all'obbligo della white list per gli esecutori).
Le amministrazioni devono quindi adeguare i bandi e i disciplinari di gara, eliminando la parte regolativa dell'obbligo di presentazione della terna e i connessi obblighi di presentazione del documento di gara unico europeo relativo ai requisiti dei subappaltatori.
Nella fase di esecuzione, le stazioni appaltanti devono tener conto che la legge n. 55/2019 ha rimosso le novità che erano state inserite dal decreto legge n. 32/2019 nel comma 13, quindi è ripristinato l'obbligo di pagare i subappaltatori quando sono micro o piccole imprese.
Warning
Nella gestione dei subappalti, le amministrazioni dovranno porre particolare attenzione sulla corretta qualificazione dei rapporti tra l'appaltatore e gli operatori economici subaffidatari, per evitare elusioni attraverso il ricorso ai subcontratti previsti nel comma 2 dell'art. 105 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019).

APPALTI: Sblocca-cantieri, fino a dicembre 2020 commissioni giudicatrici senza pescare nell'albo Anac.
Le stazioni appaltanti fino al 31.12.2020 possono individuare i componenti delle commissioni giudicatrici senza ricorrere all'albo Anac, ma devono definire specifiche regole per la nomina dei commissari.
La legge n. 55/2019 prevede all'articolo 1, comma 1, lettera c), che fino alla fine del prossimo anno è sospesa la disposizione contenuta nell'articolo 77, comma 3, del Dlgs n. 50/2016 in relazione all'obbligo di scegliere (per le procedure con l'offerta economicamente più vantaggiosa) tra gli esperti iscritti all'elenco istituito dall'Autorità nazionale anticorruzione tutti i commissari per le gare soprasoglia e il presidente per quelle sottosoglia.
Regole base da individuare
Le amministrazioni possono quindi individuare i componenti delle commissioni giudicatrici tra propri dipendenti o tra soggetti esterni, ma la norma a valenza temporanea determina l'obbligo di effettuare l'individuazione sulla base di regole di competenza e trasparenza, preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante.
La definizione di questi criteri non è una novità assoluta, in quanto era già prevista dal comma 12, articolo 216, del codice in relazione al periodo transitorio compreso tra l'entrata in vigore del Dlgs n. 50/2016 e l'operatività dell'albo istituito dall'Anac.
Molte stazioni appaltanti, tuttavia, non li avevano «regolamentati», tanto che la giurisprudenza è intervenuta giudicando (Tar Veneto, sezione I, sentenza del 06.03.2019 n. 297) il provvedimento di nomina della commissione illegittimo quando adottato in assenza di qualsiasi predeterminazione dei criteri di trasparenza e competenza, risultando del tutto privo di un proprio specifico contenuto motivazionale, con conseguente illegittimità derivata degli ulteriori atti di gara.
Le stazioni appaltanti che non hanno strutturato tale quadro di criteri devono pertanto definire un complesso di regole essenziali, nel quale devono anzitutto essere specificati gli elementi in base ai quali saranno scelti i commissari.
Parametri possibili
Il parametro-chiave è la competenza rispetto all'oggetto dell'appalto, che deve risultare dal background professionale dei potenziali commissari.
Un secondo profilo rilevante per le norme regolamentari è la definizione della disciplina per la rotazione dei commissari nominati, per evitare che a breve distanza di tempo lo stesso esperto sia scelto per valutare appalti nel medesimo settore: la tempistica per l'applicazione del principio va determinata da ciascuna amministrazione in relazione alla propria struttura organizzativa e alla maggiore o minore disponibilità di figure professionali da coinvolgere nelle commissioni.
Le stazioni appaltanti devono comporre anche i criteri per l'individuazione di esperti esterni, quando questo sia necessario in ragione delle peculiarità o della complessità dell'appalto, oppure quando non vi siano sufficienti esperti interni. In tale prospettiva sono molto importanti i parametri per la valutazione della competenza (per esempio attività professionale svolta nel settore oggetto dell'appalto) e le modalità di selezione, che devono rispettare i principi di pubblicità e di trasparenza, trattandosi di incarichi professionali conferibili in base all'articolo 7, comma 6, del Dlgs n. 165/2001.
Le regole per la nomina dei commissari possono definire anche alcuni aspetti particolari, come le modalità di individuazione del presidente, facendo riferimento a dati ordinamentali (come per esempio l'articolo 107 del tuel, che pone tale compito in capo ai dirigenti) e prevedendo anche soluzioni derogatorie (come la nomina effettuata dal mini-collegio tra i suoi componenti), qualora figure interne non possano far parte della commissione a fronte della sussistenza di condizioni di incompatibilità funzionale in base al comma 4, articolo 77, del codice (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., aspettativa a maglie larghe. Chance per tutti i dipendenti. E raddoppiata (10 anni). In G.U. la legge Concretezza: in vigore dal 7 luglio, apre ancor di più le porte del privato.
Tutti i dipendenti pubblici potranno fare esperienza nel privato allo scopo di valutare l'opportunità di intraprendere nuove strade o acquisire nuove conoscenze e competenze da spendere poi rientrati in servizio nella pubblica amministrazione.
Tra le novità della legge 56/2019, nota come legge Concretezza, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 145 del 22.06.2019 e in vigore dal 7 luglio prossimo, vi è la notevole estensione dell'aspettativa come strumento disponibile per tutti i pubblici dipendenti.
L'articolo 4 della legge (si veda ItaliaOggi del 13 giugno scorso) modifica in primo luogo l'articolo 23-bis del dlgs 165/2001, cioè la norma che aveva introdotto la possibilità dell'aspettativa per attività lavorative nel settore privato, limitandola però ai soli dirigenti pubblici.
La novella consente a tutti i dipendenti delle p.a., qualunque sia la loro qualifica professionale e ivi compresi gli appartenenti alle carriere diplomatica e prefettizia di collocarsi in aspettativa senza assegni per svolgere attività presso soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale, salvo motivato diniego dell'amministrazione di appartenenza in ordine alle proprie preminenti esigenze organizzative.
Oltre alla notevole estensione soggettiva che potenzialmente consente a tutti i 3 milioni di dipendenti pubblici circa di provare nuove attività lavorative, ve n'è una notevole anche di carattere temporale: l'articolo 4, comma 1, lettera b), della legge 56/2019 è stato riscritto in modo tale che l'aspettativa massima di 5 anni concedibile nel caso di svolgimento di attività presso soggetti diversi dalle amministrazioni pubbliche, sia rinnovabile. Quindi, potenzialmente l'aspettativa dovuta a lavori presso i soggetti privati può durare fino a 10 anni.
Allo scopo di evitare conflitti di interessi o, comunque, di attenuarne i rischi, il comma 6 dell'articolo 23-bis del dlgs 165/2001 precisa che i dipendenti che abbiano fruito della particolare aspettativa per attività lavorativa una volta rientrato in servizio per i successivi due anni potrà ricevere incarichi o svolgere attività connesse all'esercizio di funzioni di vigilanza, di controllo stipulazione di contratti o formulazione di pareri o avvisi su contratti, nonché concessione di autorizzazioni a favore di soggetti presso i quali abbia condotto l'attività lavorativa durante l'aspettativa.
Il comma 2 dell'articolo 4 della legge 56/2019 completa la riforma, modificando l'articolo 18, comma 1, della legge 183/2010, il cui nuovo testo è il seguente: «I dipendenti pubblici possono essere collocati in aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell'anzianità di servizio, per un periodo massimo di 12 mesi e rinnovabile per una sola volta, anche per avviare attività professionali e imprenditoriali. L'aspettativa è concessa dall'amministrazione, tenuto conto delle esigenze organizzative, previo esame della documentazione prodotta dall'interessato».
Si tratta della disposizione finalizzata a consentire l'aspettativa mirata proprio all'attività imprenditoriale. La novità introdotta dalla legge «Concretezza» consiste nella possibilità di rinnovare per una sola volta questa aspettativa funzionale all'attivazione di attività in proprio. Fin qui le norme prese in considerazione dall'articolo 4 della legge concretezza non hanno prodotto rilevanti risultati.
La norma indubbiamente mira a estendere l'utilizzo dell'aspettativa, ma il momento storico scelto non pare il migliore: le amministrazioni sono, infatti, interessate da una fortissima emorragia di dipendenti e difficilmente concederanno a cuor leggero periodi di aspettativa che finirebbero per ridurre ulteriormente i ranghi, fortemente interessati dai pensionamenti della «quota 100» e dalla «gobba» pensionistica che coinvolgerà circa 450 mila dipendenti pubblici nei prossimi tre anni
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIMulta per chi usa dati oltre mandato. Garante privacy sui diritti di accesso per consiglieri.
Consigliere comunale multato (4 mila euro) per avere passato a un cittadino documenti avuti dal comune utilizzando il suo ruolo politico. L'uso delle prerogative nell'accesso alle informazioni comunali è costata l'irrogazione di una sanzione pecuniaria da parte del Garante della privacy: lo sviamento dei diritti previsti a favore del componente del consiglio comunale significa trattamento illecito dei dati.
Così ha deciso il Garante con l'ordinanza-ingiunzione 04.04.2019 n. 100.
Nel caso specifico, un consigliere comunale ha chiesto un documento di una pratica edilizia (una denuncia di inizio attività o dia). Ma il consigliere lo ha fatto solo perché un cittadino non era riuscito ad ottenerlo dagli uffici comunali e questa persona ne aveva bisogno per metterlo agli atti di una causa pendente contro il soggetto cui si riferiva la pratica edilizia. Insomma, il Garante ha accertato che il consigliere ha chiesto l'atto non per esercitare il suo mandato, ma per aiutare il cittadino nell'acquisizione del documento.
La persona nominata nella pratica edilizia ha reagito con un ricorso al Garante contro il consigliere. Nel corso del procedimento il consigliere ha dovuto ammettere di avere consegnato la dia a chi l'aveva chiesta, senza fortuna, al comune. Una volta appurati i fatti, il Garante ha avuto facilità a considerare che il consigliere ha violato le norme sulla privacy pro tempore vigenti e d'altra parte la risposta sarebbe la stessa anche considerando il subentrato regolamento Ue sulla privacy (2016/679 o Gdpr).
In effetti l'articolo 43 del Testo unico degli enti locali (dlgs 267/2000 o Tuel) dice che i consiglieri comunali hanno il diritto di ottenere dagli uffici tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, ma solo se e in quanto utili all'espletamento del proprio mandato. Questo significa che i dati personali così acquisiti devono essere utilizzati effettivamente per le sole finalità realmente pertinenti al mandato. Non appartiene al mandato del consigliere rimediare a eventuali illegittimi dinieghi del comune a richieste d'accesso.
Se taluno chiede un documento al comune e il comune, in ipotesi sbagliando, nega l'accesso, non si deve andare dal consigliere, ma bisogna fare ricorso al Tar. Il consigliere ha tentato di difendersi dicendo che i titoli edilizi non sono coperti da privacy e, anzi, sono atti pubblici liberamente conoscibili. Sempre il consigliere ha evidenziato che il comune avrebbe sbagliato a dire di no alla richiesta di accesso e che il cittadino aveva diritto ad avere la copia della Dia.
Il Garante ha dovuto constatare che questi argomenti non sono decisivi. Quanto alla pubblicità dei titoli edilizi, non c'è una norma che consenta la diffusione dei titoli edilizi nella loro integralità. Inoltre se anche il diritto di accesso fosse fondato, questo non significa che il consigliere possa sostituirsi all'ente inadempiente, unico titolato a rispondere ed eventualmente a essere responsabile nel caso di dinieghi sbagliati.
Sulla base di questi ragionamenti al consigliere è stato ingiunto di pagare una somma ridotta di 4 mila euro. Il cittadino, che per ragioni difensive aveva certamente diritto ad avere la Dia, avrebbe potuto ottenerla sia con un ricorso al Tar, sia chiedendone l'acquisizione d'ufficio al giudice della causa in corso. Si è scelta la strada sbagliata, che ha messo nei guai il consigliere. Nessuna conseguenza, invece, per il comune, alla condizione che abbia consegnato al consigliere su richiesta di quest'ultimo, dichiarante di avere bisogno degli atti per utilità del mandato.
Nessuna conseguenza neppure sul piano processuale per la cittadina che ha usato la dia ricevuta dal consigliere: avere avuto gli atti per vie traverse non ne compromette l'utilizzabilità in giudizio, materia su cui l'unico competente è il giudice (e non il Garante della privacy)
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2019).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIPer beni e servizi affidamenti diretti con incognita. Doppia interpretazione per le procedure semplificate sotto-soglia.
La nuova disciplina delle procedure di affidamento per l’acquisizione di beni e servizi di valore inferiore alle soglie Ue può essere interpretata in due modi, mettendo in difficoltà le stazioni appaltanti.
La nuova formulazione dell’articolo 36, comma 2, lettera b), del codice dei contratti pubblici, dettata dalla legge 55/2019, estende ai lavori nella fascia tra i 40mila e i 150mila euro l’affidamento diretto, facendolo precedere dalla valutazione di tre preventivi. Ma il testo della norma non è altrettanto chiaro per la definizione dei percorsi relativi all’affidamento di appalti di forniture e di servizi, determinando rilevanti difficoltà operative per le amministrazioni.
La nuova norma stabilisce che per affidamenti di importo pari o superiore a 40mila euro, e inferiore a 150mila euro per i lavori o alle soglie dell’articolo 35 del Codice per le forniture e i servizi, le stazioni appaltanti procedono mediante affidamento diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti, per i lavori; per i servizi e le forniture, la valutazione deve riguardare almeno cinque imprese individuate sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti. L’ultimo periodo della lettera b) riformulata conserva peraltro la vecchia disposizione, per cui l’avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati.
La prima interpretazione (riscontrabile anche nel dossier della Camera sulla legge di conversione del Dl 32/2019) estende l’utilizzo dell’affidamento diretto anche agli affidamenti di beni e servizi, differenziandoli dalla disciplina dei lavori per il maggior numero degli operatori economici da coinvolgere (cinque) nella consultazione e per le modalità della loro individuazione, in quanto devono essere selezionati con un’indagine di mercato (sollecitabile con avviso pubblico) o estratti da elenchi già formati.
A sostegno di questa tesi potrebbe porsi anche la modifica dell’articolo 32, comma 2 del Codice, che ora stabilisce la possibilità di formalizzare l’affidamento diretto con un atto unico (con sintesi del percorso) esplicitando il riferimento sia alla lettera a) sia alla lettera b) dell’articolo 36, comma 2.
Una simile interpretazione amplierebbe moltissimo lo spazio operativo in cui le stazioni appaltanti possono concretizzare gli affidamenti senza vere e proprie procedure di confronto competitivo, perché più volte la giurisprudenza ha chiarito che la richiesta di preventivi comporta l’attivazione di varie trattative parallele, ma non una comparazione coordinata in base all’applicazione di un criterio di valutazione specifico.
Ma una seconda interpretazione della nuova norma si lega alla distinzione tra la frase che connette l’affidamento diretto agli appalti di lavori e quella che invece regola i percorsi per il coinvolgimento degli operatori economici nell’acquisizione di beni e servizi, che sarebbe retta solo dalle parole che esplicitano l’obbligo di valutazione dei cinque soggetti.
Questa ipotesi configurerebbe la valutazione come una procedura di confronto competitivo, sostenuta dalla precisazione che all’affidamento di forniture e servizi si applica il principio di rotazione degli inviti, richiedendo quindi una formalizzazione della competizione degli operatori economici. A questa mini-gara la stazione appaltante applicherebbe il criterio del minor prezzo o dell’offerta economicamente più vantaggiosa, secondo la nuova prefigurazione per il sottosoglia data dal comma 9-bis dell’articolo 36.
L’incertezza del nuovo quadro normativo richiede un intervento interpretativo urgente, che consenta alle stazioni appaltanti di avere elementi certi per sviluppare le procedure di acquisto di beni e servizi nella fascia compresa tra i 40mila euro e le soglie Ue (221mila euro per beni e servizi vari, 750mila euro per servizi sociali e altri servizi compresi nell’allegato IX), e ai gestori di mercati telematici di adeguare le piattaforme (attualmente strutturate in questa fascia come confronti competitivi in forma di gara) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2019).

APPALTIForniture, affidamenti limitati. Procedura negoziata sopra i 40 mila euro di valore. Solo i lavori (fi no a 150 mila euro) possono essere affi dati previa acquisizione dei preventivi.
Niente affidamenti diretti per forniture e servizi di valore superiore ai 40 mila euro e fino alla soglia comunitaria.
La riscrittura dell'articolo 36, comma 2, lettera b), del codice dei contratti operata dal decreto sblocca-cantieri genera non poca confusione e potrebbe indurre le amministrazioni a ritenere che basti acquisire 5 preventivi per acquistare un bene o ordinare un servizio.
Il nuovo testo della norma è il seguente: «per affidamenti di importo pari o superiore a 40 mila euro e inferiore a 150 mila euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante affidamento diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti, per i lavori, e, per i servizi e le forniture, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti. I lavori possono essere eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto salvo l'acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica comunque la procedura di cui al periodo precedente. L'avviso sui risultati della procedura di affidamento contiene l'indicazione anche dei soggetti invitati».
Rispetto al precedente testo è sparito l'espresso riferimento alle procedure negoziate e rimane solo, invece, l'inciso secondo il quale l'aggiudicatario è individuato mediante appunto «affidamento diretto».
Tuttavia, questa espressione è espressamente riferita solo ai lavori: sono sicuramente i lavori compresi tra 40 mila euro e i 149.999 euro a poter essere assegnati previa acquisizione dei preventivi. Per quanto riguarda forniture e servizi, la previsione normativa regola una «previa valutazione», sì, ma non di «tre preventivi», bensì di «cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto del criterio di rotazione degli inviti».
Poiché la lettera b) novellata dell'articolo 36 per forniture e servizi richiede la valutazione non di preventivi, ma di «operatori economici», scelti sulla base delle indagini di mercato, è chiaro che pur mancando l'espresso riferimento alla procedura negoziata è esattamente una procedura negoziata quella che viene attivata.
Infatti, sul punto l'articolo 63, comma 6, è chiarissimo: «le amministrazioni aggiudicatrici individuano gli operatori economici da consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economica e finanziaria e tecniche e professionali desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e selezionano almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei».
Il richiamo della necessità di selezionare almeno 5 operatori economici, presente tanto nell'articolo 36, comma 2, lettera b) per forniture e servizi, quanto nell'articolo 63, comma 6, dimostra (pur nella laconicità della novella legislativa) che questi ultimi sono affidati necessariamente mediante procedura negoziata: altrimenti, non si comprenderebbe perché il legislatore abbia richiesto esattamente la soglia di «almeno» 5 operatori economici, per altro richiesta dalle direttive Ue per attivare le procedure negoziate.
Semmai, si pone un problema di coordinamento tra l'affidamento diretto mediante acquisizione di 3 preventivi per i lavori e l'ultimo periodo dell'articolo 36, comma 2, lettera b), ove si richiede la pubblicazione dell'avviso sui risultati della procedura di affidamento, stabilendo che contenga «l'indicazione anche dei soggetti invitati».
Propriamente, infatti, l'invito riguarda solo appunto la procedura negoziata per forniture e servizi, ma non i preventivi. L'affidamento diretto mediante tre preventivi non è una gara vera e propria, da tenere con una seduta nella quale aprire «offerte». Si tratta, invece, di una procedura del tutto informale, nella quale i preventivi sono acquisiti senza invito ad offrire: la stazione appaltante può negoziare distintamente con ciascun operatore economico
(articolo ItaliaOggi del 21.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALINomina del segretario comunale, le istruzioni della Prefettura di Milano ai sindaci neoeletti.
Con spirito di collaborazione, la Prefettura di Milano ha inviato ai Comuni della Regione Lombardia una nota di dettaglio (nota 18.06.2019 n. 128832 di prot.) sulla procedura di nomina dei segretari comunali venendo in aiuto ai neoeletti alle prese con una procedura dai passaggi complessi.
La figura del segretario comunale
La nomina del segretario comunale spetta ai sindaci. La Prefettura ha precisato che il datore di lavoro è il ministero dell'Interno cui compete la gestione dell'albo. I segretari comunali mantengono, pertanto, un rapporto gerarchico con il Viminale attraverso gli uffici regionali, salvo il caso dei segretari iscritti nella fascia A (ossia per sedi con popolazione superiore a 65.000 abitanti, capoluoghi di provincia o amministrazioni provinciali) la cui gestione è affidata a livello nazionale.
La procedura di nomina
La procedura di nomina del segretario, la cui durata coincide con quella del mandato del sindaco ma le cui funzioni cessano fino alla nuova nomina disposta dal sindaco neoeletto, prevede un termine massimo non superiore a 120 giorni dalla data di proclamazione degli eletti, passati inutilmente i quali il segretario si intende confermato. Nel caso in cui la decisione sia invece quella di nominare un nuovo segretario, il sindaco neoeletto dovrà inviare la richiesta agli uffici territoriali del ministero dell'Interno, dandone contestuale comunicazione al segretario uscente.
Ricevuta la comunicazione, gli uffici territoriali del ministero dell'Interno procederanno alla pubblicazione dell'avviso sul proprio sito istituzionale (www.ageziasegretari.it) per una durata di dieci giorni durante i quali i segretari, che ambiscono a ricoprire l'incarico, faranno pervenire al sindaco una comunicazione d'interesse alla copertura della sede allegando il proprio curriculum vitae.
Una volta scaduto il termine di pubblicazione dell'avviso, il sindaco, con proprio provvedimento, indicherà il segretario che intende nominare dandone comunicazione all'ufficio (regionale o nazionale nel caso di nomina di segretario di fascia A) per l'assegnazione. Spetterà all'ufficio che riceve il provvedimento sindacale di individuazione, effettuare i controlli di corrispondenza tra i requisiti richiesti e quelli posseduti dal segretario individuato e, in caso di esito positivo, assegnare il segretario alla sede comunale.
Dalla ricezione della comunicazione dell'assegnazione disposta dal ministero, nell'arco temporale che inizia con il termine minimo di 60 giorni e massimo di 120 dal suo insediamento, il sindaco dovrà adottare il provvedimento conclusivo di nomina indicando il termine al nuovo segretario per l'assunzione in servizio, dandone comunicazione all'Ufficio territoriale del ministero e al segretario nominato per l'accettazione dell'incarico.
In merito alla data indicata per l'assunzione in servizio, precisa la Prefettura milanese, come questa potrà anche essere successiva alla scadenza del termine massimo dei 120 giorni. Una volta individuato il segretario in via definitiva, quest'ultimo dovrà comunicare la sua accettazione anche indicando una data successiva di presa di servizio chiedendone eventualmente la proroga. Infine, l'ultimo adempimento da parte del sindaco è quello di comunicare agli uffici territoriali del ministero la data di effettiva presa di servizio del segretario.
Ulteriori precisazioni
In ultimo la nota della Prefettura chiarisce alcuni aspetti della procedura di nomina. In particolare nel caso di assenza del segretario titolare, ossia in presenza del posto vacante, la procedura di nomina resta identica con la sola eccezione del non necessario rispetto del termine minimo dei 60 giorni.
Inoltre, anche in caso di non conferma del segretario titolare, il sindaco non potrà nominare un reggente ma sarà obbligato ad attendere la conclusione della procedura (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti controllati e tutelati. Impianti video-biometrici rispettando la proporzionalità. I limiti imposti dalla normativa sulla privacy alla nuova legge contro i furbetti della p.a..
Controlli video-biometrici dei dipendenti pubblici con le dovute garanzie per chi non è un furbetto.

La lotta senza quartiere agli assenteisti non deve fare vittime del fuoco amico. E tutto ciò significa che il ddl contro l'assenteismo nelle pubbliche amministrazioni (noto come «Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo», approvato definitivamente dal senato il 12 giugno scorso) richiede, comunque, un apparato di garanzie, da costruire con i provvedimenti attuativi e con gli adempimenti a carico delle p.a. imposti dalla normativa sulla privacy (il regolamento Ue 2016/679 o Gdpr e il codice della privacy).
Vediamo di illustrare tutti i passaggi.
Le amministrazioni interessate devono introdurre, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e della dotazione del fondo appositamente stanziato dalla legge in esame, sistemi di verifica biometrica dell'identità e di videosorveglianza degli accessi, in sostituzione dei diversi sistemi di rilevazione automatica, attualmente in uso. La norma, da un punto di vista letterale, si riferisce contemporaneamente sia ai sistemi di verifica biometrica sia agli impianti di videosorveglianza. Peraltro questa prescrizione deve essere letta nel contesto del rispetto del principio di proporzione. L'unica maniera per introdurre una opzione tra la videosorveglianza e l'uso della biometria è quella di sostenere che comunque prevale il principio di proporzionalità (richiamato dalla stessa legge) e che, quindi, si deve ricorrere al doppio sistema solo dove è effettivamente necessario.
Si ritiene che le compatibilità economiche (e quindi la ponderazione delle spese a carico dell'erario: il fondo stanziato per il 2019 è di 35 milioni di euro) sia un elemento da considerare e che porta a basare la possibilità di una (pur antiletterale) considerazione disgiunta delle telecamere e dei dispositivi di controllo dei dati biometrici.
L'installazione e l'uso degli impianti video-biometrici dovrà avvenire nel rispetto dei princìpi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità sanciti dall'articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento (Ue) 2016/679, e del principio di proporzionalità previsto dall'articolo 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Questa è la clausola di salvezza che l'articolo 2 della legge in esame formula per allineare se stesso alla prevalente normativa europea direttamente applicabile in Italia.
Il problema, qui, è che le norme del regolamento Ue sono state scritte per indicare ai titolari di trattamento di effettuare analisi caso per caso, sulla base delle quali capire se effettuare un certo trattamento e, in caso positivo, come farlo.
Una delle parole chiave, a questo proposito, è «minimizzazione»: si deve trattare solo ed esclusivamente il numero minimo dei dati necessari per raggiungere le finalità. In teoria, allora, è incompatibile con un'impostazione di questo tipo, caso per caso, come si è detto, una norma che a tappeto prescrive un certo trattamento, senza considerazione dei diversi contesti e del diverso grado di rischio.
Un altro ragionamento mette in rilievo che viene richiamata una norma di principio (l'articolo 5), che ha generato all'interno del regolamento Ue disposizioni di dettaglio. Allora ci si deve chiedere se devono essere rispettate (perché il trattamento sia legittimo) anche queste norme di dettaglio. Per esempio per i trattamenti a rischio elevato il regolamento Ue prevede che il titolare del trattamento debba valutare se scrivere una valutazione di impatto privacy (articolo 35) o se debba chiedere la consultazione preventiva del Garante.
Sempre, per passare in rassegna alcuni adempimenti dettagliati, inquadrabili nella cornice dei principi generali, l'articolo 36 del regolamento Ue dà facoltà al legislatore nazionale di prevedere casi di trattamenti effettuati nel pubblico interesse per i quali sia obbligatorio chiedere al Garante della privacy un'autorizzazione preliminare: da questa disposizione si è originato l'articolo 2-quinquiesdecies, del codice della privacy (dlgs 196/2003), ai sensi del quale il Garante prescrive misure e accorgimenti a garanzia dell'interessato, che il titolare del trattamento è tenuto ad adottare.
La risposta al quesito (se si devono rispettare le norme di dettaglio scaturite dalle norme di principio del regolamento Ue) non può che essere positiva, altrimenti avremmo una non consentita deroga al regolamento Ue sulla protezione dei dati. Ma se è così, allora avrà decisiva importanza capire che cosa devono fare ora le amministrazioni pubbliche.
Qui bisogna distinguere la videosorveglianza e i sistemi biometrici. Per i sistemi biometrici l'articolo 2 della legge in esame sicuramente individua quale atto di attuazione un decreto del presidente del consiglio dei ministri, su proposta del ministro per la pubblica amministrazione, da adottare, previa intesa in sede di Conferenza unificata stato-regioni, e previo parere del Garante per la protezione dei dati personali.
Questo decreto del capo del governo deve dettagliare le modalità di trattamento dei dati biometrici, nel rispetto dell'articolo 9 del regolamento (Ue) 2016/679 e delle misure di garanzia definite dal predetto Garante, ai sensi dell'articolo 2-septies del codice della privacy.
Quindi, per far partire il controllo biometrico dell'osservanza dell'orario di lavoro, ci vuole un Dpcm e questo decreto deve rispettare l'articolo 9 del regolamento Ue e anche un provvedimento del Garante (misure di garanzia).
Per rispettare l'articolo 9 del regolamento Ue occorre, in primo luogo, che la legislazione nazionale specifichi «misure appropriate e specifiche» a tutela dei diritti del singolo.
Sempre per rispettare l'articolo 9, ma stavolta il paragrafo 4, del regolamento Ue occorre che il futuro Dpcm si uniformi alle misure di garanzia che verranno adottate dal Garante (articolo 2-septies del Codice della privacy).
In particolare, queste misure di garanzia individueranno le misure di sicurezza, comprese quelle tecniche di cifratura e di pseudonomizzazione, le misure di minimizzazione, le specifiche modalità per l'accesso selettivo ai dati e per rendere le informazioni agli interessati, nonché le eventuali altre misure necessarie a garantire i diritti degli interessati.
Quindi, per i dati biometrici, occorre attendere il provvedimento del Garante sulle misure di garanzia e poi il Dpcm.
Non è, invece, chiarissima la lettera dell'articolo 2, comma 1, ultimo periodo e, quindi, non è chiaro se ci voglia un decreto del presidente del consiglio dei ministri anche con riferimento alla videosorveglianza: ma la simmetria degli istituti fa propendere per la risposta affermativa.
Accantonando per un attimo la questione se l'intera legge sia compatibile con il quadro europeo (nella parte in cui è direttamente applicabile in Italia e prevalente sull'ordinamento interno), questione sollevata dal Garante delle privacy, accantonando tutto ciò, va comunque rilevato che le precauzioni delle disposizioni attuative dovranno essere in grado di elevare uno scudo protettivo a favore di chi non è un «furbetto del cartellino».
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Il Garante: impronte solo quando servono.
I controlli sono eccessivi. Il doppio regime (registrazioni biometriche e ripresa delle immagini) non rispetta il principio di proporzionalità. Lo ha denunciato più volte il Garante della privacy, numeri alla mano. Agli atti è la memoria del Garante presentata nel corso dei lavori parlamentari, in cui si richiamano le statistiche sui procedimenti disciplinari: stando a queste solo il 10% dei provvedimenti di licenziamento disciplinare adottati nel 2018 derivano da accertamento in flagranza di falsa attestazione della presenza in servizio. Sono 89, metà dei quali definiti con altro tipo di provvedimento, in alcuni casi anche per mutata contestazione.
Secondo il Garante queste cifre non giustificano le rilevazioni biometriche in tutte le pubbliche amministrazioni.
Certo è doveroso battere l'assenteismo e la falsa attestazione della presenza in servizio, ma il Garante si chiede se non sia altrettanto doveroso fare prima ricorso a misure meno limitative e utilizzare i sistemi di rilevazione biometrica, solo in presenza di fattori di rischio specifici.
Inoltre, secondo il Garante le misure attuative, di mitigazione dell'impatto invasivo del doppio controllo, potrebbero non essere sufficienti. Anche in caso di uso di tecnologie basate su applicazioni e software nella disponibilità del dipendente, sarebbe comunque necessario individuare i soggetti legittimati a trattare i dati rilevati e le puntuali condizioni di utilizzo, nonché le garanzie idonee a evitare accessi abusivi o data breach.
Tutto ciò, conclude il Garante, dunque, è necessario, ma potrebbe non bastare a sopperire al deficit di proporzionalità insito nella norma, che introduce sistemi di verifica biometrica dell'identità e di videosorveglianza degli accessi obbligatori a prescindere da qualsiasi esigenza concreta e specifica.
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Verificabile l'osservanza degli orari di lavoro.
I trattamenti video-biometrici devono essere utilizzati per la verifica dell'osservanza dell'orario di lavoro. La verifica dell'osservanza di lavoro, peraltro, riguarda sia gli accessi all'inizio della giornata lavorativa, sia le uscite e, quindi, la presenza fisica in servizio presso i locali dove si deve svolgere la prestazione.
La finalità è limitata e ristretta. Sarà oggetto di discussione davanti a un giudice se le riprese possano essere utilizzate per contestazioni disciplinari diverse dall'inosservanza dell'orario di lavoro. Sono interessati dalla nuova legge tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, eccetto il personale in regime di diritto pubblico e di lavoro agile.
È escluso anche il personale docente ed educativo degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative. I dirigenti dei medesimi istituti, scuole e istituzioni sono soggetti ad accertamento esclusivamente ai fini della verifica dell'accesso, secondo modalità che saranno stabilite, con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione. Più in generale, tutti gli altri dirigenti delle amministrazioni pubbliche sono inclusi nell'ambito di applicazione dei nuovi sistemi (articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., controlli a prova di privacy. Verifica video-biometrica con valutazione d’impatto. Gli scenari dopo l’approvazione della legge contro l’assenteismo negli uffici pubblici.
Mole di adempimenti per far decollare il doppio controllo video-biometrico sull'accesso al lavoro dei dipendenti pubblici. Ci vuole, senz'altro, un decreto del presidente del consiglio dei ministri, ma probabilmente ci vuole anche una valutazione di impatto privacy e, per i dati biometrici ci vogliono le misure di garanzia, previste dall'articolo 2-septies codice della privacy.
Il contrasto dell'assenteismo dei dipendenti pubblici, divenuto legge a seguito di approvazione da parte del senato il 12.06.2019, nel passare dall'articolato generale e astratto alla esecuzione, deve fare i conti con un quadro molto complesso (si veda ItaliaOggi di ieri). Tutto ciò per impedire, anche, che l'impianto possa essere disapplicato da un giudice in una singola causa per contrarietà con il regolamento Ue 2016/679 sulla protezione dei dati.
Se la ratio della legge è, infatti, la lotta all'assenteismo, il piano applicativo deve tenere conto di tutte le variabili ordinamentali. Le misure approvate impongono l'installazione di sistemi di verifica biometrica dell'identità e di videosorveglianza degli accessi per controllare l'osservanza dell'orario di lavoro da parte dei dipendenti di tante (non tutte) amministrazioni pubbliche. La norma pretende esplicitamente il rispetto dei princìpi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità sanciti dall'articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento Ue 2016/679 e del principio di proporzionalità previsto dall'articolo 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Il richiamo di tali disposizioni serve a precisare lo scopo della legge, che non è e può essere la raccolta massiva dei dati dei dipendenti, ma, appunto, la lotta a chi aggira i doveri di dipendente pubblico. La norma prosegue rinviando le modalità attuative a un decreto del presidente del consiglio dei ministri, previo parere del Garante privacy. In materia non bisogna dimenticare, però, che il regolamento Ue, per i trattamenti a rischio elevato, prescrive di redigere una valutazione di impatto privacy e che l'articolo 2-quinquiesdecies del Codice della privacy, sempre per i medesimi trattamenti connotati dal livello elevato di rischio, prevede, poi, che il Garante adotti provvedimenti di carattere generale, contenenti misure e accorgimenti.
Per i dati biometrici, inoltre, sulla scia dell'articolo 9, paragrafo 4, del Regolamento Ue, l'articolo 2-septies del Codice della privacy prevede l'adozione, da parte del Garante, di misure di garanzia, in particolare quando i dati biometrici sono utilizzati per l'accesso fisico da parte dei soggetti autorizzati al trattamento (tra cui i dipendenti delle pubbliche amministrazioni). Tali passaggi sono da valutare attentamente per scongiurare il rischio di disapplicazione delle norme per contrasto con il regolamento Ue 2016/679 (e questo potrebbe farlo anche un singolo giudice).
A questo proposito il Garante ha sottolineato che l'obbligatorio impiego contestuale di due sistemi di verifica del rispetto dell'orario di lavoro (raccolta di dati biometrici e videosorveglianza) rischia di eccedere i limiti imposti dalla stretta necessità del trattamento. Inoltre, il Garante ha giudicato sproporzionata l'introduzione sistematica, generalizzata e indifferenziata per le p.a. di sistemi di rilevazione delle presenze tramite identificazione biometrica, che, però, possono essere utilizzati, però, in presenza di fattori di rischio specifici, qualora soluzioni meno invasive debbano ragionevolmente ritenersi inidonee allo scopo.
A questo punto tocca a chi scriverà le prescrizioni attuative della legge far collimare lo scopo della norma con un quadro di garanzie, le quali non devono essere il nascondiglio per il trasgressore, ma l'àncora per chi adempie ai propri doveri contrattuali. Bisognerà dimostrare, per fare un esempio, che il principio di proporzionalità della ripresa di immagini e impronte, riaffermato nella legge, venga, caso per caso, soddisfatto con riferimento a diversi contesti geografici e di settore di attività (articolo ItaliaOggi del 14.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBastone e carota nella p.a.. Impronte digitali contro i furbetti. Assunzioni più facili. Approvato il ddl concretezza. Bongiorno: ricambio generazionale grazie al turnover.
Stretta sui furbetti del cartellino che verranno stanati grazie alle impronte digitali (controlli biometrici). Ricambio generazionale nella p.a. grazie al turnover al 100% e ad assunzioni mirate in settori strategici (digitalizzazione, fondi strutturali, semplificazioni, contratti, gestione finanziaria). Concorsi pubblici più veloci, visto che le procedure potranno essere avviate anche senza preventiva autorizzazione, nel limite massimo dell'80% delle facoltà di assunzione maturate (cosiddetta Scia delle assunzioni). Mobilità verso il settore privato estesa a tutti i dipendenti pubblici (e non più limitata ai soli dirigenti). E una task force ministeriale (il cosiddetto «Nucleo per la concretezza») che andrà in loco negli enti in difficoltà per accompagnarli nell'attuazione delle riforme e nel miglioramento dei servizi.
Sono le novità principali introdotte dal ddl concretezza (Atto Senato n. 920-B) approvato ieri in via definitiva (con 135 sì, 104 no e 3 astenuti) dal senato che in terza lettura ha dato il via libera al testo già modificato dalla camera dei deputati ad aprile (si veda ItaliaOggi dell'11 aprile).
Il disegno di legge del ministro per la pubblica amministrazione Giulia Bongiorno conferma la disciplina più stringente per il controllo delle presenze nei luoghi di lavoro attraverso le rilevazioni biometriche (impronte digitali) dei dipendenti e l'utilizzo di nuovi sistemi di videosorveglianza. Saranno esclusi dal controllo (ed è la grande novità introdotta nel passaggio a Montecitorio) i docenti e il personale educativo della scuola, mentre per i dirigenti scolastici resta la verifica della presenza negli istituti, secondo modalità che verranno stabilite da un decreto ad hoc della Funzione pubblica di concerto con il Miur.
«Con l'approvazione in via definitiva del ddl concretezza, la p.a. avrà nuovi e preziosi strumenti per garantire i migliori servizi per cittadini e imprese. Ogni articolo reca un cambiamento profondo», ha osservato Bongiorno. «Con i controlli biometrici diciamo finalmente addio ai furbetti del cartellino, che truffano i colleghi e lo Stato. La videosorveglianza e la rilevazione delle impronte digitali contro le false attestazioni della presenza in ufficio rappresentano una misura davvero rivoluzionaria. Ci saranno poi assunzioni e reclutamento mirato per dare linfa a tutte le amministrazioni».
Turnover al 100%, assunzioni più facili e in settori mirati. In materia di assunzioni si prevede che le amministrazioni dello stato (anche ad ordinamento autonomo), le agenzie e gli enti pubblici non economici possano procedere, a decorrere dal 2019, a immissioni in ruolo a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale corrispondente a una spesa pari al 100% di quella relativa alle cessazioni dell'anno precedente.
Le amministrazioni dovranno predisporre piani triennali di fabbisogno di personale, tenendo conto dell'esigenza di ricambio generazione, e potranno essere autorizzate all'avvio dei concorsi e relative assunzioni nel triennio 2019-2021. In via prioritaria dovranno essere reclutate figure professionali con «elevate competenze» in materia di: digitalizzazione, razionalizzazione e semplificazione dei processi e dei procedimenti amministrativi, qualità dei servizi pubblici, gestione dei fondi strutturali, contrattualistica pubblica, controllo di gestione, contabilità e gestione finanziaria.
 Assumere i vincitori di concorso o procedere allo scorrimento delle graduatorie, così come avviare nuove procedure concorsuali, sarà più facile, visto che le procedure potranno essere avviate anche senza preventiva autorizzazione nel limite massimo dell'80% delle facoltà di assunzione maturate. Tutti gli statali potranno chiedere di essere collocati in aspettativa senza stipendio per maturare esperienze lavorative in organismi pubblici o privati. Se la mobilità è verso il privato, l'aspettativa sarà al massimo di cinque anni e potrà essere rinnovata una volta. Per chi invece vorrà avviare attività professionali e imprenditoriali, l'aspettativa durerà 12 mesi e sarà anch'essa rinnovabile una volta sola.
«Investiremo nell'asset più importante: i lavoratori. Daremo una chance a quei giovani eccellenti che oggi fuggono all'estero e assumeremo in via preferenziale profili tecnico-manageriali, di cui la p.a. è oggi priva», ha commentato il sottosegretario alla p.a. Mattia Fantinati
(articolo ItaliaOggi del 13.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA - VARILa Scia solo se si paga l’Imu. Comuni potranno condizionare il rilascio delle licenze. Novità in un emendamento approvato al decreto crescita in commissione VI della camera.
Fedeltà fiscale per avere una Scia, segnalazione certificata di inizio attività.
Gli enti locali prima di rilasciare licenze, concessioni o relativi rinnovi per attività commerciali o produttive possono disporre, con un regolamento che questo rilascio o rinnovo sia dato a condizione che sia verificata la regolarità del pagamento dei tributi locali.

La novità è contenuta in un emendamento al decreto crescita (Atto Camera n. 1807), approvato in commissione finanze della Camera il 10 giugno scorso. Ieri i lavori della commissione finanze, sul provvedimento, si sono fermati per riprendere e concludersi oggi con l'approvazione degli emendamenti dei relatori e il deposito di un ultimo emendamento, sempre a firma dei relatori, sulle casse di previdenza e l'inserimento nell'Inpgi, istituto di previdenza dei giornalisti dei comunicatori.
Oltre la disposizione sul rilascio dei nulla osta all'apertura dei negozi, condizionato al corretto versamento delle imposte locali, dunque, è stata approvata la conferma delle agevolazioni Imu per le società agricole.
Lo scopo della norma interpretativa è conseguente al mancato riconoscimento della agevolazione in materia di Imu.
Novità anche per le società di investimento semplice (Sis), introdotte nel decreto crescita. In una delle modifiche proposte si apre alla possibilità di investimento in tale veicolo anche agli investitori non professionali. Per la relazione di accompagnamento all'emendamento si introdurrebbe un'ulteriore semplificazione.
In tal senso, la semplificazione permetterebbe l'afflusso di ulteriori capitali verso questo nuovo tipo di veicolo e, di conseguenza, verso l'ecosistema italiano di startup e Pmi innovative.
Via libera, poi, a un emendamento che proroga al 30.06.2020 i termini per l'adeguamento degli statuti delle bande musicali alle disposizioni del Codice del Terzo settore.
Infine a firma del vice presidente della commissione finanze della camera Alberto Gusmeroli arrivano agevolazioni per l'apertura di nuovi negozi in comuni con abitanti al di sotto dei ventimila abitanti. Zero tasse locali al rispetto di determinate condizioni. In particolare le agevolazioni consistono nell'erogazione di contributi per l'anno nel quale avviene l'apertura o l'ampliamento degli esercizi e per i tre anni successivi. La misura del contributo è rapportata alla somma dei tributi comunali dovuti dall'esercente e regolarmente pagati nell'anno precedente a quello nel quale è presentata la richiesta di concessione, fino al 100% dell'importo.
Per il comodato d'uso arriva una semplificazione: va in soffitta la dichiarazione con cui si attestano i requisiti per gli immobili concessi in comodato d'uso. Il soggetto passivo è, dunque, esonerato dall'attestazione del possesso del requisito mediante il modello di dichiarazione, nonché da qualsiasi altro onere di dichiarazione o comunicazione.
Infine novità per gli enti locali, le cui deliberazioni tariffarie dal 2020 dovranno essere comunicate al Dipartimento delle finanze, esclusivamente per via telematica, mediante inserimento del testo delle stesse nell'apposita sezione del portale del federalismo fiscale
(articolo ItaliaOggi del 13.06.2019).

PATRIMONIO: Slitta l'adeguamento antincendio.
Nuovo stop all'emendamento sull'adeguamento degli edifici scolastici alla normativa antincendio. Il correttivo non è stato recepito nel decreto sblocca cantieri, ufficialmente per un ritardo nella relazione tecnica.
Non è la prima volta che tutto si conclude in un nulla di fatto. Già con il decreto semplificazioni si era tentato di introdurre un correttivo per consentire un atterraggio morbido per i molti edifici che oggi non hanno un certificato di prevenzione incendi in regola. In quella sede, era stata presentata una proposta per consentire di definire un piano triennale di interventi per il periodo 2019-2021 nell'ambito della programmazione triennale nazionale in materia di edilizia scolastica, sancendo, nell'attesa che il piano venisse definito, l'adeguamento una proroga al 31.12.2021 per le scuole e al 31.12.2019 per gli asili nido.
Anche stavolta, come allora, la strada è stata sbarrata, apparentemente per ragioni puramente tecniche. Ora la materia dovrebbe essere regolata da un disegno di legge, il cui primo firmatario, Stefano Patuanelli (M5S), garantisce conterrà «un corposo piano triennale per fare sì che si possano realizzare i dovuti adeguamenti in tutti i plessi scolastici dello Stivale predisponendo naturalmente le risorse necessarie».
È auspicabile che tale provvedimento veda la luce al più presto e comunque in tempo utile per consentire le aperture delle scuole per il prossimo anno scolastico, visto che attualmente i termini per l'adeguamento sono già scaduti il 31.12.2018. A regime, tutte le scuole dovranno essere dotate del Cpi (che dal 2011 è diventato Segnalazione certificata inizio attività - Scia antincendio) e dovranno rispettare le disposizioni delle «Norme di prevenzione incendi per l'edilizia scolastica» (Dm 26.08.1992) o, in alternativa, delle «Norme tecniche di prevenzione incendi per le attività scolastiche» (Dm 07.08.2017). Per gli asili nido, valgono i requisiti previsti dall'articolo 6, comma 1, lettera a), del dm 16.07.2014 (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2019).

VARISì al licenziamento su Whatsapp. Basta rispettare la forma scritta. Non prevista la notifica. Il caso Mercatone Uno in giurisprudenza: mail e sms come il vecchio telegramma per telefono.
Ebbene sì: è possibile essere licenziati via Whatsapp, anche se non è affatto bello apprendere dalla chat di aver perso il posto. A riaprire la questione sulle modalità del recesso aziendale è il caso Mercatone Uno: 1.800 lavoratori vengono mandati a casa con una semplice notifica push sullo smartphone nella notte tra il 24 e il 25 maggio. Ma il punto è proprio che la legge non impone alle aziende una vera propria notifica del provvedimento, mentre ritiene sufficiente la «comunicazione», a patto che avvenga per iscritto: conta insomma la volontà del datore, non il supporto utilizzato.
È quanto emerge dalla giurisprudenza in materia, finora solo di merito: sul punto non risulta ancora intervenuta la Cassazione, che comunque ha dato via libera al benservito via mail e sms.
Volontà inequivoca. È vero: la forma scritta del licenziamento viene richiesta a pena d'inefficacia del provvedimento. Ma l'azienda deve ritenersi libera di utilizzare la chat verde o l'ormai superato short message service per annunciare la riduzione di personale perché la legge non prevede formule sacramentali, vale a dire non impone precise modalità per la comunicazione.
È quanto emerge dalla sentenza n. 3012/2018, pubblicata dalla Sez. lavoro del Tribunale di Roma.
Bocciata la domanda d'inefficacia del provvedimento espulsivo. La comunicazione di recesso effettuata via sms o whatsapp dal datore soddisfa la forma scritta in quanto assimilabile al vecchio telegramma telefonico. Ed è la giurisprudenza di legittimità a stabilire che la forma scritta per il licenziamento ben possa essere integrata da un telegramma in presenza di sottoscrizione da parte del mittente dell'originale consegnato all'ufficio postale oppure della consegna da parte del mittente (articolo 2705 cc).
Idem vale per la chat verde: il benservito via Whatsapp risulta legittimo in quanto la volontà di recesso risulta comunicata per iscritto al dipendente in maniera inequivoca. E lo dimostra il fatto che il provvedimento espulsivo viene impugnato, segno che il lavoratore imputa con certezza al datore la provenienza del documento informatico.
Dominio e controllo. Spesso è proprio la reazione del licenziato a risultare dirimente. In generale i negozi giuridici sono a forma libera: non conta dunque il supporto cui l'azienda affida «la comunicazione» al dipendente in cui annuncia il taglio del posto. D'altronde la dichiarazione recettizia si presume conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario. E per stabilire se esiste un titolo in base al quale il rapporto è cessato il giudice può utilizzare tutto il materiale probatorio agli atti, indipendentemente dalla provenienza: si può allora escludere la sussistenza del licenziamento orale a partire dagli stessi documenti prodotti dal lavoratore.
È quanto emerge dalla sentenza 23.04.2018 dalla Sez. lavoro della Corte di appello di Roma.
Rigettato il reclamo della lavoratrice, confermato il no a reintegra e risarcimento proprio perché manca la prova del licenziamento verbale. È la stessa dipendente a produrre in giudizio la stampata della chat su whatsapp. Dalla conversazione online emerge che il datore mittente esprime la volontà di non ricevere la prestazione lavorativa («ci riserviamo noi di contattarti»).
Ed è sempre la lavoratrice ad ammettere che il messaggio proviene dal socio amministratore della snc. Per il resto si rimanda a pregressi colloqui, che riguardano questioni personali e non lavorative. Il tutto va interpretato in senso complessivo e secondo buona fede: non emerge l'allontanamento orale della lavoratrice, peraltro non riscontrata dalla prova testimoniale in primo grado. E manca una censura ad hoc contro la statuizione del tribunale.
Il giudice è chiamato ad accertare se l'oggettiva stasi del rapporto deriva da una causa che risulta idonea a scioglierlo, ma a negare l'esistenza del presunto licenziamento orale è la stessa prospettazione dei fatti di causa operata dalla lavoratrice. Il recesso via whatsapp deve ritenersi efficace perché rispetta la forma di legge: l'articolo 2 della legge 604/1966, infatti, non usa il termine «notificazione», più tecnico rispetto a «comunicazione», come modalità procedimentalizzata di trasmissione dell'atto; basta insomma che il destinatario sia informato dell'atto e l'applicazione di messaggistica può essere considerata un luogo che risulta in concreto nella sfera di dominio e controllo del lavoratore, che può conoscerne il contenuto.
Ricorso inammissibile. È così ad esempio che decade dall'impugnativa il dipendente licenziato su whatsapp perché spira il termine introdotto dal collegato lavoro: valido il provvedimento in quanto è chiara la volontà del datore e inammissibile risulta il ricorso proposto a più di sessanta giorni dal mancato accordo di conciliazione.
È quanto emerge dall'ordinanza 27.06.2017 pubblicata dalla sezione lavoro del tribunale di Catania.
Il lavoratore destinatario imputa sicuramente al datore il documento informatico, tanto da adottare una tempestiva reazione. Ma se il tentativo di conciliazione è proposto rispettando i tempi, non può dirsi altrettanto per il deposito del ricorso: risulta infatti inutilmente scaduto il termine previsto dall'articolo 6, secondo comma, della legge 604/1966, come modificato dall'articolo 32 della legge 183/2010. Inutile poi sostenere che il provvedimento sia stato sottoscritto da un soggetto terzo come il direttore tecnico: la società ha confermato l'intenzione di mettere fine al rapporto.
Garanzia ridotta. Il dipendente, poi, deve stare attento a come a sua volta annuncia il licenziamento. E ciò perché il requisito della comunicazione per iscritto del provvedimento espulsivo deve ritenersi assolto con qualunque modalità che comporta la trasmissione all'interessato del documento nella sua materialità. È evidente che il lavoratore ha ricevuto la notizia se a sua volta manda mail ai colleghi in cui li informa che il suo rapporto con l'azienda è cessato.
A stabilirlo è stavolta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 29753/2017.
Deve rassegnarsi il lavoratore licenziato via mail per mancato superamento della prova. Nel periodo di «sperimentazione», peraltro, in base alla legge il datore non è tenuto a comunicare per iscritto il provvedimento espulsivo a meno che non siano già decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto. E la norma di cui all'articolo 10 della legge 604/1966 è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, mentre la garanzia generale di cui al brocardo scripta manent si applica soltanto quando l'assunzione diventa definitiva.
Nella specie, tuttavia, il contratto di assunzione prevede che il licenziamento durante la prova debba avvenire con «comunicazione scritta». E la posta elettronica mandata dall'azienda soddisfa i requisiti indicati dello strumento negoziale, mentre il datore dimostra che l'interessato ha ricevuto la comunicazione producendo i messaggi di posta elettronica che il lavoratore ha mandato per informare i colleghi.
Le mail «incriminate» risultano disconosciute troppo tardi dal lavoratore, dopo la celebrazione di due udienze. Resta confermata, dunque, la decisione secondo cui il licenziamento è comunicato oltre che intimato prima della scadenza della prova. L'azienda provvede anche per raccomandata: anche a ritenere avvenuta la comunicazione del provvedimento soltanto alla data di recapito, nel periodo fra la scadenza della prova alla consegna il lavoratore non svolge alcuna attività e, quindi, non supera il periodo di sperimentazione.
Ricezione negata. Attenzione, però: è nullo il licenziamento via Pec quando il datore manca di depositare la ricevuta di consegna. Il punto è che l'azienda riesce a dimostrare soltanto che ha inviato l'e-mail e, in via presuntiva, che in allegato vi fosse la lettera scannerizzata che annuncia il recesso: così non opera la presunzione di ricezione ex articolo 1335 cc e scatta invece la reintegra del dipendente perché si ricade nella fattispecie del licenziamento orale ex articolo 18, primo comma, dello statuto di lavoratori.
È quanto emerge dall'ordinanza 25.09.2018 pubblicata dalla Sez. lavoro del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
La società viene condannata a versare al lavoratore un'indennità di risarcimento pari all'ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino alla riammissione in servizio, al netto di quello che ha percepito presso il successivo datore. Il punto della questione non è il valore probatorio del messaggio Pec prodotto dal datore.
Nella specie il datore dimostra solo di aver spedito una mail in risposta alla richiesta di ferie del dipendente: dai documenti prodotti in giudizio si evince che c'è un allegato in formato «p7s». L'interessato riconosce come proprio l'account di posta elettronica, non certificato, cui l'azienda deduce di aver inviato la mail, ma nega recisamente di aver ricevuto il messaggio. È vero, il licenziamento come atto unilaterale recettizio si dà per noto all'interessato quando la comunicazione entra nella sfera di conoscenza del destinatario.
Ma la presunzione di cui all'articolo 1335 Cc non opera quando il datore dimostra il solo invio e non anche la ricezione della posta elettronica. Il datore, fra l'altro, neppure deposita la copia scansionata della lettera di recesso che sarebbe stata allegata alla Pec. Non gli resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2019).

ENTI LOCALISale da gioco a distanza dai luoghi vulnerabili. Tar Toscana: distanziometro da ospedali, giardini, stazioni.
Le sale da gioco sono tenute a rispettare le distanze minime dai luoghi sensibili, ma anche chi gestisce spazi potenzialmente «vulnerabili» è obbligato a verificare lo stesso requisito.
Dal Tar Toscana, riporta Agipronews, arriva un punto di vista inedito sull'annosa questione del «distanziometro» prevista dalla legge regionale contro la ludopatia e i suoi sviluppi a livello locale.
In questo caso si parte dal regolamento sui giochi approvato dal consiglio dell'Unione Valdera (un'unione di comuni della Toscana, in provincia di Pisa) a novembre 2018: il testo prevede almeno 500 metri di distanza tra sale da gioco e luoghi sensibili, come la legge regionale, ma rispetto a questa la lista di spazi «off limits» si è ulteriormente arricchita, includendo sportelli postali, biblioteche, musei, giardini pubblici, stazioni ferroviarie, terminal di autobus, ospedali, ambulatori medici e discoteche.
Il caso in questione riguarda proprio un «locale di pubblico spettacolo»: l'autorizzazione per l'apertura di una nuova discoteca a Casciana Terme Lari è stata negata dall'Unione Valdera per l'eccessiva vicinanza a una sala giochi già esistente. Una decisione legittima secondo il Tar: «Il regolamento per l'esercizio del gioco lecito -si legge nella sentenza- è volto alla tutela della salute delle fasce deboli, la quale verrebbe lesa dalla prossimità delle sale gioco rispetto ai luoghi maggiormente frequentati da soggetti potenzialmente al rischio di dipendenza dal gioco d'azzardo».
Di conseguenza, «per non eludere la finalità della disciplina, il rispetto della distanza minima tra i predetti luoghi deve essere reciproco, e quindi dovuto anche da parte di una nuova attività, aggregativa di soggetti potenzialmente vulnerabili, che pretenda d'insediarsi all'interno della fascia di rispetto».
Secondo il Tar, insomma, l'amministrazione non può imporre al gestore della sala giochi, già titolare di un'autorizzazione, «di spostare la propria attività per consentire l'insediamento della discoteca». Nel caso contrario verrebbe «irragionevolmente pregiudicato» il diritto del gestore «di svolgere liberamente la propria attività imprenditoriale già in precedenza assentita, oltre che disconosciuti i principi di certezza del diritto e di affidamento nella stabilità delle situazioni giuridiche».
I giudici, infine, confermano l'inclusione delle discoteche nell'elenco dei luoghi sensibili: «È evidente che queste costituiscono un luogo di aggregazione dei giovani, i quali peraltro vi consumano anche bevande alcoliche, essendo poi note le correlazioni tra l'assunzione di alcol e il minor controllo degli impulsi e quindi il maggior rischio di dipendenza dal gioco d'azzardo»
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2019).

SEGRETARI COMUNALISegretari comunali verso l’abolizione tacita del ruolo. È L’EFFETTO COMBINATO DELL’ATTO DI INDIRIZZO ALL’ARAN E DEL DECRETO CRESCITA.
Segretari comunali nella strettoia dello spoils system e di un'abolizione tacita del ruolo.
La combinazione tra l'atto di indirizzo rivolto dal Comitato di settore all'Aran e degli emendamenti al «decreto Crescita» aprono le porte ad un'espansione senza più limiti dello spoils system già pesantissimo, ma contestualmente apre surrettiziamente le porte all'abolizione della figura, tentata la scorsa legislatura con la riforma della dirigenza targata Madia, non andata mai in porto.
Revoca
L'atto di indirizzo, come evidenzia il Dipartimento segretari comunali del sindacato Fedir, oltre a ingerirsi in violazione della legge sul tema delle competenze dirigenziali assegnando al contratto l'inesistente ruolo di fonte di disciplina di poteri di revoca, contiene un altro grave vulnus normativo con riferimento alla revoca dei segretari comunali.
L'atto di indirizzo all'Aran dispone che «la disciplina contrattuale in materia di revoca del segretario deve essere coordinata con la disciplina contenuta nell'art. 100 del dlgs n. 267/2000». Tale ultima disposizione stabilisce che «il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per violazione dei doveri d'ufficio».
Tuttavia, la contrattazione collettiva certamente non ha alcuna legittima competenza ad intervenire sul tema della revoca. Come evidenzia il Dipartimento segretari della Fedir, l'atto di indirizzo in questo modo «crea un'indebita interferenza con l'inderogabile disciplina di legge fissata nell'art. 40 del Testo unico sul pubblico impiego», norma che sottrae totalmente alla competenza contrattuale «la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali». L'atto di indirizzo, da questo punto di vista, è affetto da un'illegittimità davvero plateale ed è parecchio strano che il dipartimento della Funzione Pubblica lo abbia fatto passare senza i doverosi rilievi.
L'intento di rafforzare lo spoils system, rendendo più facile la revoca, espressamente enunciato dall'atto di indirizzo, risulta evidentissimo.
Vicesegretari al posto dei segretari
L'attacco alla categoria dei segretario comunali, che significa lesione a una funzione di garanzia di legittimità dell'operato degli enti locali, è completato dall'emendamento presentato alla legge di conversione del dl 34/2019 il cui scopo è rimediare all'ormai cronica e gravissima carenza di segretari (cui consegue la scopertura di tre quarti quasi delle sedi di segreteria di quarta e terza classe), dovuta allo stallo ormai decennale dei concorsi.
L'emendamento, nelle more dell'immissione nell'albo dei segretari di ulteriori vincitori del concorso pubblico consente nelle regioni ove la carenza di segretari sia particolarmente elevata di attribuire le funzioni del segretario comunale nei comuni di classe IV e III la cui sede è vacante ai vicesegretari e di convenzionare le sedi di segreteria affidate ai vicesegretari.
Si tratta di un passaggio definitivo verso l'apertura dell'albo e l'eliminazione della figura dei segretari comunali. L'emendamento, infatti, consente di rendere stabile la copertura delle sedi di segreteria ai vicesegretari, funzionari che spessissimo non hanno sostenuto le complesse e lunghe procedure selettive e formative dei segretari comunali e che, ancora più sovente, sono scelti per via fiduciaria, in totale contrasto con le regole generali di autonomia dello staff amministrativo e della normativa anticorruzione.
Non sfugge certamente che l'emendamento consente ai sindaci l'opportunità di scegliersi il controllore di fiducia: infatti, sarà facilissimo per i reclutare i vice segretari mediante l'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000 e crearsi un controllore a misura del controllato.
Inoltre, considerando che i tempi e soprattutto la quantità di segretari reclutati tramite concorsi sono del tutto incompatibili con le esigenze dei comuni, è molto facile aspettarsi la stabilizzazione della copertura delle sedi di segreteria con funzionari di fiducia, esattamente come nel disegno della riforma Madia, rendendo a quel punto del tutto destinata a progressivo esaurimento la categoria dei segretari: le stabilizzazioni favoriranno senz'altro anche la progressiva copertura con funzionari non segretari comunali delle sedi di classe prima e seconda
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2019).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIncentivi tecnici, regolamenti da rifare.
Con l'abrogazione dal decreto sblocca-cantieri della norma che assegnava ai tecnici dipendenti pubblici gli incentivi alla progettazione, ingegneri e architetti liberi professionisti vincono l'ennesimo scontro. E aprono un altro giro di danza su uno dei compensi più travagliati della storia recente.
Con il codice degli appalti del 2016, i vecchi compensi Merloni spariscono a favore dei lavoratori a cui sono assegnate funzioni di programmazione e di controllo della spesa per opere, servizi e forniture.
La reazione dei progettisti interni alla Pa non si è fatta attendere. Dopo molti tentativi l' affondo è riuscito con il Dl 32/2013, che all'articolo 1, comma 1, lettera aa), al Codice degli appalti, fra le attività incentivate, sono state sostituite le fasi di programmazione e controllo con la progettazione e altre attività connesse. La modifica, per espressa previsione del comma 3, si applica alle gare i cui bandi o avvisi siano pubblicati dopo l'entrata in vigore del decreto (19.04.2019). In assenza di bandi o avvisi, si applica alle procedure per le quali alla stessa data non sono ancora stati spediti gli inviti a presentare le offerte. In sede di conversione del decreto sblocca cantieri, questa modifica viene cancellata.
Fin qui la storia. Ma cosa succede ora? Una norma contenuta in un decreto legge, non confermata in sede di conversione, perde efficacia sin dall' inizio. A meno che, nella stessa legge di conversione, siano fatti salvi i provvedimenti assunti nel periodo di validità del decreto, così come, solitamente dispone il legislatore con una clausola di stile. Un ginepraio.
Siccome il nuovo emendamento si limita a cancellare la previsione, se la legge di conversione nulla disponesse sugli effetti del decreto, i progettisti interni non potrebbero recriminare alcun compenso anche sulle procedure interessate dalla novità temporanea del decreto sblocca-cantieri.
È peraltro piuttosto improbabile che in questi 60 giorni i tecnici interni possano aver svolto attività incentivate in relazione a gare pubblicate in quell'arco temporale. Se, al contrario, gli effetti del Dl 32/2019 fossero conservati, si porrebbe il problema della remunerazione dei progettisti pubblici per la loro attività collegata alle opere bandite durante la vigenza dell'incentivo loro destinato. Attività queste che potrebbero protrarsi anche per lungo tempo in quanto l'elemento discriminante è rappresentato proprio dalla data di pubblicazione dell'avviso.
Questa situazione crea non pochi problemi in quanto, prima di poter corrispondere l'incentivo, l'ente dovrà percorrere un lungo e articolato iter per l'approvazione di un regolamento che disponga in ordine ai criteri e alle modalità di riconoscimento dei premi. A monte del regolamento è necessario aprire una sessione di contrattazione decentrata, con le conseguenti relazioni tecniche e il necessario parere del revisore, fino ad arrivare all'approvazione della Giunta.
Gli enti che, sulla base della vecchia normativa, non avessero ancora percorso l'iter descritto, potrebbero cogliere l'occasione per disciplinare tutta la materia in un solo provvedimento. In ogni caso, è opportuno che l'amministrazione inserisca una disposizione volta a collocare in un tempo ben definito gli eventuali effetti del testo originario del decreto sblocca cantieri (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2019).

ATTI AMMINISTRATIVIViolazioni privacy, scelta a tre: difesa, conciliazione, entrambe. Le valutazioni per gestire le contestazioni, dopo la fase di prima applicazione del Gdpr.
Titolari dei trattamenti ormai di fronte alle contestazioni privacy: difendersi, conciliare o tutte e due.
Terminato, il 19.05.2019, il periodo di prima applicazione del Regolamento Ue 2016/679 (Gdpr) è necessario studiare come gestire un procedimento in cui si imputa di avere violato la privacy.
A fronte della contestazione di una violazione di una norma del Gdpr o del codice della privacy ci sono sia opportunità difensive sia opportunità conciliative. Con le prime, il titolare del trattamento (impresa, professionista, pubblica amministrazione) cerca di ribaltare l'incolpazione e di far emergere che non c'è nessuna violazione sanzionabile. Con le opportunità conciliative, invece, i titolari del trattamento cercano di ridurre al minimo le conseguenze negative a loro carico, che non sono solo quelle di pagare somme a titolo di sanzione pecuniaria. Di pari se non superiore rilievo potrebbe, infatti, essere un provvedimento che implichi la cessazione di un'attività.
Le opportunità difensive e quelle conciliative sono descritte analiticamente nel regolamento n. 1/2019 del Garante della protezione dei dati personali (deliberazione n. 98 del 04.04.2019, concernente le procedure interne aventi rilevanza esterna, finalizzate allo svolgimento dei compiti e all'esercizio dei poteri demandati al Garante della privacy, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 106 dell'08.05.2019).
Passiamo, dunque, in rassegna gli istituti disciplinati dal regolamento.
Difesa/fase preliminare. L'interessato (soggetto cui si riferiscono i dati) può andare dal Garante senza necessariamente rivolgersi preventivamente all'impresa/professionista/p.a., che tratta i dati. Può, quindi, essere che arrivi una corrispondenza da parte del Garante senza nessun avviso formale da parte dell'interessato. Questo aspetto non va preso sottogamba: una volta che il Garante è informato ufficialmente con un reclamo, abbiamo un treno in corsa. Ed è un treno che può portare a sanzioni o a provvedimenti inibitori.
Le politiche (a monte) di gestione della clientela e dell'utenza è bene che tengano conto anche di questa eventualità (a valle): trovarsi subito di fronte al Garante.
Sta di fatto che il Garante, una volta arrivato il reclamo, deve aprire un'istruttoria preliminare e, solo se necessario a un primo vaglio del reclamo, coinvolgerà l'impresa/professionista/p.a.
In effetti l'articolo 10 del regolamento 1/2019 del Garante prevede che gli uffici dell'Authority possono «curare l'acquisizione di precisazioni e informazioni in ordine ai fatti e alle circostanze cui si riferisce il reclamo, anche sentendo personalmente o a mezzo di procuratore il titolare o il responsabile del trattamento, mediante richiesta di informazioni o di esibizione di documenti oppure mediante acquisizione di informazioni, copie di banche dati e archivi informatici.
Questo è un momento in cui si possono cominciare a svolgere le proprie difese e non bisogna commettere errori. Per esempio non bisogna strafare fornendo, per ingenuità o per strategia, documentazione inutilmente sovrabbondante, inconferente o ingiustificatamente dilatoria: questo atteggiamento potrà essere valutato negativo rispetto al dovere di cooperazione con il Garante.
Bisogna, in ogni caso, contestualizzare la fase del procedimento: siamo nell'istruttoria preliminare e gli uffici del Garante vogliono capire se c'è materia per fare un'istruttoria approfondita da portare, magari, all'attenzione del collegio del Garante (organo decisionale più elevato).
Pertanto all'impresa/professionista/p.a. non si formula ancora una contestazione e non ci sarebbe bisogno, tecnicamente parlando di difendersi. Non si può dimenticare che una buona strategia difensiva, in questo procedimento amministrativo, comincia in questa fase.
Quindi non è richiesta, ma non è male consegnare documenti e informazioni con una annotazione di breve presentazione in cui si illustra il flusso del trattamento e/o si spiega come sono andate le cose con il tale cliente. Si badi bene che non essendo formulata un'accusa non è possibile articolare una congrua difesa.
Tuttavia si comprenderà benissimo il contesto in cui si muovono gli uffici del Garante ed anche questa fase, quindi, è bene che sia seguita da un esperto o da un consulente.
Consigliabile anche di dichiarare la propria disponibilità a essere personalmente sentiti, così da spiegare gli eventi e i documenti: attenzione, in questa fase, non c'è il diritto a essere sentiti, ma è bene segnalare una disponibilità in tale senso. Non si manchi, però, di dettagliare in che cosa possa consistere l'utilità dell'audizione personale e deve trattarsi sempre di qualcosa che non risulti già dalla documentazione.
In questa fase l'impresa/professionista/p.a. potrà fare stime e prognosi di che cosa si può rischiare.
È importante che si prendano in considerazione tutti i possibili esiti, sia quello della decisione del reclamo con l'imposizione di una prescrizione o di un divieto/obbligo sia quello sanzionatorio.
Difesa/reclamo. Se il procedimento di reclamo va avanti, all'impresa/professionista/p.a. arriva la comunicazione di avvio del procedimento (articolo 12 del regolamento del Garante 1/2019) e bisogna studiarselo attentamente, perché contiene tutti gli estremi della incolpazione. Secondo il Garante l'impresa/professionista/p.a. hanno sbagliato a fare o a non fare qualche cosa.
Nella comunicazione, infatti, si trova scritta una sintetica descrizione dei fatti e delle presunte violazioni e delle relative disposizioni sanzionatorie. Ma soprattutto si ha notizia dell'ufficio competente presso il quale può essere presa visione ed estratta copia degli atti istruttori e scatta a decorrere il termine di trenta giorni per inviare al Garante scritti difensivi o documenti e/o chiedere di essere sentito (il regolamento 1/2019, articolo 13, è interpretabile nel senso che qui l'audizione ha sempre luogo, se richiesta).
La prima cosa da fare è avere copia integrale del fascicolo per capire come e perché sia comprovata la contestazione.
La seconda cosa da fare è decidere la strategia difensiva e quindi se mandare scritti difensivi e se chiedere di essere sentiti in audizione da parte del Garante. Se non lo si fa non si compromettono le possibilità di contestazione avanti al Giudice del provvedimento finale del Garante.
Se 30 giorni non sono sufficienti è possibile chiedere una motivata proroga.
La scaletta delle difese è questa: ricostruzione alternativa dei fatti, spiegazione della non punibilità per carenza di colpa (ad esempio incertezza delle norme), fornitura di interpretazioni giuridiche a sostegno della non punibilità, illustrazione di circostanze da cui possa derivare la sola applicazione dell'ammonimento oppure la riduzione della sanzione a livelli bassi. Questa è da attentamente vagliare in relazione alle necessità del caso concreto.
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Ultima chance è l'oblazione.
L'ultima spiaggia per le sanzioni privacy è l'oblazione «a regime». Se il Garante ha adottato un'ordinanza-ingiunzione, il titolare del trattamento può sempre definire la controversia pagando la metà dell'importo.
Lo prevede l'articolo 166 del Codice della privacy (modificato dal dlgs 101/2018), dedicato interamente alle sanzioni amministrative. Se è prevedibile che il reclamo presentato da un cliente/utente apra due vicende (il reclamo in sé e per sé e il procedimento per l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria), allora, è necessario che il titolare del trattamento (impresa/professionista/Pubblica amministrazione) conosca le possibili vie di uscita. E, nell'ottica della riduzione del danno, non bisogna dimenticarsi delle disposizioni che consentono di diminuire l'entità della sanzione.
Ciò potrà avvenire prima dell'adozione dell'ordinanza ingiunzione, cercando di mettere in evidenza quei parametri oggettivi e soggettivi, elencati dall'articolo 83 del regolamento Ue 2916/679 (Gdpr, da cui deriva un minore carico. Ma c'è ancora una chance a ordinanza emessa.
Lo stesso effetto si potrà raggiungere, infatti, avvalendosi di una sorta di patteggiamento della sanzione.
Per l'appunto l'articolo 166 del codice della privacy (il dlgs 196/2003) stabilisce che entro il termine previsto per la proposizione del ricorso contro l'ordinanza-ingiunzione del Garante (30 giorni), il trasgressore e gli obbligati in solido possono definire la controversia adeguandosi alle prescrizioni del Garante, se impartite, e mediante il pagamento di un importo pari alla metà della sanzione irrogata.
Questa oblazione non è subordinata a un vaglio di ammissibilità o di meritevolezza. Si tratta di uno sconto-premio fisso, puro e semplice, che va a compensare la rinuncia a impugnare. Solo così si spiega il fatto che la norma parli di «definizione della controversia»: se la controversia è definita vuole dire che non ci può essere una controversia pendente e che, dunque, lo sconto è il prezzo che lo Stato paga pur di non avere una controversia.
Come si potrà notare è un maxi sconto elargito senza condizioni e direttamente dalla legge.
Se non ci sono prescrizioni o se sono di lieve valore economico, il dimezzamento ex lege della sanzione è molto, molto appetibile.
Certo va aggiunto che se c'è una prescrizione da eseguire, questa, invece, potrebbe essere anch'essa molto onerosa e, quindi, la valutazione sulla convenienza di oblazionare può variare a seconda della prescrizione.
Un problema interpretativo è il seguente: la norma sull'oblazione al 50% prevede letteralmente che la sanzione sia pagata e che la prescrizione sia adempiuta entro il termine di trenta giorni (e cioè il termine previsto dall'articolo 1°, comma 3, del dlgs 150/2011); ma se per adempiere la prescrizione ci volessero più di trenta giorni e ciò per ragioni giustificate (non per lungaggini o inerzie), ci si può avvalere lo stesso dell'oblazione? Solo la prassi che maturerà su questo aspetto darà la risposta definitiva, che, però, potrebbe prevedersi come favorevole, purché vi sia il benestare del Garante.
In materia di sanzioni privacy un problema di cui si è discusso nelle aule giudiziarie è chi debba essere il destinatario delle ingiunzioni quando il titolare del trattamento è una persona giuridica.
La soluzione che si legge nelle sentenze della Corte di cassazione è che nel codice della privacy è configurata una autonoma responsabilità della persona giuridica, che nel suo complesso è, d'altra parte, il titolare del trattamento e come tale «perfettamente sanzionabile ai sensi della normativa in materia di trattamento di dati personali» (Cass. 13657/2016). Tutto ciò non esclude la rivalsa da parte della persona giuridica, direttamente sanzionata, su suoi dipendenti, che siano gli autori materiali delle condotte contestate.
In materia di sanzioni va ricordato (e lo fa il citato articolo 166 del codice della privacy) che vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dall'articolo 28 della legge 689/1981.
Decorso il quinquennio, salvi gli atti interruttivi, la sanzione non può più essere riscossa. Nel procedimento sanzionatorio privacy non ci sono, invece, termini perentori decorrenti dalla data di commissione dell'infrazione per inviare la contestazione con cui si apre il procedimento: l'articolo 166 del codice della privacy, infatti, esclude l'applicazione dell'articolo 14 della legge 689/1981 che, per altre materie, estingue l'obbligo di pagare la sanzione se l'amministrazione procedente non notifica la contestazione entro 90 giorni dall'accertamento.
La sanzione, infine, non passa agli eredi della persona fisica sanzionata e ciò per effetto dell'articolo 7 della legge 689/1981.
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Conciliare conviene ma non è risolutivo.
Conciliare conviene, anche se non chiude il reclamo «privacy». Il regolamento del Garante sui reclami n. 1/2019 prevede almeno due possibilità di aderire alle richieste degli interessati. Il ravvedimento del titolare del trattamento non è, certo, causa di archiviazione del reclamo, in quanto il procedimento può andare avanti in parallelo per l'applicazione di una sanzione pecuniaria.
Però la condotta conciliativa può giocare un ruolo decisivo perché è valutata quando il Garante deve decidere l'importo della sanzione pecuniaria (articolo 83 Gdpr). La prima opportunità conciliativa è prevista dall'articolo 10 del regolamento 1/2019. Siamo nella fase preliminare all'avvio del procedimento vero e proprio e, in questo contesto, l'ufficio del Garante può invitare il titolare o il responsabile a eseguire spontaneamente le misure richieste con il reclamo e a comunicare all'Ufficio, entro il termine da quest'ultimo richiesto, la propria eventuale adesione.
Siamo in una fase anticipata del procedimento e una conciliazione potrebbe essere determinante per la prosecuzione del procedimento. Una seconda chance si incontra in relazione ai reclami che hanno per oggetto l'esercizio dei diritti degli interessati, come il diritto di accesso o di opposizione o la portabilità ecc. (articolo 15, comma 1).
A proposito di queste ipotesi può essere che l'interessato, prima di presentare il reclamo, abbia chiesto all'impresa/professionista/p.a. titolare del trattamento l'esercizio dei suoi diritti: se così è stato, entro quarantacinque giorni dalla data della ricezione, il reclamo dal Garante è comunicato al titolare, con invito a esercitare entro 20 giorni dal suo ricevimento la facoltà di comunicare all'istante e all'Ufficio la propria eventuale adesione spontanea. In caso di adesione spontanea, prosegue, l'articolo 15, comma 4, del regolamento 1/2019 il Garante comunicherà al titolare o al responsabile del trattamento l'avvio del procedimento per l'adozione delle sanzioni pecuniarie e delle eventuali sanzioni correttive. Quindi si va avanti per le sanzioni, ma l'articolo 83 del Gdpr obbliga a tenere conto della condotta collaborativa tenuta dall'impresa/professionista/p.a.
C'è, poi, una terza situazione, che riguarda sempre i reclami relativi all'esercizio dei diritti dell'interessato: è il caso in cui quest'ultimo si sia rivolto direttamente al Garante senza passare dal titolare del trattamento (articolo 15, comma 3). Il Garante inviterà, entro quarantacinque giorni dalla ricezione del reclamo, l'istante a rivolgersi al titolare del trattamento. A questo proposito si consiglia di valutare se non sia il caso di conciliare, sfruttando questo primo contatto (articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente spoils system per i sindaci neo-eletti. L’insediamento non fa scattare alcun potere di rivedere o vertici dei comuni.
Niente spoils system per i sindaci neo-eletti, al di fuori dei casi espressamente consentiti e regolati dal Tuel. L'insediamento dei nuovi primi cittadini non fa scattare alcun potere di rivedere da zero i vertici delle strutture amministrative che compongono gli enti: i dirigenti ove esistono le qualifiche dirigenziali, i responsabili di servizio ove il vertice è rappresentato dai funzionari di categoria D. I nuovi sindaci possono incaricare, sulla base del nuovo mandato, esclusivamente alcune tipologie di dipendenti.
In primo luogo, ma solo per i comuni con popolazione superiore ai 100 mila abitanti, i direttori generali esterni, il cui incarico, ai sensi dell'articolo 108 del Tuel scade col mandato sindacale. Le funzioni di direttore generale, comunque, possono essere assegnate anche al segretario comunale.
Decadono col sindaco uscente e, quindi, possono essere oggetto di nuovi incarichi, quelli in staff, disciplinati dall'articolo 90 del dlgs 267/2000.
In terzo luogo, i sindaci possono, ricorrendo i presupposti previsti dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, incaricare dirigenti o funzionari ai sensi dell'articolo 110 del Tuel, poiché la durata di questi incarichi è connessa col mandato del sindaco. La Corte di cassazione con la sentenza 13.01.2014, n. 478 ha indicato che gli incarichi ai sensi dell'articolo 110 possono anche travalicare il mandato sindacale, visto che, secondo gli Ermellini, debbono avere una durata minima di tre anni, se conferiti dal sindaco uscente due anni o un anno prima della sua scadenza. Tuttavia, questa sentenza appare affetta da un irrimediabile vizio, per violazione plateale della chiara previsione contenuta nell'articolo 110 del Tuel.
Infine, il neo sindaco ha la possibilità di incaricare un nuovo segretario comunale, ma deve esercitarla tra i 60 e i 120 giorni successivi alla propria elezione.
Nessun'altra previsione di legge permette ai nuovi sindaci di connettere al loro nuovo mandato gli incarichi ai dirigenti e ai responsabili di servizio di ruolo.
La durata degli incarichi conferiti ai dirigenti di ruolo, in applicazione dell'articolo 19 del dlgs 165/2001 è minimo di due anni. Ma, tale durata è da computare ad anno intero, non a frazioni di anno, perché deve essere strettamente connessa alla gestione finanziaria e degli obiettivi, che è organizzata ad anno solare.
Lo stesso vale per i funzionari incaricati come responsabili di servizio aventi funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Testo unico sugli enti locali. Negli enti privi di dirigenti a detti responsabili di servizio non si applica la previsione della durata massima triennale degli incarichi, che il Ccnl 21.05.2018 riferisce esclusivamente ai funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative operanti negli enti con dirigenti. Nei comuni privi di qualifiche dirigenziali la durata dell'incarico dei responsabili di servizio è fissata direttamente dai provvedimenti di nomina, ai quali, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, del Ccnl 21.05.2018, si riconnette automaticamente l'incarico di posizione organizzativa.
L'evento delle elezioni non conferisce ai sindaci il potere di riattribuire gli incarichi di vertice. Se così fosse, allora si ammetterebbe negli enti locali uno spoils system senza alcun controllo, che riconnetterebbe automaticamente la decadenza degli incarichi di vertice al mandato elettorale, in plateale contrasto con l'estesissima giurisprudenza della Consulta che a partire dal 2007 ha accertato l'illegittimità costituzionale delle leggi, statali e regionali, che facciano coincidere la durata degli incarichi dirigenziali di natura gestionale con quella del mandato elettivo.
Di fatto, sono molto diffusi regolamenti comunali sull'organizzazione dei servizi, i quali hanno in effetti riconnesso la scadenza degli incarichi a dirigenti e responsabili di servizio al mandato elettorale, ma ovviamente, sulla base di una doverosa interpretazione ed applicazione delle norme costituzionalmente orientata, tali regolamenti sono da considerare in contrasto con la Costituzione e debbono essere necessariamente disapplicati
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2019).

APPALTIRaggruppamenti, limiti al cambio di compagine. Nelle procedure ristrette.
Appalti di lavori più semplici fino a un milione di euro; ripristinato il tetto del 30% per l'offerta economica; subappalto al massimo per il 40% (dal 50%) del totale dei lavori; niente incentivi ai tecnici dell'amministrazione per la fase di progettazione; criteri ambientali minimi solo oltre 5,5, milioni, soglia Ue; costo della manodopera incluso nell'offerta. Sono queste le principali novità riferite al codice appalti apportate nella discussione in commissione lavori pubblici e trasporti riunite del senato al decreto-legge n. 32/2019 (Sblocca cantieri) che adesso è all'esame dell'aula e oggetto di ulteriori emendamenti, sia pure marginali, da parte dei relatori e del governo.

Le novità sono tutte contenute all'articolo 1 che di fatto si configura, di fatto, come un vero e proprio secondo correttivo al codice appalti del 2016.
Una prima modifica ha riguardato l'ambito di applicazione oggettivo del «regolamento unico» del codice che dovrà sostituire l'attuale numerosa congerie di provvedimenti di varia fonte . Nel testo del decreto si richiamavano i diversi provvedimento che il regolamento dovrebbe sostituire, mentre nel testo uscito dalle commissioni si fa riferimento alle materie, fermo restando che fino all'approvazione del regolamento (180 giorni dall'approvazione della legge di conversione, quindi, entro metà dicembre 2019) i provvedimenti che oggi disciplinano queste materie continueranno a sopravvivere, evitando quindi ogni vuoto normativo.
In commissione è stato ripristinato il tetto all'elemento prezzo nell'aggiudicazione con il criterio dell'Oepv (offerta economicamente più vantaggiosa) che invece il governo, nel testo del decreto-legge 32, aveva eliminato. Pertanto, all'offerta economica, gli atti di gara emessi dalle stazioni appaltanti non potranno assegnare più di 30 punti su 10.
È stata «ridisegnata» la norma sugli affidamenti sotto soglia: per affidamenti da 40 mila euro a 150mila euro per i lavori, o alle soglie Ue per le forniture e i servizi (221 mila), si procederà mediante affidamento diretto previa consultazione di almeno tre (lavori) o cinque operatori economici (servizi e forniture,) previa indagine di mercato o scelta con elenchi di operatori economici e applicazione del principio di rotazione degli inviti.
Per i servizi tecnici rimane invece ferma la disposizione speciale di cui all'articolo 157 che impone da 100 mila euro in su il ricorso alle procedure ordinarie. Per lavori da 150 mila a 350 mila euro, sempre procedura negoziata ma con invito a dieci operatori economici; da 350 mila euro a un milione, invece, si passa a quindici operatori economici. Per lavori fra un milione e la soglia Ue di 5,4 milioni l'affidamento avverrà con le procedure ordinarie (quindi non soltanto con la procedura aperta).
Per quanto riguarda il subappalto si riduce dal 50% al 40% il tetto massimo e si reintroduce il divieto per i partecipanti alla gara di essere, successivamente subappaltatori. Viene eliminata la possibilità di applicare l'incentivo del 2% del valore dell'opera a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni per l'attività di progettazione svolta da tecnici delle amministrazioni. I servizi ad elevata intensità di manodopera, anche se riguardano servizi e forniture standardizzate, devono sempre essere affidati con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e non con il prezzo più basso.
Non sarà possibile escludere per irregolarità fiscali che non siano state accertate e l'utilizzo obbligatorio dei Cam (Criteri ambientali minimi) sarà limitato ai soli casi di lavori oltre i 5,5 milioni di lavori.
Non si dovranno più indicare in offerta separatamente il costo della manodopera e gli oneri di sicurezza aziendali: si riterranno «compresi nell'offerta economica»
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuotate, l’incarico si paga. Per i pensionati non c’è obbligo di gratuità. Lo ha chiarito l’Osservatorio sulla finanza locale del Mininterno.
Il divieto di conferire incarichi pubblici retribuiti a pensionati è generale, ma non si applica alle società quotate.
Il chiarimento 24.05.2019 arriva dal ministero dell'interno, che ha pubblicato atto di indirizzo ex art. 154, comma 2, del Tuel (Osservatorio finanza locale) riguardo all'art. 11, comma 1, del dlgs 175/2016 (Tusp).
Tale disposizione ha confermato quanto disposto dall'art. 5, comma 9, del dl 95/2012, ai sensi del quale «è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (Istat) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Consob di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Alle suddette amministrazioni è altresì fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi spese, corrisposti nei limiti fissati dall'organo competente dell'amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell'ambito della propria autonomia
».
Dalle due disposizioni, consegue che è fatto divieto alle amministrazioni pubbliche di conferire cariche in organi di governo delle società da esse controllate a «soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza», se non «a titolo gratuito». Il Viminale precisa che tale disciplina, in quanto generalmente riferita a lavoratori in quiescenza, vale sia per i lavoratori dipendenti che per i lavoratori autonomi.
Tuttavia, essa non si applica alle società quotate come definite all'art. 2, comma 1, lett. p), del Tusp, nonché alle società da esse controllate. Ciò alla luce della peculiarità che connota le società quotate, le quali sono sottoposte a un sistema di obblighi, di controlli e sanzioni autonomo, data l'esigenza di contemperare, da un lato (gli interessi pubblici sottesi alla normativa dettata in ragione della partecipazione pubblica, e, dall'altro, la tutela degli investitori e dei mercati finanziari
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAncora criticità sull'impianto di valutazione delle performance.
Nella pratica traduzione dei meccanismi valutativi delle prestazioni presso le amministrazioni pubbliche non poche sono le criticità che emergono nella predisposizione ed attuazione dei sistemi di valutazione, frutto anche di una scarsa sensibilità avvertita, da tutti gli attori di sistema, in relazione ad un impianto fortemente integrato di azioni e di atti che, ancora oggi, viene vissuto con la cultura adempimentale, piuttosto che vocata al miglioramento continuo dell’assetto pubblico.
D’altra parte, “credere” nella valutazione delle prestazioni significa spendere una grande fede nel funzionamento del sistema pubblico, una spendita di fiducia che oggi, dopo decenni di esperienze fallimentari, in pochi sono disponibili a sostenere, con il risultato, generalmente riscontrabile ovunque, di impianti formalmente ineccepibili e di esiti sostanzialmente incerti, ad essere buonisti.
Le esperienze in atto nella pressoché generalità degli enti, pertanto, con la consueta attenzione agli elementi formali di sistema e non al funzionamento reale dello stesso, mettono in evidenza almeno tre profili di criticità che, di seguito, si sintetizzano.
Il sistema di misurazione e valutazione delle performance
   1) Il sistema di misurazione e valutazione delle performance costituisce strumento metodologico la cui adozione è di competenza datoriale, vertendosi in materia di definizione del metodo di misurazione prima e di valutazione poi delle prestazioni. Non è più ammissibile, pertanto, che tale dispositivo metodologico continui ad essere affidato alla competenza degli organi di governo, alla stregua di un atto politico, di governo o, peggio, regolamentare.
Non si tratta, infatti, ad ogni evidenza, né di un momento politico, tanto meno di un passaggio regolamentare, atteso che il congegno metodico che misura e valuta le performance non costituisce certamente atto di indirizzo politico, né rappresenta un insieme di norme precettive tipico delle misure regolative di un sistema, bensì realizza un apposito apparecchio tecnico finalizzato a fornire una misura metrica delle prestazioni ed una conseguente dimensione valutativa, aspetti che, evidentemente, sfuggono ad ogni spessore politico di governo.
Quest’ultimo, peraltro, ben potrebbe intervenire nel momento preliminare dell’indirizzo e della direttiva, fornendo, al soggetto gestionale competente (dirigente, direttore, etc.), le coordinate strategiche necessarie per la corretta impostazione delle metodiche, ma difficilmente potrebbe sostituirsi a questo nell’adozione di strumentazioni per le quali occorre possedere cognizioni tecniche e metodologiche che sfuggono alla stretta competenza del Governo.
D’altra parte lo stesso legislatore è emblematicamente intervenuto sulla specifica questione, allorquando, con un intervento normativo di cesello, ha espunto, nel contesto dell’art. 7, comma 1, del Dlgs. n. 150/2009, mediante i correttivi recati dal Dlgs 74/2017, il riferimento ad un “apposito provvedimento” cui affidare l’adozione del sistema in questione, lasciando chiaramente intendere, quindi, che, l’assenza della necessaria natura provvedimentale, di carattere pubblicistico, dell’atto di assunzione del sistema, dovesse deporre necessariamente per la diversa natura privatistico-datoriale dell’atto stesso, rimessa, ex art. 5, comma 2, Dlgs 165/2001, attraverso la riserva di diritto comune degli atti organizzativi ivi previsti, in capo agli organi gestionali e non a quelli di governo.
Per convincersi di tale impostazione, infine, pare sufficiente osservare come lo stesso legislatore della riforma (cit. Dlgs 74/2017), attraverso l’introduzione delle previsioni normative riportate nel comma 2-bis, del richiamato art. 7, Dlgs 150/2009, abbia inteso individuare contenuti del sistema di tipo tecnico e non di carattere politico, affermando, espressamente, che il sistema di misurazione e valutazione della performance debba prevedere apposite procedure di conciliazione, a garanzia dei valutati, relative all'applicazione del sistema stesso, contenuto di evidente tenore gestionale, nonché le modalità di raccordo ed integrazione con i documenti di programmazione finanziaria e di bilancio, con ciò stesso imponendo, agli organi gestionali competenti, l’obbligo, nella configurazione dell’impianto metodologico, di armonizzare lo stesso alle previsioni economico-finanziarie contenute nei documenti di programmazione.
Il piano delle performance
   2) Un secondo profilo di criticità attiene alla corretta gestione del piano delle performance, ancora oggi erroneamente vissuto in maniera parziale e con approccio pressoché esclusivamente formale. La regolazione di sistema, viceversa, struttura tale fondamentale strumento di pianificazione alla stregua di un unico contenitore che globalizza tutti gli strumenti di premialità volti al conseguimento di obiettivi di miglioramento erogativo.
La configurazione normativa, infatti (art. 10, comma 1, lett. a), Dlgs 150/2009), prescrive che il piano debba individuare gli indirizzi e gli obiettivi strategici ed operativi dell’ente, definendo, con riferimento agli obiettivi finali ed intermedi ed alle risorse, gli indicatori per la misurazione e la valutazione della performance dell'amministrazione, nonché gli obiettivi assegnati al personale dirigenziale ed i relativi indicatori.
Tale postulato, quindi, fonda un principio inderogabile ed, insieme, di carattere generale, sintetizzabile nel corollario del principio di buona amministrazione (art. 97 Cost.) per il quale l’assetto di pianificazione disciplinato dalla legge debba, necessariamente, recare tutti gli obiettivi strategici ed operativi, nonché i relativi indirizzi di conseguimento, cui sia connesso il riconoscimento di un regime premiale, comunque definito e congegnato, in un’ottica che globalizzi l’intera ed integrale strategia premiale che, su qualsiasi piano, attua l’amministrazione.
L’applicazione di tale principio, dunque, porta con sé una rilevante conseguenza metodologica ed operativa, sintetizzabile nell’assunto per il quale il piano debba rappresentare qualsiasi sistema di premialità riconoscibile al personale dipendente e dirigente e non solo quello di carattere generale, diffusamente definito “produttività generale”, atteso che ciò rappresenterebbe una visione del tutto riduttiva dello strumento, il quale, infatti, pianificherebbe solamente una parte residuale del più ampio regime di premialità applicabile, mentre allo stesso, in tale configurazione, sfuggirebbe la maggior parte degli istituti premiali che, oggi, costituiscono il maggior peso economico e finanziario erogato a titolo di retribuzione accessoria incentivante.
Si pensi, a tal riguardo, alle progressioni orizzontali, alla retribuzione di risultato delle posizioni organizzative, agli incentivi previsti da fonti legali (funzioni tecniche, piani di razionalizzazione, fiscalità locale, servizi a terzi pubblici e privati etc.), erroneamente considerate, con atteggiamento generalizzato, aree che non possano rientrare nel meccanismo di pianificazione delle performance, in quanto collegate alla mera fornitura della prestazione prevista per legge, cui resta estranea, pertanto, ogni valutazione circa i profili quali-quantitativi della stessa.
Tale approccio, infatti, non appare correttamente impostato, atteso che qualsiasi prestazione, nella logica della misurazione e valutazione della performance resa, deve essere sottoposta ad una metrica e ad un apprezzamento, a prescindere dalla fonte che la regola, allorquando alla stessa sia riconnesso il riconoscimento di un valore premiale che, appunto, quale incentivo che non schiude l’esercizio di alcun diritto innato, deve misurare il valore medesimo dell’attività resa, senza che, per questo, abbia rilievo alcuno l’automatica e sterile rilevazione della prestazione resa in sé considerata.
Il ruolo dell’organismo di valutazione
   3) Un terzo ed ultimo punto sul quale ricondurre l’attenzione degli operatori tutti riguarda, nel contesto di cui sopra, il posizionamento che il vigente ordinamento affida ad un organo qualificato e di rilevante spessore, nell’economia organizzativa e funzionale degli enti, a prescindere dalla definizione allo stesso accordata dalle singole amministrazioni (organismo indipendente di valutazione, nucleo di valutazione, nucleo indipendente di valutazione, etc.).
In tale scenario, infatti, l’organismo valutativo viene chiamato ad assolvere un ruolo determinante, dovendo, oltre alle altre importanti incombenze rassegnate in tema di misurazione e valutazione delle prestazioni, assicurare la correttezza dell'utilizzo dei premi indicati dal Titolo III del Dlgs 150/2009, in specie: progressioni economiche orizzontali, bonus delle eccellenze (oggi differenziazione del premio individuale, ex art. 69 del Ccnl 21.05.2018 Funzioni Locali), affidamento di incarichi e responsabilità, premio di efficienza, progressioni di carriera, premio per l’innovazione, percorsi di alta formazione e di crescita professionale, secondo quanto previsto dalla legge, dai contratti collettivi nazionali, dai contratti integrativi, dai regolamenti interni all'amministrazione, nel rispetto del principio di valorizzazione del merito e della professionalità.
Tale rilevante incombenza, peraltro, appare, francamente, eccessivamente responsabilizzante per le forze stesse che gli organismi valutativi possono mettere in campo, i quali, infatti, al fine di poter garantire la correttezza metodologica, prima ancora che giuridica, degli istituti premiali complessivamente considerati, dovrebbero, prima di tutto, godere di una sorta di impermeabilità di sistema che l’attuale assetto di nomina scarsamente è in grado di assicurare, secondariamente dovrebbero avere la possibilità di un riconoscimento economico che risultasse in linea con l’impegno che tali doveri impongono, soprattutto in termini temporali di esecuzione della prestazione, atteso che il corretto assolvimento di tale adempimento obbliga ad un’assidua presenza presso l’amministrazione e ad un monitoraggio costante della configurazione ed applicazione degli istituti premiali, tutte condizioni che, tuttavia, non sembrano, al momento, visibili all’orizzonte (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.05.2019).

TRIBUTIImu e Tasi, deadline in vista. Contribuenti alla cassa per il pagamento degli acconti. Obbligati a versare le imposte locali sono tutti i titolari di fabbricati e aree edificabili.
Si avvicina la scadenza per il pagamento degli acconti Imu e Tasi. Il termine per passare alla cassa è fissato al prossimo 17 giugno. Slitta di un giorno il termine ordinario perché il 16 giugno è domenica. Obbligati a versare le imposte locali sono tutti i contribuenti titolari di fabbricati e aree edificabili. Sono invece esonerati dal prelievo gli immobili adibiti a abitazione principale, tranne quelli di lusso, ville e castelli, e i terreni agricoli.
Allo stesso modo sono tenuti a pagare la Tasi coloro che possiedono fabbricati e aree edificabili. Mentre non sono più tenuti al pagamento possessori e detentori delle unità immobiliari destinate a abitazione principale.
Gli acconti possono essere calcolati sulla base delle aliquote e delle detrazioni deliberate dai Comuni per l'anno precedente. Quindi va versato il 50% di quanto pagato nel 2018. Naturalmente, i contribuenti possono pagare in un'unica soluzione se conoscono le deliberazioni adottate dalle amministrazioni comunali.
Imu. Sono soggetti all'Imu fabbricati e aree edificabili. Non devono, invece, versare l'imposta i titolari di immobili destinati a prima casa e equiparati, con relative pertinenze, per i quali è prevista l'esenzione.
La nozione di prima casa per l'Imu è diversa rispetto a quella stabilita per l'Ici dall'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992.
In base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente.
Per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione.
Non fruiscono dell'esenzione i fabbricati iscritti nelle categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione. Per queste unità immobiliari è prevista l'applicazione di una aliquota ridotta del 4 per mille, che i comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti percentuali, e una detrazione di 200 euro.
Mentre l'aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali.
Va ricordato che per l'anno in corso alle amministrazioni locali non è stato impedito, come per gli anni precedenti, di aumentare le aliquote, nel rispetto del tetto massimo stabilito dalla legge. Essendo venuto meno il blocco dei tributi locali, atteso che non è stata disposta la sospensione dell'aumento di aliquote e tariffe, può darsi che in alcuni casi i contribuenti siano tenuti a un esborso maggiore rispetto a quanto pagato in passato.
I soggetti obbligati al pagamento devono mettere mano al portafoglio e versare il 50% dell'imposta calcolata in base a aliquote e detrazioni adottate nel 2018. Il resto dovrà essere pagato entro il 16 dicembre, a conguaglio di quanto dovuto per l'intero anno, facendo riferimento a aliquote e detrazioni deliberate per il 2019.
Dal 2016 è stata estesa l'esenzione Imu ai terreni. L'articolo 1, comma 13, della legge di Stabilità 2016 (208/2015) stabilisce che non sono tenuti al pagamento dell'imposta, oltre ai titolari di terreni montani o di collina ubicati nei comuni elencati nella circolare del Ministero dell'economia e delle finanze 9/1993, quelli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile. I terreni che non rientrano nei confini dell'esenzione, sono ovviamente soggetti al pagamento del tributo.
Tasi. Sia i proprietari degli immobili che gli inquilini sono tenuti a versare l'imposta sui servizi indivisibili.
In seguito alle modifiche apportate alla disciplina della Tasi, a partire dal 2016 sono fuori dal campo di applicazione del tributo gli immobili utilizzati come abitazione principale da possessori e detentori, vale a dire anche dagli inquilini, a condizione che non siano classificati catastalmente nelle categorie A1, A8 e A9. La Tasi si paga solo su fabbricati e aree edificabili. Mentre non sono soggetti a imposizione i terreni. La base imponibile è la stessa dell'Imu.
Agevolazioni e modalità di pagamento. Imu e Tasi hanno in comune le stesse agevolazioni. Per esempio, per gli immobili concessi in uso gratuito a parenti in linea retta, entro il primo grado, e per quelli locati a canone concordato.
Per i primi l'articolo 1, comma 10, della legge di Stabilità 2016 ha abolito il potere di assimilazione dei comuni e ha previsto una riduzione del 50% della base imponibile. I beneficiari possono fruirne purché sussistano le condizioni richieste dalla norma.
Nello specifico, il comodante deve avere la residenza anagrafica e la dimora nel comune in cui è ubicato l'immobile concesso in comodato.
Oltre all'immobile concesso in comodato, può essere titolare di un altro immobile nello stesso comune, che deve essere utilizzato come propria abitazione principale, purché non si tratti di un fabbricato di pregio (immobile di lusso, villa o castello). Quest'ultimo requisito è imposto anche per l'unità immobiliare data in comodato. Il comodante può possedere anche altri immobili, a condizione però che non siano classificati tra quelli destinati a uso abitativo.
Hanno diritto a un trattamento agevolato anche gli immobili locati a canone concordato. E' previsto uno sconto del 25% sia per l'Imu che per la Tasi. Il beneficio fiscale spetta a prescindere dal fatto che i comuni abbiano previsto per questi fabbricati un'aliquota agevolata.
Il pagamento di entrambi i tributi può essere effettuato con il modello F24 o tramite apposito bollettino di conto corrente postale. Le somme versate dai contribuenti vengono incassate dalla «Struttura di gestione» e riversate all'ente interessato.
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Può provvedere anche il conduttore.
Anche l'inquilino può pagare le imposte locali se è previsto nel contratto stipulato con il locatore. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 6882/2019, hanno chiarito che non è nullo il contratto per illiceità della causa. Il proprietario di un fabbricato, dunque, può sottoscrivere un accordo con il locatario, il quale si può impegnare a pagare legittimamente Imu e Tasi. L'accordo contrattuale che impone all'affittuario di pagare i tributi locali, secondo le Sezioni unite, non si pone in contrasto con il principio di capacità contributiva e non viola la regola sul divieto di traslazione del carico fiscale a un soggetto diverso dal titolare.
Le somme che il conduttore si impegna a pagare costituiscono semplicemente un'integrazione del canone locativo e concorrono a determinarne l'ammontare complessivo dovuto. Pertanto, se l'imposta viene pagata non viene violato il divieto di traslazione del carico fiscale, in quanto la somma serve a integrare esclusivamente il prezzo «della prestazione negoziale». L'accordo, tra l'altro, non viola neppure le norme che disciplinano le locazioni, anche se l'articolo 89 della legge 392/1978 non contempla le imposte locali tra gli oneri a carico dell'inquilino.
Va però sottolineato che soggetto obbligato nei confronti dell'amministrazione comunale è sempre il locatore. Qualora il conduttore non paghi, la violazione di omesso pagamento del tributo deve essere contestata al proprietario, così come la relativa sanzione. Nonostante la Cassazione faccia riferimento a Ici e Imu, la regola è applicabile anche alla Tasi, che è dovuta dal proprietario nella misura minima del 70%.
L'accollo del debito d'imposta da parte dell'inquilino non libera dall'obbligo di pagamento il proprietario. Il locatore ha comunque il potere di esercitare giudizialmente il diritto di rivalsa nei confronti del conduttore, al fine di recuperare le somme che si era impegnato contrattualmente a versare al comune
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOScelta dei dirigenti senza più il concorso. C’è uno schema di direttiva della Presidenza del consiglio.
Stop ai concorsi per la scelta dei dirigenti della presidenza del Consiglio dei ministri.
Emerge dallo schema di direttiva (Dip 018185 P-4.4.11 del 10/04/2019) «recante criteri e modalità per il conferimento degli incarichi dirigenziali», inviata in un'informativa alle rappresentanze sindacali. «Al fine della continuità dell'azione amministrativa», si legge nel testo, si intende assicurare «l'adeguata programmazione nel conferimento degli incarichi».
Quanto agli obiettivi da raggiungere, lo schema di direttiva indica «la rotazione degli incarichi» secondo un preciso calendario: «L'aggiornamento dei posti dirigenziali vacanti avviene, di norma, con cadenza semestrale».
Il Dipartimento per il personale, dunque, effettuerebbe la ricognizione periodica e l'aggiornamento dei posti dirigenziali vacanti, ne assicurerebbe la pubblicità nella sezione «Amministrazione trasparente» del sito internet, dopodiché si procederebbe ad una selezione da parte del capo del dipartimento interessato o dei dirigenti delegati dal segretario generale o dal sottosegretario competente (o, infine, al segretario generale per le strutture non affidate a un ministro senza portafoglio o a un sottosegretario). A questo punto seguirebbe l'interpello «rivolto prioritariamente», ma non esclusivamente, «ai dirigenti dei ruoli della presidenza del consiglio dei ministri».
Un'iniziativa che sembra cozzare contro il principio fondamentale ed inderogabile dell'ordinamento giuridico, come riflesso di un obbligo costituzionale più volte ribadito nelle sentenze della Corte costituzionale (sentenza n. 37 /2015) e nei pareri del Consiglio di stato (parere Comm. speciale pubblico impiego n. 514/2003). Principio, secondo il quale, «il concorso pubblico resta il metodo migliore per la selezione dei più capaci», come si legge nella sentenza della Corte costituzionale. Anche nei casi «di un nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio».
Nella direzione di una bocciatura del testo, dunque, si stanno muovendo i pareri pro veritate che stanno giungendo sul tavolo delle varie sigle sindacali. Come quello di Enrica Guerriero, patrocinante in Cassazione, esperta di strutture amministrative, interpellata da Dirstat, secondo la quale la direttiva di palazzo Chigi: «Serve unicamente alla consolidazione della prassi abusiva del conferimento degli incarichi, in violazione della regola del concorso pubblico, il quale è l'unico sistema per assicurare l'attuazione dei principi costituzionali di cui all'art. 97 della Costituzione»
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

LAVORI PUBBLICIOpere, niente più libri dei sogni. Programmazione più rigorosa già nel Dup 2020-2022. In vista del 31/7 gli enti devono considerare le novità del decimo correttivo ai principi contabili.
Programmazione delle opere pubbliche più rigorosa.
E' la conseguenza delle novità introdotte dal decimo correttivo ai principi contabili degli enti territoriali, i cui effetti operativi si dispiegheranno anche sul prossimo Documento unico di programmazione (Dup) 2020-2022, che deve essere presentato entro il prossimo 31 luglio ma che le amministrazioni metteranno in cantiere già nelle prossime settimane.
Il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 71 del 25 marzo scorso (dm 01.03.2019), appena in tempo per consentire di applicare già in sede di riaccertamento e di rendiconto 2018 la flessibilizzazione del fondo pluriennale vincolato e l'allungamento dei termini per la riprogrammazione dei ribassi d'asta.
Il Fpv può ora essere attivato in mancanza di impegno di spesa, oltre che nei casi già finora consentiti, anche solo in presenza solo di una progettazione che abbia raggiunto uno dei livelli successivi al minimo e purché siano stato formalmente avviate le relative procedure di affidamento. Ciò consentirà di dare maggiore continuità agli interventi già finanziati ma ancora in fase progettuale, in quanto le risorse prenotate, anziché confluire in avanzo, come sarebbe accaduto in vigenza delle precedenti regole, possono finanziare direttamente la spesa reimputata
Molte, però, anche le modifiche che riguardano la fase della programmazione e del bilancio: il dm infatti modifica la sequenza giuscontabile delle spese di investimento nel seguente modo: i) per le opere di importo pari o superiore a 100 mila euro occorrerà provvedere innanzitutto a finanziare la progettazione, poiché solo dopo aver validato il primo livello sarà possibile inserirle nel programma triennale e quindi metterle a bilancio; ii) per le opere di importo inferiore lo stanziamento delle spese di realizzazione potrà essere contestuale a quello della progettazione.
L'obiettivo è quello di rendere la programmazione più rigorosa, almeno per le opere di taglio maggiore, disincentivando l'elaborazione dei c.d. libri dei sogni, che spesso si traducono in un nulla di fatto e fanno sprecare tempo e risorse agli enti. In tali casi, il decreto disciplina anche la registrazione del livello minimo di progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale: in tali casi, le spese devono essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce.
Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup) individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
Per cui, le opere, anche se non inserite nel triennale, dovranno comunque essere programmate, operando una distinzione più netta fra la programmazione strategica e quella operativa
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProgrammazione personale, arriva la spada di Damocle.
Spada di Damocle sulla programmazione del personale. Il decreto legge «Crescita» (n. 34/2019) prospetta un nuovo cambio di regole, che però arriveranno a ridosso della scadenza per il Dup 2020-2022.
L'art. 33 del dl 34/2019 ha introdotto una modifica significativa del sistema di calcolo della capacità assunzionale delle amministrazioni regionali e comunali, attraverso il superamento delle regole del turn-over e l'introduzione di un sistema basato sulla sostenibilità finanziaria della spesa di personale.
In particolare si dispone che, a decorrere dalla data che verrà stabilita, i predetti enti possano effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato, nel limite di una spesa complessiva non superiore al valore soglia, definito come percentuale, anche differenziata per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli risultanti dal rendiconto dell'anno precedente a quello in cui viene prevista l'assunzione, considerate al netto di quelle la cui destinazione è vincolata ed al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
I valori soglia saranno definiti con provvedimento ministeriale, previa intesa in Conferenza Stato, Città ed autonomie locali.
La norma impone di adeguare, in aumento o in diminuzione, le risorse del fondo per la contrattazione decentrata e quelle destinate a remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, al fine di garantirne l'invarianza del valore medio procapite.
Fino alla data che sarà definita in sede di decreto attuativo, comunque, mantengono vigore le attuali regole sulla quantificazione della capacità assunzionale, già profondamente modificate dal recente decreto legge 4/2019.
Poiché per l'emanazione del decreto attuativo è previsto un lasso di tempo di sessanta giorni, il rischio è che il dm arrivi o a ridosso della scadenza del 31 luglio o addirittura dopo, costringendo gli enti ad un doppio lavoro.
Inoltre, non è del tutto chiara la sorte delle procedura assunzionali avviate prima dell'entrata in vigore delle nuove regole, anche se l'art. 34 fa propendere per una soluzione conservativa: si prevede, infatti, che gli enti fuori soglia debbano adottare un percorso di graduale di rientro che traguarda al 2025, per cui non dovrebbero esservi impatti di breve periodo (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCaos assunzioni negli enti locali. Comuni e regioni alle prese con i nuovi criteri di virtuosità. Si pone il problema di come procedere in attesa dei decreti attuativi del dl crescita.
Caos sulle assunzioni per comuni e regioni. Il decreto crescita rende particolarmente complicato capire quale sia, attualmente, la fonte che autorizza alle assunzioni e, soprattutto, i limiti da rispettare per il turnover.
La causa della confusione operativa è l'articolo 33 del dl 34/2012; una norma che stravolge lustri di normativa impostata in modo da limitare le assunzioni entro una certa percentuale del costo dei dipendenti cessati l'anno precedente: quest'anno la percentuale sarebbe stata del 100%.
Tuttavia, per regioni e comuni (la norma ha dimenticato forme associative comunali, province e città metropolitane) il limite entro il quale assumere sarà un valore soglia derivante dal rapporto tra il totale delle spese di personale al lordo degli oneri, e le entrate del primi tre titoli; nel caso delle regioni, le entrate sono calcolate al netto di quelle la cui destinazione è vincolata, ivi incluse quelle relative al servizio sanitario nazionale ed al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione; nel caso dei comuni, le entrate sono calcolate al netto al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Tuttavia, questo nuovo sistema di determinazione della spesa per assunzioni, che premia gli enti virtuosi, non è ancora applicabile. L'articolo 33, infatti, rinvia a successivi decreti, che il Ministero della Funzione pubblica dovrà applicare entro giugno, per determinare appunto i valori soglia da rispettare: operazione piuttosto complessa per quanto riguarda i comuni, visto che occorrerà anche definire valori soglia distinti per fascia demografica.
Il problema che si pone, dunque, consiste nel capire come procedere in attesa dei decreti e se sia possibile effettuare assunzioni, come anche avviare nuove procedure concorsuali.
In primo luogo appare evidente che gli enti potranno dare corso alle assunzioni scaturenti da procedure avviate nel previgente regime normativo, sulla base di regole a suo tempo operanti: infatti, nella sostanza, fino al 2018 (verosimilmente le assunzioni di questo primo scorcio di 2019 saranno effetto di concorsi avviati l'anno prima) regioni e comuni hanno potuto assumere in misura ridotta rispetto al 100% del turnover. Non è da sottovalutare, tuttavia, la circostanza che queste assunzioni, pur scaturendo da procedure avviate legittimamente vigente un diverso regime normativo, potrebbero porre problemi: infatti, da esse non è escluso scaturisca quell'esubero di spesa che faccia andare l'ente al di sopra del valore soglia ancora da definire.
In quanto a nuove procedure concorsuali, si potrebbe ritenere che nelle more dei decreti previsti dall'articolo 33 del dl 34/2019 sia ancora vigente la vecchia normativa, in particolare l'articolo 3, comma 5 e seguenti, del d.l. 90/2014. Tale tesi sul piano strettamente tecnico non convince. L'articolo 33 del decreto crescita non contiene alcuna disposizione transitoria ed essendo una norma manifestamente incompatibile con le previgenti regole di disciplina delle facoltà assunzionali, queste ultime non possono che considerarsi abolite tacitamente e, quindi, non più operanti.
Allora, si deve concludere che in attesa dei decreti attuativi dell'articolo 33 gli enti debbano restare immobili e non assumere? Questa conclusione è erronea. Come visto sopra, intanto le assunzioni scaturenti da procedure avviate precedentemente possono sicuramente essere portate a termine. Ma, nulla esclude per gli enti di attivare anche nuovi concorsi, nelle more dei decreti attuativi. L'unica conseguenza eventualmente negativa di questo «salto nel buio» potrebbe consistere semplicemente nel ritrovarsi al di sopra dei valori soglia previsti dall'articolo 33: ma, esso prevede la possibilità di riallinearsi entro il 2025.
Dunque, assunzioni effettuate in attesa dei decreti attuativi non possono considerarsi né illegittime, né causa di danno erariale, visto il lungo lasso di tempo che il decreto crescita comunque consente agli enti meno virtuosi per rispettare i valori soglia e visto che, comunque, anche laddove entro il 2025 gli enti non riuscissero a porsi sotto il valore, l'unica conseguenza è la riduzione delle capacità assunzionali al 30% del turnover
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: L'agente immobiliare non può amministrare il condominio. PROFESSIONI/ Il Mise risponde ad Arco: l'incompatibilità resta anche dopo la legge europea.
Indietro tutta sulla possibilità che gli agenti immobiliari possano svolgere l'attività di amministratore condominiale. La legge europea 2019 (37/2019, che entrerà in vigore il 26 maggio) aveva cambiato le regole sulle incompatibilità della legge 39/1989 (istitutiva del ruolo degli agenti immobiliari); in particolare, il nuovo articolo 5, comma 3, della legge 39/1989 stabilisce l'incompatibilità per l'esercizio di:
   a) attività imprenditoriali di produzione, vendita, rappresentanza o promozione dei beni afferenti al medesimo settore merceologico per il quale si esercita l'attività di mediazione;
   b) attività svolta in qualità di dipendente (ad esclusione delle imprese di mediazione) di ente pubblico o privato, o di istituto bancario, finanziario o assicurativo;
   c) esercizio di professioni intellettuali afferenti al medesimo settore merceologico per cui si esercita l'attività di mediazione;
   d) situazioni di conflitto di interessi. Per le associazioni di categoria degli agenti le novità avrebbero sdoganato il divieto di esercitare le due professioni, anche se si attendeva comunque l'interpretazione del Mise.
Nella risposta ufficiale di ieri (nota 22.05.2019 n. 128364 di prot.) al quesito posto da Arco (Associazione di revisori condominiali) lo scorso 17 aprile, come anticipato sul Quotidiano del Sole 24 Ore - Condominio il 2 aprile, la direzione generale per il mercato, divisione VI, dello Sviluppo economico, che comunque già in passato si era detto contrario alla doppia attività, ha risposto chiaramente (protocollo AOO_PIT.U.0128364) che «anche in questa nuova disciplina permanga l'incompatibilità di detta attività professionale con quella di amministratore condominiale: sia ove quest'ultima venga intesa come professione intellettuale afferente al medesimo settore merceologico per cui viene esercitata la mediazione (rientrando, quindi, l'incompatibilità nell'ipotesi della sopra citata lettera c), sia ove venga considerato l'aspetto imprenditoriale di rappresentanza di beni afferenti al medesimo settore merceologico (rientrando, quindi nell'ipotesi di incompatibilità della lettera a); nonché trattandosi comunque di evidente conflitto di interesse per il mediatore immobiliare che, contemporaneamente a curare per il proprio cliente la vendita/acquisto di un immobile, lo amministra e lo gestisce per conto del condominio (lettera d)».
Nella parte finale della risposta il Mise ricorda che lo svolgimento di attività incompatibili con quella di agente di affari in mediazione di cui alla legge n. 39/1989 determina, da parte degli uffici camerali, «l'avvio della procedura di inibizione allo svolgimento di quest'ultima e la conseguente inibizione alla stessa».
Viene così risolta alla radice (tranne ripensamenti futuri) la questione che aveva animato il dibattito nel mondo immobiliare nelle ultime settimane.
«Arco -ha detto il presidente Francesco Schena- non ha alcuna posizione ideologica sul tema della compatibilità ma era necessario che gli uffici preposti facessero chiarezza e che si superasse l'aberrante negazione della natura di professione intellettuale dell'amministratore posta a fondamento delle tesi contrarie a quella oggi ribadita dal ministero» (articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2019 - tratto da www.fondazionecni.it).

EDILIZIA PRIVATABonus ristrutturazioni, limiti applicativi
Bonus ristrutturazione edilizia, applicazione limitata. Gli acquirenti di un immobile oggetto di ristrutturazione e di ampliamento della superficie utile, potranno fruire della detrazione di cui all'art. 16-bis, comma 3, del Tuir, il c.d. «bonus fiscale ristrutturazioni», solo per le spese riferibili alla parte esistente, sul presupposto che i lavori effettuati consistano in una ristrutturazione senza demolizione dell'edificio esistente e con ampliamento dello stesso.

Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate con la risposta 21.05.2019 n. 150.
L'istante è un'impresa immobiliare di costruzione per la rivendita che ha acquistato una struttura oggetto di intervento edilizio di ristrutturazione (per circa il 71% dell'edificio) e costruzione di un avancorpo commerciale (la parte ampliata corrisponde al 29% circa dell'intero complesso).
La società domanda, quindi, all'Ente impositore se sulle unità immobiliari cedute i futuri acquirenti potranno godere dell'agevolazione fiscale disciplinata dall'art. 16-bis del Tuir, consistente in una detrazione dall'Irpef del 36% delle spese sostenute, fino a un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 48 mila euro.
Il Fisco, dopo un'attenta disamina della normativa in oggetto, e dopo aver ricordato che ai fini del bonus è necessario che dal titolo amministrativo di autorizzazione dei lavori, rilasciato dal Comune o da altro ente competente in tema di classificazioni urbanistiche, risulti che la volumetria dell'edificio sottoposto a lavori di ristrutturazione rimanga identica a quella preesistente ai lavori stessi, chiarisce che «nell'ipotesi di demolizione e ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele ricostruzione: nell'ipotesi di demolizione e ricostruzione con ampliamento della volumetria, la detrazione non spetta in quanto l'intervento si considera, nel suo complesso, una nuova costruzione. Qualora, invece, la ristrutturazione avvenga senza demolizione dell'edificio e con suo ampliamento, la detrazione compete solo per le spese riferibili alla parte esistente, in quanto l'ampliamento configura, comunque, una nuova costruzione» (articolo ItaliaOggi del 22.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOGli incarichi dirigenziali non possono essere solo fiduciari.
Il tema delle regole per conferire gli incarichi dirigenziali della pubblica amministrazione è quanto mai attuale ed è attraversato da questioni sempre più rilevanti: basti pensare alle recenti indagini penali e a quelle per responsabilità contabile che evidenziano l'esigenza di un intervento chiarificatore del legislatore in grado di fare sintesi tra il necessario rapporto fiduciario alla base dell'incarico e la scelta della migliore professionalità, previa selezione pubblica trasparente e tale da garantire il buon andamento e l'imparzialità della Pa.
La questione è stata già affrontata dalla legge n. 114/2014, che modificato con due norme le modalità per nominare i dirigenti: da un lato ha imposto agli enti locali una selezione pubblica volta ad accertare il possesso di una comprovata esperienza pluriennale e una specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico, dall'altra, in relazione agli incarichi regionali, ha introdotto il tema della selezione pubblica «per la dirigenza regionale e la dirigenza professionale, tecnica ed amministrativa degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale» rinviando alla «selezione pubblica ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del testo unico n. 267/2000».
Sulla selezione comparativa ha parlato la Cassazione
In ordine alla selezione comparativa si è già indirettamente espressa la Corte di Cassazione -Sezione unite civili (sentenza 27.02.2017 n. 4881) così come la Corte dei conti che in varie decisioni ha ritenuto illegittimi i conferimenti effettuati senza il rispetto d'idonea pubblicità dei posti vacanti ovvero in assenza delle procedure valutative; ciò perché il descritto procedimento è improntato al duplice obiettivo di contemperare sia l'interesse dell'amministrazione ad attribuire il posto al soggetto più idoneo, in ossequio al principio del buon andamento, sia ad assicurare la parità di trattamento e le legittime aspirazioni degli interessati.
Il previo esperimento delle procedure di interpello corrisponde, come più volte affermato dalla Corte dei Conti, sia alla necessità di assicurare la soddisfazione delle esigenze di trasparenza, non discriminazione e buona amministrazione, sia a tener conto delle aspirazioni degli interessati.
La sentenza
L'occasione per tornare sul tema è offerta da una recente decisione del Tribunale di Catanzaro (Ordinanza n. 3474/2019) nella quale è affrontato, con una visuale molto particolare, il potere privatistico di conferimento dell'incarico dirigenziale di cui è titolare la pubblica amministrazione in qualità di datore di lavoro, in conformità ai principi di buona fede e correttezza nell'esercizio del potere negoziale.
Il Tribunale, partendo dall'obbligo previsto dall'articolo 19, comma 1-bis, del Dlgs 165/2001, ricava che «la ragione ultima della norma -espressione dell'articolo 97 Costituzione e del principio di ponderata separazione tra politica e amministrazione- è quella di escludere la possibilità di conferimenti di incarichi dirigenziali meramente fiduciari».
È necessaria, invece, «l'imposizione di una selezione fondata su criteri predeterminati e conoscibili, di carattere obiettivo e di natura tecnico-professionale». Per il Tribunale di Catanzaro «l'amministrazione deve realizzare una procedura selettiva, di natura non concorsuale» con un giudizio di idoneità utile all'affidamento dell'incarico dirigenziale, completo degli elementi e delle connessioni valutative di natura prettamente tecnico-professionale.
Per il Giudice è «dovere per l'amministrazione» predeterminare i criteri di scelta e dei limiti prescritti, precisi ma adeguatamente elastici, confermando l'impostazione della prevalente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato n. 2947/2013) e di quella ordinaria per la quale lo scopo della procedura selettiva è quello di «fornire all'amministrazione, cui compete la scelta del soggetto al quale conferire l'incarico dirigenziale, una rosa di candidati qualificati in possesso di caratteristiche professionali corrispondenti ai criteri predeterminati e idonei a ricoprire tale incarico e rispetto ai quali la Pa è chiamata ad effettuare una scelta» (sentenza Corte di Cassazione del 14.04.2008 n. 9818).
Una fattispecie caratterizzata non dalla definizione di una graduatoria vincolante per la scelta, quanto da un confronto comparativo ispirato all'imparzialità, alla ragionevolezza e all'osservanza dei principi costituzionali del buon andamento, dell'efficienza e dell'agire pubblico.
La novità
La novità introdotta dal giudice calabrese sta nella necessità da parte dell'amministrazione di modellare adeguatamente il procedimento ed i presupposti sui quali fondare il giudizio di idoneità. È su questo dovere che la decisione pare innovare, imponendo alla Pa di predeterminare i criteri di scelta ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale. La predeterminazione dei criteri di scelta costituisce, quindi, l'impalcatura di sostegno all'esercizio del conferimento, poiché sono le regole di selezione a determinare il giudizio d'idoneità per l'incarico dirigenziale, a conformare la struttura.
Solo la predeterminazione dei criteri di scelta assicura il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, il rispetto della buona fede e della correttezza contrattuale ed è insufficiente un'apparente predeterminazione dei criteri di selezione.
Occorre elaborare una «forma di selezione che, per quanto non abbia natura concorsuale in senso stretto, è tuttavia comunque basata sull'apprezzamento oggettivo, ed eventualmente anche comparativo, delle qualità professionali e del merito» ed evitare, quindi, che l'affidamento di un incarico volto all'attuazione dell'indirizzo politico, e non alla sua formazione, «possa avvenire in base ad una mera valutazione soggettiva di consentaneità politica e personale fra nominante e nominato» (Corte costituzionale n. 34/2010).
La fittizia e apparente predeterminazione dei criteri di scelta, vulnerando la necessaria conoscibilità dei medesimi, elide i principi di buona fede e correttezza, conducendo ad un conferimento solo apparentemente motivato, sottratto ad un effettivo controllo giurisdizionale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIl risultato di amministrazione finanzia la «buonuscita» del sindaco.
L'imminente svolgimento delle consultazioni amministrative per il rinnovo degli organi, che coinvolge circa la metà dei Comuni italiani, è l'occasione per fare il punto sugli adempimenti contabili cui sono chiamati i servizi finanziari in relazione all'elezione del sindaco.
Indennità di fine mandato
L'articolo 82, comma 8, lettera f), del Dlgs n. 267/2000 ha introdotto l'indennità di fine mandato. Si tratta di un’integrazione dell'indennità di funzione prevista in favore del sindaco alla fine dell'incarico amministrativo. L'istituto è regolato dall’articolo 10 del Dm Interno n. 119/2000, che ne ha stabilito la misura in un'indennità mensile spettante per ogni 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per periodi inferiori all'anno. Successivamente il comma 719 della legge 296/2006 ha previsto che, dal 01.01.2007, l'indennità di fine mandato del sindaco spetti solamente «nel caso in cui il mandato elettivo abbia avuto una durata superiore a trenta mesi».
Il ministero dell'Interno, con la circolare n. 5/2000 e poi con la circolare n. 4/2006, ha ribadito quanto già definito in merito dal Consiglio di Stato (parere espresso nell'adunanza della prima sezione del 19.10.2005), cioè che l'indennità di fine mandato deve essere commisurata all'importo effettivamente corrisposto al sindaco e non all'importo teorico spettante in base al Dm 119/2000, e va ridotta proporzionalmente per periodi inferiori all'anno. Se il sindaco ha rinunciato a percepire l'indennità, per effetto del divieto di cumulo o di autonoma scelta, nulla è quindi dovuto per la fine del mandato.
Il diritto del sindaco a percepire l'indennità di fine mandato sorge al momento della cessazione della carica e al verificarsi delle condizioni descritte, anche in caso di rielezione. Quindi il pagamento è sempre dovuto e la spesa dovrà essere finanziata (ad eccezione del rateo maturato nel 2019) mediante applicazione della quota accantonata nel risultato di amministrazione 2018, in base al punto 5.2, lettera i) del principio contabile allegato 4/2 al Dlgs 118/2011.
Gli enti che non avessero provveduto in tal senso dovranno quindi attendere l'insediamento del consiglio comunale e l'approvazione della variazione di bilancio, non risultando corretto l'utilizzo delle risorse destinate ordinariamente al pagamento delle indennità di funzione.
Il legislatore non ha fissato un termine per la liquidazione, che potrà avvenire anche a distanza di qualche mese. La mancata erogazione è soggetta a prescrizione, in relazione alla quale si applica il termine quinquennale previsto dall'articolo 2948, n. 5, del Codice civile (parere del Ministero dell'interno del 28.01.2010, Corte dei conti Molise, delibera n. 61/2009 e Corte dei conti Abruzzo, delibera n. 149/2018).
L’indennità è soggetta a tassazione separata ai fini Irpef e concorre a determinare la base imponibile Irap (risoluzione agenzia delle Entrate del 15.04.2010 n. 29/E ).
Verifica straordinaria di cassa
L'articolo 224, comma 1, del Tuel prevede che in caso di mutamento della persona del sindaco si proceda alla verifica straordinaria di cassa, a cui devono intervenire «gli amministratori che cessano dalla carica e coloro che la assumono, nonché il segretario, il responsabile del servizio finanziario e l'organo di revisione dell'ente». Gli enti non dovranno procedere ad alcuna verifica nel caso in cui, invece, vi sia una riconferma del sindaco uscente.
Il Tuel demanda al regolamento comunale di contabilità la disciplina delle modalità di svolgimento di tale verifica ed in particolare i tempi entro cui svolgerla, che comunque devono essere contenuti nell'arco di pochi giorni. La verifica straordinaria di cassa deve riguardare non solamente i fondi liquidi disponibili presso la Banca d'Italia, ma anche quelli giacenti sui conti correnti postali o bancari, i depositi azionari e la verifica dei conti degli agenti contabili a denaro.
Comunicazione variazione legale rappresentante
Altri adempimenti importanti riguardano la variazione del legale rappresentante dell'ente agli enti esterni, da attivare in caso di mutamento della persona del sindaco (in particolare Agenzia delle entrate, Inail, Inps). Infatti, non essendo i comuni tenuti all'iscrizione al registro imprese, la comunicazione della modifica del legale rappresentante rappresenta un obbligo posto in capo ai singoli enti. Le comunicazioni devono essere inviate entro 30 giorni dalla proclamazione del sindaco, pena l'applicazione di sanzioni.
Linee programmatiche e Dup
La presentazione delle linee programmatiche di mandato, da effettuarsi entro 45 giorni dall'insediamento in base all'articolo 46, comma 3, del Tuel, influenzerà la redazione del documento unico di programmazione (Dup), sia con riferimento alla strategia della nuova amministrazione che della parte strettamente operativa e contabile.
Le linee programmatiche, infatti, consistono in un documento, che contiene gli indirizzi, gli obiettivi e le più significative iniziative, nonché l'elenco delle opere pubbliche che si intende finanziare durante il corso del mandato. Il documento, inoltre, contiene per sommi capi i riferimenti alle quantità di risorse finanziarie necessarie ed alle modalità con cui si intende reperirle.
La relazione di inizio mandato
All'inizio del nuovo mandato politico-amministrativo, è necessario redigere la relazione che consiste in un documento di analisi utile a verificare lo stato di salute finanziaria e patrimoniale e la misura dell'indebitamento dell'ente, nonché ad evidenziare eventuali scostamenti rispetto alla relazione di fine mandato, già redatta dall'amministrazione uscente.
Il documento, previsto dall' articolo 4-bis del Dlgs 149/2011 dovrà essere redatto dal responsabile finanziario o dal segretario dell'ente e sottoscritta dal sindaco/presidente entro 90 giorni dall'insediamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGOProgressioni economiche solo per metà dei dipendenti della categoria.
Le progressioni economiche all'interno della categoria possono essere riconosciute a una quota limitata di dipendenti, vincolo che deve essere tradotto in una quantità massima non eccedente il 50% degli aventi diritto.

È l'importante chiarimento contenuto nella circolare 16.05.2019 n. 15 della Ragioneria generale dello Stato sul conto annuale per l'anno 2018.
Con la riforma Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo 23), partendo dalla considerazione che deve trattarsi di uno strumento premiale, le progressioni economiche vengono legate non solo alle risorse disponibili, che devono avere carattere di stabilità, ma anche a un concetto di selettività. Principio che viene introdotto anche nel Dlgs 165/2001, e, in particolare, all'articolo 52, comma 1-bis. Tale selettività viene declinata, dalla stessa riforma Brunetta, in una formula che vuole il riconoscimento «a una quota limitata di dipendenti».
Ma anche questa locuzione non ha contribuito alla serenità degli operatori ed è iniziato il toto interpretazione di quale fosse l'altezza dell'asticella che consentisse di dormire sonni tranquilli. Un numero, fino ad oggi, non era mai stato pronunciato, ma si potevano registrare una serie infinita di pronunce della Corte dei conti che condannavano al danno erariale i responsabili che avevano disposto il riconoscimento dell'istituto in questione per la quasi totalità dei dipendenti. I sindacati, pure firmatari del contratto decentrato dove vengono decise le progressioni, ad oggi, non sono stati mai chiamati a rispondere in caso di illegittimità.
Un anno fa
A parlare di quantità ha iniziato l'anno scorso la Ragioneria dello Stato, con la circolare sul conto annuale 2017, quando, a proposito delle progressioni, ha scritto che la misura del grado di selettività può ritenersi convenzionalmente inferiore o uguale al 50%.
Quest'anno la stessa Ragioneria ha fatto un ulteriore passo in avanti. Parte facendo riferimento al disposto del Ccnl delle funzioni locali sottoscritto il 21.05.2018, dove, all'articolo 16, comma 2, viene ripreso il concetto di quota limitata di dipendenti ed afferma che questo «è da intendersi riferito a non oltre il 50% degli aventi diritto ad accedere alla procedura».
Quindi la percentuale non è riferita a tutti i lavoratori dell'ente, ma a quella parte di questi che sono in possesso dei requisiti, stabiliti in sede di contrattazione decentrata, anche se il Ccnl ne detta uno, minimale: 24 mesi di permanenza nella posizione economica in godimento. Quindi per calcolare il 50% si devono escludere, quantomeno, i dipendenti che hanno già usufruito di una progressione orizzontale nell'ultimo biennio. Facendo due conti, il primo anno può essere riconosciuto il beneficio alla metà degli aventi diritto. La tornata successiva, questi ultimi non possono partecipare per il vincolo dei 24 mesi di permanenza nella posizione economica in godimento e, quindi, può prendere parte alla selezione solo l'altra metà dei dipendenti e, di questi, solo al 50% può essere attribuita la progressione.
In pratica il 25% dei lavoratori. La mente va alle mitiche fasce di brunettiana memoria, oggi abrogate formalmente, le quali prevedevano che il premio fosse riservato alle prime due delle predette fasce, per un totale del 75% dei dipendenti, lasciando a bocca asciutta il restante 25% (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Al via il monitoraggio delle posizioni organizzative.
Dopo le novità dell’ultimo contratto nazionale c'era davvero d'aspettarsi che anche la rendicontazione sulle spese di personale delle pubbliche amministrazioni si adeguasse al fatto che i valori della retribuzione di posizione e di risultato sono ricompresi nel tetto del trattamento accessorio previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
I versanti di principale analisi sono due: da una parte vengono chieste informazioni su quanto l'ente ha stanziato per l'istituto e dall'altra si chiedono dati in merito all'utilizzo di tale somme.
Posiziono organizzative
Compare per la prima volta una sezione speciale denominata «Posizioni organizzative (bilancio)» della Tabella 15 . La precisazione sta nel fatto che tali somme non vengono più prelevate dal fondo del trattamento accessorio, ma per tutti gli enti costituiscono stanziamenti di bilancio.
Nella tabella a sinistra vanno indicate tre possibili informazioni. Il punto fermo da cui si muove la rilevazione è costituito dal riportare quante somme sono state destinate all'istituto nel 2017. È, infatti, tale valore che costituisce il punto di partenza anche per "capire" se è necessario una qualche relazione sindacale. Le altre due voci, di conseguenza, sono quelle destinate a monitorare se l'ente, nell'anno della rilevazione ha aumentato o diminuito il valore dell'anno 2017. Va da sé, che per rimanere nel «tetto» dell'anno 2016 l'utilizzo di tale possibilità deve essere compensato da medesime valorizzazioni sulle altre poste del fondo. Non a caso, all'interno della sezione «Decurtazioni» è stata inserita anche la voce «Decurtazione somme destinate alle p.o.», per garantire l'invarianza nel rispetto del limite complessivo.
Ricordiamo, anche, le regole introdotte dal Ccnl 21.05.2018: se l'ente stanzia meno somme per le posizioni organizzative, in sede di confronto con i sindacati, si valutano le facoltà per poter integrare altre voci del fondo dei dipendenti. Se, invece, l'ente vuole stanziare di più per le p.o. è necessario che l'azione venga contrattata con le rappresentanze sindacali.
Le modalità di utilizzo
Nella sezione a destra della Tabella 15 vengono invece raccolte le modalità di utilizzo. Per l'istituto in esame troviamo tre caselle di compilazione. La parte più importante è costituita dalla retribuzione di posizione, che per le categorie D può variare da 5mila a 16.000 euro.
Poi va indicata, altresì, la quota della retribuzione di risultato che non può essere inferiore al 15% dell'intera somma destinata alle posizioni organizzative. Da ultimo viene prevista anche l'indicazione delle somme erogate per «interim» ovvero quanto una p.o. sostituisce un suo collega. In questo caso, la maggiorazione che viene riconosciuta varia dal 15 al 25% della posizione sostituita (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.05.2019).

APPALTI: Appalti, lo stato di avanzamento fa scattare i termini per i pagamenti. A partire dal 28 maggio, calendario più stretto nei lavori e nelle forniture.
Le amministrazioni devono effettuare i pagamenti degli stati di avanzamento degli appalti entro 30 giorni, salvo diverso termine stabilito nel contratto per giustificate ragioni; in ogni caso mai oltre i 60 giorni.
L’articolo 5 della legge europea (n. 37/2019) traspone negli appalti pubblici, con vigenza dal 28 maggio, gli effetti della seconda direttiva pagamenti. La norma riformula l’articolo 113-bis del Dlgs 50/2016 e individua i riferimenti per il versamento dei corrispettivi agli appaltatori, modificando lo schema temporale ormai consolidato in base all’articolo 4, comma 4 del Dlgs 231/2002.
La norma stabilisce anzitutto che i pagamenti relativi agli acconti del corrispettivo di appalto sono effettuati nel termine di 30 giorni dall’adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori, salvo che sia espressamente concordato nel contratto un diverso termine. Termine che comunque non può superare i 60 giorni, e che deve essere oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da alcune sue caratteristiche.
Si specifica quindi come momento di decorrenza del termine quello di formalizzazione dello stato di avanzamento lavori, rispetto al quale le amministrazioni devono emettere contestualmente (o al massimo entro sette giorni) i certificati di pagamento relativi agli acconti del corrispettivo.
L’applicazione del nuovo sistema anche ai servizi e alle forniture di beni è rilevabile nel comma 2, il quale prevede che all’esito positivo del collaudo o della verifica di conformità (e comunque entro sette giorni) il responsabile unico del procedimento rilasci il certificato di pagamento per l’emissione della fattura da parte dell’appaltatore; il pagamento è effettuato nel termine di 30 giorni decorrenti dall’esito positivo del collaudo o della verifica di conformità, salvo che sia espressamente concordato nel contratto un diverso termine. Ancora una volta, il tetto è di 60 giorni e serve la motivazione oggettiva.
Per gli appalti di servizi e di forniture (nei quali la verifica di conformità in corso di esecuzione è spesso sistematizzata in relazione a scansioni temporali anche brevi), il pagamento deve avvenire entro 30 giorni dall’esito positivo delle verifiche.
Sia nell’ambito dei lavori sia in quello dei servizi e delle forniture il termine di pagamento può essere esteso a un massimo di 60 giorni, ma sulla base di una specifica indicazione contrattuale e solo quando sussistano ragioni connesse agli elementi peculiari dell’appalto (per esempio particolari tipologie di prestazioni con consegna immediata).
In entrambe le macro-tipologie di appalti il responsabile unico del procedimento deve rilasciare, contestualmente all’adozione degli stati di avanzamento lavori o all’esito del collaudo o della verifica, il certificato di pagamento, in rapporto al quale l’appaltatore emetterà la fattura elettronica. L’emissione del certificato può essere posticipata al massimo di sette giorni.
La nuova disposizione chiarisce che il certificato di pagamento non costituisce presunzione di accettazione dell’opera in base all’articolo 1666, comma 2 del Codice civile.
Il comma 4 del riformulato articolo 113-bis del Codice degli appalti replica il comma 2 della disposizione originaria, che configura la disciplina per l’applicazione delle penali negli appalti pubblici. E conferma che la definizione delle penali deve essere operata dai contratti, commisurandole ai giorni di ritardo e in misura proporzionale rispetto all’importo contrattuale o alle prestazioni. Il riferimento per il calcolo della misure giornaliera rientra nel range compreso tra lo 0,3 per mille e l’1 per mille dell’ammontare netto contrattuale.
Le stazioni appaltanti devono determinare le penali in relazione all’entità delle conseguenze legate al ritardo, considerando che in caso di sommatoria il superamento del valore del 10% dell’ammontare netto contrattuale si configura come causa di risoluzione del contratto (articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni solo con il via libera dei revisori contabili. I controllori dovranno certificare il rispetto degli equilibri pluriennali.
Aumentano i controlli sulla spesa di personale per i revisori dei conti.
La nuova disciplina delle assunzioni introdotta dal decreto crescita (articolo 33, comma 2 del Dl 34/19) stabilisce l’obbligo di asseverazione del rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio nei Comuni che vogliono effettuare assunzioni a tempo indeterminato.
I nuovi reclutamenti, da programmare in coerenza con i piani triennali dei fabbisogni, non potranno determinare una spesa complessiva per tutto il personale dipendente (al lordo degli oneri riflessi) superiore al valore soglia definito come percentuale, differenziata per fascia demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli del rendiconto dell’anno precedente, al netto del fondo crediti dubbia esigibilità nel bilancio di previsione (Anci ha chiesto di aggiungere la precisazione di parte corrente).
Questa norma cambia le capacità assunzionali dei Comuni, sostituendo il turn over con un sistema basato sulla sostenibilità finanziaria della spesa.
Con decreto interministeriale, da emanare entro fine giugno, saranno individuate le fasce, i valori soglia prossimi al valore medio per singola fascia e le percentuali massime annuali di incremento del personale in servizio per i Comuni sotto la soglia. L’aggiornamento dei parametri di calcolo potrà essere quinquennale.
I Comuni che si collocheranno sopra la soglia dovranno adottare un percorso di graduale riduzione annuale del rapporto, fino al conseguimento del valore soglia nel 2025 anche applicando un turn over inferiore al 100%. Dal 2025 questi Comuni applicheranno un turn over del 30%, fino al conseguimento del valore soglia.
I revisori saranno chiamati in causa con l’obbligo di asseverazione del rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio. Il punto di riferimento per questo adempimento è il prospetto di verifica degli equilibri allegato al bilancio di previsione e alle sue variazioni, dove sono rappresentati gli equilibri finanziari per le tre annualità del bilancio. La firma si aggiunge a quella sulla delibera di approvazione dei fabbisogni di personale, nell’ambito della quale occorre dar conto della compatibilità della programmazione con i vincoli di bilancio.
Non è chiara invece la sorte degli ulteriori tetti e limitazioni alla spesa di personale, non espressamente abrogati nella norma (Sole 24 Ore di lunedì scorso). Anci ha inserito fra le proposte di emendamenti la loro disapplicazione per evitare ulteriori stratificazioni normative. Si tratta, in particolare, del vincolo per cui la politica retributiva e assunzionale degli enti locali deve comunque essere attuata all’interno dei vincoli di contenimento della spesa di personale fissati ai commi 557 e 562 della legge 296/2006 per gli enti già assoggettati oppure esclusi dal vecchio patto di stabilità.
I Comuni con più di mille abitanti sono tenuti ad assicurare il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio 2011/2013. Gli altri sono invece obbligati a mantenere le spese di personale entro il corrispondente ammontare del 2008 le proprie spese di personale, al lordo degli oneri riflessi e dell’Irap, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali.
Per chi non rispetta i vincoli sulla spesa di personale si bloccano le assunzioni a qualsiasi titolo. Agli enti inadempienti è preclusa anche la possibilità di alimentare il fondo delle risorse decentrate con quote aggiuntive variabili.
Ulteriori limiti di contenimento disciplinano poi le spese relative ai rapporti di lavoro flessibile (articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2019).

CONSIGLIERI COMUNALICambia il sindaco, obbligatoria la verifica straordinaria di cassa.
In molti Comuni interessati dalle prossime consultazioni per l'elezione diretta dei sindaci e dei consigli comunali (26 maggio con eventuale ballottaggio il 9 giugno), si dovrà procedere a una verifica straordinaria della cassa.
É opportuno, sin d'ora, interessare gli uffici preposti per raccordare e regolarizzare con il tesoriere le partite sospese/vaganti, carte contabili, pignoramenti, riscossioni e pagamenti non contabilizzati.
Sarà utile aggiornare i flussi di cassa riportando in bilancio, con l'emissione di reversali, quelle somme extracontabili giacenti su conti correnti postali o bancari ottemperando all'obbligo stabilito dalle norme di tesoreria unica di riversamento quindicinale delle disponibilità da utilizzare prioritariamente rispetto ai fondi in tesoreria unica, infruttiferi di interessi (circolare Mef 24.03.2012 n. 11 prot. 20131- articolo 1, comma 1, legge 720/1984).
L'organo di revisione ancora prima di ricevere i dati trattati e aggiornati dagli uffici ha la possibilità di conoscere, con indipendenza, la consistenza dei flussi di cassa del tesoriere segnalati nel sito web Siope all'indirizzo https://www.siope.it/Siope/ cliccando la sezione "Enti" per conoscere i dettagli giornalieri o con la periodicità desiderata.
Analogamente è possibile consultare on-line presso la banca d'Italia dal sito web www.bancaditalia.it (sezione Compiti/Tesoreria/Estratti conto on line), previo accreditamento, le varie sintesi delle somme transitate in BankItalia n base al modello 56T (mensile) e al 3TesUn (giornaliero).
Definizione dell'obbligo
L'articolo 224 del Tuel stabilisce che si debba procedere alla verifica straordinaria ogni qualvolta cambi il sindaco anche metropolitano ovvero il presidente della Provincia o di Comunità montana.
Alle operazioni di verifica straordinaria intervengono gli amministratori che cessano dalla carica e quelli che la assumono, nonché il segretario, il responsabile del servizio finanziario e l'organo di revisione dell'ente. Viceversa il tesoriere dell'ente è tenuto nel corso dell'esercizio alla conservazione e custodia dei verbali redatti (articolo 225).
Regolamento di contabilità
Il regolamento di contabilità in forza dell'articolo 74 del Dlgs n. 118/2011 - punto 51) articolo 3 del Dlgs 126/2014 disciplina le modalità di svolgimento delle operazioni di verifica in deroga ai principi generali con valore di limite inderogabile che ne escludevano la pianificazione (articoli 1, comma 3 e 152, comma 4, del Tuel 267/2000).
Principi, caratteristiche e contenuti del verbale
La verifica straordinaria di cassa si articola in tre momenti fondamentali: verifica e raccordo interno del conto di diritto dell'ente; verifica e raccordo con il conto di fatto del tesoriere; verifica e raccordo del conto del tesoriere con il conto della Banca d'Italia per le transazioni/partite giornaliere non compensate degli ultimi 3 giorni lavorativi come da questo schema.
Una volta definita la parte contabile di riconciliazione e concordanza dei dati (situazione diritto/di fatto/bankit) si potrà procedere alla verifica dei saldi della cassa vincolata totalizzando le movimentazioni intervenute in tesoreria di residui passivi vincolati e fondo pluriennale vincolato (spesa) al 31 dicembre contrapposte ai residui attivi vincolati - principio contabile allegato 4/2 Dlgs 118/2011, punto 10.6 contabilità finanziaria.
Un adempimento non puntuale è considerato dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti se in grado di incidere negativamente sulle risultanze (deliberazione n. 31 del 19.11.2015). Altri elementi da indicare vengono disposti dal regolamento di contabilità tenendo presente che per motivi di ragionevolezza e buon andamento, con criteri di efficacia ed efficienza, è conveniente indicare le risultanze dei conti correnti bancari/postali/tesoreria Stato acquisendo agli atti la situazione delle eventuali anticipazioni di tesoreria e dei conti degli agenti contabili anch'essi verificabili on-line dal portale SOLe della Corte dei conti, conto Sireco on-line (articolo 138, comma 1, del Dlgs 26.08.2016 n. 174).
Responsabilità dell'organo di revisione
I componenti dell'organo di revisione sono considerati pubblici ufficiali e in quanto tali, nello svolgimento delle proprie funzioni, possono incorrere in abuso di ufficio (articolo 353 codice penale), falso materiale (476 cp), falso ideologico (479 cp) ma anche nella «culpa in vigilando» (articolo 2407 codice civile) sanzionabile patrimonialmente per inosservanza dolosa o colposa degli obblighi di servizio. Avviarsi pacatamente all'adempimento, per tempo debito e con il coinvolgimento professionale degli uffici comunali e del tesoriere, rappresenta un rimedio infallibile per la ottimale redazione, senza particolari ansie, della verifica straordinaria di cassa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODecreto Crescita e posizioni organizzative, corsa contro il tempo per gli Enti senza dirigenti.
Corsa contro il tempo per poter adeguare il valore delle posizioni organizzative dei Comuni privi di dirigenti con equivalente riduzione delle capacità assunzionali da inserire, mediante modifica, nella programmazione del personale, in coerenza con le indicazioni del decreto semplificazioni (Dl 135/2018).

Infatti, una volta emanato il decreto del ministero della Pubblica amministrazione, sarà indicata la data di operatività del decreto crescita (Dl 34/2019) che, invece, prevede per i Comuni (anche con personale dirigenziale) l'incremento o la riduzione della dote finanziaria per le posizioni organizzative a seconda della verifica del rapporto tra spesa del personale e i primi tre titoli delle entrate (al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio).
Le disposizioni del decreto semplificazioni
In sede di conversione in legge del Dd 135/2018, è stato inserito l'articolo 11-bis, comma 2, che ha concesso, ai soli enti locali privi di posizioni dirigenziali, la possibilità di incrementare il differenziale tra il valore stabilito dal nuovo contratto delle funzioni locali (fino a 16.000 euro + risultato) e quello attribuito alla data di entrata in vigore del nuovo contratto (fino a 12.911,42 + risultato).
Questo incremento è stato, tuttavia, condizionato a due diversi requisiti. Il primo è che il maggior importo sia finanziato da una equivalente riduzione finanziaria da «destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato» (capacità assunzionale disponibile). La seconda condizione riguarda il rispetto del limite di spesa che non potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013, ovvero, per gli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno 2008.
Le nuove disposizioni del decreto crescita
L'articolo 33, comma 2, del Dl 34/2019 ha previsto, invece, che le nuove assunzioni di personale da parte dei Comuni possano avvenire non più sulla base delle proprie capacità assunzionali, ma solo qualora rispettino il valore di un parametro soglia individuato con specifico decreto del ministero per la Pubblica amministrazione per classe demografica, dato dal rapporto tra spesa del personale e i primi tre titoli delle entrate (al netto del fondo crediti dubbi stanziati in bilancio).
Spariscono, pertanto, i due parametri previsti dal decreto semplificazioni, ossia le capacità assunzionali (date dalle cessazioni dell'anno precedente cui si aggiungono anche eventuali resti assunzionali del triennio precedente) e, il rispetto del valore medio della spesa sostenuta nel triennio 2011-2013, sostituita nel decreto crescita dal rispetto pluriennale dell'equilibrio di bilancio asseverato dall'organo di revisione.
Applicazione della nuova normativa
La concreta applicazione, tuttavia, contenuta nel decreto Crescita potrà avvenire esclusivamente dalla data «individuata dal decreto». In altri termini il decreto del ministero della Pa, previsto entro 60 giorni dalla data del Dl 34/2019, previa intesa in Conferenza Stato città, dovrà anche definire la data di applicazione delle nuove disposizioni.
 I Comuni, privi di dirigenti, avranno un ristretto tempo a disposizione per poter ancora modificare gli importi delle proprie capacità assunzionali per eventualmente destinarle in parte a incrementare la dote finanziaria delle posizioni organizzative. Infatti, una volta individuata la data di operatività nel decreto ministeriale e verificati i valori soglia, i Comuni che rientreranno tra quelli in cui il rapporto è inferiore al valore soglia potranno incrementare le proprie assunzioni e dovranno anche aumentare sia il fondo che il valore economico delle posizioni organizzative in proporzione all'incremento del valore pro-capite dell'anno di riferimento rispetto quello al 31.12.2018. Situazione opposta per gli enti non virtuosi che dovranno, invece, procedere ad una riduzione del salario accessorio anche per le posizioni organizzative.
Si ricorda come risultano esclusi dalle disposizioni del decreto Crescita le Città metropolitane, le Province, le Unioni dei Comuni e le Comunità montane (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.05.2019).

APPALTISubappalti più facili e con maggiori possibilità di utilizzo.
Il subappalto può essere previsto dalla stazione appaltante nei documenti di gara sino al 50% del valore del contratto e gli aggiudicatari possono subappaltare a operatori economici che abbiano partecipato alla stessa gara.

Il Dl 32/2019 ha apportato numerose modifiche alla disciplina del subappalto, determinandone una possibilità di utilizzo più ampia rispetto al quadro precedente nonché semplificando alcuni aspetti connessi alla procedura di gara e all'esecuzione.
Le modifiche
La prima conseguenza delle nuove disposizioni riformulate nel comma 2 dell'articolo 105 del codice dei contratti pubblici è la più netta evidenziazione dell'obbligo di indicazione del subappalto nel bando di gara (o nella lettera di invito nelle procedure ristrette o negoziate). La disposizione può essere interpretata anche nel senso di permettere all'amministrazione di non prevedere il subappalto, non indicandolo nei documenti di gara.
Rispetto a questa scelta la stazione appaltante deve tener conto dell'interpretazione estensiva dell'istituto in ambito eurounitario (nel quale il subappalto è considerato uno strumento di flessibilizzazione organizzativa ampiamente utilizzabile dagli operatori economici) e delle indicazioni della giurisprudenza, che rispetto al regime previgente hanno ammesso l'esclusione, ma solo se motivata in rapporto a peculiarità dell'appalto.
La stazione appaltante ha in ogni caso la possibilità di determinare il dimensionamento quantitativo dell'appalto entro la soglia del 50% del valore del contratto (con l'unica eccezione per le opere super-specialistiche, per cui il limite rimane al 30%), eventualmente tenendo conto anche delle specificità dei lavori, dei servizi o delle forniture oggetto dell'appalto stesso.
In relazione alla procedura di affidamento il Dl 32/2019 ha abrogato il comma 6 dell'articolo 105 del Dlgs 50/2016, eliminando l'obbligo di indicazione della terna dei subappaltatori da parte dei concorrenti in sede di partecipazione alla gara, ma rimane per gli operatori economici la specificazione in sede di offerta delle parti che intendono subappaltare, se vogliono poi esercitare la facoltà nel corso dell'esecuzione dell'appalto.
Protocolli di legalità
Il decreto Sblocca-cantieri, abrogando la disposizione contenuta nella lettera a) del comma 4 dell'articolo 105 consente ora all'aggiudicatario di subappaltare a un altro operatore economico che abbia partecipato alla stessa gara.
L'eliminazione della disposizione che vietava la relazione ex post tra soggetti partecipanti alla stessa gara deve essere considerata anche in rapporto ai protocolli di legalità, in uso in molti contesti territoriali al fine di contrastare le infiltrazioni negli appalti delle organizzazioni criminali, per verificare se incide sugli stessi (determinando la disapplicazione delle clausole) o se non ne tocca la portata applicativa come strumenti integrativi della lex specialis con particolare finalità di garanzia dell'ordine pubblico.
Nell'esecuzione dell'appalto la stazione appaltante non deve più pagare direttamente i subappaltatori per la sola configurazione degli stessi come micro o piccole imprese, ma solo in caso di inadempimento da parte dell'appaltatore o se vi sia una specifica richiesta da parte del subappaltatore (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).

APPALTISblocca-cantieri, nei mercati elettronici semplificate le verifiche sui requisiti generali.
I soggetti che gestiscono mercati elettronici verificano la sussistenza dei requisiti generali degli operatori economici iscritti su un significativo campione degli stessi, mentre le amministrazioni che affidano appalti con le procedure semplificate, sempre nell'ambito dei stessi mercati elettronici, devono solo verificare i requisiti di capacità.
Dopo le modifiche alle procedure di gara che comportano adeguamento di bandi-tipo e altri documenti sia per agli affidamenti sopra-soglia sia per quelli sotto-soglia (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 29 aprile) e aver ridefinito complessivamente il quadro dei presupposti per rilevare le offerte anomale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 30 aprile), il Dl n. 32/2019 modifica anche le regole per verificare l'assenza delle cause ostative previste dall'articolo 80 del codice dei contratti pubblici per l'ammissione e per la permanenza nei mercati elettronici, sostituendo il precedente quadro di riferimento, che su questo impegnava i soggetti gestori solo per gli affidamenti di importo inferiore a 40mila euro e manteneva il controllo dei requisiti sull'aggiudicatario.
La novità
Il nuovo comma 6-bis stabilisce che per l'ammissione e la permanenza degli operatori economici nei mercati elettronici il soggetto responsabile dell'ammissione verifica l'assenza dei motivi di esclusione previsti dall'articolo 80 su un campione significativo di operatori economici, ampliando la portata della vecchia norma a tutta l'area del sottosoglia e valorizzando l'utilizzo della banca dati nazionale degli operatori economici, quando sarà operativa.
Il dato più singolare e probabilmente più innovativo sta nel successivo nuovo comma 6-ter, articolo 36 del codice, il quale stabilisce che nelle procedure di affidamento effettuate nell'ambito dei mercati elettronici, la stazione appaltante verifica esclusivamente il possesso da parte dell'aggiudicatario dei requisiti economici e finanziari e tecnico professionali: tale previsione consente alle amministrazioni che utilizzano le procedure semplificate dei mercati elettronici (sia per gli affidamenti diretti sia per le mini-gare) di sottoporre a verifica ai fini dell'aggiudicazione solo i requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale, potendo assumere come sussistenti quelli di ordine generale, in quanto sottoposti al meccanismo di verifica continua sviluppato dal soggetto gestore.
Tale interpretazione sembra essere sostenuta dalla nuova configurazione del processo di verifica, in quanto nelle due disposizioni e nel successivo (anch'esso nuovo) comma 6-quater non c'è alcun riferimento all'obbligo di verifica specifica dei requisiti in capo all'aggiudicatario, come invece c'era nel previgente dato normativo.
Formulari semplificati
Proprio il nuovo comma 6-quater, inoltre, nello stabilire per i soggetti gestori di mercati elettronici la possibilità di utilizzare formulari semplificati in luogo del documento di gara unico europeo mediante i quali richiedere e verificare il possesso dei requisiti di cui all'articolo 80 e ogni eventuale ulteriore informazione necessaria all'abilitazione o all'ammissione, prevede che nell'ambito della fase del confronto competitivo la stazione appaltante utilizza il dgue solo per richiedere eventuali informazioni, afferenti la specifica procedura, ulteriori a quelle già acquisite in fase di abilitazione o ammissione.
Pertanto, tale disposizione conferma che il soggetto gestore acquisisce e verifica i requisiti di ordine generale e gli altri necessari all'ammissione e alla permanenza dell'operatore economico nel mercato elettronico, mentre la stazione appaltante deve limitarsi ad acquisire e verificare solo quelli di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale eventualmente richiesti in relazione alla singola procedura di affidamento.
La particolare innovazione procedurale, peraltro, è limitata alle procedure gestite nell'ambito dei mercati elettronici (come evidenziato anche dalla relazione accompagnatoria del Dl n. 32/2019), pertanto nel caso di una procedura gestita con la piattaforma telematica (per esempio una procedura aperta per lavori non di manutenzione ordinaria di valore inferiore alla soglia) la stazione appaltante deve richiedere tutti i requisiti e deve effettuare la verifica sull'aggiudicatario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019).

APPALTINello sblocca-cantieri doppio criterio per rilevare le anomalie nelle offerte.
Le stazioni appaltanti rilevano le offerte anormalmente basse applicando due sistemi differenziati: in rapporto al numero delle offerte in caso di utilizzo del criterio del minor prezzo; con il metodo dei quattro quinti in caso di gara con l'offerta economicamente più vantaggiosa, ma solo se le offerte sono pari o superiori a tre.
Ridefiniti i presupposti normativi
Il Dl n. 32/2019 ha ridefinito complessivamente il quadro di riferimento dei presupposti per rilevare le offerte anomale, nonché le condizioni di utilizzo dell'esclusione automatica delle stesse nelle gare con il prezzo più basso.
Nelle procedure con la valutazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, il comma 3 mantiene come presupposto di riscontro dell'anomalia la contestuale sussistenza di un valore pari o superiore ai quattro quinti del punteggio massimo attribuibile sia per il prezzo sia per la componente tecnico-qualitativa, ma in base all'integrazione introdotta dal decreto «sblocca cantieri» tale calcolo dev'essere effettuato solo quando il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a tre: in caso di un numero inferiore, l'amministrazione può attivare la più semplice verifica di congruità.
Le disposizioni del Dl n. 32/2019 incidono in modo più consistente nella ridefinizione del sistema di rilevazione delle offerte anormalmente basse nelle gare nelle quali sia utilizzato il criterio del prezzo più basso, definendo anzitutto due percorsi: uno (regolato dal nuovo comma 2 dell'articolo 97) da applicarsi quando il numero delle offerte sia pari o superiore a quindici e un altro (disciplinato dal comma 2-bis) da utilizzarsi quando sia inferiore a quindici.
In entrambi i casi la stazione appaltante deve seguire la sequenza di operazioni prevista dalla norma, che parte dal calcolo della media dei ribassi, con conseguente esclusione delle offerte di maggiore e di minore ribasso (attraverso il «taglio delle ali»), per sostanziarsi, attraverso l'applicazione di successive operazioni di calcolo degli scarti, nella definizione della soglia di anomalia, in base alla quale è possibile individuare la migliore offerta non anomala.
Sistemi di calcolo in evoluzione
I sistemi di calcolo definiti dalle due disposizioni saranno nel tempo modificati dal ministero delle infrastrutture, con specifico decreto, per non rendere predeterminabili le soglie.
Il nuovo comma 3-bis dell'articolo 97 stabilisce che i calcoli per la rilevazione delle offerte anormalmente basse si effettuino solo quando il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque. Tale elemento è rilievante in rapporto a quanto previsto dall'innovato comma 8, il quale stabilisce sia che la stazione appaltante prevede nel bando di gara o nella lettera di invito l'esclusione automatica delle offerte nelle gare con il prezzo più basso per appalti di valore inferiore alle soglie eurounitarie e che non abbiano rilevanza transfrontaliera (per esempio appalti di lavori di valore molto prossimo alla soglia di 5.548.000 euro), ma anche che tale percorso non ha luogo quando il numero delle offerte sia inferiore a dieci.
Le amministrazioni che utilizzino in un appalto sottosoglia il criterio del prezzo più basso, pertanto:
   a) non devono applicare il sistema di calcolo per la rilevazione quando le offerte siano meno di cinque (ma possono in tal caso comunque effettuare la verifica di congruità prevista dal comma 6);
   b) non possono utilizzare l'esclusione automatica quando le offerte siano meno di dieci (pertanto, in caso di un numero di offerte tra cinque e nove, devono sottoporre le anomale a verifica specifica) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2019).

EDILIZIA PRIVATA: SBLOCCA CANTIERI/ Demolizione e ricostruzione facilitata per chi mantiene distanze e volumi.
Interventi possibili con Scia se viene rispettata la volumetria esistente Dalle Regioni indicazioni su altezze e standard per adattarsi alle realtà locali.

Demolizioni e ricostruzioni più semplici già dal 19 aprile, con l'entrata in vigore dell'articolo 5 del Dl 32/2019, il decreto sblocca cantieri.
Questo tipo di interventi, infatti, non potrà essere bloccato, anche se realizzato con Scia, se saranno rispettati alcuni paletti: distanze preesistenti, sedime, volume dell' edificio e altezze.
Attualmente, sono eseguibili con Scia interventi che rispettino questi parametri: è ammessa la stessa volumetria, con le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento antisismico (articolo 3, comma 1, lettera d), Dpr 380/2001). Se c'è un vincolo di bene culturale (nei centri storici o per vincoli specifici), va rispettata anche la «medesima sagoma dell'edificio preesistente»; per procedere con Scia, poi, in zone vincolate non vi dovranno essere né un «organismo edilizio» in tutto o parte diverso dal precedente, né modifiche della volumetria complessiva o dei prospetti; per i beni sottoposti alla tutela culturale, non vi devono essere né mutamenti di destinazione d'uso né modifiche alla sagoma.
Gli elementi da considerare sono quindi vari (volumetria, area di sedime, altezza, prospetti) cui si aggiungono, per le zone vincolate, la sagoma e la destinazione d'uso.
Per un prossimo futuro, le Regioni dovranno anche introdurre (essendo stata eliminata la sola "possibilità" di introdurre) elementi di deroga al Dm 1444/1968 in tema di zonizzazione e standard, dando indirizzi ai Comuni anche su altezze e distanze. Di fatto, il decreto ministeriale sarà regionalizzato, cioè adattato alle realtà locali.
Per effetto delle modifiche del decreto legge 32/2019, quindi, diventa più facile demolire e ricostruire. Si potrà, infatti, sempre fare in regime di Scia, rispettando le distanze legittimamente preesistenti, purché rimangano uguali l'area di sedime, il volume e l'altezza massima dell' edificio preesistente. Maggiori elasticità su distanze e altezze sembrano possibili soltanto per le ricostruzioni con permessi di costruire (che possono mutare, in base all' articolo 10 del Dpr 380/2001, la destinazione d'uso e la sagoma di immobili sottoposti a vincoli), oltre che con piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate. Vi sarà quindi una forte pressione sulle Regioni, che dovranno adattare il Dm del 1968 alle esigenze locali.
Uno dei problemi più rilevanti sarà quello della gerarchia tra il Dm 1444/1968, le norme regionali ed i piani urbanistici comunali, perché si prevedono leggi regionali che derogheranno al Dm 1444/1968, restituendo alle Regioni ed ai Comuni la libertà di pianificare senza standard nazionali. Una via di uscita, seppure impropria, è rappresentata dall'articolo 21-nonies della legge 241/1990, che cristallizza in 18 mesi i provvedimenti edilizi (Scia) ottenuti dai privati, rendendoli di fatto irreversibili anche se illegittimi. Chi sbaglia in buona fede, demolendo e ricostruendo troppo, deve sperare nella distrazione dei vicini (articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGOGli onesti non crescono nella Pa. E i rappresentanti dei dipendenti pubblici stanno zitti. È questo che ha detto, in sostanza, il presidente dell' Anticorruzione Raffaele Cantone.
Un week-end pasquale drammatico (Sri Lanka) e tuttavia pieno di spunti. Tanti.
Troppi. Mi soffermerò solo su due: le dichiarazioni di Raffaele Cantone, magistrato penale prestato alla pubblica Amministrazione e l'elezione di Volodomyr Zelensky alla presidenza dell' Ucraina. Cogliendo di sorpresa estimatori e disistamatori, il presidente dell'Anticorruzione ha dichiarato che, più o meno, le persone oneste non fanno carriera nell'amministrazione. Un'affermazione infondata e inaccettabile che getta un'ombra inquietante sul magistrato (nominato da Matteo Renzi) e sui suoi imprevedibili pregiudizi. Se lo immaginiamo nello svolgimento, passato e futuro, delle funzioni di pubblico ministero non possiamo non essere colti dai brividi che un simile preconcetto può provocare a tutte le persone perbene che operano nello e per lo Stato.
In un Paese normale, questa dichiarazione inibirebbe l'esercizio del magistero penale. In Italia no, tanto che lo stesso Cantone è in corsa per la guida delle procure della Repubblica di Perugia, Torre Annunziata e Frosinone.
Ciò, pur non avendo «alcuna intenzione di dimettermi da Presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, come riportato da alcuni organi di stampa, tanto più che l' esito della deliberazione del Csm non è affatto scontato». Il che pone un' altra questione che spesso, soprattutto in politica, viene all' evidenza quando, per esempio, un sindaco concorre al parlamento europeo (per i quale non occorrono preventive dimissioni) senza alcuna certezza di elezione, mantenendo stretto l'incarico cui è stato nominato e cui ritiene di poter disporre a proprio piacimento.
È infatti difficile ritenere che Raffaele Cantone abbia presentato la propria candidatura alle tre procure indicate «senza intenzione».
L'intenzione c'era e c'è, giacché nel metodo cristallino e indipendente dall'associazionismo giudiziario che presiede al conferimento degli incarichi direttivi, una candidatura permette di misurare le forze in campo, gli amici, gli estimatori e i nemici e, quindi, di regolarsi per il futuro. Insomma la cartina di tornasole intorno alla quale si possono chiarire i termini del futuro professionale di un magistrato.
Sino al momento in cui scrivo, purtroppo, nessuno dei sindacati della p.a., compreso quello dei dirigenti, ha obiettato alcunché, rispetto all' affermazione diffamatoria del presidente dell'Anticorruzione. In altri tempi, forse con altre tempre di dirigenti, la cosa avrebbe suscitato tutte le reazioni che l' ordinamento mette a disposizione dei cittadini per la tutela della loro onorabilità.
Il secondo elemento di riflessione è l'Ucraina. Volodomyr Zelensky, il nuovo presidente eletto con oltre il 70% dei consensi è un comico (che almeno ci ha messo la faccia, non come altri comici che hanno preferito il ruolo di manovratori), che per alcuni anni s'è esibito in un programma televisivo di «antipolitica» militante. Poiché il presidente uscente Petro Poroshenko rappresentava il partito amerikano (e si giovava dell' appoggio, fra l'altro, del movimento neonazista e del suo apparato paramilitare) è facile immaginare e ritenere che con Zelensky cesserà la politica antirussa che tante tensioni e tante vittime ha provocato nello scacchiere.
Intendiamoci, Mosca ci ha messo del suo, tanto del suo, nell' intervento in Crimea e nel sostegno alle minoranze russe, ma rimane il fatto che in Ucraina una specie di «caccia al russo» ci sia stata e sia stata messa in atto in nome di un cambiamento di fronte del paese. Una sorta di Cuba al contrario, con l' ex granaio d' Europa nella parte di spina nel fianco degli eredi dell'Urss.
Niente di più erroneo, tuttavia. Infatti, il neopresidente (privo di forza parlamentare, che spera di ottenere nelle prossime legislative d' autunno) ha subito affermato «Come cittadino ucraino posso dire ai popoli post-sovietici: guardate a noi, tutto è possibile!». Una sorta di invito alla ribellione nei confronti di Vladimir Putin e del regime moscovita. Se queste sono le intenzioni, possiamo solo aspettarci che le tensioni, già drammatiche, si accentueranno nei prossimi mesi.
In un mondo multipolare, nel quale gli Stati Uniti hanno perso (e non vogliono perdere) l'esercizio del ruolo di custodi degli equilibri, ogni evento in qualche modo eversivo, anche Zelensky quindi, può innescare processi incontrollabili.
Gli esperti prevedono che una guerra possa scoppiare prima del 2030. Per evitarla ci vorrebbero moderazione e senso di responsabilità: proprio le virtù che non si vedono in giro (articolo ItaliaOggi del 24.04.2019).

APPALTISalta l’obbligo di ricorso alle stazioni uniche per i non capoluoghi. Saltano gli appalti centralizzati per gli acquisti sopra-soglia.
I Comuni non capoluogo potranno gestire da soli le procedure di gara di maggior rilievo, senza ricorrere a centrali uniche di committenza o stazioni uniche appaltanti.

Il decreto-legge «sblocca cantieri» introduce un’importante innovazione nelle disposizioni dell’articolo 37 del Codice dei contratti pubblici, eliminando l’obbligo per le amministrazioni comunali non capoluogo di sviluppare oltre specifiche soglie i processi di acquisizione di lavori, beni e servizi mediante moduli organizzativi aggregativi.
La disposizione stabiliva originariamente che le stazioni appaltante rappresentate da Comune non capoluogo dovessero acquisire i beni e servizi di valore superiore alle soglie eurounitarie facendo ricorso ai soggetti aggregatori; e, in particolare, alle centrali uniche di committenza costituite tra i Comuni e alle stazioni uniche appaltanti presso le Province, replicando un modello organizzativo già definito nel Dlgs 163/2006.
Lo stesso obbligo valeva per i lavori di costruzione e di manutenzione straordinaria di valore superiore ai 150mila euro e per i lavori di manutenzione ordinaria di importo superiore a un milione di euro.
Nel pacchetto di norme finalizzato a dare maggiore impulso agli appalti è contenuta la riformulazione di una parte del comma 4 dello stesso articolo 37, che con la sostituzione della parola «procede» con le parole «può procedere» trasforma l’obbligo in facoltà.
I Comuni non capoluogo, pertanto, dal momento dell’entrata in vigore del decreto-legge possono scegliere se gestire in proprio le procedure di gara per appalti di valori superiori alle soglie dell’articolo 35 del Codice per beni e servizi o superiori alle soglie interne stabilite dallo stesso articolo 37 per i lavori, oppure continuare a fare ricorso alle centrali uniche di committenza o alle stazioni uniche appaltanti.
L’opzione può consentire alle amministrazioni comunali interessate di valorizzare i moduli aggregativi sulle procedure più impegnative e complesse, nonché, al tempo stesso, di gestire autonomamente e più rapidamente gare per appalti di media entità.
Il quadro di obblighi derivante dal codice comporta per i comuni non capoluogo che vogliano gestire in proprio le procedure sopra le soglie individuate dall’art. 37 con strumenti informatici adeguati a soddisfare le prescrizioni dell’articolo 40, comma 2 dello stesso Dlgs 50/2016, dovendo quindi utilizzare piattaforme telematiche che consentano di effettuare procedure aperte (come nel caso degli appalti di lavori di valore superiore ai 200mila euro in base alle nuove disposizioni introdotte nell’articolo 36).
L’innovazione determina anche una revisione delle scelte effettuate da molte amministrazioni locali in sede di costituzione di unioni di Comuni, per individuare le soluzioni più efficaci (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

LAVORI PUBBLICIProject financing, dubbi sulla gara per il promotore.
Forti incertezze sulle procedure di project financing per illuminazione pubblica, proprio mentre il Governo (nel decreto sblocca cantieri) promuove il risparmio energetico degli enti locali.

Il contrasto sorge tra sentenze amministrative di primo grado (Tar Milano 691/2019) e di appello (4777/2018), in liti tra Enel Sole ed alcuni raggruppamenti temporanei di imprese e società a partecipazione pubblica locale. Il settore si presta ad interventi di finanza di progetto, sia per la gestione di impianti di pubblica illuminazione che per l’adeguamento ed efficientamento energetico, servizi di smart city, impianti semaforici, colonnine per la ricarica dei veicoli, sistemi di controllo, riqualificazione degli impianti.
Il Codice appalti disciplina la realizzazione di interventi pubblici con capitali privati: in particolare, l’articolo 183 Dlgs 50/2016 prevede una prima fase affidata ad un promotore, che propone all’ente e progetta l’intervento. Successivamente vi è l’aggiudicazione dell’intervento. Alla gara partecipa anche il promotore il quale, se non si aggiudica la gara formulando la migliore offerta, può comunque esercitare un diritto di prelazione. Se poi non vince la gara e non esercita nemmeno la prelazione, il promotore ottiene comunque il pagamento (a carico dell’aggiudicatario) delle spese di predisposizione della proposta.
Accade di frequente che più imprenditori del settore energetico, a distanza di pochi mesi, formulino separate proposte: l’amministrazione deve decidere quale sia l’impresa promotrice, cui affidare il progetto da porre poi a gara. Essere promotori garantisce un vantaggio competitivo, rappresentato dalla redazione del progetto di fattibilità da porre in gara, con la sicurezza di vedersi almeno remunerato il progetto, qualora un’altra impresa si aggiudichi la gara ed il promotore non eserciti la prelazione.
Le scelte che spettano all’ente pubblico sono quindi due: dapprima individuare il promotore, in seguito selezionare con gara l’esecutore. Qui appunto sorge il contrasto, perché il Consiglio di Stato vuole che il promotore sia scelto comparando formalmente le varie proposte delle imprese, prima che tali proposte producano un vero e proprio progetto di fattibilità da porre a base di gara. Il Tar Milano ritiene, invece, che la proposta del promotore possa essere valutata dall’ente locale senza gara, come un’autocandidatura esaminata in termini generali: la gara, osserva il Tar, vi sarà dopo.
Tutto ruota intorno alla qualificazione della scelta del promotore: se essa è (come dice il Consiglio di Stato) il cuore dell’intera procedura, perché il promotore ha un vantaggio ai fini della fase di gara, la doppia gara (sul promotore e sul progetto) è necessaria. Del resto, la stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (1/2012), decidendo dell’esecuzione di un parcheggio pubblico ad Alessandria, ha ritenuto che la scelta del promotore vada tempestivamente impugnata dalle imprese antagoniste che a loro volta intendano essere promotrici, proprio perché con tale scelta cominciano a maturare significativi vantaggi, che si ripercuotono sulla successiva gara per l’esecuzione dell’opera (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPer ARCO l'agente immobiliare e l'amministratore non sono compatibili.
Da più parti, si discute, anche in maniera divergente, sul tema dell'incompatibilità o meno tra la professione di agente immobiliare e quella di amministratore di condominio per gli effetti che ne deriveranno dall'approvanda legge europea 2018.
L'art. 2 del DDL in argomento, a seguito degli emendamenti di seconda lettura, prevede l'incompatibilità dell'esercizio dell'attività di mediazione con l'attività svolta in qualità di dipendente di ente pubblico o privato, o di dipendente di istituto bancario, finanziario o assicurativo ad esclusione delle imprese di mediazione, o con l'esercizio di professioni intellettuali afferenti al medesimo settore merceologico per cui si esercita l'attività di mediazione e comunque in situazioni di conflitto di interessi.
Nonostante quello che –a parere di ARCO– risulti molto chiaro, in questi giorni numerosi rappresentanti di associazioni di categoria si stanno spendendo per la compatibilità, perorando una interpretazione assolutamente forzata quanto infondata.
A parere di chi scrive, svolgere l'attività di amministrazioni condominiali in forma di lavoro autonomo non significa erogare servizi ma, sicuramente, prestare un'opera intellettuale nell'ambito di un contratto di mandato. A sostegno di questa tesi, si può ricordare che:
  
L'articolo 2229 c.c. stabilisce come spetti alla legge determinare quali siano le professioni intellettuali il cui esercizio è da subordinare all'iscrizione in appositi albi o elenchi con la conseguenza che non occorre l'esistenza di un albo o un elenco per qualificare una professione come “intellettuale”. Quindi, anche senza un Albo o un Registro, l'amministratore è un professionista intellettuale;
  
Secondo la legge n. 4/2013 perché si discorra di professione intellettuale non occorre essere riuniti sotto l'egida di un Ordine o un Albo e il MiSE, proprio per effetto di questa legge, riconosce le associazioni “professionali” degli amministratori di condominio prevedendo, addirittura, appositi modelli di certificazione della qualità. Quindi, l'amministratore di condominio è un professionista intellettuale, almeno secondo la legge 4/2013 e secondo il MiSE;
  
Secondo il fisco l'amministratore è un lavoratore autonomo che subisce la ritenuta del 20% perché non esercita attività di impresa. Ma non solo. Anche se l'attività viene svolta da società, queste non subiscono la ritenuta del 4% perché non erogano servizi in appalto e, pur producendo un reddito d'impresa, l'attività in sé resta svolta in seno ad un rapporto di mandato e non di appalto. Dunque, per il fisco, l'amministratore è un professionista intellettuale;
  
Secondo il D.M. n. 140/2014, l'amministratore deve osservare il rispetto della formazione professionale, anche periodica. Dunque, per il Ministero della Giustizia, l'amministratore di condominio è un professionista intellettuale;
  
Secondo il raggruppamento Istat delle professioni quella dell'amministratore di condominio rientra nel terzo grande gruppo delle “Professioni Tecniche”, come professione nell'organizzazione e amministrazione, categoria “Contabili e assimilate”, al codice 3.3.1.2.3. Dunque, anche per l'Istat l'amministratore di condominio è un professionista intellettuale;
  
L'amministratore può assicurarsi per la responsabilità civile professionale e risponde non più per la diligenza del buon padre di famiglia ma per imperizia e negligenza professionale. Quindi, anche su questo piano, l'amministratore di condominio è un professionista intellettuale;
  
Secondo l'art. 2238 c.c., se l'esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa, si applicano “anche” le disposizioni del titolo II. Tuttavia, la libera professione non è impresa, tanto che al chirurgo titolare di una clinica si applica la disciplina dell'imprenditore in quanto titolare della clinica, ma quella del libero professionista per quanto concerne l'attività medica. E questo vale anche per le società che svolgono attività di amministrazione condominiale;
  
La norma UNI 10801:2016 definisce quella dell'amministratore come attività professionale e non di impresa di servizi. Quindi, ci si può certificare come professionista intellettuale;
  
Il fatto che l'incarico di amministratore possa essere assunto da un condomino interno senza requisiti non basta a sostenere che gli amministratori che svolgono l'attività in via professionale non siano professionisti intellettuali. Il nostro ordinamento, per talune circostanze, consenti al privato cittadino di difendersi davanti al Giudice senza il patrocinio di un avvocato: questo non fa di lui un avvocato e questo non cambia la qualità di professionista intellettuale dell'avvocato;
  
Se l'amministratore volesse iscriversi alla CCIAA, questo non gli sarebbe consentito perché, pur non avendo un Ordine/Albo, secondo la legge camerale rimane un'attività professionale intellettuale;
  
Secondo giurisprudenza granitica, l'amministratore di condominio svolge un mandato con rappresentanza e questo non può coincidere con l'erogazione di servizi che, invece, risulterebbe collocata nella antagonistica posizione di appaltatore;
  
Se l'amministratore volesse qualificarsi come esperto, può avanzare domanda di iscrizione al Ruolo dei Periti e degli Esperti delle CCIAA come libero professionista intellettuale;
  
E in quale settore merceologico svolge la sua attività professionale l'amministratore? In quello immobiliare, codice Ateco 68, esattamente quello degli agenti immobiliari.
Pertanto, secondo ARCO, quella dell'amministratore di condominio è una professione intellettuale e giammai un'impresa che eroga servizi con la conseguenza –piuttosto palmare– che allo stato dell'arte del DDL, la professione di agente immobiliare è incompatibile con quella di amministratore di condominio.
Si badi bene, si tratta giammai di una posizione ideologica –nessuna contrarietà in punto di principio- ma di una mera interpretazione della norma che, per far venire meno l'incompatibilità, andrebbe modificata rispetto all'ultima versione licenziata. Al contrario, di posizione ideologica e di favore, invece, si tratterebbe nel caso si sostenesse il contrario senza addurre una articolata motivazione.
Ad ogni buon conto, ARCO sottoporrà un articolato interpello al MiSE affinché chiarisca il dubbio interpretativo (articolo Quotidiano del Sole 24 Ore - Condominio del 02.04.2019).

SEGRETARI COMUNALIContratto, il segretario «coordina» i dirigenti. Nella direttiva all’Aran prevista l’assunzione di compiti gestionali.
Il nuovo contratto dei dirigenti determinerà molti mutamenti nei compiti dei segretari comunali. Le novità amplieranno i compiti di coordinamento della dirigenza e determineranno l’assunzione di incarichi gestionali. Questi compiti si aggiungono a quelli attuali, concentrati sulle attività di supporto giuridico e di controllo.
Il contratto dovrà dettare, in base alla direttiva del comitato di settore (Sole 24 Ore del 25 marzo), una nuova disciplina per l’adeguamento della prestazione del segretario alla sede di lavoro, per la revoca, per la definizione dei compiti di coordinamento dei dirigenti o responsabili, il coordinamento tra le attività di responsabile anti-corruzione e l’assegnazione di compiti gestionali, la predisposizione del Peg e del piano degli obiettivi e l’esercizio del potere di avocazione, solo per citare gli aspetti più rilevanti. Sulla scorta dell’articolo 40 del Dlgs 165/2001, sono precluse alla contrattazione collettiva, tra l’altro, le materie «attinenti all’organizzazione degli uffici ... afferenti alle prerogative dirigenziali ... e il conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali». Per cui il contratto dovrà comunque evitare di prevedere disposizioni che violino gli ambiti riservati alla legislazione.
Viene chiesto al contratto di intervenire sulla revoca dei segretari: l’articolo 100 del Tuel la consente solo per «violazione dei doveri di ufficio». In particolare l’intervento andrà finalizzato a consentire che questa fattispecie maturi nel caso di «inadeguato esercizio delle funzioni di sovrintendenza e coordinamento» dei dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, dei responsabili, e per il «mancato conseguimento degli obiettivi» relativi allo svolgimento di questo incarico. È evidente che, con disposizioni di questo tipo, i segretari diventeranno sempre più il punto di riferimento della dirigenza, sempre che non ci sia il direttore generale.
Il nuovo contratto nazionale dovrà definire che cosa in concreto si debba intendere per funzioni di sovrintendenza e coordinamento. In quest’ambito l’Aran viene impegnata a disciplinare nel contratto sia l’esercizio del potere di avocazione di singoli atti in caso di accertata inadempienza, sia –più in generale- le modalità di concreto esercizio delle funzioni dirigenziali. Ed ancora, per l’esercizio dei compiti di predisposizione della proposta di Peg e del Piano dettagliato degli obiettivi, quindi del Piano delle performance. In questo quadro arriva la conferma dell’indennità di galleggiamento.
Nella stessa direzione vanno anche le indicazioni che chiedono al contratto di rispondere all’esigenza di contemperare lo svolgimento dei compiti, assegnati in via ordinaria dalla legge n. 190/2012, di responsabile anti-corruzione con quelli di responsabile di articolazioni organizzative, che possono comprendere attività a elevato rischio corruttivo. Allo stesso filone si può ascrivere un altro vincolo, molto generico, che il nuovo contratto dovrà introdurre e disciplinare: l’obbligo per i segretari di adeguare la propria prestazione alle esigenze organizzative dell’ente, con specifico riferimento alla gestione delle risorse umane (articolo Il Sole 24 Ore del 01.04.2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Anac adegua linee guida alla Ue. Opere di urbanizzazione: il valore dei lotti si cumula. Consultazione entro il 21 febbraio sulle soluzioni ai rilievi di Bruxelles sul codice appalti.
L'affidamento diretto di lavori fino a 150 mila euro comporta sempre la richiesta di almeno tre preventivi; è vietato selezionare le imprese in base all'ordine cronologico di arrivo delle domande o in base alla prossimità della sede legale rispetto al luogo di esecuzione dei lavori; obbligo di applicare il principio della rotazione negli affidamenti diretti vale oltre i 5mila euro; l'applicazione del codice appalti per l'affidamento delle opere di urbanizzazione scatta anche quando i lotti dei lavori sono sotto soglia, ma il loro importo totale supera la soglia Ue dei 5,2 milioni.

Sono queste alcune delle soluzioni ipotizzate dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che, avviando una rapida consultazione pubblica per aggiornare le linee guida n. 4 sugli affidamenti sotto soglia (termine per le risposte il 21 febbraio), indirettamente risponde, per quanto di competenza, ai rilievi espressi dall'Unione europea contenuti nella lettera di messa in mora contro l'Italia che ha toccato diversi punti del codice dei contratti pubblici.
In attesa delle correzioni del decreto 50, che dovrebbero arrivare con un disegno di legge ordinario, l'Anac ha affrontato in primo luogo il tema dell'affidamento delle le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire. Anche per evitare il frazionamento artificioso in lotti, l'Anac ha ipotizzato che nel calcolo del valore stimato siano cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e secondaria, anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire.
Non solo: l'Autorità ha proposto anche che, se il valore complessivo delle opere di urbanizzazione a scomputo, qualunque esse siano, non raggiunge la soglia comunitaria, il privato può affidare senza gara esclusivamente le opere funzionali; al contrario, qualora il valore complessivo di tali opere superi la soglia comunitaria, il privato dovrà applicare il codice sia per le opere funzionali sia per quelle non funzionali.
Sugli affidamenti diretti, la cui soglia massima è stata portata dalla legge di bilancio 2019 (per i soli lavori) da 40 mila a150 mila euro, l'Anac ha ricordato che è la stessa legge a prevedere che questa possibilità vale soltanto per il 2019. Ma soprattutto ha precisato che «la procedura introdotta in via transitoria dalla disposizione in esame possa essere interpretata nel senso che, per gli affidamenti tra 40 mila e 150 mila euro per l'anno 2019, è possibile ricorrere all'affidamento diretto previa richiesta di tre preventivi».
Per i piccoli affidamenti l'Anac, con le linee guida n. 4, aveva stabilito che negli affidamenti di importo inferiore a mille euro, fosse consentito derogare all'applicazione del principio di rotazione, con scelta, sinteticamente motivata, ma dopo che la legge di bilancio ha previsto l'obbligo di ricorso al Mepa da 5 mila euro, l'Anac ha suggerito di portare a 5mila euro anche la soglia oltre la quale applicare l'obbligo di rotazione (con un effetto semplificatorio per circa 4 milioni l'anno di affidamenti di importo inferiore a 5 mila euro).
Infine, l'Anac ha segnalato anche alcuni punti critici oggetto di esposti: la selezione delle imprese da invitare alle procedure non può essere effettuata chiedendo agli operatori «requisiti aggiuntivi ulteriori rispetto all'attestazione Soa», né è legittimo fare ricorso al «criterio cronologico basato sull'ordine di arrivo delle domande di partecipazione» o a quello della «prossimità della sede legale rispetto al luogo di esecuzione della prestazione, per la selezione degli operatori da invitare» (articolo ItaliaOggi del 15.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORinviato l'associazionismo obbligatorio, Anci e Upi propongono la volontarietà incentivata.
Tra le disposizioni del capitolo dedicato agli enti locali del decreto Semplificazioni spicca l'ennesima proroga del termine –ora dal 30 giugno al 31.12.2019- decorso il quale diventa obbligatoria la gestione in forma associata delle funzioni fondamentali da parte dei piccoli Comuni.
La proroga è concessa nelle more della conclusione dei lavori del tavolo tecnico-politico istituito presso la Conferenza Stato-città per la redazione di linee guida finalizzate non solo al superamento dell'obbligo di gestione associata delle funzioni ma anche all'avvio di un percorso di revisione organica della disciplina sull'ordinamento delle province e delle Città metropolitane e sulla semplificazione degli oneri amministrativi e contabili a carico dei Comuni, soprattutto di piccole dimensioni.
L'associazionismo obbligatorio
Il vincolo impone ai Comuni con meno di 5mila abitanti ovvero fino a 3mila se appartengono o sono appartenuti a Comunità montane, di esercitare obbligatoriamente in forma associata le proprie funzioni fondamentali mediante Unione o convenzione (articolo 14, comma 28, del Dl 78/2010).
Sono esclusi i Comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di Campione d'Italia. Il termine per l'esercizio in forma associata di tutte le funzioni fondamentali era stato fissato inizialmente al 01.01.2014 dal Dl 95/2012 [articolo 19, comma 1, lettera e)], che ha sostituito l'originario comma 31, articolo 14, del Dl n. 78/2010 con i commi 31, 31-bis, 31-ter e 31-quater.
Il comma 31-ter prevede termini differenti in relazione al numero di funzioni da svolgere in forma associata: 01.01.2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali (lettera a); 30.09.2014, con riguardo ad ulteriori tre delle funzioni fondamentali (lettera b); 31.12.2014 –termine in precedenza fissato al 01.01.2014 (originaria lettera b) e più volte oggetto di proroga- al complesso delle funzioni (lettera b-bis).
Dopo diverse proroghe, infine, l'articolo 1, comma 1.120, lettera a), della legge n. 205/2017 ha fissato al 30.06.2019 il termine ultimo per l'esercizio associato delle funzioni fondamentali, che ora è spostato al 31 dicembre prossimo dal Dl Semplificazioni.
La situazione al momento
Per i Comuni che hanno l'obbligo della gestione associata, comunque, rimane valida la previsione di dar corso entro il 30.09.2014 alla gestione associata di almeno 6 funzioni fondamentali, come previsto dalla lettera b), comma 31-ter, dell'articolo 14 del Dl 78/2010, non prorogato.
La mancanza di sanzioni per i Comuni inadempienti è stata colmata in sede di conversione del Dl 95/2012 (articolo 19, comma 1), che ha aggiunto all'articolo 14 del Dl 78/2010, il comma 31-quater, prevedendo che: «in caso di decorso dei termini di cui l comma 31-ter, il prefetto assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, trova applicazione l'articolo 8 della legge 05.06.2003 n. 131, ovvero il potere sostitutivo esercitato da un Commissario ad acta».
Con intese raggiunte in sede di Conferenza Unificata, inoltre, sono state definite le modalità di ripartizione dei fondi statali da erogare alle Regioni per il sostegno dell' associazionismo comunale, come già disposto dal decreto Interno del 10.09.2000 n. 318. I fondi vengono ripartiti tra le diverse Regioni che, annualmente, ne fanno richiesta e presentano la prescritta documentazione.
Le proposte di riforma
L' Anci vorrebbe sostituire l'obbligo della gestione associata delle funzioni con il principio di «volontarietà incentivata», che tenga conto dell'autonomia e dell'eterogeneità dei territori. La stessa associazione propone di definire a livello locale gli ambiti territoriali più adeguati per le gestioni associate, tenendo conto della diversità dei territori e rispettando l'autonomia dei sindaci.
In tal senso, propone che in sede di Conferenza metropolitana o di Assemblea dei sindaci della Provincia sia definito un piano per individuare gli ambiti delle gestioni associate legati da prevalente contiguità territoriale e socio economica. Il piano, sul quale dovrebbe essere sentita la Regione, dovrebbe individuare le Unioni e le convenzioni su proposta dei Comuni interessati (fatte salve quelle già esistenti). Anche l'Upi propone un percorso simile.
L' Associazione dei Comuni ha proposto di adeguare la dotazione dei fondi statali destinati all'incentivazione dell'associazionismo e di rivederne i relativi criteri di riparto, tenendo conto in modo proporzionale del numero e della tipologia di funzioni e servizi, del numero di Comuni e della dimensione demografica raggiunta dalla forma associativa.
L'Upi propone l'adozione di un programma triennale finalizzato all'incentivazione delle gestioni associate negli ambiti territoriali individuati in base a criteri di contiguità territoriale e socio-economica e di sostenibilità economica ed organizzativa, lasciando ai Comuni la possibilità di scegliere la soluzione migliore per l'esercizio associato delle funzioni a partire dalle esperienze esistenti.
L'Upi ipotizza la previsione di una funzione ad hoc, come funzione fondamentale da attribuirsi a Città metropolitane e Province, in materia di «pianificazione degli ambiti dell'associazionismo comunale e di programmazione degli incentivi» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONodo graduatorie e profili sull’obbligo di adesione alle selezioni centralizzate. Sui nuovi ingressi l’incognita del concorso unico.
Superamento del blocco alle assunzioni di personale a qualsiasi titolo per le amministrazioni che non hanno rispettato nell’anno precedente i vincoli del pareggio di bilancio e divieto di indire concorsi da parte delle singole amministrazioni per posti che non hanno profili specifici e peculiari. Le due novità portate dalla legge di bilancio sono rilevanti.
Il comma 823 stabilisce che «a decorrere dal 2019 cessano di avere applicazione» una serie di commi della legge n. 232/2016, tra cui il comma 475, compresa la lettera e), cioè la disposizione che sanziona con il divieto di assunzioni a qualunque titolo le amministrazioni che nell’anno precedente non hanno rispettato il pareggio. Viene meno una sanzione che già dal finire degli anni 90 colpiva le amministrazioni inadempienti rispetto ai vincoli di finanza pubblica. In via interpretativa il divieto era stato inteso in senso assai ampio, interessando anche le proroghe, i contratti flessibili e le co.co.co.: sostanzialmente rimanevano escluse solo le assunzioni delle categorie protette necessarie per il rispetto della quota d’obbligo.
Occorre però capire la decorrenza della disposizione: se dall’eventuale mancato rispetto del pareggio di bilancio nel 2018 o dalla inosservanza del vincolo a partire dal 2019. Il dettato legislativo si limita a dire che la cessazione del divieto si applica «a decorrere dal 2019». Nella direzione di applicare la disposizione agli enti che nel 2019 non rispetteranno i vincoli del pareggio di bilancio sembrano spingere le disposizioni contenute nel comma 827, che espressamente escludono l’applicazione del divieto di effettuare assunzioni per i Comuni che hanno votato nel corso del 2018.
Il comma 360, con una disposizione sulla cui legittimità costituzionale si possono sollevare numerosi dubbi, impone anche alle regioni ed agli enti locali effettuare le assunzioni a tempo indeterminato, fatte salve le professionalità che hanno una «spiccata specificità», aderendo ai concorsi unici. Queste forme di reclutamento saranno organizzate per tutte le Pa dalla Funzione Pubblica, con il concorso della commissione Ripam e il supporto di Formez.
Per questi concorsi viene disposto il superamento dell’obbligo della preventiva indizione delle procedure di mobilità volontaria, mentre resta il vincolo della comunicazione preventiva per l’eventuale assegnazione di personale in disponibilità. Le regole operative saranno dettate dalla Funzione pubblica con un decreto che dovrebbe essere emanato entro la fine di febbraio. Fino all’emanazione, le amministrazioni possono continuare ad effettuare le proprie assunzioni sulla base di concorsi autonomi.
Si deve presumere che sono in ogni caso fatte salve le procedure avviate sia prima dell’entrata in vigore della legge di bilancio, quindi entro il 31 dicembre scorso, sia prima della emanazione del decreto. La disposizione solleva dubbi sulla sua prevalenza rispetto alla preferenza che da tempo il legislatore ha previsto per lo scorrimento delle graduatorie dello stesso ente. Essa è inoltre destinata a sollevare contrasti sull’individuazione delle selezioni che, per la specificità della professionalità richiesta, rimangono al di fuori del vincolo al concorso unico (articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSaltano le distinzioni basate sui livelli di spesa o le dimensioni dell’ente. Alla dote si aggiungono gli spazi inutilizzati degli anni precedenti. Turn over al 100 per cento per tutti e spazi aggiuntivi per la sicurezza.
Da quest’anno Regioni ed enti locali possono assumere a tempo indeterminato dipendenti nel tetto del 100% dei risparmi dei cessati degli anni precedenti. La manovra non introduce limiti ulteriori, e i Comuni possono inoltre assumere vigili a tempo indeterminato senza superare la spesa per il personale della vigilanza del 2016.
Le Regioni possono effettuare assunzioni a tempo indeterminato per l’attivazione del numero unico di emergenza e a tempo determinato per specifiche esigenze di accelerazione degli investimenti. Le Province e le Città metropolitane devono indirizzare le proprie assunzioni in primo luogo per elevate professionalità nell’edilizia scolastica e nella manutenzione delle strade. Per i centri per l’impiego saranno inoltre autorizzate nelle prossime settimane assunzioni a tempo indeterminato per circa 4mila unità.
Le capacità di assunzione ordinarie di Regioni ed enti locali sono fissate al 100% senza più distinzioni di dimensione, numero di dipendenti o spesa di personale. A queste capacità assunzionali si devono aggiungere quelle inutilizzate del triennio precedente. Il turn over era nel 2018 al 25% dei risparmi dei cessati 2017, percentuale che saliva al 100% nei Comuni fino a 5mila abitanti con un rapporto tra spesa del personale ed entrate correnti fino al 24%, e al 75% per i comuni con più di mille abitanti con un rapporto dipendenti popolazione inferiore a quello previsto per gli enti dissestati e/o strutturalmente deficitari dal decreto del Viminale del 10.04.2017 (ma al 90% se questi Comuni lasciano anche spazi finanziari inutilizzati inferiori all’1% delle entrate).
Nel 2017 il turn-over era al 75% della spesa dei cessati 2016 se l’ente era in linea con il tetto previsto per gli enti dissestati e/o strutturalmente deficitari, altrimenti si fermava al 25%. Ma nei Comuni fra mille e 3mila abitanti era al 100% se il rapporto tra spesa del personale ed entrate correnti (dato medio dell’ultimo triennio) era inferiore al 24% nell’anno precedente.
Nel 2016 la percentuale era al 25% dei risparmi derivanti dalle cessazioni 2015, e saliva al 100% negli enti con rapporto spesa personale/corrente inferiore al 25%, e al 75% nei Comuni con popolazione inferiore a 10mila abitanti in caso di rispetto del rapporto tra dipendenti e popolazione previsto per gli enti dissestati. Da sempre gli enti non soggetti al Patto di stabilità possono effettuare assunzioni di personale nel tetto dei dipendenti cessati.
Per i vigili ci sono disposizioni specifiche. In primo luogo, le cessazioni del 2018 possono essere destinate solo ad assunzioni di nuovi vigili, quindi non entrano nel calcolo delle capacità assunzionali ordinarie, determinando così la necessità di un calcolo distinto. I Comuni che nell’intero triennio 2016/2018 hanno rispettato il pareggio di bilancio possono assumere vigili a tempo indeterminato nel tetto della spesa sostenuta nel 2016 per «detto» personale: quindi anche in deroga alla copertura delle cessazioni.
Questa norma va chiarita nel suo ambito di applicazione sia per il calcolo della spesa del personale per la vigilanza del 2016, sia per capire se il riferimento è all’intera spesa per la vigilanza o solo a quella per i vigili a tempo indeterminato, il che ne limiterebbe l’impatto in misura assai rilevante (articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2019).

TRIBUTI - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi antievasione e trattamento economico accessorio del personale dipendente.
Il comma 1091 della Manovra 2019 (Legge 145/2018) consente ai Comuni di incentivare economicamente il personale dipendente che recupera risorse contrastando l'evasione dei tributi comunali. La norma prevede che agli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate possano essere destinati fondi per il potenziamento delle risorse strumentali e per il trattamento accessorio del personale dipendente anche di qualifica dirigenziale a due condizioni di aver approvato entro i termini di legge il bilancio di previsione e il rendiconto.
Reintrodotti gli incentivi
Reintrodotti gli incentivi aboliti precedentemente, anche se con limiti ben definiti. È prevista la possibilità di destinare sino al massimo del 5% del maggiore gettito Imu e Tari, accertato e riscosso, nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento come risultante dal conto consuntivo approvato.
Il riferimento al rendiconto evidenzia la diretta correlazione tra incentivi che gli enti potranno erogare al proprio personale e le effettive maggiori entrate del Comune. Va chiarito se limitare l'incentivo agli atti di accertamento emessi e incassati nello stesso anno, seguendo un stringente principio di cassa oppure se ragionare in termini di riscossione realizzata nell'anno, anche se non derivante dai soli accertamenti dell'anno di riferimento.
Pur nella rigidità dell'istituto, gli enti dovranno dotarsi di specifico regolamento per definire la procedura, la cui competenza, in base all'articolo 48, comma 3, del Dl 267/2000, è della giunta comunale, a integrazione delle norme che disciplinano l'ordinamento degli uffici e dei servizi.
La possibilità di erogare incentivi viene concessa agli Enti in deroga ai limiti di legge relativi all'ammontare complessivo dei fondi destinabili al salario accessorio del personale dipendente, articolo 23, comma 2°, del Dlgs 75/2017. L'importo erogabile non potrà comunque superare il 15% del trattamento tabellare annuo lordo individuale di ciascun percettore.
Tra i beneficiari sono ricompresi i dirigenti e, in base all'articolo 18, lettera h) del Ccnl del Comparto funzioni locali 2016–2018 sottoscritto il 21.05.2018, rientrano anche a pieno titolo gli incaricati di posizione organizzativa.
In sede di contrattazione integrativa aziendale, ai sensi dell'articolo 7, lettera j), del Ccnl già citato, saranno individuati eventuali criteri di correlazione tra i compensi e la retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa, come avverrà per la dirigenza.
Pare importante ricordare che, la quota destinata al trattamento economico accessorio sarà attribuita al personale direttamente coinvolto nel raggiungimento degli obiettivi di maggiore entrata, anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del Comune all'accertamento dei tributi erariali e dell'evasione contributiva (in base all'articolo 1 Dl 203/2005), mentre nulla sarà erogato nel caso in cui il servizio di accertamento sia affidato in concessione a terzi.
Sarebbe auspicabile che gli Enti aggiornino i propri documenti di programmazione affinché ogni anno, a preventivo, siano previsti obiettivi di contrasto all'evasione, con target oggettivi, prefissati, che siano facilmente misurabili e rendicontabili, in modo da giustificare a consuntivo, previa valutazione, l'erogazione dei compensi nel rispetto delle disposizioni sulla performance (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.01.2019).

APPALTIPareggio di bilancio, con l’addio alle sanzioni spesa senza rete.
L'articolo 1, commi 819 e seguenti, della legge 145/2018 (legge di bilancio 2019) ha abolito per Regioni a statuto speciale, Province autonome, Città metropolitane, Province e Comuni, l'obbligo del pareggio di bilancio previsto in attuazione della legge 243/2012 e, di conseguenza, nella sostanza viene meno, dal 2019, l’apparato sanzionatorio.
Il comma 824 invece rimanda per le Regioni a statuto ordinario l'appuntamento con l'abolizione del pareggio di bilancio al 2021, subordinatamente però all'intesa in sede di Conferenza Stato – Regioni e Province autonome, entro il 31 gennaio, sulle risorse aggiuntive per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale nelle materie di competenza concorrente.
L’evoluzione dello strumento
Il passaggio, per la finanza locale italiana, è veramente epocale. Dopo 19 anni va in soffitta il patto di stabilità interno per gli enti locali. Il patto, introdotto con l'articolo 28 della legge 488/1998, (legge finanziaria per il 1999) e poi variamente declinato dalle manovre di finanza pubblica, si è trasformato dal 2016, in applicazione della legge 243/2012, nel pareggio di bilancio.
Il patto ha avuto molte versioni: prima meccanismo facoltativo non sanzionato, poi obbligo sanzionato e, infine, requisito di legittimità del bilancio di previsione dell'ente. L'articolo 1, comma 684, della legge 296/2006 (legge finanziaria per il 2007), sempre confermato nel suo contenuto negli anni successivi, ha stabilito che il bilancio di previsione degli enti locali soggetti al patto doveva essere approvato in modo da consentire il rispetto del suo obiettivo programmatico.
Il patto è stato costruito per saldi, doppi saldi (competenza e cassa), per tetti di spesa, per saldo misto e, una volta divenuto pareggio bilancio, per saldo non negativo fra entrate e spese finali. È difficile dare un giudizio su questo strumento di coordinamento con il quale lo Stato ha coinvolto gli enti locali nel raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica derivanti, in un primo tempo, dall'adesione al patto di stabilità e crescita, adottato dal Consiglio europeo di Amsterdam nel giugno del 1997 e poi conseguenti all'ingresso definitivo nell'Unione Monetaria Europea.
Al patto, sicuramente, sono state addossate troppe colpe, quali la difficoltà di impiegare risorse da parte degli enti, soprattutto in termini di spese d'investimento. Gli enormi overshooting lasciati sul campo dal sistema delle autonomie negli ultimi tempi hanno dimostrato che non è stato il vincolo di finanza pubblica a bloccare la spesa.
Il nuovo sistema
In un certo senso, si ritorna all'antico, nel senso che d'ora in avanti l'unico equilibrio da rispettare sarà quello intrinseco al sistema di bilancio, come delineato dall'ordinamento finanziario degli enti locali (comma 821 della legge 145/2018). Nello specifico, l'unico vincolo è quello dell'articolo 162, comma 6, del Tuel che prevede tre saldi in equilibrio: corrente, di parte capitale e finale. Il bilancio di previsione (articolo 162, comma 6) deve essere deliberato in pareggio finanziario complessivo di competenza, comprensivo dell'avanzo e del disavanzo e con la garanzia del fondo cassa finale non negativo.
L'equilibrio corrente di competenza, il vincolo più “reale”, richiede che le spese correnti sommate a quelle relative ai trasferimenti in conto capitale, al saldo negativo delle partite finanziarie e alle quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti, con l'esclusione dei rimborsi anticipati, non debbano superare le previsioni dei primi tre titoli dell'entrata, i contribuiti destinati al rimborso dei prestiti e l'avanzo di parte corrente, salvo le eccezioni indicate nei principi contabili. L'equilibrio di parte corrente è molto stringente, poiché in esso rileva il fondo crediti di dubbia esigibilità.
Le conseguenze
Gli enti adesso, però, sono «senza rete», poiché non c'è più nessun vincolo esterno che ne freni la capacità di spesa, ma che, per altro verso, garantisca loro, seppur in modo indiretto, una qualche tenuta «derivata» alla situazione finanziaria.
Scompare dal sistema il concetto di overshooting, vale a dire la differenza, in termini di spazio finanziario, fra saldo obiettivo e risultato effettivamente conseguito. Non può esistere infatti overshooting senza vincolo di finanza pubblica.
L'avanzo di amministrazione e il fondo pluriennale vincolato, in ottemperanza alle recenti posizioni della Consulta, tornano nella piena disponibilità degli enti, secondo le regole previste dal Tuel (comma 820 della legge 145/2018).
Se scompare il sistema sanzionatorio diretto previsto per il mancato rispetto degli obiettivi del patto/pareggio, è necessario verificare, per coerenza ordinamentale, la persistenza o meno di sanzioni indirette connesse alla violazione del vincolo di finanza pubblica. Si pensi soprattutto al divieto di inserimento di risorse variabili nei fondi per il trattamento accessorio del personale in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica (articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001).
Questa limitazione viene a cadere o, più probabilmente, il divieto si trasla sul mancato rispetto del rimanente vincolo, cioè quello intrinseco al sistema di bilancio previsto dall'articolo 162 del Tuel? (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.01.2019).

ENTI LOCALIRevisori dei conti, ai nuovi compensi serve la delibera. Decisione consiliare necessaria ai professionisti che sono già in carica.
Aumentano i compensi dei revisori degli enti locali, ma per gli organi in carica occorre la delibera del Consiglio. Il 21 dicembre è stato infatti firmato il decreto interministeriale di aggiornamento dei limiti massimi dei compensi dei revisori degli enti locali, i cui importi sono bloccati dal 20.05.2005 (si veda il Sole 24 ore del 19.11.2018).
L’eventuale efficacia del provvedimento per i soggetti in carica richiede però l’adozione di apposita deliberazione da parte del consiglio dell’ente. Il comma 3 dell’articolo 1 del decreto stabilisce tuttavia che questo eventuale adeguamento del compenso non abbia effetto retroattivo.
L’articolo 241 primo comma Tuel stabilisce che con decreto del ministro dell’Interno, di concerto con il ministro del Tesoro del Bilancio e della Programmazione economica, vengano fissati i limiti massimi del compenso base spettante ai revisori, da aggiornarsi ogni tre anni. Il compenso base è determinato in relazione alla classe demografica e alle spese di funzionamento e di investimento dell’ente locale. Il compenso base può infatti essere maggiorato:
   - sino ad un massimo del 10% per gli enti locali la cui spesa corrente annuale pro-capite, desumibile dall’ultimo bilancio preventivo approvato, sia superiore alla media nazionale per fascia demografica riportata nel decreto;
   - sino ad un massimo del 10% per gli enti locali la cui spesa per investimenti annuale pro-capite, desumibile dall’ultimo bilancio preventivo approvato, sia superiore alla media nazionale per fascia demografica indicata nel decreto.
Il decreto, che sarà in vigore dal primo gennaio 2019, adegua anche i parametri della spesa corrente e della spesa di investimento degli enti locali alle nuove medie di fascia desunte dagli ultimi rendiconti approvati riferiti all’anno 2017.
A dimostrare le criticità dell’attività del revisore dei conti degli enti locali (compensi, sistema di estrazione, ecc.) è la fuga dal registro. Per il secondo anno di seguito cala infatti il numero dei professionisti che sceglie di abbandonare l’elenco tenuto dal ministero dell’Interno.
La nuova composizione per l’anno 2019, approvata nei giorni scorsi dal ministero dell’Interno con decreto del 20 dicembre, è formata da 15.548 professionisti, oltre 1.500 in meno rispetto a due anni fa (quasi 500 in meno rispetto all’anno scorso). Nel complesso gli iscritti all’albo dei dottori commercialisti nelle regioni in cui vale il registro tenuto dal ministero dell’Interno sono 104.385.
Il registro è articolato su base regionale, ed è con riferimento a tale ambito che viene scelto l’organo di revisione. Le riduzioni più significative si sono registrate nelle regioni Basilicata, Emilia Romagna Puglia e Toscana.
Non è riuscita dunque a invertire la tendenza la notizia del duplice aumento del limite dei compensi con decorrenza dal 01.01.2019 (articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2019).

APPALTIAcquisti e appalti. Tra i 10 e i 40mila euro serve la delibera del consiglio di istituto con i criteri e i limiti delle procedure da seguire per il dirigente scolastico.
Affidamenti diretti «liberi» sotto la soglia dei 10mila euro.
Dal 1° gennaio è in vigore il nuovo regolamento sulla gestione amministrativo-contabile degli istituti scolastici (Dm Istruzione 129/2018), redatto dal ministero dell' Istruzione, dell' Università e della Ricerca, in collaborazione con il ministero dell' Economia e delle Finanze.
Obiettivo semplificazione Il regolamento opera una revisione organica del decreto precedentemente in vigore, adottato ben 18 anni fa, il 01.02.2001. Lo scopo è quello di semplificare gli adempimenti delle scuole -pur con i vincoli derivanti dalla necessità di rispettare la normativa primaria- e di fornire agli istituti gli strumenti operativi che serviranno, fra l'altro, a supportarli nella loro attività quotidiana e anche a liberare risorse per il conseguimento del loro obiettivo primario: la didattica.
Le procedure di acquisto Il nuovo regolamento interviene, tra le altre cose, anche nella disciplina relativa alle procedure di acquisto. La legislazione è particolarmente complessa al riguardo ed è oggetto di continue istanze di riforma, con l'attuale Governo al lavoro in un' ottica di ulteriore semplificazione.
Per orientare e sostenere le attività delle scuole, in attuazione di specifiche previsioni del regolamento, il ministero dell' Istruzione, d' intesa con il Mef, ha adottato e sta adottando linee guida operative, schemi di atti di gara e altri modelli documentali.
Le nuove linee guida Ad esempio, è stata già diffusa la circolare 24078/2018 sull'affidamento del servizio di cassa, che fornisce lo schema di convenzione e gli schemi di atti di gara e introduce, in considerazione del rilevante grado di standardizzazione del servizio, importanti elementi di semplificazione, soprattutto con riferimento ai criteri di aggiudicazione.
Nella circolare, infatti, si suggerisce di espletare l' affidamento sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo (articolo 95 del Dlgs 50/2016) e quindi, venendo a mancare valutazioni discrezionali, non c' è l'obbligo per le scuole di costituzione della commissione di gara.
Oltre a quelli citati, sono in fase di predisposizione ulteriori strumenti, che vedranno la luce nel 2019: ad esempio, linee guida generali e su temi specifici, schemi di provvedimenti di acquisto e di aggiudicazione, schemi di atti di gara riguardanti procedure complesse, come le concessioni di servizi bar e distributori automatici.
La gestione delle Reti Il regolamento chiarisce, inoltre, alcuni punti relativi alla gestione contabile delle "Reti di Scuole". Queste ultime sono istituti giuridici introdotti dal Dpr 275/1999, all' articolo 7, con lo scopo di creare sinergie tra istituzioni scolastiche -ciascuna nell'ambito della propria autonomia- per vari scopi tra cui quello di potenziare l'offerta formativa. Il regolamento entrato da poco in vigore nasce con l'intento di incentivare il ricorso alla Rete: per le scuole gli acquisti in forma aggregata sono un'opportunità molto vantaggiosa per conseguire dall'appaltatore risparmi di spesa e condizioni migliori anche sul piano tecnico.
Gli affidamenti diretti Il nuovo regolamento, tenendo conto della peculiare realtà delle istituzioni scolastiche, prevede che, per gli affidamenti diretti sopra i 10mila euro, le scuole adottino una delibera interna di autoregolamentazione, nel rispetto dei principi comunitari e degli orientamenti dell' Anac, tra i quali, fondamentale, è quello relativo alla trasparenza. Al di sotto di questa soglia -che il precedente Dl 44/2001 aveva invece fissato a 2mila euro- il dirigente scolastico potrà procedere in piena autonomia. Viceversa, per gli affidamenti compresi tra i 10mila e i 40mila euro, sarà il consiglio di istituto a individuare, con apposita delibera, i criteri e i limiti delle procedure di acquisto, tenendo conto delle specifiche esigenze della singola istituzione scolastica, effettuando un' analisi attenta del fabbisogno ed avendo cura di fornire congrua motivazione delle scelte adottate.
Anche per gli affidamenti di minore importo è sempre auspicabile che l'amministrazione consulti il mercato per individuare le condizioni tecnico-economiche migliori.
Ad ogni modo, saranno le singole scuole a definire nel dettaglio le modalità (articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2019).

ENTI LOCALI: La relazione dei revisori non può tacere le cause del dissesto.
Rientra tra i compiti dei revisori degli enti locali, secondo l'articolo 246 del Tuel, la redazione di una dettagliata relazione «che analizza le cause che hanno provocato il dissesto», da allegare obbligatoriamente alla deliberazione consiliare dichiarativa del default. Il conciso dettato legislativo non offre all'interprete molti spunti ricostruttivi circa l'estensione dell'adempimento. A riempire di contenuti la norma supplisce il diritto vivente.
La giurisprudenza amministrativa enuncia coordinate utili a capire la reale portata della mansione dell'organo di revisione, con riferimento a natura e contenuto della relazione.
La natura
L'iter procedurale che conduce al dissesto non attribuisce alla relazione una efficacia vincolante ma è necessario che la declaratoria consiliare si ancori –atteso il suo carattere non discrezionale– a dati contabili oggettivi e non condizionati da apprezzamenti di stampo soggettivo (Tar Campania, sentenza n. 2450/2015).
Inoltre, la relazione non ha natura giuridica di parere da cui l'amministrazione possa discostarsi solo motivatamente confutandone in maniera espressa tutti gli elementi (Tar Campania, sentenza n. 2115/2015).
Il contenuto
Sotto il profilo contenutistico, la relazione che si limiti a porre in evidenza il disordine contabile e rendere palese la difficoltà di misurare con precisione gli squilibri esistenti è censurabile di contraddittorietà laddove ometta di pronunciarsi sulla sussistenza o meno dei presupposti per la dichiarazione di dissesto (Tar Campania, sentenza n. 2117/2015).
I presupposti del dissesto
L’orientamento giurisprudenziale consente di affermare che, in sede di relazione, l'accertamento dei presupposti del dissesto è fattore connaturato alla valutazione delle cause che hanno provocato il deficit, costituendone anzi una sorta di premessa logica: solo un dissesto acclarato consente l’analisi delle cause (rappresentate dalle diverse criticità che implicano l'insanabile disequilibrio strutturale).
Il riconoscimento dei presupposti del dissesto non esula dalla relazione e non induce un difetto di funzione in capo ai revisori. Infatti, la stessa magistratura –data la natura vincolata della declaratoria di dissesto– ha espresso l'orientamento che nega il superamento delle competenze e l'eccesso di potere allorché i revisori, oltre ad analizzare le cause provocanti il dissesto, concludano la propria relazione reputando che ne sussistano i presupposti di legge (Tar Campania, sentenza n. 1437/2015).
La collaborazione consiliare
La collaborazione consiliare non solo è possibile quanto insita nella funzione propria dei revisori con il consiglio, nella complessa attività d'indirizzo e controllo amministrativo di competenza dell'organo consiliare. Come statuito dai principi di revisione degli enti locali, si tratta dell’analisi e della valutazione anche prospettica dei risultati dell'attività amministrativa che si concretizza in osservazioni e suggerimenti che, analizzando aspetti gestionali nelle cause e negli effetti, si traducono in un complesso di elementi utili al consiglio (Principio Cndcec n. 3).
Appare evidente, in definitiva, che la relazione dei revisori alla delibera di dissesto assurge a elemento di valutazione più qualificato per il consiglio, giacché resa da un organo indipendente (dalla giunta e dalla struttura amministrativa) e con rapporto collaborativo diretto. Esimersi, allora, dall'accertare l'esistenza dei requisiti per il dissesto significherebbe per i revisori (specie nell'ipotesi anomala di eventuale contrasto tra le risultanze –in ordine alle condizioni finanziarie dell'ente– cui pervengono giunta e responsabile finanziario) abdicare alla rilevante funzione di organo tecnico di supporto consiliare.
Il rischio è quello di precludere al consiglio il consapevole e penetrante controllo sugli atti sottoposti alla sua deliberazione, finendo così –con la mera ratifica di quanto ad esso proposto– per svalutarne le prerogative di garanzia. Questo deficit informativo della relazione, per l'effetto, legittimerebbe la richiesta suppletiva ai revisori di integrazione della loro analisi con l'esplicitazione della ricorrenza (o meno) dei presupposti legali del dissesto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.01.2019).

APPALTI SERVIZISocietà in house, dai giudici i confini sulle attività commerciali.
Dopo anni d'incertezza normativa è stata definita una disciplina organica per il modello dell'in house providing, con la conseguenza che oggi i margini di manovra per l'autoproduzione di servizi da parte della Pa risultano chiari e ben delineati.
Il quadro normativo
Sotto il profilo normativo, l'articolo 5 del Dlgs 50/2016 (codice dei contratti), in linea con l'accezione di «controllo analogo» introdotta dall'articolo 12 della direttiva 2014/24/Ue, ha stabilito che una concessione o un appalto non rientra nell'ambito di applicazione del codice quando sono soddisfatte le seguenti condizioni:
   a) l'amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
   b) oltre l'80 per cento dell'attività del gestore è svolta per l‘ente controllante (o da altre persone giuridiche da essa controllate);
   c) nel soggetto controllato non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati a eccezione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
Dal 15.01.2018 è entrato in vigore il regime speciale degli affidamenti in house con l'istituzione, a cura dell'Anac, di un elenco di enti aggiudicatori. A questo riguardo, l'articolo 192, comma 1, del codice prevede che:
   a) l'iscrizione nell'elenco avviene a domanda, dopo il riscontro dell'esistenza dei requisiti;
   b) la domanda consente all'ente aggiudicatore, in attesa dell'iscrizione e sotto la propria responsabilità, di affidare direttamente all'organismo controllato appalti o concessioni.
Resta inteso che l'affidamento in house potrà legittimamente proseguire solo in caso di esito positivo dell'istruttoria da parte dell'Anac, in conformità alla delibera n. 235/2017.
A latere di questo costrutto normativo, l'articolo 16 del Dlgs 175/2016 (testo unico sulle società a partecipazione pubblica) ha recepito, sotto il profilo degli assetti societari, lo scenario organizzativo entro cui possono essere disposti gli affidamenti in house, in deroga alle procedure di scelta del contraente secondo le regole di evidenza pubblica.
Gli orientamenti giurisprudenziali
Sulla base della disciplina appena descritta, la giurisprudenza ha sciolto una serie di dubbi in ordine alla «vocazione commerciale» delle società in house. Dubbi alimentati, in molti casi, da un contesto d'incertezza legato all'esigenza di colmare le lacune dell'ordinamento con i principi comunitari –oltretutto, non sempre univoci e concordanti– in tema di autoproduzione di servizi.
Per fare un esempio, il Consiglio di Stato ha sancito «la contrarietà ai principi di tutela della concorrenza e del libero mercato della prassi, adottata da un sempre crescente numero di Università, (…) di acquisire da Cineca (e, per tramite di questa, dalla società interamente controllata), la fornitura dei software gestionali e dei relativi servizi di assistenza», in assenza dei requisiti prescritti per il modello organizzativo dell'in house providing.
Il Consorzio Cineca, scrivono i giudici, opera al di fuori del controllo analogo e non svolge un'attività prevalente a favore dei soggetti consorziati, in maniera tale che l’ organismo svolge, direttamente o tramite società controllate, una parte rilevante della propria attività a favore di soggetti non consorziati, pubblici e privati, sia in Italia che all'estero. Di qui il rilievo secondo cui «lo svolgimento di attività imprenditoriale verso l'esterno attribuisce al Cineca una vocazione commerciale che impedisce di considerarlo alla stregua di un soggetto in house, ovvero di un mero organo delle Amministrazioni consorziate» (Consiglio di Stato, Sezione VI, sentenza n. 6009/2018).
Di contro, la pronuncia del Tar Lombardia n. 2746/2018 ha chiarito, sempre in tema di vocazione commerciale, che quest'ultima non è un elemento incompatibile con l'in house providing là dove la società partecipata da più enti locali sia munita di uno statuto che:
   a) garantisce agli enti soci l'esercizio del controllo analogo congiunto (ancorché a fronte di una partecipazione minima al capitale sociale), grazie sia alle modalità di calcolo delle maggioranze nel meccanismo di voto assembleare, sia al «diritto di veto assoluto» riconosciuto ai soci minori «per l'assunzione delle delibere assembleari che incidano direttamente nel proprio servizio o territorio»;
   b) prevede la soglia dell'80% dell'attività svolta dalla società a favore degli enti pubblici soci.
Va notato che, secondo il Tar lombardo, là dove queste prescrizioni siano puntualmente previste e rispettate non rappresenta un elemento ostativo al riconoscimento della natura di società in house la circostanza che quest'ultima detenga partecipazioni in altre società, dando luogo a una configurazione organizzativa articolata e complessa.
Secondo i giudici, la legittimità del modello dell'in house providing, sotto l'angolo visuale della vocazione commerciale, risulta assicurata per il solo fatto che la società pubblica operi con un fatturato superiore all'80 per cento a favore dei comuni soci, a prescindere dalla complessità della propria struttura organizzativa.
Con riguardo alla nozione di vocazione commerciale, la medesima sentenza fa poi un richiamo ai principi della Corte di giustizia per precisare che le attività rientranti nell'in house providing sono quelle che la società realizza nell'ambito di un affidamento effettuato dall'amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente dal fatto che il destinatario sia la stessa amministrazione o l'utente delle prestazioni sul proprio territorio. La pronuncia chiarisce che non ha rilevanza accertare chi remunera le prestazioni dell'impresa in questione, potendosi trattare sia dell'ente controllante, sia di terzi utenti di prestazioni fornite in forza di concessioni o di altri rapporti giuridici instaurati dal suddetto ente.
Questa ampia facoltà della società in house di sviluppare un'attività commerciale riscontra ovviamente il limite quantitativo del 20 per cento del fatturato, e può essere svolta «a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso dell'attività principale della società» (articolo 16, comma 3-bis, del Dlgs 175/2016) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.01.2019).

ENTI LOCALISul pareggio di bilancio sanatorie «su misura».
Cancellazione «mirata» delle sanzioni per la violazione dei vincoli di finanza pubblica.
La novità, che spunta nei commi 827-830 dell'articolo 1 della legge 145/2018, interviene in modo puntuale a individuare una serie di situazioni specifiche al verificarsi delle quali non si applicano le limitazioni per il mancato rispetto del patto di stabilità interno o del pareggio di bilancio.
Assunzioni di personale
Il primo caso riguarda i Comuni in cui si sono svolte le elezioni amministrative nel mese di giugno 2018, per i quali, se inadempienti ai vincoli, non trova applicazione la sanzione del divieto di assumere personale, disciplinata dall' articolo 1, comma 475, lettera e), della legge 232/2016. La norma prevede l'impossibilità per l'ente di procedere nell'anno successivo a quello di inadempienza ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con riferimento ai processi di stabilizzazione in atto. È fatto anche divieto agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi della presente disposizione.
Enti in dissesto o pre-dissesto
Con altra norma si interviene invece a tutelare gli enti locali in stato di dissesto o pre-dissesto, nei quali la violazione ai vincoli di finanza pubblica sia stata accertata dalla Corte dei conti. In questo caso non si applicano infatti le sanzioni previste dall'articolo 31, comma 26, della legge 183/2011 e dall'articolo 1, comma 723, della legge 208/2015, cioè la riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio, i limiti agli impegni di spesa corrente, il divieto di indebitamento per gli investimenti e di assunzione di personale e la riduzione delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli amministratori.
Gli enti locali in stato di dissesto che hanno adottato la procedura semplificata di accertamento e liquidazione dei debiti secondo l'articolo 258 del Tuel non applicano poi la sanzione consistente nel divieto di assumere personale a qualsiasi titolo, nel caso in cui il mancato raggiungimento del saldo obiettivo risulti essere diretta conseguenza del pagamento dei debiti residui mediante utilizzo di una quota dell'avanzo accantonato.
Infine, non applicano le sanzioni neppure gli enti locali in stato di dissesto o pre-dissesto, nei quali la Corte dei conti abbia accertato il mancato rispetto degli obiettivi per l'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.01.2019).

TRIBUTIAumento delle addizionali per compensare la flat tax.
Con la legge di stabilità per il 2019 (legge 145/2018) i Comuni, le Province e le Regioni tornano a poter esercitare la loro autonomia impositiva, bloccata dal 2016.
Naturalmente, ciò non vuol dire aumento generalizzato di tutti i tributi comunali, perché in realtà molti enti avevano già “consumato” tutta la leva fiscale.

Il termine per l'approvazione delle aliquote e delle tariffe è fissato al 28 febbraio, scadenza per l'approvazione dei bilanci comunali, e tale termine è valido anche per gli enti che hanno già approvato il “proprio” bilancio, con l'unica conseguenza che se le delibere tariffarie o regolamentari comportano una variazione delle poste già iscritte in bilancio, sarà necessario approvare contestualmente una variazione del bilancio di previsione e non procedere alla sua totale riapprovazione (risoluzione 21 novembre 2013, della VI Commissione permanente finanze).
Per quanto riguarda l'addizionale Irpef, i Comuni hanno la possibilità di aumentare l'aliquota fino allo 0,8 per cento, ma anche di rimodularne l'applicazione, rideterminando le soglie di esenzione o le singole aliquote, in caso di applicazione per scaglioni di reddito, che si ricorda devono essere gli stessi di quelli previsti ai fini Irpef.
Anche le regioni hanno la possibilità di aumentare l'aliquota base dell'addizionale regionale all'Irpef, pari all'1,23%, fino ad arrivare a un'aliquota massima del 3,33 per cento.
Sul fronte delle addizionali va però tenuto conto dell'estensione del regime forfettario introdotto dalla legge di stabilità 2015 ed ora esteso allo soglia dei compensi e ricavi fino a 65mila euro. Il regime è quello previsto dal comma 64 della legge 190/2014, il quale prevede che l'imposta sostituiva sostituisce non solo l'Irpef, ma anche le addizionali comunali e regionali, oltre all'Irap. Nella relazione tecnica alla legge di stabilità si è stimata, a decorrere dal 2020, una perdita di gettito per l'addizionale comunale di 59 milioni di euro, e per quella regionale di 119,5 milioni di euro.
Possibili aumenti anche per Imu e Tasi, ricordando che l'aliquota Imu massima è pari al 10,6 per mille, mentre quella Tasi può arrivare fino al 2,5 per mille, anche se occorre ricordare che la normativa comunque prevede che la sommatoria delle aliquote Imu e Tasi non può comunque essere superiore al 10,6 per mille. Un discorso a parte deve essere fatto per la maggiorazione Tasi dello 0,8 per mille, che si va a sommare al limite massimo del 10,6.
Inizialmente tale maggiorazione doveva servire a finanziare le detrazioni per l’abitazione principale, ma a seguito dell'esenzione Tasi per tali immobili è stata data la possibilità di continuare ad utilizzarla anche per immobili diversi dall'abitazione principale, possibilità che ha trovato conferma anche per il 2019. Ovviamente, la proroga vale solo per gli enti che avevano già deliberato la maggiorazione, ed anche quest'anno è richiesta l'adozione di un'espressa delibera confermativa.
Sul fronte Tari, anche se tale entrata non era sottoposta a blocco, va segnalata la proroga della possibilità di derogare ai coefficienti di produzione dei rifiuti nei limiti del 50% dei valori minimi o massimi previsti dal Dpr 158/1999, proroga necessaria ad evitare aumenti generalizzati per tutti gli utenti.
La legge di stabilità cerca di mettere ordine anche in tema di imposta di pubblicità, a seguito della confusione creata dalla sentenza della Corte Costituzionale 15/2018 che ha dichiarato l'illegittimità delle maggiorazioni fino al 50% sull'imposta di pubblicità deliberate, anche tacitamente, dai Comuni a partire dal 2013, benché difatti sia stata confermata la legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 739, della legge 208/2015 che aveva la funzione di salvaguardare proprio le delibere dei Comuni che avevano già deliberato la maggiorazione. Ora la legge di stabilità prevede che dal 01.01.2019 le tariffe ed i diritti possono essere aumentati fino al 50% per le superfici “superiori” al metro quadrato.
La norma, invero, non ripristina integralmente le facoltà di aumento, perché non considera gli aumenti fino al 20% che potevano essere disposti, in base all'abrogato articolo 11, comma 10, della legge 449/1997, per le superfici fino ad un metro quadrato (Mef, circolare 1/2001). Questo mancato gettito potrà essere compensato agendo sulla possibilità di dividere il territorio in due categorie, applicando alla categoria speciale una maggiorazione fino al 150% della tariffa normale, ex articolo 4 del Dlgs 507/1993 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPer i dipendenti scavalco condiviso con calendario predeterminato.
L'utilizzo congiunto del personale da parte degli enti locali è stato sino a oggi regolato sia in via legislativa sia contrattuale. L'articolo 1, comma 577, della legge 311/2004 ha dato la possibilità ai piccoli Comuni di avvalersi del cosiddetto «scavalco di eccedenza» che consiste nell'utilizzo di uno stesso dipendente tra due Comuni oltre al suo normale orario di obbligo settimanale, nel limite massimo delle 48 ore settimanali complessive.
L'articolo 14, comma 1, del contratto del 22.01.2004 ha esteso anche agli altri enti territoriali la possibilità di utilizzare lo stesso dipendente ma solo all'interno del suo normale orario di obbligo settimanale (36 ore settimanali) mediante l'istituto del cosiddetto «scavalco condiviso». Questa ultima indicazione contrattuale è ora regolata anche in via legislativa dall'articolo 1, comma 124, della legge di bilancio 2019.
Il passaggio dal comparto autonomie locali a funzioni locali
Il nuovo contratto del comparto funzioni locali, sottoscritto il 21.05.2018, rinvia alle disposizioni sullo scavalco condiviso esclusivamente in tema di utilizzazione di personale titolare di posizione organizzativa (articolo 17, comma 6) facendo esplicito riferimento alle disposizioni previste dall'articolo 14, comma 1, del contratto del 2004.
Si ricorda come, il passaggio operato dal contratto del 13.07.2016, ha modificato gli enti appartenenti alle funzioni locali rispetto a quelli precedentemente appartenenti alle Autonomie locali. Infatti, sono stati inseriti e/o riclassificati nuovi enti (Città metropolitane, Enti di area vasta, Liberi consorzi comunali di cui alla legge 04.08.2015 n. 15 della regione Sicilia) con soppressione di altri (agenzia per la gestione dell'albo dei segretari comunali e provinciali; Scuola superiore della pubblica amministrazione locale – Sspal; associazioni regionali delle Camere di commercio).
Attraverso, quindi, l'inserimento di una specifica norma, all'interno della legge di bilancio 2019, a partire dal 01.01.2019, lo scavalco condiviso potrà essere effettuato dagli enti locali nei confronti di tutti gli enti del comparto funzioni locali, utilizzando la medesima normativa, in quanto compatibile, contenuta nell’articolo14 del contratto del 2004 cui il legislatore fa espresso rinvio.
I presupposti per lo scavalco condiviso
Al fine di poter validamente attivare l'istituto della condivisione del personale, la normativa prevede il previo consenso del lavoratore interessato su un periodo di tempo predeterminato sin dall'inizio. L'utilizzazione può avvenire esclusivamente per una parte del tempo di lavoro d'obbligo (36 ore settimanali) del dipendente, con obbligo del previo assenso dell'amministrazione di appartenenza. Infine, la norma stabilisce uno specifico obbligo di disciplinare, l'utilizzazione del lavoratore tra i due enti, mediante convenzione.
I vantaggi nell'utilizzazione del personale condiviso
A seguito di alcune posizioni divergenti della magistratura contabile, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, con la deliberazione n. 23/2016, ha precisato come la spesa sostenuta dall'ente utilizzatore, nello scavalco condiviso, non rientri nelle limitazioni della spesa del personale a tempo determinato (articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010), in quanto il personale è pur sempre utilizzato nell'ambito del suo normale orario di lavoro.
Tale è la differenza rispetto all'utilizzazione, da parte di piccoli Comuni, dello scavalco di eccedenza, in quanto in quest'ultima ipotesi il dipendente è utilizzato nell'amministrazione di destinazione oltre al suo orario di obbligo. In questo caso, pertanto, la spesa per il numero di ore eccedenti (nel limite massimo delle 12 ore settimanali) dovrà essere computata all'interno del limite disposto dalla normativa per le assunzioni di personale flessibile (spesa non superiore a quella sostenuta nell'anno 2009) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.01.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCon il divieto di assunzioni a tempo indeterminato, PA alla prova del turn-over.
Grazie alla quota 100 contenuta nel maxiemendamento alla legge di bilancio si chiude l'epoca della riforma Fornero, e a chi lavora sarà finalmente consentito di sommare l'età anagrafica a quella contributiva per raggiungere la fatidica soglia utile al pensionamento anticipato.
La combinazione sulla quale si focalizza l'attenzione generale è la somma costituita dai 62 anni di età e 38 anni di contributi, che non dovrebbe comportare l'applicazione di una penalità sulla misura dell'assegno, né un tetto alla contribuzione figurativa valorizzabile ai fini del perfezionamento del requisito contributivo, ma soltanto un divieto temporaneo di cumulo tra reddito da lavoro e pensione.
A quanto pare, il nuovo meccanismo per la fuoriuscita dal mondo del lavoro dovrebbe produrre effetti sin dai primi mesi del 2019 (cioè subito dopo l'approvazione della legge di bilancio) con un esteso raggio d'azione, per il fatto di riguardare i lavoratori iscritti presso l'assicurazione generale obbligatoria dell'Inps, le gestioni speciali dei lavoratori autonomi, la gestione separata dell'Inps e i fondi sostitutivi dell'assicurazione generale obbligatoria.
Il difficile turn over
Per quel che concerne la Pa, è sotto gli occhi di tutti il forte impatto che la Quota 100 dovrebbe sortire in un contesto organizzativo già pesantemente penalizzato dai vincoli di finanza pubblica, e del tutto impreparato a gestire un ricambio generazionale ormai inevitabile. È il caso di ricordare che secondo l'ultimo conto annuale del personale pubblico del 2016, in seguito al blocco del turn over e alla stretta sui pensionamenti l'età media dei dipendenti pubblici nel 2014 ha sfiorato i 50 anni, registrando un incremento di quasi 6 anni rispetto al 2001.
In quel documento si legge che l'83% dei dipendenti della Pa supera i 40 anni, mentre appena il 3,1% (ossia 101.693 lavoratori) ha meno di 30 anni.
Risulta poi che gli ultrasessantenni (372.932 unità) superano di molto i dipendenti con meno di 35 anni, che sono 260.065.
Ora siamo alle soglie del 2019, per cui dopo quasi 5 anni dall'epoca del rilevamento il quadro dei dati è divenuto ancora più drammatico, tanto più che l'invecchiamento del personale pubblico altro non è che lo specchio della nostra società civile.
Le ricadute sugli enti locali
In questa cornice gli enti locali, specie di piccole dimensioni, si trovano da tempo in difficoltà nel garantire la continuità dei servizi essenziali, per l'impossibilità ex lege di sostituire dipendenti in posizione chiave, e incamminati a grandi passi verso il congedo per raggiunti limiti d'età. A breve il congedo del personale in possesso dei requisiti previsti dalla Quota 100 potrebbe dar luogo a un esodo di massa, con contraccolpi quasi impossibili da gestire per la macchina burocratica.
Blocco delle assunzioni
Questa dura realtà sembra però trascurata, tanto che nella manovra di governo si prevede che la Presidenza del Consiglio, i ministeri, gli enti pubblici non economici, le agenzie fiscali e le università non potranno effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato fino al 15.11.2019. Visto che nello stesso arco temporale del 2019 la Quota 100 dovrebbe esplicare il proprio effetto, il divieto di assumere non si prospetta quale misura adeguata per il contenimento della spesa pubblica, perché potrebbe comportare un cortocircuito con effetti destabilizzanti per la Pa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.12.2018).

TRIBUTI - PUBBLICO IMPIEGODoppio vincolo agli incentivi anti-evasione per il personale degli uffici tributi.
Perse le speranze sugli incentivi da recupero dell'evasione Imu (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 4 aprile), il legislatore, nella manovra 2019, amplia la possibilità di destinare il maggior recupero tributario degli enti locali prevedendo specifici incentivi fuori dai limiti di crescita dei salari accessori (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), ma a due specifiche condizioni.
La prima condizione riguarda la platea degli enti beneficiari che possono essere solo quelli che abbiano approvato nei termini del Tuel sia il bilancio di previsione (entro il 31/12) sia rendiconto di gestione (entro il 30/04). La seconda condizione chiarisce che gli incentivi sono dovuti esclusivamente per i Comuni che non abbiano esternalizzato il servizio di accertamento a un concessionario.
L'accertamento e il recupero tributario
La norma introdotta stabilisce che gli enti locali possono destinare, con proprio regolamento, specifiche risorse finanziarie per incentivare il proprio personale al recupero del maggior accertamento e riscossione della Tari, dell'Imu e della partecipazione dei Comuni nell'accertamento dei tributi erariali.
La percentuale, nel limite massimo del 5% del maggiore accertamento e riscossione di questi tributi, può essere destinata in parte al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e in parte al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite stabilito d all'articolo 23, comma 2, del Dlgs75/2017 (ossia potendo superare il limite finanziario del salario accessorio del 2016) e al principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale.
Pertanto, una volta che il regolamento dell'ente abbia stabilito la quota di incentivazione da destinare al personale, sarà cura della contrattazione integrativa, in caso di raggiungimento degli obiettivi, di individuare il personale impiegato cui le quote potranno essere distribuite.
Secondo la norma, il calcolo dovrà essere effettuato prendendo a riferimento la differenza tra accertamento dei tributi nell'anno precedente e quelli accertati nell'esercizio in corso, sulla base dei dati consuntivi formalmente approvati dall'ente, mentre la distribuzione della percentuale sarà effettuata solo sull'effettiva riscossione. Così, ad esempio, se ho accertato nell'anno 2018 una evasione di 100 e nell'anno 2019 il mio accertamento è pari a 120, il maggiore gettito di 20 potrà essere distribuito solo per la parte effettivamente riscossa (non importa in quale anno). Il responsabile dei tributi, dovrà quindi tenere distinto l'accertamento ordinario rispetto al maggior accertamento stimato, al fine di poter correttamente controllare quest'ultimo con due distinte contabilizzazioni anche per gli incassi.
Limitazioni oggettive e soggettive
La norma estende il beneficio con alcune limitazioni oggettive e soggettive. La prima condizione oggettiva dipende dall'approvazione nei termini, previsti dal Tuel, sia del bilancio di previsione sia del rendiconto di gestione. L'altra limitazione oggettiva, anche questa condizionante la distribuzione degli incentivi, è rivolta ai soli enti locali che non abbiano affidato l'accertamento (e non la riscossione) a un concessionario, ossia l'ente deve accertare il maggior gettito con il proprio personale.
In merito alle limitazioni soggettive sulla distribuzione degli incentivi, che dovranno essere calcolati al lordo degli oneri riflessi e dell'Irap a carico dell'amministrazione, è previsto che ciascun dipendente beneficiario non potrà superare il quindici per cento del suo trattamento tabellare annuo lordo.
L'approvazione dei documenti contabili
In considerazione dell'operatività della norma, a partire dal 01.01.2019, si ritiene che essa non possa che operare per il futuro. Pertanto, il primo bilancio di previsione da approvare sarà quello dell'anno 2020, la cui scadenza è prevista al 31.12.2019, mentre il primo rendiconto di gestione sarà quello del 2018 la cui approvazione dovrà avvenire entro il 30.04.2019 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.12.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondo decentrato, il vademecum operativo di fine anno dopo le esclusioni dai tetti di spesa.
L'articolo 10 del Dl 135/2018 (decreto semplificazioni) ha finalmente chiarito che gli incrementi previsti dai contratti sui fondi delle risorse decentrate sono esclusi dal limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
È, quindi, il momento di compiere le ultime azioni in materia di contrattazione integrativa decentrata. Il 31 dicembre di ogni anno costituisce un importante punto di arrivo con riflessi sia sulle procedure sia sul bilancio, dopo che i principi contabili hanno indicato come agire a seconda dello stato di avanzamento dei lavori sugli integrativi. Quest'anno, poi, le cose si sono complicate con la stipula del contratto del 21.05.2018.

Sono due i momenti fondamentali dell'intera procedura. Da una parte è necessario costituire il fondo delle risorse decentrate e quindi quantificare la somma da portare al tavolo con sindacati. Dall'altra parte si deve stipulare un contratto integrativo decentrato che vada a individuare i criteri per l'erogazione dei trattamenti accessori. I principi contabili si sono preoccupati di spiegare che cosa succede al bilancio a seconda dallo stato delle cose. Il tutto è disciplinato al punto 5.2., lettera a), dell'allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011.
Se l’ente non costituisce il fondo
Il caso più grave è certamente quello dell'ente che entro il 31 dicembre non ha neppure costituito il fondo delle risorse decentrate. Quest'anno, peraltro, sono emerse diverse criticità in quanto l'articolo 67 del contratto 21.05.2018 ha reimpostato le regole per la quantificazione delle somme lasciando spesso dubbi interpretativi per i quali a oggi non vi ha ancora una soluzione definitiva.
Pensiamo solo, ad esempio, alla questione della 0,20% del monte salari 2001 oppure alla difficoltà di mettere insieme la costituzione del fondo con il valore delle posizioni organizzative per il rispetto del limite dell'anno 2016 come previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 165/2001. Di fatto, se un ente non costituisce il fondo si trova nella situazione più difficile in quanto confluiranno dell'avanzo di amministrazione solo le somme non già spese della parte stabile che si ritiene essere comunque obbligatoria in quanto prevista dai contratti.
Quando l’ente non chiude il contratto integrativo
Il secondo contesto lo troviamo quando un ente, dopo aver costituito il fondo, non riesce a chiudere con un contratto integrativo stipulato definitivamente la procedura delle risorse decentrate. In questo caso, nell'avanzo di amministrazione vincolato confluiscono non solo le somme non spese di parte stabile, ma anche quelle di parte variabile in quanto la costituzione ne ha almeno determinato i valori.
Nel principio contabile vi è però un inciso da tenere in stretta considerazione: il consiglio è, infatti, quello di richiedere la certificazione della costituzione del fondo all'organo di revisione al fine di “bloccare” definitivamente le somme.
La situazione ideale sia dal punto di vista delle procedure della contrattazione che da quello della contabilità, la si raggiunge quando un ente dopo aver costituito il fondo riesce anche a contrattarlo e siglarlo definitivamente entro il 31 dicembre. In questo caso tutte le somme non già erogate confluiranno nel fondo pluriennale vincolato in quanto la stipula dà certezza di esigibilità degli importi.
Questo accade, naturalmente, sia che lente sia riuscito a stipulare un accordo triennale così come previsto dall'articolo 8 del contratto 21.05.2018 sia in presenza di un accordo “ponte” di durata annuale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.12.2018).

ENTI LOCALIDoppio premio per i comuni puntuali nell'approvare i bilanci.
Doppio premio per le amministrazioni puntuali nell'approvare bilanci e rendiconti. La manovra in corso di approvazione, infatti, aggiunge nuove agevolazioni a quelle già previste dal dl 50/2017. Anche se la modifica entrerà in vigore solo dal prossimo 1° gennaio, i suoi effetti retroagiranno a favore delle amministrazioni che riusciranno a varare il preventivo 2019-2021 entro il prossimo 31 dicembre.
Nel corso dei lavori alla camera, al disegno di legge di Bilancio è stata aggiunta una norma (cfr. art. 1, comma 905, L. 30.12.2018 n. 145) che prevede importanti semplificazioni per i comuni e le loro forme associative (unioni e comunità montane) che approvano il bilancio di previsione entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello di riferimento e il rendiconto entro il 30 aprile dell'anno successivo. In tali casi, verranno disapplicate le seguenti norme:
   a) art. 5, commi 4 e 5, della legge n. 67/1987 (obbligo di comunicare al Garante delle spese pubblicitarie effettuate nel corso di ogni esercizio finanziario, al momento previsto per i soli comuni con più di 40.000 abitanti);

   b) art. 2, comma 594, della legge n. 244/2007 (obbligo di approvare piani triennali per l'individuazione di misure finalizzate alla razionalizzazione dell'utilizzo delle dotazioni strumentali, anche informatiche, che corredano le stazioni di lavoro nell'automazione d'ufficio, delle autovetture di servizio, attraverso il ricorso, previa verifica di fattibilità, a mezzi alternativi di trasporto, anche cumulativo, dei beni immobili ad uso abitativo o di servizio, con esclusione dei beni infrastrutturali);
   c) art. 6, commi 12 e 14, del dl 78/2010 (contenimento delle spese di missione e per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi);
   d) art. 12, comma 1-ter, del dl n. 98/2011 (limitazione all'acquisito di beni immobili);
   e) art. 5, comma 2, del dl n. 95/2012 (contenimento delle spese per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi);
   f) art. 24 del dl n. 66/2014 (limitazioni in materia di locazioni e manutenzioni di immobili).
Particolarmente rilevanti appaiono l'eliminazione dei tetti di spesa per le autovetture (che tanti problemi hanno creato specialmente ai piccoli comuni) e dei limiti agli acquisti di immobili (che spesso si sono tradotti nell'impossibilità di portare avanti progetti anche importanti di riqualificazione).
Le nuove semplificazioni si aggiungono a quelle già previste dall'art. 21-bis del dl 50/2017, riguardo alle spese per studi ed incarichi di consulenza, relazioni pubbliche, convegni, pubblicità, rappresentanza, sponsorizzazioni, formazione e spesa per la stampa delle relazioni e di ogni altra pubblicazione (articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

APPALTINomina dei commissari di gara, dal 15 gennaio cambiano le regole.
Conto alla rovescia, per le stazioni appaltanti, per procedere in autonomia alla nomina delle commissioni giudicatrici degli appalti pubblici.
È questo l'alert lanciato dall'Anci, con una nota operativa, di supporto ai Comuni, in cui si ricorda che, a far data dal 15.01.2019, cesserà la vigenza del periodo transitorio previsto dall'articolo 216, comma 12, del codice appalti. L'individuazione dei commissari di gara non potrà più essere discrezionale ma dovrà avvenire attraverso l'uso di un applicativo, messo a disposizione dall'Anac già dallo scorso 10 settembre, che consente alla stazione appaltante di richiedere la lista di esperti, tra cui sorteggiare, in seduta pubblica, i componenti della commissione.
La nuova procedura è il corollario dell'entrata in vigore dell'Albo nazionale dei commissari, previsto dall'articolo 78 del codice degli appalti, operativo per le procedure di affidamento i cui bandi o avvisi prevedono termini di scadenza della presentazione delle offerte a partire dal 15.01.2019. Da questa data, quando il criterio di aggiudicazione è quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, per poter far parte della commissione gli esperti devono necessariamente essere iscritti all'Albo obbligatorio, istituito presso l'Anac, anche se appartenenti alla stazione appaltante che indice la gara.
Albo e requisiti
Possono iscriversi all'Albo i candidati in possesso dei requisiti di esperienza, professionalità e onorabilità previsti dalla linee guida Anac n. 5, dietro versamento di una tariffa annuale pari a 168 euro.
La commissione deve essere composta da un numero dispari di membri, normalmente tre, salvo situazioni complesse nelle quali si può arrivare a cinque componenti, esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto.
Con deliberazione dell'Autorità anticorruzione n. 648/2018 sono definite le istruzioni operative per l'iscrizione all'Albo nazionale dei commissari e i relativi criteri per l'estrazione, la cui oggettività è assicurata da un servizio di randomizzazione che genera numeri casuali.
L'obbligo di nominare una commissione di gara costituita da esperti esterni - Presidente e commissari - vige per gli appalti di lavori sopra un milione di euro e di servizi e forniture sopra la soglia comunitaria.
Presidente e componenti interni
Tuttavia, a differenza del Presidente di gara, la cui nomina è sempre esterna, la stazione appaltante può individuare alcuni componenti interni quando si tratta di affidamenti di contratti per servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie o lavori di importo inferiore a un milione di euro o per contratti che non presentano particolari complessità, quali le procedure interamente telematiche e quelle svolte attraverso i sistemi dinamici di acquisizione ,nonché per servizi e forniture di elevato contenuto scientifico, tecnologico o innovativo.
È comunque considerato interno alla stazione appaltante il commissario di gara appartenente a uno dei diversi enti che hanno deliberato la volontà di costituirsi in forma aggregata secondo i dettami dell'articolo 37 del Dlgs 50/2016, anche se non è stato completato l'iter previsto. I componenti interni sono esonerati dal pagamento della tariffa prescritta per l'iscrizione all'Albo e per i medesimi non è previsto alcun compenso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.12.2018).

LAVORI PUBBLICIEnti Locali alla prova delle nuove regole sul piano delle opere pubbliche.
Enti locali all'angolo nella difficile sfida di dare attuazione alle nuove norme sulla programmazione delle opere pubbliche con il ciclo del bilancio di previsione. Dal 2019 si applicano, infatti, per la prima volta, le nuove disposizioni del codice dei contratti pubblici e dei decreti attuativi sui tempi di adozione e approvazione del piano delle opere pubbliche.
La nuova programmazione di settore
L'articolo 21 del Dl 50/2016 (codice dei contratti pubblici) stabilisce l'obbligo di approvazione del programma biennale degli acquisti di beni e servizi e di quello triennale dei lavori pubblici, e relativi aggiornamenti. I piani settoriali sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio e, per gli enti locali, secondo le norme che disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti.
Successivamente alla adozione -per la quale non è indicato un termine- il programma triennale e l'elenco annuale devono essere pubblicati sul profilo del committente. Le amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni entro i trenta giorni successivi.
L'approvazione definitiva del programma triennale, unitamente all'elenco annuale dei lavori, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro trenta giorni dalla scadenza delle consultazioni, ovvero, in assenza di queste, entro sessanta giorni dalla pubblicazione. La pubblicazione deve poi essere effettuata in formato open data sui siti informatici del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e dell'Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.
I documenti di bilancio
Con la modifica al paragrafo 8.2 del principio applicato della programmazione, introdotta dal Dm Economia e Finanze 29.08.2018, viene stabilito che, salvi gli specifici termini previsti dalla normativa vigente, si considerano approvati, in quanto contenuti nel Dup, senza necessità di ulteriori deliberazioni, anche il programma triennale e l’elenco annuale dei lavori pubblici e il piano biennale di forniture e servizi.
Nel caso in cui i termini di adozione o approvazione dei singoli documenti di programmazione previsti dalla normativa vigente precedano l'adozione o l'approvazione del Dup, gli stessi devono essere adottati o approvati autonomamente dal Dup, fermo restando il successivo inserimento degli stessi nel documento unico.
Nel caso in cui invece la legge preveda termini di adozione o approvazione successivi a quelli previsti per l'adozione o l'approvazione del Dup, i documenti di programmazione settoriale possono essere adottati o approvati autonomamente dal Dup, fermo restando il successivo inserimento degli stessi nella nota di aggiornamento. I documenti di programmazione per i quali la legge non prevede termini di adozione o approvazione –ed è questo il caso del programma lavori e forniture- devono essere infine inseriti nel Dup.
Le criticità
Di difficile attuazione la norma secondo cui entro novanta giorni dalla data di decorrenza degli effetti del proprio bilancio, il programma triennale e l'elenco annuale devono essere definitivamente approvati dal consiglio dell'ente, nel rispetto ed in coerenza con gli atti di programmazione approvati (articolo 21 del Dl 50/2016).
La via d'uscita
In questo contesto scollato una possibile via d'uscita potrebbe essere rappresentata dalla presentazione del Dup al consiglio entro il 31 luglio, senza dar seguito agli obblighi di pubblicazione del programma delle opere pubbliche.
Entro il 15 novembre, o la diversa data scelta per approvare la nota di aggiornamento al Dup e lo schema di bilancio di previsione 2019/21, potrebbe poi essere adottato e pubblicato il programma delle opere pubbliche, da approvare entro il 31/12. Questa soluzione ha il vantaggio di garantire la coerenza del programma con il bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.12.2018).

APPALTISi allargano le cause di esclusione dagli appalti. Chiarito lo stop per gravi illeciti professionali o influenze indebite.
Le stazioni appaltanti dovranno adeguare i bandi ai nuovi requisiti generali e valutare le eventuali situazioni critiche sulla base di nuovi parametri.

A modificare lo scenario è il decreto semplificazioni atteso oggi in consiglio dei ministri. Il provvedimento, stando alle bozze circolate in questi giorni, riformula l’articolo 80, comma 5, del Codice dei contratti, chiarendo alcune cause di esclusione dalle gare che avevano creato problemi.
In primo luogo, la nuova lettera c) stabilisce che si ha causa di esclusione quando la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità (rilevabili ad esempio da condanne per reati non gravi, ma attestanti violazioni di obblighi di sicurezza sul lavoro o di norme ambientali).
L’operatore economico sarebbe escluso dalla gara anche quando, in base alla nuova lettera c-bis, abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate per proprio vantaggio o abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione; stesso esito quando abbia omesso le informazioni dovute per il corretto svolgimento della gara.
La terza causa di esclusione è delineata nella nuova lettera c-ter) e si determina quando l’operatore economico abbia dimostrato significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento o la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili; la stazione appaltante motiva anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla sua gravità.
Rispetto alla norma originaria, la nuova versione rafforzerebbe la rilevanza della carenza, che può essere significativa o persistente (ad esempio quando l’operatore economico è inadempiente per situazioni non gravi, ma per un periodo lungo, producendo quindi disservizi e disagi costanti nell’esecuzione dell’appalto), ma soprattutto sancisce che questa si concretizza come causa ostativa a contrarre quando le situazioni critiche hanno determinato la risoluzione per inadempimento o hanno comportato una condanna per risarcimento o altre sanzioni comparabili.
L’ulteriore novità è l’obbligo per la stazione appaltante di valutare le circostanze e di considerare sia il tempo trascorso dalla violazione sia la sua gravità, a cui si lega l’obbligo (comma 10) di considerare per l’esclusione l’eventuale pendenza di un ricorso sulla risoluzione o sulla sanzione.
Le innovazioni inserite nell’articolo 80 obbligano inoltre le stazioni appaltanti ad adattare il formulario del documento di gara unico europeo o a inserire nell’istanza, in attesa della revisione da parte del Mit, le dichiarazioni per le nuove fattispecie di requisiti di ordine generale (articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIFunzione pubblica, la Conferenza dei servizi «semplificata» deve essere la regola, e l’ordinaria l’eccezione.
A due anni dalle più recenti modifiche apportate dal Dlgs 127/2016, uno degli undici decreti attuativi della riforma Pa targata Madia, sulla conferenza di servizi torna ufficialmente il dipartimento della Funzione pubblica, facendone una dettagliata analisi nella circolare 03.12.2018 n. 4/2018, corredata da cinque corposi allegati, con destinatarie tutte le Pa centrali e locali.
Nel richiamare le ragion d’essere di uno strumento potenzialmente in grado di semplificare e accelerare enormemente i procedimenti amministrativi, obiettivo dichiarato nella legge 241/1990 che la introdusse nell’ordinamento giuridico, il dipartimento pone l’accento sull’opportunità della conferenza di servizi di essere il «momento di migliore esercizio del potere discrezionale della Pa», in quanto luogo di analisi e discussione in cui può essere garantita la «completa e approfondita valutazione degli interessi pubblici (e privati) coinvolti».
Per raggiungere tali obiettivi è rilevante -secondo il dipartimento- implementare correttamente la disciplina nelle Pa, sollecitando l’apporto del personale coinvolto, che va formato e motivato all’uso degli strumenti normativi così come di quelli tecnologici. Determinante un buona organizzazione degli uffici.
I cinque allegati
La parte più importante della circolare di ieri, però, sono i cinque allegati redatti per ognuno degli altrettanti «aspetti qualificanti» della conferenza di servizi.
Il primo descrive lo svolgimento della conferenza, distinta in due fasi: una «semplificata», che è il modello ordinario e una «simultanea», che è la modalità eccezionale. In modalità semplificata, secondo Palazzo Vidoni, si deve chiudere «la maggior parte delle conferenze di servizi», mentre alle procedure ordinarie, più complesse, bisogna ricorrere solo «nell'ipotesi in cui siano emersi dissensi espressi ritenuti insuperabili».
Il secondo riguarda la conferenza simultanea, prevedendo che la decisione sia assunta dall'amministrazione procedente, sulla base delle posizioni prevalenti degli altri partecipanti.
Sul rafforzamento del silenzio-assenzo come momento di «chiusura certa» dei lavori della conferenza è il terzo allegato, mentre il quarto considera le ipotesi nelle quali è necessaria una conclusione del procedimento «anche quando vi sono amministrazioni portatrici di interessi sensibili che hanno espresso un dissenso».
Il quinto allegato, infine, prevede un procedimento unico di opposizione delle amministrazioni dissenzienti qualificate con deliberazione finale del consiglio dei ministri (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.12.2018).

APPALTIObbligo di gare informatizzate, la deroga dell’Anac per somme sotto i mille euro non copre l’in house.
A decorrere dallo scorso 18 ottobre, come noto, per effetto del comma 2 dell'articolo 40 del codice dei contratti pubblici è scattato l’obbligo di uso dei mezzi di comunicazione elettronici nello svolgimento di procedure di aggiudicazione. Le comunicazioni e gli scambi di informazioni nell'ambito delle procedure del codice dei contratti pubblici svolte dalle stazioni appaltanti vanno quindi eseguiti utilizzando mezzi di comunicazione elettronici
Già all'indomani dell'entrata in vigore dell'obbligo sono sorti diversi dubbi.
Il quadro normativo
In particolare, sono state poste all'Anac richieste volte a capire se nell'ambito delle procedure soggette all’obbligo rientrano anche gli affidamenti di importo inferiore a 1.000 euro. Infatti, secondo l'articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296 (Finanziaria 2007), le amministrazioni elencate, vale a dire le amministrazioni statali centrali e periferiche, a esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, gli enti nazionali di previdenza e assistenza sociale pubblici, le agenzie fiscali di cui al decreto legislativo 30.07.1999 n. 300, nonché le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 e le autorità indipendenti, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico «per gli acquisti di beni e servizi di importo di importo pari o superiore a 1.000 euro». Diverse amministrazioni si sono quindi rivolte all’Anac per avere chiarimenti in ordine all'applicazione di questa norma rispetto all'obbligo introdotto dallo scorso 18 ottobre.
Le indicazioni dell’Anac
L'Autorità, con comunicato del Presidente 30.10.2018, ha reso le proprie indicazioni, affermando che per gli acquisti infra 1.000 euro, permane la deroga prevista dalla legge finanziaria e, quindi, la possibilità di procedere senza l'acquisizione di comunicazioni telematiche, non essendo stato abrogato dal codice dei contratti pubblici il comma 450 dell'articolo 1 della legge 296/2006.
Ci si chiede però a questo punto se le stazioni appaltanti che non rientrano nell'elenco dell’articolo 1, comma 450, della finanziaria 2007 (ad esempio, le società in house) godano oppure no della deroga prevista.
Se si tiene conto all'interpretazione restrittiva dell'articolo 40, in base alla quale tutte le stazioni appaltanti sono tenute per le procedure previste dal codice dei contratti pubblici all'adozione dei mezzi telematici, bisogna chiedersi che cosa ne sarà delle stazioni appaltanti che non sono comprese nella Finanziaria 2007? Al momento, in assenza di chiarimenti, questi soggetti sembrerebbero tenuti all'obbligo di utilizzo dei mezzi di comunicazione elettronici anche per acquisti inferiori a mille euro.
Quindi, a oggi, risulterebbero più svantaggiati proprio quei soggetti, come ad esempio gli organismi di diritto pubblico di cui all'articolo 2 del codice dei contratti pubblici, meno strutturati e certamente meno avvezzi all'utilizzo delle piattaforme elettroniche.
Si auspica quindi un chiarimento in tal senso, anche perché altrimenti verrebbe vanificata la ratio delle agevolazioni ai piccoli acquisti sotto i mille euro, per i quali peraltro in base alla linea guida di Anac n. 4 il criterio della rotazione è derogabile motivatamente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.11.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIPrivacy, p.a. in una strettoia. Per trattare i dati servono sempre leggi o regolamenti. Le conseguenze del dlgs 101/2018.
Meno libertà di manovra per gli enti pubblici.
La privacy per le p.a. è diventata un gran pasticciaccio. Il nuovo codice della privacy ha spinto gli enti pubblici in una strettoia: per trattare i dati (quelli diversi da quelli sensibili, genetici e biometrici), secondo il dlgs 101/2018, le pubbliche amministrazioni devono basarsi, sempre e solo, su una norma di legge o di regolamento. Nella vecchia versione del codice della privacy (n. 196/2003), invece, per i trattamenti dei dati diversi da quelli sensibili, e al di fuori di comunicazioni e diffusioni, non era necessaria una specifica norma di legge o di regolamento, essendo sufficiente che l'attività rientrasse nelle funzioni istituzionali.
Il problema è che non sempre c'è una norma specifica di legge o di regolamento per ogni singola attività amministrativa: molte volte è l'amministrazione stessa, usando, com'è normale che sia, la sua discrezionalità amministrativa, a individuare (con delibere, determinazioni, provvedimenti interni ecc.) le attività concrete, mediante le quali realizzare una funzione istituzionale, tesa al perseguimento di un interesse pubblico. C'è, allora, un astratto rischio di paralisi dell'attività amministrativa? Per come sono state scritte le disposizioni, ci si potrebbe porre anche questo problema. Peraltro, si può tentare di indicare interpretazioni idonee a rimediare a un problema, creato dal legislatore, che mette gli interpreti tutti (dal Garante della privacy alle singole pubbliche amministrazioni) di fronte a un rebus.
Il vecchio codice della privacy (si veda la tabella), per i trattamenti interni di dati diversi da quelli sensibili e giudiziari (articolo 19, comma 1), si accontentava del richiamo alle funzioni istituzionali, da soli sufficienti a basare la liceità del trattamento; il nuovo codice (articolo 2-ter) richiede, invece, una legge o un regolamento (solo se previsto dalla legge) e questo «esclusivamente». È un fatto che la p.a. svolge quotidianamente trattamenti di dati personali (diversi da quelli «sensibili») nell'ambito delle funzioni istituzionali, talvolta con e talaltra senza una disciplina puntuale e analitica dell'attività secondo i profili della normativa sulla privacy. Altrimenti detto, non sempre c'è una legge o un regolamento che espliciti chi è il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento o che specifichi le misure di sicurezza o le modalità di comunicazione/diffusione dei dati e così via.
Il vecchio codice della privacy era consapevole di ciò e aveva creato un sistema così articolato: per i trattamenti, interni all'ente, di dati diversi da quelli sensibili bastava il riferimento alle funzioni istituzionali (anche senza una espressa norma di legge, articolo 19, comma 1); per le comunicazioni di dati (diversi da quelli sensibili) da una p.a. ad altra p.a. ci voleva una norma di legge o di regolamento e, in mancanza, occorreva una preventiva segnalazione al Garante (articoli 19, comma 2, e 39); per la comunicazione di dati a un soggetto privato o per la diffusione (per esempio pubblicazione su un sito web) occorreva necessariamente una norma di legge o di regolamento (articolo 19, comma 3); per il trattamento dei dati sensibili ci voleva una norma di legge dichiarativa di un interesse pubblico rilevante e, poi, una legge o un regolamento descrittivi di tipi di dati utilizzabili e delle operazioni di trattamento effettuabili (articolo 20).
In sostanza c'era un crescendo di limiti e condizioni, a seconda del tipo dei dati e dei trattamenti.
Il dlgs 101/2018 ha abrogato gli articoli 18, 19, 20 e 39 del vecchio codice della privacy e ha innestato, nello stesso codice, gli articoli 2-ter e 2-sexies. Mentre per i dati ex «sensibili» sia la vecchia formulazione (articolo 20) sia la nuova formulazione del codice della privacy (articolo 2-sexies) pretendono una espressa norma di legge e di regolamento e anche l'indicazione espressa di tipi di dati utilizzabili e di categorie di operazioni, si coglie una forte differenza nella disciplina testuale del trattamento dei dati diversi dagli ex «sensibili» (di questi ci si occupa in questo approfondimento). L'articolo 2-ter, comma 1, scrive, infatti, che per trattare i dati (diversi da quelli «sensibili», che nel frattempo non si chiamano più così, ma si chiamano «categorie particolari di dati»), la p.a. deve avere alla base «esclusivamente» una norma di legge o una norma di regolamento (se previsto dalla legge).
Pare, conseguentemente, che ci sia una brusca restrizione. Dunque, stando alla lettera, non basterebbe più il riferimento alle funzioni istituzionali, in quanto l'articolo 18, comma 1, è stato abrogato. Ci vuole necessariamente, sembra, una legge o un regolamento (adottato su rinvio legislativo). Ci si chiede che cosa occorra fare, allora, quando manca la legge o il regolamento, e anche, quando non si sia sicuri che ci sia una norma di legge o di regolamento, tale da disciplinare dettagliatamente il singolo trattamento.
L'unica alternativa parrebbe essere di chiedere il consenso al cittadino. Non a caso, si potrebbe aggiungere, è stato abrogato l'articolo 18 del vecchio codice, che, al comma 4, vietava alle p.a. di raccogliere il consenso (salvo per la sanità pubblica, che, nell'impianto del vecchio codice, doveva raccoglierlo). Seguendo questo ragionamento, allora, avremmo funzioni istituzionali (da gestire per conseguire interessi pubblici), per i quali non c'è una norma di legge o di regolamento descrittiva, in maniera analitica, del trattamento, il quale diventerebbe lecito, da un punto di vista privacy, solo con il consenso del cittadino. La conseguenza sarebbe, dunque, che un interesse pubblico sarebbe subordinato al consenso individuale del cittadino (cioè all'interesse privato). Non si ritiene che questo esito sia accettabile: il mancato consenso renderebbe non utilizzabili i dati (articolo 2-decies del nuovo codice) e si trasformerebbe in un vero e proprio veto al perseguimento delle funzioni istituzionali.
Tanto per complicare ulteriormente le cose, non mancano contraddizioni interne allo stesso articolo 2-ter: questo nuovo articolo, infatti, disciplina anche l'ipotesi della comunicazione dei dati dalla p.a. ad altri soggetti che operano per pubblico interesse; nel fare ciò tratta anche il caso in cui manca una norma di legge o di regolamento, che preveda tale comunicazione e, in questo caso, ammette il trattamento, anche se solo dopo che si sia data notizia al garante e il garante non abbia sollevato obiezioni. In sostanza abbiamo una deroga alla regola della necessità di una norma di legge o di regolamento e il trattamento è ammesso (seppur previa procedura che coinvolge l'autorità di controllo).
Si tratta di una ipotesi di trattamento di dati da parte di una p.a. per funzioni istituzionali, senza una norma di legge o di regolamento, che, nonostante ciò, può essere iniziato (decorsi 45 giorni da un avviso al Garante). Ci si domanda, allora, perché per i trattamenti diversi dalla comunicazione, la lettera del nuovo codice pretenda «esclusivamente», cioè «senza eccezioni», una norma di legge o di regolamento. E si consideri poi che, sulla carta, una comunicazione (cioè un trattamento esterno) è potenzialmente più pericolosa di un trattamento interno.
Per risolvere il dilemma non è risolutiva nemmeno la relazione allo schema del decreto legislativo, divenuto dlgs 101/2018, che, laconicamente, si limita a dire che l'articolo 2-ter è «una riformulazione dell'articolo 19 del previgente codice in materia di protezione dei dati personali, il cui ambito di applicazione soggettivo viene esteso al fine di adeguarsi all'impostazione adottata dal regolamento». Sembrerebbe, a tutto concedere, che la riformulazione consista nella sola estensione soggettiva della norma sulla base giuridica alternativa al consenso (ai soggetti privati che operano nel pubblico interesse) e non nella restrizione oggettiva della base giuridica normativa.
Da un punto di vista sistematico si consideri, poi, che è stato eliminato il consenso quale base giuridica per il settore sanitario: a questo punto si nota, non senza perplessità, che un organismo sanitario pubblico, che tratta dati delicatissimi, non deve più chiedere il consenso e, invece, dovrebbe chiederlo un ente locale o un'amministrazione regionale, quando un determinato trattamento di dati comuni (per esempio i soli dati anagrafici) sia prevista, sempre ad esempio, da una deliberazione di consiglio o di giunta (che non sono atti regolamentari).
In attesa di orientamenti ufficiali, si ritiene che la possibile via di uscita da questo ginepraio passi attraverso la valorizzazione delle norme generali sul procedimento e sulla documentazione amministrativa: in particolare si deve considerare la legge 241/1990 (soprattutto l'articolo 3) e il dpr 445/2000 (articolo 43). Una volta che c'è la finalità (cioè la funzione istituzionale) scritta in una legge (vedasi i «considerando» 41 e 45 e l'articolo 6, paragrafo del regolamento Ue 2016/679), le norme generali sull'attività e sui procedimenti amministrativi sono da ritenersi la base giuridica sempre sufficiente per il trattamento interno dei dati diversi da quelli appartenenti alle cosiddette particolari categorie.
A ciò deve affiancarsi la predisposizione da parte di ciascun ente pubblico di misure organizzative e tecniche e di sicurezza, ma senza alcuna necessità di andare a chiedere un consenso, visto che si tratta di compiti istituzionali
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2018).

PUBBLICO IMPIEGOCcnl funzioni locali, la valutazione negativa deve essere preceduta dal contraddittorio.
Il nuovo Ccnl delle funzioni locali impone alle amministrazioni una rivisitazione del sistema di misurazione e valutazione della performance adottato in base all’articolo 7 del Dlgs 150/2009 il quale, tra l’altro, prevede, appunto, l’aggiornamento annuale che deve essere inteso nel senso sia di un adeguamento alle eventuali indicazioni dell’Oiv, effettuate nell’ambito delle azioni di presidio del sistema e di garanzia della correttezza dei processi di misurazione e valutazione nonché dell'utilizzo dei premi (la più importante delle quali è la Relazione annuale sul funzionamento dei sistema di valutazione, trasparenza e integrità dei controlli interni), e sia per affrontare eventuali sopravvenienze normative e, in questo caso, contrattuali.
Tra i diversi aspetti sui quali l’intervento adeguativo si rende necessario uno riguarda in modo diretto la procedura di valutazione dei titolari di posizione organizzativa.
La possibile valutazione negativa
Il nuovo comma 5-bis dell’art 3 del Decreto 150/2009, introdotto dal Dlgs 74/2017, disciplina le conseguenze della valutazione negativa del personale. In particolare stabilisce che la stessa rileva ai fini dell’accertamento della responsabilità dirigenziale ex art. 21 del Dlgs 165/2001 (che può portare all’impossibilità di rinnovo dell’incarico dirigenziale fino alla revoca dell’incarico) e ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare come normato dall’articolo 55-quater, comma 1, lettera f-quinquies, Dlgs 165/2001 (“licenziamento per insufficiente rendimento”).
Per quanto riguarda la durata dell’insufficiente rendimento lo stesso articolo 55-quater prevede che il licenziamento disciplinare possa conseguire ad una valutazione negativa reiterata nell’arco dell’ultimo triennio. Una lettura approfondita di quest’ultima norma consente di individuare un ulteriore campo di intervento del sistema di misurazione e valutazione della performance. Infatti è prevista l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento nella ipotesi di “reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150/2009”.
Il coordinamento tra le due norme citate non è immediato e presenta aspetti di non facile soluzione rispetto ai quali sarà utile verificare i primi pronunciamenti in materia e gli indirizzi del Dipartimento della Funzione pubblica adottati in base al secondo comma dell’articolo 3 del Decreto 150/2009, che è una norma di principio per tutte le amministrazioni.
Al momento è possibile ipotizzare che non sia sufficiente definire quando la valutazione debba essere considerata negativa in quanto è necessario che nella valutazione siano considerate anche le “violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza”. Infatti la lettura sistematica delle norme richiamate porta a ritenere che tali tipologie di violazioni, devono essere intercettate al momento della valutazione e, quindi, concorrere a determinare una valutazione negativa; per cui il valutatore dovrà necessariamente tenerne conto nell’esprimere il giudizio finale di valutazione.
Il Ccnl delle funzioni locali
Il Ccnl delle funzioni locali 21.05.2018 si occupa della valutazione negativa con riferimento alle posizioni organizzative. In particolare l’articolo 14, comma 3, stabilisce che l’incarico di Posizione organizzativa. Può essere revocato prima della scadenza, con atto scritto e motivato, tra l’altro in conseguenza di una valutazione negativa della performance individuale.
Il successivo comma 4 stabilisce che i risultati della attività svolte dai dipendenti incaricati di posizione organizzativa sono soggetti a valutazione annuale in base al sistema adottato dall’ente e che la valutazione positiva da diritto alla corresponsione della retribuzione di risultato.
Il medesimo comma 4 stabilisce che l’ente, prima di procedere alla definitiva formalizzazione di una valutazione non positiva, acquisiscono in contraddittorio, le considerazioni del dipendente interessato anche assistito dall’organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da persona di sua fiducia; procedura di contraddittorio che vale anche per la revoca anticipata dell’incarico.
Questa fase del procedimento valutativo è obbligatoria e si distingue dalle procedure di conciliazione che il sistema deve disciplinare, in quanto queste ultime vengono attivate quanto le valutazioni sono state già formalizzate e, quindi, sono definitive, mentre il “preavviso di valutazione negativa” previsto dalla disposizione contrattuale per i titolari di posizione organizzativa vuole favorire, prima che il valutatore formalizzi il giudizio valutativo finale, l’acquisizione di elementi utili e che possano, invece, essere sfuggiti al valutatore o non correttamente interpretati.
Disposizione di analogo tenore è contenuta nel Ccnl dell’area dirigenti attualmente vigente (articolo 23-bis, Ccnl 10.04.1996, introdotto dall’articolo 13 Ccnl 22.02.2006).
Questo tipo di interlocuzione è abbastanza simile ad un istituto previsto, in generale, dalla legge sul procedimento amministrativo, la legge 241/1990, laddove all’art. 10-bis viene stabilito che nei procedimenti ad istanza di parte “prima della formale adozione di un provvedimento negativo” si comunichino agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, istaurandosi un sub procedimento dei cui esiti occorre dare conto nel provvedimento finale.
Il sistema di misurazione e valutazione
Nel dettaglio è compito del Sistema di misurazione e valutazione prevedere nello sviluppo del processo di valutazione individuale una specifica fase di interlocuzione preliminare diversa dal colloquio valutativo e dalla procedure di conciliazione.
Mentre il colloquio valutativo fa parte dell’ istruttoria valutativa ed è, nella logica dei processi valutativi, finalizzata a raccogliere elementi utili ai fini della valutazione, il “preavviso di valutazione negativa” implica che il valutatore abbia già effettuato la relativa istruttoria in base ai dati e alle informazioni acquisite e si sia già formato una giudizio negativo; quest’ultimo prima di essere formalizzato e reso definito deve essere preceduto da una nuova interlocuzione che consenta al destinatario della valutazione di portare all’attenzione ulteriori elementi o confutare le conclusioni cui il valutatore è pervenuto. Tutto ciò ha un senso anche in considerazione della rilevanza, nell’assetto normativo vigente, della valutazione negativa che, quindi, nella intenzione delle parti contrattuali, deve essere attentamente ponderata.
L’acquisizione in contradditorio di ulteriori elementi e in modo specifico delle considerazioni del destinatario della valutazione ha un senso nella misura in cui il valutatore ne tenga conto nella valutazione finale per cui si deve ritenere che deve obbligatoriamente esprimersi su quanto emerso nel contradditorio.
Non vi sono ostacoli ad estendere la previsione contrattuale prevedendo l’obbligo di attivazione del contraddittorio, prima della formalizzazione nella ipotesi in cui si delinei una valutazione negativa, alle valutazioni di tutti i dipendenti anche se non titolari di posizione organizzativa. Anzi questa soluzione appare ragionevole.
Conclusioni
Il tema trattato riflette l’esigenza costante che accompagna i sistemi di misurazione e valutazione di adeguamento continuo rispetto all’evoluzione normativa e contrattuale.
Gli Oiv, tenuti ad esprimersi preventivamente e in modo vincolante sulle modifiche al sistema, devono considerare queste evoluzioni e sollecitare proattivamente le amministrazione che comunque non possono eludere le prescrizioni minimali.
Sulle disposizioni contrattuali l’esigenza di intervento deriva dal perimetro di operatività proprio del sistema di misurazione e valutazione che non può non dettagliare e rendere possibile in concreto le previsioni del Ccnl (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICARegolamenti edilizi omogenei. Nei comuni 45 definizioni tecniche uguali per tutti. La giunta lombarda ha approvato il modello tipo da attuare entro il 30.04.2019.
Semplificazione dei regolamenti edilizi comunali in Lombardia. Con 45 definizioni tecniche uniformi (Dtu) che rappresentano il glossario comune valevole su tutto il territorio regionale (e nazionale). L'adeguamento da parte dei comuni lombardi consisterà nell'adozione di un nuovo regolamento edilizio omogeneo per tutti, pena la diretta applicazione delle Dtu in sostituzione delle disposizioni comunali con esse incompatibili.
Con la delibera di giunta 24.10.2018 n. 695, pubblicata sul Bur del 31.10.2018, la regione Lombardia ha recepito il regolamento edilizio tipo dando ai comuni 180 giorni dal recepimento regionale, vale a dire entro il 30.04.2019, per adeguarsi.
La regione ha adottato il regolamento edilizio tipo (Ret), che si inserisce nel solco della semplificazione amministrativa già da tempo avviata nel panorama normativo italiano (si pensi alla riforma Madia, ai decreti Scia 1 e Scia 2 e alla sfida della soft law delle linee guida Anac).
Il superamento degli obsoleti regolamenti edilizi comunali ha avuto inizio con il dl 133/2014 (Sblocca Italia) con lo scopo di uniformarli in tutto il territorio nazionale. La delibera della giunta lombarda del 24.10.2018 è il risultato di quanto previsto dall'intesa tra Stato, regioni e Anci del 20/10/2016 (G.U. n. 268 del 16/11/16) che ha portato alla redazione di una serie di documenti, cioè, oltre alle definizioni tecniche, lo schema del regolamento edilizio tipo, suddiviso in due parti, la prima consistente nell'indice dei principi generali su cui deve essere basata l'attività edilizia e la seconda nelle specifiche disposizioni regolamentari locali definite da ogni comune, secondo le peculiarità del proprio territorio; e la raccolta della normativa sovraordinata statale in materia edilizia che costituisce il riferimento per i regolamenti comunali.
La finalità del Ret è quella di uniformare i circa 8 mila regolamenti edilizi comunali presenti sul territorio nazionale ponendo fine alla frammentazione, specie nelle definizioni, che ha da sempre caratterizzato l'ambito edilizio e urbanistico. Il dato più significativo è, infatti, la non modificabilità delle 42 Dtu standardizzate dal Ret. Ci si aspetta dunque che nei prossimi anni si consolidino anche a livello giurisprudenziale delle definizioni e dei concetti edilizi che siano valevoli sull'intero territorio nazionale, con l'evidente semplificazione dell'attività di tutti gli operatori del settore che potranno fare affidamento su definizioni edilizie uguali in tutti i comuni.
I comuni sono tenuti a rispettare la struttura e la numerazione dello schema di Ret, non hanno l'obbligo di compilare tutte le parti dello schema, ma solo quelle di loro interesse e devono acquisire il parere sulle norme di carattere igienico-sanitario da parte delle Aziende territoriali sanitarie.
Tuttavia, il recepimento delle Dtu non avrà effetti sulle previsioni urbanistiche comunali che hanno un impatto sulle dimensioni degli interventi edilizi (a titolo esemplificativo, in riferimento alle Dtu previste dalla Lombardia, la «superficie territoriale» e la «superficie fondiaria»). Le previsioni urbanistiche che regolano tali aspetti dimensionali, pertanto, continueranno ad essere applicate fino all'adozione del nuovo strumento urbanistico comunale.
La delibera lombarda chiarisce inoltre che i procedimenti urbanistici ed edilizi avviati prima della sua efficacia sono fatti salvi e quindi restano disciplinati dai regolamenti edilizi comunali in essere. Nulla è detto in merito alle pratiche edilizie che saranno avviate nell'arco dei 180 giorni.
L'esigenza di uniformare le definizioni edilizie sull'intero territorio nazionale non prescinde, tuttavia, dalle connotazioni specifiche che possono esserci sui diversi territori regionali. A questo proposito l'intesa tra stato, regioni e Anci del 20/10/2016 ha previsto la possibilità per le regioni di integrare, ma non modificare, le Dtu. La regione Lombardia ha provveduto al recepimento del Ret aggiungendo tre Dtu alle 42 previste e standardizzate dall'intesa.
Più in generale, l'adozione regionale -che ad oggi è ancora a metà strada perché non tutte le regioni si sono adeguate- è avvenuta nella misura più varia a seconda delle diverse peculiarità territoriali: da un recepimento tout-court della regione Veneto a un'opera di vera e propria integrazione delle Dtu da parte della regione Piemonte, Emilia Romagna e Toscana che hanno aggiunto ulteriori definizioni rispetto alle 42 tipizzate
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2018).

PATRIMONIOPatrimonio della PA, entro il 15 dicembre il censimento degli immobili pubblici.
Al via la rilevazione dei beni immobili pubblici riferiti all'anno 2017, da completare entro il prossimo 15 dicembre. Il Dipartimento del Tesoro, con un comunicato del 24 settembre, ha reso nota l'apertura dei termini per la comunicazione da effettuare nel rispetto dell'articolo 2, comma 222, della legge 191/2009. La norma prevede l'obbligo per le amministrazioni di comunicare annualmente al Dipartimento del Tesoro i dati relativi ai beni immobili di proprietà pubblica al fine di consentire la redazione del rendiconto patrimoniale a valori di mercato.
Per rispondere all'esigenza di una puntuale conoscenza del patrimonio pubblico è stato scelto un approccio dal basso verso l'alto per cui la rilevazione, avviata a febbraio 2010, è condotta presso ogni singola amministrazione e l'unità di rilevazione è fissata a livello del singolo bene che, nel caso della rilevazione dei beni immobili accatastati, coincide con l'identificativo catastale dell'unità immobiliare o del terreno.
Rilevazione dei dati
Ogni amministrazione deve pertanto comunicare i dati relativi ai beni immobili pubblici, detenuti o utilizzati a qualunque titolo, specificando i beni di cui è proprietaria (esclusiva o per una quota parte), di proprietà dello Stato e di proprietà di altra Amministrazione pubblica. A partire dalla rilevazione riferita all'anno 2014, sono rilevate anche le informazioni sui beni immobili (fabbricati e terreni) di cui l'amministrazione ha ceduto la proprietà. La rilevazione è condotta interamente per via telematica, tramite il Portale https://portaletesoro.mef.gov.it, all'interno del quale sono stati sviluppati gli applicativi del Progetto «Patrimonio della PA».
Le dichiarazioni negative prestate in occasione delle passate rilevazioni non saranno considerate valide per l'adempimento in corso, pertanto le amministrazioni devono accedere all'applicativo “Immobili” e procedere, entro la scadenza stabilita, all'invio dei dati riferiti all'anno 2017.
L’interoperabilità con gli archivi del catasto
Da quest'anno è inoltre stato sviluppato nell'applicativo “Immobili”, in collaborazione con l'Agenzia delle entrate, un servizio di interoperabilità con gli archivi del catasto per il riscontro di tutti gli identificativi catastali (limitatamente al catasto ordinario) inseriti a sistema e sono state realizzate le funzionalità per la verifica degli esiti. Il servizio risponde all'esigenza di mettere a disposizione delle amministrazioni uno strumento di verifica delle informazioni ricevute e di favorire un sempre più accurato censimento del patrimonio immobiliare pubblico.
Le istruzioni rammentano che non è possibile procedere all'invio dei dati in presenza di schede con segnalazioni bloccanti. Come già previsto per i dati di superficie dei fabbricati, le segnalazioni bloccanti, in occasione della rilevazione corrente, sono state estese anche ai valori di cubatura superiori alle soglie massime individuate per ciascuna tipologia immobiliare. Le schede che presentano valori di cubatura superiori alle soglie massime, pertanto, devono essere modificate o validate per procedere all'invio della comunicazione.
Trattandosi di nuove funzionalità, l'esito del riscontro con il catasto non porta, invece, a segnalazioni bloccanti per la comunicazione dei dati. Il Dipartimento del Tesoro invita tuttavia le amministrazioni a sfruttare al massimo le potenzialità del nuovo servizio per il corretto censimento dei beni immobili e a verificare con sollecitudine il corretto accesso all'applicativo senza attendere, per l'inserimento dei dati, i giorni a ridosso della scadenza. La scadenza merita di essere segnata sul calendario anche in funzione delle sanzioni in caso di inadempienza. Le amministrazioni che non provvederanno saranno infatti segnalate alla Corte dei conti per il seguito di competenza (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.11.2018).

EDILIZIA PRIVATAArconet, il fondo demolizioni non è indebitamento.
Il fondo per le demolizioni delle opere abusive non costituisce indebitamento in quanto ha natura giuridica di mera anticipazione, rappresentata nella parte corrente del bilancio.
Il chiarimento su come contabilizzare l'operazione arriva dalle carte di lavoro (riunione del 17.10.2018) della Commissione Arconet.
Il quesito
Il tema è stato posto in agenda a seguito del quesito di Cassa depositi e prestiti che ha chiesto se il fondo per le demolizioni delle opere abusive disciplinato dall'articolo 32, comma 12, del Dl 30.09.2003 n. 269 possa essere considerato anticipazione o se invece l'operazione rientri nell'alveo della categoria dell'indebitamento, sottoposta a tutti i relativi limiti di legge.
La risposta arriva dopo aver specificato che l'elemento fondamentale di discernimento non è l'analisi della struttura finanziaria dell'operazione, bensì la finalità dell'azione amministrativa.
La natura dell’attività
L'attività di demolizione delle opere abusive costituisce un'attività surrogatoria del Comune che interviene in luogo del responsabile dell'abuso, il quale non ha ottemperato all'ordine di demolizione. In questo caso si tratta di esecuzione in danno e il Comune agisce per conto del soggetto terzo tenuto a risarcire la pubblica amministrazione.
L'attività in questione deve dunque essere inquadrata tra quelle poste a tutela dell'ordine pubblico finalizzate al corretto uso del territorio, nel rispetto dei diritti di proprietà pubblica e privata ed è riconducibile alla generale funzione di vigilanza e di polizia. Per questo motivo la spesa sostenuta dall'ente deve essere ricondotta nell'ambito delle spese di funzionamento e non in quello degli investimento.
La provvista di danaro nei termini e secondo le modalità appena richiamate non costituisce dunque debito alla luce delle regole della contabilità pubblica perché il suo utilizzo non finanzia alcun investimento. Il richiamo alla «demolizione» fatto nell'articolo 3, comma 18 della legge n. 350 del 2003 come forma di investimento non rappresenta una contraddizione, perché in quel caso la legge si riferisce alle attività lecite intestate all'ente e non ad un compito esercitato in surroga e per conto di chi vi è obbligato per legge.
Il rimborso dell'anticipazione
Poiché l'operazione ha natura di anticipazione (e non di indebitamento), l'impegno concernente il rimborso dell'anticipazione è imputato al medesimo esercizio in cui la stessa è erogata.
L'articolo 1, comma 1, del decreto Mef 23.07.2004 prevede che le somme erogate in anticipazione siano rimborsate dai Comuni alla Cassa depositi e prestiti entro 60 giorni dall'effettiva riscossione delle somme a carico dei responsabili degli abusi, e in ogni caso, trascorsi cinque anni dalla data di concessione delle anticipazioni. L'obbligazione giuridica concernente il rimborso dell'anticipazione è esigibile nel medesimo esercizio in cui l'anticipazione è erogata.
Per favorire la corretta modalità di contabilizzazione delle anticipazioni concesse a valere del fondo per le demolizioni delle opere abusive sarà operato un aggiornamento all'allegato 4/2 al Dlgs 118/2011 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.11.2018).

LAVORI PUBBLICILavori, le Province sdoppiano le centrali uniche. Le strutture create in forma associata continueranno a operare per beni e servizi
I Comuni non capoluogo dovranno gestire le gare per appalti di lavori superiori a un milione tramite le stazioni uniche appaltanti presso Province e Città metropolitane.
La legge di bilancio (si veda Il Sole 24 Ore del 30 ottobre) modifica integralmente l’articolo 37, comma 5, del Codice appalti. La nuova norma stabilisce che dal 1° gennaio, in attesa della qualificazione delle stazioni appaltanti in base all’articolo 38 del Codice, l’ambito territoriale di riferimento delle centrali di committenza coincide con il territorio provinciale o metropolitano e i Comuni non capoluogo ricorrono alla stazione unica costituita presso Province e Città.
La disposizione contenuta nel disegno di legge di bilancio 2019 delinea il particolare obbligo solo per le procedure di affidamento degli appalti e delle concessioni di lavori di valore più rilevante: per gli appalti di servizi e di forniture di valore superiore alle soglie comunitarie, i Comuni non capoluogo potranno continuare ad avvalersi delle centrali uniche di committenza costituite in questi anni in forma associata.
Nella prospettiva delineata dalla nuova norma, le Province e le Città metropolitane dovranno attivarsi presso i Comuni non capoluogo per verificare sia le procedure in preparazione e da attivare all’inizio del nuovo anno sia gli strumenti di programmazione triennale (focalizzando l’attenzione sugli elenchi annuali).
Il potenziamento del ruolo delle stazioni uniche appaltanti, soprattutto nei contesti nei quali le centrali uniche di committenza tra Comuni gestivano significativi numeri di gare per lavori, comporta anche il rafforzamento delle strutture deputate a sviluppare le procedure di affidamento, con risorse umane qualificate.
Le Province e le Città metropolitane, inoltre, sono chiamate a rivedere gli aspetti convenzionali dei rapporti con i Comuni non capoluogo, in ragione del passaggio, per gli appalti di lavori, da un sistema che aveva varie alternative a uno che definisce un preciso obbligo di ricorso alle loro strutture.
I Comuni non capoluogo possono, da qui al termine dell’anno, avviare mediante le centrali uniche di committenza le procedure che hanno a base progetti esecutivi già approvati, per ricondurre al nuovo sistema le procedure derivanti dalla programmazione triennale decorrente dal 2019.
Particolare attenzione, inoltre, dovrà essere posta da tutti gli attori del processo (Comuni non capoluogo e Province-Città metropolitane) sulla ripartizione dei compiti tra il Responsabile unico del procedimento che dovrà seguire (nel comune) la programmazione, la progettazione e l’esecuzione e il responsabile del procedimento di gara individuato dalla stazione unica appaltante (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLotta all'assenteismo, «no» del Garante Privacy e della Cassazione alle impronte digitali.
La strada della riforma Buongiorno sulla lotta all'assenteismo nel pubblico impiego, attraverso le rilevazioni biometriche di presenza, si rivela molto stretta.
Il parere del Garante Privacy
Con il parere depositato l'11 ottobre scorso, il Garante Privacy sottolinea che sarebbe sproporzionata l'introduzione generalizzata dei sistemi di rilevazione delle presenze mediante identificazione biometrica, in ragione dell’invasività di queste forme di verifica e della natura stessa del dato trattato.
A giudizio dell'Authority, per assicurare il rispetto dei principi di liceità, proporzionalità, minimizzazione, è necessario emendare il disegno legge, limitando la scelta a un solo strumento di verifica tra quelli proposti (raccolta di dati biometrici o videosorveglianza), prevedendone in ogni caso l'utilizzo nel rispetto del principio di gradualità: laddove altri sistemi non risultino adeguati allo scopo. Occorre in particolare ancorare l'utilizzo dello strumento della rilevazione biometrica, alla sussistenza di concreti fattori di rischio ovvero a specifici presupposti: dimensioni dell'ente, numero dei dipendenti coinvolti, su tutto, tangibile ricorrenza di situazioni di criticità ambientale.
La linea della Cassazione
Coerente è il punto di vista della Cassazione che, con l’ordinanza n. 25686/2018, ha deciso su un caso di utilizzo del dato biometrico per rilevare la presenza del personale di una società catanese. Investito della questione, il Tribunale di Catania aveva ritenuto che il dato biometrico fosse “individualizzante”, ma non “identificante”, posto che il lavoratore non sarebbe identificato per mezzo dei propri dati biometrici, ma di un regolare badge. Il dato biometrico riguardante la mano di ciascun lavoratore viene trasformato in un modello di 9 byte, a sua volta archiviato e associato a un codice numerico di riferimento. Il codice numerico è memorizzato in un badge. In sostanza, il sistema verifica soltanto se il badge che si sta utilizzando sia stato adoperato dalla stessa mano impiegata per configurarlo.
Con questa ricostruzione, esclusa deduttivamente l'applicazione della normativa privacy, il Tribunale ha persino condannato il Garante a ben 30.000 euro per abuso di processo secondo l'articolo 96, comma 3, del codice di procedura civile, per essersi cioè avventurato in una vera e propria lite temeraria: consapevole dell'infondatezza della domanda, l'avrebbe proposta ugualmente, costringendo la controparte a partecipare a un processo sostanzialmente immotivato.
La Corte di cassazione ha completamente ribaltato la ricostruzione del Tribunale: il sistema di raccolta dei dati biometrici della mano, anche se tradotti in algoritmi, è comunque in grado di risalire al lavoratore e quindi di riflesso lo “identifica”, sebbene allo scopo legittimo di controllarne la presenza. Secondo la Cassazione, è irrilevante, ai fini della configurabilità del trattamento di dati personali, la mancata registrazione degli stessi in apposita banca dati, essendo sufficiente un'attività di raccolta ed elaborazione temporanea.
Neppure è dirimente il fatto che il modello archiviato, realizzato attraverso la compressione dell'immagine della mano, consista in un numero che non è di per sé correlabile al dato fisico. Nemmeno esclude che si versi in ipotesi di trattamento di dati biometrici, il fatto che partendo da detto numero, non sia possibile ricostruire l'immagine della mano, in quanto l'algoritmo è comunque unidirezionale e irreversibile.
In altre parole, ciò che rileva è che il sistema, attraverso l'algoritmo, è in grado di risalire al lavoratore al quale appartiene il dato biometrico e quindi indirettamente lo identifica, nonostante il fine in sé certamente lecito di controllarne l'effettiva presenza in servizio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPortale nazionale per le graduatorie dei concorsi pubblici.
Il monitoraggio telematico delle graduatorie concorsuali delle Pa, sancito dall’articolo 4, comma 5, del Dl 101/2013, approda ufficialmente sulla piattaforma della Funzione pubblica https://lavoropubblico.gov.it/.
Il sito, che ha lo scopo di supportare le amministrazioni nell’attuazione e nel monitoraggio di processi e adempimenti amministrativi, si arricchisce così di un’altra funzionalità che si aggiunge a gestione della mobilità, banca dati della dirigenza e sito lavoro agile). A breve, informa il Dipartimento, la piattaforma sarà ampliata anche con il monitoraggio delle tipologie di lavoro flessibile.
Le informazioni
Il sistema acquisisce le dichiarazioni inviate dalle amministrazioni sulle graduatorie vigenti per le assunzioni a tempo indeterminato e consente di aggiornare costantemente i dati. Il monitoraggio diventa permanente. Le Pa devono comunicare le graduatorie di ogni nuova procedura concorsuale avviata e giunta a conclusione, aggiornare costantemente i dati registrando tutte le variazioni relative ai vincitori assunti e da assumere e sugli idonei.
Le informazioni della banca dati consentono agli enti, attraverso funzionalità di ricerca, di verificare l’eventuale esistenza di profili professionali di interesse tra i vincitori o gli idonei delle graduatorie vigenti di altre amministrazioni. Si tratta di uno strumento utilissimo, soprattutto per quegli enti locali, spesso di piccole dimensioni, che potendo disporre di capacità assunzionali si rivolgono ad altri enti per attingere alle loro graduatorie trovandosi nell’impossibilità di gestire in proprio i concorsi per mancanza di strutture in grado di ospitare le prove, carenza di personale e di risorse.
Ricerche e consultazioni
Il sistema permette anche ai portatori di interesse (ad esempio ai vincitori o agli idonei) di effettuare in maniera più funzionale ricerche e consultazioni delle informazioni sulle graduatorie vigenti. Le ricerche possono essere riferite ad ambiti regionali o provinciali, per singolo ente o tipologia di ente, aggregate rispetto ai requisiti contrattuali professionali o economici. È possibile acquisire informazioni statistiche sull’andamento del fenomeno, sia di tipo sintetico sia analitico.
Il sistema consente anche di verificare in tempo reale l’effettivo adempimento da parte di tutte le Pa dell’obbligo di dichiarazione al portale delle graduatorie approvate ancora vigenti. L’obbligo della rilevazione ricade anche sulle amministrazioni che non hanno graduatorie vigenti. Di particolare interesse è la sezione reportistica del portale nella quale vengono esposti i dati complessivi della rilevazione in corso. Ad oggi, pur essendo un obbligo di legge, è ancora basso il numero degli enti censiti (solo 2.407), da qui l’invito da parte della Funzione pubblica alle Pa a registrarsi, ad aggiornare le graduatorie già inserite con i dati e le informazioni mancanti o a inserire le eventuali nuove graduatorie nel frattempo approvate.
Il report evidenzia come oggi risultino censite 15.660 graduatorie, per un totale di 3.966 vincitori ancora da assumere. Sono i Comuni ad avere le percentuali più alte in termini di posti banditi (34,4%), vincitori assunti (33,4%), vincitori da assumere (51,4%), idonei (35,9%), idonei assunti (20,1%) e idonei soggetti ad eventuale assunzione (40%) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAnche il mancato aggiornamento dei piani triennali per le pari opportunità blocca le assunzioni.
I piani triennali di azioni positive per le pari opportunità dovranno essere aggiornati per il triennio 2019-2021, pena il divieto di assumere personale.
Nei prossimi anni la pubblica amministrazione sarà interessata da un ricambio generazionale, è quindi quanto mai essenziale ricordare gli atti propedeutici previsti dalla normativa vigente al fine di poter legittimamente effettuare assunzioni, tra questi rientra il piano triennale di azioni positive in materia di pari opportunità disciplinato dall'articolo 48, comma 1, del Dlgs 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna).
Il piano di azioni positive è un documento programmatico mirato a introdurre azioni positive all'interno del contesto di lavoro, che esplica gli obiettivi, i tempi, i risultati attesi e le risorse disponibili per realizzare progetti mirati a riequilibrare le eventuali situazioni di disparità di condizioni fra uomini e donne che lavorano all'interno di un ente.
La mancata adozione nella giurisprudenza contabile
La mancata adozione del piano costituisce una violazione, a cui consegue, mediante il richiamo alla previsione dell'articolo 6, comma 6, del Dlgs 165/2001, il divieto per l'amministrazione inadempiente di assumere nuovo personale.
Nel divieto di assunzione, secondo la delibera n. 531/2015 della Corte dei conti del Veneto, rientra ogni fattispecie che consenta all'ente interessato di porre a carico del proprio bilancio l'utilizzo di nuove risorse umane, comprese, come ha precisato la Corte dei conti Molise nella delibera n. 43/2014, le assunzioni secondo l’articolo 110 del Tuel.
Il richiamo all'articolo 6, comma 6, contenuto nell'articolo 48 lascia intendere che il legislatore abbia voluto sottolineare la necessaria cogenza dell'adozione del piano; infatti la sua predisposizione non può essere effettuata nemmeno successivamente sostenendo di avere comunque salvaguardato i principi che il documento mira a tutelare.
Secondo la delibera n. 82/2016 della Corte dei Conti della Liguria, a prescindere dalla previsione o meno di eventuali assunzioni, resta sempre fermo l'obbligo di adottare il piano triennale di azioni positive in materia di pari opportunità; infatti, la mancata adozione del piano deve comunque essere rilevata, a prescindere dalla sanzione formalmente prevista del divieto di assunzione di nuovo personale, in quanto costituisce uno strumento altamente rilevante nell'ambito del contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di violenza morale o psichica per i lavoratori e di tutela delle donne nei luoghi di lavoro.
Del resto, lo stesso articolo 48 prevede che in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile sia accompagnata da un'esplicita e adeguata motivazione.
Piani e contenuti
I soggetti tenuti all'adozione del piano triennale sono le amministrazioni dello Stato, le Province, i Comuni e gli altri enti pubblici non economici.
Il piano di azioni positive si deve porre in linea con i contenuti del piano della performance e del piano per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, come strumento per poter attuare le politiche di genere di tutela dei lavoratori e come strumento indispensabile nell'ambito del generale processo di riforma della Pa, diretto a garantire l'efficacia e l'efficienza dell'azione amministrativa attraverso la valorizzazione delle risorse umane.
Da un punto di vista procedurale, gli organi di vertice dell'ente approvano il piano di azioni positive a seguito della consultazione del comitato pari opportunità o comitato unico di garanzia (Cug), degli organismi di rappresentanza dei lavoratori e della consigliera di parità competente territorialmente.
L'iter da seguire per la redazione di un Pap in un ente pubblico si compone di una serie di passaggi tra i quali:
   • analisi della situazione di partenza, vale a dire descrizione della situazione occupazionale interna;
   • individuazione delle azioni positive da realizzare come per esempio: regolamento del Cug, budget previsto per le sue attività, predisposizione di un codice di condotta contro le molestie sessuali, morali, psicologiche e nomina della consigliera di fiducia;
   • approvazione del piano mediante delibera (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018).

APPALTIContratti pubblici: quando si paga l'imposta di bollo.
L'agenzia delle Entrate, con la risposta 12.10.2018 n. 35, ha fornito interessanti chiarimenti all'interpello sull’applicazione dell’imposta di bollo sui documenti prodotti nell'ambito dei contratti pubblici.
Il quesito
Un ente pubblico in materia di contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture, nel far presente che gestisce abitualmente procedure di evidenza pubblica per l'affidamento di appalti e servizi, forniture e realizzazione di opere, precisa che le imprese che partecipano alla procedura devono produrre una serie di documenti che sono soggetti all'imposta di bollo, in base al Dpr 642/1972.
Al riguardo, l'ente evidenzia che, a seguito dell'evoluzione normativa in materia di procedure di affidamento di appalti da parte delle pubbliche amministrazioni, e dell'introduzione sempre più frequente di procedure elettroniche per la stipula degli stessi contratti di appalto, non è sempre agevole individuare la corretta modalità di applicazione e assolvimento dell'imposta di bollo.
In particolare l'ente pone una serie di quesiti relativi all'imposta di bollo e alla sua corretta applicazione; di seguito si analizzano le risposte fornite dai tecnici delle Entrate.
La risposta delle Entrate
Per quanto riguarda l'applicazione dell'imposta di bollo ai capitolati e al computo metrico che fanno parte del contratto di appalto per lavori e servizi, con l'entrata in vigore delle modifiche al codice degli appalti pubblici (Dlgs 50/2016), relativamente al trattamento tributario da riservare ai fini dell'imposta di bollo ai capitolati, l'agenzia osserva che questi documenti poiché disciplinano particolari aspetti del contratto (a esempio, termine entro il quale devono essere ultimati i lavori, responsabilità e obblighi dell'appaltatore, modi di riscossione dei corrispettivi dell'appalto), sono riconducibili alle tipologie disciplinate dall'articolo 2 della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 642/1972, che prevede l'imposta di bollo nella misura di 16 euro per ogni foglio, per le «scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali con le quali si creano, si modificano, si estinguono, si accertano o si documentano rapporti giuridici di ogni specie, descrizioni, constatazioni e inventari destinati a far prova tra le parti che li hanno sottoscritti».
Per quanto concerne l'imposta di bollo del computo metrico estimativo, con la risoluzione n. 97/2002, l'agenzia delle Entrate ha precisato che gli allegati di natura tecnica, quali gli elaborati grafici progettuali, i piani di sicurezza, i disegni, i computi metrici sono parte integrante del contratto e devono essere richiamati al suo interno. Pertanto, il computo metrico estimativo, in quanto elaborato tecnico la cui redazione viene affidata a un professionista in possesso di determinati requisiti, rientra tra gli atti individuati dall'articolo 28 della tariffa, parte seconda, del Dpr 642/1972, per i quali è dovuta l'imposta di bollo in caso d'uso, nella misura di 1 euro per ogni foglio o esemplare.
Relativamente all'applicazione dell'imposta di bollo sulle offerte economiche, formulate dagli operatori nell'ambito del Mepab, come risoluzione n. 96/2013/E , gli operatori che non risultano aggiudicatari della commessa non scontano l'imposta di bollo.
In merito al trattamento tributario ai fini dell'imposta di bollo del documento riepilogativo del contenuto dell'offerta economica generato automaticamente dal sistema, l'agenzia delle Entrate ritiene che il documento in questione non assume un'autonoma rilevanza rispetto al documento principale «offerta economica».
Per quanto riguarda il trattamento fiscale alle istanze/dichiarazione di partecipazione a una procedura di evidenza pubblica come previsto dalla normativa provinciale dell'Alto Adige 17/1993 all'articolo 23–bis, l'agenzia delle Entrate ritiene che non sono assimilabili, ai fini dell'imposta di bollo, alle istanze/dichiarazioni di partecipazione alla procedura di gara; nel caso in esame, queste dichiarazioni sono rilasciate all'interno della «dichiarazione di partecipazione alla procedura di gara» e quindi devono essere trattate come le istanze dirette a una amministrazione dello Stato che sono soggette all'imposta di bollo fin dall'origine, secondo l'articolo 3, comma 1, della tariffa allegata al Dpr 642/1972, nella misura di 16 euro per ogni foglio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:  PA digitale, in due enti su tre manca il responsabile - L'ultimatum di Funzione pubblica.
Obbligo di nominare in tutti gli enti, «con ogni opportuna urgenza», il responsabile per la transizione al digitale (Rtd), senza che ciò implichi l'aumento del numero delle posizioni dirigenziali. Necessità che gli uffici preposti all’organizzazione, all’innovazione e alle tecnologie siano impegnati nell’attuazione delle misure per la digitalizzazione, processo da cui si devono determinare razionalizzazioni e miglioramenti dell'attività amministrativa.

Sono queste le principali indicazioni contenute nella circolare 01.10.2018 n. 3 della Funzione pubblica, la prima circolare firmata dal ministro Bongiorno, emblematicamente, dedicata all’innovazione tecnologica nelle Pa.
Il ruolo
Il responsabile per la transizione al digitale risponde direttamente al vertice politico o burocratico dell'ente. È questa una scelta espressamente compiuta dal legislatore che vuole sottolineare la necessità del massimo coinvolgimento dell'ente nella sua espressione più elevata.
Un coinvolgimento che deve tendere non tanto o non solo all’introduzione delle nuove tecnologie della società dell'informazione, ma soprattutto alla «realizzazione di servizi pubblici rivisitati in un'ottica che ne prevede la piena integrazione con le nuove tecnologie». La circolare ricorda che l'obbligo della introduzione di questa figura è già operativo da oltre 2 anni (esattamente dal 14.09.2016), ma sono ancora assai poche le amministrazioni che vi hanno provveduto.
Le competenze
I compiti del responsabile per la transizione digitale, come definiti dal legislatore, sono così riassunti: coordinamento strategico dei sistemi informativi di telecomunicazione e fonia e indirizzo e coordinamento dello sviluppo dei servizi; programmazione, coordinamento e applicazione della sicurezza informatica; accesso dei disabili; analisi periodica della coerenza tra la organizzazione e l'utilizzo delle tecnologie dell'informazione; partecipazione alla revisione del modello organizzativo dell'ente; progettazione e coordinamento delle iniziative per il miglioramento della erogazione dei servizi; attuazione delle direttive della Funzione pubblica; pianificazione e coordinamento nell'ente dell’introduzione degli strumenti della società dell'informazione; pianificazione e coordinamento della acquisizione di soluzioni e sistemi informatici, telematici e di telecomunicazione.
La circolare raccomanda che a questa figura siano assegnati anche i seguenti compiti: costituzione di tavoli di coordinamento all'interno dell'ente; attivazione di gruppi tematici; proposta di circolari ed atti di indirizzo; definizione delle forme di raccordo con le altre figure interessate ai processi di digitalizzazione; predisposizione del piano triennale per l'informatica; predisposizione della relazione annuale sulle attività svolte da inviare al vertice dell'ente.
La qualifica
Sul terreno operativo tutte le singole amministrazioni pubbliche devono individuare l'ufficio dirigenziale cui assegnare questi compiti con l'assegnazione al vertice dello stesso, a condizione che sia «dotato di adeguate competenze tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali», dei compiti di responsabile per la transizione al digitale.
Nella graduazione delle posizioni dirigenziali, cioè nella cosiddetta pesatura ai fini della determinazione della misura della indennità di posizione, si deve tenere conto dell’assegnazione di questa responsabilità. Negli enti senza dirigenti, l'incarico deve essere assegnato a un responsabile titolare di posizione organizzativa. I piccoli Comuni possono dare corso all’individuazione di questa figura anche in modo associato, sia ricorrendo alla convenzione sia all’unione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018).

LAVORI PUBBLICIProgramma delle opere pubbliche, possibile l’approvazione dopo il bilancio.
In mancanza di istruzioni ufficiali da parte del ministero, la recente pubblicazione da parte di Itaca (l'Istituto per l'innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, che opera a servizio della Conferenza delle Regioni e Province autonome) del manuale contenente «Istruzioni per la redazione del programma triennale dei lavori pubblici e del programma biennale degli acquisti di forniture e servizi di cui all'art. 21 dlgs 50/2016» rappresenta l'occasione per analizzare sotto una diversa prospettiva (tecnica e non solo contabile) l'iter di approvazione del programma triennale delle opere pubbliche e il suo rapporto con il documento unico di programmazione e il bilancio di previsione.
Sino a ora è stato affermato (si veda la nota Anci del 24.07.2018) che il Dup dovesse contenere gli atti di programmazione settoriale già dalla sua genesi del mese di luglio, in forza di quanto previsto nel principio contabile allegato 4/1. Successivamente il Dm 29.08.2018 ha chiarito, in merito alle procedure di approvazione valide per i Comuni sopra i 5.000 abitanti (ma con disposizione di portata generale), che «Nel caso in cui la legge preveda termini di adozione o approvazione dei singoli documenti di programmazione successivi a quelli previsti per l'adozione o l'approvazione del DUP, tali documenti di programmazione possono essere adottati o approvati autonomamente dal DUP, fermo restando il successivo inserimento degli stessi nella nota di aggiornamento al DUP. I documenti di programmazione per i quali la legge non prevede termini di adozione o approvazione devono essere inseriti nel DUP».
I termini di approvazione del programma delle opere pubbliche
In quale casistica rientra l'approvazione del programma triennale delle opere pubbliche? L'articolo 5, comma 6, del Dm 14/2018 precisa che, dopo aver adottato il piano, assolto agli obblighi di pubblicazione, consentito (in via facoltativa) la presentazione delle osservazioni, gli enti locali procedono all'approvazione definitiva del piano entro 60 giorni dalla pubblicazione e comunque «entro novanta giorni dalla data di decorrenza degli effetti del proprio bilancio o documento equivalente, secondo l'ordinamento proprio di ciascuna amministrazione».
Il termine ultimo (l'unico ancorato ad una data) per l'approvazione del piano è quindi fissato nei tre mesi successivi alla data di approvazione del bilancio. I motivi di disposizione (sinora del tutto “trascurata”) possono essere sintetizzati nelle seguenti considerazioni:
   a) l'articolo 21, comma 1, del codice impone che i piani siano approvati in coerenza con il bilancio di previsione;
   b) fino a quando il bilancio non viene approvato e non è definito l'ammontare delle risorse disponibili per la realizzazione delle opere pubbliche, non è possibile dare corso compiutamente alla programmazione delle opere pubbliche (ma analogo discorso vale anche per il programma delle forniture di beni e servizi).
A spianare la strada a questa impostazione è l'eliminazione del piano delle opere pubbliche quale allegato al bilancio, documento espunto dall'elencazione dell'articolo 172 del Tuel sin dal 2015. La difficoltà di delineare una programmazione degli investimenti in via anticipata rispetto alla quantificazione delle risorse è infatti sempre stato il punto debole del rapporto tra i due ambiti di pianificazione, che ha portato in passato gli enti o ad approvare piani delle opere pubbliche del tutto “avulsi” dal bilancio (i cosiddetti «piani dei sogni») oppure ad apportare modifiche sostanziali al piano adottato, per adeguare quello definitivamente approvato alle effettive disponibilità finanziarie. Secondo la recente lettura interpretativa, quindi, non è il Dup a imporre i termini per l'approvazione del piano delle opere pubbliche, termini che sono invece sganciati dal Dup e indicati dall’articolo 5, comma 6.
Quale rapporto con il bilancio e il Dup?
Se dunque il termine ultimo di approvazione del programma delle opere pubbliche è fissato in data successiva all'approvazione del documento unico di programmazione (o della sua nota di aggiornamento), trova applicazione la seconda casistica disciplinata dal punto 8.2 del principio contabile allegato 4/1, che prevede l'autonoma approvazione del piano e il successivo inserimento nella nota di aggiornamento al Dup. A questo punto però il corto circuito è inevitabile. Come inserire nella nota di aggiornamento al Dup approvata insieme al bilancio un piano che, a rigore, potrebbe non essere ancora approvato? Per uscire da questo empasse gli enti alternativamente possono:
   1) non includere nel Dup (o nota di aggiornamento) approvato insieme al bilancio il programma delle opere pubbliche. Al momento dell'approvazione del piano di procederà con un ulteriore aggiornamento del Dup;
oppure
   2) approvare il programma delle opere pubbliche contestualmente alla nota di aggiornamento al Dup e al bilancio entro il 31/12 (opzione questa non vietata dal Dm 14/2018 e che comunque garantisce la coerenza del programma con il bilancio, come imposto dall'articolo 21, comma 1, del Codice). Per ragioni di snellimento, riteniamo che questa sia la soluzione più indicata.

Quale che sia la soluzione adottata dalle singole amministrazioni, si può in conclusione affermare che:
   • non vi è alcun obbligo di inserire nel Dup di luglio il programma triennale delle opere pubbliche e il programma biennale delle forniture di beni e servizi. Il documento potrà limitarsi a fornire indicazioni sulla spesa per investimenti e sugli interventi da programmare, fermo restando l'obbligo di procedere, in sede di nota di aggiornamento, a inserire il piano una volta approvato;
   • l'iter di adozione e approvazione del programma opere pubbliche è sganciato da quello del Dup e del bilancio, dovendo garantire solo il rispetto del termine ultimo di 90 giorni dall'approvazione del bilancio stesso;
   • gli enti possono avviare l'iter di approvazione del piano anche prima dell'approvazione del bilancio, purché sia garantita la coerenza del piano approvato (e non anche di quello adottato) con il bilancio stesso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.10.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI SERVIZICon riferimento alle procedure di evidenza pubblica aventi ad oggetto la raccolta e il trasporto di rifiuti, l’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali è un requisito di partecipazione alla gara e non di esecuzione del contratto.
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1. – Dopo aver aggiudicato, a seguito di procedura negoziata, il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani a Eu.So.Co.So., il Comune di Fagnano Castello ha revocato l’aggiudicazione e ha affidato il servizio a Ma.Se. S.r.l., seconda classificata.
L’amministrazione, infatti, ha ritenuto che l’aggiudicataria non possedesse, al momento dell’aggiudicazione, i requisiti tecnici richiesti dalla legge di gara, giacché solo in un momento successivo essa ha ottenuto l’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali per i codici CER relativi ai rifiuti solidi urbani; dunque, difettando in capo alla Eu. un requisito di partecipazione, l’aggiudicazione non poteva essere mantenuta in vita.
2. – Eu. ha impugnato le decisione del Comune di Fagnano Castello d’innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale con ricorso cui hanno resistito il Comune di Fagnano Castello e la controinteressata Ma.Se. S.r.l.
...
3. – L’amministrazione resistente e la società controinteressata hanno eccepito la tardività del ricorso, nella parte in cui sono stati impugnati la lettera di invito, il capitolato di gara e alcuni atti endoprocedimentali.
La questione è ininfluente, in quanto la revoca dell’aggiudicazione come si vedrà ai §§ che seguono, è autonomamente illegittima.
4. – Il Collegio ritiene, preliminarmente, che, con riferimento alle procedure di evidenza pubblica aventi ad oggetto la raccolta e il trasporto di rifiuti, l’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali sia un requisito di partecipazione alla gara e non di esecuzione del contratto (Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2019, n. 3727), come peraltro specificamente previsto nel caso in esame dalla legge speciale di gara.
In effetti, la lettera di invito trasmessa dal Comune di Fagnano Castello prevedeva, per la gara di cui si controverte, l’iscrizione all’Albo per la categoria 1, classe F.
La società ricorrente possedeva, alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura e alla data di aggiudicazione, l’iscrizione alla categoria 1 e alla superiore classe E. Non è pertanto possibile ritenere che essa non fosse in possesso del requisito di qualificazione previsto dalla legge speciale di gara.
5. – L’indicazione, nell’iscrizione all’Albo, dei codici CER si pone, invece, su un piano diverso.
Infatti, a mente dell’art. 212, comma 23, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, nell’Albo sono indicate, oltre ai dati del soggetto autorizzato, l'attività per la quale viene rilasciata l'autorizzazione, i rifiuti oggetto dell'attività di gestione, la scadenza dell'autorizzazione; ed è successivamente annotata ogni variazione delle predette informazioni che intervenga nel corso della validità dell'autorizzazione stessa.
Dunque, con l’iscrizione all’Albo si ottiene l’autorizzazione all’esercizio di una determinata attività. Nel caso di specie, la Eu., essendo iscritta nell’Albo per la categoria 1, classe E, è autorizzata alla raccolta e al trasporto dei rifiuti urbani prodotti da una popolazione inferiore a 20.000 abitanti.
Nell’albo vengono poi annotati, attraverso l’indicazione dei codici CER, i rifiuti in concreto gestiti, i mezzi adoperati, il personale impiegato (art. 14, comma 2, lett. c), d.m. 03.06.2014, n. 120). Ogni variazione per incremento dei mezzi adoperati deve essere comunicata al soggetto gestore dell’Albo e da questo annotata (cfr. art. 18, comma 2, d.m. n. 120 del 2014).
Ciò è proprio quanto accaduto nella vicenda in esame. Essendosi aggiudicata il servizio messo a gara dal Comune di Fagnano Castello, avendo acquistato dei nuovi mezzi, Eu. ha provveduto alle necessarie variazioni dell’iscrizione all’Albo, indicando i mezzi acquistati e codici CER dei rifiuti al trasporto dei quali i mezzi erano destinati. Tale variazione non ha comportato una modifica del requisito di qualificazione già posseduto, ma una specificazione dell’attività effettivamente svolta.
6. – Il ricorso è dunque fondato e, conseguentemente, debbono essere annullati i provvedimenti con i quali è stata disposta la revoca dell’aggiudicazione e lo scorrimento della graduatoria (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 16.08.2019 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Essendole stata revocata l'aggiudicazione, la ditta richiede il danno da mancata percezione degli utili, che la ricorrente quantifica equitativamente nella misura del 10% del valore dell’appalto, e da mancato arricchimento del curriculum, che viene valutato in misura del 5% del citato valore.
Tali danni non possono essere riconosciuti, alla stregua dei principi ormai consolidati elaborati dalla giurisprudenza in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto, secondo cui:
   - ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto;
   - in particolare, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.);
   - quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma c.c. (e specificato per il risarcimento dei danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art. 124, comma 1, c.p.a.);
   - la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., in combinato con l'art. 2056 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   - la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   - la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729 c.c. queste devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
   - va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale sopra indicata;
   - anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in termini di mancato arricchimento del proprio curriculum professionale e della perdita di ulteriori commesse sulla base di una qualificazione mancata a causa dell'altrui illegittima aggiudicazione.

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7. – Essendosi ormai esaurito il servizio oggetto di gara, può essere accordata alla società ricorrente solo la tutela risarcitoria.
7.1. – Viene richiesto il danno da mancata percezione degli utili, che la ricorrente quantifica equitativamente nella misura del 10% del valore dell’appalto, e da mancato arricchimento del curriculum, che viene valutato in misura del 5% del citato valore.
Tali danni non possono essere riconosciuti, alla stregua dei principi ormai consolidati elaborati dalla giurisprudenza in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto (cfr. ex plurimis: Cons. Stato, Ad. Plen., 12.05.2017, n. 2; Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2017, n. 2184; Cons. Stato, Sez. IV, 23.05.2016, n. 2111), secondo cui:
   - ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di avere sofferto;
   - in particolare, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.);
   - quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma c.c. (e specificato per il risarcimento dei danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art. 124, comma 1, c.p.a.);
   - la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., in combinato con l'art. 2056 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   - la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   - la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla regola generale di cui all'art. 2729 c.c. queste devono essere dotate dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
   - va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale sopra indicata;
   - anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in termini di mancato arricchimento del proprio curriculum professionale e della perdita di ulteriori commesse sulla base di una qualificazione mancata a causa dell'altrui illegittima aggiudicazione.
Nel caso di specie la società ricorrente ha solo enunciato i danni da lucro cessante, senza dare alcun elemento probatorio utile per la quantificazione del danno da mancata percezione degli utili e per l’accertamento dell’esistenza di un danno curricolare, sicché, come già anticipato, tali voci di danno non possono essere risarcite.
7.2. – Stesso discorso vale per il danno all’immagine, che viene valutato nella misura del 3% del valore complessivo dell’appalto. Ma anche in tal caso non vi sono elementi che facciano ritenere che l’immagine di Eu. sia stata in qualche modo offuscata.
7.3. – È invece risarcibile, in quanto dimostrato, il danno emergente, rappresentato dalla differenza tra il prezzo di acquisto dei mezzi necessari per l’esecuzione del servizio e il prezzo di loro rivendita (€ 24.705,00), dai costi di assicurazione dei veicoli (documentati nella misura € 1.960,60), dai costi della fidejussione (€ 850,00), dai costi per la variazione dell’iscrizione all’Albo Nazionale dei gestori ambientali (€ 500,00); non sono documentate spese per recupero dei mezzi.
Il danno subito dalla società ricorrente va dunque quantificato in € 28.015,60, da rivalutare a partire dalla data di sospensione del servizio sino a quella di pubblicazione della presente sentenza. Sulle somme, annualmente rivalutate, sono dovute interessi al saggio legale, decorrenti dalla data di proposizione del ricorso (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 16.08.2019 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIEsclusione dalla gara per omessa dichiarazione di debito con il fisco.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Omessa dichiarazione debito con il fisco – Non oggetto di atto dell’Amministrazione finanziaria – Non comporta l’esclusione.
Non è motivo di esclusione dalla gara la mancata dichiarazione di un debito con il fisco ancora non oggetto di (o contenuto in) un atto dell’amministrazione finanziaria in pendenza del termine per presentare la domanda di partecipazione alla procedura, che nel suo complesso il contribuente ha poi chiesto di rateizzare e la cui istanza è stata accolta (1).
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   (1) Ha affermato la Sezione che la disciplina nazionale in tema di esclusione dalla gare per irregolarità fiscale, anche in ragione del recepimento incompleto della direttiva è molto garantista nei confronti del privato e non del tutto coordinata con il diritto tributario.
Rilevano infatti, in senso escludente, solamente i debiti fiscali definitivamente accertati, per tali intendendosi quelli non contestati in giudizio nei termini di legge ovvero se contestati confermati dal giudice tributario sulla base di una sentenza non più soggetta ad impugnazione; con la conseguenza che la proposizione di un ricorso dinanzi alla competente commissione tributaria (o di un appello o di un ricorso per cassazione), quand’anche manifestamente infondato, è comunque sufficiente a determinare (a perpetuare) la non definitività del debito e, in ultima analisi, a permettere nelle more la partecipazione alle gare, oltre tutto, a scapito degli altri concorrenti che siano invece (del tutto) in regola con il fisco (e magari, proprio per tale ragione, impossibilitati ad offrire ribassi oltre una certa misura).
Si intende, quindi, secondo la legislazione in materia di contratti pubblici, che qualunque debito, per quanto rilevante in termini economici, purché (e finché) ancora oggetto di un giudizio tributario (proponibile o) pendente, non potrà essere motivo di esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 4, del codice dei contratti del 2016.
La Sezione ha aggiunto che la previsione della direttiva 24/2014, che permette alle stazioni appaltanti di valutare anche l’esistenza di debiti non ancora definitivi, sulla base di un prudente apprezzamento e attraverso una causa di esclusione di tipo facoltativo, non è stata recepita nel nostro sistema, neppure in occasione dell’ultimo intervento dedicato alla modifica di talune parti del codice dei contratti del 2016 (con il d.l. n. 32 del 2019 e la legge di conversione n. 55 del 2019).
Ha quindi affermato la Sezione che l’art. 80, comma 4, del Codice dei contratti pubblici non si coordina alla perfezione con la disciplina fiscale propriamente intesa.
L’art. 80, nel fare riferimento a “sentenze e atti non più soggetti ad impugnazione” sembra scritto, infatti, pensando essenzialmente alle pretese fiscali (che sono) oggetto di avvisi di accertamento, la cui inoppugnabilità o la cui conferma in giudizio rende “definitivamente accertate” le violazioni (ossia gli omessi pagamenti, nella soglia minima ritenuta rilevante) del contribuente.
Molto meno chiaro è invece se, a fronte di un avviso di accertamento divenuto già definitivo ovvero inoppugnabile, possa bastare l’impugnazione della cartella di pagamento, quale atto di riscossione esecutivo di detto avviso, per permettere al contribuente di invocare –magari a distanza di anni dal verificarsi del presupposto- la non definitività della sua irregolarità (CGARS, sentenza 16.08.2019 n. 758 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICILa semplice richiesta di rinnovo dell’attestazione Soa non è sufficiente per partecipare alla gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Attestazione Soa – Scaduta – Richiesta di rinnovo – Insufficienza ex se.
Ai fini della partecipazione ad una gara pubblica la semplice richiesta di rinnovo dell’attestazione Soa non è sufficiente a determinare la retroattività del rinnovo della stessa Soa, occorrendo che essa abbia almeno i requisiti di una proposta contrattuale e sia accettata sall’organismo di attestazione Soa (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’art. 76, d.P.R. n. 207 del 2010 dispone che gli operatori economici devono possedere l'attestazione di qualificazione rilasciata da appositi organismi di diritto privato debitamente autorizzati dall'Autorità di regolazione del settore; il comma 5 del citato articolo precisa che “l’efficacia dell’attestazione è pari a cinque anni con verifica triennale del mantenimento dei requisiti di ordine generale, nonché dei requisiti di capacità strutturale di cui all'art. 77, comma 5. Almeno novanta giorni prima della scadenza del termine, l'impresa che intende conseguire il rinnovo dell'attestazione deve stipulare un nuovo contratto con la medesima Soa o con un'altra autorizzata all’esercizio dell’attività di attestazione”.
Come riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza l’adempimento di cui al citato art. 76, comma 5, d.P.R. n. 207 del 2010 discende direttamente dalla diligente condotta dell’impresa richiedente l’attestazione, mentre il superamento dei termini prescritti per l’istruttoria può comportare sanzioni a carico dell’Organismo di certificazione, ma non preclude l’effetto retroattivo della certificazione stessa, ove infine positivamente rilasciata, con riconosciuta ultravigenza del precedente attestato, in pendenza della procedura di verifica ritualmente attivata (Cons. St., sez. V, 21.06.2013, n. 3398, Tar Bari, sez. I, 09.06.2016, n. 737; Tar Lazio, sez. III, 06.04.2017, n. 4296).
Se la ratio sottesa alla regola dell’ultra vigenza della Soa, quindi, risiede nel non far ricadere sull’impresa concorrente le conseguenze della durata del processo di verifica da parte dell’organismo di attestazione, occorre comunque che l’impresa abbia posto in essere nel termine di 90 giorni precedenti alla scadenza del termine di efficacia della SOA, tutte le attività necessarie per radicare l’obbligo dell’organismo di eseguire le verifiche, a pena dell’applicazione delle predette sanzioni configurabili solo in quanto sull’organismo di attestazione SOA sia sorto il relativo obbligo di svolgere le verifiche che presuppone la presenza di un accordo vincolante in tal senso.
Del resto l’art. 76, comma 5, d.P.R. n. 207 del 2010, per consentire l’ultravigenza della Soa parla espressamente di stipula di un nuovo contratto, non potendo essere sufficiente a tal fine una semplice richiesta in tal senso effettuata dalla ricorrente con una mail, peraltro mancante degli elementi essenziali per configurarla come vera e propria proposta contrattuale e nemmeno prodotta nella fase del contraddittorio procedimentale con la stazione appaltante.
Diversamente argomentando, per garantirsi l’effetto retroattivo dell’eventuale nuova attestazione, all’impresa sarebbe sufficiente manifestare all’organismo di attestazione anche genericamente la propria intenzione di rinnovare la SOA indipendentemente dall’accettazione di quest’ultimo che, per avventura, potrebbe anche non riscontrare la richiesta.
La Sezione ha chiarito di non ignorare che il prevalente orientamento giurisprudenziale (richiamato anche da parte ricorrente) interpreta estensivamente il riferimento contenuto nel predetto articolo alla stipula di un “nuovo contratto”, ritenendo sufficiente a tal fine (tanto per il rinnovo che per la verifica dell’attestazione Soa) anche una ”richiesta” di rinnovo (o verifica sia pure con termini diversi), anziché la formale stipula del contratto, in omaggio al principio del favor partecipationis (Cons. St. n. 1190 del 2018; Tar Milano, sez. I, 23.01.2018, n. 186, che si richiama alla pronuncia Cons. St., Ad.Plen., 18.07.2012, n. 27; Cons. St., sez. V, 08.03.2017, n. 1091).
Tuttavia tali pronunce suppongono che il procedimento di rinnovo fosse comunque stato formalmente avviato e che fossero in corso le relative verifiche da parte dell’organo di attestazione sulla perduranza dei requisiti dell’impresa partecipante, giustamente ritenendo che i tempi necessari per lo svolgimento di tali attività non possano tradursi in un pregiudizio per la società che avesse diligentemente proposto la richiesta di rinnovo e che si vedrebbe esclusa dalle gare in ragione del tempo necessario all’organismo di attestazione per svolgere il proprio incarico.
Tuttavia, l’insorgenza di un tale obbligo gravante sull’organismo di attestazione presuppone che sia configurabile almeno un nucleo minimo di accordo contrattuale (accettazione, data di avvio delle operazioni, corrispettivo dell’attività, ecc.) ovvero che tale obbligo possa conseguire anche alla semplice richiesta dell’impresa interessata ad esempio sulla base di un precedente accordo normativo stipulato tra le parti che imponga all’Organismo di attestazione di avviare il procedimento di verifica sulla base della sola istanza dell’impresa anche senza accettazione, di modo che non siano configurabili ulteriori attività anche negoziali incombenti sull’impresa richiedente.
In tal senso, quindi, deve preferibilmente intendersi il riferimento operato dalla giurisprudenza sopra riportata alla necessità che la semplice richiesta di rinnovo sia stata tuttavia tempestivamente e ritualmente presentata (Tar Milano, sez. I, 20.04.2018, n. 1060; Cons. St., sez. V, 31.08.2016, n. 3752 e 08.03.2017, n. 1091) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 12.08.2019 n. 4340 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Come noto, secondo la giurisprudenza, che il Collegio condivide e ribadisce anche in questa sede,
in materia di accertamento dei requisiti di ordine speciale per il conseguimento degli appalti di lavori pubblici, vige il principio secondo cui le qualificazioni richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata dell'appalto, senza soluzione di continuità”, tale principio con particolare riguardo alle attestazioni SOA risponde “ad evidenti esigenze di certezza e di funzionalità del sistema di qualificazione obbligatoria, imperniato sul rilascio da parte degli organismi di attestazione di certificati che costituiscono condizione necessaria e sufficiente per l'idoneità ad eseguire contratti pubblici”; e “pertanto, l'impresa che partecipa alla procedura selettiva deve dimostrare di possedere, dalla presentazione dell'offerta fino all'eventuale fase di esecuzione dell'appalto, la qualificazione tecnico-economica richiesta dal bando (per tutte Adunanza Plenaria 07.04.2011, n. 4 e Adunanza Plenaria 20.07.2015, n. 8).
Ciò posto,
il Collegio ritiene che la procedura di gara non si concluda con la proposta di aggiudicazione di cui all’art. 33, co. 1, del d.lgs. n. 50/2016, ma includa anche la successiva fase dei controlli che deve ritenersi parte integrante del procedimento di gara.
E infatti, secondo quanto statuito dall’art. 33 del predetto decreto legislativo, tra le fasi in cui si articola il procedimento di affidamento è prevista, tra l’altro, l’adozione, all’esito della valutazione delle offerte delle imprese, di una proposta di aggiudicazione a cui segue la verifica dei requisiti di partecipazione dell’impresa risultata migliore offerente.
Il comma 7 dell’art. 32 precisa che “l’aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti”, con la conseguenza che fino a questo momento, ovvero fino al positivo esito dei controlli, la procedura di gara non può considerarsi terminata e, quindi non viene meno l’onere delle imprese partecipanti di conservare il possesso dei requisiti di partecipazione.
Né questa conclusione conduce ad aggravare eccessivamente la posizione delle partecipanti tenuto conto che lo stesso articolo 33 prevede che l’espletamento di tali controlli avvenga nel termine all’uopo previsto dalla stazione appaltante, ovvero in mancanza, in quello di trenta giorni, di modo che le altre concorrenti sono garantite dalla previsione di tempi certi per l’avvio e l’espletamento dei controlli stessi, atteso che prima della conclusione degli stessi il contratto non può essere stipulato.

Sotto questo aspetto, non è applicabile al caso di specie l’orientamento giurisprudenziale, invocato da parte ricorrente, secondo cui occorre differenziare la posizione dell’aggiudicataria da quella delle altre concorrenti, in quanto la prima sarebbe tenuta a conservare il possesso dei requisiti di partecipazione anche dopo l’aggiudicazione definitiva, mentre alle altre concorrenti non potrebbe imporsi un tale onere, atteso che, nel caso di specie, la Città Metropolitana aveva adottato solo una proposta di aggiudicazione nei confronti di DLM e pertanto, come ammesso anche dalla ricorrente, ancora si dovevano espletare i controlli sulla congruità dell’offerta proposta da DLM ai sensi dell’art. 95 del codice dei contratti, all’esito dei quali, infatti, è risultata l’incongruità dell’offerta proposta dalla predetta società (cfr. nota Città Metropolitana 31.10.2018 prot. n. 142641).
Ad ulteriore comprova che la procedura non fosse chiusa sta il fatto che la mancata stipula con la DLM Costruzioni non è avvenuta all’esito di un procedimento di autotutela riferito all’aggiudicazione, ma nell’ambito dello stesso procedimento di affidamento non ancora concluso per assenza dell’atto terminale di aggiudicazione definitiva.
Analogamente non può ravvisarsi una soluzione di continuità nello svolgimento del procedimento di gara nell’intervento in autotutela con cui la stazione appaltante, prima della proposta di aggiudicazione in favore di DLM, ha corretto il calcolo della soglia di anomalia (in linea con i principi dettati poco prima dall’Adunanza Plenaria, n. 13/2018); tale intervento deve considerarsi una parentesi nell’ambito della medesima procedura di affidamento che anche in quel caso non si era conclusa in assenza, come detto, di un’aggiudicazione definitiva.
Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente contesta la gravata revoca, denunciando l’omessa applicazione del principio di ultra vigenza dell’attestazione SOA adducendo di avere richiesto il rinnovo all’organismo di attestazione 90 giorni prima della scadenza in data 11.06.2018 e di aver stipulato il relativo contratto in data 5 settembre dello stesso per poi ottenere l’attestazione definitiva in data 13.02.2019.
Secondo la ricorrente la richiesta di rinnovo varrebbe ad escludere la soluzione di continuità nel possesso del requisito.
La censura non merita positiva considerazione.
Giova premettere che l’art. 76 del D.P.R. n. 207/2010 dispone che gli operatori economici debbano possedere l'attestazione di qualificazione rilasciata da appositi organismi di diritto privato debitamente autorizzati dall'Autorità di regolazione del settore; il comma 5 del citato articolo, “l’efficacia dell’attestazione è pari a cinque anni con verifica triennale del mantenimento dei requisiti di ordine generale, nonché dei requisiti di capacità strutturale di cui all'articolo 77, comma 5. Almeno novanta giorni prima della scadenza del termine, l'impresa che intende conseguire il rinnovo dell'attestazione deve stipulare un nuovo contratto con la medesima SOA o con un'altra autorizzata all’esercizio dell’attività di attestazione”.
Come riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza, infatti,
l’adempimento di cui al citato art. 76, comma 5, del d.P.R. n. 207 del 2010 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante Codice dei contratti pubblici) discende direttamente dalla diligente condotta dell’impresa richiedente l’attestazione, mentre il superamento dei termini prescritti per l’istruttoria può comportare sanzioni a carico dell’Organismo di certificazione, ma non preclude l’effetto retroattivo della certificazione stessa, ove infine positivamente rilasciata, con riconosciuta ultravigenza del precedente attestato, in pendenza della procedura di verifica ritualmente attivata (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.06.2013, n. 3398, TAR Puglia, Bari, sez. I, 09.06.2016, n. 737, TAR Lazio, Roma, sez. III, 06.04.2017, n. 4296).
Se la ratio sottesa alla regola dell’ultra vigenza della SOA, quindi, risiede nel non far ricadere sull’impresa concorrente le conseguenze della durata del processo di verifica da parte dell’organismo di attestazione, occorre comunque che l’impresa abbia posto in essere nel termine di 90 giorni precedenti alla scadenza del termine di efficacia della SOA, tutte le attività necessarie per radicare l’obbligo dell’organismo di eseguire le verifiche, a pena dell’applicazione delle predette sanzioni configurabili solo in quanto sull’organismo di attestazione SOA sia sorto il relativo obbligo di svolgere le verifiche che presuppone la presenza di un accordo vincolante in tal senso.
Del resto l’art. 76, co. 5 del d.P.R. 207/2010, per consentire l’ultravigenza della SOA parla espressamente di stipula di un nuovo contratto, non potendo essere sufficiente a tal fine una semplice richiesta in tal senso effettuata dalla ricorrente con una mail, peraltro mancante degli elementi essenziali per configurarla come vera e propria proposta contrattuale e nemmeno prodotta nella fase del contraddittorio procedimentale con la stazione appaltante.
Diversamente argomentando, per garantirsi l’effetto retroattivo dell’eventuale nuova attestazione, all’impresa sarebbe sufficiente manifestare all’organismo di attestazione anche genericamente la propria intenzione di rinnovare la SOA indipendentemente dall’accettazione di quest’ultimo che, per avventura, potrebbe anche non riscontrare la richiesta.

Nel caso di specie, parte ricorrente adduce che il contratto si sarebbe perfezionato in data 11.06.2018, in quanto la predetta mail della PRG recante la richiesta di rinnovo avrebbe fatto seguito ad una proposta contrattuale dell’organismo di attestazione.
La ricorrente allude ad un nota (prot. 110618/010) dell’11.06.2018 con cui l’organismo di attestazione si limitava, in realtà, a ricordare alla PRG l’imminente scadenza della SOA e a sollecitare l’impresa ad avviare l’iter istruttorio volto al rinnovo dell’attestazione. Si tratta all’evidenza di un mero atto informativo volto, appunto, a sollecitare l’impresa ricorrente ad attivare il meccanismo di rinnovo, come reso palese dal riferimento contenuto nella stessa lettera dell’organismo di attestazione alla necessità di acquisire ulteriore documentazione, oltre a quella già detenuta per avviare l’iter nonché come dimostra la mancata indicazione delle condizioni contrattuali del rinnovo e del relativo costo.
Ne consegue che, anche in base a tale comunicazione, sarebbe stato necessario che la PRG ponesse in essere ulteriori adempimenti, non risultando prova che il mero invio della mail con la quale si chiedeva il rinnovo radicasse l’effettivo obbligo dell’organo di attestazione di compiere le verifiche; del resto la stessa ricorrente ha ritenuto necessario a tal fine stipulare un apposito contratto in data 05.09.2018, e poi anche nel mese di ottobre dello stesso anno, con cui si prevedevano espressamente obblighi e diritti reciproci dell’impresa e dell’organismo di attestazione prevedendosi altresì un compenso per l’attività di quest’ultimo.
Peraltro,
il Collegio non ignora che il prevalente orientamento giurisprudenziale (richiamato anche da parte ricorrente) interpreta estensivamente il riferimento contenuto nel predetto articolo alla stipula di un “nuovo contratto”, ritenendo sufficiente a tal fine (tanto per il rinnovo che per la verifica dell’attestazione SOA) anche una ”richiesta” di rinnovo (o verifica sia pure con termini diversi), anziché la formale stipula del contratto, in omaggio al principio del favor partecipationis (cfr. da ultimo Cons. Stato 1190/2018; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 23.01.2018, n. 186 che si richiama alla pronuncia Cons. Stato, Ad. Plen. 18.07.2012, n. 27; Consiglio di Stato, sez. V, 08.03.2017, n. 1091; TAR Puglia, Bari, sez. I, 09.06.2016, n. 737; TAR Campania, Napoli, sez. I, 10.07.2015, n. 3670; TAR Campania, Salerno, sez. II, 10.04.2015, n. 785; TAR Basilicata, Potenza, 29.04.2013, n. 214).
Tuttavia tali pronunce suppongono che il procedimento di rinnovo fosse comunque stato formalmente avviato e che fossero in corso le relative verifiche da parte dell’organo di attestazione sulla perduranza dei requisiti dell’impresa partecipante, giustamente ritenendo che i tempi necessari per lo svolgimento di tali attività non possano tradursi in un pregiudizio per la società che avesse diligentemente proposto la richiesta di rinnovo e che si vedrebbe esclusa dalle gare in ragione del tempo necessario all’organismo di attestazione per svolgere il proprio incarico.
Come già rilevato, tuttavia,
l’insorgenza di un tale obbligo gravante sull’organismo di attestazione presuppone che sia configurabile almeno un nucleo minimo di accordo contrattuale (accettazione, data di avvio delle operazioni, corrispettivo dell’attività, ecc.) ovvero che tale obbligo possa conseguire anche alla semplice richiesta dell’impresa interessata ad esempio sulla base di un precedente accordo normativo stipulato tra le parti (del quale tuttavia in atti non vi è traccia) che imponga all’Organismo di attestazione di avviare il procedimento di verifica sulla base della sola istanza dell’impresa anche senza accettazione, di modo che non siano configurabili ulteriori attività anche negoziali incombenti sull’impresa richiedente.
In tal senso, quindi, deve preferibilmente intendersi il riferimento operato dalla giurisprudenza sopra riportata alla necessità che la semplice richiesta di rinnovo sia stata tuttavia tempestivamente e ritualmente presentata (cfr. in particolare TAR Lombardia, sez. I, 20.04.2018, n. 1060; Consiglio di Stato, sez. V, 31.08.2016, n. 3752 e 08.03.2017, n. 1091).
Infine non può fondarsi la pretesa continuità del possesso dei requisiti sul presupposto che la nuova SOA sia stata riconosciuta sulla base di certificati di esecuzione lavori precedenti alla scadenza della SOA precedente (09.09.2018), atteso che il sistema di attestazione vigente postula che siano solo gli organismi all’uopo preposti a certificare la sussistenza dei requisiti tecnico/organizzativi necessari, con la conseguenza che l’attestazione SOA non può in alcun modo essere surrogata da una valutazione in concreto di essi operata dalla stazione appaltante.
In definitiva, tutti i motivi di ricorso si appalesano infondati e il ricorso deve conseguentemente essere respinto.

APPALTIClausola sociale degli appalti di lavori e di servizi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Applicazione – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio – Salvaguardia della concorrenza e della libertà di impresa.
L’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante (1).
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   (1) Cons. Stato, sez., III, 05.05.2017, n. 2078; id. 27.09.2018, n. 5551; id. 30.01.2019, n. 750; id., sez. V, 28.08.2017, n. 4079; Tar Reggio Calabria 15.03.2017, n. 209.
Ciò è stato confermato dal Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere n. 2703/2018, del 21.11.2018, reso sulle Linee guida recanti la disciplina delle clausole sociali, che ha precisato che la prescrizione delle clausole sociali non può che avvenire che nel «rispetto della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost., ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce “la libertà di impresa”, conformemente alle legislazioni nazionali
» (TAR Valle d’Aosta, sentenza 09.08.2019 n. 44 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3. Con la prima censura di ricorso, proposta in via principale, Eu. assume l’illegittimità della sua esclusione dalla gara, avendo la stessa offerto un ribasso sul costo del lavoro stabilito dalla Stazione appaltante nella lex specialis, pur non essendo possibile escludere in via automatica un’offerta in assenza di un procedimento di verifica della sua congruità.
3.1. La doglianza è fondata.
La Stazione appaltante all’art. 10 del Disciplinare della gara oggetto del presente contenzioso ha stabilito che il “costo del lavoro non [è] soggetto a ribasso”; tale prescrizione è stata altresì ribadita nel successivo art. 18.5, riguardante le modalità di compilazione del form on-line.
Avendo la ricorrente offerto un costo del lavoro in misura inferiore rispetto a quanto stabilito negli atti di gara, è stata esclusa dalla procedura da parte della Stazione appaltante.
In prima battuta, va evidenziato che le richiamate clausole non appaiono di significato univoco, stante l’assenza di una espressa comminatoria di esclusione in caso di loro violazione (sulla tassatività delle cause di esclusione dalle gare, cfr. Consiglio di Stato, III, 26.07.2019, n. 5295) e considerando altresì che la disposizione di cui all’art. 18.5 riveste un carattere meramente procedurale, essendo finalizzata a regolamentare le modalità di compilazione della domanda di partecipazione alla procedura.
In presenza di prescrizioni ambigue, è consolidato l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la necessità di garantire la massima partecipazione alle gare impone una interpretazione estensiva delle predette clausole, da applicare a fortiori nel caso in cui le stesse si presentino di dubbia compatibilità con i principi costituzionali e del diritto dell’Unione europea (Consiglio di Stato, V, 31.05.2018, n. 3262; 14.05.2018, n. 2852).
Tanto premesso,
deve sottolinearsi come l’esclusione della ricorrente dalla gara non appaia legittima, in considerazione della impossibilità di ritenere ex se anomala un’offerta che indichi un costo della manodopera inferiore a quello indicato dalla Stazione appaltante (con dati ricavati dalle Tabelle Ministeriali: cfr. all. 4 e 5 di In.Va. e 8 di Eu.), dovendo necessariamente lo stesso essere valutato nell’ambito della verifica di congruità, tenuto conto che di regola siffatte tabelle –redatte dal Ministero competente– esprimono un costo del lavoro medio, ricostruito su basi statistiche, per cui esse non rappresentano un limite inderogabile per gli operatori economici partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, ma solo un parametro di valutazione della congruità dell’offerta, con la conseguenza che lo scostamento da esse, specie se di lieve entità, non legittima di per sé un giudizio di anomalia (Consiglio di Stato, V, 06.02.2017, n. 501; altresì, III, 13.03.2018, n. 1609; III, 21.07.2017 n. 3623; 25.11.2016, n. 4989).
I costi medi della manodopera, indicati nelle tabelle (ministeriali), del resto, svolgono una funzione indicativa, suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali, laddove si riesca, in relazione alle peculiarità dell’organizzazione produttiva, a giustificare la sostenibilità di costi inferiori, fungendo gli stessi da esclusivo parametro di riferimento da cui è possibile discostarsi, in sede di giustificazioni dell’anomalia, sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa (cfr. TAR Lazio, Roma, II-bis, 19.06.2018, n. 6869).
Ciò che invece non può essere derogato in peius –e non risulta essersi verificato nella specie– sono i minimi salariali della contrattazione collettiva nazionale, sui quali non sono ammesse giustificazioni (TAR Veneto, I, 19.07.2018, n. 774).
3.2. Non appare rilevante, in senso contrario, l’eccezione formulata dalla difesa di In.Va. in ordine alla stretta connessione tra la prescrizione relativa all’inderogabilità del costo del lavoro e la clausola sociale di cui all’art. 23 del Disciplinare, che avrebbe imposto l’immediata impugnazione di quest’ultima in seguito alla pubblicazione del Bando, non potendo procedersi alla sua disapplicazione in fase di gara.
Dalla lettura della richiamata disposizione –che recita “al fine di promuovere la stabilità occupazionale nel rispetto dei principi dell’Unione Europea, e ferma restando la necessaria armonizzazione con l’organizzazione dell’operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto, l’aggiudicatario del contratto di appalto è tenuto ad assorbire prioritariamente nel proprio organico il personale già operante alle dipendenze dell’aggiudicatario uscente, come previsto dall’articolo 50 del D.Lgs. 50/2016 e s.m.i., garantendo l’applicazione dei CCNL di settore, di cui all’art. 51 del D.Lgs. 15.06.2015, n. 81”– non emerge affatto un vincolo assoluto in capo al partecipante alla gara (e futuro aggiudicatario) di dover assorbire necessariamente il personale attualmente impiegato presso l’Amministrazione procedente, essendo un tale impegno da conciliare con le esigenze produttive e la libertà di impresa del concorrente (come emerge pure dall’esame dell’art. 8 del Capitolato d’appalto: all. 2 di In.Va.). Inoltre, l’eventuale assorbimento non risulta essere subordinato al rispetto di specifiche condizioni (se non il rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi per i dipendenti delle imprese del settore, genericamente indicate: cfr. art. 8 del Capitolato).
La cd. clausola sociale, difatti, deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e dell’Unione europea in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti lesiva dei richiamati principi nel senso di scoraggiare la partecipazione alla gara e di limitare eccessivamente la platea dei partecipanti.
Pertanto, siffatta clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
Ne consegue che l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante (Consiglio di Stato, III, 05.05.2017, n. 2078).
Ciò è stato confermato dal Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere n. 2703/2018, del 21.11.2018, reso sulle Linee guida recanti la disciplina delle clausole sociali (Art. 50 del D.Lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal D.Lgs. n. 56 del 2017), che ha precisato che
la prescrizione delle clausole sociali non può che avvenire che nel «rispetto della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost., ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce “la libertà di impresa”, conformemente alle legislazioni nazionali. E’ in base al necessario rispetto di tale principio che secondo costante giurisprudenza di questo Consiglio, per tutte C.d.S. sez. III 27.09.2018 n. 5551 e sez. V 28.08.2017 n. 4079, l’obbligo di riassorbimento del personale imposto dalla clausola in questione deve essere inteso in modo compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante» (Consiglio di Stato, III, 30.01.2019, n. 750).
3.3. Quindi, a fronte della non univocità delle disposizioni riguardanti sia la non ribassabilità del costo del lavoro sia la clausola sociale, non poteva pretendersi una immediata impugnazione del Bando da parte della ricorrente, trattandosi di clausole non univoche o imponenti obblighi chiari e specifici non proporzionati o abnormi (cfr. Consiglio di Stato, III, 08.06.2018, n. 3471; cfr. anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 26.04.2018, n. 4, secondo la quale “il rapporto tra impugnabilità immediata e non impugnabilità immediata del bando è traducibile nel giudizio di relazione esistente tra eccezione e regola”; con riguardo all’illegittimità di un bando contenente una clausola di non ribassabilità del costo del lavoro, TAR Sicilia, Palermo, III, 16.07.2014, n. 1882; più di recente, II, 12.04.2019, n. 1023).
3.4. Da quanto rilevato in precedenza emergono, dunque, sia la tempestività dell’impugnazione dell’esclusione dalla procedura, sia la sua fondatezza, non essendo ammissibile una esclusione automatica per violazione delle tabelle sul costo del lavoro predisposte dalla Stazione appaltante e ricavate dai dati ministeriali (cfr. Consiglio di Stato, III, 08.06.2018, n. 3471).
3.5. Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATAMentre nel passato la giurisprudenza amministrativa e penale aveva sempre ritenuto necessario ai fini della ristrutturazione edilizia la preesistenza di un organismo edilizio costituito dagli elementi essenziali delle mura perimetrali, delle strutture orizzontali e della copertura, la novella del 2013 (art. 30, comma 1, lettera a), del d.l. 69/2013 convertito in legge n. 98/2013 –che ha modificato l’art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001) ha ritenuto sufficiente a tal fine anche solo la possibilità di “accertarne la preesistente consistenza”.
E’ dunque venuta meno la necessità dell’esistenza, all’attualità, dell’organismo edilizio da ristrutturare, essendo sufficiente la mera possibilità di accertarne le dimensioni pregresse ma non è venuta meno la necessità che si tratti pur sempre di edificio comunque venuto ad esistenza, determinando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
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L’appello è infondato.
Con il primo motivo di doglianza la ricorrente censura la sentenza del Tar nella parte in cui ha affermato l'infondatezza nel merito del ricorso “in quanto la disciplina nazionale, regionale e comunale che inquadra la ricostruzione di ruderi nell’ambito della ristrutturazione edilizia fa riferimento ad edifici completamente realizzati e poi caduti in rovina. Si tratta dunque di una fattispecie completamente diversa e non assimilabile al completamento di un edificio concessionato non portato a termine. In quest’ultima ipotesi, come già affermato dalla sentenza n. 1453/2014, trattandosi di completare un’opera che rientra indiscutibilmente nella categoria della nuova costruzione, il titolo edilizio necessario per procedere al completamento dell’intervento è il permesso di costruire e non la scia”.
Ne assume la erroneità nella parte in cui ha qualificato la ricostruzione dei ruderi come fattispecie completamente diversa e non assimilabile al completamento di un edificio concessionato in quanto entrambi riconducibili tra gli interventi suscettibili di ristrutturazione edilizia alla luce della nuova tipizzazione normativa della fattispecie prevista dall'art. 30, comma 1, lettera a), del d.l. 69/2013 convertito in legge n. 98/2013 –che ha modificato l’art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001– che vi ricomprende, tra gli altri, gli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Osserva che la norma applicabile, nella nuova formulazione, comprende nella ristrutturazione edilizia il ripristino mediante ricostruzione di un edificio preesistente o di sue parti, solo eventualmente crollato o demolito (quindi non necessariamente tale) di cui sia possibile dimostrare la consistenza e poiché la finalità avuta di mira dal legislatore sarebbe quella di tutelare il paesaggio deturpato dalla presenza di ruderi abbandonati, non rileverebbe –sempre a dire dell’appellante- che si tratti di rudere di un edificio completato o invece di uno che è rimasto incompleto.
La tesi, pur abilmente prospettata, non è tuttavia persuasiva in quanto si discosta dal tenore letterale della norma in questione, accedendo ad una interpretazione teleologica priva di ancoraggio normativo.
Osserva il collegio che la norma in questione è volta al ripristino di edifici attraverso la loro ricostruzione.
Si tratta di azioni che necessariamente presuppongono la preesistenza dell’edificio, successivamente venuto meno per cause naturali, per vetustà o per iniziativa dell’uomo (demolizione), e che mirano a recuperarne le caratteristiche fisiche e funzionali originarie.
Mentre nel passato la giurisprudenza amministrativa e penale aveva sempre ritenuto necessario ai fini della ristrutturazione edilizia la preesistenza di un organismo edilizio costituito dagli elementi essenziali delle mura perimetrali, delle strutture orizzontali e della copertura (Consiglio di Stato, sez. VI, 05/12/2016, n. 5106; Consiglio di Stato, sez. V, 15/03/2016, n. 1025; Consiglio di Stato, sez. IV, 13/10/2010, n. 7476; Consiglio di Stato, sez. V, 15/04/2004, n. 2142; Consiglio di Stato, sez. V, 01/12/1999, n. 2021; Consiglio di Stato, sez. V, 10/03/1997, n. 240; Consiglio di Stato, sez. IV, 15/09/2006, n. 5375; Cassazione penale, sez. III, 09/07/2018, n. 39340; Cassazione penale, sez. III, 21/10/2008, n. 42521; Cassazione penale, sez. III , 20/02/2001, n. 13982), la novella del 2013 ha ritenuto sufficiente a tal fine anche solo la possibilità di “accertarne la preesistente consistenza”.
E’ dunque venuta meno la necessità dell’esistenza, all’attualità, dell’organismo edilizio da ristrutturare, essendo sufficiente la mera possibilità di accertarne le dimensioni pregresse ma non è venuta meno la necessità che si tratti pur sempre di edificio comunque venuto ad esistenza, determinando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Nulla di tutto questo accade nella diversa ipotesi della costruzione iniziata ma non completata che non realizza la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, implicita invece nella ristrutturazione edilizia, di cui rappresenta il presupposto logico e giuridico.
Ammettere queste tipologie di interventi incompiuti alla ristrutturazione edilizia. equiparandoli ai ruderi, avrebbe una finalità non di ripristino, mediante ricostruzione di una realtà fisica preesistente, bensì di completamento di una realtà fisica mai venuta per l’innanzi ad esistenza.
In tal modo verrebbe snaturata la finalità di recupero insita nella ristrutturazione, annettendovi anche interventi di carattere innovativo dell’esistente.
Il completamento delle opere iniziate e non completate nel termine di efficacia del titolo edilizio trova invece una propria autonoma disciplina nell’art. 15, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 a mente del quale “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”.
Poiché nel caso di specie le opere ancora da eseguire non rientrano tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’articolo 22, implicando la creazione di nuovi rilevanti volumi e non si verte in un’ipotesi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d) [richiamata all’art. 22, comma 1, lett. c)] atteso che l’edificio da ricostruire, in realtà, non è mai venuto ad esistenza, è necessario richiedere un nuovo permesso di costruire a titolo di completamento dell’opera iniziata, in base alla normativa vigente al momento del suo rilascio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.08.2019 n. 5589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto e attuale, che impone di provvedere in via d'urgenza con strumenti "extra ordinem" per porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Nello specifico, si è anche affermato “Il presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente risiede nella necessità di provvedere nell'immediatezza per il pericolo per la pubblica incolumità anche se non imminente, quando sussiste una ragionevole probabilità che possa verificarsi, se non interviene prontamente, avendone constatato il deteriorato stato dei luoghi.
Ciò posto, la risalenza nel tempo della situazione di pericolo non esime dall’adozione del provvedimento extra ordinem ove la stessa perduri e si sia presuntivamente aggravata, non incidendo sulla sussistenza di un pericolo concreto, attuale, irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità.
Ed invero, “Il presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave imminente per l'incolumità pubblica, l'ordine pubblico e l'igiene, a nulla rilevando che la situazione di pericolo sia nota da tempo, posto che il ritardo nell'agire potrebbe addirittura aggravare la situazione”.
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Ora, “La possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto e attuale, che impone di provvedere in via d'urgenza con strumenti "extra ordinem" per porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento” (TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 21.09.2017, n. 1448).
Nello specifico, si è anche affermato “Il presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente risiede nella necessità di provvedere nell'immediatezza per il pericolo per la pubblica incolumità anche se non imminente, quando sussiste una ragionevole probabilità che possa verificarsi, se non interviene prontamente, avendone constatato il deteriorato stato dei luoghi” (TAR Lazio, Roma, sez. II, 17.10.2016, n. 10344).
Ciò posto, la risalenza nel tempo della situazione di pericolo non esime dall’adozione del provvedimento extra ordinem ove la stessa perduri e si sia presuntivamente aggravata, non incidendo sulla sussistenza di un pericolo concreto, attuale, irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità.
Ed invero, “Il presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave imminente per l'incolumità pubblica, l'ordine pubblico e l'igiene, a nulla rilevando che la situazione di pericolo sia nota da tempo, posto che il ritardo nell'agire potrebbe addirittura aggravare la situazione” (TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 04.05.2017, n. 286; TAR Lazio, Roma, sez. II, 07/04/2016, n. 4191) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 06.08.2019 n. 4300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROCantiere domestico ed incidente mortale: la Cassazione salva il mero proprietario dell’immobile e conferma la condanna del datore di lavoro e dell’altro committente che si è interposto nei lavori.
Si segnala la sentenza 31.07.2019 n. 34893 resa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, con la quale la Suprema Corte ha confermato la responsabilità penale del committente dell’opera, che nell’avvalersi di altre imprese per l’esecuzione dei lavori ed interponendosi nelle attività di cantiere, ometteva di fornire le informazioni idonee a scongiurare i rischi connessi a ciascuna attività, così causando l’incidente mortale di un lavoratore per folgorazione.
L’imputazione e il doppio grado di giudizio.
La Corte di appello di Messina confermava la condanna a due anni di reclusione con beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione, degli imputati tratti a giudizio in qualità di datore di lavoro, committente ed elettricista, che nel dare esecuzione ai lavori di ristrutturazione dell’immobile cagionavano a causa di condotte negligenti, imprudenti e imperite e violando le disposizioni previste dalle norme antinfortunistiche, il decesso del lavoratore, che nel riordinare gli attrezzi di lavoro, restava folgorato a seguito di un contatto con una prolunga non a norma, in quanto priva di presa e collegata direttamente alla rete elettrica a bassa tensione dell’immobile.
Il ricorso per cassazione.
Avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte distrettuale di Messina interponevano ricorso per cassazione gli imputati con tre diversi atti, denunciando vizi di legge e di motivazione della sentenza impugnata per la cui cognizione di rimanda alla lettura della sentenza in commento.
Il giudizio di legittimità e il principio di diritto.
Il Supremo Collegio ha ritenuto fondato il ricorso limitatamente alle censure elevate dal proprietario dell’immobile non committente, annullando la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Reggio Calabria.
In punto di diritto si riportano i passaggi della motivazione che affrontano il tema degli obblighi connessi a ciascuno delle posizioni di garanzia coinvolte nella vicenda in esame:
   1. Sugli obblighi che gravano in ordine alla posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro:
“La prima censura è infondata. Invero, il ricorrente non si confronta affatto con la completa e logica motivazione del giudice di appello, il quale non si è limitato a rinviare alle argomentazioni del giudice di primo grado, ma ha osservato che omissis, in qualità di datore di lavoro del figlio “avrebbe dovuto preventivamente sincerarsi della sicurezza dei luoghi” e conseguentemente, una volta contestate le condizioni di insicurezza del cantiere, anche in considerazione dell’intervento di ulteriori imprese, “avrebbe dovuto provvedere ad evitare che il giovane omissis procedesse nell’esecuzione dei lavori o permanesse ulteriormente su luoghi, data la condizione di pericolo”. Nella sentenza si è anche precisato che “l’obbligo di vigilanza necessita di un progressivo e costante aggiornamento”, sicché è irrilevante che, al momento dell’eventuale valutazione dei rischi, le condizioni del cantiere fossero diverse.
Del resto, come ha chiarito Sez. 3, n. 4063 del 04/10/2007 ud- dep. 28/01/2008, Rv. 238539 – in tema di prevenzione infortuni sul lavoro, integra la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di elaborare un documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro non soltanto l’omessa redazione del documento iniziale, ma anche il suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento od adeguamento, mentre i giudici di merito hanno accertato che omissis non ha adempiuto tale suo obbligo né all’inizio né nel corso dell’esecuzione dei lavori, inadempimento di sicura rilevanza causale, in quanto la corretta valutazione del rischio elettrico esistente avrebbe comportato la predisposizione di maggiori cautele e impedito l’evento, che, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, costituisce proprio la concretizzazione del rischio che la norma violata mira a neutralizzare.”

  
2. In ordine alla responsabilità penale per l’incidente occorso sul cantiere ascrivibile al mero proprietario in qualità di committente formale:
“Per quanto riguarda, invece, omissis, proprietaria dell’immobile oggetto dei lavori la Corte di appello ha desunto il suo ruolo di committente “formale” dal verbale di contravvenzione indirizzato dall’Ispettorato del lavoro ad entrambi i coniugi in qualità di committenti, pur precisando che solo omissis si era occupato dei contatti e dei rapporti con i professionisti e con le imprese.
La motivazione in ordine alla posizione di garanzia della ricorrente risulta, dunque, contraddittoria e manifestamente illogica, in quanto supera l’indizio contrario indicato con l’indicazione di un dato del tutto neutro e senza evidenziare alcun significativo elemento probatorio, quale, ad esempio, la gestione delle pratiche amministrative o il pagamento dei professionisti o imprenditori, che, unitamente dal dato formale della proprietà ed ai rapporti di affinità con l’altro committente, potesse dimostrare l’assunzione effettiva e sostanziale del ruolo di committente unitamente a omissis.
La sentenza deve essere annullata nei confronti omissis, in accoglimento esclusivamente del motivo riferito al vizio motivazionale relativo al suo asserito ruolo di committente, con rinvio per nuovo giudizio sul punto.
Va difatti ribadito, come recentemente chiarito Sez. 4 n. 10039 del 13/11/2018- dep. 07/03/2019, che gli obblighi di sicurezza previsti dagli artt. 26 e 90 del d.lgs. n. 81 del 2008 gravano esclusivamente sul committente, da intendersi come colui che ha stipulato il contratto d’opera o di appalto, anche se non proprietario del bene che si avvantaggia delle opere affidate, mentre nessuna responsabilità è configurabile a carico del proprietario non committente che non si sia ingerito nell’esecuzione delle opere, pur in assenza di una delega di funzioni.”

  
3. Sugli obblighi che gravano in ordine alla posizione di garanzia assunta dal committente dell’opera:
“Relativamente alla responsabilità di omissis, il giudice di appello ha affermato che “a prescindere da qualsiasi obbligo di redazione del piano operativo di sicurezza o di valutazione del rischio elettrico… e dal fatto che la proprietà della prolunga che ha portato al decesso dell’omissis possa essere ad egli attribuita”, il comportamento tenuto dall’ omissis, “il quale è intervenuto sul quadro elettrico senza predisporre le dovute cautele e senza rendere noti in forma scritta i pericoli ivi presenti e le precauzioni da adottare, data la compresenza sui luoghi di lavoro di diversi soggetti ed operanti”, ha costituito “ragionevolmente” uno degli antecedenti causali da cui è discesa la morte del giovane”.
Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, vi è, dunque, una motivazione esaustiva e non manifestamente illogica sulla propria responsabilità, coerente, peraltro, con l’art. 95 lett. g e h, del d.lgs. n. 81 del 2008, che, anche nella formulazione anteriore alla novella, stabiliva: “i datori di lavoro delle imprese esecutrici, durante l’esecuzione dell’opera osservano le misure generali di tutela di cui all’art 15 e curano, ciascuno per la parte di competenza… g) la cooperazione tra datori di lavoro e lavoratori autonomi; h) le interazioni con le attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere”.
Proprio dagli obblighi di curare la reciproca cooperazione e interazione con gli altri soggetti presenti sul cantiere, obblighi che gravano su ciascuna impresa esecutrice, deriva l’obbligo di fornire adeguate informazioni circa i rischi connessi alla propria attività, dal cui inadempimento la Corte di appello ha fatto discendere la responsabilità di omissis.
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 31.07.2019 n. 34893 - commento tratto da e link a https://studiolegaleramelli.it).

APPALTIRatio e presupposti dell’interdittiva antimafia.
Il TAR Milano, con riferimento alla ratio e ai presupposti dell’interdittiva antimafia, richiama l’orientamento della giurisprudenza amministrativa e precisa che:
   ● l’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d.l.vo n. 159/2011, presuppone “concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”;
   ● per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, si tratta di una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore -pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione- meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti “affidabile”) e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge;
   ● il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al d.l.vo. n. 159 del 2011 -come già avevano disposto l'art. 4 del d.l.vo 08.08.1994, n. 490, e il d.p.r. 03.06.1998, n. 252- ha tipizzato un istituto mediante il quale si constata un’obiettiva ragione di insussistenza della perdurante “fiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell'imprenditore” che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d'appalto, ai sensi dell'art. 1674 c.c.), ovvero comunque deve sussistere affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti;
   ● l’interdittiva prefettizia antimafia integra, secondo una logica di anticipazione della soglia di difesa dell’ordine pubblico economico e degli altri interessi pubblici primari già ricordati, una misura preventiva, volta a colpire l’azione della criminalità organizzata, impedendole di avere rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione, cosicché, proprio per il suo carattere preventivo, essa prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la Pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia e analizzati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente, la cui valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
   ● tanto in sede amministrativa, quanto in sede giurisdizionale, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione “parcellizzata” di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri;
   ● con riferimento alla consistenza del quadro indiziario rilevante dell’infiltrazione mafiosa, esso deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del “più probabile che non”, il giudice amministrativo, chiamato a verificare l'effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona;
   ● resta estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né -tanto meno- occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il “concorso esterno” o la commissione di reati aggravati ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell'informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante;
   ● occorre valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più “probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso;
   ● ne consegue che gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 30.07.2019 n. 1782 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
2.1) Con riferimento alla ratio e ai presupposti dell’interdittiva antimafia, la giurisprudenza amministrativa (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. III, 30.01.2019, n. 758 Consiglio di Stato, sez. III, 13.11.2017, n. 5214; Consiglio di Stato, sez. III, 23.10.2017, n. 4880; Consiglio di Stato, sez. III, 20.07.2016, n. 3299; Consiglio di Stato, sez. III, 03.05.2016, n. 1743; Consiglio di Stato, sez. III, 31.08.2016, n. 3754; Tar Campania Napoli, sez. I, 06.02.2017, n. 731; Tar Lombardia Milano, sez. IV, 06.10.2017, n. 1908; Tar Campania Napoli, sez. I, 07.11.2016, n. 5118) precisa che:
   - l’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d.l.vo n. 159/2011, presuppone “concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”;
   - per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, va premesso che si tratta di una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore -pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione- meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti “affidabile”) e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge;
    - il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al d.l.vo. n. 159 del 2011 - come già avevano disposto l'art. 4 del d.l.vo 08.08.1994, n. 490, e il d.p.r. 03.06.1998, n. 252 - ha tipizzato un istituto mediante il quale si constata un’obiettiva ragione di insussistenza della perdurante “fiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell'imprenditore”, che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d'appalto, ai sensi dell'art. 1674 c.c.), ovvero comunque deve sussistere affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti;
   - insomma, l’interdittiva prefettizia antimafia integra, secondo una logica di anticipazione della soglia di difesa dell’ordine pubblico economico e degli altri interessi pubblici primari già ricordati, una misura preventiva, volta a colpire l’azione della criminalità organizzata, impedendole di avere rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione, cosicché, proprio per il suo carattere preventivo, essa prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la Pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia e analizzati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente, la cui valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità (cfr. in argomento, Tar Lombardia Milano, sez. III, 29.04.2009, n. 3593; TAR Campania Napoli, sez. I, 06.04.2011, n. 1966; Consiglio di Stato, sez. III, 30.01.2015, n. 455), che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;
   - tanto in sede amministrativa, quanto in sede giurisdizionale, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione “parcellizzata” di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. IV, 10.01.2017, n. 39, che richiama sul punto, fra le tante, Consiglio di Stato, sez. III, 15.09.2016, n. 3889);
   - con riferimento alla consistenza del quadro indiziario rilevante dell’infiltrazione mafiosa, la giurisprudenza precisa che esso deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del “più probabile che non” (già Consiglio di Stato, sez. III, 07.10.2015, n. 4657; Cassazione civile, sez. III, 18.07.2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l'effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona;
   - resta estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né -tanto meno- occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il “concorso esterno” o la commissione di reati aggravati ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell'informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante;
   - occorre valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più “probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso;
   - ne consegue che gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.

EDILIZIA PRIVATAVa riconosciuta la giurisdizione del G.A. essendo consolidata la giurisprudenza nell’affermare che la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16, l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza.
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Il ricorso è infondato e va dunque respinto per le seguenti motivazioni.
Va innanzitutto riconosciuta la giurisdizione dell’adito Tribunale, essendo consolidata la giurisprudenza nell’affermare che la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16, l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza (in tal senso Cons. St. 30.08.2018 n. 12) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 30.07.2019 n. 898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La legge n. 122/1989, nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall'art. 41, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico.
Tanto premesso va condivisa la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11 comma 1 della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il "tetto" di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al D.M. di riferimento.
Pertanto, il pagamento di tale contributo va commisurato, come correttamente operato dagli uffici comunali, alle superfici a parcheggio realizzate in eccedenza rispetto allo standard minimo di legge.
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Relativamente alla questione principale, ovvero i parcheggi pertinenziali eccedenti il minimo di legge, parte ricorrente sostiene di aver soddisfatto una richiesta dell’amministrazione comunale, che d’altro canto ha rispettato le disposizioni di legge alla luce del progetto proposto dalla stessa ricorrente.
In punto di diritto, relativamente alla questione principale va richiamato l’orientamento secondo cui la legge n. 122/1989, nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall'art. 41, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico.
Tanto premesso va condivisa la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11 comma 1 della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il "tetto" di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al D.M. di riferimento (cfr. Cons. St. sez. IV. n. 6033/2012).
Pertanto, il pagamento di tale contributo va commisurato, come correttamente operato dagli uffici comunali, alle superfici a parcheggio realizzate in eccedenza rispetto allo standard minimo di legge.
Ne consegue l’infondatezza delle censure sviluppate in ricorso che di conseguenza va respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 30.07.2019 n. 898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Sulla revoca dell’incarico di revisore dei conti poiché questi ha espresso un parere non in linea con le aspettative dell’Amministrazione.
In ambito amministrativo, con l’eccezione di alcuni incarichi pubblici espressamente individuati dalla legge, non rileva la fiducia soggettiva tra le persone. La fiducia è invece intesa in senso oggettivo, come coerenza tra la funzione rivestita e le azioni poste in essere sulla base della funzione.
Di conseguenza, l’amministrazione può dichiarare di non avere più fiducia nel revisore dei conti solo se quest’ultimo non adempie gli obblighi della propria funzione, perché è evidentemente impossibile continuare una collaborazione se una delle parti non interpreta lealmente il proprio ruolo. In questi termini deve essere letto il riferimento all’inadempienza contenuto nell’art. 235, comma 2, del Dlgs. 267/2000.
È vero che tra gli obblighi del revisore dei conti vi è anche quello di fornire consulenza agli uffici per risolvere i problemi contabili e sottoporre all’approvazione del consiglio comunale uno schema di bilancio veritiero e affidabile. Non può tuttavia essere chiesto al revisore dei conti di concorrere, con un parere favorevole o condizionato, a procrastinare una situazione di squilibrio finanziario che richiede le misure straordinarie ex art. 243-bis del Dlgs. 267/2000.
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Sui presupposti della revoca
18. Passando al merito, si osserva che le difficoltà economiche di Br.Su.Sk. srl e il successivo fallimento hanno condotto il Comune di Valleve, creditore nei confronti della partecipata, a una situazione di squilibrio finanziario. La Corte di Conti Lombardia, intervenuta su segnalazione della ricorrente, ha vigilato sulla procedura di riequilibrio, che ha condotto all’approvazione dell’apposito piano pluriennale ai sensi dell’art. 243-bis del Dlgs. 267/2000.
19. La ricorrente, basandosi sulla relazione del predecessore per il rendiconto 2015, ha intuito tempestivamente che gli ingenti crediti del Comune nei confronti di Br.Su.Sk. srl si stavano deteriorando rapidamente in parallelo con il peggioramento dei conti della società partecipata. Di qui l’avvertimento circa la necessità di classificare i suddetti crediti tra quelli di dubbia esigibilità, cancellando i corrispondenti residui attivi dal bilancio comunale.
L’analisi era corretta, come hanno dimostrato ampiamente gli avvenimenti successivi, e parimenti corretta era la proposta di far emergere il disavanzo di amministrazione già nel rendiconto 2016. Quando è chiaro che il bilancio comunale è su una traiettoria di dissesto, l’opera di risanamento e di rigore finanziario deve essere avviata immediatamente, per impedire che la situazione si aggravi. Le ipotesi di spesa inserite nella proposta di bilancio di previsione 2017-2019 erano evidentemente disancorate dalla sottostante realtà finanziaria del Comune.
20. Poiché Br.Su.Sk. srl era una partecipata del Comune, gli amministratori comunali erano perfettamente a conoscenza delle sue difficoltà economiche. Non era affatto necessario aspettare il fallimento per avere maggiori elementi di valutazione. Tanto meno era giustificata la scelta di qualificare il fallimento (dichiarato il 23.02.2017, ossia prima dell’approvazione del bilancio di previsione dell’esercizio in corso) come un evento di cui prendere atto a posteriori nel consuntivo 2017.
21. Su questo punto non vi era alcuna possibilità di collaborazione tra la ricorrente e il Comune. Era infatti chiara l’intenzione del sindaco, espressa nella nota del 26.04.2017, di rinviare il riequilibrio finanziario al 2018, dopo l’approvazione del consuntivo 2017. È vero che la posizione del sindaco era più articolata, in quanto faceva riferimento anche all’utilizzo dei proventi delle alienazioni degli immobili comunali come fondo provvisorio di garanzia dei crediti deteriorati, ma la differenza di impostazioni tra l’avvio immediato e quello differito della procedura di risanamento rimaneva incolmabile.
22. Nell’atteggiamento della ricorrente non è quindi ravvisabile alcun inadempimento ai propri doveri, ma solo l’espressione di un parere non in linea con le aspettative dell’amministrazione. Nello specifico, come si è visto sopra, si trattava di un parere professionalmente corretto, in quanto finalizzato ad anticipare l’avvio della procedura di riequilibrio finanziario.
23. Manca dunque il presupposto che possa giustificare la revoca dell’incarico per cessazione del rapporto di fiducia. In ambito amministrativo, con l’eccezione di alcuni incarichi pubblici espressamente individuati dalla legge, non rileva la fiducia soggettiva tra le persone. La fiducia è invece intesa in senso oggettivo, come coerenza tra la funzione rivestita e le azioni poste in essere sulla base della funzione.
Di conseguenza, l’amministrazione può dichiarare di non avere più fiducia nel revisore dei conti solo se quest’ultimo non adempie gli obblighi della propria funzione, perché è evidentemente impossibile continuare una collaborazione se una delle parti non interpreta lealmente il proprio ruolo. In questi termini deve essere letto il riferimento all’inadempienza contenuto nell’art. 235, comma 2, del Dlgs. 267/2000.
24. È vero che tra gli obblighi del revisore dei conti vi è anche quello di fornire consulenza agli uffici per risolvere i problemi contabili e sottoporre all’approvazione del consiglio comunale uno schema di bilancio veritiero e affidabile. Non può tuttavia essere chiesto al revisore dei conti di concorrere, con un parere favorevole o condizionato, a procrastinare una situazione di squilibrio finanziario che richiede le misure straordinarie ex art. 243-bis del Dlgs. 267/2000 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 30.07.2019 n. 716 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO DEL MARE – Inquinamento da plastica - Contenitori in plastica monouso – Divieto di utilizzo sulle aree demaniali marittime pugliesi – Direttiva Ue 2019/904 – Termine di recepimento – Misure spettanti allo Stato – Natura self executing della direttiva – Esclusione.
Il termine per il recepimento della direttiva (UE) 2019/904 del Parlamento europeo e del Consiglio del 05.06.2019 (GUUE del 12.06.2019) è fissato al 03.07.2021; tale direttiva necessita di misure di recepimento spettanti allo Stato (ex articolo 117, comma secondo, lettera s), anche perché incidente sulla “tutela della concorrenza” (di cui alla successiva lettera e) della norma costituzionale), nella parte in cui la disciplina europea importa restrizioni al mercato dei prodotti di plastica monouso (articolo 5 e allegato, parte B).
Nella situazione attuale, si è quindi in attesa di misure di attuazione della direttiva – le quali oltretutto impongono una serie complessa di scelte di politica ambientale e di carattere tecnico (in parte affidate alla stessa Unione europea; ad esempio, non sembra neppure completamente delineata la stessa definizione di “prodotto di plastica monouso).
Rebus sic stantibus, non sembra esserci spazio perché la regione (a livello legislativo piuttosto che direttamente nell'esercizio delle funzioni amministrative) sfrutti “la possibilità che leggi regionali, emanate nell'esercizio della potestà concorrente di cui all'art. 117, terzo comma, della Costituzione, o di quella "residuale" di cui all'art. 117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale
(cfr. sentenze n. 407 del 2002 e n. 222 del 2003)” (sentenza n. 307 del 2003, p. 5), nell’ambito di una materia qualificata come “trasversale” (Corte cost., n. 77 del 2017, n. 83 del 2016, n. 109 del 2011, n. 341 del 2010, n. 232 del 2009 e n. 407 del 2002); ciò principalmente perché l’intervento regionale non può “compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato” (sentenza n. 300 del 2013), tanto meno in uno stadio in cui tale punto di equilibrio non è stato ancora trovato; non può peraltro predicarsi alcun effetto diretto della direttiva sia perché non possiede le caratteristiche per ritenerla self-executing sia perché tale effetto consegue solitamente all’inadempienza dello Stato membro.
Non è, in conclusione, rintracciabile la norma (statale o regionale) su cui si fonda il divieto di utilizzare sulle aree demaniali marittime pugliesi, contenitori per alimenti, piatti, bicchieri, posate, cannucce, mescolatori per bevande monouso non realizzati in materiale compostabile
(TAR Puglia-Bari, Sezz. unite, ordinanza 30.07.2019 n. 315 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti aventi natura di “atto vincolato” (come l’ingiunzione di demolizione), non devono essere in ogni caso preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della l. n. 241/ 1990, non essendo prevista la possibilità per l’amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
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5. Deve pertanto ritenersi infondato anche il settimo motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di adozione dell’ingiunzione di demolizione impugnata, sulla scorta della giurisprudenza di questo Consiglio, dalla quale il Collegio non intende discostarsi, per la quale i provvedimenti aventi natura di “atto vincolato” (come l’ingiunzione di demolizione), non devono essere in ogni caso preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della l. n. 241/ 1990, non essendo prevista la possibilità per l’amministrazione di effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene (Cons. Stato, sez. VI, 25.02.2019, n. 1281).
Nella fattispecie, l’impugnata ingiunzione di demolizione conseguiva all’accertamento di un’abusiva alterazione della naturale quota di campagna, in disparte l’accertamento del soggetto che ne fosse stato responsabile, e pertanto essa costituiva un atto dovuto, non necessitante il previo avviso di inizio del procedimento.
Nella specie, poiché la volumetria complessivamente realizzabile era indicata negli atti della lottizzazione e nell’atto di compravendita, gli appellanti dovevano essere ragionevolmente a conoscenza del presupposto di fatto dell’ingiunzione di demolizione, cioè l’abusiva alterazione della quota naturale del terreno, rientrando nella propria sfera di controllo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sentenza n. 2681 del 05.06.2017; Sez. V, sentenza n. 2194 del 28.04.2014) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 29.07.2019 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Abuso realizzato su parti comuni di un edificio.
Le parti comuni dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini; a tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.07.2019 n. 1764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato da questa Sezione, l’art. 1117 cod. civ. stabilisce che le parti comuni dell’edificio sono oggetto di proprietà comune dei condomini, con la conseguenza che il Codominio non vanta alcun diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza, difatti, il Condominio è un mero ente di gestione, privo di personalità giuridica (cfr. Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288; 06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n. 10679; TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302). Siffatto principio è stato peraltro confermato anche dopo le modifiche introdotte nel codice civile dalla legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici), poiché quest’ultima, pur avendo attribuito un attenuato grado di soggettività al condominio, non lo ha comunque fatto assurgere al rango di ente dotato di vera e propria personalità giudica (Cass. civ., SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti comuni dell’edificio non sono di proprietà dell’ente condominio, ma dei singoli condomini.
A tanto consegue che la misura volta a colpire l’abuso realizzato sulle parti comuni deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini, in quanto unici (com)proprietari delle stesse (TAR Lombardia, Milano, II, 05.12.2016, n. 2302).
L’ordine rivolto al Condominio risulta quindi illegittimo, in ragione del difetto di legittimazione passiva dello stesso con riguardo alla repressione degli abusi edilizi.

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Il Comune non risarcisce i danni all'immobile abusivo.
Il Comune non è tenuto a risarcire i danni provocati dalla cattiva manutenzione delle strade a immobili costruiti abusivamente. Il difetto di concessione edilizia del bene danneggiato, infatti, «viene ad affievolire, se non ad azzerare, il diritto del proprietario del bene ad essere risarcito» del danno sofferto.
Il diritto soggettivo ad essere risarcito del danno provocato da fatto illecito altrui non può infatti comportare un arricchimento ingiustificato per chi, costruendo un immobile in assenza di ius aedificandi o di autorizzazione amministrativa, è onerato piuttosto -e in via permanente- di non aggravare le responsabilità della Pubblica Amministrazione nei confronti dei terzi che entrino in contatto con la cosa in sua custodia.
Il difetto di concessione edilizia del bene danneggiato, difatti, viene ad affievolire, se non ad azzerare, il diritto del proprietario del bene ad essere risarcito per equivalente del danno sofferto, poiché la costruzione abusiva in tal caso non esaurisce la sua rilevanza nell'ambito del rapporto pubblicistico tra l'amministrazione ed il privato che ha realizzato la costruzione, ma viene inevitabilmente a incidere sulla risarcibilità del relativo danno, qualora l'abuso risulti avere aggravato la posizione di garanzia assegnata alla Pubblica Amministrazione nella custodia dei propri beni
(cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20849 del 2013, per la quale
«in tema di rapporti di vicinato, l'originaria abusività di un immobile per difformità dalla concessione, oggetto di successiva sanatoria, non osta al risarcimento del danno allo stesso cagionato da una illecita costruzione su terreno confinante, atteso che l'immobile sanato, non essendo più incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di valore commerciale»).
1.11.
Nel caso concreto, pertanto, deve non solo tenersi conto del fatto che l'abuso edilizio commesso dal privato ha consentito -in diversa misura- la costruzione, in prossimità alla strada comunale, di vani ad uso abitativo in spregio delle regole tecniche e dell'arte e delle norme edilizie, ma anche che esso ha aggravato pesantemente la posizione di garanzia cui è tenuta la pubblica amministrazione.
Pertanto, tale fatto è in grado di recidere, ex art. 1227, comma 1, cod. civ., in concreto, il nesso causale tra il bene in custodia della Pubblica Amministrazione e il danno subito dal privato possessore del bene abusivamente costruito, azzerando lo spettro di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. della pubblica amministrazione.
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1.2. Il motivo è fondato.
1.3. La Corte di merito, riportandosi all'ampia motivazione del giudice di prime cure e alla CTU acquisita nel giudizio di primo grado, ha affermato che la responsabilità del Comune per omessa custodia ex art. 2051 cod. civ. rinvenibile in una condotta negligente nella manutenzione dei condotti fognari della strada, specificando che l'abuso edilizio del privato non ha inciso su tutto l'immobile del proprietario ma solo sull'ampliamento privo del permesso a costruire, dando rilievo non solo agli obblighi di custodia ex art. 2051 cod. civ. che comportano una responsabilità oggettiva, ma anche al principio del neminem laedere che impone alla P.A. l'obbligo di adottare, nella costruzione e nella manutenzione delle pubbliche vie, gli accorgimenti e I ripari necessari per evitare un deflusso anomalo nei fondi privati confinanti, così da impedire di arrecare un danno ingiusto.
Conseguentemente la Corte d'appello, alla luce delle risultanze della CTU che ha accertato la presenza di falle nei condotti fognari e dei tombini della pubblica via per il deflusso delle acque, nonché di vizi costruttivi degli immobili danneggiati, in base all'art. 1227 cod. civ. che impone al giudice di merito di accertare l'eventuale incidenza causale della condotta colposa e negligente del danneggiato nella produzione del fatto dannoso, ha considerato, quanto a un'unità immobiliare, prevalente la responsabilità del privato che aveva costruito senza licenza e non a regola d'arte un vano sotto l'arco strutturale della strada e, quanto all'altra unità immobiliare, prevalente la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del Comune per la parte costruita dal privato in adiacenza alla sede viaria, investita dall'onda di fango e acqua, ripartendo la responsabilità tra danneggiante e danneggiato in diversa misura, sì da imputare al Comune il 34% della quota di responsabilità nella prima ipotesi e il 66% nella seconda ipotesi.
1.4.
Il precedente richiamato dalla Corte territoriale nell'affermare la responsabilità del Comune, reso da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2566 del 06/02/2007, sancisce la responsabilità della pubblica amministrazione per omessa manutenzione delle strade e riguarda il rapporto tra il Comune ed i suoi abitanti verso i quali l'Amministrazione è, comunque, tenuta all'osservanza del principio del "neminem laedere", che di per sé implica l'obbligo di adottare, nella costruzione delle strade pubbliche, gli accorgimenti e i ripari necessari per evitare che, dalla strada, le acque che nella medesima si raccolgono o che sulla stessa sono convogliate, legalmente o illegalmente, senza opposizione del Comune proprietario, possano defluire in modo anomalo nei fondi confinanti, così impedendo di arrecare loro un danno ingiusto (Cfr. anche Sez. 3, Sentenza n. 3631 del 28/04/1997; Sez. U., Sentenza n. 2693 del 13/07/1976, in tema di ripartizione di  giurisdizione a proposito di danni patiti dai singoli a causa di fatti illeciti imputabili alla P.A.).
Sicché in tema di danno cagionato ex art. 2051 c.c. da beni demaniali, grava sulla P.A. custode l'onere di provare la sussistenza di una situazione la quale imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l'intervento riparatore dell'ente custode (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 6326 del 05/03/2019; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 6703 del 19/03/2018).
1.5. Il ragionamento effettuato dalla Corte di merito non è tuttavia sufficiente a regolare il caso in esame.
La pretesa risarcitoria riguarda invero il danneggiamento di un bene immobile, il cui risarcimento va commisurato in riferimento all'impatto che ha avuto, nella causazione del danno, la condotta colposa del danneggiato, ex art. 1227, co. 1, cod. civ.: in proposito, la Corte di merito ha ritenuto di considerarlo solamente in proporzione ai vizi costruttivi rilevati negli immobili danneggiati. Un'ulteriore questione, non adeguatamente considerata dalla Corte di merito, si pone però ove il bene di cui si chiede il risarcimento presenti non solo vizi costruttivi, ma anche una situazione di insanabile irregolarità edificatoria che venga a interferire sul diritto a ottenere il ripristino dello stato dei luoghi o il risarcimento per equivalente.
1.6.
In generale, quando l'evento dannoso si ricollega a più azioni od omissioni, il problema della concorrenza di una pluralità di cause trova la sua soluzione nella disciplina di cui all'art. 41, cod. pen., in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione o dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette case e l'evento, essendo quest'ultimo riconducibile a ciascuna di esse, a meno che non sia raggiunta la prova dell'esclusiva efficienza causale di una sola, pur se imputabile alla stessa vittima dell'illecito, da ritenersi idonea ad impedire l'evento od a ridurne le conseguenze (cfr. da ultimo Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 3779 del 08/02/2019).
L'accertamento dei presupposti per l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1227 cod. civ. in rapporto all'art. 2051 cod. civ., implicante un'analisi del nesso di causalità tra fatto ed evento, richiede quindi un'indagine sul piano della valutazione delle singole condotte colpose e della loro concreta incidenza sul piano causale (cfr. Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27724 del 30/10/2018; Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12027 del 16/05/2017; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 30775 del 22/12/2017; Cass. n. 20619/2014 ; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2563 del 06/02/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5511 del 08/04/2003).
Una siffatta valutazione attiene al piano della discrezionalità assegnata al giudice del merito e, pertanto, al giudice di legittimità spetta il compito di verificare se essa sia stata fatta, con argomenti logici e congruenti, in adesione alla fattispecie da esaminare.
1.7. Ebbene,
la sussistenza di una irregolarità costruttiva, sotto il profilo di un'insanabile mancanza di ius aedificandi, è certamente in grado di determinare l'effetto di esclusiva efficienza causale sul piano degli eventi causativi del danno da risarcire, stante la natura "conformativa" dei vincoli di edificabilità apposti sul diritto di proprietà, ex art. 42, 1° co., Cost. -i quali, pur comprimendo il diritto di proprietà, non possono essere definitivi propriamente come vincoli aventi natura espropriativa, e dunque non sono di per sé indennizzabili in quanto tali- (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 07.04.2010, n. 1982).
Pertanto, la presenza di tale elemento di interferenza sul piano causale deve essere adeguatamente considerata dal giudice di merito.
1.8.
Se e' vero, infatti, che il riconoscimento della natura oggettiva del criterio di imputazione della responsabilità custodiale si fonda sul dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa custodita, in funzione di prevenzione dei danni che da essa possono derivare, è altrettanto vero che l'imposizione di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde a un principio di solidarietà (ex articolo 2 Cost.), che comporta la necessità di adottare condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27724 del 30/10/2018).
1.9. In precedenti riferiti allo specifico tema della espropriazione per pubblica utilità è rinvenibile un simile ragionamento, e precisamente ove si è sancita la insussistenza del diritto di indennizzo da esproprio per opere abusivamente costruite, a meno che alla data dell'evento ablativo non risulti già rilasciata la concessione in sanatoria (cfr. Cass. 11390/2016; Cass. n. 26260/2007).
In tali casi, ove il rapporto tra privato e Pubblica Amministrazione ha rilievo pubblicistico e riguarda il valore intrinseco del bene ablato, nella liquidazione dell'indennizzo non si applica il criterio del valore venale complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si valuta la sola area, sì da evitare che l'abusività degli insediamenti possa concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo.
La stessa regola vale anche per le ipotesi di espropriazione cosiddetta "larvata" previste dall'art. 46 della legge n. 2359 del 1865, e ciò pure se il danno lamentato consista proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa sia urbanistica, che espropriativa (art. 16, comma 9, legge n. 865 del 1971), quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla sua attività illecita (frustra petis quod mox restiturus es).
1.10. La ratio sottesa è inoppugnabile.
Il diritto soggettivo ad essere risarcito del danno provocato da fatto illecito altrui non può infatti comportare un arricchimento ingiustificato per chi, costruendo un immobile in assenza di ius aedificandi o di autorizzazione amministrativa, è onerato piuttosto -e in via permanente- di non aggravare le responsabilità della Pubblica Amministrazione nei confronti dei terzi che entrino in contatto con la cosa in sua custodia.
Il difetto di concessione edilizia del bene danneggiato, difatti, viene ad affievolire, se non ad azzerare, il diritto del proprietario del bene ad essere risarcito per equivalente del danno sofferto, poiché la costruzione abusiva in tal caso non esaurisce la sua rilevanza nell'ambito del rapporto pubblicistico tra l'amministrazione ed il privato che ha realizzato la costruzione, ma viene inevitabilmente a incidere sulla risarcibilità del relativo danno, qualora l'abuso risulti avere aggravato la posizione di garanzia assegnata alla Pubblica Amministrazione nella custodia dei propri beni
(cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20849 del 2013, per la quale
«in tema di rapporti di vicinato, l'originaria abusività di un immobile per difformità dalla concessione, oggetto di successiva sanatoria, non osta al risarcimento del danno allo stesso cagionato da una illecita costruzione su terreno confinante, atteso che l'immobile sanato, non essendo più incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di valore commerciale»).
1.11.
Nel caso concreto, pertanto, deve non solo tenersi conto del fatto che l'abuso edilizio commesso dal privato ha consentito -in diversa misura- la costruzione, in prossimità alla strada comunale, di vani ad uso abitativo in spregio delle regole tecniche e dell'arte e delle norme edilizie, ma anche che esso ha aggravato pesantemente la posizione di garanzia cui è tenuta la pubblica amministrazione.
Pertanto, tale fatto è in grado di recidere, ex art. 1227, comma 1, cod. civ., in concreto, il nesso causale tra il bene in custodia della Pubblica Amministrazione e il danno subito dal privato possessore del bene abusivamente costruito, azzerando lo spettro di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. della pubblica amministrazione
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, ordinanza 26.07.2019 n. 20312).

APPALTI SERVIZILo scrutinio della correttezza e legittimità della verifica della congruità dell’offerta non può che essere effettuato sulla esclusiva scorta dei principi generali in materia elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui:
   - nelle gare pubbliche il giudizio circa l’anomalia o l’incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale e, quindi, non può essere esteso ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci;
   - il procedimento di verifica dell’anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto, e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo;
   - la valutazione di congruità di una offerta deve essere globale e sintetica, in quanto “ciò che interessa al fine dello svolgimento del giudizio successivo alla valutazione dell’anomalia dell’offerta è rappresentato dall’accertamento della serietà dell’offerta desumibile dalle giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua complessiva attendibilità”, con la conseguenza che “l’esclusione dalla gara necessita la prova dell’inattendibilità complessiva dell’offerta sicché eventuali inesattezze su singole voci devono ritenersi irrilevanti: ciò che conta è l’attendibilità dell’offerta e la sua idoneità a fondare un serio affidamento per la corretta esecuzione dell’appalto";
   - al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico.
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La giurisprudenza ammette la possibilità di produrre in sede di verifica dell’anomalia preventivi dell’impresa fornitrice con valore probante delle condizioni particolarmente vantaggiose spuntate dal concorrente di una gara pubblica.
Alle stesse conclusioni si perviene anche tenendo conto della più rigorosa giurisprudenza di cui alla sentenza 25.07.2018, n. 4537 della Sezione, che, dando atto dell’ammissibilità, in linea di massima, delle giustificazioni fondate sui ribassi risultanti da preventivi dei subappaltatori, esige che essi siano corredati a loro volta da giustificazioni.
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Ciò precisato deve evidenziarsi che lo scrutinio della correttezza e legittimità della nuova verifica della congruità dell’offerta dell’aggiudicataria (nei sensi e nei limiti sopra indicati) non può che essere effettuato sulla esclusiva scorta dei principi generali in materia elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui:
   - nelle gare pubbliche il giudizio circa l’anomalia o l’incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale e, quindi, non può essere esteso ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci (Cons. Stato, III, 06.02.2017, n. 514; V, 17.11.2016, n. 4755);
   - il procedimento di verifica dell’anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto, e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo (Cons. Stato, III, 29.01.2019, n. 726; V, 23.01.2018, n. 430; 30.10.2017, n. 4978);
   - la valutazione di congruità di una offerta deve essere globale e sintetica, in quanto “ciò che interessa al fine dello svolgimento del giudizio successivo alla valutazione dell’anomalia dell’offerta è rappresentato dall’accertamento della serietà dell’offerta desumibile dalle giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua complessiva attendibilità”, con la conseguenza che “l’esclusione dalla gara necessita la prova dell’inattendibilità complessiva dell’offerta (Cons. Stato A.P., 29.11.2012, n. 36; Sez. V, 26.09.2013, n. 4761; 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148) sicché eventuali inesattezze su singole voci devono ritenersi irrilevanti: ciò che conta è l’attendibilità dell’offerta e la sua idoneità a fondare un serio affidamento per la corretta esecuzione dell’appalto" (Cons. Stato, V, 18.12.2018, n 7129; 29.01.2018, n. 589);
   - al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico (Cons. Stato, V, 17.01.2018, n. 269; 13.02.2017, n. 607; 25.01.2016, n. 242; III, 22.01.2016, n. 211; 10.11.2015, n. 5128).
...
Le divergenze risultanti dai prezzi dei preordini di cui trattasi e dai prezzi indicanti dal consulente del RUP si rivelano, al più, delle sottostime, che non possono condurre ad un giudizio di falsità dei preordini, che l’appellante afferma senza offrire, al riguardo, alcun serio elemento probatorio.
Tale non è, in particolare, né la specifica convenienza della vendita, che dipende anche dalla forza contrattuale delle parti interessate e che non può ritenersi cristallizzata nel tempo, dipendendo dal numero di transazioni relative a un ben determinato periodo, né la circostanza che il RTI Sangalli non abbia prodotto in giudizio le fatture di acquisto dei beni, atteso che il contratto per l’affidamento del servizio de quo è stato stipulato solo il 27.02.2019, a ridosso della trattazione dell’odierno appello.
Del resto la giurisprudenza ammette la possibilità di produrre in sede di verifica dell’anomalia preventivi dell’impresa fornitrice con valore probante delle condizioni particolarmente vantaggiose spuntate dal concorrente di una gara pubblica (da ultimo, Cons. Stato, V, 08.04.2019, n. 2281; 07.06.2017, n. 2736).
Alle stesse conclusioni si perviene anche tenendo conto della più rigorosa giurisprudenza di cui alla sentenza 25.07.2018, n. 4537 della Sezione, che, dando atto dell’ammissibilità, in linea di massima, delle giustificazioni fondate sui ribassi risultanti da preventivi dei subappaltatori, esige che essi siano corredati a loro volta da giustificazioni.
Infatti, in applicazione di tale indirizzo alla fattispecie e in vista delle sue evidenti finalità, che tendono, per un verso, a conferire garanzia alla congruità dei prezzi praticati e, per altro verso, a non sottrarre una parte della prestazione al vaglio di sostenibilità della stazione appaltante, nonché fatti i debiti mutamenti conseguenti al fatto che si verte in tema di acquisti e non di lavorazioni, non può non rilevarsi che, come emerge dagli atti di causa, i preordini in parola sono stati accettati dal fornitore con comunicazione del 26.09.2017, con gli effetti di cui all’art. 1326 Cod. civ., sicché non può dirsi, come sostiene l’appellante, che i preordini sono sempre revocabili, e che Sa. afferma di fatturare nel settore dell’igiene urbana circa € 100 milioni annui, il che depone per la riconducibilità dei particolari prezzi di vendita “spuntati” dall’operatore economico alle quantità acquistate piuttosto che alla ipotizzata precostituzione di una posizione processuale a lui favorevole (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.07.2019 n. 5259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISul piano soggettivo, la legittimazione al ricorso in materia ambientale, avendo natura eccezionale e discendendo direttamente dalla legge, deve riconoscersi alle sole associazioni nazionali, indicate nell’elenco ministeriale.
Altresì, la legittimazione si estende anche ad associazioni diverse da quelle di cui al citato art. 13 della legge n. 349 del 1986 e alle articolazioni periferiche delle associazioni nazionali, purché si tratti di enti che presentino determinati connotati, quali: il perseguimento della tutela ambientale in modo non occasionale e per espressa previsione dello statuto; l’esistenza di un adeguato grado di rappresentatività e stabilità nell’area ricollegabile alla zona in cui si trova il bene ambientale che si presume leso.
Sul piano oggettivo, relativo alle finalità di tutela per le quali detti enti possono ricorrere, le associazioni ambientaliste possono agire solo a tutela dell’ambiente in senso strettamente inteso, con esclusione, tra l’altro, della legittimazione ad impugnare atti a mero contenuto urbanistico.
Altresì, la legittimazione si estende anche all’impugnazione di atti aventi valenza non strettamente ambientale, purché si accerti che il loro annullamento è strumentale alla tutela ambientale.
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Sul piano soggettivo, Italia Nostra è una associazione dotata di personalità giuridica di rilevanza nazionale ed iscritta nell’elenco di cui al citato articolo 13 della legge n. 349 del 1986. La normativa e gli orientamenti interpretativi in materia sono –come sopra rilevato– nel senso che sussiste certamente la legittimazione dell’associazione nazionale. Ora, nel caso in esame, il ricorso è stato proposto dall’associazione nazionale, con la conseguenza che è irrilevante prendere posizione in ordine all’estensione della legittimazione anche alle articolazioni periferiche.
Sul piano oggettivo, Italia Nostra ha impugnato atti e provvedimenti che incidono su una pluralità di ambiti diversi. La normativa e gli orientamenti interpretativi dianzi richiamati in materia sono nel senso che la legittimazione deve riconoscersi in presenza di una impugnazione avente ad oggetto atti di rilevanza ambientale e paesaggistica. La questione relativa all’estensione anche ad altri settori e, in particolare, l’accertamento in concreto della sussistenza di un interesse strumentale all’annullamento degli atti impugnati per vizi diversi non assume rilevanza ai fini del giudizio, in quanto, per le ragioni indicate nei successivi punti, gli unici motivi fondati sono quelli relativi al procedimento paesaggistico.
In questo senso è, dunque, da ritenersi che Italia Nostra –che è un'associazione di protezione ambientale, secondo le previsioni di cui all'art. 13 della l. n. 349/1986 e del d.m. 20.02.1987 e il cui statuto (approvato con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 19.10.1999), all'art. 1, dichiara solennemente che lo scopo della predetta associazione è quello di «concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione» e, all'art. 3, precisa che per il perseguimento del suo scopo si propone di «suscitare il più vivo interesse e promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti, dei centri storici e della qualità della vita»– sia certamente legittimata ad agire in giudizio non solo per la tutela degli interessi ambientali in senso stretto (che possono essere individuati negli aspetti fisico-naturalistici di una certa zona o di un certo territorio), bensì anche per quelli ambientali in senso lato, comprendenti la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una propria specifica utilità che non può essere assicurata da un altro ambiente.
Sotto tale angolazione prospettica, Italia Nostra deve intendersi legittimata ad impugnare quei provvedimenti amministrativi capaci di ledere immediatamente o di esporre a pericolo i ricordati valori e di privare conseguentemente l'individuo delle relative utilità, con la ovvia precisazione che tale legittimazione, del tutto eccezionale, è concorrente con quella normalmente facente capo ai singoli soggetti ed è finalizzata a rendere quanto più effettiva e puntuale possibile la tutela di tali beni e valori.

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Sul piano soggettivo, il Consiglio di Stato, in alcune decisioni, ha affermato che la legittimazione al ricorso in materia ambientale, avendo natura eccezionale e discendendo direttamente dalla legge, deve riconoscersi alle sole associazioni nazionali, indicate nell’elenco ministeriale (Cons. Stato, ad plen., 11.01.2007, n. 2; Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1876; 09.03.2010, n. 1403; 19.10.2007, n. 5453; 03.10.2007, n. 5111; sez. IV, 14.04.2006, n. 2151).
Lo stesso Consiglio di Stato, in altre decisioni, ha ritenuto che la legittimazione si estende anche ad associazioni diverse da quelle di cui al citato art. 13 della legge n. 349 del 1986 e alle articolazioni periferiche delle associazioni nazionali, purché si tratti di enti che presentino determinati connotati, quali: il perseguimento della tutela ambientale in modo non occasionale e per espressa previsione dello statuto; l’esistenza di un adeguato grado di rappresentatività e stabilità nell’area ricollegabile alla zona in cui si trova il bene ambientale che si presume leso (ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 23.05.2011, n. 3107; 13.09.2010, n. 6554; sez. IV, 16.02.2010, n. 885; sez. II 17.12.2008, n. 4098; sez. V, 23.04.2007, n. 1830; 14.06.2007, n. 3192; sez. IV 02.10.2006, n. 5760).
Sul piano oggettivo, relativo alle finalità di tutela per le quali detti enti possono ricorrere, il Consiglio di Stato, in linea con la suddetta impostazione restrittiva, ha affermato, in alcune decisioni, che le associazioni ambientaliste possano agire solo a tutela dell’ambiente in senso strettamente inteso (Cons. Stato, sez. IV, 16.12.2003, n. 8234), con esclusione, tra l’altro, della legittimazione ad impugnare atti a mero contenuto urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2005, n. 5202).
Lo stesso Consiglio di Stato, in altre decisioni, ha affermato che la legittimazione si estende anche all’impugnazione di atti aventi valenza non strettamente ambientale, purché si accerti che il loro annullamento è strumentale alla tutela ambientale (Cons. Stato, sez. VI, 23.10.2007 n. 5560, Id., sez. IV 02.10.2006 n. 5760).
Applicando queste regole alla fattispecie in esame ne consegue quanto segue.
Sul piano soggettivo, Italia Nostra è una associazione dotata di personalità giuridica di rilevanza nazionale ed iscritta nell’elenco di cui al citato articolo 13 della legge n. 349 del 1986. La normativa e gli orientamenti interpretativi in materia sono –come sopra rilevato– nel senso che sussiste certamente la legittimazione dell’associazione nazionale. Ora, nel caso in esame, il ricorso è stato proposto dall’associazione nazionale, con la conseguenza che è irrilevante prendere posizione in ordine all’estensione della legittimazione anche alle articolazioni periferiche.
Sul piano oggettivo, Italia Nostra ha impugnato atti e provvedimenti che incidono su una pluralità di ambiti diversi. La normativa e gli orientamenti interpretativi dianzi richiamati in materia sono nel senso che la legittimazione deve riconoscersi in presenza di una impugnazione avente ad oggetto atti di rilevanza ambientale e paesaggistica. La questione relativa all’estensione anche ad altri settori e, in particolare, l’accertamento in concreto della sussistenza di un interesse strumentale all’annullamento degli atti impugnati per vizi diversi non assume rilevanza ai fini del giudizio, in quanto, per le ragioni indicate nei successivi punti, gli unici motivi fondati sono quelli relativi al procedimento paesaggistico.
Alle superiori considerazioni è appena il caso di soggiungere che, in disparte la relativa fondatezza o meno, le censure formulate da Italia Nostra anche con riguardo ad aspetti non strettamente paesaggistico-ambientali (ma, comunque, oggettivamente intrecciati con essi) del controverso iter amministrativo di abilitazione alla realizzazione della UMI 4 del subcomparto del PUA S. Teresa, si presentano assistite da un interesse qualificato ad opporsi a tale progetto, in quanto denunciato come confliggente con i valori tutelati dall’associazione ricorrente (segnatamente nella parte in cui prevede la costruzione dell’edificio Crescent «di proporzioni mastodontiche, avente uno sviluppo lineare di 300 metri circa ed un’altezza di quasi 30 metri, con utilizzo di oltre 150.000 metri cubi di calcestruzzo», così da incidere, «alterandolo irreversibilmente, sul paesaggio urbano e, in particolare, sulla visuale del centro storico dal mare e sul paesaggio verso il mare e verso la rinomata Costiera Amalfitana da tratti significativi del Lungomare cittadino».
In questo senso è, dunque, da ritenersi che Italia Nostra –che è un'associazione di protezione ambientale, secondo le previsioni di cui all'art. 13 della l. n. 349/1986 e del d.m. 20.02.1987 e il cui statuto (approvato con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 19.10.1999), all'art. 1, dichiara solennemente che lo scopo della predetta associazione è quello di «concorrere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione» e, all'art. 3, precisa che per il perseguimento del suo scopo si propone di «suscitare il più vivo interesse e promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti, dei centri storici e della qualità della vita»– sia certamente legittimata ad agire in giudizio non solo per la tutela degli interessi ambientali in senso stretto (che possono essere individuati negli aspetti fisico-naturalistici di una certa zona o di un certo territorio), bensì anche per quelli ambientali in senso lato, comprendenti la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una propria specifica utilità che non può essere assicurata da un altro ambiente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 09.10.2002, n. 5365; 26.09.2013, n. 4817).
Sotto tale angolazione prospettica, Italia Nostra deve intendersi legittimata ad impugnare quei provvedimenti amministrativi capaci di ledere immediatamente o di esporre a pericolo i ricordati valori e di privare conseguentemente l'individuo delle relative utilità, con la ovvia precisazione che tale legittimazione, del tutto eccezionale, è concorrente con quella normalmente facente capo ai singoli soggetti ed è finalizzata a rendere quanto più effettiva e puntuale possibile la tutela di tali beni e valori (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2013, n. 4817)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.07.2019 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel processo amministrativo, ai fini della decorrenza del termine per proporre ricorso è considerata sufficiente la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato, al fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica connessa alla previsione di un termine decadenziale per l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto processo, garantiti, invece, dalla congruità del termine temporale per impugnare, decorrente dalla conoscenza dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla possibilità di proporre successivi motivi aggiunti.
Costituisce, infatti, ius receptum l'indirizzo secondo il quale, nel processo amministrativo, la decorrenza del termine per l'impugnazione deve essere ancorata al momento in cui in concreto si è verificata ed è stata apprezzata la situazione di lesività, atteso che la piena conoscenza del provvedimento causativo non può ritenersi operante oltre ogni limite temporale, rendendosi, altrimenti, l'attività dell'amministrazione e le iniziative dei controinteressati suscettibili d'impugnazione sine die, in aperta contraddizione con l’onere decadenziale del soggetto interessato di farsi tempestivamente parte diligente.

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In argomento, è appena il caso di ricordare che, nel processo amministrativo, ai fini della decorrenza del termine per proporre ricorso è considerata sufficiente la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato, al fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica connessa alla previsione di un termine decadenziale per l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto processo, garantiti, invece, dalla congruità del termine temporale per impugnare, decorrente dalla conoscenza dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla possibilità di proporre successivi motivi aggiunti.
Costituisce, infatti, ius receptum l'indirizzo secondo il quale, nel processo amministrativo, la decorrenza del termine per l'impugnazione deve essere ancorata al momento in cui in concreto si è verificata ed è stata apprezzata la situazione di lesività, atteso che la piena conoscenza del provvedimento causativo non può ritenersi operante oltre ogni limite temporale, rendendosi, altrimenti, l'attività dell'amministrazione e le iniziative dei controinteressati suscettibili d'impugnazione sine die, in aperta contraddizione con l’onere decadenziale del soggetto interessato di farsi tempestivamente parte diligente (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 14.06.2016, n. 2565; 19.08.2016 n. 3645; sez. V, 09.05.2017, n. 2533; TAR Campania, Napoli, sez. I, 30.01.2017, n. 644; sez. VIII, 02.02.2017, n. 696; TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.03.2017, n. 3332)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.07.2019 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In sede di elaborazione degli strumenti urbanistici si rinviene, di regola, la dicotomia tra le prescrizioni che, in via diretta, stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (ossia afferenti alla c.d. zonizzazione, alla destinazione di aree a standard, alla localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) e le prescrizioni che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria per il tramite delle norme tecniche di attuazione del piano o del regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.).
Detto altrimenti, abbiamo le prescrizioni per le quali, in ragione del loro effetto conformativo del ius aedificandi dei privati proprietari, si impone l’onere decadenziale di immediata impugnazione e le prescrizioni destinate a regolare la futura attività edilizia e, quindi, suscettibili di ripetuta applicazione, le quali possono essere impugnate in seguito all’adozione dell’atto applicativo, allorquando, cioè, assumono portata concretamente lesiva per gli interessati.

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In argomento, il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza n. 6223 del 23.12.2013 ha rilevato che il PUA S. Teresa presenta un modulo contenutistico eccentrico rispetto a quello generalmente invalso in sede di elaborazione degli strumenti urbanistici.
Nell’ambito di questi ultimi, si rinviene, infatti, di regola, la dicotomia tra le prescrizioni che, in via diretta, stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (ossia afferenti alla c.d. zonizzazione, alla destinazione di aree a standard, alla localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) e le prescrizioni che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria per il tramite delle norme tecniche di attuazione del piano o del regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva, ecc.); ossia tra le prescrizioni per le quali, in ragione del loro effetto conformativo del ius aedificandi dei privati proprietari, si impone l’onere decadenziale di immediata impugnazione e le prescrizioni destinate a regolare la futura attività edilizia e, quindi, suscettibili di ripetuta applicazione, le quali possono essere impugnate in seguito all’adozione dell’atto applicativo, allorquando, cioè, assumono portata concretamente lesiva per gli interessati (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. gen. 06.06.2012, n. 3240; sez. VI, 30.06.2011, n. 1868; sez. III, 16.04.2014, n. 1955; sez. IV, 17.11.2015, n. 5235; sez. IV, 19.01.2018, n. 332; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 03.07.2018, n. 4392; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 06.09.2018, n. 2052)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.07.2019 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'operatore economico non è tenuto a dichiarare, in sede di gara, l'esistenza di condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti.
L'art 80, c. 3, del d.lgs n. 50 del 2016 (Codice dei contratti) prevede espressamente, all'ultimo periodo, che l'esclusione dalla gara per uno dei reati previsti dal c. 1 non può essere disposta allorquando sia intervenuta la dichiarazione della loro estinzione: l'effetto estintivo del fatto di reato in tali evenienze, priva di per sé e per espressa disposizione normativa, la stazione appaltante del potere di apprezzarne la relativa incidenza ai fini partecipativi.
Ne consegue che, l'operatore economico non è tenuto a dichiarare, in sede di gara, l'esistenza di condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti e ciò in quanto si tratta di condanne che, comunque, la stazione appaltante -per espressa previsione normativa- non potrebbe mai prendere in considerazione ai fini della comminatoria della esclusione del concorrente dalla gara e/o, come nel caso di specie, della revoca della aggiudicazione, ove già disposta.
Una omessa dichiarazione in tal senso non potrebbe nemmeno costituire grave illecito professionale (art. 80, c. 5, lett. c) o omissione di informazione dovuta ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art. 80, c. 5, lett. c-ter) né tanto meno dichiarazione non veritiera (art. 80, c. 5, lett. f-bis) da parte dell'operatore economico non sussistendo alcun obbligo dichiarativo di tale tenore.
Pertanto, l'obbligo dichiarativo, la cui omissione potrebbe porre in dubbio l'affidabilità o l'integrità dell'operatore economico, non può essere esteso a tal punto da ricomprendere anche i precedenti penali che siano stati espressamente dichiarati estinti e ciò in quanto la legge stessa li qualifica come non idonei a giustificare l'esclusione del concorrente dalla gara
(TAR Molise, sentenza 25.07.2019 n. 259 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIL’obbligo del partecipante di dichiarare le condanne penali non ricomprende le condanne per reati estinti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Precedenti penali per reati dichiarati estinti – Omessa dichiarazione – Art. 80, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016 – Non può essere disposta l’esclusione dalla gara – Obbligo dichiarativo – Non sussiste
In sede di gara pubblica, l’obbligo dichiarativo, la cui omissione potrebbe porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità dell’operatore economico, non può essere esteso a tal punto da ricomprendere anche i precedenti penali che siano stati espressamente dichiarati estinti e ciò in quanto la legge stessa li qualifica come non idonei a giustificare l’esclusione del concorrente dalla gara (1).
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   (1) Cons. St., sez. V, 25.02.2016, n. 761; id., sez. VI, 03.09.2013, n. 4392.
Ha chiarito il Tar che, se pure il nuovo codice non riproduce la previsione contenuta nell’art. 38, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che, ai fini degli obblighi dichiarativi dei reati incidenti sulla moralità professionale, precisava che «il concorrente non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la riabilitazione» (art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006), è anche vero che esso non contiene un’espressa imposizione di una dichiarazione generalizzata estesa a questi ultimi.
Al contrario, l’art. 80, comma 3, del vigente Codice dei Contratti prevede espressamente, all’ultimo periodo, che l’esclusione dalla gara per uno dei reati previsti dal comma 1 non può essere disposta allorquando sia intervenuta la dichiarazione della loro estinzione: l’effetto estintivo del fatto di reato in tali evenienze, cioè, priva di per sé e per espressa disposizione normativa, la stazione appaltante del potere di apprezzarne la relativa incidenza ai fini partecipativi.
Ha aggiunto il Tar che, se ciò è vero, allora deve anche ritenersi che l’operatore economico non sia tenuto a dichiarare, in sede di gara, l’esistenza di condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti e ciò in quanto si tratta di condanne che, comunque, la stazione appaltante -per espressa previsione normativa- non potrebbe giammai prendere in considerazione ai fini della comminatoria della esclusione del concorrente dalla gara e/o, come nel caso che di specie, della revoca della aggiudicazione, ove già disposta.
Una omessa dichiarazione in tal senso non potrebbe nemmeno costituire grave illecito professionale (art. 80, comma 5, lett. c) o omissione di informazione dovuta ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art. 80, comma 5, lett. c-ter) né tanto meno dichiarazione non veritiera (art. 80, comma 5, lett. f-bis) da parte dell’operatore economico non sussistendo, per le ragioni sopra indicate, alcun obbligo dichiarativo di tale tenore.
Rilevando, poi, come, nel caso di specie, la lex specialis non abbia previsto alcun obbligo in tal senso, il Tar ha affermato che, tuttora, non occorra dichiarare in sede di gara le situazioni che, per espressa previsione legislativa, più non rilevano ai fini dell’affidabilità e dell’integrità morale del concorrente (TAR Molise, sentenza 25.07.2019 n. 259 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
L’assunto non può essere condiviso.
Ed invero, se pure il nuovo codice non riproduce la previsione contenuta nell’art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che, ai fini degli obblighi dichiarativi dei reati incidenti sulla moralità professionale, precisava che «il concorrente non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la riabilitazione» (art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163/2006), è anche vero che esso non contiene un’espressa imposizione di una dichiarazione generalizzata estesa a questi ultimi.
Al contrario, l’art. 80, comma 3, del vigente Codice dei Contratti prevede espressamente, all’ultimo periodo, che l’esclusione dalla gara per uno dei reati previsti dal comma 1 non può essere disposta allorquando sia intervenuta la dichiarazione della loro estinzione: l’effetto estintivo del fatto di reato in tali evenienze, cioè, priva di per sé e per espressa disposizione normativa, la stazione appaltante del potere di apprezzarne la relativa incidenza ai fini partecipativi (Cons. Stato, V, 25.02.2016, n. 761; VI, 03.09.2013, n. 4392).
Se ciò è vero, allora deve anche ritenersi che l’operatore economico non sia tenuto a dichiarare, in sede di gara, l’esistenza di condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti e ciò in quanto si tratta di condanne che, comunque, la stazione appaltante -per espressa previsione normativa- non potrebbe giammai prendere in considerazione ai fini della comminatoria della esclusione del concorrente dalla gara e/o, come nel caso che ci occupa, della revoca della aggiudicazione, ove già disposta.
Una omessa dichiarazione in tal senso non potrebbe nemmeno costituire grave illecito professionale (art. 80, comma 5, lett. c) o omissione di informazione dovuta ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art. 80, comma 5, lett. c-ter) né tanto meno dichiarazione non veritiera (art. 80, comma 5, lett. f-bis) da parte dell’operatore economico non sussistendo, per le ragioni sopra indicate, alcun obbligo dichiarativo di tale tenore.
In conclusione, deve ritenersi che l’obbligo dichiarativo, la cui omissione potrebbe porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità dell’operatore economico, non può essere esteso a tal punto da ricomprendere anche i precedenti penali che siano stati espressamente dichiarati estinti e ciò in quanto la legge stessa li qualifica come non idonei a giustificare l’esclusione del concorrente dalla gara; non può non rilevarsi, poi, come, nel caso di specie, la lex specialis non abbia previsto alcun obbligo in tal senso.
Ciò avvalora la conclusione che, tuttora, non occorra dichiarare in sede di gara le situazioni che, per espressa previsione legislativa, più non rilevano ai fini dell’affidabilità e dell’integrità morale del concorrente.
Va, quindi, condiviso il principio secondo il quale “l’obbligo del partecipante di dichiarare le condanne penali non ricomprende le condanne per reati estinti o depenalizzati […] in ragione dell’effetto privativo che l’abrogatio criminis (ovvero il provvedimento giudiziale dichiarativo della estinzione del reato) opera sul potere della stazione appaltante di apprezzare la incidenza, ai fini partecipativi, delle sentenze di condanna cui si riferiscono quei fatti di reato" (cfr TAR Napoli, sent. n. 3518/2016).
Per quanto dedotto, il ricorso va accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati.

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi ed illegittimità della sanatoria 'condizionata'.
E' da escludere la cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti siano subordinati all'esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono.
Tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi giacché l'art. 36 d.P.R. n. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria
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Invero, "
è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica".
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata e non discrezionale della Pubblica amministrazione. Per le medesime ragioni, non è ammissibile una sanatoria parziale che non contempli gli interventi eseguiti nella loro integrità, come nel caso, ad esempio, in cui la sanatoria presupponga la conservazione di alcune opere e la demolizione delle parti di volumetria in eccedenza.
A tal fine va ribadito il principio già espresso che ha affermato che
non sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il reato di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre l'immobile stesso nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è ontologicamente contrastante con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere ed alla loro conformità agli strumenti urbanistici.
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Con motivazione logica e razionale la Corte territoriale ha osservato che, nonostante il ricorrente avesse ottenuto un provvedimento di condono nel 2009, il Procuratore generale aveva chiarito che, dalla disposizione del dirigente del Comune di Napoli n. 121 del 28.09.2017, era emerso che l'opera abusiva, non ancora demolita, non era suscettibile di condono. Premesso che il giudice dell'esecuzione doveva valutare in piena autonomia la conformità del bene alle prescrizioni di legge e quindi la validità amministrativa dei condoni edilizi, ha precisato:
   a) che, nella specie, il frazionamento del manufatto era consistito nella parziale demolizione dell'eccesso di cubatura che aveva originariamente impedito all'edificio di rientrare nei limiti della condonabilità,
   b) che i limiti dovevano sussistere alla data ultima del 31.03.2003, mentre, a quella data, la cubatura unitaria dell'abuso edilizio era risultata superiore a quella sanabile,
   c) che il Comune di Napoli aveva già avviato la pratica di diniego del condono e, solo successivamente, il ricorrente aveva ridotto la cubatura dell'abuso edilizio rendendo condonabile l'opera,
   d) che il requisito della condonabilità era maturato dopo il 31.03.2003 e dopo la domanda di condono del 2004.
Siccome la modifica dei presupposti di cubatura della domanda di condono n. 606/04 avrebbe imposto comunque il rigetto della domanda pendente e la necessità della presentazione di una nuova domanda di condono, sulla base di nuovi presupposti di cubatura, che però sarebbe stata comunque tardiva, ha concluso che il condono rilasciato il 28.02.2018 dal Comune di Napoli era da considerarsi illegittimo, con la conseguenza che l'ordine di demolizione non poteva essere revocato.
D'altra parte la demolizione solo parziale della parte aggiuntiva della cubatura dell'edificio che aveva impedito il condono non aveva estinto il reato urbanistico di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001 non essendo applicabile analogicamente la disciplina sui reati paesaggistici. Il reato urbanistico sulla parte di abuso edilizio, solo autodemolita e non condonata, non si era estinta in conseguenza della sola autodemolizione, cosicché l'ordine non poteva essere revocato dal giudice dell'esecuzione a causa dell'estinzione del reato che ne aveva comportato l'obbligatoria emissione.
Ha aggiunto che l'abuso edilizio insisteva su zona vincolata e che non poteva essere rilasciato il condono in forma semplificata, senza acquisizione dei pareri delle autorità preposte alla tutela del vincolo. Anche se la presenza del vincolo era stato negata dal Comune, la sentenza di condanna irrevocabile non poteva essere modificata dal giudice dell'esecuzione; inoltre, per il manufatto in cemento armato non erano stati presentati i calcoli strutturali né era stato effettuato il collaudo e mancava la documentazione di conformità alla normativa edilizia antisismica; che la Pubblica amministrazione non avesse provveduto alla demolizione, infine, non costituiva elemento ostativo a che vi avesse provveduto il Procuratore generale in esecuzione della sentenza irrevocabile.
La decisione è in linea con la consolidata interpretazione di legittimità dell'art. 36 d.P.R. n. 380/2001.
Ed invero è da escludere la cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti siano subordinati all'esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono.
Tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi giacché l'art. 36 d.P.R. n. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria (si veda, ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù, Rv. 266034, secondo cui è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica).
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata e non discrezionale della Pubblica amministrazione. Per le medesime ragioni, non è ammissibile una sanatoria parziale che non contempli gli interventi eseguiti nella loro integrità, come nel caso, ad esempio, in cui la sanatoria presupponga la conservazione di alcune opere e la demolizione delle parti di volumetria in eccedenza.
A tal fine va ribadito il principio già espresso da Cass., Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, Rubechi, Rv. 238020, che ha affermato che non sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il reato di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, i provvedimenti amministrativi di sanatoria di immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre l'immobile stesso nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è ontologicamente contrastante con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere ed alla loro conformità agli strumenti urbanistici (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 24.07.2019 n. 33390).

APPALTI: La c.d. "clausola sociale" deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
La c.d. "clausola sociale" (nel caso di specie sotto forma di clausola di riassorbimento), ammessa dall'art. 50 del D.Lgs. 18/04/2016, n. 50, deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost., che sta a fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto.
In sostanza, tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
Conseguentemente l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante;
I lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il totale del personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.07.2019 n. 5243 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIStand still processuale in caso di impugnazione dell’aggiudicazione con istanza cautelare.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Impugnazione – Contestuale istanza cautelare – Effetti – Individuazione.
L’apparente contraddittorietà interna dell’art. 32, comma 11, d.lgs. n. 50 del 2016 –laddove prevede che, in caso di proposizione di un ricorso avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante “per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all'udienza cautelare” stabilendo tuttavia, altresì, che il contratto non può essere stipulato “fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva” (alla scadenza del termine di venti giorni)– deve essere risolta nel senso di ritenere che l’effetto preclusivo automatico debba permanere fino all’assunzione dei predetti provvedimenti ad opera del giudice, anche se adottati oltre il termine di venti giorni, dovendosi quindi correlare lo stand still processuale esclusivamente alla decisione del giudice in ordine alla richiesta cautelare, altrimenti risultando privo di significato l’inciso “ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva” ai venti giorni, di cui alla citata norma (1).
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(1) Ad avviso della Sezione tale interpretazione –sulla permanente operatività dell’effetto preclusivo alla stipula del contratto sino alla conclusione della fase cautelare di primo grado- è la più coerente con la ratio della norma, da raccordarsi con le previsioni di cui agli articoli da 121 a 124 c.p.a. e con il principio di effettività della tutela, nonché con l’applicazione dell’istituto per i casi di rinvio della camera di consiglio per l’esame cautelare, essendosi affermato, in tale ipotesi, che “Nel caso in cui nella camera di consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare di sospensione temporanea dell'aggiudicazione venga disposto un rinvio dell'udienza camerale continua ad operare lo stand still, potendo dirsi venuto meno tale motivo ostativo alla stipula del contratto solo nel caso di un rinvio della causa all'udienza di merito (anche ai fini dell'esame dell'istanza cautelare), perché solo in questo ultimo caso può dirsi essere intervenuta una rinuncia, sia pur implicita, all'operatività del vincolo di stand still” (Cons. St., sez. V, 14.11.2017, n. 5243; Tar Lazio, sez. II-bis, dec., 31.05.2019, n. 3222) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 24.07.2018 n. 5055 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Secondo il pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, alle amministrazioni è riconosciuta ampia discrezionalità in sede di valutazione dell’anomalia delle offerte, senza contare che il giudizio di congruità ha carattere globale, mirando ad accertare la complessiva sostenibilità economica della proposta, mentre non si può certo configurare come un procedimento volto alla “caccia all’errore”, di carattere quasi sanzionatorio.
Corollario di tali presupposti è che in sede di giustificazioni sono consentiti parziali aggiustamenti all’offerta ed anche spostamenti delle voci di costo nell’ambito dell’offerta stessa, purché quest’ultima possa però reputarsi complessivamente affidabile.
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La doglianza, per quanto suggestiva e ben esposta, appare però infondata.
Dapprima giova richiamare il pacifico indirizzo della giurisprudenza amministrativa, cui aderisce anche la scrivente Sezione, secondo cui alle amministrazioni è riconosciuta ampia discrezionalità in sede di valutazione dell’anomalia delle offerte, senza contare che il giudizio di congruità ha carattere globale, mirando ad accertare la complessiva sostenibilità economica della proposta, mentre non si può certo configurare come un procedimento volto alla “caccia all’errore”, di carattere quasi sanzionatorio.
Corollario di tali presupposti è che in sede di giustificazioni sono consentiti parziali aggiustamenti all’offerta ed anche spostamenti delle voci di costo nell’ambito dell’offerta stessa, purché quest’ultima possa però reputarsi complessivamente affidabile (cfr. da ultimo, fra le tante, TAR Lazio, Roma, sez. III-quater, n. 8656/2019, con la giurisprudenza ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.07.2019 n. 1713 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul diritto, o meno, all’esenzione dal pagamento del contributo di concessione edilizia prevista dall’art. 9, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10, in base al quale “Il contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .... f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici".
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, la ragione della deroga prevista dalla prima parte dell’art. 9, comma 1, lett. f), l. 28.01.1977 n. 10 è, anzitutto, quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarne una utilità, quando l’esecuzione sia compiuta da un ente istituzionalmente competente tramite un concessionario di opera pubblica, in tal caso venendo giustificata la concessione di un beneficio economico che, non contribuendo alla formazione di un utile d’impresa, si riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce dell’opera una volta eseguita.
Ai fini dell’esenzione, pertanto, occorre che l’opera sia pubblica o di interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non competendo, invece, alle opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell’attività da essi esercitata nella o con l’opera edilizia cui la concessione si riferisce.
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L’Istituto appellante non può dirsi “ente istituzionalmente competente” ai sensi della disposizione de qua, perché l’espressione adoperata dalla norma non può riferirsi che ad enti pubblici, ovvero a soggetti che agiscono per conto di essi, come confermato dal fatto che soltanto nella seconda parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione, la disposizione si riferisce ad opere “eseguite anche da privati”.
Occorre cioè, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, che, quando non sia esso stesso ente pubblico, il soggetto realizzatore abbia agito quale organo indiretto dell’amministrazione, come nella concessione o nella delega.
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E’ per mera completezza, dunque, che può aggiungersi che la strumentalità rispetto all’esercizio di un servizio pubblico non è sufficiente ad integrare la nozione di “impianti, attrezzature, opere pubbliche o di interesse generale”, di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della l. n. 10 del 1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001), in quanto l’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione vale per la struttura che realizza o contribuisce con vincolo indissolubile all’erogazione diretta del servizio, come, a titolo meramente esemplificativo, nell’ipotesi di un impianto tecnico, ma non per un bene la cui strumentalità dipende da scelte discrezionali e, quindi, revocabili, della società, dovendosi dunque concludere che a rilevare non è la destinazione che soggettivamente s’intende dare alla struttura, bensì la sua natura oggettiva: solo laddove l’opera non possa, neppure in astratto, avere una destinazione diversa da quella pubblica si potrà dunque configurare il presupposto per l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione.
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1. - In primo grado l’Istituto Diocesano Sostentamento del Clero di Caserta ha agito nei confronti del Comune di Caserta per l’accertamento negativo dell’obbligo di pagare il contributo concessorio e per il riconoscimento del diritto alla restituzione delle somme che avrebbe indebitamente versato per la realizzazione della struttura sportiva polivalente di sua proprietà sita in Caserta alla via Borsellino, sostenendo di aver diritto all’esenzione dal pagamento del contributo di concessione edilizia prevista dall’art. 9, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10, in base al quale “Il contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .... f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici".
Il TAR ha respinto il ricorso giudicando insussistenti i presupposti per il riconoscimento dell’esenzione in favore dell’opera in questione (riconducibile ad una struttura pubblica di quartiere e verde attrezzato e di proprietà di un ente ecclesiastico civilisticamente riconosciuto con Decreto del Ministero degli Interni ed iscritto nel registro delle persone giuridiche della Prefettura di Caserta) con riferimento ad ambedue le ipotesi della disposizione citata.
In particolare, in relazione alla fattispecie prevista dalla prima parte dell’articolo, ha rilevato la carenza sia del presupposto oggettivo (opera pubblica o destinata a soddisfare bisogni della collettività), sia di quello soggettivo (opera realizzata da un’amministrazione pubblica o da un soggetto privato per conto di una pubblica amministrazione), osservando che “è pacifico che l’ente proprietario dell’immobile è un soggetto a personalità giuridica privo di alcun collegamento con la pubblica amministrazione; tale circostanza è sufficiente per escludere il riconoscimento del beneficio, in considerazione anche della specifica tipologia di opera in questione (struttura sportiva poliva[len]te) e della sue concrete modalità di fruizione”.
In relazione alla seconda ipotesi, ha evidenziato che “per essere esente da contributo, l’opera di urbanizzazione deve essere specificatamente indicata come tale nello strumento urbanistico, anche attuativo (C.d.S. Sez. V, 21.01.1997 n. 69). Nel caso in esame la realizzazione dell’opera de qua è certamente conforme agli strumenti urbanistici vigenti; non è tuttavia espressamente contemplata come tale dagli strumenti urbanistici”.
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8. – Nel merito, il Giudice di primo grado ha correttamente escluso che l’Istituto avesse titolo all’esenzione dal pagamento dei contributi concessori e, dunque, alla ripetizione di quanto versato.
9. – Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, la ragione della deroga prevista dalla prima parte dell’art. 9, comma 1, lett. f), l. 28.01.1977 n. 10 è, anzitutto, quella di agevolare l’esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarne una utilità, quando l’esecuzione sia compiuta da un ente istituzionalmente competente tramite un concessionario di opera pubblica, in tal caso venendo giustificata la concessione di un beneficio economico che, non contribuendo alla formazione di un utile d’impresa, si riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce dell’opera una volta eseguita (ex ceteris, C.d.S., Sez. VI, 11.04.2014, n. 1759).
Ai fini dell’esenzione, pertanto, occorre che l’opera sia pubblica o di interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non competendo, invece, alle opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell’attività da essi esercitata nella o con l’opera edilizia cui la concessione si riferisce (ex aliis, C.d.S., sez. V, 15.12.2005, n. 7140).
L’Istituto appellante non può dirsi “ente istituzionalmente competente” ai sensi della disposizione de qua, perché l’espressione adoperata dalla norma non può riferirsi che ad enti pubblici, ovvero a soggetti che agiscono per conto di essi, come confermato dal fatto che soltanto nella seconda parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione, la disposizione si riferisce ad opere “eseguite anche da privati” (C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 51).
Occorre cioè, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, che, quando non sia esso stesso ente pubblico, il soggetto realizzatore abbia agito quale organo indiretto dell’amministrazione, come nella concessione o nella delega (C.d.S., sez. IV, 20.11.2017, n. 5356, Id., sez. IV, 30.08.2016, n. 3721, con riferimento alla previsione ora contenuta nell’art. 17, co. 3, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001).
E poiché non è gravato il capo della sentenza di primo grado che ha escluso che possa ricadersi, in alternativa, nell’ipotesi dell’esenzione dovuta, in forza della seconda parte della disposizione citata, per le opere di urbanizzazione eseguite anche da privati in attuazione di strumenti urbanistici, non vertendosi, nel caso di specie, di opere di urbanizzazione specificamente indicate come tali nello strumento urbanistico, tanto basta ad escludere che l’Istituto appellante abbia diritto all’esenzione dal versamento del contributo di concessione.
E’ per mera completezza, dunque, che può aggiungersi che la strumentalità rispetto all’esercizio di un servizio pubblico non è sufficiente ad integrare la nozione di “impianti, attrezzature, opere pubbliche o di interesse generale”, di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della l. n. 10 del 1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001), in quanto l’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione vale per la struttura che realizza o contribuisce con vincolo indissolubile all’erogazione diretta del servizio, come, a titolo meramente esemplificativo, nell’ipotesi di un impianto tecnico, ma non per un bene la cui strumentalità dipende da scelte discrezionali e, quindi, revocabili, della società, dovendosi dunque concludere che a rilevare non è la destinazione che soggettivamente s’intende dare alla struttura, bensì la sua natura oggettiva: solo laddove l’opera non possa, neppure in astratto, avere una destinazione diversa da quella pubblica si potrà dunque configurare il presupposto per l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione (C.d.S., sez. IV, 31.08.2016, n. 3750).
10. – Per queste ragioni, in conclusione, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 23.07.2019 n. 5194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa possibilità di ricorrere alla figura dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto, attuale ed imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana che imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o di sicurezza per l’incolumità privata e pubblica, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento.
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3.- Il contratto di locazione e le precedenti trattative ai fini del rilascio del locale appaiono indici fortemente sintomatici del ricorso improprio al potere di ordinanza contingibile ed urgente, di cui al menzionato art. 54 d.lgs. 267/2000, adottata dal sindaco, in definitiva, non per fronteggiare un pericolo reale ed imminente alla sicurezza ed incolumità pubbliche bensì come strumento di pressione per lo sgombero dei locali.
Come chiarito da ampia e condivisa giurisprudenza, la possibilità di ricorrere alla figura dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto, attuale ed imminente per l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana che imponga di provvedere in via d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o di sicurezza per l’incolumità privata e pubblica, non fronteggiabili con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento (ex multis, Tar Torino, sez. II, 26.07.2018, n. 903; Tar Milano, sez. III, 16.05.2018, n. 1284; Tar Napoli, sez. V, 06.03.2018, n. 1409; Cons. Stato, sez. V, 12.06.2017, n. 2799 e n. 2847) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza III, sentenza 23.07.2019 n. 4028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Autotutela prima dell’aggiudicazione.
Sino a quando non intervenga l’aggiudicazione, la stazione appaltante resta libera di intervenire sugli atti di gara senza sottostare alle forme e ai limiti di cui all’autotutela decisoria; sino a quel momento, infatti, la procedura di gara non può dirsi conclusa e l’aggiudicatario provvisorio è titolare di una mera aspettativa alla conclusione favorevole del procedimento e al conseguimento del bene della vita (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.07.2019 n. 1705 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Vero è, infatti, che sino a quando non intervenga l’aggiudicazione, la stazione appaltante resta libera di intervenire sugli atti di gara senza sottostare alle forme e ai limiti di cui all’autotutela decisoria (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 107/2019). Sino a quel momento, infatti, la procedura di gara non può dirsi conclusa e l’aggiudicatario provvisorio è titolare di una mera aspettativa alla conclusione favorevole del procedimento e al conseguimento del bene della vita (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 7056/2018).
Nel caso di specie, addirittura, il ripensamento, perfettamente ammissibile e qui ampiamente giustificato, della Commissione giudicatrice è intervenuto ancora nella fase di valutazione delle offerte, sicché nessuna contraddittorietà può rinvenirsi nella posizione assunta dalla Commissione medesima rispetto alla valutazione iniziale e provvisoria.

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO – Inquinamento da plastica – Regolamentazione dell’utilizzo dei materiali plastici – Comune – Incompetenza, in difetto di normativa primaria.
Il Comune non ha alcuna competenza a regolamentare in via autonoma l’utilizzo dei materiali plastici, in difetto di normativa primaria. Non può infatti essere richiamata la direttiva (UE) 2019/904, entrata in vigore il 02.07.2019, che dovrà essere recepita entro il 03.07.2021: è appena il caso di rammentare che la competenza ad adottare le misure di recepimento spetta allo Stato e non al Comune.
Né sono invocabili gli artt. 181, 182 e 182-bis del codice dell’ambiente, che, dettando norme in materia di riciclaggio e recupero dei rifiuti nonché di smaltimento dei rifiuti, non riguardano la regolamentazione dell’uso della plastica e non possono pertanto legittimare l’ordine, per le imprese titolari di distributori automatici di cibi e bevande, di “utilizzare esclusivamente bicchieri, posate, mescolatori, in materiale biodegradabile e compostabile certificato”.
In astratto, e in presenza dei presupposti che ne legittimano l’esercizio, l’unico strumento utilizzabile da parte del Comune è il potere extra ordinem
(TAR Puglia- Bari, Sez. II, sentenza 23.07.2019 n. 1063 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIEffetti della presentazione della domanda di concordato “in bianco.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione dalla gara – Concordato in bianco – Istanza presentata durante la procedura di gara o prima del suo inizio – Conseguenza.
La presentazione, durante una procedura di affidamento di appalti pubblici, di una domanda di concordato “in bianco”, disciplinata dall’art. 161, comma 6, della legge fallimentare, comporta l’esclusione dalla gara per violazione del principio di continuità dei requisiti di partecipazione.
Invece, anche dopo le modifiche introdotte dal d.l. n. 32 del 2019, come convertito dalla l. n. 55 del 2019, la partecipazione dell’impresa che ha presentato una domanda di concordato “in bianco” è consentita, alle condizioni previste dagli artt. 110, d.lgs. n. 50 del 2016 e 186-bis, comma 4, della legge fallimentare, in riferimento alle sole procedure di affidamento iniziate dopo il deposito della domanda stessa (1).

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   (1) Il Tar ha ritenuto che il tenore letterale dell’art. 80, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 riferisce esplicitamente l’eccezione, rispetto alla regola dell’esclusione di cui alla lett. b), dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, al solo caso in cui l’operatore “si trovi” in continuità aziendale e, quindi, sia stato già ammesso al concordato e non anche ai casi di “procedimenti in corso” e, quindi, in cui sia stata presentata la sola domanda di concordato “in bianco”.
L’art. 110 del citato Codice dei contratti, laddove, nel testo vigente prima delle modifiche introdotte dal d. l. n. 32 del 2019, prevede, a determinate condizioni, la possibilità di partecipazione alle procedure di appalto, riguarda le sole imprese già ammesse al concordato come ivi espressamente specificato, e non anche l’ipotesi di concordato “in bianco”; alla medesima conclusione deve, in particolare, pervenirsi anche in relazione a quando disposto dal comma 5 il quale richiama il parere del giudice delegato che viene nominato solo dopo l’ammissione al concordato (art. 163, comma 2, n. 1, L.F.).
Ha ancora ricordato il Tar che la possibilità per l’impresa che ha presentato domanda di concordato “in bianco” di partecipare alla gara è esclusa dall’art. 161, comma 7, L.F. secondo cui “dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di cui all'art. 163 il debitore può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del tribunale, il quale può assumere sommarie informazioni e deve acquisire il parere del commissario giudiziale, se nominato”. Dalla disposizione in esame risulta che il debitore in situazione di pre-concordato può porre in essere non tutti gli atti di amministrazione ma solo quelli urgenti e solo previa autorizzazione del Tribunale.
Secondo la giurisprudenza la partecipazione ad una procedura selettiva per l'affidamento di un contratto di appalto pubblico, così come la permanenza all'interno della procedura stessa, laddove al momento dell'avvio non era stata presentata, da parte dell'operatore economico, alcuna domanda di "concordato in bianco", rientrano nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione, anche perché già solo la partecipazione alla procedura potrebbe ridurre ancor di più le opportunità di tutela dei creditori (Cons. Stato n. 3984 del 2019; id. n. 5966 del 2018; id n. 3225 del 2018).
Ha aggiunto il Tar che l’art. 186-bis L.F., nel consentire, a determinate condizioni, la possibilità per l’impresa di partecipare alle procedure di gara, riguarda le sole ipotesi in cui “il piano di concordato di cui all'articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell'azienda in esercizio ovvero il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione” e in cui il piano abbia i contenuti di cui al comma secondo lettere a) e c) della disposizione e sia accompagnato dalla relazione del professionista di cui all'articolo 161, terzo comma L.F. la quale “deve attestare che la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori” (art. 186-bis, comma 2, lett. b, L.F.). L’art. 186-bis L.F., pertanto, presuppone l’avvenuta presentazione di un piano di concordato e della relazione del professionista che, invece, mancano nelle fattispecie di c.d. “concordato in bianco”.
Infine, l’art. 110, d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione introdotta dopo la l. n. 55 del 2019, nel prevedere che “alle imprese che hanno depositato la domanda di cui all’articolo 161, anche ai sensi del sesto comma, del regio decreto 16.03.1942, n. 267, si applica l’articolo 186-bis del predetto regio decreto. Per la partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’articolo 163 del regio decreto 16.03.1942, n. 267 è sempre necessario l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto”, e l’art. 186-bis, comma 4, L.F., debbano essere interpretati nel senso che la “partecipazione”, ivi menzionata, riguarda le sole procedure che iniziano ex novo dopo la presentazione della domanda di concordato “in bianco” e non anche quelle in corso al momento del deposito della domanda stessa (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 22.07.2019 n. 9782 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIClausola di sbarramento nelle offerte tecniche.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta – Clausola di sbarramento - Riferimento ai valori “assoluti” delle offerte tecniche – Necessità.
In sede di gara pubblica, ai fini della valutazione dell’offerta essendo lo scopo della previsione della soglia di sbarramento di assicurare un filtro di qualità, impedendo la prosecuzione della gara a quelle offerte che non raggiungano uno standard minimo corrispondente a quanto (discrezionalmente) prefissato dalla lex specialis, tale filtro va operato con riferimento ai valori “assoluti” delle offerte tecniche, ovvero al risultato derivante dall’applicazione dei punteggi come previsti dal metodo di gara in relazione ai singoli parametri, avendo questi ultimi un significato funzionale proprio (1).
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   (1) Ha affermato il Tar che non è senza rilievo sostanziale che la soglia di qualità deve riferirsi ai punteggi non riparametrati perché vuole evitarsi che la riparametrazione, in quanto volta solo ad operare un opportuno riequilibrio del punteggio tecnico e mantenere il rapporto corretto con il peso dell’offerta economica, influisca sulla selezione dei minimi standard cui si vuole subordinare l’ammissione dell’offerta alla fase di verifica successiva, e consenta così ad offerte oggettivamente prive di requisiti minimi di qualità di superare quel filtro che la soglia è appunto preordinata ad assicurare.
Ha aggiunto la Sezione che nella premessa che l’individuazione della soglia così come la scelta di consentire la riparametrazione, sono frutto di esercizio di attività discrezionale della PA che attiene al governo della gara ed alla predeterminazione delle relative regole, è necessario che il concreto disimpegno di tale discrezionalità risponda a canoni di logica e di ragionevolezza. Per cui, laddove la S.A. decida di applicare una soglia “rigida” di qualificazione, ovvero espressa in valori assoluti, quest’ultima non potrà che operare anteriormente alla riparametrazione e quindi sui valori altrettanto “assoluti” come emersi all’esito dell’esame delle offerte tecniche.
Laddove si voglia applicare invece la soglia alle offerte come riparametrate, allora anche la soglia non potrebbe che dover essere riparametrata in maniera corrispondente, per mantenere la stessa percentuale di sufficienza rispetto al massimo del valore del “peso” attribuito all’offerta tecnica e garantire così la neutralità della riparametrazione rispetto al meccanismo di filtro proprio della soglia (in altri termini, dovrebbe prevedersi una sorta di “doppia” soglia, ovvero una soglia assoluta -da applicarsi nel caso in cui non si verifichino i presupposti per la riparametrazione- ed una soglia relativa -da applicarsi nel caso in cui tali presupposti si verifichino, costituita dalla prima adeguata alla percentuale di riparametrazione concretamente risultante dalle relative operazioni).
Ponendosi la predeterminazione di una soglia minima di punteggi di qualità delle offerte quale criterio di filtro delle offerte stesse ai fini della prosecuzione della gara, la riparametrazione deve rimanere neutrale rispetto alla verifica della soglia e dunque non può che essere applicata alle offerte non riparametrate (oppure, se prevista ex post, deve essere costruita sulla base di una soglia “mobile” che vari all’eventuale variazione del punteggio in conseguenza della riparametrazione laddove se ne verifichino i presupposti ed in maniera percentualmente corrispondente) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 22.07.2019 n. 9781 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
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Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime prescritte– solo nei termini di cui al d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale.
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Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse). Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime prescritte– solo nei termini di cui al d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella” nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce jus receptum nella giurisprudenza amministrativa che “quando un provvedimento sia fondato su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, che siano tutte egualmente idonee a sorreggerne la parte dispositiva, l'eventuale illegittimità di una di esse non è sufficiente ad inficiare il provvedimento stesso”.
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Costituisce, infatti, jus receptum nella giurisprudenza amministrativa, infatti, che “quando un provvedimento sia fondato su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, che siano tutte egualmente idonee a sorreggerne la parte dispositiva, l'eventuale illegittimità di una di esse non è sufficiente ad inficiare il provvedimento stesso” (TAR Campania Napoli, sez. I, 07.10.2008, n. 13437; ex multis, v. anche TAR Liguria Genova, sez. II, 26.11.2008, n. 2041; TAR Campania Napoli sez. V 05.08.2008 n. 9774; TAR Lazio Roma sez. II 01.07.2008 n. 6346; TAR Emilia Romagna Parma, sez. I, 17.06.2008 n. 314; TAR Lazio Roma, sez. II, 23.04.2008 n. 3505; TAR Lazio Roma, sez. II, 10.03.2008 n. 2165; TAR Lazio Roma, sez. II, 28.01.2008 n. 608; Consiglio Stato, sez. V 28.12.2007 n. 6732).
Né alla vicenda in esame può accostarsi quella oggetto di una recente decisione di questa Sezione (TAR Napoli, sez. IV, 11/01/2019 n. 175), venendo in quel caso in rilievo specifiche esigenze, non adeguatamente valutate nell’atto in quella sede impugnato (e annullato proprio per il riscontrato difetto motivazionale) e qui neppure allegate da parte attorea, scaturenti dall’interesse all’abbattimento delle barriere architettoniche in capo a uno o più condomini portatori di handicap.
Il ricorso, va pertanto, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' ben noto che i dati catastali non possono ritenersi, neppure dal punto di vista topografico, fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero valore indiziario, ad evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia.
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5. Con il quarto motivo si lamenta che tra i documenti mancanti nella pratica edilizia in questione non sarebbero presenti gli elaborati grafici da cui il Comune avrebbe potuto evincere le distanze dei manufatti dai confini. Ciò avrebbe determinato che parte della proprietà di cui i controinteressati si sono dichiarati titolari, in realtà, apparterrebbe al demanio dello stesso Comune di Marciana, posto che porzione della p.lla 346 su cui gli stessi controinteressati intenderebbero realizzare un muro divisorio insiste su un’area a tutt’oggi classificata “strada comunale”.
La tesi è condivisibilmente smentita dalla difesa dell’amministrazione.
L’assunto del ricorrente si fonda sulla rappresentazione ai fini catastali delle aree interessate nelle quali la strada è tracciata all’interno dei giardini pertinenziali delle proprietà dello stesso Provenzali e dei Sigg.ri Le. e Me..
Ora, è ben noto che i dati catastali non possono ritenersi, neppure dal punto di vista topografico, fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero valore indiziario, ad evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (Cons. Stato, sez. VI, 09/02/2015, n. 631; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20/05/2015, n. 1195).
Nel caso di specie i vigenti strumenti urbanistici comunali riportano il tracciato della strada in un punto diverso non involgente le proprietà coinvolte e ad essi legittimamente si è attenuto il Comune nel rilascio dei titoli edilizi (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.07.2019 n. 1149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto di accesso alle e-mail intercorse tra membri di commissione di concorso.
Dalla verbalizzazione emerge che i commissari «rendono per e-mail apposita dichiarazione di approvazione dei criteri concordati, mentre nella successiva pag. 27 è specificato che la riunione collegiale è servita per avere uno scambio sincrono e progressivo di opinioni già ampiamente discusse mediante messaggi di posta elettronica circolati tra i membri della commissione nei giorni 24, 27 e 30.07.2018 e di telefonate».
Appare evidente che le e-mail dei commissari di concorso hanno avuto a oggetto l’esercizio di funzioni pubblicistiche e sono pertinenti al procedimento concorsuale, sicché non possono essere qualificate come corrispondenza privata, rilevando che qualora fossero presenti frasi che esulano le procedure concorsuali, in sede di acquisizione, dovrebbero essere stralciate od oscurate.
Inoltre, non può dubitarsi che le citate conversazioni presenti nelle e–mail sono espressamente citate per relationem nel verbale concorsuale, ed entrano a pieno titolo e legittimamente nel procedimento, sicché l’Amministrazione non può giustificare la mancata ostensione con la propria inottemperanza all’obbligo di acquisizione, dovendo affermare che le parti controinteressate (rectius i commissari) sono obbligate, ai sensi dell’articolo 60 «Definizione del giudizio in esito all’udienza cautelare» c.p.a., a collaborare con l’Amministrazione al deposito in giudizio delle succitate e - mail, omettendo eventuali parti non pertinenti al processo valutativo e alle operazioni concorsuali.
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Considerato che:
   - la ricorrente, con istanza di accesso del 22.10.2018, ha chiesto, tra l’altro, alla Università resistente l’accesso ai “2) messaggi di posta elettronica circolati tra i membri della Commissione nei giorni 24, 27 e 30.07.2018” e alla “7) e-mail menzionata a pagina 26, terz’ultimo capoverso, del Verbale n. 1”;
   - con nota del 15.11.2018 l’Università le ha messo a disposizione l’altra documentazione richiesta ma ha precisato che “per quanto concerne il punto 2 e il punto 7 della domanda, il settore detentore dei documenti (Settore Personale Docente e Rapporti con la Asl) si è riservato di chiedere parere sulla ostensibilità degli stessi all’Area Affari Legali di questo Ateneo ed è in attesa di risposta”;
   - perdurando l’inerzia, la ricorrente ha quindi presentato il ricorso in epigrafe chiedendo l’ostensione delle e-mail succitate;
   - con la propria relazione depositata in giudizio, l’Università resistente ha rappresentato che “questa amministrazione, pur consapevole degli obblighi imposti ex lege 241/1990, non ha potuto soddisfare la richiesta della ricorrente non essendo in possesso del materiale in questione. Difatti, le e-mail reclamate sono intercorse esclusivamente tra i membri della Commissione i quali hanno fatto uso di computer privati né le mail in parola sono pervenute o acquisite dall'Ateneo agli atti della procedura. L'accesso può concretamente aver luogo solo se esista un atto adottato o un documento acquisito agli atti del procedimento; ciò posto, il rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto a documenti amministrativi già esistenti, potendo, invece, essere invocato esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente esistenti presso gli archivi dell'Amministrazione … Solo per spirito di precisione si evidenzia che il contenuto delle mail, scambiate tra terminali privati, potrebbe essere di natura anche strettamente confidenziale o con riferimenti alla vita privata. Per la detta ragione, in alcun modo, la resistente può pretendere, anche in via coattiva, l'ostensione dello scambio epistolare intercorso tra i membri della Commissione”;
   - ciò posto, questo Tribunale ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei membri della commissione autori delle mail in questione (prof.ri Pa.Cu., Eu.Ba., Gi.Pe.), affinché potessero rappresentare anche eventuali particolari esigenze di riservatezza in ordine al contenuto di alcuna di esse; la parte ricorrente ha adempiuto all’ordine di integrazione depositando l’08.05.2019 le cartoline di ricevimento, nessuno tuttavia si è costituito in giudizio;
...
   - il ricorso è fondato;
   - ai sensi dell’articolo 25, comma 4, della legge 241 del 1990 “decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta”; e nel caso di specie si è pertanto formato un provvedimento tacito di rigetto, attraverso la cui impugnazione il Collegio è chiamato in realtà a decidere sulla fondatezza della pretesa (cfr. Consiglio di Stato sentenza 906 del 2019);
   - nel caso in esame, come evidenziato dalla ricorrente, nel verbale n. 1 della commissione giudicatrice (di predeterminazione dei criteri di valutazione), a pag. 26, è scritto che “Il Segretario invia il verbale sin qui redatto a mezzo di posta elettronica agli altri commissari. Dopo ampia discussione collegiale, i Commissari predeterminano i criteri della valutazione come contenuti nel presente verbale. I commissari rendono per e-mail apposita dichiarazione di approvazione dei criteri concordati”, mentre nella successiva pag. 27 è specificato che “… la riunione collegiale è servita per avere uno scambio sincrono e progressivo di opinioni già ampiamente discusse mediante messaggi di posta elettronica circolati tra i membri della commissione nei giorni 24, 27 e 30.07.2018 e di telefonate”;
   - ciò premesso, se ne desume che le e-mail in questione hanno avuto a oggetto l’esercizio di funzioni pubblicistiche e sono pertinenti al procedimento in questione, sicché non possono essere qualificate come corrispondenza privata, salva la possibilità, in sede di acquisizione, di stralciare frasi che esulano del tutto dalla questione in esame (cfr. Tar Firenze sentenza 1375 del 2016; Consiglio di Stato 1113 del 2015);
   - le medesime, inoltre, proprio perché citate per relationem nel verbale succitato devono essere acquisite al procedimento, sicché l’Amministrazione non può giustificare la mancata ostensione con la propria inottemperanza all’obbligo di acquisizione;
   - peraltro, le parti controninteressate, citate nel presente giudizio, sono obbligate, ai sensi dell’articolo 60 cpa, a collaborare con l’Amministrazione al deposito in giudizio delle succitate e-mail, nei limiti sopra chiariti (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 22.07.2019 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Al riguarda si legga anche:
  
● M. Lucca, Diritto di accesso alle conversazioni e-mail tra commissari d’esame (31.07.2019 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul concetto di "sagoma a terra" e "sagoma".
Vi è una definizione espressa, sia perché consolidata in giurisprudenza sia perché ora trasfusa in un testo normativo, del concetto di “sagoma”, che corrisponde alla "conformazione planivolumetrica della costruzione, ossia il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio nella sua struttura fuori terra (esclusa, quindi, la parte interrata), ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”, che è stata sostanzialmente recepita nel “Quadro delle definizioni uniformi” di cui all’allegato A alla Intesa 20.10.2016, “ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4, comma 1-sexies del decreto del d.P.R. 06.06.2001, n. 380”, dove è definita “Conformazione planivolumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali, nonché gli aggetti e gli sporti superiori a 1,50 m''.
Pertanto, la nozione di "sagoma" è di carattere più comprensivo, rendendo evidente il quadro dimensionale totale del manufatto in quanto, includendovi aggetti e sporti, ne considera l’ingombro in senso lato.
In questo senso, non si può non concordare con il primo giudice sulla necessità di dare un significato al puntuale riferimento alla “sagoma a terra” come un concetto diverso da quello della semplice “sagoma”, che altrimenti non avrebbe alcuna utilità autonoma.
La conseguenza è che quindi, correttamente, il primo giudice ha ritenuto che nella nozione di "sagoma a terra" non rientrasse la proiezione ideale degli elementi aggettanti della copertura che debordano rispetto ai muri perimetrali e che possono essere rilevanti ai fini delle distanze rispetto ai confini ed alle costruzioni finitime.
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2. - Con il primo motivo di diritto, recante violazione di legge con riferimento all’art. 6, comma 1, lett. d), della l.r. Piemonte 08.07.1999, n. 19 e all’art. 34 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti; carenza e/o insufficienza di istruttoria e di motivazione; contraddittorietà; illogicità; sviamento, viene lamentata l’erroneità della sentenza per aver ritenuto che l’edificio sarebbe stato realizzato in totale difformità dalla concessione edilizia, essendo state introdotte delle variazioni essenziali al progetto approvato, sia in merito alla supposta “diversa localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza” sia in relazione alle altre difformità essenziali che il ricorrente non avrebbe adeguatamente contestato.
2.1. - La doglianza non può essere condivisa.
In relazione al primo punto, la variazione contestata riguarda il tema della diversa localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza, che diventa variazione essenziale, a norma della l.r. Piemonte, 08.07.1999, n. 19 che, all’art. 6 “Determinazione delle variazioni essenziali al progetto approvato”, comma 1, lett. d), considera tale la “modifica della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza, quando la sovrapposizione della sagoma a terra dell'edificio in progetto e di quello realizzato, per effetto di rotazione o traslazione di questo, sia inferiore al 50 per cento”.
Il tema in esame, visto che non vi è contestazione sulle dimensioni dell’immobile e sulla sua reale collocazione, riguarda le modalità di computo della “sagoma a terra”, atteso che, in ragione delle due diverse interpretazioni proposte, viene rispettato o meno il limite della sovrapposizione inferiore al 50 per cento.
In dettaglio, se la nozione di “sagoma a terra” corrisponde alla nozione di sagoma in generale, ossia quella per cui è “la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso orizzontale e verticale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti” (Cons. Stato, Sez. VI, 15.03.2013 n. 1564) oppure se debba avere una nozione diversa, per cui “la sagoma a terra è rappresentata dalla linea di contorno dell’edificio nel punto di intersezione tra le strutture verticali di esso (muri) e la linea di spiccato (intersezione della superficie naturale o sistemata del terreno con la superficie della facciata). Nella sagoma a terra non rientra viceversa la proiezione ideale degli elementi aggettanti della copertura che debordano rispetto ai muri perimetrali e che possono essere rilevanti ai fini delle distanze rispetto ai confini ed alle costruzioni finitime”.
Va evidenziato come la nozione di “sagoma a terra” appare presente in diverse disposizioni regionali, proprio in tema di individuazione delle variazioni essenziali (si tratta delle leggi regionali Sardegna, 03.07.2017, n. 11; Lazio, 11.08.2008, n. 15; Liguria, 06.06.2008, n. 16; Piemonte, 08.07.1999, n. 19; Lazio, 02.07.1987 n. 36; Sardegna, 11.10.1985 n. 23), senza che però vi sia una definizione del concetto stesso.
Al contrario, come ha evidenziato anche il primo giudice, vi è una definizione espressa, sia perché consolidata in giurisprudenza sia perché ora trasfusa in un testo normativo, del concetto di “sagoma”, che corrisponde a quella precedente evocata (come ripresa da ultimo da Cons. Stato, VI, 20.11.2017 n. 5319) ossia “la conformazione planivolumetrica della costruzione, ossia il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio nella sua struttura fuori terra (esclusa, quindi, la parte interrata), ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”, che è stata sostanzialmente recepita nel “Quadro delle definizioni uniformi” di cui all’allegato A alla Intesa 20.10.2016, “ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4, comma 1-sexies del decreto del d.P.R. 06.06.2001, n. 380”, dove è definita “Conformazione planivolumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali, nonché gli aggetti e gli sporti superiori a 1,50 m''.
Pertanto, la nozione di sagoma è di carattere più comprensivo, rendendo evidente il quadro dimensionale totale del manufatto in quanto, includendovi aggetti e sporti, ne considera l’ingombro in senso lato.
In questo senso, non si può non concordare con il primo giudice sulla necessità di dare un significato al puntuale riferimento alla “sagoma a terra” come un concetto diverso da quello della semplice “sagoma”, che altrimenti non avrebbe alcuna utilità autonoma. La conseguenza è che quindi, correttamente, il primo giudice ha ritenuto che nella nozione di "sagoma a terra" non rientrasse la proiezione ideale degli elementi aggettanti della copertura che debordano rispetto ai muri perimetrali e che possono essere rilevanti ai fini delle distanze rispetto ai confini ed alle costruzioni finitime.
Pertanto, la doglianza va respinta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.07.2019 n. 5087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' pacifica la giurisprudenza sulla inesauribilità del potere di ripristino dell’ordine edilizio violato.
Invero, “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino
”.
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3. - Con il secondo motivo di diritto, intitolato “violazione di legge in relazione all’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti; carenza e/o insufficienza di istruttoria e di motivazione”, viene lamentata la mancata considerazione di due diversi profili illustrati nel ricorso in prime cure: la mancanza di una motivazione rafforzata in considerazione del fatto che l’intervento abusivo è stato realizzato trent’anni addietro e la mancata valutazione delle osservazioni presentate dal ricorrente nel procedimento.
3.1. - La censura è infondata.
Al riguardo, va osservato come il primo giudice abbia correttamente richiamato in materia la pacifica giurisprudenza sulla inesauribilità del potere di ripristino dell’ordine edilizio violato, facendo perno sulle affermazione contenute nella recente sentenza di questo Consiglio (Cons. Stato, ad.plen., 17.10.2017 n. 9): “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Evidenziando come il detto principio, riferito a “un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo”, si attagliasse perfettamente al caso in specie, il TAR ha integralmente e condivisibilmente risposto alle censure proposte.
4. - L’appello va quindi respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.07.2019 n. 5087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPiù volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che i limiti di edificabilità riconducibili alle “zone bianche” hanno per loro natura carattere provvisorio e che è preciso obbligo dell’amministrazione di colmare prontamente ogni lacuna verificatasi nell’ambito della pianificazione urbanistica, dettando per tali zone una nuova disciplina urbanistica.
Peraltro, a ratione un siffatto obbligo non richiede l’indefettibile iniziativa di parte, ma va ricondotto al novero degli adempimenti attivabili d’ufficio, in quanto risponde al pubblico e generale interesse la definizione di un razionale e ordinato assetto del territorio.
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Va precisato che vi sono due tipologie di “zone bianche”: quelle ab origine e quelle successive.
Le
zone bianche ab origine sono quelle non considerate dal P.R.G. (o P.U.G.), per scelta pianificatoria iniziale, diretta ed espressa, che rimanda al futuro ogni più precisa determinazione, benché l’art. 7, comma 1, legge 17.08.1942 n. 1150 preveda che il piano regolatore generale debba considerare la totalità del territorio comunale. Sono invero note nella prassi, soprattutto ma non solo con riferimento alle pianificazioni degli anni Sessanta e Settanta, e possono riguardare territori molto vasti, o a particolare conformazione orografica, o altre situazioni motivatamente considerate.
In tal caso non v’è un dovere da parte del Comune di procedere alla tipizzazione edilizia in tempi predefiniti, applicandosi la regola prevista, di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il “Testo unico in materia edilizia” (già art. 4, ultimo comma, legge 28.01.1977 n. 10), che prevede una limitata utilizzabilità a fini edificatori.
Le zone bianche successive, invece, sono quelle che, già considerate dal P.R.G. (o P.U.G.) nella scelta pianificatoria come zone sulle quali gravi l’imposizione del vincolo espropriativo, a seguito della parziale attuazione o della scadenza del periodo temporale di validità del vincolo, hanno perso una siffatta connotazione.
La giurisprudenza ha chiarito che la cessazione di efficacia di un piano attuativo, in tutto o in parte non eseguito, non rende l’area interessata priva di alcuna disciplina urbanistica, bensì detta area diviene soggetta ex nunc alle prescrizioni provvisorie (e restrittive per il privato), di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In sostanza, l’area soggetta a un vincolo espropriativo oramai decaduto (zona bianca successiva) va interinalmente, fino alla nuova c.d. ritipizzazione, ad opera di variante urbanistica, considerata come un’area non pianificata (zona bianca ab origine).
Difatti, la decadenza del vincolo imposto sull’area del privato ha carattere espropriativo e comporta il venir meno della disciplina urbanistica concernente le aree interessate e l’applicazione temporanea della disciplina delle c.d. zone bianche.
Per cui, medio tempore, il Comune non è esentato dall’obbligo di provvedere a dettare una nuova disciplina urbanistica, mediante spesso una variante specifica, oppure anche una variante generale.
Poiché i limiti di edificabilità riconducibili alle “zone bianche” c.d. successive hanno, per quanto fin qui apprezzato, un carattere provvisorio o, rectius, interinale, ossia temporaneamente vigente tra il regime edilizio cessato e il regime edilizio da individuarsi ex novo, l’Amministrazione comunale ha l’obbligo di provvedervi con sollecitudine, seppure previa adeguata istruttoria, colmandosi in tal modo la lacuna verificatasi nell’ambito della pianificazione urbanistica.
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1.- Con ricorso depositato in data 13.05.2019, gli istanti proprietari di un suolo nell’abitato di Andria (in catasto al foglio n. 31, particella 3550, già parte della particella 1840), in un contesto cittadino urbanizzato, ricadente in parte in zona B3.4 di completamento e in parte in zona per la viabilità, impugnavano il provvedimento soprassessorio del Comune di Andria come in epigrafe descritto, con il quale gli Uffici comunali comunicavano di non poter concludere il procedimento di c.d. richiesta di ritipizzazione, rimandando a data futura e incerta ogni ulteriore determinazione in merito.
...
4.2.- In secundis, va detto che più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che i limiti di edificabilità riconducibili alle “zone bianche” hanno per loro natura carattere provvisorio e che è preciso obbligo dell’amministrazione di colmare prontamente ogni lacuna verificatasi nell’ambito della pianificazione urbanistica, dettando per tali zone una nuova disciplina urbanistica (TAR Puglia, sez. I, 06.05.2008 n. 1079; TAR Puglia, sez. Lecce, sez. I, 10.06.2011 n. 1040).
Peraltro, a ratione un siffatto obbligo non richiede l’indefettibile iniziativa di parte, ma va ricondotto al novero degli adempimenti attivabili d’ufficio (Cons. St., sez. V, 28.12.2007 n. 6741), in quanto risponde al pubblico e generale interesse la definizione di un razionale e ordinato assetto del territorio.
Va però precisato che vi sono due tipologie di “zone bianche”: quelle ab origine e quelle successive.
4.2.1.- Le zone bianche ab origine sono quelle non considerate dal P.R.G. (o P.U.G.), per scelta pianificatoria iniziale, diretta ed espressa, che rimanda al futuro ogni più precisa determinazione, benché l’art. 7, comma 1, legge 17.08.1942 n. 1150 preveda che il piano regolatore generale debba considerare la totalità del territorio comunale. Sono invero note nella prassi, soprattutto ma non solo con riferimento alle pianificazioni degli anni Sessanta e Settanta, e possono riguardare territori molto vasti, o a particolare conformazione orografica, o altre situazioni motivatamente considerate.
In tal caso non v’è un dovere da parte del Comune di procedere alla tipizzazione edilizia in tempi predefiniti, applicandosi la regola prevista, di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il “Testo unico in materia edilizia” (già art. 4, ultimo comma, legge 28.01.1977 n. 10), che prevede una limitata utilizzabilità a fini edificatori (TAR Abruzzo, sez. Pescara, sez. I, 06.10.2009 n. 580; Cons. St., sez. IV, 28.06.2005 n. 3437).
4.2.2.- Le zone bianche successive, invece, sono quelle che, già considerate dal P.R.G. (o P.U.G.) nella scelta pianificatoria come zone sulle quali gravi l’imposizione del vincolo espropriativo, a seguito della parziale attuazione o della scadenza del periodo temporale di validità del vincolo, hanno perso una siffatta connotazione (TAR Puglia, sez. III, 07.12.2011 n. 1861).
La giurisprudenza (TAR Puglia, sez. III, 07.03.2013 n. 346; Cons. St., sez. V, 28.12.2007 n. 6741) ha chiarito che la cessazione di efficacia di un piano attuativo, in tutto o in parte non eseguito, non rende l’area interessata priva di alcuna disciplina urbanistica, bensì detta area diviene soggetta ex nunc alle prescrizioni provvisorie (e restrittive per il privato), di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In sostanza, l’area soggetta a un vincolo espropriativo oramai decaduto (zona bianca successiva) va interinalmente, fino alla nuova c.d. ritipizzazione, ad opera di variante urbanistica, considerata come un’area non pianificata (zona bianca ab origine).
Difatti, la decadenza del vincolo imposto sull’area del privato ha carattere espropriativo e comporta il venir meno della disciplina urbanistica concernente le aree interessate e l’applicazione temporanea della disciplina delle c.d. zone bianche (TAR Puglia, sez. III, 07.12.2011 n. 1861).
Per cui, medio tempore, il Comune non è esentato dall’obbligo di provvedere a dettare una nuova disciplina urbanistica, mediante spesso una variante specifica, oppure anche una variante generale (TAR Puglia, sez. III, 10.12.2014 n. 1514; TAR Puglia, sez. III, 07.03.2013 n. 346).
4.3.- Nel caso di specie, in verità –come sopra anticipato– sono proprio gli atti del Comune di Andria, precedenti al provvedimento soprassessorio impugnato, che hanno dato espressamente atto dell’esistenza di un vincolo espropriativo imposto sulla proprietà dei ricorrenti, che è risultato a posteriori non più utile, né utilizzabile ai fini di pubblica utilità, per come inizialmente pianificato.
Né vale la considerazione che, nel caso di specie, trattasi di zona destinata alla viabilità, perché non solo riguarda parte e non tutta la particella in proprietà dei ricorrenti, parte della quale infatti ricade in zona di completamento, ma anche perché la giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 19.02.2013 n. 1021) ha ascritto i vincoli urbanistici di destinazione a strada pubblica nel novero dei vincoli espropriativi, nella misura in cui riguardino determinati terreni e non già intere zone del territorio comunale.
5.- Pertanto, nella fattispecie concreta, sussiste un classico caso nel quale è necessario provvedere ad una nuova tipizzazione, in modo tale che venga chiarito il regime proprietario edilizio, non potendo imporsi sine die ai titolari di beni immobili, che hanno il diritto di godere e di disporre della proprietà (art. 832 codice civile), seppure nei limiti (negativi) e con l’osservanza degli obblighi (positivi) stabiliti dall’ordinamento giuridico, una situazione d’incertezza protratta nel tempo.
Per meglio dire, a fronte di una precisa istanza del privato, il procedimento –anche quello riguardante gli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione (TAR Puglia, sez. I, sentenza 06.05.2008 n. 1079)– è, ai sensi dell’art. 2, della legge 07.08.1990 n. 241, soggetto al dovere di conclusione in forma espressa.
Poiché i limiti di edificabilità riconducibili alle “zone bianche” c.d. successive hanno, per quanto fin qui apprezzato, un carattere provvisorio o, rectius, interinale, ossia temporaneamente vigente tra il regime edilizio cessato e il regime edilizio da individuarsi ex novo, l’Amministrazione comunale ha l’obbligo di provvedervi con sollecitudine, seppure previa adeguata istruttoria, colmandosi in tal modo la lacuna verificatasi nell’ambito della pianificazione urbanistica.
6.- In conclusione, il Comune di Andria non può adottare un mero atto soprassessorio, nelle fattispecie nelle quali è doveroso procedere alla ripitizzazione della particella, come nel caso di specie.
Ergo, il ricorso va accolto nei termini sopra esposti e, quindi, va annullato il provvedimento gravato e dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione comunale di adottare il provvedimento richiesto in forma espressa. Una volta chiarito l’obbligo di provvedere del Comune e annullato l’atto di diniego (sia pure a carattere soprassessorio), sarà onere dell’Amministrazione locale procedere alle successive incombenze alla stessa precipuamente riservate.
Resta tuttavia salvo il giudizio di ottemperanza alla presente sentenza, da attivarsi appositamente, nel caso di persistente inerzia o elusione (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 19.07.2019 n. 1053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo delle altezze e piano di posa del fabbricato.
La giurisprudenza civile è concorde nell’affermazione del principio secondo cui quando, al fine di stabilire le distanze legali tra costruzioni sporgenti dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti, queste devono essere determinate con riferimento al piano di posa, che è quello dell'originario piano di campagna e non la quota di terreno sistemato.
Lo stesso Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che la tesi di far derivare la quota del piano di campagna dalle scelte progettuali e non –come invece logico e naturale– dallo stato di fatto del terreno, tende a dare un’interpretazione capziosa della nozione di “opere di sistemazione” del terreno che sono non tutte quelle scelte dal progettista, ma quegli interventi di minima entità necessari a conformare il terreno alla futura attività edilizia (dissodamento, livellamento e interventi analoghi), ma non certo ad alterarne la caratteristiche naturali; altrimenti, si perverrebbe alla conclusione assurda che lo stacco dell’edificio dal terreno non sia ancorato a dati certi ed obiettivi, ma a scelte arbitrarie ed insindacabili del proprietario dell’immobile
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.07.2019 n. 5034 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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9.1. Il Comune, con il terzo motivo e i controinteressati, con il terzo motivo, lett. b), censurano l’argomentazione sostenendo che:
   a) il giudice, pur condividendo l’applicabilità del testo previgente dell’art. 22 cit. ne ha dato una interpretazione che ne svuota il significato, posto che, poiché in entrambe le previsione c’è l’espressione “piano naturale”, finisce con il ritenere che piano naturale sia sempre quello di fatto e toglie ogni rilievo all’innovazione consistente nell’eliminazione del riferimento allo stato di progetto;
   b) che, invece, per la normativa preesistente si dovesse fare riferimento allo stato di progetto, trova conferma nella relazione alla modifica, dove l’innovazione è ricondotta alla situazione attuale laddove prima rilevava lo stato di progetto; e, calcolando la distanza sulla base dell’altezza dallo stato di progetto risulterebbe superiore alla distanza minima da rispettare.
9.2. La censura va rigettata.
Il primo giudice, pur considerando applicabile l’art. 22 preesistente, ha dato correttamente rilievo al piano naturale del terreno rilevante ai fini del calcolo delle distanze in entrambe le disposizioni. Invero, la modifica apportata si spiega proprio con l’esigenza –che traspare dalla relazione illustrativa- di espungere il riferimento al “piano di progetto”, che aveva ingenerato abusi facendo dipendere la quota del piano di campagna dalle scelte progettuali.
Testualmente, la relazione alla modifica dell’art. 22 recita: <<Questa norma…deve essere nuovamente modificata, nel senso che l’altezza di ciascun fronte sia riferita alla quota del terreno nella sua situazione attuale e non di progetto, al contrario della norma vigente. E’ in atto infatti un’applicazione distorta –innalzamenti anomali delle quote di progetto dei terreni rispetto alle situazioni attuali– che produce anch’essa peggioramenti evidenti della qualità del tessuto urbano>>. La norma sopravvenuta, più che innovare, quindi, si pone come conferma della corretta interpretazione della disposizione precedente che, per la sua formulazione, aveva dato luogo ad abusi.
9.2.1. Si deve aggiungere che una diversa interpretazione, quale quella sostenuta dagli appellanti, contrasterebbe con una giurisprudenza consolidata di questo Consiglio e della Corte di Cassazione.
La giurisprudenza civile, infatti, è concorde nell’affermazione del principio, secondo cui, quando, al fine di stabilire le distanze legali tra costruzioni sporgenti dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i criteri per la misurazione delle altezze dei fabbricati frontistanti, queste devono essere determinate con riferimento al piano di posa, che è quello dell'originario piano di campagna e non la quota di terreno sistemato (ex multis, Cass. civ. Sez. II, n. 4497 del 2014, n. 6058 del 2006).
Questo Consiglio (sez. IV, n. 2579 del 2009), ha avuto modo di precisare che la tesi di far derivare la quota del piano di campagna dalle scelte progettuali e non –come invece logico e naturale– dallo stato di fatto del terreno, tende a dare un’interpretazione capziosa della nozione di “opere di sistemazione” del terreno, che sono non tutte quelle scelte dal progettista, ma quegli interventi di minima entità necessari a conformare il terreno alla futura attività edilizia (dissodamento, livellamento e interventi analoghi) ma non certo ad alterarne la caratteristiche naturali. Altrimenti, si perverrebbe alla conclusione assurda che lo stacco dell’edificio dal terreno non sia ancorato a dati certi ed obiettivi, ma a scelte arbitrarie ed insindacabili del proprietario dell’immobile.

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza della Corte di cassazione e di questo Consiglio è univoca nell’affermazione dei principi, secondo cui:
   a) i balconi vanno considerati ai fini della determinazione del calcolo delle distanze, essendo unica la nozione di costruzione agli effetti dell'art. 873 cod. civ., che non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, neanche al limitato fine del computo delle distanze legali;
   b) un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem.
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10. Il Tar ha accolto il ricorso anche in riferimento alla mancata considerazione dei balconi nella sagoma al fine del calcolo delle distanze tra gli edifici.
Ha così essenzialmente argomentato:
   a) ai fini del calcolo delle distanze tra edifici, vanno considerati i balconi ed in particolare quelli dell’edificio del ricorrente in applicazione dei principi civilistici, non derogati dal Regolamento comunale per detto profilo;
   b) secondo la nozione civilistica di costruzione è pacifico che i balconi, costituiti da solette aggettanti anche se scoperti ed anche se non corrispondono a volumi abitativi, rientrano nel concetto di costruzione per il quale occorre il rispetto delle distanze tra edifici;
   c) la circostanza che l’articolo 21 del regolamento comunale esclude i balconi dalla definizione di sagoma planovolumetrica non implica che gli stessi non debbano essere presi in considerazione ai fini della distanza tra edifici;
   d) la definizione civilistica di costruzione non risulta derogata espressamente dall’articolo 21, che esclude i balconi soltanto dalla nozione di sagoma planovolumetrica, senza a dire nulla per quanto concerne le distanze;
   e) né sussistono altre indicazioni esplicite in senso contrario nell’articolo 29 dello stesso regolamento edilizio, che disciplina specificamente le distanze con riferimento al concetto di sagoma planovolumetrica solo in materia di distanze dal confine, ma non richiama detto concetto nella disciplina delle distanze tra edifici.
10.1. Gli appellanti (il Comune con il quarto motivo e i controinteressati con il terzo) censurano la sentenza: - da un lato perché l’art. 34 del regolamento, che disciplina la distanza minima tra edifici, richiama espressamente l’art. 21, che esclude dalla sagoma i balconi; - dall’altro rilevano che l’art. 34, non considerato dal giudice, non è stato oggetto di impugnazione.
10.2. Le censure sono infondate e vanno rigettate.
10.2.1. La giurisprudenza della Corte di cassazione e di questo Consiglio è univoca nell’affermazione dei principi, secondo cui:
   a) i balconi vanno considerati ai fini della determinazione del calcolo delle distanze, essendo unica la nozione di costruzione agli effetti dell'art. 873 cod. civ., che non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, neanche al limitato fine del computo delle distanze legali (ex plurimis, Cass. civ., Sez. 2 , Ord. n. 23843 del 2018; Sent. n. 19530 del 2005; n. 17089 del 2006; da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 5307 del 2018);
   b) un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem (Cass. civ., Sez. 2, sent. n. 5594 del 2016; n. 5741 del 2008) e va disapplicato, se non impugnato (Cons. Stato, sez. IV, n. 5759 del 2011; n. 354 del 2013).
10.2.2. Nella fattispecie, l’esclusione dei balconi dalla definizione di sagoma nell’art. 21 del regolamento e il richiamo dello stesso articolo nell’art. 34, che disciplina le distanze tra gli edifici, costituiscono una illegittima deroga posta dal regolamento comunale alla disciplina legale non derogabile. Mentre, la mancata diretta impugnazione dell’art. 34, da parte dell’originario ricorrente, non può giovare agli odierni appellanti, stante la pacifica possibilità di disapplicazione.
Né può avere alcun rilievo la circostanza, dedotta dagli appellanti, che dal lato del confine sud/ovest l’edificio progettato non ha balconi, ma logge, posto che non è messo in discussione che, come rilevato dal primo giudice, i balconi sono presenti nell’edificio del signor Ma. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.07.2019 n. 5034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo principi consolidati, “le risultanze catastali non fanno piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti reali, … in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento depositati”.
Invero, fin dalla legge istitutiva del catasto del 01.03.1886 n. 3682, le iscrizioni catastali non hanno valore di piena prova ai fini del riconoscimento della proprietà dei beni immobili, tanto che “nel contrasto tra intestazione catastale e prova giuridica dell'acquisto del diritto di proprietà, quest'ultima deve prevalere”.
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Secondo principi consolidati, infatti, “le risultanze catastali non fanno piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti reali, … in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento depositati” (TAR Marche, Ancona, sez. I, 06.11.2017, n. 840).
Invero, fin dalla legge istitutiva del catasto del 01.03.1886 n. 3682, le iscrizioni catastali non hanno valore di piena prova ai fini del riconoscimento della proprietà dei beni immobili, tanto che “nel contrasto tra intestazione catastale e prova giuridica dell'acquisto del diritto di proprietà, quest'ultima deve prevalere” (Corte Cost., 21.03.2012 n. 61; in tale senso anche Cass. n. 27296 del 05.12.2013 n. 27296, ai sensi della quale la mera intestazione catastale di un bene non costituisce un titolo di proprietà sul quale fondare l’azione di rivendica).
Ne consegue che a fondamento della pretesa del ricorrente non risulta addotto alcun principio di prova giuridicamente rilevante.
Giova in proposito osservare che nel processo amministrativo vale il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., secondo il quale spetta al deducente fornire la dimostrazione dei fatti posti a fondamento della propria domanda (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 18.07.2019 n. 3965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza consolidata i gazebo vanno considerati come manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico.
Ne consegue per l’area in questione
(in contiguità con la Reggia di Caserta) il necessario rispetto della disciplina a cui la medesima risulta assoggettata. Più specificamente, la presenza di vincoli impone il rilascio del preventivo parere della Soprintendenza.
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6.2. – Quanto alla necessità di preventiva acquisizione del parere della Soprintendenza, come rilevato nella relazione dell’amministrazione depositata in atti a seguito del disposto riesame, la via oggetto di controversia è compresa nella perimetrazione del centro di interesse storico, attesa la sua contiguità con la Reggia di Caserta e, su tale area, il sig. Fa. ha apposto un gazebo senza ottenere la preventiva autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Per giurisprudenza consolidata i gazebo vanno considerati come manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, V, 01.12.2003, n. 7822; sez. VI, sent. 6382 del 12.12.2012).
Ne consegue per l’area in questione il necessario rispetto della disciplina a cui la medesima risulta assoggettata. Più specificamente, la presenza di vincoli impone il rilascio del preventivo parere della Soprintendenza (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 18.07.2019 n. 3965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento delle barriere architettoniche e distanze.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali casi la previsione di cui all’articolo 9 del D.M. 1444/1968, atteso che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 79 del D.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’articolo 873 c.c.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.07.2019 n. 1659 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor Fr.Ru. impugna:
   a) il provvedimento a firma del Dirigente S.U.E. del comune di Milano in data 15.12.2017 PG n. 578406/2017, con il quale si sospendono le opere in corso presso la proprietà dello stesso, ubicata in Milano, via ... n. 3;
   b) l’articolo 86, comma 4, del Regolamento Edilizio del comune di Milano;
   c) la determina dirigenziale 13.12.2017 citata nel provvedimento impugnato.
2. In punto di fatto, il ricorrente deduce:
   a) di essere invalido del lavoro con percentuale del 35%, di avere 73 anni e di risiedere con la moglie settantenne al quarto piano della palazzina posta in via ...;
   b) di presentare la S.C.I.A. del 16.11.2017 relativa a lavori di realizzazione di un ascensore esterno che serva l’intero stabile e garantisca una più agevole accessibilità al proprio appartamento;
   c) di voler realizzare l’impianto di sollevamento nel rispetto delle prescrizioni tecniche di cui al D.M. 236 del 14.06.1989, garantendo l’eliminazione delle barriere architettoniche per l’accesso all’abitazione;
   d) di intendere realizzare un servoscala per garantire l’accesso all’abitazione stante l’impossibilità per ragioni tecniche di far fermare l’ascensore ai piani.
2.1. L’Amministrazione ordina la sospensione dei lavori e preannuncia l’emanazione della revoca del titolo abilitativo evidenziando il contrasto della S.C.I.A. con la previsione di cui all’articolo 86.4 del Regolamento Edilizio e la non accessibilità dell’ascensore ai livelli di piano.
...

13. Passando al ricorso per motivi aggiunti, il Collegio osserva come lo stesso sia fondato.
13.1. Il punto di partenza per un’interpretazione della normativa vigente che tenga conto dei valori involti è costituito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 04.07.2008, che chiarisce come: “
in relazione al contenuto dei diritti costituzionalmente riconosciuti ai disabili, si deve ritenere […] che la legislazione in loro favore (specie LL. 09.01.1989 n. 13 e 05.02.1992 n. 104), oltre ad innalzare il livello di tutela personale, ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi degli handicappati, assunti come nodi dell'intera collettività, per esempio a proposito della costruzione di nuovi edifici e della ristrutturazione di quelli preesistenti, intese ad eliminare comunque le barriere architettoniche, indipendentemente dal più o meno probabile utilizzo da parte dell'invalido”.
13.2. Secondo la costante giurisprudenza “
l’installazione di un ascensore rientra fra le opere dirette ad eliminare le barriere architettoniche, di cui all’art. 27, comma 1, della legge 03.03.1971, n. 118, e all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384 […] (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14384 del 29/07/2004)” (Cassazione civile, sez. VI, 09.03.2017, n. 6129).
Del resto,
secondo la normativa nazionale, si intendono per barriere architettoniche (ai sensi dell'articolo 2, lettera A), punti a) e b), D.M. 14.06.1989 n. 236) “gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea”, ovvero “gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti”.
Tra tali ostacoli devono, quindi, annoverarsi “le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di "disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche (Consiglio di Stato, sez. VI, 05.03.2014, n. 102).
13.3. Inoltre,
ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R. n. 380/2001, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi la previsione di cui all’articolo 9 del D.M. 1444/1968.
Ed è, invero, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 79 del D.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’articolo 873 c.c. (cfr. TAR per il Lazio, sede di Latina, 22.09.2014, n. 726).
13.4. Nel caso di specie, la funzione di abbattimento delle barriere è comunque assolta dall’ascensore che la parte ricorrente intende realizzare atteso che lo stesso preserva lo stesso dal disagio, connesso all’età e alla pur parziale invalidità, di dover percorrere quattro piani di scale.
Come evidente dalle indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, la disciplina della l. 13 del 1989 rappresenta un modello di riferimento per conformare tutti gli spazi secondo caratteristiche che ne consentano l’utilizzo anche da parte di soggetti disabili senza necessità che l’intervento edilizio de quo sia subordinato all’effettiva e comprovata fruizione da parte di un portatore di handicap.
Inoltre, la circostanza che, allo stato, l’ascensore realizzi l’accessibilità al solo quarto piano non pare poter precludere la realizzazione dell’opera tenuto conto della funzione comunque assolta dalla stessa e della possibilità di realizzare in futuro meccanismi per l’integrale accessibilità a tutti i piani dell’edificio.
13.5. In definitiva, il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Controinteressato in caso di impugnativa dell’ordine di demolizione.
Nel caso di impugnativa dell'ordine di demolizione, va considerato che, di norma, non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Tuttavia, l’assolutezza di siffatto orientamento è temperata e precisata dalla considerazione che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma (solo) a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato; per cui in sede di impugnazione di un’ordinanza di demolizione di abusi edilizi deve ritenersi contraddittore necessario il soggetto che abbia provveduto a segnalare l’abuso e il cui diritto di proprietà risulti direttamente leso dall’opera edilizia della cui demolizione si tratta.
Così qualificata la posizione di vantaggio che deve caratterizzare il denunziante affinché costui assurga al rango di litisconsorte necessario, è palese come essa non sia surrogabile dal generico interesse vantato da un qualsiasi vicino di casa, bensì occorre che l’interesse faccia capo proprio a quel soggetto, denunciante nel procedimento amministrativo, il cui diritto di proprietà (ovvero, come può estensivamente ritenersi, un altro diritto reale di godimento) risulti direttamente leso da un'opera edilizia abusiva (di cui, in esito a quel procedimento, l’Amministrazione ordini la demolizione).
In altri termini, è controinteressato in senso tecnico (soltanto) colui il quale, oltre ad essere contemplato nel provvedimento, riceva (rispetto a un proprio diritto reale) direttamente un vantaggio dal diniego del titolo abilitativo o dall'attività repressiva dell'amministrazione; si tratta, insomma, di soggetto che sia direttamente danneggiato dall'esecuzione di opere edilizie abusive, il quale ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà (ovvero reale) leso dalla edificazione sine titulo o comunque illegittima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.07.2019 n. 1658 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Monguzzo n. 1 del 30.06.2018 (registro generale n. 10), notificato in data 02.07.2018, che ingiunge alla stessa (nella sua qualità di comproprietaria del mappale 1939) di provvedere alla demolizione e rimozione del manufatto accessorio ivi insistente, nonché al ripristino dello stato originale dei luoghi entro il termine perentorio di giorni 90.
1.1. Il provvedimento impugnato è relativo ad un manufatto di mq 30 che si sviluppa su un unico piano fuori terra, le cui dimensioni sono pari a 5.50 m. x 5.60 mt., con un’altezza massima al colmo dell’intradosso di 2.35 mt., ed un’altezza dell’imposta dell’intradosso di 1.85 mt.
...
7. Osserva, preliminarmente, il Collegio come l’eccezione di inammissibilità formulata dal signor Conti sia fondata pur con le precisazioni che seguono.
7.1. La signora Ci. non può ritenersi propriamente un controinteressato. Infatti,
in linea con le più recenti acquisizioni giurisprudenziali, il riconoscimento della qualifica di controinteressato in senso tecnico (ossia di litisconsorte necessario) è subordinato alla sussistenza di due elementi: uno di carattere formale ossia, ai sensi dell’articolo 41 c.p.a., la sua espressa menzione nel provvedimento impugnato; ed uno sostanziale, ossia la titolarità di un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato (cfr., Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2017, n. 2416).
7.2.
Nel caso di impugnativa dell'ordine di demolizione, va considerato che, di norma, non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 06.06.2011, n. 3380; Id., sez. V, 03.07.1995, n. 991).
7.3.
L’assolutezza di siffatto orientamento è temperata e precisata dalla considerazione che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma (solo) a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato (Consiglio di Stato, 04.09.2012, n. 4684).
Con tale sentenza il Consiglio di Stato afferma, infatti, il principio per cui “
in sede di impugnazione di un’ordinanza di demolizione di abusi edilizi deve ritenersi contraddittore necessario il soggetto che abbia provveduto a segnalare l’abuso e il cui diritto di proprietà risulti direttamente leso dall’opera edilizia” della cui demolizione si tratta.
Così qualificata la posizione di vantaggio che deve caratterizzare il denunziante affinché costui assurga al rango di litisconsorte necessario, è palese come essa non sia surrogabile dal generico interesse vantato da un qualsiasi vicino di casa, bensì occorre che l’interesse faccia capo proprio a quel soggetto, denunciante nel procedimento amministrativo, il cui diritto di proprietà (ovvero, come può estensivamente ritenersi, un altro diritto reale di godimento) risulti direttamente leso da un'opera edilizia abusiva (di cui, in esito a quel procedimento, l’Amministrazione ordini la demolizione).
In altri termini,
è controinteressato in senso tecnico (soltanto) colui il quale, oltre ad essere contemplato nel provvedimento, riceva (rispetto a un proprio diritto reale) direttamente un vantaggio dal diniego del titolo abilitativo o dall'attività repressiva dell'amministrazione. Si tratta, insomma, di soggetto che sia direttamente danneggiato dall'esecuzione di opere edilizie abusive, il quale ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà (ovvero reale) leso dalla edificazione sine titulo o comunque illegittima (cfr., in termini, Consiglio di Stato, sez. VI, 29.05.2012, n. 3212; Id., sez. VI, 29.05.2007, n. 2742).
7.4. Pertanto,
la qualità di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze solo indirette o riflesse), ma unicamente a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Altrimenti detto, a radicare la condizione di controinteressato in senso tecnico (ossia di litisconsorte necessario nell’azione di annullamento), secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale […], non può ritenersi sufficiente la c.d. vicinitas –pur potendo essa integrare il presupposto fattuale della legittimazione ad agire che, in questa materia, è infatti riconosciuta a “chiunque”– occorrendo invece la sussistenza di una diretta lesione, attuale o almeno potenziale, della proprietà (o di altro diritto reale di godimento) del terzo menzionato nell’atto per aver dato impulso con la sua denunzia al procedimento sanzionatorio
(Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2017, n. 2416).
Non sembra, in effetti, affatto incongruente che non vi sia una biunivoca corrispondenza tra legittimazione ad agire per l’annullamento di un titolo edilizio illegittimo e qualità di litisconsorte necessario nel giudizio per l’annullamento di un provvedimento sanzionatorio; sia perché la più ampia legittimazione attiva deriva, nel primo caso, da una precisa scelta del legislatore (che, a maggior garanzia del corretto assetto urbanistico, ha inteso estendere tale legittimazione a “chiunque” versi in condizione di oggettivo interesse a perseguire la realizzazione e il mantenimento di tale assetto); sia perché, con riguardo alla seconda ipotesi, un indiscriminato ampliamento del novero dei litisconsorti necessari dal lato passivo (ferma ovviamente restando, invece, la più estesa facoltà di intervenire volontariamente nel giudizio ad opponendum in capo a chiunque altro vi abbia interesse) si risolverebbe in un correlativo restringimento, quantomeno fattuale, della possibilità di agire utilmente in giudizio da parte del destinatario del provvedimento sanzionatorio, e dunque in un’indiretta limitazione del diritto di difesa in giudizio dei propri diritti e interessi, costituzionalmente garantito (cfr., ancora, Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2017, n. 2416).
La posizione di controinteresse processualmente rilevante non deriva solo dal fatto che il procedimento sanzionatorio sia stato innescato dalla denuncia del terzo, ma dal fatto che dal ripristino dello stato dei luoghi sortisca un vantaggio diretto, ovverosia un positivo ampliamento della sfera giuridica del denunciante.
7.5. Declinando i principi esposti al caso di specie si osserva come la signora Ci. non deduca un interesse diretto connesso alla necessità di demolizione dell’opera. Al contrario, la lesione prospettata in sede procedimentale si sostanzia nel pregiudizio derivante da immissioni ritenute contrarie alla normale tollerabilità che certamente abilitano il proprietario al ricorso agli appositi rimedi civilistici ma non lo rendono contraddittore necessario in un giudizio avente ad oggetto l’ordinanza di demolizione della res da cui tali esalazioni promanano.
Pertanto, nel caso di specie, la signora Ci., pur indicata nel provvedimento finale dell’Amministrazione, non può ritenersi controinteressata. Ne consegue che debbono ritenersi inammissibili le difese svolte con la memoria depositata in giudizio atteso che la parte avrebbe dovuto, piuttosto, provvedere alla notificazione di un atto di intervento (omessa nel caso di specie).
8. In ogni caso, osserva il Collegio come le difese articolate dalla signora Ciceri non colgano nel segno.
8.1. Come evidenziato dalla Sezione nell’ordinanza n. 1314 del 2018, la questione centrale oggetto del giudizio risiede nella verifica dell’integrale difformità dell’opera rispetto al manufatto originariamente edificato in epoca antecedente al 01.09.1967. Sul punto, il provvedimento impugnato osserva che “il manufatto visibile nelle foto scattate anteriormente all’anno 1967 è totalmente difforme per tipologia e consistenza da quello attualmente edificato… ed è stato completamente sostituito dall’attuale edificio in legno di forma e consistenza completamente diversa”.
Ne consegue che, nel caso di specie, non assumono rilievo le deduzioni in ordine alla necessità di un titolo edilizio nel territorio comunale già prima del 01.09.1967, trattandosi di questione estranea al contenuto del provvedimento e, come tale, aliena dal thema decidendum.
8.2. Inoltre, il provvedimento impugnato non indica, in modo analitico le divergenze tra l’originario edificio e l’attuale manufatto, né tale giudizio può essere svolto sulla base delle risultanze processuali fornite dalla controinteressata atteso che le stesse non sono poste a fondamento del provvedimento impugnato dal signor Conti.
8.3. Inoltre, va considerato che,
seppure secondo una consolidata giurisprudenza “incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono risultare “obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 02/10/2013 n. 814)” (così, da ultimo, TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. III, 30/05/2018, n. 3549; cfr, inoltre, TAR per la Campania – sede di Napoli Sez. IV, 19.10.2016, n. 4774; TAR per il Lazio, sede di Latina Sez. I, 15/06/2016, n. 391; TAR per la Campania, sede di Napoli Sez. II, 27.11.2014, n. 6118; Cons. St., sez. IV, 06.08.2014 n. 4208; Cons. St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3414), opportunamente il Consiglio di Stato ammette “un temperamento nel caso in cui, da un lato, il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, stante comunque il dovere dell'autorità che adotta l'ingiunzione di demolizione di verificare in maniera adeguata la sussistenza dei presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3177).
Nel caso di specie, il privato produce, comunque, della documentazione fotografica da cui risulta la realizzazione del manufatto in epoca antecedente al 1967 e la datazione di tali riproduzioni non risulta contestata dall’Amministrazione né viene eseguito un approfondimento istruttorio tradottosi nella motivazione del provvedimento impugnato che, al contrario, difetta di indicazioni analitiche sul punto.
8.4. In ragione di quanto esposto, sussistono i vizi di istruttoria e di motivazione del provvedimento impugnato che deve, pertanto, essere annullato, fatte salve le eventuali ulteriori determinazioni dell’Amministrazione comunale.

URBANISTICACostituisce principio pacifico in giurisprudenza che la parte grafica del piano urbanistico costituisce completamento e chiarimento della parte normativa; di conseguenza, la parte grafica deve essere interpretata conformemente alla parte normativa in modo da conciliare le due parti; solo nel caso di insanabile contrasto la parte normativa prevale.
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Con il dodicesimo motivo d’impugnazione il ricorrente lamenta un’asserita difformità tra la parte normativo – deliberativa e la parte grafica di Piano.
La censura è infondata.
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza che la parte grafica del piano urbanistico costituisce completamento e chiarimento della parte normativa; di conseguenza, la parte grafica deve essere interpretata conformemente alla parte normativa in modo da conciliare le due parti; solo nel caso di insanabile contrasto la parte normativa prevale (cfr., ex multis, TAR Ancona, Sez. I, 27.09.2010, n. 3305; Cons. Stato, Sez. IV, 27.03.1995, n. 207; TAR Catania, Sez. I, 10.04.2015, n. 1062; Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.1998, n. 1520).
Nel caso all’esame la parte grafica e la parte normativa del piano sono suscettibili di una lettura che ne concilia i contenuti, sicché non ricorre alcun insanabile contrasto tra le medesime (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 17.07.2019 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI: Nelle procedure d'appalto indette dagli enti locali spetta al dirigente il compito di adottare il provvedimento di esclusione dalla gara.
La competenza ad adottare il provvedimento di esclusione dal procedimento di gara spetta al dirigente, ai sensi dell'art. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL).
Rientra infatti tra i compiti dei dirigenti l'adozione degli atti di gestione delle procedure di appalto, essendo riservata alla Giunta comunale, ai sensi dell'art. 48 del TUEL, l'adozione degli atti, diversi da quelli di gestione, spettanti agli organi di governo
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 16.07.2019 n. 4997 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATACon riguardo ad un organismo edilizio autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività.
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
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L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".

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Le caratteristiche dell’opera realizzata abusivamente, ovvero manufatto di circa mq. 70,00 con pali e travi in legno, copertura in legno, grondaia perimetrale e tegole sovrastanti, integrano gli estremi di un organismo edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, come destinato a soddisfare esigenze di carattere permanente ed abitativo; trattasi di nuova costruzione che, in quanto ha inciso sul tessuto urbanistico ed edilizio, va ricondotta al genus delle opere esterne che necessitano di Permesso di costruire esplicito, nella fattispecie mancante.
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Dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario dell’immobile oggetto di intervento abusivo, sebbene non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Invero, l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime può lasciare indenne il proprietario estraneo all’esecuzione delle opere abusive solo quando questi, nel rispetto dei doveri di diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari di cui è titolare, si sia adoperato con i mezzi previsti dall’ordinamento per impedire la realizzazione degli abusi edilizi o per agevolarne la rimozione.
In definitiva, in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
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La stipulazione del contratto di locazione se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e del godimento dell'immobile, non fa affatto venire meno in assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull'entità immobiliare locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i profili, di vigilanza sull'immobile.

Sotto il profilo edilizio,
se è giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza dell'abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario ne sia stato notiziato.
Essendo indubbio
, quindi, che a partire da una certa data o da un certo momento la proprietaria era venuta ben a conoscenza dell'abuso edilizio realizzato sulla sua proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all'effetto sanzionatorio di cui all'art. 31 del testo unico dell'edilizia della demolizione o dell'acquisizione come effetto della inottemperanza all'ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all'abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell'attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa.
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Perché vi siano misure concretanti le "azioni idonee" ad escludere l'esclusione di responsabilità o la partecipazione all'abuso effettuato da terzi, prescindendo dall'effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore ("che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell'abuso"), al fine di evitare l'applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell'abuso, prevede che l'opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l'abuso (risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale, diffide ad eliminare l'abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.
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E' orientamento consolidato e condiviso dal Collegio, in ordine all’interpretazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che nella motivazione dell’ordine di demolizione deve essere ricompresa l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la precisa individuazione, per il tramite dei confini, degli estremi catastali o di altri indicatori tratti dalla conservatoria dei registri immobiliari, dei beni e dell’estensione di superficie destinati ad essere gratuitamente acquisiti al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, perché tale elemento afferisce all’eventuale successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale.
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Il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus.
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare.
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1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 31 del DPR n. 380/2001 in ragione della propria estraneità all’abuso, nonché l’eccesso di potere e l’ingiustizia manifesta.
2. Il Collegio ritiene, ai fini della reiezione del ricorso, di evidenziare in via preliminare che, con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente, non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 04.02.2012, n. 227; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n. 693).
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase dell’accertamento dell’inottemperanza.
2.1 Non troverebbero ingresso neanche le censure di natura procedimentale, essendo orientamento della Sezione (cfr. n. 203/2014) che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
2.2 In ogni caso le caratteristiche dell’opera realizzata abusivamente, ovvero manufatto di circa mq. 70,00 con pali e travi in legno, copertura in legno, grondaia perimetrale e tegole sovrastanti, integrano gli estremi di un organismo edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, come destinato a soddisfare esigenze di carattere permanente ed abitativo; trattasi di nuova costruzione che, in quanto ha inciso sul tessuto urbanistico ed edilizio, va ricondotta al genus delle opere esterne che necessitano di Permesso di costruire esplicito, nella fattispecie mancante.
Nello specifico la proprietaria deve ritenersi passivamente legittimata rispetto all’ordine di demolizione, indipendentemente o meno dall’estraneità alla realizzazione dell’abuso; quanto alla sussistenza di elementi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta, parte ricorrente non ha fornito inequivocabile prova di assenza di condotta omissiva e di non conoscibilità dell’abuso.
Neanche soccorre al riguardo la circostanza che, successivamente all’accoglimento della misura cautelare, l’istante abbia ottenuto un provvedimento di sfratto esclusivamente per ragioni di morosità del conduttore dell’immobile, senza che al giudice ordinario investito di tale domanda fosse prospettata alcuna questione concernente l’abuso edilizio come asseritamente posto in essere dalla sig.ra Ol.Es..
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata, come nella specie, nei confronti del proprietario dell’immobile oggetto di intervento abusivo, sebbene non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
E’ appena il caso di precisare, a tale ultimo riguardo, che l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime, peraltro nella specie non ancora formalmente intervenuta, può lasciare indenne il proprietario estraneo all’esecuzione delle opere abusive solo quando questi, nel rispetto dei doveri di diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari di cui è titolare, si sia adoperato con i mezzi previsti dall’ordinamento per impedire la realizzazione degli abusi edilizi o per agevolarne la rimozione (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.01.2016 n. 358 e 30.03.2015 n. 1650; TAR Campania Napoli, Sez. III, 08.01.2016 n. 14; TAR Campania Napoli, Sez. II, 06.03.2014 n. 1360).
2.3 In definitiva si presta adesione all’orientamento giurisprudenziale (ex plurimis, Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n. 2211) secondo cui, in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e, segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
Ora, se nella specie può ammettersi la completa estraneità e ignoranza nel momento della realizzazione dell'abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell'abuso, non può invece negarsi la conoscenza da un dato momento, e quindi la sussistenza di doveri del proprietario, che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa dell'abuso realizzato.
Non vale ad escludere l'incombenza dei doveri di gestione dominicale la circostanza della stipulazione del contratto di locazione, in quanto tale negozio, se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità materiale e del godimento dell'immobile, non fa affatto venire meno in assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull'entità immobiliare locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo, sotto tutti i profili, di vigilanza sull'immobile (così Cassazione civile, sezione III, 27.07.2011, n. 16422).
Sotto il profilo edilizio, se è giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di ignoranza dell'abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario ne sia stato notiziato. Essendo indubbio, quindi, che a partire da una certa data o da un certo momento la proprietaria era venuta ben a conoscenza dell'abuso edilizio realizzato sulla sua proprietà, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all'effetto sanzionatorio di cui all'art. 31 del testo unico dell'edilizia della demolizione o dell'acquisizione come effetto della inottemperanza all'ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all'abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell'attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa.
2.4 Perché vi siano misure concretanti le "azioni idonee" ad escludere l'esclusione di responsabilità o la partecipazione all'abuso effettuato da terzi, prescindendo dall'effettivo riacquisto della materiale disponibilità del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del conduttore ("che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la cessazione dell'abuso", tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l'applicazione di una norma che, in caso di omessa demolizione dell'abuso, prevede che l'opera abusivamente costruita e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l'abuso (risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale, diffide ad eliminare l'abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.
2.5 Peraltro è orientamento consolidato e condiviso dal Collegio, in ordine all’interpretazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che nella motivazione dell’ordine di demolizione deve essere ricompresa l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la precisa individuazione, per il tramite dei confini, degli estremi catastali o di altri indicatori tratti dalla conservatoria dei registri immobiliari, dei beni e dell’estensione di superficie destinati ad essere gratuitamente acquisiti al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, perché tale elemento afferisce all’eventuale successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014 n. 3438; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 09.01.2015 n. 68; la giurisprudenza citata nell’ultima memoria difensiva depositata dalla difesa attorea, laddove letta nella sua interezza, è sostanzialmente in linea con il predetto insegnamento);
2.6 Per il resto il Collegio ritiene di far proprio quanto di recente ribadito dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; IV, 12.10.2016, n. 4205; 31.08.2016, n. 3750).
2.7 Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito da giurisprudenza costante: ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260, e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
3. In conclusione, chiarito che il provvedimento impugnato non è in contrasto con le previsioni di legge invocate da parte ricorrente, atteso che in siffatte ipotesi –per la natura vincolata del potere- non è configurabile alcun affidamento tutelabile all’effettuazione di un abusivo intervento edilizio, il ricorso deve essere rigettato per come infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 16.07.2019 n. 3921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'applicazione anche agli appalti sotto soglia del principio ex art. 95, c. 10, d.lgs. n. 50 del 2016, secondo cui gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera devono essere espressamente indicati in sede di offerta.
Il principio, fissato dall'art. 95, c. 10, d.lgs. n. 50 del 2016, secondo cui gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera devono essere espressamente indicati in sede di offerta, con la conseguenza che la mancata ottemperanza a tale obbligo legale comporta necessariamente l'esclusione dalla gara perché la loro omessa evidenziazione non è un'omissione formale, ma integra pienamente la violazione sostanziale della prescrizione di legge, è applicabile anche agli appalti sotto soglia, come nella specie in cui si controverte di un appalto sotto soglia europea privo di rilevanza transfrontaliera (procedura negoziata per l'affidamento in appalto della gestione del servizio nido comunale" con importo a base di gara di euro 190.974,85 comprensivo di iva al 5%), in quanto si applica la regola del precedente vincolante costituito dalle ordinanze nn. 1, 2 e 3 del 2019 della Adunanza Plenaria (CGARS, sentenza 16.07.2019 n. 683 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIOneri di sicurezza e costo manodopera negli appalti sotto soglia.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Oneri della sicurezza – Appalti sotto soglia – Espressa indicazione bell’offerta – Necessità.
Si applica anche agli appalti sotto soglia il principio, sancito dall’art. 95, comma 10, d.lg. n. 50 del 2016, secondo cui gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera devono essere espressamente indicati in sede di offerta, con la conseguenza che la mancata ottemperanza a tale obbligo legale comporta necessariamente l’esclusione dalla gara perché la loro omessa evidenziazione non è un’omissione formale, ma integra pienamente la violazione sostanziale della prescrizione di legge (1).
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   (1) Ha ricordato il Cga che la Corte di giustizia UE, sez. IX, 02.05.2019 C-309/18, e non ancora sulla rimessione delle A.P. nn. 1, 2 e 3 del 2019, si è pronunciata su una ordinanza di rimessione del Tar Lazio, e non ancora su quelle di rimessione dell’Adunanza plenaria, affermando che i principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come quella italiana, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto, sempre che tale condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici espressamente richiamata in detta documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa nazionale in materia entro un termine stabilito dall’amministrazione aggiudicatrice.
Il Cga ha altresì escluso che la circostanza che la questione pregiudiziale sia nuovamente pendente alla C. giust. UE a seguito di rimessione da parte delle citate ordinanze dell’Adunanza Plenaria, giustificano –almeno in questa causa- una sospensione del presente giudizio o una ulteriore rimessione alla Corte di giustizia con diversi pur possibili argomenti.
E, invero, in disparte la ragionevole prevedibilità dell’esito della prossima decisione della C. giust. UE sulla scorta del suo precedente del maggio 2019 sopra riportato, è tranciante la considerazione che nella specie si controverte di un appalto sotto soglia europea privo di rilevanza transfrontaliera (procedura negoziata per l'affidamento in appalto della gestione del servizio nido comunale con importo a base di gara di euro 190.974,85 comprensivo di iva al 5%), che esula dalle competenze della C. giust. UE e per il quale opera invece in pieno la regola del precedente vincolante costituito dalle citate ordinanze nn. 1, 2 e 3 del 2019 della Adunanza Plenaria (rese nella composizione della plenaria a quindici con la partecipazione di componenti del Cga), ordinanze che hanno già preso posizione sulla questione di diritto (CGARS, sentenza 16.07.2019 n. 683 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICARiduzione consumo di suolo, la Consulta boccia una norma della legge n. 31/2014 della Lombardia.
Illegittimo non consentire ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente

Con la sentenza 16.07.2019 n. 179 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia 28.11.2014, n. 31, recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”, nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge della Regione Lombardia 26.05.2017, n. 16 (recante «Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31»).
La Consulta ha bocciato la parte della suddetta norma in cui non consente ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente (commento tratto da www.casaeclima.com).
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Circa il rinvio alla Consulta ne davamo conto con l'AGGIORNAMENTO AL 28.12.2017.
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12.– Nel merito
le questioni aventi a oggetto l’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014, sono fondate.
12.1.– È utile premettere che la legge reg. Lombardia n. 31 del 2014 persegue innovative finalità generali, consistenti nell’orientare gli interventi edilizi prioritariamente verso aree già urbanizzate, degradate o dismesse e nel prevedere consumo di suolo esclusivamente se la riqualificazione e la rigenerazione di aree già edificate si dimostri tecnicamente ed economicamente insostenibile (art. 1).
Essa quindi, da un lato, traguarda le più recenti concezioni di territorio, considerato non più solo come uno spazio topografico suscettibile di occupazione edificatoria ma rivalutato come una risorsa complessa che incarna molteplici vocazioni (ambientali, culturali, produttive, storiche) e, dall’altro, è avvertita sul fatto che il consumo di suolo rappresenta una delle variabili più gravi del problema della pressione antropica sulle risorse naturali.
In quest’ottica la legge regionale si distingue per aver definito il suolo come «bene comune di fondamentale importanza per l’equilibrio ambientale, la salvaguardia della salute, la produzione agricola finalizzata alla alimentazione umana e/o animale, la tutela degli ecosistemi naturali e la difesa dal dissesto idrogeologico» (art. 1, comma 2).
La legge regionale quindi, nelle sue finalità generali, dimostra di inserirsi in un processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale.
Si tratta di una prospettiva che risulta, peraltro, conforme –come correttamente ricorda la difesa della Regione Lombardia– agli indirizzi espressi in sede europea fin dalla comunicazione della Commissione del 22.09.2006, “Strategia tematica per la protezione del suolo”, e più recentemente dall’approvazione del cosiddetto Settimo programma di azione per l’ambiente (decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20.11.2013).
Nell’attuazione delle suddette finalità, l’art. 2 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014 fornisce le definizioni di consumo di suolo e di rigenerazione urbana, prevedendo, al comma 2, che il piano territoriale regionale (PTR) «precisa le modalità di determinazione e quantificazione degli indici che misurano il consumo di suolo, validi per tutto il territorio regionale, disaggrega […] i territori delle [province e della città metropolitana] in ambiti omogenei, in dipendenza dell’intensità del corrispondente processo urbanizzativo ed esprime i conseguenti criteri, indirizzi e linee tecniche da applicarsi negli strumenti di governo del territorio per contenere il consumo di suolo».
12.2.– In questo quadro normativo si inseriscono le norme oggetto di censura, che disciplinano la fase transitoria volta ad adeguare gli strumenti di pianificazione territoriale stabiliti dalla legislazione lombarda ai criteri previsti per il perseguimento delle suddette finalità.
Nel periodo occorrente alla integrazione dei contenuti del piano territoriale regionale (PTR) e al successivo adeguamento dei piani territoriali di coordinamento provinciale (PTCP) e dei piani di governo del territorio (PGT), l’art. 5, comma 4, nel testo originario censurato, dispone che «i comuni possono approvare unicamente varianti del PGT e piani attuativi in variante al PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione planivolumetrica, morfologica, tipologica o progettuale delle previsioni di trasformazione già vigenti, per la finalità di incentivarne e accelerarne l’attuazione, esclusi gli ampliamenti di attività economiche già esistenti, nonché quelle finalizzate all’attuazione degli accordi di programma a valenza regionale».
L’ultimo periodo di tale disposizione stabilisce che «[f]ino a detto adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente».
Tale divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del documento di piano viene in ogni caso scandito, dalla ricordata disposizione, fino alla conclusione del processo di adeguamento, anche se poi effettivamente declinato secondo due diverse scadenze temporali: la prima prevista dal comma 6 assegnando ai privati il termine di trenta mesi per la presentazione delle istanze di attuazione del programma edificatorio; la seconda stabilita dal comma 9 per le ipotesi in cui a) entro il predetto termine di trenta mesi non siano stati presentati progetti da parte dei soggetti interessati alla realizzazione di un piano attuativo ovvero b) se presentati, non sia stata stipulata la relativa convenzione entro dodici mesi dall’approvazione. Anche in queste ultime due ipotesi, comunque, il Comune è vincolato al vigente documento di piano «sino all’esito del procedimento di adeguamento di cui al comma 3».
La sospensione della potestà di apportare modifiche ai contenuti edificatori del documento di piano viene quindi ad assumere, sul piano giuridico, un carattere temporalmente limitato ma indefinito nella sua ampiezza, risultando in ogni caso collegata –costituisce, infatti, una circostanza di mero fatto che i privati abbiano presentato l’istanza entro il termine di trenta mesi– al concretizzarsi del processo di adeguamento, per il quale i termini previsti dalla sequenza procedimentale individuata dalla legge regionale hanno carattere meramente ordinatorio. Del resto, come dichiarato dalla difesa della Regione, è solo con la pubblicazione avvenuta nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 11, serie avvisi e concorsi, del 13.03.2019 che è divenuta efficace la integrazione del PTR alla quale, invece, secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014, la Regione avrebbe dovuto provvedere entro dodici mesi dalla entrata in vigore della predetta legge.
12.3.– In questi termini la disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014 si pone in violazione del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali, e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al principio di sussidiarietà verticale.
La funzione di pianificazione urbanistica, infatti, come giustamente rileva il giudice rimettente, nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni fin dalla legge 25.06.1865, n. 2359 (Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica).
Tutta la complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale, non ha travolto questo presupposto di fondo, tanto che il legislatore nazionale ha qualificato, attuando il nuovo Titolo V della Costituzione, come funzioni fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, in legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario», convertito, con modificazioni, in legge 07.08.2012, n. 135).
Il legislatore statale ha quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un regime giuridico comune sottratto, per questo aspetto e salvo quanto si dirà in seguito, alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza.
12.4.– Se quindi la funzione di pianificazione comunale rientra in quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale, ciò non comporta, tuttavia, che la legge regionale non possa intervenire a disciplinarla, anche in relazione agli ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio (sentenza n. 378 del 2000).
Anche dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, questa Corte ha ribadito, con riguardo all’autonomia dei Comuni, che «essa non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 160 del 2016).
Non sono mancate occasioni, inoltre, in cui questa Corte ha anche espressamente escluso che «il “sistema della pianificazione” assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali– di prevedere interventi in deroga a tali strumenti» (sentenza n. 245 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2014).
La competenza concorrente in materia di governo del territorio, infatti, abilita fisiologicamente la legislazione regionale a intervenire nell’ambito di disciplina della pianificazione urbanistica; del resto, come correttamente ricorda la difesa della Regione e delle parti private, è la stessa norma che individua le funzioni fondamentali comunali a prevedere che rimangono ferme «le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione» (art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito).
12.5.– All’interno del delicato rapporto tra l’autonomia comunale e quella regionale, tuttavia, questa Corte ha avuto modo di precisare anche che «il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere» (sentenza n. 378 del 2000) e che la suddetta competenza regionale «non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni» (sentenza n. 83 del 1997).
Su questo piano, è quindi richiesto uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo temporale.
In questi casi, dove emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione, il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla «verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 286 del 1997).
Viene quindi in causa il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone.
Il giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti.
Si tratta allora di verificare se la norma di cui all’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014 sia proporzionata rispetto al tipo di interessi coinvolti, e in particolare, in questo caso, rispetto alle finalità affermate, su un piano più generale, dalla stessa legge regionale in cui la norma s’inserisce. Se infatti emergesse che la sottrazione ai Comuni della potestà pianificatoria, anziché costituire il minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale, si ponesse in contraddizione con questi ultimi, si dovrebbe concludere che la norma verrebbe illegittimamente a incidere sulla funzione fondamentale allocata dal legislatore statale al livello locale.
12.6.– A questo riguardo si deve riscontrare innanzitutto che il livello regionale è strutturalmente quello più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla pianificazione urbanistica locale: del resto proprio in questa direzione, come la Lombardia, si sono mosse anche altre Regioni, approvando leggi dirette a limitare il consumo del suolo.
Per questo profilo, quindi, lo scopo perseguito dal legislatore regionale rientra, senza dubbio, nell’ambito del legittimo esercizio della competenza regionale e di per sé appare compatibile con la pianificazione urbanistica locale.
D’altro canto, tuttavia, la norma impugnata, precludendo ogni modifica al documento di piano quand’anche di carattere riduttivo, e perciò volta a contenere il consumo di suolo, finisce per paralizzare la potestà pianificatoria del Comune al di là di quanto strettamente necessario a perseguire l’obiettivo, e anzi in contraddizione con quest’ultimo.
La suddetta norma impugnata, come si è visto, viene a bloccare diacronicamente la potestà pianificatoria comunale, incidendo su uno dei suoi elementi più rilevanti proprio ai fini del fenomeno che si vorrebbe limitare; è, infatti, il documento di piano, che contiene le scelte più significative ai fini della trasformazione del territorio: le destinazioni d’uso, gli indici edificatori e le aree soggette a trasformazione (art. 8 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
Poco rileva, a tal fine, quanto evidenzia la difesa delle parti private, ovvero che, secondo la disciplina regionale, anche nel periodo transitorio, i Comuni rimangono comunque liberi di modificare il piano delle regole e il piano dei servizi del PGT.
Rimane fermo, in ogni caso, che cristallizzando i contenuti edificatori del documento di piano, la norma impugnata viene a sottrarre all’ente locale la possibilità di esprimere un nuovo indirizzo politico amministrativo diretto, sia pure, alla riduzione del consumo di suolo.
È ben vero quanto ancora afferma la difesa delle stesse parti, ovvero che la norma censurata “non sceglie al posto” dei singoli Comuni lombardi, sostituendo cioè direttamente una specifica e diversa decisione regionale a quelle che questi hanno assunto, bensì produce solo l’effetto di mantenerli coerenti alla pianificazione territoriale che questi stessi hanno, in un determinato momento e fino all’entrata in vigore della legge regionale, compiuto.
Tuttavia, se da un lato è corretto affermare che, anche da questo punto di vista, i Comuni non vengono completamente spogliati di una loro funzione fondamentale, dall’altro è evidente che la norma impugnata, all’interno della complessiva funzione di pianificazione urbanistica comunale, ne ritaglia uno specifico contenuto, quello della potestas variandi e la sottrae ai Comuni, ritenendoli inidonei a svolgerla in nome di una esigenza di esercizio unitario rispondente a non ben definiti interessi generali.
Incidendo sul principio di inesauribilità della funzione di pianificazione urbanistica, la norma regionale priva quindi l’ente locale di una quota rilevante della suddetta funzione fondamentale, che, al di là di letture minimalistiche, è diretta, secondo l’orientamento ormai uniforme della giurisprudenza amministrativa, non solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 09.05.2018, n. 2780, 22.02.2017, n. 821 e 10.05.2012, n. 2710).
La rigidità insita nella norma censurata è quindi tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (che peraltro, in astratto, potevano anche provenire da maggioranze politiche locali diverse da quelle poi in carica), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale e quindi coerenti con queste.
In sostanza, l’enunciato censurato, cristallizzando le scelte urbanistiche in vigore al momento dell’intervento del legislatore regionale, paradossalmente, comporta un giudizio di inadeguatezza del Comune a esercitare la potestas variandi anche quando questo intenda svolgerla nella stessa direzione dei principi di coordinamento fissati dal legislatore regionale, ma “in anticipo” rispetto alla prevista applicazione a regime.
La sola giustificazione a fondamento dell’esercizio unitario regionale della quota di funzione sottratta ai Comuni sembra allora essere quella –affermata dalla difesa regionale e da quella privata– di tutelare l’affidamento dei soggetti coinvolti al mantenimento di determinate previsioni urbanistiche. Tuttavia nemmeno tale argomento è dirimente all’interno del giudizio di proporzionalità, anzi si dimostra palesemente inconferente perché in materia urbanistica tale affidamento è normalmente ritenuto tutelabile, dalla giurisprudenza amministrativa, solo a fronte di convenzioni già stipulate (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 12.05.2016, n. 1907 e 07.11.2012, n. 5665, oltre alle pronunce richiamate supra); la norma in questione, invece, verrebbe a garantirlo in un momento molto anteriore rispetto a quello in cui matura un’aspettativa qualificata al mantenimento della destinazione urbanistica.
Nella valutazione di proporzionalità deve essere considerata, inoltre, la durata della sottrazione della
potestas variandi che la norma censurata impone ai Comuni: questa, come si è visto, non è assistita da un termine certo e congruo; il periodo della sottrazione risulta, infatti, in ultima analisi rimesso, per effetto del combinato disposto dei commi 4 e 9 dell’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014, alla discrezionalità della Regione nell’approvare l’adeguamento del PTR.
Infine, occorre anche considerare che a fronte della suddetta limitazione, che rende i Comuni meri esecutori di una valutazione compiuta dal livello di governo superiore, non viene prevista a favore dei primi alcuna possibilità di una motivata interlocuzione con il secondo, in contrasto con quanto questa Corte ha affermato in ordine alla necessità di «garantire agli stessi forme di partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia» (sentenza n. 126 del 2018).
Nemmeno, da ultimo, può acquistare consistenza l’argomento addotto dalla difesa della Regione in ordine alla necessità di “fotografare” la situazione pianificatoria comunale, al fine di procedere con il PTR a indicare le soglie di riduzione assegnate ai singoli Comuni; dirimente al riguardo è quanto affermato dalla difesa dell’ANCI: quando lo stesso legislatore regionale, modificando la disciplina transitoria con la legge reg. Lombardia n. 16 del 2017, ha eliminato il vincolo di immodificabilità delle previsioni espansive del documento di piano, si è dimostrato per tabulas che per l’integrazione del piano regionale non era né necessario, né rilevante conservare immutate le previsioni dei piani comunali.
12.7.– Si deve quindi concludere che
la norma impugnata non supera, ai sensi del legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato fondamentale dell’autonomia comunale.
Essa pertanto deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non consente ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato), nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge della Regione Lombardia 26.05.2017, n. 16, recante «Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato)», nella parte in cui non consente ai Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente;
   2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 9, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014, nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge reg. Lombardia n. 16 del 2017, sollevate, in riferimento agli artt. 5, 117, secondo comma, lettera p), e 118 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con l’atto indicato in epigrafe.

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza formatasi sull’art. 221 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (c.d. Testo unico delle leggi sanitarie) ha chiaramente evidenziato che la funzione della licenza di agibilità/abitabilità, e l’interesse pubblico cui essa ha riguardo, attengono solo ai profili della agibilità/abitabilità (tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza dell'edificio) e non anche al profilo urbanistico-edilizio.
Va inoltre sottolineato che –secondo consolidata giurisprudenza- la destinazione d'uso di fatto di un immobile è irrilevante.
In altri termini, la destinazione d'uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto; tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica dell'immobile.
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Il successivo certificato di abitabilità del 04.06.1981 (doc. 5 della produzione di parte ricorrente), che dichiara abitabili i locali del “fabbricato industriale (escluso l’alloggio a nord) sito in Via ...”, non ha quel valore che la ricorrente pretende di attribuirgli.
Ed invero, da un lato detto certificato contiene il medesimo errore già visto a proposito della nota sindacale datata 25.09.1979, prot. n. 7924, in quanto nel richiamare la concessione n. 1032 del 05.08.1977, il certificato esplicita (erroneamente, si ribadisce) che era stata originariamente assentita la costruzione di un “fabbricato industriale” (e non di un “complesso artigianale”, come avvenne effettivamente).
Dall’altro, la giurisprudenza formatasi sull’art. 221 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (c.d. Testo unico delle leggi sanitarie) ha chiaramente evidenziato che la funzione della licenza di agibilità/abitabilità, e l’interesse pubblico cui essa ha riguardo, attengono solo ai profili della agibilità/abitabilità (tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza dell'edificio) e non anche al profilo urbanistico-edilizio (arg. ex TAR Toscana, sez. III, 28.01.2014, n. 177; TAR Puglia, Bari, sez. II, 04.02.2003, n. 489; TAR Molise, 10.05.1995, n. 111).
Va inoltre sottolineato che –secondo consolidata giurisprudenza- la destinazione d'uso di fatto di un immobile è irrilevante (arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243).
In altri termini, la destinazione d'uso giuridicamente rilevante di un immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto; tale uso, quantunque si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione giuridica dell'immobile (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2013, n. 1712; TAR Valle d'Aosta, sez. I, 19.09.2013, n. 62)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum in giurisprudenza il principio che l’ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell’Amministrazione (che ben può optare per soluzioni diverse, senza alcun obbligo di specifica motivazione) e che un vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione, ovvero dell’impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di “accettazione” consensuale da parte della stessa Amministrazione.
Lo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non configura un diritto dell’operatore, ma una mera possibilità, per la quale occorre sempre il consenso e l’autorizzazione dell’Amministrazione; ne consegue che, in difetto di autorizzazione e di accordo espresso della P.A. sullo scomputo delle nuove opere, a destinazione variata, dall’ammontare degli oneri, l’operatore non dispone di alcuna pretesa tutelata diretta a portare in detrazione il valore delle suddette opere dal contributo di urbanizzazione dovuto.
Pertanto, ove nessun atto di assenso sia stato espresso in ordine allo scomputo degli oneri concessori dovuti, ovvero sulla possibile compensazione tra questi ultimi e le spese sostenute dalla ricorrente per la realizzazione delle opere (id est, in mancanza di accordo), la ricorrente è in ogni caso tenuta al pagamento integrale degli oneri concessori dovuti.

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3.1. Il motivo è infondato.
Costituisce ius receptum in giurisprudenza il principio che l’ammissione allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell’Amministrazione (che ben può optare per soluzioni diverse, senza alcun obbligo di specifica motivazione) e che un vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione, ovvero dell’impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di “accettazione” consensuale da parte della stessa Amministrazione (cfr. TAR Marche, sez. I, 01.10.2018, n. 631; TAR Campania, Salerno, sez. I, 15.12.2016, n. 2653; TAR Liguria, sez. I, 29.09.2016, n. 955).
Lo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non configura un diritto dell’operatore, ma una mera possibilità, per la quale occorre sempre il consenso e l’autorizzazione dell’Amministrazione; ne consegue che, in difetto di autorizzazione e di accordo espresso della P.A. sullo scomputo delle nuove opere, a destinazione variata, dall’ammontare degli oneri, l’operatore non dispone di alcuna pretesa tutelata diretta a portare in detrazione il valore delle suddette opere dal contributo di urbanizzazione dovuto (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 04.02.2019, n. 158; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 10.04.2018, n. 954).
Pertanto, ove nessun atto di assenso sia stato espresso in ordine allo scomputo degli oneri concessori dovuti, ovvero sulla possibile compensazione tra questi ultimi e le spese sostenute dalla ricorrente per la realizzazione delle opere (id est, in mancanza di accordo), la ricorrente è in ogni caso tenuta al pagamento integrale degli oneri concessori dovuti (arg. ex TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 07.07.2010, n. 16606).
La necessità di un atto di assenso della parte pubblica è peraltro confermata proprio dall’art. 86, primo comma, della legge regionale Veneto 27.06.1985, n. 61, richiamato dalla società ricorrente, secondo il quale il concessionario ha titolo allo scomputo totale o parziale della quota di contributo dovuta per gli oneri di urbanizzazione qualora, in luogo totale o parziale della stessa, si obblighi col Comune a cedere le aree e le opere di urbanizzazione già esistenti o da realizzare “con le modalità e le garanzie, di cui alla convenzione dell’art. 63”.
Sul punto il Tribunale ha chiarito che, ai fini di interesse, è <<[…] necessaria la previa stipulazione di una convenzione “completa”, vale a dire includente anche la dettagliata stima del costo delle opere di diretta realizzazione: evidente la ratio, volta a consentire al Comune la valutazione sulla convenienza dell’operazione e la congruità della spesa […]>> (cfr. TAR Veneto, sez. II, 28.05.2008, n. 1626).
Non avendo comprovato parte ricorrente l’atto di assenso comunale allo scomputo, la doglianza si rivela, per ciò solo, del tutto priva di base
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.07.2019 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Piano di caratterizzazione: può essere valutato e autorizzato solo dagli enti competenti.
L’avvio di un procedimento di bonifica, così come previsto dall’art. 242 del D.L.vo n. 152/2006, comporta la presentazione di un piano di caratterizzazione alle autorità competenti. Una diversa relazione, come ad esempio un "piano di lavoro", non può essere inteso quale sostitutivo di un piano di caratterizzazione che solo gli enti competenti possono valutare e autorizzare.
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3. Ciò chiarito, la doglianza difensiva non è fondata.
Il Gip ha affermato che, dalla nota dell'ARPAT del 03.10.2018, era emerso che -essendo state rilevate macchie blu e verdi sia su alcune balle che sul terreno con conseguente contaminazione del suolo da idrocarburi, che richiedeva l'avvio di un procedimento di bonifica ex articolo 242 del TUA con la presentazione di un piano di caratterizzazione- l'interessato, siccome era stato registrato il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC), avrebbe dovuto comunicare agli enti competenti entro un mese dalla data di campionamento il "piano di caratterizzazione" per la sua approvazione, e successivamente richiedere il dissequestro definitivo allo scopo di mettere in opera detto piano, smaltire o eventualmente recuperare i materiali costituenti le balle e mandare a ditte autorizzate i rifiuti da costruzione e demolizione per essere recuperati.
E' stato pertanto osservato che la relazione presentata dall'indagato (cd. "piano di lavoro") non poteva essere intesa quale sostitutiva di un piano di caratterizzazione che, invece, solo gli enti competenti possono valutare e autorizzare.
La motivazione è corretta.
L'articolo 242, commi 1, 2 e 3, d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, per quanto qui interessa, che, al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento deve mettere in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e deve darne immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.
Inoltre, il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, deve svolgere, nelle zone interessate dalla contaminazione, un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, è tenuto al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione.
Qualora, poi, l'indagine preliminare, di cui al comma 2 dell'articolo 242, accerti l'avvenuto superamento, come nella specie, delle CSC anche per un solo parametro, il responsabile dell'inquinamento deve darne immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate.
Nei successivi trenta giorni, deve presentare alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'allegato 2 alla parte quarta del decreto n. 152 del 2006. Entro i trenta giorni successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L'autorizzazione regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da parte della pubblica amministrazione.
Va poi ricordato che l'articolo 240 del d.lgs. n. 152 del 2006 contiene, alla lettera d), la nozione del sito potenzialmente contaminato, che definisce come "un sito nel quale uno o più valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di caratterizzazione e di analisi di rischio sanitario e ambientale sito specifica, che ne permettano di determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)".
Pertanto non ha alcun rilievo l'assunto del ricorrente, del tutto indimostrato, secondo il quale non sarebbe stato cagionato alcun danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.
Rileva invece che sono stati superati i livelli di contaminazione delle matrici ambientali ed il superamento dei valori comporta necessariamente la caratterizzazione del sito per cui, quando uno o più valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione (CSC), il piano di caratterizzazione deve essere necessariamente conseguito e senza di esso non può definirsi la procedura di bonifica ex articolo 242 TUA e neppure la stessa può essere correttamente avviata; tanto meno sono definibili le modalità e i tempi della rimessione in pristino del sito, risultando di conseguenza impossibile verificare una corretta attuazione della bonifica e tutto ciò esclude che possa essere disposto il dissequestro (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.07.2019 n. 30702).

EDILIZIA PRIVATAIncostituzionale il divieto di recinzione dei terreni agricoli che incide sulla facoltà proprietaria di chiudere il fondo previsto dalla legge regionale.
La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della disciplina regionale dell’Umbria che vieta, salve limitate deroghe strettamente necessarie alla protezione di edifici ed attrezzature funzionali anche per le attività zootecniche, la recinzione dei terreni. Con la previsione di un divieto di recinzione che non interviene su un aspetto specifico correlato al governo del territorio e che incide sulla facoltà di chiudere il fondo, attribuzione tipica del diritto di proprietà, il legislatore regionale ha travalicato i limiti della competenza concorrente in materia di governo del territorio e di quella statale in materia di ordinamento civile (Corte Costituzionale, sentenza 12.07.2019 n. 175).
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Edilizia e urbanistica – Regione Umbria – Zone agricole – Recinzione dei terreni – Limiti – Incostituzionalità.
E’ incostituzionale l’art. 89, comma 2, ultimo periodo, della legge della Regione Umbria 21.01.2015, n. 1 (Testo unico governo del territorio e materie correlate), nella parte in cui vieta, nelle zone agricole, ogni forma di recinzione dei terreni non espressamente prevista dalla legislazione di settore o non giustificata da motivi di sicurezza, purché strettamente necessaria a protezione di edifici ed attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche (1).
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   (1) I. – La sentenza in rassegna ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 89, comma 2, della legge regione Umbria per la parte in cui vieta, salve le limitate deroghe ammesse, ogni forma di recinzione dei terreni agricoli in assenza di specifiche previsioni della legislazione di settore o di esigenze di sicurezza pubblica.
La questione era stata rimessa dal Tar per l’Umbria, sez. I, ordinanza 08.10.2018, n. 521 (oggetto della News US in data 17.10.2018, cui si rinvia per i riferimenti di dottrina e giurisprudenza).
Il giudizio amministrativo a quo ha ad oggetto l’ordinanza comunale di demolizione di opere abusive, consistenti nella realizzazione di una recinzione elettrificata, come sistema difensivo dalla fauna selvatica, a delimitazione di terreni agricoli con impianto colturale a frutteto.
Nel dettaglio, l’opera consisteva in una recinzione estesa per circa 3 km senza soluzione di continuità, posta in area agricola non soggetta a vincolo paesaggistico e costituita da paletti metallici ad altezza massima di mt. 1,50 distanziati tra loro mt. 6 con 4 ordini di filo metallico elettrificato e 8 aperture di circa mt. 6 l’una; tali modalità costruttive erano descritte nell’ordinanza come idonee a consentire il normale passaggio di animali di piccole e medie dimensioni, fatta eccezione degli ungulati.
Il Tar per l’Umbria, ha sollevato q.l.c. –per contrasto con gli artt. 3, 42, 97 e 117, commi 2, lett. l), e 3, Cost.– del predetto art. 89, comma 2, nell’ipotesi in cui detta norma debba intendersi come diretta ad escludere l’ammissibilità dei sistemi di difesa passivi nei confronti degli animali selvatici. Il Collegio aveva evidenziato che:
      a) la recinzione è riconducibile alle manifestazioni del diritto di proprietà quando consista di materiale di scarso impatto visivo e si configuri come un intervento di dimensioni ridotte, privo di opere murarie di sostegno. In presenza di tali caratteristiche essa:
            a1) assolve una mera funzione di difesa della proprietà dalle ingerenze materiali;
            a2) è strumentale all’esercizio dello ius excludendi alios (Consiglio di Stato, sezione VI, 04.07.2014, n. 3408, in Foro amm., 2014, 7-8, 208), che si traduce nella facoltà di delimitare e di conferire l’assetto più opportuno alle singole proprietà, allo scopo di separarle dalle altre, di custodirle e di proteggerle da eventuali intrusioni;
      b) quando invece la recinzione, per le modalità costruttive prescelte, determini un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale e si atteggi, pertanto, come esercizio dello ius aedificandi, è indispensabile il previo rilascio di un idoneo titolo abilitativo;
      c) la distinzione tra esercizio dello ius excludendi alios ed esercizio dello ius aedificandi deve essere condotta alla stregua delle caratteristiche concrete del manufatto e dell’impatto che esso produce sul territorio (Consiglio di Stato, sezione VI, 12.06.2019, n. 3932, in www.dejure.it).
   II. – La Corte, con la sentenza in rassegna:
      d) ha ritenuto fondata nel merito la questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 2, ultimo periodo, della legge regionale di cui trattasi sulla base delle seguenti considerazioni:
         d1) la giurisprudenza amministrativa è costante nell’affermare che la facoltà di chiudere il fondo, attribuzione tipica del diritto di proprietà, può essere limitata e conformata dalle norme urbanistiche soltanto in funzione di preminenti interessi pubblici (Tar per la Lombardia-sezione staccata di Brescia, sezione I, 04.03.2015, n. 362, in www.dejure.it; Tar per il Piemonte, sezione II, 10.05.2012, n. 532, in Foro amm. TAR, 2012, 5, 1471; Tar per la Lombardia-sezione staccata di Brescia, sezione I, 05.02.2008, n. 40, in Foro amm. TAR, 2008, 2, 398);
         d2) nel caso di specie la Regione Umbria, nel vietare nelle zone agricole le recinzioni dei terreni con deroga per quelle strettamente necessarie a protezione di edifici ed attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche, ha dettato una previsione di valenza generale riconducibile all’ambito dei rapporti interprivati e di disciplina del contenuto del diritto di proprietà;
         d3) la previsione censurata: colpisce anche quelle recinzioni che non determinano alcuna trasformazione del territorio e sono espressione dello ius excludendi alios; incide sul potere del privato proprietario di chiudere il fondo in ogni tempo; esclude in via generale una facoltà che il codice civile considera, per contro, parte integrante del diritto di proprietà;
         d4) la previsione non interviene, dunque, su un aspetto specifico correlato al governo del territorio, ma limita un potere tradizionalmente oggetto di codificazione e si prefigge di regolarne il contenuto;
         d5) conseguentemente, il legislatore regionale ha travalicato sia la competenza legislativa esclusiva statale legiferando nella materia dell’ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato (Corte cost., 27.06.2013, n. 159, in Giur. costit. 2013, 3, 2327, con nota di MOSCARINI; Corte cost., 06.11.2001, n. 352, in Urbanistica e appalti, 2001, 12, 1297; Giur. costit., 2001, 6; Foro it. 2002, I, 638; Regioni, 2002, 579, con nota di LAMARQUE), sia la competenza concorrente in materia di governo del territorio, la quale riconosce la potestà regionale di dettare prescrizioni di dettaglio sugli interessi legati all’uso del territorio in conformità con i princìpi fondamentali enunciati dalla legislazione statale (Corte cost., 11.05.2017, n. 105, in www.federalismi.it, con nota di SALVAGO).
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      e) sulla ripartizione della potestà legislativa in materia di ordinamento civile, in aggiunta alle pronunce richiamate nell’ordinanza di rimessione, si vedano in particolare:
         e1) Corte cost., 21.03.2019, n. 62 (in Foro it., 2019, I, 1474), secondo cui è evidente la “riconducibilità della disciplina del lavoro pubblico contrattualizzato all’ordinamento civile e alla norma di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 che, a propria volta, rinvia alla contrattazione collettiva”, di competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. In senso analogo: Corte cost., 23.07.2018, n. 172 (in Foro it., 2018, I, 3814, con nota di richiami e osservazioni di D'AURIA), che ha, tra l'altro, dichiarato incostituzionale l'art. 55 l.reg. Siciliana 11.08.2017, n. 16, nella parte in cui includeva nell'ambito applicativo del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti della sanità il personale in posizione di comando presso l'agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa), attribuendo ad essa (in contrasto con la disciplina dell'art. 70, 12° comma, d.leg. 30.03.2001, n. 165, che prevede il rimborso all'amministrazione di appartenenza, da parte dell'amministrazione utilizzatrice, dell'onere relativo al trattamento fondamentale) l'obbligo di corrispondere il trattamento economico al personale di altre amministrazioni comandato presso la stessa agenzia;
         e2) Corte cost., 10.11.2017, n. 234 (in Rass. dir. farmaceutico 2017, 6, 1203 e Giur. costit. 2017, 6, 2367), che ha dichiarato incostituzionale la normativa della regione Umbria che estendeva le procedure concorsuali di stabilizzazione del personale precario del comparto sanitario —regolate a livello nazionale dal d.P.C.M. 06.03.2015— anche al personale dirigente del ruolo professionale, tecnico e amministrativo, in quanto detta normativa regionale legiferava, con fonte legislativa primaria, una materia, quella dell'ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato;
         e3) Corte cost., 13.07.2017, n 175 (in Giur. costit. 2017, 4, 1631 e Forum di Quaderni costituzionali, annotata da DE GOTZEN); Corte cost., 11.07.2017, n. 160 (in Foro it., 2017, I, 3577, con nota di richiami e Giur. costit. 2017, 4, 1476), che ha dichiarato incostituzionale l'art. 8, secondo comma, l.reg. Liguria n. 8 del 2016, nella parte in cui prevedeva che, qualora la seduta dell'assemblea consiliare regionale si protragga oltre le ore ventuno, al personale impegnato nell'attività di supporto diretto all'attività consiliare spettasse il trattamento previsto dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro in caso di trasferta e che il medesimo trattamento di trasferta venga riconosciuto al personale autista, anche in caso di missioni inferiori alle otto ore, se il servizio termina dopo le ore ventidue;
      f) sulla nozione di muro di cinta elaborata dalla giurisprudenza, si vedano, tra le altre:
         f1) Cons. Stato, sezione V, 08.04.2014, n. 1651 (in Foro amm., 2014, 1077), secondo cui “per muro di cinta, nella dizione contenuta nell'art. 4, 7º comma, lett. c), d.l. 05.10.1993 n. 398, conv. con modif. in l. 04.12.1993 n. 493, e sostituito per effetto dell'art. 2, 60º comma, l. 23.12.1996 n. 662, devono intendersi le opere di recinzione; non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà; ben diversa è invece la consistenza e la funzione dei c.d. «muri di contenimento», i quali si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la funzione, ma anche perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso e quindi devono necessariamente presentare una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive; di conseguenza il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche una concomitante funzione di recinzione, sotto il profilo edilizio è un'opera ben più consistente di una recinzione in quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla sua funzione principale; il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone sia la necessità del suo assoggettamento al regime concessorio, sia la legittimità della sanzione della demolizione prevista per il caso di assenza di concessione”;
         f2) Cass. civ., 03.09.1991, n. 9348 (in Foro it., Mass., 1991), secondo cui “il muro di cinta che a norma dell'art. 878, primo comma, c.c., non va considerato ai fini delle distanze, deve rispondere al triplice requisito: di essere essenzialmente destinato a recingere una determinata proprietà, allo scopo di separarla dalle altre, custodirla e difenderla da intrusioni; di non superare l'altezza di tre metri; di costituire un muro isolato, le cui facce, cioè, emergono dal suolo e sono isolate da ogni altra costruzione”;
         f3) Cass. civ., 15.11.1986, n. 6737 (in Foro it., Mass., 1986), secondo cui “i muri di cinta non considerati agli effetti delle distanze legali sono quei muri, caratterizzati dall'altezza non superiore a tre metri e dalla destinazione attuale alla delimitazione ed alla protezione del fondo, che, per avere le facce entrambe isolate, non creano intercapedine tra volumi; in detta categoria non rientrano pertanto i muri di cinta tra fondi a dislivello, che assolvono anche alla ulteriore funzione di contenere la scarpata o il terrapieno; questi viceversa, facendo corpo con il terreno che essi sostengono e modificando, in particolare, attraverso l'opera dell'uomo, lo stato naturale dei luoghi per la costruzione di un manufatto sono idonei a creare intercapedini nocive con l'altrui costruzione, con conseguente necessità di verificare in ciascuna concreta fattispecie se, avuto riguardo alle loro particolari caratteristiche strutturali e dimensionali, siano da considerare o meno alla stregua di un muro di fabbrica, agli effetti delle distanze legali”;
      g) sull’attività edilizia libera:
         g1) Corte cost. 08.11.2017, n. 232, in Foro it., 2018, 6230, 27; Riv. giur. ed., 2017, 5, I, 1021; Quotidiano Enti Locali, 2017; Giur. costit. 2017, 6, 2340, annotata da SAITTA: “È costituzionalmente illegittimo l'art. 3, comma 2, lett. f), l.reg. Sicilia 10.08.2016, n. 16, nella parte in cui consente di realizzare, senza alcun titolo abilitativo, tutti gli interventi inerenti agli impianti ad energia rinnovabile di cui agli artt. 5 e 6 d.lgs. 03.03.2011, n. 28 senza fare salvo il previo espletamento della verifica di assoggettabilità a VIA sul progetto preliminare, qualora prevista. […]”;
         g2) Corte cost., 21.12.2016, n. 282 (in Foro Amministrativo, 2017, 6, 1215), la quale ha precisato che le regioni possono sì estendere la disciplina statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒ la natura di principio fondamentale della materia del “governo del territorio”, in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni regionali (sentenza n. 231 del 2016, in Dir. e giustizia, 2016).
Ne consegue che è precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere da ogni forma di controllo, sia pure indiretto mediante denuncia.
Sulla base di tale premessa la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, nella parte in cui esso ha ricondotto all'edilizia libera opere non contemplate come rientranti in tale regime dalla legislazione statale;
      h) sul rapporto tra titolo edilizio, recinzioni e muretti divisori, anche in relazione al mutamento della destinazione funzionale dell’opera, si vedano:
         h1) C.g.a., sezioni riunite, 19.11.2018, n. 336 (in www.giustiziaamministrativa.it), secondo cui: “va ricordato il pacifico orientamento giurisprudenziale, secondo cui la valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo “ius excludendi alios” o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio […]”; in termini, Cons. Stato, sezione V, 09.04.2013, n. 1922 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 937);
         h2) Cons. Stato, sezione VI, 04.01.2016, n. 10 (in Comuni d'Italia, 2016, 1, 86), secondo cui “è illegittimo l'ordine di demolizione di un muretto divisorio in cemento armato posto su di un lato di un lotto di terreno realizzato senza la previa acquisizione del permesso di costruire, considerato che più che all'astratto genus o tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui fondi finitimi) occorre far riferimento all'impatto effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul territorio: con la conseguenza che si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie; sulla base di tale approccio attento al rapporto effettivo dell'innovazione con la preesistenza territoriale, e che prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per qualificare l'opus quale muro di recinzione (o altre simili), la realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui all'art. 22 d.p.r. n. 380 del 2001 e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo art. 19 l. n. 241 del 1990”;
         h3) Cass. pen., sez. III, 11.11.2014, n. 52040, secondo cui “in tema di reati edilizi, la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli «interventi di nuova costruzione» di cui all'art. 3, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001 (fattispecie relativa a muro in cemento armato avente spessore di cm. venticinque ed un'altezza di circa metri uno virgola ottanta)”;
         h4) Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4860 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2484), secondo cui “il titolo edilizio originariamente rilasciato, che riguardava la recinzione di un terreno a meri fini e scopi di difesa della proprietà, non può giustificare il successivo mutamento della destinazione funzionale dell'opera in recinzione di suolo trasformato con opere edilizie e al servizio di manufatti abusivi in difetto di nuovo titolo edilizio che, sia pure in sanatoria, possa legittimarne la permanenza e l'utilizzazione pertinenziale diversa, ma ne implica l'abusività, proprio perché è carente qualsivoglia provvedimento autorizzativo che ne abbia accertato la conformità urbanistico-edilizia”;
         h5) Cons. Stato, sez. V, 09.04.2013, n. 1922 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 937), secondo cui “il permesso di costruire non è necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno, in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo jus excludendi alios; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (nella specie, la recinzione era stata effettuata con un manufatto con profilati di cemento, lungo trecentoquarantasei metri e con un'altezza di metri due e cinquanta)”;
      i) in dottrina:
         i1) sugli aspetti penali delle opere a difesa della proprietà, e delle recinzioni in particolare, v. V. POLI, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 973 ss.;
         i2) sulle opere a difesa della proprietà e sulle recinzioni, v. P. BERESUTTI, in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN – TRABUCCHI, Padova, 2014, 875 e 915 ss.;
         i3) sugli appostamenti fissi per la caccia in relazione all’art. 6 t.u. edilizia (attività libera), si veda Corte cost., 13.06.2013, n. 139 (in Foro it., 2013, I, 2061, con nota di ROMBOLI; in Giurisdiz. amm., 2013, III, 441, e in Riv. giur. ambiente, 2013, 723, con nota di GRATANI; in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2014, 56, con nota di GORLANI);
         i4) sul rapporto tra facoltà del proprietario e poteri pubblici in materia urbanistica ed edilizia: F. GAFFURI, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, in Urbanistica e appalti, 2012, 2, 150; A. M. BENEDETTI, Norme regionali, distanze legali tra edifici e "ordinamento civile": si può fare, ma dipende dallo "scopo", in Corr. giur., 2013, 8, 1059-1063; G. PAGLIARI, M. SOLLINI, G. FARRI, Regime della proprietà privata tra vincoli e pianificazione dall'unità d'Italia ad oggi, in Riv. giur. edilizia, 2015, 6, 282; M. PALMA, Edilizia e urbanistica - il doppio limite di edificabilità ex art. 9, d.p.r. n. 380/2001 di fronte alla corte costituzionale, in Giur. it., 2016, 4, 956; L. GRIMALDI, Quali spazi per la legislazione regionale nella disciplina degli interventi di “manutenzione” degli immobili?, in Consulta on-line, I, 2017; A. IACOVIELLO, Il riparto della competenza legislativa tra lo Stato e le Regioni in materia di beni minerari, in Riv. giur. edilizia, 2018, 3, 153; G. SICCHIERO, Condominio e barriere architettoniche - dalla solidarietà costituzionale alla solidarietà condominiale, in Giur. it., 2018, 1, 69; E. BUOSO, La disciplina dei terreni gravati da usi civici e delle terre collettive tra paesaggio e ordinamento civile, in www.forumcostituzionale.it, 2019; S. AMOROSINO, Una rilettura costituzionale della proprietà a rilevanza urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 2019, 1, 3;
         i5) sul rapporto tra ordinamento civile e disciplina dei contratti pubblici: G. ALPA, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale, Contratto e impresa, 2002, 2, 597; G. ALPA, «L’ordinamento civile» nella recente giurisprudenza costituzionale, Contratti, 2004, 2, 175; E. GRAGNOLI, procedura negoziale ed ordinamento civile, Argomenti Dir. Lav., 2007, 2, 2009; L. TORMEN, Regioni e province autonome - «il diritto privato regionale: quali possibilità di deroga all’ordinamento civile statale?», in Nuova giur. comm., 2017, 7-8, 968; P. CARLUCCIO PINA, R. FINOCCHI GHERSI, Ordinamento civile e limiti alla competenza regionale nella disciplina degli appalti, in Giornale dir. amm., 2011, 4, 419; C. CONTESSA, Il codice dei contratti prevale anche sulla normativa delle regioni a statuto speciale, in Urbanistica e appalti, 2009, 3, 301;
         i6) sull’ordinamento civile e la disciplina regionale del procedimento amministrativo: V. NERI, Potestà legislativa regionale e "nullità regionale" del provvedimento amministrativo, in Urbanistica e appalti 2014, 2, 215, il quale ha dubitato della “possibilità per il legislatore regionale di intervenire con la sanzione della nullità del provvedimento amministrativo (il bando di gara) non rispettoso delle prescrizioni di legge senza violare la competenza statale in materia di "giustizia amministrativa" […] nonché sulle conseguenze della nullità del bando con riferimento al contratto a valle stipulato e l'eventuale interferenza con la materia «ordinamento civile»”;
         i7) sull’ordinamento civile e il pubblico impiego locale e regionale: A.M. BENEDETTI, Lavoro privato, lavoro pubblico e "ordinamento civile": quali spazi per le Regioni?, in www.giurcost.org, 2010; A. BOSCATI, Ordinamento civile per incarichi dirigenziali ad esterni e per procedure di mobilità tra enti, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 1203; F. GHERA, Ordinamento civile e autonomia regionale: alla ricerca di un punto di equilibrio, Giur. cost., 2011, 1164; G. FONTANA, Spunti critici in tema di ordinamento civile e disciplina dell'impiego pubblico, in Giur. costit., 2013, 1161; R. COCCIOLITO, Una pronuncia sulla mobilità dei dirigenti regionali offre lo spunto per riflettere ancora sulla natura e la portata della materia "ordinamento civile", in www.osservatorioaic.it, 2014; S. DE GOTZEN, Procedure di mobilità nel lavoro pubblico, assegnazione a mansioni superiori dirigenziali tra organizzazione regionale e "ordinamento civile", in www.forumcostituzionale.it, 2014; C. PADULA, Il riparto delle competenze legislative fra Stato e regioni in materia di pubblico impiego, in www.federalismi.it, 2017;
         i8) sull’attività edilizia libera e relativi limiti: D. CHINELLO, L’attività edilizia libera fra comunicazione al comune e relazione asseverata, in Immobili e proprietà, 2010, 7; L. BISORI, Attività edilizia libera e strumenti urbanistici applicabili, in Urbanistica e appalti, 2011, 7, 871; D. ZONNO, La “nuova” manutenzione straordinaria dopo il decreto sblocca-Italia, in Riv. giur. edilizia, 2014, 6, 53; M. BREGANZE, L'attività edilizia libera, in Riv. giur. urbanistica, 2015, 1; G. GUZZARDO; Semplificazioni e complicazioni nei titoli edilizi, Riv. giur. edilizia, 2015, 2, 35; E. BOSCOLO, I decreti attuativi della legge Madia: liberalizzazioni e ridisegno del sistema dei titoli edilizi, Riv. giur. edilizia, 2016, 6, 601; A. SENATORE, L’attività edilizia libera, in Urbanistica e appalti, 2017, 2, 278; G. RIZZI, L’attività di edilizia libera, in Immobili e proprietà, 2018, 7, 431; E. AMANTE, Ancora sui profili sostanziali e procedimentali dell’attività edilizia libera e della c.i.l.a., in Urbanistica e appalti, 2019, 2, 229 (Corte Costituzionale, sentenza 12.07.2019 n. 175).

APPALTISospensione del giudizio proposto avverso l'interdittiva antimafia se è stato nominato un amministratore giudiziario per il controllo della società.
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Informativa antimafia - Amministratore giudiziario - Nomina - Effetti.
Qualora sia stato nominato un amministratore giudiziario per il controllo della società per due anni, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, inserito dall’art. 11, comma 1, l. n. 161 del 2017, deve essere sospeso il giudizio proposto avverso l'interdittiva antimafia per tutto il periodo della misura del controllo giudiziario (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che ai sensi dell’art. 34-bis, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011, il provvedimento che dispone l’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 o il controllo giudiziario ai sensi del comma 6 dello stesso articolo sospende gli effetti di cui all’art. 94, derivanti dall’emissione del provvedimento antimafia.
Tale sospensione degli effetti interdittivi, quale conseguenza scaturente ex lege dal provvedimento che dispone il controllo giudiziario, comporta anche la sospensione del giudizio avente ad oggetto l’informativa antimafia.
Quindi, una volta disposto il controllo giudiziario, la sospensione degli effetti interdittivi conseguenti all’informazione antimafia deve operare indefettibilmente per tutto il tempo della misura del controllo giudiziario adottata dal Tribunale in sede di prevenzione (Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 10.07.2019 n. 4873 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fideiussione rilasciata da un soggetto che non è debitamente autorizzato ad operare nel territorio della Repubblica.
La presentazione di una fideiussione rilasciata da un soggetto che non è debitamente autorizzato ad operare nel territorio della Repubblica è equiparabile alla mancata prestazione della cauzione e non ad una semplice irregolarità della fideiussione presentata, in quanto l’extraterritorialità comporta che la garanzia risulti improduttiva di effetti, non potendo ex se valere nei confronti dello Stato o altro ente pubblico (fattispecie in tema di garanzia prestata per il pagamento rateale del contributo di costruzione) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.07.2019 n. 1585 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Il ricorso è infondato.
Ai sensi dall’art. 16 del DPR 380/2001 La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata (comma 2) e La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione (comma 3).
A sua volta la legge n. 348 del 1982 prevede, all’art. 1, che in tutti i casi in cui è prevista la costituzione di una cauzione a favore dello Stato o altro ente pubblico, questa può essere costituita in uno dei seguenti modi:
   a) da reale e valida cauzione, ai sensi dell'articolo 54 del regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, approvato con regio decreto 23.05.1924, n. 827, e successive modificazioni;
   b) da fidejussione bancaria rilasciata da aziende di credito di cui all'articolo 5 del regio decreto-legge 12.03.1936, n. 375, e successive modifiche ed integrazioni, ovvero da consorzi di garanzia collettiva dei fidi iscritti nell'albo degli intermediari finanziari, previsto dall'articolo 106 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, e sottoposti alla vigilanza della Banca d'Italia ai sensi dell'articolo 108 del medesimo testo unico;
   c) da polizza assicurativa rilasciata da imprese di assicurazione debitamente autorizzata all'esercizio del ramo cauzioni ed operante nel territorio della Repubblica in regime di libertà di stabilimento o di libertà di prestazione di servizi.
L’art. 2 prevede poi che diritti ed azioni, di cui godeva il creditore beneficiario della prestazione garantita da cauzione costituita in uno dei modi sopra detti, si trasferiscono in surrogazione a chi ha prestato la cauzione a seguito di inadempienza del debitore principale ed incameramento della cauzione.
L’art. 42, co. 2, del DPR 380/2001 prevede poi che "Il mancato versamento, nei termini stabiliti, del contributo di costruzione di cui all’articolo 16 comporta:
   a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;
   b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
   c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni…. 4. Nel caso di pagamento rateizzato le norme di cui al secondo comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole rate.
".
Se ne ricava che
la presentazione di una fideiussione rilasciata da un soggetto che non è debitamente autorizzato ad operare nel territorio della Repubblica è equiparabile alla mancata prestazione della cauzione e non ad un semplice irregolarità della fideiussione presentata, in quanto l’extraterritorialità comporta che la garanzia risulti improduttiva di effetti, non potendo ex se valere nei confronti dello Stato o altro ente pubblico, ai sensi della su indicata normativa; circostanza quest’ultima, del resto, non puntualmente contestata dalla ricorrente, che si limita a richiamare genericamente la prassi di altri enti locali, senza peraltro fornire elementi dettagliati in tal senso.
In merito, poi, all’addotta violazione del dovere di trasparenza dell’azione amministrativa, per non avere l’Amministrazione indicato alla ricorrente un termine di presentazione della nuova garanzia o la data entro cui provvedere al versamento della residua quota dovuta, in applicazione dei principi di soccorso istruttorio che diano modo al cittadino di rimediare ad errori o incomprensioni tramite la chiara enunciazione dei suoi obblighi, il Collegio osserva quanto segue.
Innanzitutto la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 778) ha chiarito che
mentre il rilascio della garanzia (nel caso che ne occupa fideiussoria) opera su un piano paritetico disciplinato dal diritto civile, la determinazione e la riscossione dei ratei tardivamente versati ha un connotazione pubblicistica, insita nel suo essere concepita per operare in un contesto nel quale si ha esercizio di una potestà sanzionatoria, e dunque comporta l’esigenza di osservare garanzie e formalità affatto diverse da quelle che soprassiedono all’attività negoziale. L’irrogazione delle sanzioni serve a rafforzare norme di condotta il cui rispetto appare essenziale per l’ordinato sviluppo del territorio ed assicurare la celere esecuzione delle opere di urbanizzazione destinate alla collettività (cfr., testualmente, art. 3 l. n. 47/1985).
Secondo Consiglio di Stato, Ad. Plen., 07.12.2016, n. 24, <<
Un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale>>.
Orbene, venendo al caso di specie, non è possibile ritenere che il Comune abbia violato l’obbligo del clare loqui, si voglia ancorarne il fondamento al dovere di trasparenza dell’azione amministrativa o trovarne la fonte nei canoni civilistici della correttezza e della buona fede nell’adempimento delle obbligazioni ed in sede di esecuzione contrattuale (artt. 1175 e 1375 cod. civ.).
Infatti la comunicazione del Comune è pervenuta alla ricorrente in data 13.09.2017, solo due giorni dopo la consegna della fideiussione, il cui controllo richiedeva evidentemente un approfondimento incompatibile con l’immediata reiezione della fideiussione presentata, e quindi in tempo ampiamente utile perché l’interessata vi rimediasse entro il termine di trenta giorni dal rilascio del permesso di costruire (termine che sarebbe scaduto il successivo 30 settembre).
Né occorreva specificare quale fosse tale termine, se è vero che in sede di richiesta del permesso di costruire la ricorrente aveva sottoscritto un modulo che recava la chiara indicazione “Modalità di versamento: … La proprietà si impegna inoltre a produrre, al Settore Sportello unico per l’Edilizia entro 30 giorni dalla data di emissione del permesso … le fidejussioni per le rateizzazioni del contributo di costruzione e dell’eventuale monetizzazione nel caso di pagamento in forma rateale … Si avvisa che la mancata presentazione delle fidejussioni entro il termine sopra indicato comporta: nel caso di fidejussioni per le rateizzazioni la non ammissione al pagamento in forma rateale e pertanto l’obbligo della corresponsione dell’intero importo in un’unica soluzione e l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 42 del D.P.R. 380/2001 …”.
Che il pagamento del contributo di costruzione, quando da effettuare in un’unica soluzione, dovesse avvenire entro 30 giorni dalla data di emissione del titolo edilizio era stato ben chiarito nello stesso modulo, sicché la scelta di non ricorrere ad una nuova garanzia fideiussoria –scelta che non poteva non essere effettuata entro il 30.09.2017 per le inequivoche indicazioni in tal senso contenute nel “modulo” a suo tempo sottoscritto– imponeva che entro quella data si provvedesse al pagamento della residua quota dovuta. Non si trattava, insomma, di tempi incerti, essendo la ricorrente in possesso di tutti gli elementi di conoscenza necessari ad operare correttamente e quindi ben in grado di ricavare dalla sopraggiunta risposta negativa dell’Amministrazione le conseguenze del suo operare, secondo una diligenza media da valutare in ragione di criteri di ragionevole esigibilità.
Per quanto riguarda, poi, la denunciata violazione dell’obbligo di soccorso istruttorio, occorre rilevare che con la comunicazione del 13.09.2017 il Comune aveva anche indicato alla ricorrente l’elenco delle società dichiarate dalla Banca d’Italia prive di titolo ad operare sul territorio nazionale, collaborando quindi alla regolarizzazione della sua posizione.
In merito, poi, alla pretesa violazione procedimentale per non essere stato concesso un nuovo termine per la rateizzazione, occorre rilevare che tale termine non è stato assegnato dal Comune in quanto il termine ordinario per depositare la fideiussione, cioè il 30 settembre 2017, non era ancora scaduto. La ricorrente aveva ancora 17 giorni per presentare una nuova fideiussione oppure per provvedere al pagamento o per chiedere ulteriori chiarimenti all’Amministrazione. Tardivo, quindi, e perciò sanzionabile, si presenta il versamento avvenuto solo in data 13.11.2017.
La legittimità e la correttezza della condotta del Comune comporta la reiezione della domanda risarcitoria presentata dalla ricorrente. La scelta di rivolgersi ad un istituto poi rivelatosi privo del necessario titolo al rilascio della prescritta garanzia fideiussoria è, invero, da addebitare unicamente all’interessata, che avrebbe dovuto evidentemente acquisire tutti gli elementi di conoscenza necessari per compiere una scelta corretta, alcun obbligo di preventiva informativa gravando sull’Amministrazione comunale, la quale, peraltro, quando interpellata, ha poi fornito indicazioni utili ad orientare le successive decisioni della ricorrente.
In definitiva quindi il ricorso va respinto.

EDILIZIA PRIVATAIn linea generale, va rilevato che nel processo amministrativo la controversia sulle sanzioni edilizie azionata dai diretti destinatari non conosce controinteressati in senso tecnico, anche quando determinati soggetti (in particolare i proprietari confinanti) conseguirebbero evidenti vantaggi dalla demolizione delle opere sanzionate; in tal caso, resta salva ovviamente la loro possibilità di intervenire ad opponendum.
Ciò in quanto la qualità di controinteressato va riconosciuta nella compresenza dell’elemento sostanziale, vale a dire al soggetto portatore di un interesse analogo e contrario a quello che legittima la posizione del ricorrente, e dell’elemento formale, costituito dall’indicazione nominativa del medesimo soggetto nel provvedimento impugnato (ovvero la sua agevole individuabilità in altro modo).
Da ciò consegue, ad esempio, che i concorrenti commerciali dell’esercizio raggiunto da un ordine di demolizione non sono controinteressati non essendo indicati nell’atto sanzionatorio impugnato né risultando titolari di un interesse diretto e contrario a quello azionato, ma sono titolari di un interesse di fatto, tale da legittimare il loro intervento ad opponendum.
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... per l'annullamento del provvedimento 13.09.2018 n. 8411 prot. del Responsabile dell'Area Edilizia e Urbanistica del Comune di San Felice del Benaco di diniego definitivo all'istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria e di parere di compatibilità paesaggistica e di accertamento dell’inottemperanza ad ordine di demolizione ed irrogazione della sanzione amministrativa di € 20.000,00 ex art. 31, comma 4-bis, dPR n. 380/2001, nonché degli atti tutti presupposti, connessi e consequenziali.
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La società Il Gi. srl ha impugnato, formulando anche istanza di sospensione cautelare, il provvedimento, meglio indicato in epigrafe, con cui il Comune di San Felice del Benaco ha respinto la domanda di rilascio di permesso di costruire in sanatoria e di parere di compatibilità paesaggistica, accertando contestualmente l’inottemperanza all’ordine di demolizione ed irrogando la sanzione ex art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380/2001.
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In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum.
In linea generale, va rilevato che nel processo amministrativo la controversia sulle sanzioni edilizie azionata dai diretti destinatari non conosce controinteressati in senso tecnico, anche quando determinati soggetti (in particolare i proprietari confinanti) conseguirebbero evidenti vantaggi dalla demolizione delle opere sanzionate; in tal caso, resta salva ovviamente la loro possibilità di intervenire ad opponendum. Ciò in quanto la qualità di controinteressato va riconosciuta nella compresenza dell’elemento sostanziale, vale a dire al soggetto portatore di un interesse analogo e contrario a quello che legittima la posizione del ricorrente, e dell’elemento formale, costituito dall’indicazione nominativa del medesimo soggetto nel provvedimento impugnato (ovvero la sua agevole individuabilità in altro modo); da ciò consegue, ad esempio, che i concorrenti commerciali dell’esercizio raggiunto da un ordine di demolizione non sono controinteressati non essendo indicati nell’atto sanzionatorio impugnato né risultando titolari di un interesse diretto e contrario a quello azionato, ma sono titolari di un interesse di fatto, tale da legittimare il loro intervento ad opponendum (ex multis TAR Veneto, sez. I, 21.12.2015, n. 1372; TAR Lazio, Latina, sez. I, 17.04.2015, n. 346; TAR Liguria, sez. I, 12.02.2015, n. 176; TAR Marche, Ancona, 20.06.2013, n. 468; TAR Abruzzo, 31.08.2010, n. 616; TAR Liguria, sez. I, 21.04.2009,n. 779; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II; 01.07.2008, n. 1027).
Peraltro, nel caso in esame, gli intervenienti non esplicitano alcun interesse, nemmeno di mero fatto, atteso che non evidenziano alcun danno concreto nemmeno potenziale, in relazione agli abusi di cui si tratta, limitandosi ad invocare una generica violazione della privacy, non meglio specificata.
L’intervento è, dunque, inammissibile
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.07.2019 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istituto del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, invero, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
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Passando al merito, come già anticipato in sede cautelare, i primi due motivi di ricorso sono fondati.
E’, invero, fondato il dedotto vizio procedimentale.
L’istituto del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, invero, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 02.05.2018, n. 2615)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.07.2019 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza di permesso di costruire in sanatoria può essere presentata anche oltre il termine di 90 giorni indicato nell’ordine di demolizione, sempre che -tuttavia- risulti proposta in assenza di accertamento (da parte dell’Amministrazione) dell’inottemperanza dell’ordine di demolizione e, comunque, prima dell’irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il Collegio non ignora che, sul punto specifico, si fronteggiano due opposti orientamenti giurisprudenziali.
In particolare, un primo orientamento ritiene che l’ordinanza di demolizione consolida i suoi effetti traslativi automatici dopo 90 giorni e, quindi, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive opera di diritto e va riconnessa al mero decorso del termine di 90 giorni assegnato con l’ingiunzione a demolire; dunque, scaduto il termine di cui all’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, è legittimo il diniego di sanatoria a causa del difetto di legittimazione a presentare l’istanza.
Secondo altro orientamento, il privato raggiunto dall’ordine di demolizione può richiedere la sanatoria delle opere eseguite, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, anche oltre il termine di 90 giorni dalla notifica dell’ordinanza e ciò sulla base dello stesso tenore letterale del comma 1 del predetto art. 36, che ammette la possibilità di ottenere il permesso in sanatoria "fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative".
Per tale secondo orientamento, dunque, già dalla lettera della norma si desume la possibilità di proporre la domanda di accertamento di conformità in un momento successivo alla scadenza del termine ex art. 31, comma 3, ove a tal momento non siano state ancora in concreto irrogate le sanzioni amministrative;
Il termine di novanta giorni è, infatti, fissato unicamente per la demolizione volontaria del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il decorso di detto termine la P.A. può procedere agli ulteriori adempimenti) mentre, fino a quando l’opera esiste nella sua integrità ed il soggetto ne conserva la titolarità, è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di evitare le previste sanzioni amministrative.

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Quanto alle censure di carattere sostanziale di cui al secondo motivo, che costituiscono il vero nodo centrale della controversia oggetto di giudizio, il Collegio non ignora che, sul punto specifico, si fronteggiano due opposti orientamenti giurisprudenziali.
In particolare, un primo orientamento ritiene che l’ordinanza di demolizione consolida i suoi effetti traslativi automatici dopo 90 giorni e, quindi, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive opera di diritto e va riconnessa al mero decorso del termine di 90 giorni assegnato con l’ingiunzione a demolire; dunque, scaduto il termine di cui all’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, è legittimo il diniego di sanatoria a causa del difetto di legittimazione a presentare l’istanza (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 23.11.2017, n. 5471; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 11.07.2016, n. 1877); secondo altro orientamento, il privato raggiunto dall’ordine di demolizione può richiedere la sanatoria delle opere eseguite, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, anche oltre il termine di 90 giorni dalla notifica dell’ordinanza e ciò sulla base dello stesso tenore letterale del comma 1 del predetto art. 36, che ammette la possibilità di ottenere il permesso in sanatoria "fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative"; per tale orientamento, dunque, già dalla lettera della norma si desume la possibilità di proporre la domanda di accertamento di conformità in un momento successivo alla scadenza del termine ex art. 31, comma 3, ove a tal momento non siano state ancora in concreto irrogate le sanzioni amministrative; il termine di novanta giorni è, infatti, fissato unicamente per la demolizione volontaria del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il decorso di detto termine la P.A. può procedere agli ulteriori adempimenti) mentre, fino a quando l’opera esiste nella sua integrità ed il soggetto ne conserva la titolarità, è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di evitare le previste sanzioni amministrative (TAR Lazio, Latina, 11.01.2018, n. 16; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.07.2017, n. 3631).
Ebbene, nel caso in esame, va rilevato che l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, per quanto sia stata presentata indubbiamente oltre il termine di 90 giorni indicato nell’ordine di demolizione, risulta comunque proposta in assenza di accertamento (da parte dell’Amministrazione) dell’inottemperanza dell’ordine di demolizione, che non può essere presunto unicamente sulla base della stessa presentazione dell’istanza di sanatoria e, comunque, prima dell’irrogazione delle sanzioni amministrative.
Permane, pertanto, in capo all’Amministrazione Comunale il dovere di valutare nel merito l’istanza proposta dalla ricorrente, al fine di verificarne la conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, atteso che alla data di presentazione la stessa non aveva ancora accertato l’inottemperanza all’ordine di demolizione e proceduto alla demolizione delle opere abusive.
Sotto tale profilo, pertanto, le censure articolate in ricorso sono fondate e vanno accolte, con conseguente annullamento dell’atto impugnato limitatamente al rigetto dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria con chiusura del relativo procedimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.07.2019 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il consigliere comunale può avere le credenziali di accesso a protocollo e sistema contabile dell'ente.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 cit. del TUEL va oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale processo di digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa, risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr. art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art. 50, co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità informatica, con accesso da remoto.
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Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica).
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... per l'annullamento della nota del Comune di Vietri di Potenza, prot. 467 del 16/01/2019, di diniego e rifiuto in ordine alla richiesta del 17/12/2018 di rilascio delle credenziali e della password di accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell'Ente.
...
1. Con il ricorso in epigrafe, spedito per la notificazione in data 09/02/2019, il sig. Ca.Gr., nella sua qualità di consigliere comunale di minoranza del Comune di Vietri di Potenza, ha impugnato il provvedimento comunale, prot. 467 del 16/01/2019, con cui non è stata accolta la sua richiesta, formulata in data 17/12/2018, di rilascio delle credenziali per accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente.
1.1. Il provvedimento comunale è motivato in quanto “l’applicativo riferito al protocollo non è ancora funzionante al 100% e pertanto vulnerabile ad eventuali azioni di hacheraggio”.
1.2. Il ricorso è affidato al seguente motivo:
   - Interesse ad agire; Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97 costituzione; Violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del d.lgs. 267/2000 e degli artt. 22 e ss l. 241/1990; Violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 82 del 07.03.2005; Violazione e falsa applicazione del principio di economicità dell’azione amministrativa; Eccesso di potere per contraddittorietà incongruità, illogicità ed irragionevolezza, carenza di istruttoria e di motivazione-mancato esercizio dell’azione amministrativa. Mancata valutazione degli interessi in gioco - sviamento-carenza assoluta di istruttoria-omessa valutazione dei presupposti giuridici - violazione del giusto procedimento e dell’agire amministrativo-ingiustizia manifesta.
Il provvedimento sarebbe illegittimo in quanto contrastante con l’art. 43 del d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico enti locali), che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del loro mandato”.
Tale diritto dovrebbe essere esercitabile anche con modalità elettroniche, stante quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione digitale), secondo cui “le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tal fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
In tal senso non sarebbe apprezzabile la giustificazione addotta dal Comune a fondamento del mancato accoglimento della richiesta di accesso da remoto. D’altra parte, la ritenuta esistenza di problemi nell’applicativo sembrerebbe contraddetta dalla circostanza che il medesimo Comune, in data 04/07/2018, avrebbe acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro consigliere comunale.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di Vietri di Potenza che resiste all’accoglimento del ricorso in quanto l’Amministrazione si sarebbe limitata a rinviare l’accesso, ma non a negarlo. Inoltre, la richiesta modalità di accesso non sarebbe ammissibile in quanto renderebbe possibile un accesso generalizzato all’attività amministrativa, svincolato dall’esercizio del mandato elettorale.
3. Alla camera di consiglio del 03/07/2019 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
4. Il ricorso è fondato nei sensi di seguito esposti.
Deve ritenersi che il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43 cit. del TUEL, cui è funzionalmente connessa la richiesta del ricorrente, va oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale processo di digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa, risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr. art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art. 50, co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità informatica, con accesso da remoto (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 04.04.2019, n. 545; TAR Sardegna, 04.04.2019, n. 317).
Alla luce di tali assunti, va rilevata l’illegittimità della nota impugnata, in quanto recante un sostanziale e ingiustificato diniego alla richiesta ostensiva del ricorrente, in violazione dell’art. 43 TUEL. Invero, l’esigenza conoscitiva del ricorrente è rimasta insoddisfatta sine die e comunque sino al momento di assunzione in decisione del ricorso, malgrado il decorso di diversi mesi dalla sua introduzione, nel corso dei quali l’Amministrazione nulla ha fatto per rimuovere i presunti ostacoli di sicurezza informatica opposti al ricorrente. Questi ultimi, peraltro, soltanto asseriti ma non provati nella loro oggettività e, dunque, non apprezzabili in questa sede.
Né può rilevare, secondo quanto ulteriormente esposto dal Comune, che il provvedimento si è limitato a differire il rilascio delle credenziali, posto che il ritardo nell’approntamento degli eventuali accorgimenti tecnologici (che a tacer d’altro corrispondono all’adempimento di un preciso ed inderogabile dovere legale) non può comunque andare a detrimento del pieno e incondizionato esercizio delle prerogative connesse all’esercizio del mandato elettorale.
D’altra parte, sotto tale profilo, va anche rilevato che, come documentalmente dedotto dal ricorrente e non contestato dal Comune (cfr. art. 64 cod. proc. amm.), il medesimo Ente, in data 04/07/2018, ha acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro consigliere comunale, senza addurre alcun elemento ostativo. Circostanza che depone nel senso dell’inattendibilità della motivazione addotta a fondamento della nota comunale.
Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di richiesta specifica).
5. In conclusione, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, va annullata la nota comunale impugnata e va ordinato al Comune di Vietri di Potenza di apprestare, entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla pubblicazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, le modalità organizzative per il rilascio in favore del consigliere comunale ricorrente di credenziali per l'accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, ferme restando le limitazione dianzi esplicitate (TAR Basilicata, sentenza 10.07.2019 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di muro perimetrale di recinzione - Modifica dell'assetto urbanistico del territorio per struttura ed estensione - Permesso di costruire - Necessità - Artt. 3, 6, 9, 31, 44, 45, D.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di un muro perimetrale di recinzione necessita del rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Inoltre, anche per la realizzazione di un muro di recinzione di un fondo agricolo che modifichi l'assetto urbanistico del territorio per struttura ed estensione, occorre il permesso di costruire, senza che la presenza all'interno del fondo di un edificio adibito ad abitazione possa far ritenere il muro pertinenza dell'edificio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAPer quanto riguarda i muri perimetrali di recinzione, va rilevato, innanzitutto, che, secondo quanto affermato da più decisioni, la realizzazione di un'opera di tale tipologia necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Altresì, per la realizzazione di un muro di recinzione di un fondo agricolo che modifichi l'assetto urbanistico del territorio per struttura ed estensione, occorre il permesso di costruire, senza che la presenza all'interno del fondo di un edificio adibito ad abitazione possa far ritenere il muro pertinenza dell'edificio.
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2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse e da esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le opere in questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata come vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere realizzati sulla base di S.C.I.A.
2.1. Per una corretta valutazione delle censure occorre premettere quale risulta essere lo stato degli orientamenti giurisprudenziali in materia.
Per quanto riguarda i muri perimetrali di recinzione, va rilevato, innanzitutto, che, secondo quanto affermato da più decisioni, la realizzazione di un'opera di tale tipologia necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella, Rv. 261521-01, relativa a fattispecie concernente un muro in cemento armato avente spessore di cm. 25 ed un'altezza di circa metri 1,80, nonché Sez. 3, n. 5755 del 13/12/2007, dep. 2008, Romano, Rv. 238788-01).
E' utile aggiungere che si è anche precisato che, per la realizzazione di un muro di recinzione di un fondo agricolo che modifichi l'assetto urbanistico del territorio per struttura ed estensione, occorre il permesso di costruire, senza che la presenza all'interno del fondo di un edificio adibito ad abitazione possa far ritenere il muro pertinenza dell'edificio (così Sez. 3, n. 41518 del 22/10/2010, Bove, Rv. 248744-01) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963).

EDILIZIA PRIVATA: Natura pertinenziale di una piscina - Presupposti e limiti.
Affinché ad una piscina si possa riconoscere natura pertinenziale, occorre che la stessa abbia un volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, che tale manufatto sia preordinato ad un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, e, non abbia un autonomo valore di mercato in modo da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (Cass. Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni), infine, che non sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti ed inerisca ad un edificio preesistente legittimamente edificato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento alla piscina, va segnalato che la giurisprudenza, sebbene riconosca la possibile natura pertinenziale di tale opera quando la stessa abbia un volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, richiede che tale manufatto sia preordinato ad un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, non abbia un autonomo valore di mercato, in modo da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa, non sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, ed inerisca ad un edificio preesistente legittimamente edificato.
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2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse e da esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le opere in questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata come vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere realizzati sulla base di S.C.I.A.
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Con riferimento alla piscina, poi, va segnalato che la giurisprudenza, sebbene riconosca la possibile natura pertinenziale di tale opera quando la stessa abbia un volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, richiede che tale manufatto sia preordinato ad un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, non abbia un autonomo valore di mercato, in modo da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (così Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni, Rv. 268552-01), non sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253064-01), ed inerisca ad un edificio preesistente legittimamente edificato (cfr. Sez. 3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander, Rv. 241278-01) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963).

EDILIZIA PRIVATA: Piazzale - Pavimentazione di una vasta area in cemento - Assenza di permesso di costruire - Configurabilità del reato ex art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Interventi di urbanizzazione e destinazione di zona prevista dal piano regolatore generale - Regime dell'attività edilizia libera - Presupposti e limiti.
La pavimentazione di una vasta area con tappeto bituminoso in assenza di permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto tale attività edilizia rientra tra gli interventi di urbanizzazione secondaria ovvero infrastrutturali considerati come di "nuova costruzione" dall'art. 3, comma 1, lettere e.2) ed e.3), d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre, il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, e che, quindi, è configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R. d.P.R. n. 380/2001 in ipotesi di realizzazione di piazzali da adibire a parcheggio in area classificata come zona agricola
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Relativamente alla realizzazione di un pavimento in cemento nel piazzale, è utile considerare che, in giurisprudenza, è consolidato un orientamento rigoroso.
Secondo una decisione, in particolare, integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, la pavimentazione di una vasta area con tappeto bituminoso in assenza di permesso di costruire, in quanto tale attività edilizia rientra tra gli interventi di urbanizzazione secondaria ovvero infrastrutturali considerati come di "nuova costruzione" dall'art. 3, comma 1, lettere e.2) ed e.3), d.P.R. cit..
Altra pronuncia ha affermato che il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, e che, quindi, è configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R. cit. in ipotesi di realizzazione di piazzali da adibire a parcheggio in area classificata come zona agricola.
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2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse e da esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le opere in questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata come vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere realizzati sulla base di S.C.I.A.
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Anche relativamente alla realizzazione di un pavimento in cemento nel piazzale, è utile considerare che, in giurisprudenza, è consolidato un orientamento rigoroso.
Secondo una decisione, in particolare, integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, la pavimentazione di una vasta area con tappeto bituminoso in assenza di permesso di costruire, in quanto tale attività edilizia rientra tra gli interventi di urbanizzazione secondaria ovvero infrastrutturali considerati come di "nuova costruzione" dall'art. 3, comma 1, lettere e.2) ed e.3), d.P.R. cit. (Sez. 3, n. 42896 del 24/10/2008, Carotenuto, Rv. 241545-01).
Altra pronuncia ha affermato che il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici, e che, quindi, è configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R. cit. in ipotesi di realizzazione di piazzali da adibire a parcheggio in area classificata come zona agricola (Sez. 3, n. 19316 del 27/04/2011, Ferraro, Rv. 250018-01) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Attività edificatoria abusiva - Valutazione dell'opera nella sua unitarietà.
In tema di reati edilizi, la valutazione dell'opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli componenti.
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Reati urbanistici - Rilascio del permesso in sanatoria - Estinzione del reato - Subordine della demolizione delle opere alla sospensione condizionale della pena.
In tema di reati urbanistici, ai fini dell'estinzione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario sia stato effettivamente rilasciato il permesso in sanatoria, secondo quanto prevede l'art. 45 d.P.R. n. 380/2001.
In caso di mancata sanatoria, il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena per i reati di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 alla demolizione delle opere.
In questo specifico caso, l'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione amministrativa costituente espressione di un potere autonomo e non residuale o sostitutivo di quello spettante all'autorità amministrativa, in quanto assolve ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso
(Cass., Sez. 3, n. 23189/2018; Cass. Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in tema di reati edilizi la valutazione dell'opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli componenti.
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2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse e da esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le opere in questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata come vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere realizzati sulla base di S.C.I.A.
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Ancora, occorre evidenziare, in linea generale, che, secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in tema di reati edilizi, la valutazione dell'opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli componenti (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473-01, nonché Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011, dep. 2012, Forte, Rv. 252125-01) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.07.2019 n. 29963).

APPALTI: Soccorso istruttorio.
Non può ammettersi il soccorso istruttorio in sede di comprova dei requisiti, attesa non solo l’inesistenza della carenza di un elemento formale della domanda, ma anche la natura perentoria del relativo termine, con conseguenze immediatamente escludenti, laddove, al contrario, il soccorso istruttorio equivarrebbe ad una sostanziale rimessione in termini (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.07.2019 n. 4789 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Il motivo è infondato.
Giova muovere dal provvedimento di esclusione, il quale rileva che «per n. 64 servizi presuntivamente svolti dall’ing. Ni. Di Pi. e dichiarati dallo stesso in sede di gara non si fornisce alcuna documentazione probante il possesso del requisito dichiarato in sede di gara mentre per n. 4 servizi risultano dichiarati in sede di gara importi nelle rispettive classi e categorie differenti rispetto a quanto emergerebbe dal certificato di regolare esecuzione rilasciato dai committenti. In particolare si evidenzia che per 3 dei 4 servizi suddetti non è nemmeno possibile stabilire dalla documentazione presentata la percentuale di competenza del servizio svolto dalla stesso nell’ambito del RTP e dunque i corretti importi di lavori progettati e/o diretti nelle rispettive categorie».
Dai certificati versati in atti non si evincono le quote di competenza attribuibili, all’interno di un R.T.P., all’ing. Di Pi., salvo che nel certificato rilasciato dal Comune di Lucera-IV intervento, in cui è indicato che il contratto di appalto (concernente la progettazione definitiva ed esecutiva delle opere, consulenza e calcoli statici nonché direzione dei lavori) è stato eseguito dall’odierno appellante nella misura del 30 per cento con riguardo all’importo di euro 3.807.984,70 per la categoria S.05.
Nelle altre certificazioni (rese dal Comune di Lucera, ovvero di Apricena) si fa riferimento solamente al fatto che l’attività progettuale è stata redatta da A.T.P., di cui è parte l’ing. Di Pi., indicandosi gli importi complessivi, riferiti alla categoria S.05 (“strutture”), ovvero alla categoria D.02 (“idraulica”).
Ne discende dunque che dalle certificazioni allegate alla dichiarazione di comprova non emerge, di regola, la quota parte di competenza dell’ing. Di Pi., e non trovano pertanto conferma i dati contenuti nella domanda di partecipazione.
Alcun rilievo assume in questa prospettiva l’invocata disposizione dell’art. 48, comma 5, del d.lgs. n. 50 del 2016 che prevede la responsabilità solidale degli operatori raggruppati nei confronti della stazione appaltante, senza peraltro superare la distinzione tra i requisiti di qualificazione e la quota di partecipazione al raggruppamento, ed ancora la quota di esecuzione, attenendo i primi alle caratteristiche soggettive del concorrente; la quota di partecipazione alla responsabilità di componente del raggruppamento; la quota di esecuzione concernendo infine la parte della prestazione che verrà eseguita (con conseguente preclusione alla condivisibilità dell’assunto dell’appellante secondo cui ciascun professionista sarebbe legittimato ad utilizzare il servizio in quota paritaria per attestare l’esperienza maturata).
D’altro canto, non può ammettersi il soccorso istruttorio in sede di comprova dei requisiti, attesa non solo l’inesistenza della carenza di un elemento formale della domanda, ma anche la natura perentoria del relativo termine, con conseguenze immediatamente escludenti, laddove, al contrario, il soccorso istruttorio equivarrebbe ad una sostanziale rimessione in termini (Cons. Stato, V, 31.01.2017, n. 385).

APPALTI: Dichiarazioni false o fuorvianti nelle gare d'appalto.
Con riferimento alla c.d. condotta fraudolenta o fuorviante, integrante la causa di esclusione di cui all’articolo 80, comma 5, lettera c), (oggi c-bis) ovvero lettera f-bis), D.Lgs. n. 50/2016, che le precitate disposizioni, nel consentire l’espulsione dalla gara dell’operatore economico che fornisca informazioni false o fuorvianti, idonee a influire in modo notevole sul processo decisionale della stazione appaltante, in relazione al pregio tecnico delle offerte ovvero all’individuazione dell’aggiudicatario, mirano a preservare l’interesse dell’Amministrazione a non trattare con operatori economici che non diano sufficienti garanzie in ordine alla propria affidabilità morale e professionale; si tratta di preservare un interesse pubblico particolarmente delicato, ma tuttavia la sanzione espulsiva, proprio per la gravità delle conseguenze che comporta per l’operatore economico che la subisce, richiede un accertamento approfondito della situazione fattuale.
Affinché possa ritenersi concretizzata la condotta suscettibile di sanzione espulsiva, è necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, ivi comprese le condizioni soggettive del destinatario delle dichiarazioni false o fuorvianti; operando un parallelismo, occorre operare un’indagine non dissimile da quella che consente l’applicazione dei rimedi previsti dagli articoli 1439 e 1440 Cod. civ. per gli accordi negoziali conclusi tra privati e, dunque, come gli artifici e raggiri sono causa di annullamento del contratto (nel caso di dolo determinante) ovvero di risarcimento del danno (nel caso dolo incidente), se sono idonei a trarre in inganno un contraente di normale diligenza, avuto riguardo alle relative condizioni soggettive, così le dichiarazioni false e fuorvianti sono cause di espulsione se idonee a trarre in inganno una commissione di esperti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.07.2019 n. 1575 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.5.1. Passando al requisito premiale del tempo di accensione dell’ecotomografo, va considerato che –come risulta dai documenti di gara- il modello offerto dalla controinteressata presenta due distinte modalità di accensione: la prima da completamente spento che impiega al massimo 110 secondi; e la seconda potenziata o in configurazione trasporto (perché collegata a una batteria) che impiega al massimo 20 secondi (v. doc. 22 p. 21 fascicolo di Ph. S.p.A.).
In considerazione dell’esito che ha avuto (accensione in 14 secondi), non vi è dubbio che la prova pratica è stata svolta con la macchina in modalità trasporto.
2.5.2. Il Collegio ritiene che, avuto riguardo alle finalità perseguite dalla legge di gara non era così che doveva essere effettuata la prova pratica.
Invero, il disciplinare di gara, al paragrafo 5 prevedeva l’attribuzione di 5 punti, con metodo lineare per il «minor tempo di pronto all’uso da ecografo spento e scollegato alla rete: si calcola il tempo dall’inserimento della spina all’accensione in pronto all’uso». Sicché, è chiaro che l’intento della stazione appaltante era quello di premiare l’ecotomografo che, in caso di emergenza, da completamente spento entra in funzione più rapidamente, e non certo quello di premiare lo strumento che più rapidamente si riavvia dalla condizione di stand-by, la quale non è la condizione normale dello strumento che non lavora, in quanto è comunque di durata limitata nel tempo (per la macchina offerta da Ph. S.p.A., 40 minuti).
2.5.3. Non per questo, tuttavia, può ritenersi che l’aggiudicataria abbia tenuto una condotta fuorviante, integrante la causa di esclusione di cui all’articolo 80, comma 5, lettera c) ovvero lettera f-bis), D.Lgs. n. 50/2016, nella formulazione applicabile ratione temporis.
Le precitate disposizioni, nel consentire l’espulsione dalla gara dell’operatore economico che fornisca informazioni false o fuorvianti, idonee a influire in modo notevole sul processo decisionale della stazione appaltante, in relazione al pregio tecnico delle offerte ovvero all’individuazione dell’aggiudicatario, mirano a preservare l’interesse dell’Amministrazione a non trattare «con operatori economici che non diano sufficienti garanzie in ordine alla propria affidabilità morale e professionale» (così, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2747/2018).
Indubbiamente, si tratta di preservare un interesse pubblico particolarmente delicato. E, tuttavia, la sanzione espulsiva, proprio per la gravità delle conseguenze che comporta per l’operatore economico che la subisce, richiede un accertamento approfondito della situazione fattuale.
Dunque, affinché possa ritenersi concretizzata la condotta fraudolenta suscettibile di sanzione espulsiva, è necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, ivi comprese le condizioni soggettive del destinatario delle dichiarazioni false o fuorviante.
Operando un parallelismo, occorre operare un’indagine non dissimile da quella che consente l’applicazione dei rimedi previsti dagli articoli 1439 e 1440 Cod. civ. per gli accordi negoziali conclusi tra privati. E, dunque, come gli artifici e raggiri sono causa di annullamento del contratto (nel caso di dolo determinante) ovvero di risarcimento del danno (nel caso dolo incidente), se sono idonei a trarre in inganno un contraente di normale diligenza, avuto riguardo alle relative condizioni soggettive (cfr., Cass., Sez. II, sentenza n. 13872/2018), così le dichiarazioni false e fuorvianti sono cause di espulsione se idonee a trarre in inganno una commissione di esperti.

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIIl Sindaco può ordinare la rimozione dei rifiuti (il loro recupero o lo smaltimento) e il ripristino dello stato dei luoghi anche al proprietario del fondo, sempre che, tuttavia, la violazione del divieto dell’abbandono e del deposito incontrollato di rifiuti gli sia imputabile a titolo di dolo o di colpa, adeguatamente accertata in contraddittorio dagli organi di controllo.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito, in più occasioni, che la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all’art. 192, comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro contrasto con l’indicazione legislativa.
Si è aggiunto, altresì, che la responsabilità solidale del proprietario può essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un’efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che su di essa possano essere depositati rifiuti.
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La questione della competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 è stata già affrontata e risolta nel senso dell’appartenenza al Sindaco.
E’ stato convincentemente affermato che l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152, nel prevedere espressamente la competenza del Sindaco, è norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107 (Funzioni e responsabilità della dirigenza), comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) per il quale “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I del titolo III l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’articolo 50, comma 3, e dall’articolo 54” e su di essa prevalente.
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4. Il motivo è fondato e va accolto.
4.1. Con l’ordine impugnato il Comune di Binetto ha esercitato il potere previsto dall’art. 192 (“Divieto di abbandono rifiuti”), comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”) per il quale: “Fatta salva l’applicazione della sanzione di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Il Sindaco può ordinare la rimozione dei rifiuti (il loro recupero o lo smaltimento) e il ripristino dello stato dei luoghi anche al proprietario del fondo, sempre che, tuttavia, la violazione del divieto dell’abbandono e del deposito incontrollato di rifiuti gli sia imputabile a titolo di dopo o di colpa, adeguatamente accertata in contraddittorio dagli organi di controllo.
4.2. La giurisprudenza amministrativa ha chiarito, in più occasioni, che la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all’art. 192, comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro contrasto con l’indicazione legislativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.05.2019, n. 3518; sez. IV, 07.06.2018, n. 3430; IV, 12.04.2018, n. 2195; sez IV, 25.07.2017, n. 3672; sez. V, 08.03.2017, n. 1089; sez. IV, 01.04.2016, n. 1301).
4.3. Si è aggiunto, altresì, che la responsabilità solidale del proprietario può essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un’efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che su di essa possano essere depositati rifiuti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.05.2019, n. 3518; sez. III, 01.12.2017, n. 5632).
4.4. Dall’esame del provvedimento impugnato risulta che il Comune di Binetto non ha svolto attività di accertamento della responsabilità del Gi. per violazione del divieto di abbandono dei rifiuti sul suolo; nella motivazione, infatti, si riferisce solo della presenza di rifiuti pericolosi in due sopralluoghi effettuati a distanza di diversi mesi da soggetti diversi (il primo dai Rangers d’Italia, il 29.10.2013, e il secondo, dalla Polizia locale il 07.02.2014) e si afferma il totale abbandono del fondo.
E’ solo nelle memorie depositate nel giudizio di primo grado che il Comune ha chiarito che l’abbandono dei rifiuti sul suolo era imputabile al Gi. a titolo di colpa omissiva per non aver prestato la dovuta e necessaria vigilanza, disinteressandosi completamente di quel che accadeva nel proprio fondo e così favorendo ed incentivando lo scarico dei rifiuti ad opera di terzi sulla sua proprietà.
Il giudice di primo grado ha aggiunto, poi, che l’omessa recinzione del fondo e la mancanza di denunce alle autorità restituivano un quadro –quanto meno– di colposo abbandono del fondo.
4.5. Ritiene il Collegio che la carente illustrazione, nella motivazione del provvedimento, di circostanze di fatto presuntive del disinteresse del proprietario, che avrebbe per questo colposamente lasciato che rifiuti venissero abbandonati sul suo fondo, non possa essere superata né dalle argomentazioni difensive spese in giudizio, né tanto meno da un’attività valutativa effettuata dal giudice.
E’ onere, invece, dell’amministrazione comunale, in primo luogo, richiedere informazioni al proprietario sulla gestione del fondo (ad es. da quando tempo non coltivava, da quando non vi si recava, in che modo intendeva utilizzarlo), così da rendere effettivo quel contraddittorio cui fa riferimento l’art. 192, comma 3, cit. e, solo completata tale fase di indagine, valutare se il proprietario si sia realmente disinteressato alle sorti del fondo, dandone conto del convincimento raggiunto nella motivazione del provvedimento.
4.6. Non può mancare, inoltre, negli ordini di rimozione dei rifiuti a carico dei proprietari la contestualizzazione delle misure di diligenza e cautela richieste alla collocazione del fondo: misure di diligenze e cautele accresciute –rivolte ad evitare che sul fondo possano essere depositati rifiuti da terzi– sono tanto più necessarie quanto più è nota la densità criminale ove il fondo è collocato (per essere, ad esempio, presenti organizzazioni criminali operanti nel traffico dei rifiuti pericolosi).
Nel contesto di tale accertamento potrà valutarsi l’idoneità del tipo di recinzione del fondo adottato dal proprietario, che, altrimenti, anche il muretto a secco, criticato negli scritti difensivi del Comune, ma caratteristico di talune zone del territorio italiano, è recinzione idonea allo scopo, suo proprio, di delimitare il confine dei fondi.
4.7. In conclusione, sussiste la violazione dell’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 cit. per mancata attivazione del contraddittorio con il proprietario del fondo, come pure il vizio di omessa motivazione; la sentenza di primo grado va riformata sul punto. L’accoglimento del primo motivo di appello per le ragioni poc’anzi espresse consente di assorbire il terzo motivo di appello con il quale era lamentata l’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 l. 07.08.1990, n. 241.
5. Con il secondo motivo di appello il Gi. contesta la sentenza di primo grado per “Error in procedendo et in iudicando. Violazione di legge per falsa applicazione del D.Lgs. 152/2006 art. 192, comma 3, incompetenza del funzionario”.
Sostiene l’appellante che la competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi appartiene al Sindaco e non al dirigente comunale; il provvedimento impugnato, sottoscritto dal “Responsabile del IV settore” del Comune di Binetto sarebbe, dunque, viziato da incompetenza e la sentenza di primo grado, che ne ha confermato la legittimità, erronea.
6. Il motivo è fondato e va accolto.
6.1. La questione della competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 è stata già affrontata e risolta nel senso dell’appartenenza al Sindaco (da ultimo, in Cons. Stato, sez. V, 14.03.2019, n. 1684, che ha specificato che l’incompetenza del “Responsabile del settore” sussiste anche in caso di delega a suo favore adottata dal dirigente del settore; Cons. Stato, sez. IV, 21.01.2019, n. 509).
6.2. E’ stato convincentemente affermato che l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152, nel prevedere espressamente la competenza del Sindaco, è norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107 (Funzioni e responsabilità della dirigenza), comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) per il quale “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I del titolo III l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’articolo 50, comma 3, e dall’articolo 54” e su di essa prevalente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2018, n. 2195; V, 11.01.2016 n. 57; ma già V, 25.08.2008, n. 4061).
6.3. La sentenza di primo grado che ha fatto proprio il diverso orientamento per il quale la competenza spetta al dirigente del settore, va riformata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.07.2019 n. 4781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGORapporto tra congedo parentale, permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 e ferie.
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Pubblico impiego privatizzato – Congedo parentale – Art. 42, d.lgs. n. 151 del 2001 – Cumulabilità con i permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 ed i riposi spettanti al dipendente – Congedo richiesto in maniera continuativa – Esclusione.
  
Pubblico impiego privatizzato – Congedo parentale – Art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 – Trattamento economico spettante al lavoratore – Ferie – Tredicesima mensilità – Trattamento di fine rapporto – Non maturano.
   Durante il periodo di fruizione del congedo parentale non maturano anche i permessi retribuiti previsti dall'art. 33, comma 4, l. 05.02.1992, n. 104 e ciò in quanto il “cumulo” dei permessi consentito dall’art 42, comma 4, d.lgs. 26.03.2001, n. 151 deve essere correttamente inteso come possibilità di fruizione degli stessi in un medesimo arco temporale, ma non anche come maturazione ed insorgenza del diritto ai permessi medesimi in capo al lavoratore; e ciò in quanto il diritto alla fruizione dei permessi retribuiti presuppone, necessariamente, lo svolgimento in essere e la costanza dell’attività lavorativa durante la quale tali permessi vengono a maturare.
  
I periodi di congedo straordinario incidono negativamente sulla maturazione delle ferie, della tredicesima e del trattamento di fine rapporto, coerentemente con la natura del suddetto congedo che appare idoneo a determinare una vera e propria “sospensione”, seppur temporanea, dell’attività lavorativa (1).

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   (1) Parere Consiglio di Stato n. 3389 del 2005.
Ha chiarito il Tar che durante il periodo di congedo parentale, all’opposto, l’attività lavorativa viene messa in uno stato, per così dire, di quiescenza atteso che tale congedo ne va a determinare una vera e propria sospensione, non idonea a far maturare, in capo al lavoratore, gli ulteriori permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992.
Analogamente è a dirsi per le festività ed i riposi che la ricorrente pretende esserle riconosciute e non conteggiate nel periodo complessivo di congedo parentale.
Affinché le festività e i riposi non vengano conteggiati nel periodo di congedo parentale occorre che la domanda di congedo sia stata presentata in maniera c.d. frazionata; invece, se il congedo è richiesto in maniera continuativa, festivi e riposi non possono essere scomputati ma vanno in esso interamente conteggiati (in tal senso si vedano anche: Circolare INPS n. 64 del 15.03.2001; Circolare Dipartimento Funzione Pubblica n. 1 del 03.02.2012) (TAR Molise, sentenza 08.07.2019 n. 233 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione dell’immobile destinato a magazzino e deposito in unità abitativa.
Il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce un'attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo Comune; in effetti una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica.
La circostanza che il mutamento di destinazione d’uso sia intervenuto già nel 1994, quando la legislazione regionale veneta non assoggettava il mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale a concessione edilizia bensì ad autorizzazione, non toglie pregio al principio dalla giurisprudenza, posto che ancorché manchi la disciplina regionale, il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli.
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4. Per quanto riguarda l’abusiva trasformazione dell’immobile destinato a magazzino e deposito in unità abitativa (appartamento residenziale), si deve rilevare che detto mutamento è rilevante urbanisticamente perché intervenuto tra categorie urbanistiche diverse, essendo la destinazione a deposito e magazzino assimilabile a quella produttiva artigianale o, altrimenti, a quella commerciale, non certo a quella residenziale.
Infatti, non si può ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile e deve ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso di specie sono presenti.
Il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie, pertanto, non costituisce un'attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo Comune; in effetti una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012, n. 759).
La circostanza che il mutamento di destinazione d’uso sia intervenuto già nel 1994, quando la legislazione regionale veneta non assoggettava il mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale a concessione edilizia bensì ad autorizzazione, non toglie pregio al principio dalla giurisprudenza, posto che ancorché manchi la disciplina regionale, il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli (cfr. Consiglio di Stato n. 759/2012 cit.).
Peraltro, nel caso di specie si verte in un’ipotesi di mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie, costituite dalla realizzazione di tramezze, di servizi igienici (bagni e scarichi) con installazione dei relativi sanitari, una scala e anche un soppalco: il tutto, come si evince dalle relazioni di sopralluogo, ha determinato la nascita di un vero e proprio appartamento, attrezzato con impianti e completamente arredato, nonché abitato dal ricorrente.
Non è tanto la quantità degli interventi edilizi che determina il rilievo degli stessi ai fini del mutamento d’uso con opere, bensì soprattutto la qualità ossia il fatto che gli stessi risultino finalizzati ad un diverso utilizzo del bene.
La realizzazione di ben due bagni (ancorché “ciechi”) senza autorizzazione determina già di per sé il mutamento d’uso.
Anche il soppalco appare a ciò destinato, così come la scala per raggiungere lo stesso, che sembrano integrare interventi strutturali, riguardando la realizzazione, in sostanza, di un nuovo piano soppalcato e di una struttura verticale di collegamento, che hanno consentito un ampliamento a fini abitativi della stessa superficie utile dell’appartamento abusivo (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 04.07.2019 n. 4590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa pergotenda "è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso”.
È stato chiarito, inoltre, che “per aversi una pergotenda occorrerebbe … che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda. Nel caso in esame, infatti, trattasi di struttura con travetti lignei di una certa consistenza che sorreggono una tenda, struttura che può essere senz'altro definita solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio”.
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6.3. Il manufatto in questione, peraltro, proprio per le sue caratteristiche dimensionali, sfugge al perimetro applicativo della pergotenda e deve pertanto, anche sotto tal profilo, ritenersi asservito al regime del permesso di costruire.
La pergotenda, infatti, "è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1777 dell’11.04.2014).
È stato chiarito, inoltre, che “per aversi una pergotenda occorrerebbe … che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda. Nel caso in esame, infatti, trattasi di struttura con travetti lignei di una certa consistenza che sorreggono una tenda, struttura che può essere senz'altro definita solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 5737 del 05.10.2018).
Nel caso di specie, la struttura realizzata, identica, secondo quanto dalla stessa ricorrente rappresentato, a quella installata negli anni precedenti, è compiutamente descritta nella relazione illustrativa allegata alla richiesta di autorizzazione del 22.05.2015.
Emerge da tale descrizione nonché dalle planimetrie allegate alla suddetta relazione che "l’opera oltre ad avere delle dimensioni rilevanti (caratteristica che, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata, esclude in sé la possibilità di definirla tecnicamente una “pergotenda”) presenta delle caratteristiche (quali la struttura portante in legno composta da pilastrini e travetti costituente orditura principale e secondaria della copertura”, il fissaggio al suolo “con opportuni basamenti in cls di sostegno alla struttura”, la pavimentazione in “piastrelle di cemento 40x40 allettate al suolo su strato di sabbia predisposto”) tali da escludere che la struttura possa qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda ed altresì tali da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.07.2019 n. 439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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Le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non debbano essere applicate meccanicamente e formalisticamente, dovendo essere invece essere interpretate in senso sostanziale, coordinando in modo ragionevole e sistematico principi di legalità, imparzialità e buon andamento ed i corollari di economicità e speditezza dell'azione amministrativa, così che la mancata comunicazione di avvio del procedimento ed anche la mancata nomina del responsabile del procedimento non possono determinare sic et simpliciter l'annullamento del provvedimento, allorquando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza dei fatti posti a fondamento del provvedimento sfavorevole ai suoi interessi ed abbia avuto la possibilità di svolgere osservazioni e controdeduzioni.
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7. Alla luce del costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi è, infine, infondato anche il terzo motivo di ricorso con cui parte ricorrente deduce l'illegittimità del provvedimento sanzionatorio per mancato rispetto delle garanzie procedimentali e per mancata comunicazione del preavviso di rigetto.
"L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (TAR Lombardia, Milano, II, 06.08.2018, n. 1946; 05.03.2018, n. 616; altresì Consiglio di Stato, VI, 29.11.2012, n. 6071; 24.09.2010, n. 7129)” (TAR Milano, sez. II, sentenza n. 2098 del 18.09.2018).
Va osservato, peraltro, che l’impresa ricorrente ha riscontrato la diffida alla rimozione del manufatto notificata il 26.07.2016 chiedendone l’annullamento in autotutela.
In quella occasione ha potuto, pertanto, introdurre nel procedimento gli elementi a suo avviso determinanti. Tali elementi sono stati oggetto di apposita istruttoria da parte dei competenti uffici comunali, conclusasi con la conferma del provvedimento sanzionatorio precedentemente adottato.
La censura è, conseguentemente, infondata dovendo ritenersi che “le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non debbano essere applicate meccanicamente e formalisticamente, dovendo essere invece essere interpretate in senso sostanziale, coordinando in modo ragionevole e sistematico principi di legalità, imparzialità e buon andamento ed i corollari di economicità e speditezza dell'azione amministrativa, così che la mancata comunicazione di avvio del procedimento ed anche la mancata nomina del responsabile del procedimento non possono determinare sic et simpliciter l'annullamento del provvedimento, allorquando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza dei fatti posti a fondamento del provvedimento sfavorevole ai suoi interessi ed abbia avuto la possibilità di svolgere osservazioni e controdeduzioni” (TAR Milano, sentenza citata) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.07.2019 n. 439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sussistenza della mera vicinitas tra fondi costituisce presupposto sufficiente per radicare la legittimazione e l’interesse ad agire.
La questione giuridica sottesa alla presente decisione concerne la consistenza che deve presentare l’interesse ad agire del proprietario di un fondo contiguo o comunque posto nelle vicinanze di quello su cui si assume si stia realizzando un’edificazione illegittimamente assentita, affinché sia ammissibile l’impugnativa del titolo abilitativo rilasciato dall’amministrazione competente.
In materia edilizia si fronteggiano due orientamenti.
Il primo e tradizionale orientamento è quello che ritiene la vicinitas, intesa quale stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, elemento sufficiente a radicare la legittimazione e l’interesse ad agire in giudizio, senza che sia necessario, da parte del ricorrente, fornire la prova di un pregiudizio concreto ed effettivo arrecato alla sua sfera giuridica (e dunque ad una specifica situazione giuridica soggettiva in esso presente) dal provvedimento impugnato.
Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha puntualizzato come “la giurisprudenza ha riconosciuto il criterio della vicinitas di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi, assorbendo in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione, qualora ad impugnare sia il proprietario confinante.
… deve aggiungersi che, nell’ambito degli abusi edilizi, la giurisprudenza ritiene il pregiudizio del confinante in re ipsa, dato che ogni edificazione abusiva incide sull'equilibrio urbanistico e sull' ordinato sviluppo del territorio
”, così ribadendo e confermando l’orientamento tradizionale.
Il secondo e più recente orientamento, invece, ritiene necessario che il ricorrente fornisca la “prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente”.
Di recente, a questo orientamento ha aderito il Consiglio di Stato il quale, in un caso peculiare riguardante l’impugnazione di una variante in riduzione di un’opera precedentemente assentita da un titolo edilizio non impugnato, ha però avuto modo di evidenziare come la “vicinitas può anche rilevare al fine di qualificare la lesività dell’intervento e quindi il pregiudizio patito in conseguenza del rilascio del titolo autorizzatorio atteso che, di regola, e quindi, secondo l’id quod plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile di arrecare pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area interessata dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di maggior carico urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…; in questo senso i precedenti giurisprudenziali richiamati dagli appellati meritano senz’altro conferma”.
È immediatamente evidente che l’adesione all’uno o all’altro orientamento condiziona l’ammissibilità del presente ricorso.
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Ritiene il Collegio preferibile dare continuità all’orientamento che, tradizionalmente, è sempre stato maggioritario nell’ambito della giurisprudenza amministrativa e che, ancora adesso, risulta tutt’altro che superato da quello più recente, di cui si è dato conto.
Invero, a fronte di un’edificazione asseritamente illegittima da un punto di vista edilizio, compiuta in un’area dove chi agisce in giudizio è titolare di un diritto di proprietà su di un determinato bene, si ritiene più opportuno consentire a costui di proporre ricorso al G.A., lamentando la lesione di quelle regole che disciplinano le trasformazioni del territorio, allegando, quale condizione dell’azione, in punto di legittimazione ed interesse ad agire, la mera vicinanza di un suo bene al luogo in cui si sta commettendo l’abuso e si sta, quindi, contravvenendo a tali regole, quale formula idonea a compendiare adeguatamente sia gli elementi fondanti la legittimazione ad agire sia quelli inerenti all’interesse a ricorrere.
L’interesse a ricorrere, in una siffatta ipotesi, è costituito, per l’appunto, dal risultato utile, perseguito mediante la proposizione della domanda di annullamento del titolo edilizio illegittimamente rilasciato, di evitare quelle edificazioni che, in quanto illegittime (perché in contrasto con le norme di legge o con gli strumenti urbanistici di governo del territorio), vanno ad incidere sul territorio (in cui si colloca anche la sua proprietà), alterandone il carico urbanistico e la conformazione morfologica ed abitativa, in modo diverso da quanto programmato dall’amministrazione in sede di pianificazione, secondo quello che quest’ultima, in quanto autorità a ciò preposta dal legislatore, ha ritenuto essere l’assetto ottimale.
Se si assume –come, del resto, fa il nostro ordinamento– che la pianificazione urbanistica e il controllo sulla legittimità dell’attività edilizia perseguano quei valori e quegli interessi pubblici compendiati nella formula dell’“ordinato e razionale assetto del territorio”, l’eventuale lesione di tali valori ed interessi, perpetrati attraverso un’edificazione abusiva, rileva per chi in quel determinato territorio è titolare di un diritto di proprietà e si avvantaggia, per l’appunto, del razionale sviluppo dell’area in cui il bene di cui è titolare si colloca.
Su quest’ultimo punto è bene compiere un’ulteriore precisazione: l’interesse ad un ordinato assetto del territorio è, in linea di massima, interesse di tutta la collettività, ma la sua salvaguardia è demandata all’amministrazione.
E’ dunque chiaro che, così come i privati, di regola, non possono “sostituirsi” alla P.A. nella tutela dell’interesse in questione, allo stesso modo essi non possono sostituire il loro apprezzamento su ciò che vantaggioso realizzare in un determinato ambito territoriale, essendo tale scelta rimessa all’esclusivo apprezzamento della P.A., espresso in sede di pianificazione.
Quest’ultima eventualità si concretizzerebbe, tuttavia, laddove si consentisse a chi ha beneficiato di un permesso di costruire illegittimo di opporre al proprietario confinante che dall’edificazione, pur in tesi assunta come illegittima, non scaturirà, in concreto, alcuna conseguenza pregiudizievole in capo a costui.
Il punto di equilibrio allora è ritenere che coloro che sono insediati in una determinata zona e fruiscono, “in” e “per” quella zona, delle scelte di pianificazione operate dall’amministrazione e dunque di un ordinato e non caotico sviluppo del territorio, beneficiandone direttamente e concretamente nella propria sfera giuridica, abbiano interesse ad agire in giudizio per salvaguardare quelle decisioni, ogni qualvolta ritengano che l’amministrazione stessa le abbia disattese.
È evidente che l’essere proprietari di un bene collocato in un’area ordinata e frutto di scelte di pianificazione coerenti e logiche è preferibile dell’essere proprietari di un bene collocato in un’area che invece presenta un’edificazione disordinata e caotica, frutto dei desiderata estemporanei dei diversi proprietari.
Sicché, in ultima analisi, si ritiene che la vicinitas ben si ponga quale elemento discriminante (necessario e sufficiente) fra chi fruisce della legittimazione (perché deduce di essere titolare di un diritto di proprietà leso dall’abuso edilizio che si sta consumando o si è consumato) e dell’interesse ad agire (perché deduce che, attraverso gli effetti demolitori della pronuncia di annullamento, con l’eliminazione del permesso di costruire, tale lesione giuridica verrà eliminata) e chi invece ne è privo, proprio in considerazione di quanto rilevato da Consiglio di Stato a mente del quale, “…secondo l’id quod plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile di arrecare pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area interessata dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di maggior carico urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…;” (seppure, poi, il richiamato precedente aderisca al secondo dei due orientamenti citati).
Si ritiene, peraltro, che in assenza di una definizione univoca di interesse ad agire e in presenza, dunque, di una molteplicità di tesi che ne disputano la qualificazione e la valenza (quale presupposto processuale, condizione dell’azione o, finanche, elemento correlato al merito della controversia, oltre che in presenza di un’autorevole, ma isolata dottrina che ne contesta addirittura la sussistenza), sia preferibile l’adesione ad un orientamento volto ad ampliarne la portata e non a restringerla, poiché una simile impostazione si profila più rispettosa della tutela Costituzionale accordata al diritto di azione in giudizio dall’art. 24 Cost.
Ritiene infatti il Collegio che la limitazione del diritto di agire in giudizio, quand’anche ammissibile, debba essere posta inequivocabilmente dall’ordinamento (in presenza, peraltro, di interessi di pari rango costituzionale) e che, nel dubbio su come esso debba essere inteso rispetto ad una data tipologia di contenzioso, sia preferibile quella tesi che amplia l’esercizio del diritto riconosciuto dalla Costituzione, piuttosto che restringerlo.
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Il contenzioso ha ad oggetto il provvedimento autorizzatorio del SUAP – Cilento, del 15.02.2018, richiesto ed assentito per la “realizzazione del progetto di adeguamento igienico-sanitario, completamento ed ampliamento, attraverso la realizzazione di nuove unità destinate a residenza turistica, della struttura alberghiera esistente denominata albergo la Co.”.
Con tale provvedimento, la società controinteressata, secondo quanto da essa stessa dedotto, è stata autorizzata all’adeguamento igienico–sanitario e al completamento dell’Albergo “La Co.”, sito in Palinuro, sul terreno identificato dalla particella n. 103, di proprietà della sig.ra Lu.Pa., detenuto da I.T.S. S.r.l. per contratto di locazione, nonché, su due porzioni di terreno adiacenti all’albergo, di proprietà della I.T.S. S.r.l., alla demolizione e ricostruzione dell’immobile preesistente sul lotto identificato dalla particella n. 106, e alla costruzione di un nuovo fabbricato sul terreno inedificato adiacente sulla particella n. 104.
...2.2 In linea generale, la questione giuridica sottesa alla decisione dell’eccezione pregiudiziale concerne la consistenza che deve presentare l’interesse ad agire del proprietario di un fondo contiguo o comunque posto nelle vicinanze di quello su cui si assume si stia realizzando un’edificazione illegittimamente assentita, affinché sia ammissibile l’impugnativa del titolo abilitativo rilasciato dall’amministrazione competente (posto, ovviamente, che l’ammissibilità di una simile impugnazione è ammessa dal giurisprudenza amministrativa, seppure, come si vedrà, a differenti condizioni).
2.3 In materia edilizia si fronteggiano due orientamenti (di tale contrasto dà conto, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.03.2019, n. 2025).
2.3.1 Il primo e tradizionale orientamento è quello che ritiene la vicinitas, intesa quale stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato (cfr., ad esempio, da ultimo, TRGA Trentino-Alto Adige Bolzano, 06/03/2019, n. 60), elemento sufficiente a radicare la legittimazione e l’interesse ad agire in giudizio, senza che sia necessario, da parte del ricorrente, fornire la prova di un pregiudizio concreto ed effettivo arrecato alla sua sfera giuridica (e dunque ad una specifica situazione giuridica soggettiva in esso presente) dal provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.04.2019, n. 2645; Consiglio di Stato, sez. VI, 10.09.2018, n. 5307. Distinguendo questo caso da quello avente ad oggetto l’impugnazione delle scelte di pianificazione urbanistica: Consiglio di Stato, sez. IV, 20.08.2018, n. 4969; id., sez. IV, 26.07.2018, n. 4583).
Una recente sentenza del Consiglio di Stato (Sez. VI, 29.03.2019, n. 2100) ha puntualizzato come “la giurisprudenza ha riconosciuto il criterio della vicinitas di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010 n. 2565), assorbendo in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione, qualora ad impugnare sia il proprietario confinante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.12.2010 n. 9537).
… deve aggiungersi che, nell’ambito degli abusi edilizi, la giurisprudenza ritiene il pregiudizio del confinante in re ipsa, dato che ogni edificazione abusiva incide sull'equilibrio urbanistico e sull' ordinato sviluppo del territorio (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 11.06.2015, n. 2861; Cons. di Stato, Sez. IV, 23.06.2015, n. 3180)
”, così ribadendo e confermando l’orientamento tradizionale.
2.3.2 Il secondo e più recente orientamento, invece, ritiene necessario che il ricorrente fornisca la “prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente” (Cons. Stato Sez. IV, 22.06.2018, n. 3843; Consiglio di Stato, sez. IV, 15.12.2017 n. 5908; Consiglio di Stato, sez. VI, 18.10.2017, n. 4830).
Di recente, a questo orientamento ha aderito Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.03.2019 n. 1656, il quale, in un caso peculiare, riguardante l’impugnazione di una variante in riduzione di un’opera precedentemente assentita da un titolo edilizio non impugnato, ha però avuto modo di evidenziare come la “vicinitas può anche rilevare al fine di qualificare la lesività dell’intervento e quindi il pregiudizio patito in conseguenza del rilascio del titolo autorizzatorio atteso che, di regola, e quindi, secondo l’id quod plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile di arrecare pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area interessata dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di maggior carico urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…; in questo senso i precedenti giurisprudenziali richiamati dagli appellati meritano senz’altro conferma”.
2.4 È immediatamente evidente che l’adesione all’uno o all’altro orientamento condiziona l’ammissibilità del presente ricorso, poiché il ricorrente, pur avendo allegato circostanze idonee a rappresentare una situazione di concreto ed effettivo vulnus alla sua sfera giuridica e, segnatamente al suo diritto di proprietà, non ha tuttavia fornito la prova della sussistenza della situazione descritta e vi è stata una specifica contestazione di tali circostanze ad opera della controparte.
2.4.1 Va evidenziato, infatti, che il ricorrente, oltre ad aver invocato la vicinanza tra i fondi, quale criterio di radicamento della legittimazione e dell’interesse a ricorrere, deducendo di essere il proprietario di un’abitazione che fronteggia i fondi interessati dalle opere edilizie assentite, ha altresì rilevato che a causa della loro realizzazione subirà la perdita di un panorama particolarmente ameno, oltre che una minore fruizione di luce, aria e vedute.
Gli aspetti appena elencati costituiscono attributi rilevanti del diritto di proprietà, poiché ne connotano in modo qualitativamente significativo il godimento sia sul piano prettamente non patrimoniale che su quello patrimoniale, sicché una loro lesione, ad opera di una costruzione illegittimamente assentita, è idonea a radicare l’interesse ad agire in giudizio, per domandare la pronuncia di annullamento dell’atto che rende possibile la realizzazione di tali opere asseritamente lesive.
2.4.2 Tuttavia, ove si aderisse al secondo dei due orientamenti, sarebbe necessario verificare su quale parte incomba l’onere della prova circa la sussistenza o l’insussistenza dell’asserita lesione dell’interesse giuridicamente rilevante della parte che esperisce l’azione giudiziaria, considerato che, nel caso di specie, la controinteressata ha contestato l’effettiva sussistenza della lesione paventata dal ricorrente.
2.5 Operata questa premessa, si ritiene di dover ritenere infondata l’eccezione opposta e, dunque, ammissibile il ricorso proposto per le ragioni che seguono.
2.6 Ritiene infatti il Collegio preferibile dare continuità all’orientamento che, tradizionalmente, è sempre stato maggioritario nell’ambito della giurisprudenza amministrativa e che, ancora adesso, risulta tutt’altro che superato da quello più recente, di cui si è dato conto.
2.6.1 Invero, a fronte di un’edificazione asseritamente illegittima da un punto di vista edilizio, compiuta in un’area dove chi agisce in giudizio è titolare di un diritto di proprietà su di un determinato bene, si ritiene più opportuno consentire a costui di proporre ricorso al G.A., lamentando la lesione di quelle regole che disciplinano le trasformazioni del territorio, allegando, quale condizione dell’azione, in punto di legittimazione ed interesse ad agire, la mera vicinanza di un suo bene al luogo in cui si sta commettendo l’abuso e si sta, quindi, contravvenendo a tali regole, quale formula idonea a compendiare adeguatamente sia gli elementi fondanti la legittimazione ad agire sia quelli inerenti all’interesse a ricorrere.
2.6.2 L’interesse a ricorrere, in una siffatta ipotesi, è costituito, per l’appunto, dal risultato utile, perseguito mediante la proposizione della domanda di annullamento del titolo edilizio illegittimamente rilasciato, di evitare quelle edificazioni che, in quanto illegittime (perché in contrasto con le norme di legge o con gli strumenti urbanistici di governo del territorio), vanno ad incidere sul territorio (in cui si colloca anche la sua proprietà), alterandone il carico urbanistico e la conformazione morfologica ed abitativa, in modo diverso da quanto programmato dall’amministrazione in sede di pianificazione, secondo quello che quest’ultima, in quanto autorità a ciò preposta dal legislatore, ha ritenuto essere l’assetto ottimale.
Se si assume –come, del resto, fa il nostro ordinamento– che la pianificazione urbanistica e il controllo sulla legittimità dell’attività edilizia perseguano quei valori e quegli interessi pubblici compendiati nella formula dell’“ordinato e razionale assetto del territorio”, l’eventuale lesione di tali valori ed interessi, perpetrati attraverso un’edificazione abusiva, rileva per chi in quel determinato territorio è titolare di un diritto di proprietà e si avvantaggia, per l’appunto, del razionale sviluppo dell’area in cui il bene di cui è titolare si colloca.
Su quest’ultimo punto è bene compiere un’ulteriore precisazione: l’interesse ad un ordinato assetto del territorio è, in linea di massima, interesse di tutta la collettività, ma la sua salvaguardia è demandata all’amministrazione.
E’ dunque chiaro che, così come i privati, di regola, non possono “sostituirsi” alla P.A. nella tutela dell’interesse in questione, allo stesso modo essi non possono sostituire il loro apprezzamento su ciò che vantaggioso realizzare in un determinato ambito territoriale, essendo tale scelta rimessa all’esclusivo apprezzamento della P.A., espresso in sede di pianificazione.
Quest’ultima eventualità si concretizzerebbe, tuttavia, laddove si consentisse a chi ha beneficiato di un permesso di costruire illegittimo di opporre al proprietario confinante che dall’edificazione, pur in tesi assunta come illegittima, non scaturirà, in concreto, alcuna conseguenza pregiudizievole in capo a costui.
Il punto di equilibrio allora è ritenere che coloro che sono insediati in una determinata zona e fruiscono, “in” e “per” quella zona, delle scelte di pianificazione operate dall’amministrazione e dunque di un ordinato e non caotico sviluppo del territorio, beneficiandone direttamente e concretamente nella propria sfera giuridica, abbiano interesse ad agire in giudizio per salvaguardare quelle decisioni, ogni qualvolta ritengano che l’amministrazione stessa le abbia disattese.
È evidente che l’essere proprietari di un bene collocato in un’area ordinata e frutto di scelte di pianificazione coerenti e logiche è preferibile dell’essere proprietari di un bene collocato in un’area che invece presenta un’edificazione disordinata e caotica, frutto dei desiderata estemporanei dei diversi proprietari.
Sicché, in ultima analisi, si ritiene che la vicinitas ben si ponga quale elemento discriminante (necessario e sufficiente) fra chi fruisce della legittimazione (perché deduce di essere titolare di un diritto di proprietà leso dall’abuso edilizio che si sta consumando o si è consumato) e dell’interesse ad agire (perché deduce che, attraverso gli effetti demolitori della pronuncia di annullamento, con l’eliminazione del permesso di costruire, tale lesione giuridica verrà eliminata) e chi invece ne è privo, proprio in considerazione di quanto rilevato da Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.03.2019 n. 1656, a mente del quale, “…secondo l’id quod plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile di arrecare pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area interessata dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di maggior carico urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…;” (seppure, poi, il richiamato precedente aderisca al secondo dei due orientamenti citati).
2.6.3 Si ritiene, peraltro, che in assenza di una definizione univoca di interesse ad agire e in presenza, dunque, di una molteplicità di tesi che ne disputano la qualificazione e la valenza (quale presupposto processuale, condizione dell’azione o, finanche, elemento correlato al merito della controversia, oltre che in presenza di un’autorevole, ma isolata dottrina che ne contesta addirittura la sussistenza), sia preferibile l’adesione ad un orientamento volto ad ampliarne la portata e non a restringerla, poiché una simile impostazione si profila più rispettosa della tutela Costituzionale accordata al diritto di azione in giudizio dall’art. 24 Cost.
Ritiene infatti il Collegio che la limitazione del diritto di agire in giudizio, quand’anche ammissibile, debba essere posta inequivocabilmente dall’ordinamento (in presenza, peraltro, di interessi di pari rango costituzionale) e che, nel dubbio su come esso debba essere inteso rispetto ad una data tipologia di contenzioso, sia preferibile quella tesi che amplia l’esercizio del diritto riconosciuto dalla Costituzione, piuttosto che restringerlo.
2.6.4 Va poi anche rilevato che ritenere che il ricorrente debba non soltanto dedurre, ma anche provare, in concreto, quale sia il pregiudizio a lui discendente dall’abuso da altri commesso, potrebbe determinare delle conseguenze paradossali nell’ambito del processo (e specialmente nell’ambito del processo amministrativo, ove il thema decidendum attiene alla legittimità di un atto).
Si pensi al caso in cui, a fronte di un ricorrente che comprova il suddetto pregiudizio, ad es., con un elaborato peritale, si contrapponga l’amministrazione o un controinteressato che, a sua volta, contesti la sussistenza di quel pregiudizio con un altro elaborato peritale.
Il giudice dovrebbe, ove ritenga le due relazioni parimenti attendibili, disporre una verificazione o una consulenza, per verificare se sussista o meno una condizione dell’azione. Dovrebbe cioè svolgere un’attività istruttoria complessa per appurare la sussistenza non già degli elementi attinenti al merito della controversia, bensì soltanto relativi ai profili pregiudiziali e di carattere meramente processuale.
Ciò comporterebbe un appesantimento dell’attività processuale e un possibile allungamento dei tempi del processo, in spregio alla regola sancita dall’art. 111 Cost.
Anche da questo versante, dunque, il primo dei due orientamenti risulta preferibile.
2.6.5 La tesi che impone di provare in concreto il pregiudizio subito dal proprietario confinante pone anche ulteriori, non condivisibili, conseguenze.
Sulla scorta di questa tesi, infatti, non potrà reagire ad un’edificazione illegittima chi sia proprietario di un terreno posto al confine con un’area che al momento della commissione dell’abuso è abbandonata o in uno stato di degrado: se infatti è il terreno su cui l’edificazione ritenuta illegittima andrà esplicata versa in una simile condizione, l’abuso edilizio commesso rappresenterà, tendenzialmente, sempre un miglioramento dello stato dei luoghi, determinandosi così l’inconfigurabilità di quel pregiudizio concreto richiesto, dal secondo dei due orientamenti sopra ricordati, per potersi agire in giudizio.
Il proprietario confinante dovrà tollerare la commissione dell’abuso, senza avere strumenti adeguati per reagirvi, quantomeno innanzi al Giudice amministrativo, anche se l’area su cui l’edificazione illegittima avviene era stata destinata a tutt’altra finalità in sede di pianificazione (si pensi, ad es., ad un fondo in stato di abbandono, ma destinato a verde pubblico, per il quale è stato rilasciato un illegittimo permesso di costruire).
2.7 In conclusione, il Collegio ritiene che la sussistenza della mera vicinitas tra fondi costituisca presupposto sufficiente per radicare la legittimazione e l’interesse ad agire.
Essendo il dato della vicinitas incontestato nel presente giudizio, il ricorso va dichiarato ammissibile (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.07.2019 n. 1198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa il c.d. “lotto intercluso”, la giurisprudenza del Giudice amministrativo ha avuto modo di chiarire che la fattispecie in questione configura un’ipotesi eccezionale, poiché deroga alla regola della necessità del piano attuativo, ove previsto da quello generale.
Nell’ambito di questa giurisprudenza e dei principi da essa enunciati, il Giudice amministrativo ha anche avuto modo di chiarire che:
   - “L'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” e che
   - “In linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo. Pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione)”.

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4. Il ricorso, tuttavia, è fondato anche in relazione a quella censura (secondo motivo di ricorso) che lamenta la violazione dell’art. 23 N.T.A. del P.R.G. del Comune di Camerota, per essere stato l’intervento edilizio autorizzato in assenza della previa predisposizione di un piano esecutivo.
Invero, nella sua memoria difensiva, la società controinteressata ha contestato la deduzione di parte ricorrente, richiamando quella giurisprudenza sul c.d. lotto intercluso e allegando, quindi, che, nel caso di specie, il piano esecutivo non sarebbe stato necessario.
4.1 Dalla verificazione disposta dal Collegio è invero emerso che “La zona in cui va a collocarsi l’intervento in argomento è caratterizzata dalla presenza di un tessuto edilizio notevolmente articolato…Ciò ha determinato che quanto alla omogeneità del tessuto edilizio esistente, esso si presenti come scarsamente omogeneo e fortemente caratterizzato da notevole stratificazione…In relazione al livello quantitativo di edificazione riscontrabile, già la stessa qualificazione della zona come Zona Omogenea di tipo “B” denota un alto livello di edificazione suscettibile, però, ancora di completamenti”.
Per completezza, va soggiunto che il verificatore ha evidenziato che “…nell’area libera in argomento oggetto del proposto intervento costruttivo non si ritiene che sia possibile un intervento pubblico di realizzazione di urbanizzazioni…”.
4.2 Circa il c.d. “lotto intercluso”, la giurisprudenza del Giudice amministrativo ha avuto modo di chiarire che la fattispecie in questione configura un’ipotesi eccezionale, poiché deroga alla regola della necessità del piano attuativo, ove previsto da quello generale (ex plurimis, Consiglio di Stato Sez. IV, 14.11.2018, n. 6417; TAR Lazio-Latina Sez. I, 02.11.2018, n. 554; Consiglio di Stato Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 24.03.2016, n. 1580; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 18.12.2015, n. 5801; Consiglio di Stato Sez. V, 31.10.2013, n. 5251).
4.3 Nell’ambito di questa giurisprudenza e dei principi da essa enunciati, il Giudice amministrativo ha anche avuto modo di chiarire che “L'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (Consiglio di Stato Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397) e che “In linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo. Pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione)” (Consiglio di Stato Sez. IV, 08.02.2018, n. 825 e Consiglio di Stato Sez. IV, 12.07.2018, n. 4271).
4.4 Le suesposte coordinate ermeneutiche consentono dunque di ritenere fondata la censura dedotta da parte ricorrente circa la necessità del piano attuativo, sulla scorta della rappresentazione della zona in cui l’intervento va a collocarsi, fornita da parte del verificatore.
L’elaborato peritale, pur dando atto della pressoché quasi totale edificazione dell’area in cui l’intervento interviene (“la stessa qualificazione della zona come Zona Omogenea di tipo “B” denota un alto livello di edificazione suscettibile, però, ancora di completamenti”), ha nondimeno evidenziato che essa presenta uno sviluppo urbanistico frastagliato e disomogeneo, frutto di un’edificazione non pianificata né coordinata e, dunque, in ultima analisi non pienamente razionale, come tale suscettibile di quel doveroso miglioramento, cui si richiama l’orientamento giurisprudenziale da ultimo citato (ossia Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397, Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.02.2018, n. 825 e Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.07.2018, n. 4271).
In buona sostanza, nel caso di specie, la sussistenza di un’edificazione disomogenea, in ragione dei richiamati precedenti, esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, cosicché ben può statuirsi che, in ragione dello stato di fatto emerso dalla verificazione, si profila illegittimo il provvedimento autorizzatorio rilasciato dal Comune, in assenza della previa approvazione del piano attuativo.
4.5 La doglianza formulata dal ricorrente va dunque accolta
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 03.07.2019 n. 1198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Contenuto delle convenzioni urbanistiche.
Le convenzioni urbanistiche (alle quali è assimilabile l’atto unilaterale d’obbligo che accede a un titolo abilitativo) sono la sede naturale per introdurre criteri diversi di compensazione tra gli oneri concessori e le opere di interesse pubblico eseguite direttamente a spese dei privati.
Per quanto riguarda questi ultimi, le posizioni giuridiche relative agli oneri concessori sono considerate disponibili, e dunque non vi sono ostacoli alla definizione di un sinallagma che preveda anche l’accettazione di condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle risultanti dalla normativa regionale o comunale, purché sia salvaguardata l’utilità economica finale dell’intervento edilizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 03.07.2019 n. 624 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
3. Deve a questo punto essere esaminata la domanda proposta in via subordinata, con la quale il Comune di Gorle, ove fosse accolta la domanda di gravare i mappali n. 2250 e 2254 di passo pedonale e carraio, chiede di condannare IFL a risarcire i danni per il minor valore del parcheggio e per gli oneri da sostenere per garantire la sicurezza degli utenti della strada (alla luce dell’utilizzo “promiscuo”, pubblico e privato).
La domanda è fondata e merita di essere accolta.
3.1
In linea generale, le convenzioni urbanistiche (alle quali è assimilabile l’atto unilaterale d’obbligo che accede a un titolo abilitativo) sono la sede naturale per introdurre criteri diversi di compensazione tra gli oneri concessori e le opere di interesse pubblico eseguite direttamente a spese dei privati; per quanto riguarda questi ultimi, ha osservato questa Sezione (cfr. sentenza 22/2/2018 n. 198) che le posizioni giuridiche relative agli oneri concessori sono considerate disponibili, e dunque non vi sono ostacoli alla definizione di un sinallagma che preveda anche l’accettazione di condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle risultanti dalla normativa regionale o comunale, purché sia salvaguardata l’utilità economica finale dell’intervento edilizio.
Ha statuito la pronuncia che <<Come osservato da TAR Trieste – 30/12/2016 n. 589 (che risulta appellata) “
nulla osta a che il privato proponente un piano attuativo, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, assuma in sede di convenzione urbanistica obblighi, di fare e/o di dare, ulteriori ed eccedenti rispetto a quelli discendenti dalla legge. La convenzione urbanistica, infatti, rientra nel novero degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, e vede combinarsi insieme poteri pubblicistici (dell’amministrazione), con quelli privatistici (di entrambi i contraenti) di autoregolare il proprio assetto di interessi, con l’assunzione di reciproci obblighi e correlati diritti di credito …. nell’equilibrio del sinallagma contrattuale cristallizzato nella convenzione urbanistica l’obbligo di rendere prestazioni eccedenti il minimo legale ben può risultare giustificato dai benefici che la convenzione consente comunque al privato di conseguire ….>>.
Nella sentenza di questa Sezione 14/02/2018 n. 181 è stata affrontata, in termini generali, la questione dell’efficacia di un Piano attuativo e si è sostenuto (con il richiamo alla sentenza sez. I – 15/09/2014 n. 991) che “
Il problema della durata dei vincoli a carico dei lottizzanti deve invece essere impostato a partire dal collegamento con le facoltà edificatorie. Se un piano attuativo stabilisce un certo equilibrio tra i diritti dei lottizzanti complessivamente intesi (indici edificatori, destinazione dei nuovi edifici) e gli obblighi che i lottizzanti assumono nei confronti dell’amministrazione (opere e oneri di urbanizzazione, cessione gratuita di aree a standard), è evidente che una cancellazione (totale o parziale) degli obblighi può essere ipotizzata solo quando si sia verificata e sia definitiva una corrispondente cancellazione (totale o parziale) dei diritti”.
Ha aggiunto questo TAR che “
La ricostituzione dell’equilibrio tra le posizioni giuridiche opera in entrambe le direzioni, ossia tanto a beneficio dei privati quanto a beneficio dell’amministrazione. Così, se le urbanizzazioni vengono ultimate e l’area è definitivamente trasformata secondo l’impostazione del piano attuativo, si verifica l’effetto irreversibile della lottizzazione (argomento ex art. 17 della legge 1150/1942), con la conseguenza che le singole edificazioni private possono proseguire anche dopo la scadenza originariamente prevista nella convenzione urbanistica, purché sia assicurato il rispetto degli allineamenti e delle altre prescrizioni del piano attuativo. Per converso, se i lottizzanti hanno già esaurito il volume concesso dal piano attuativo, non possono rifiutarsi di ottemperare agli obblighi assunti, anche se l’amministrazione sia in ritardo nel chiederne l’esecuzione. La conformazione dei luoghi conseguente alla lottizzazione vale quindi anche come conformazione delle singole proprietà, sulle quali grava di conseguenza un vincolo non solo obbligatorio ma reale a favore dell’amministrazione”.

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone - Momento consumativo del reato - Unica condotta rumorosa o di schiamazzo - Configurabilità - Natura di reato eventualmente permanente - Art. 659, comma primo, cod. pen. - Giurisprudenza.
La contravvenzione di cui all'art. 659, comma primo, cod. pen., è reato solo eventualmente permanente, che si può consumare anche con un'unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, in quanto non è necessaria la prova che il rumore abbia concretamente molestato una platea più diffusa di persone, essendo sufficiente l'idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di individui (Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, dep. 2015, Calvarese).
In definitiva, quindi, per l'integrazione del reato è sufficiente l'idoneità della condotta ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, non occorrendo l'effettivo disturbo alle stesse (in specie è stata così ritenuta integrata la fattispecie a carico del proprietario di cani, tenuti in un giardino recintato, che non aveva impedito il loro continuo abbaiare, tale da arrecare disturbo al riposo delle persone dimoranti in abitazioni contigue) (Sez. 1, n. 7748 del 24/01/2012, Giacomasso e altro).
Sì che la ricerca di una platea più diffusa di persone che possano essere state effettivamente disturbate riguarda l'intensità e la diffusività del danno, non la sussistenza del reato. Nella specie, i rumori avevano una potenzialità diffusa, ancorché solamente alcune persone se ne potessero lamentare in concreto, anche a prescindere comunque dal fatto che la sussistenza degli elementi costitutivi del reato era fornita dalla stessa costituzione di un comitato di cittadini della zona e dalle segnalazioni degli abitanti.

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INQUINAMENTO ACUSTICO - Reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone - Responsabilità del gestore di un pubblico esercizio - Schiamazzi provocati degli avventori - Qualità di titolare della gestione dell'esercizio pubblico - Obbligo giuridico di controllare - Art. 659 c.p..
Risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio (in specie, un locale di intrattenimento) che non impedisca i continui schiamazzi provocati degli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, poiché al gestore è imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all'autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica (Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo; Sez. 1, n. 48122 del 03/12/2008, Baruffaldi).
Infatti la qualità di titolare della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza (Sez. 1, n. 16686 del 28/03/2003, Massazza)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.07.2019 n. 28570 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, invero, il permesso di costruire in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 è finalizzato alla regolarizzazione degli abusi meramente formali -vale a dire di interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione e al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria- e non può riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti di semplice completamento dei lavori già intrapresi.
Questo principio esclude l’ammissibilità del rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla realizzazione di opere, siano esse di demolizione o, come nel caso di specie, di edificazione -pur se, per quanto si è affermato, tali opere non sono da ritenersi necessarie a regolarizzare il fabbricato- e costituisce ragione ostativa al rilascio del permesso di costruire domandato dal ricorrente.

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10. Ciò non porta tuttavia all’annullamento del provvedimento impugnato stante la legittimità del principio applicato dall’amministrazione comunale nella parte in cui contesta la possibilità di rilasciare un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla realizzazione di opere.
Per giurisprudenza costante, invero, il permesso di costruire in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 è finalizzato alla regolarizzazione degli abusi meramente formali -vale a dire di interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione e al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria- e non può riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti di semplice completamento dei lavori già intrapresi (TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 1003 del 16/12/2015; TAR Piemonte, Sez. I, 04.11.2016, n. 1372).
Questo principio esclude l’ammissibilità del rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla realizzazione di opere, siano esse di demolizione o, come nel caso di specie, di edificazione -pur se, per quanto si è affermato, tali opere non sono da ritenersi necessarie a regolarizzare il fabbricato- e costituisce ragione ostativa al rilascio del permesso di costruire domandato dal ricorrente.
11. Anche l’istanza risarcitoria è infondata e deve essere respinta in quanto non supportata da alcuna prova, non essendo stata fornita, in particolare, la prova della demolizione del fabbricato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 02.07.2019 n. 749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha ritenuto, con riferimento alle attività di pavimentazione e spargimento di ghiaia sul terreno che debba essere assentita dal Comune ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, anche quelle non consistenti in attività di edificazione, ma nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo qualora appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d’uso.
Con riferimento alla realizzazione di parcheggi, la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte affermato la necessità del permesso di costruire edilizio, in quanto la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il carico urbanistico
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Ritiene il Collegio che, rispetto a tale disciplina, l’opera concretamente realizzata, con la posa di un massetto di pochi centimetri e la sua esclusiva funzione di manutenzione del terreno, non potesse configurare, diversamente da quanto affermato dal giudice di primo grado, una opera di trasformazione irreversibile del terreno con realizzazione di un nuovo organismo edilizio.
La esclusiva funzione di manutenzione del terreno è, in fatto, confermata anche dalla mancanza di qualsiasi attività edilizia successiva alla posa del massetto nonché dello stesso utilizzo dell’area, in base alle circostanze risultanti dagli atti del giudizio.
Ne deriva che tale opera non richiedesse la concessione edilizia e che potesse essere realizzata con denunzia di inizio attività, rientrando nella definizione di restauro e risanamento conservativo di cui al primo comma lettera c) della legge n. 457 del 1978.
A sostegno di tale interpretazione ritiene il Collegio di richiamare, altresì, le norme sopravvenute in materia edilizia, non applicabili al caso di specie, ma utilizzabili quale ausilio interpretativo, che hanno espressamente indicato “le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta” (che siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico) nella attività edilizia libera ( attualmente art. 6 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, comma 1, lettera e-ter).
La giurisprudenza, infatti, ha ritenuto, con riferimento alle attività di pavimentazione e spargimento di ghiaia sul terreno che debba essere assentita dal Comune ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, anche quelle non consistenti in attività di edificazione, ma nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo qualora appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d’uso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.04.2012, n. 2450, id. 31.03.2016 n. 1268 con riguardo ad una attività di spargimento di ghiaia su di un’area). Con riferimento alla realizzazione di parcheggi, la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte affermato la necessità del permesso di costruire edilizio, in quanto la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 17.12.2018, n. 7103).
Nel caso di specie, la posa del massetto di cemento non ha comportato alcuna modifica della destinazione d’uso del terreno né una qualunque utilizzazione del bene; è escluso, quindi, che la modifica dello stato materiale del suolo sia stata effettuata per adattarlo ad un utilizzo diverso, né una tale circostanza è stata contestata dal Comune; sembra utile rilevare, del pari, che l’amministrazione pubblica non ha mai contestato le affermazioni degli originari ricorrenti circa la finalità del modesto manufatto, utile ad evitare incivili fenomeni di abbandono incontrollato di rifiuti: e d’altra parte, per un elementare principio di non contraddizione dell’ordinamento, una volta che il sistema onera il privato proprietario a vigilare sulla non adibizione dell’area di sua pertinenza a discarica da parte di terzi (attraverso la predisposizione di recinzioni, etc.) sembra incongruo che, di converso, lo sanzioni in termini così afflittivi per una modestissima opera volta proprio a perseguire detta finalità
Inoltre, neppure appare riportabile ad un aumento del carico urbanistico della zona interessata.
Ritiene, ancora, il Collegio, che, per le concrete modalità dell’opera, nel caso di specie, il Comune non potesse fare applicazione in maniera legittima dei poteri di cui all’art. 4 della legge n. 47 del 1985, che prevede la demolizione per le “opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167”.
Infatti, a prescindere dalla effettiva natura del vincolo- conformativo o espropriativo- posto sull’area in base alla destinazione di piano regolatore (parchi pubblici e impianti sportivi), la particolare natura dell’opera realizzata non appare in contrasto con tale destinazione, trattandosi di una mera attività di pavimentazione funzionale alla conservazione in buono stato dell’area, non incompatibile con la destinazione impressa dal piano regolatore (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 4475 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante e consolidata giurisprudenza, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela civile di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto, sia rispetto allo status quo ante.
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Per quanto occorrer possa -in relazione alla deduzione, effettuata in extremis, che imputa ai tecnici comunali una erronea rilevazione degli abusi- ricorda il Collegio che, per costante e consolidata giurisprudenza, il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela civile di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto, sia rispetto allo status quo ante (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 05.10.2018, n. 5738).
Nella fattispecie non risulta documentata né la proposizione di una querela civile di falso né, comunque, risulta essere stata altrimenti accertata in altro giudizio (civile e/o penale), la falsità della relazione della relazione di sopralluogo agli del processo di primo grado.
Nella valutazione dei motivi articolati in sede di appello, il Collegio si atterrà pertanto esclusivamente alla descrizione risultante da siffatto verbale, così come trasfusa nei provvedimenti impugnati in primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.07.2019 n. 4472 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa, con riferimento a strutture tipo “gazebo”, ne ha ritenuto l’inquadramento nel regime pertinenziale e di manutenzione straordinaria solo con riferimento a manufatti di modeste dimensioni e consistenza, aventi funzioni di riparo dagli agenti atmosferici, costituenti semplici arredi, mentre ha escluso i manufatti che, per le apprezzabili dimensioni strutturali, per l’impatto visivo, il non trascurabile “carico urbanistico”, la loro conformazione e destinazione all'attività imprenditoriale, la rilevante alterazione della sagoma esterna dell’immobile, implicano una incidenza significativa sull’assetto urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto edilizio.
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Per configurare una c.d. “pergotenda”, in quanto tale non necessitante di titolo abilitativo, occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio.

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In proposito, la giurisprudenza amministrativa, con riferimento a strutture tipo “gazebo”, ne ha ritenuto l’inquadramento nel regime pertinenziale e di manutenzione straordinaria solo con riferimento a manufatti di modeste dimensioni e consistenza, aventi funzioni di riparo dagli agenti atmosferici, costituenti semplici arredi, mentre ha escluso i manufatti che, per le apprezzabili dimensioni strutturali, per l’impatto visivo, il non trascurabile “carico urbanistico”, la loro conformazione e destinazione all'attività imprenditoriale, la rilevante alterazione della sagoma esterna dell’immobile, implicano una incidenza significativa sull’assetto urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto edilizio.
In particolare, ancora da ultimo, questo Consiglio ha evidenziato che, per configurare una c.d. “pergotenda”, in quanto tale non necessitante di titolo abilitativo, occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio (Cons. Stato, sez. VI, 05.10.2018 n. 5737)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.07.2019 n. 4472 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza paesistica dell’opera.
Ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell'opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva compatibilità dell'intervento e di tutti gli elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1523 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
9. Venendo al terzo motivo del ricorso per motivi aggiunti, deve escludersi l’affidamento, per le motivazioni già indicate in precedenza: irrilevanza dell’assenso espresso nell’esame paesistico del progetto perché è un procedimento diverso dall’autorizzazione paesistica ed irrilevanza del tempo trascorso perché la DIA non ha mai prodotto effetto in mancanza della richiesta dell’autorizzazione paesistica.
10. Per quanto riguarda la supposta irrilevanza paesistica dell’opera, in quanto il sottotetto non sarebbe visibile dalla strada (oggetto del terzo motivo di ricorso principale e del quarto per motivi aggiunti), la giurisprudenza ha chiarito che ad escludere la rilevanza paesistica dell’opera non può considerarsi sufficiente il requisito della poca visibilità dalla strada pubblica a fronte del principio, ormai consolidato, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell'opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva compatibilità dell'intervento, e di tutti gli elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato (cfr. TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 1819; Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, e id., 10.05.2013, n. 2535, ma già id., 28.10.2002, n. 5881).
Nel caso di specie è chiaro il fatto che l’innalzamento della copertura per una sua parte ha alterato l’aspetto esteriore dell’edificio e che tale modifica, incidendo sulla facciata del fabbricato, è visibile quanto meno dagli edifici posti di fronte e sui lati, quindi si presenta idonea a modificare il paesaggio.
Né, evidentemente, la similarità della copertura a quella di altre costruzioni della zona di per sé determina il corretto inserimento ambientale del manufatto, in quanto –una volta accertato che la variazione c’è stata– il giudizio di compatibilità è poi in concreto rimesso all’Autorità amministrativa a ciò competente, sempre chE sussistano i requisiti espressamente previsti dalla legge per l’avvio del procedimento di sanatoria.

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura vincolata.
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1. Venendo all’esame del ricorso principale, diretto nei confronti dell’ordine di demolizione emesso per mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, il primo motivo di ricorso è infondato.
Soccorre l’orientamento giurisprudenziale, al quale il Collegio si conforma, secondo il quale “l'ordinanza di demolizione non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, adottata in base ad un procedimento di natura vincolata" (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.06.2019 n. 7300; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.03.2019, n. 1448; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 11.03.2019 n. 413) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1523 - link a www.giustizia-amministrativa
).

EDILIZIA PRIVATA: La richiesta dell’esame dell'impatto paesistico ed il giudizio positivo espresso dalla Commissione urbanistica comunale integrata non sono equipollenti dell’autorizzazione paesistica in quanto attengono ad immobili che non sono soggetti a vincolo paesistico.
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L
a giurisprudenza amministrativa ha affermato che, in presenza di zona vincolata, si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica e che l’assenza della stessa rende doverosa l’applicazione della sanzione demolitoria, tenuto conto che non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa DIA, poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia.
Né tanto meno deve ritenersi necessario che, in presenza di un vincolo paesistico, l’amministrazione debba motivare l’ordine di demolizione con riferimento alla mancanza di autorizzazione, dando compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per il ripristino dello stato dei luoghi.
Infatti la giurisprudenza, alla quale il Collegio si conforma, afferma che in presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
Come è stato ulteriormente precisato, il fatto che l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo paesaggistico identifica per ciò solo un preminente interesse pubblico, costituzionalmente rilevante ex art. 9, comma 2, Cost., rispetto al quale l'interesse privato è necessariamente recessivo.

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2. Venendo al secondo motivo di ricorso esso è infondato in quanto risulta dagli atti che la DIA presentata dal ricorrente Pe. su delega del proprietario Sc. non reca alcuna indicazione dell'esistenza del vincolo paesistico gravante sull’immobile.
In merito occorre precisare che la richiesta dell’esame dell'impatto paesistico ed il giudizio positivo espresso dalla Commissione urbanistica comunale integrata non sono equipollenti dell’autorizzazione paesistica in quanto attengono ad immobili che non sono soggetti a vincolo paesistico. Infatti ai sensi dell’art. 35 delle Norme di Attuazione del Piano Territoriale Paesistico Regionale (P.T.P.R.) approvato con d.C.R. 06.03.2001, n. 43749 nelle aree assoggettate a specifica tutela paesaggistica di legge, la procedura preordinata al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’articolo 146 del d.lgs. 42/2004, e succ. mod. ed int., sostituisce l’esame paesistico.
Ne consegue che tale atti non sono idonei a fondare l’affidamento del privato nella formazione di un titolo paesistico per la differenza di oggetto e di procedura.
Né tanto meno può ritenersi formato un affidamento fondato sul mancato controllo della DIA per diversi anni, non essendo, il titolo edilizio, mai divenuto efficace.
Infatti più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, in presenza di zona vincolata, si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica e che l’assenza della stessa rende doverosa l’applicazione della sanzione demolitoria, tenuto conto che non può attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una previa DIA, poiché essa, in mancanza del prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, è da ritenersi priva di effetti ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U. Edilizia (ex plurimis TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 04/01/2019 n. 56).
Né tanto meno deve ritenersi necessario che, in presenza di un vincolo paesistico, l’amministrazione debba motivare l’ordine di demolizione con riferimento alla mancanza di autorizzazione, dando compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per il ripristino dello stato dei luoghi.
Infatti la giurisprudenza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 17.04.2014 n. 642) alla quale il Collegio si conforma, afferma che in presenza di un illecito paesaggistico, l’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva costituisce atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né infine una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
Come è stato ulteriormente precisato, il fatto che l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo paesaggistico identifica per ciò solo un preminente interesse pubblico, costituzionalmente rilevante ex art. 9, comma 2, Cost., rispetto al quale l'interesse privato è necessariamente recessivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1523 - link a www.giustizia-amministrativa
).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che "l’impossibilità del ripristino di cui all’art. 33 D.P.R. 380/2001 (come pure quella di cui all’art. 34), può essere fatta valere dall'interessato solo nella fase esecutiva, e, non come nel caso di specie, in relazione all'ingiunzione, a carattere diffidatorio contenuta nel provvedimento gravato, che precede l'ordine di demolizione. La valutazione della possibilità o meno del ripristino deve, infatti, essere compiuta, ad opera dell’ufficio tecnico comunale, in sede di esecuzione dell’ingiunzione di demolizione.
La correttezza di siffatta conclusione si evince infatti da una lettura del combinato disposto dei primi due commi dell’art. 33 D.P.R. 380/2001 a mente dei quali “gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l'ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso. Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392 e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'agenzia del territorio”.
Detta conclusione risulta condivisa peraltro anche dalla giurisprudenza, sia in relazione all’applicazione dell’art. 33, comma 2, D.P.R. 380/2001 (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 17.04.2007, n. 3327 secondo cui “la sanzione pecuniaria per interventi ristrutturativi risulta essere misura eccezionale, alternativa alla demolizione solo ove risulti l'impossibilità del ripristino. Detta impossibilità può essere rilevata d'ufficio o fatta valere dall'interessato, ma comunque in una fase successiva all'ingiunzione, a carattere diffidatorio, che precede l'ordine di demolizione -quest'ultimo da emettere sulla base di specifici accertamenti dell'ufficio tecnico comunale, chiamato ad intervenire nella fase esecutiva-”), sia in relazione all’applicazione dell’art. 34, comma 2, D.P.R. 380/2001.
Pertanto l’ordine di demolizione adottato nei confronti del responsabile dell’opera abusiva, affinché provveda spontaneamente alla eliminazione della situazione illegittima nel termine prefissato nell’ordinanza sindacale –ora dirigenziale– ha natura di atto di diffida, prodromico alle valutazioni e alle determinazioni che la p.a. dovrà adottare nell’eventualità che il destinatario non ottemperi spontaneamente".
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5. Occorre ora passare al quinto motivo del ricorso principale, con il quale i ricorrenti contestano un altro aspetto dell’ordine di demolizione, cioè la sua illegittimità per non aver valutato l’impossibilità della demolizione.
Il motivo è infondato in quanto tale profilo attiene esclusivamente alla fase esecutiva della demolizione e non alla fase di accertamento dell’abuso.
La giurisprudenza (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 16.05.2014 n. 2718; TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.11.2015 n. 1726) ha infatti chiarito che "l’impossibilità del ripristino di cui all’art. 33 D.P.R. 380/2001 (come pure quella di cui all’art. 34), può essere fatta valere dall'interessato solo nella fase esecutiva, e, non come nel caso di specie, in relazione all'ingiunzione, a carattere diffidatorio contenuta nel provvedimento gravato, che precede l'ordine di demolizione. La valutazione della possibilità o meno del ripristino deve, infatti, essere compiuta, ad opera dell’ufficio tecnico comunale, in sede di esecuzione dell’ingiunzione di demolizione.
La correttezza di siffatta conclusione si evince infatti da una lettura del combinato disposto dei primi due commi dell’art. 33 D.P.R. 380/2001 a mente dei quali “gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale l'ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese dei responsabili dell'abuso.
Qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392 e con riferimento all'ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell'abuso, sulla base dell'indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all'applicazione della legge medesima, del parametro relativo all'ubicazione e con l'equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell'articolo 16 della medesima legge. Per gli edifici adibiti ad uso diverso da quello di abitazione la sanzione è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato a cura dell'agenzia del territorio”.
Detta conclusione risulta condivisa peraltro anche dalla giurisprudenza, sia in relazione all’applicazione dell’art. 33, comma 2, D.P.R. 380/2001 (cfr. TAR Lazio-Roma, sez. I, 17.04.2007, n. 3327 secondo cui “la sanzione pecuniaria per interventi ristrutturativi risulta essere misura eccezionale, alternativa alla demolizione solo ove risulti l'impossibilità del ripristino. Detta impossibilità può essere rilevata d'ufficio o fatta valere dall'interessato, ma comunque in una fase successiva all'ingiunzione, a carattere diffidatorio, che precede l'ordine di demolizione -quest'ultimo da emettere sulla base di specifici accertamenti dell'ufficio tecnico comunale, chiamato ad intervenire nella fase esecutiva- cfr. in tal senso TAR Lombardia, Brescia, 09.12.2002, n. 2213”), sia in relazione all’applicazione dell’art. 34, comma 2, D.P.R. 380/2001 (Consiglio Stato, sez. V, 21.05.1999 , n. 587; TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244).
Pertanto l’ordine di demolizione adottato nei confronti del responsabile dell’opera abusiva, affinché provveda spontaneamente alla eliminazione della situazione illegittima nel termine prefissato nell’ordinanza sindacale –ora dirigenziale– ha natura di atto di diffida, prodromico alle valutazioni e alle determinazioni che la p.a. dovrà adottare nell’eventualità che il destinatario non ottemperi spontaneamente (C.d.S, sez. VI, 28.02.2000, n. 1055; TAR Calabria, 02.06.1999, n. 735; TAR Sardegna, 10.06.1999, n. 767)
".
In considerazione di tali rilievi è da escludere la violazione dell’art. 33, comma 2, D.P.R. 380/2001 e la censura va rigettata (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.07.2019 n. 1523 - link a www.giustizia-amministrativa
).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell’istanza di sanatoria determina un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
Ne consegue che in caso di rigetto esplicito o implicito della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 il Comune non deve riattivare un nuovo procedimento amministrativo e riadottare l’Ordinanza di demolizione, perché in tal modo verrebbe riconosciuto al soggetto privato, autore di abusi edilizi non sanabili, il potere di paralizzare il potere sanzionatorio comunale.

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Mentre, va rilevata l’infondatezza del terzo motivo del ricorso introduttivo, in quanto la presentazione dell’istanza di sanatoria determina un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
Ne consegue che in caso di rigetto esplicito o implicito della domanda di accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 il Comune non deve riattivare un nuovo procedimento amministrativo e riadottare l’Ordinanza di demolizione, perché in tal modo verrebbe riconosciuto al soggetto privato, autore di abusi edilizi non sanabili, il potere di paralizzare il potere sanzionatorio comunale (cfr. da ultimo nell’anno 2018: C.d.S. Sez. IV Sent. n. 5124 del 31.08.2018; C.d.S. Sez. VI Sentenze n. 4671 del 30.07.2018, n. 3058 del 22.05.2018 e n. 1171 del 27.02.2018; TAR Napoli Sez. II Sent. n. 5059 del 30.07.2018; TAR Napoli Sez. III Sentenze n. 4420 del 04.07.2018, n. 1670 del 16.03.2018, n. 595 del 26.01.2018 e n. 8 del 02.01.2018; TAR Lecce Sez. I Sent. n. 646 del 13.04.2018; TAR Molise Sent. n. 135 del 12.03.2018; TAR Napoli Sez. VII Sent. n. 1233 del 26.02.2018; TAR Bari Sez. III Sent. n. 124 del 29.01.2018; contra TAR Lecce Sez. III Sentenze n. 1293 del 09.08.2018, n. 1173 del 16.07.2018, n. 792 del 09.05.2018, n. 628 del 12.04.2018, n. 572 del 09.04.2018, n. 122 del 30.01.2018, n. 69 del 19.01.2018 e n. 16 dell’11.01.2018; TAR Reggio Calabria Sent. n. 406 del 03.07.2018; TAR Napoli Sez. VII Sent. n. 1 del 02.01.2018).
Aderendo all’opposta tesi, secondo cui la mera presentazione dell’istanza di sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985 fa perdere ogni effetto al precedente provvedimento di demolizione, anche il secondo provvedimento di demolizione (emanato dopo la reiezione dell’istanza di sanatoria) potrebbe essere neutralizzato da un’altra istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001 e così via, in un continuo alternarsi di ingiunzioni di demolizioni e istanze di sanatoria, paralizzante l’azione amministrativa di repressione degli abusi edilizi (TAR Basilicata, sentenza 01.07.2019 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento.
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus.
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare.
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Per quanto poi attiene al profilo inerente alla carenza di motivazione in punto di interesse pubblico alla demolizione, atteso il lungo lasso di tempo di esistenza dell’immobile, appare sul punto sufficiente richiamare quanto ribadito dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908; VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; IV, 12.10.2016, n. 4205; 31.08.2016, n. 3750).
Peraltro, nel caso di specie, la pressoché costante interlocuzione con la P.A. a far data dalla presentazione della domanda di condono, e i molteplici procedimenti giudiziari avviati dalla Bonaldo, escludono radicalmente che in capo alla ricorrente possa dirsi maturato un qualche affidamento (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.06.2019 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non impone nel provvedimento conclusivo del procedimento la puntale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto.
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8. Infondato è anche il quinto motivo, con cui si deduce il vizio di violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990 ed il difetto di motivazione sulle controdeduzioni effettuate dal ricorrente.
L'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non impone nel provvedimento conclusivo del procedimento la puntale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto (Cons. Stato, V, 25.07.2018, n. 4523), che nella specie è ravvisabile
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.06.2019 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Disciplina delle terre e rocce da scavo - Applicabilità della normativa speciale - Limiti - Giurisprudenza - Presenza di materiali non rappresentati unicamente da terriccio e ghiaia - Artt. 152 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
In materia di terre di rocce e scavo, va esclusa l'applicabilità della speciale disciplina in presenza di materiali non rappresentati unicamente da terriccio e ghiaia, ma provenienti dalla demolizione di edifici o dal rifacimento di strade e, quindi, contenenti altre sostanze, quali asfalto, calcestruzzo o materiale cementizio o di risulta in genere, plastica o materiale ferroso (Cass. Sez. 3, n. 25206 del 16/05/2012; Sez.3, n. 17126 del 2015; Sez. 3, n. 19942 del 2013; Sez. 3, n. 37195 del 2010) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.06.2019 n. 28181 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Discarica abusiva - Confisca dell'area - Potere di ordinare la bonifica ed il ripristino dello stato dei luoghi - Natura di sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale - Attribuzione di funzioni speciali aventi carattere amministrativo - Giurisprudenza - Artt. 152, 240, 242, 256, 257, d.lgs. n. 152/2006 - Patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen. - Riserva di legge - Art. 23 Cost..
L'art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, prevede che alla sentenza di condanna per la realizzazione e/o gestione di discarica non autorizzata, o alla decisione emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen, consegue la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica abusiva, se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.
Ne consegue che, ponendosi il potere del Giudice di ordinare la bonifica (ed il ripristino dello stato dei luoghi) in parallelo all'autorità amministrativa titolare di autonomo potere, deve affermarsi che tale misura abbia natura di sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale.
Sicché, in materia di ambiente e territorio, viene conferito al giudice il potere di emanare un ordine finalizzato alle conseguenze dell'illecito, con attribuzione di funzioni speciali aventi carattere amministrativo, sebbene esercitate in sede di giurisdizionale, come reiteratamente affermato sia in relazione all'ordine di demolizione urbanistica, di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, che in relazione all'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi in tema di tutela del paesaggio, di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42/2004
(cfr. ex multis, per la natura di sanzione amministrativa avente carattere ripristinatorio, dell'ordine di demolizione, Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 e per l'analoga di natura di sanzione amministrativa dell'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, Sez. 3, n. 1158 del 08/11/2016, dep. 11/01/2017).
Tuttavia, tale potere non può esercitarsi al di fuori delle ipotesi in cui è espressamente consentito, stante il disposto dell'art. 23 Cost., che istituisce una riserva relativa di legge in tema di imposizioni personali i patrimoniali.

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RIFIUTI - INQUINAMENTO DEL SUOLO - DANNO AMBIENTALE - Eliminazione delle conseguenze del danno ambientale - Poteri del giudice - Subordine della sospensione condizionale della pena alla bonifica del sito - Controllo dell'autorità giudiziaria o di un organo tecnico appositamente delegato.
In tema di bonifiche, nel caso in cui il Giudice applica il principio generale di cui all'art. 165 cod. pen., e subordini la sospensione condizionale della pena alla bonifica del sito, la bonifica con la quale subordinare il beneficio penale non sarà necessariamente quella proceduralizzata dal d.lgs. n. 152 del 2006, ma potrà coinciderà con quella stabilita concretamente dal giudice per eliminare le conseguenze del danno ambientale prodotto, soggetta al controllo dell'autorità giudiziaria o di un organo tecnico appositamente delegato e che potrà eventualmente essere verificata ex post dal giudice della esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 13456 del 20.11.2006, Gritti, Sez. 3, n. 35501 del 30.5.2003, Spadetto; nonché Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, che ribadendo il principio ha, però, precisato che, in caso di condanna, o sentenza di patteggiamento della pena, per il reato di inquinamento previsto dall'art. 257 D.Lgs. n. 152 del 2006 il giudice può subordinare la concessione del predetto beneficio alla bonifica del sito inquinato esclusivamente secondo le procedure regolamentate dallo stesso decreto legislativo, in virtù della norma specifica prevista del medesimo art. 257, comma 3, d.lgs. n. 152/2006) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.06.2019 n. 28175 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Principio di rotazione.
Va confermato il principio di carattere generale in virtù del quale va riconosciuta l’obbligatorietà del principio di rotazione per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”;
Invero, il principio di rotazione –che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da invitare a presentare le offerte– è finalizzato a evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento e non invece dalle modalità di affidamento, di tipo “aperto”, “ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è elevato.
Pertanto, anche al fine di scoraggiare pratiche di affidamenti senza gara –tanto più ove ripetuti nel tempo– che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che ove la procedura prescelta per il nuovo affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso” (recte, negoziato), l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Rileva, quindi, il fatto oggettivo del precedente affidamento in favore di un determinato operatore economico, non anche la circostanza che questo fosse scaturito da una procedura di tipo aperto o di altra natura: per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito del precedente affidatario, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al peculiare oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.06.2019 n. 599 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. È fondata l’argomentazione con la quale parte ricorrente deduce la violazione, ad opera della Stazione appaltante, del principio di rotazione.
1.1 Va, innanzi tutto, confermato il principio di carattere generale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.03.2019 n. 1524 e 13.12.2017 n. 5854; sez. VI, 31.08.2017 n. 4125) in virtù del quale
va riconosciuta l’obbligatorietà del principio di rotazione per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”.
Il principio di rotazione –che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da invitare a presentare le offerte– è finalizzato a evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento e non invece dalle modalità di affidamento, di tipo “aperto”, “ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è elevato.
Pertanto,
anche al fine di scoraggiare pratiche di affidamenti senza gara –tanto più ove ripetuti nel tempo– che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che ove la procedura prescelta per il nuovo affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso” (recte, negoziato), l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Rileva quindi il fatto oggettivo del precedente affidamento in favore di un determinato operatore economico, non anche la circostanza che questo fosse scaturito da una procedura di tipo aperto o di altra natura: per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito del precedente affidatario, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al peculiare oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento.
1.2 Secondo quanto sostenuto dalla controinteressata (cfr. memoria di costituzione in giudizio, depositata il 13.06.2019), “non sussiste un divieto assoluto di invito del gestore uscente, non assurgendo il principio di rotazione a regola inderogabile”.
Piuttosto, sempre secondo la prospettazione dell’aggiudicataria –che, in proposito, riprende e conferma quanto dalla Stazione appaltante motivato in sede di affidamento del servizio– “in capo alla stazione appaltante non vi è spendita di potere discrezionale alcuno, avendo invitato la totalità degli operatori economici che hanno manifestato il proprio interesse entro il termine perentorio previsto dall'avviso pubblico aperto a chiunque, nel pieno rispetto dei principi di concorrenza, trasparenza, non discriminazione, e imparzialità dell'agere amministrativo".
Tale tesi vieppiù rileverebbe in presenza di due sole imprese partecipanti alla procedura selettiva: ipotesi nella quale il mancato invito a partecipare rivolto all'operatore uscente (sì da pretesamente garantire il confronto concorrenziale) sarebbe funzionale ad escludere (attraverso un’applicazione rigida del principio di rotazione) una irragionevole ed ingiustificata compressione della concorrenza, che, appunto nel caso di due soli operatori, verrebbe del tutto esclusa, in contrasto con la ratio sottesa allo stesso principio di rotazione, di cui si pretende l'applicazione.
1.3 Tale ultima argomentazione, invero, non appare condivisibile, atteso che una corretta applicazione del principio di che trattasi avrebbe dovuto indurre la S.A., ab initio, a non estendere l’avviso esplorativo nei confronti del precedente affidatario del servizio (Au.Di.Ca.); le successive vicende (manifestazione di interesse da parte di due soli destinatari del predetto avviso, ovvero le parti dell’odierno giudizio) risultando appieno irrilevanti ai fini di che trattasi, ove si consideri che l’impresa poi risultata aggiudicataria non avrebbe tout court essere destinataria di invito a prendere parte alla selezione de qua.
La norma di cui all’art. 36 del D.Lgs. 50 del 2016 (a mente del quale “l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese”):
   - se, con ogni evidenza, è preordinata a scongiurare la creazione (e/o il consolidamento) di posizioni di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati operatori economici; favorendo, per converso, l’apertura al mercato più ampia possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche competitive
   - si riferisce non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da interpellare e da invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al carattere “fiduciario” della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.06.2019 n. 3831 e sez. III, 12.09.2014, n. 4661).
1.4 Come sopra ribadita l’obbligatoria applicabilità del principio all’esame, risultano condivisibili i rilievi mossi all’operato dell’Amministrazione comunale, nella misura in cui ha inadeguatamente appalesato i motivi che hanno indotto all’estensione dell’avviso esplorativo anche nei confronti dell’affidatario “uscente” del servizio.
Se è vero che, “ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito di quest’ultimo (il gestore uscente), dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee guida n. 4)” (ex multis: Cons. Stato, sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., sez. V, 03.04.2018, n. 2079; id., sez. VI, 31.08.2017, n. 4125), è parimenti vero che:
   - l’anzidetto avviso è stato rivolto, anche, nei confronti di Au.Di.Ca. (consumandosi, con tale atto, una violazione del principio di rotazione, in un momento, anteriore alla manifestazione di interesse, nel quale la S.A. non poteva conoscere quanto operatori avrebbero favorevolmente corrisposto all’avviso medesimo);
   - la motivazione risulta ostesa nell’atto con cui si è proceduto all’affidamento, laddove le ragioni (eventualmente derogatorie) all’applicazione del principio in discorso avrebbero dovuto essere esternate fin dal primo atto riguardante la manifestazione della volontà di individuare un privato contraente per l’affidamento del servizio di che trattasi.

1.5 Quanto sopra osservato, la Stazione Appaltante aveva in definitiva solo due possibilità: non invitare il gestore uscente o, in caso contrario, motivare attentamente le ragioni per le quali riteneva di non poter invece prescindere dall’invito.
Escluso che la motivazione nella fattispecie dispiegata –peraltro esplicitata solo in esito allo svolgimento della procedura selettiva– riveli profili di apprezzabile condivisibilità, l’esercizio dell’opzione verso la prima delle indicate soluzioni (nella fattispecie, non esercitata) avrebbe consentito di annettere all’attività della Stazione Appaltante quel carattere di legittimità, invece escluso dal modus procedendi da quest’ultima prescelto.
Va, in proposito, ulteriormente ribadito come l’obbligo di applicazione del principio di rotazione negli affidamenti sotto-soglia sia volto –intrinsecamente– a tutelare le esigenze della concorrenza, in un settore nel quale è maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita anticompetitiva da parte di singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio.
Con la conseguenza che
l’impresa, che in precedenza abbia svolto un determinato servizio, non può vantare alcuna legittima pretesa ad essere invitata ad una nuova procedura di gara per l’affidamento di un contratto pubblico di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, né a risultare aggiudicataria del relativo affidamento (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 13.12.2017 n. 5854 e 31.08.2017 n. 4142).
2. Quanto sopra esposto, consente al Collegio di dare atto della fondatezza delle censure dalla parte ricorrente dedotte avverso l’ammissione alla procedura selettiva della controinteressata Au.Di.Ca.: la quale, come in precedenza spiegato, non avrebbe dovuto essere invitata a partecipare alla gara in ragione dell’applicazione del principio di rotazione, ex art. 36 del D.Lgs. 50/2016.

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di parete finestrata.
L'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci.
L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture
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Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio", cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall'esterno.
Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso.
Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino
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MASSIMA
2. Venendo al merito, occorre premettere che la Sezione aderisce all’orientamento giurisprudenziale (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30/11/2018 n. 2706) secondo il quale “
… "l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in materia di distanze tra edifici, fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci” (Consiglio di Stato, sez. IV, 05.10.2015, n. 4628; cfr., nella giurisprudenza civile, Cassazione civile, sez. II, 20.12.2016, n. 26383). L’operatività della previsione è, quindi, condizionata dalla natura delle aperture…” (v. anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 23/05/2019 n. 1168).
Va quindi respinta la difesa dell’amministrazione nella parte in cui sostiene che le distanze previste dalla norma si applicherebbero anche alle “luci” e quindi la distinzione con le “vedute” sarebbe irrilevante.
Occorre inoltre precisare che dall’esame del provvedimento impugnato risulta che le inferriate sono state collocate dopo l’accertamento effettuato in data 11.01.2017, come più volte affermato dal Comune.
A ciò si aggiunge che la Relazione tecnica che accompagna la domanda di permesso di costruire in sanatoria, datata settembre 2017, chiarisce che "Per regolarizzare al meglio tale situazione, in accordo con le proprietà di entrambi i lotti edificati, si è intervenuto su tali aperture inserendo delle apposite inferriate che impediscano l'affaccio al fine di confermare la natura di luci delle stesse. Si allega alla presente una documentazione fotografica che dimostra l'avvenuto posizionamento di tali inferriate".
Accertato quindi che l’apposizione delle inferriate, elemento dirimente per attribuire carattere di “luce” alle finestre in questione, è una sopravvenienza di fatto rispetto alla situazione precedente, occorre rammentare che l’istituto della sanatoria edilizia trova compiuta disciplina ex art. 36 del relativo testo unico, il quale dispone che il permesso in sanatoria può essere ottenuto se l’intervento abusivo risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità costituisce quindi condicio sine qua non per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria (ex multis: Cons. Stato, VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327; 13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194; Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
Ora dall’esame delle fotografie presentate dalle parti, dalle quali è possibile desumere le caratteristiche delle finestre prima della loro chiusura parziale con le inferriate, risulta chiaro che esse sono delle “vedute”.
In merito l’art. 900 c.c. stabilisce che le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.
Secondo la giurisprudenza (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 22.04.2015 n. 641) "Si ha veduta quando è consentita non solo una comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo del vicino ma anche una comoda, agevole e sicura "prospectio", cioè la possibilità di affaccio -con sporgenza del capo- per poter guardare di fronte, lateralmente e obliquamente. Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal legislatore nella definizione delle vedute, è il porsi l'osservatore di normale altezza, comodamente, senza pericolo e senza l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col petto, protetto dall'opera, a livello superiore a quello massimo dell'opera stessa nel punto di osservazione, in modo da poter sporgere oltre tale livello il capo e vedere, anche obliquamente e lateralmente, l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da poter esser visto dall'esterno. Per poter distinguere una veduta prospettica da una finestra lucifera, bisogna accertare, avuto riguardo non all'intenzione del proprietario, ma alle caratteristiche oggettive ed alla destinazione dei luoghi, se essa adempie alla funzione, normale e permanente non esclusiva, di dare aria e luce all'ambiente e di permettere la "inspectio" e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui, in modo da determinare un inequivoco e durevole assoggettamento di quel fondo a tale peso. Non può sussistere veduta quando, pur essendo possibile l'affaccio attraverso un'apertura, non possa attuarsi normalmente, e cioè agevolmente e senza pericoli, la sporgenza del capo per guardare di fronte, obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino".
Nel caso di specie risulta dalle fotografie e non è contestato dalle parti che, se libere dalle inferriate poi installate, le finestre in questione, ed in particolare quella del secondo piano, interessata più direttamente dalla sopraelevazione del vicino, non svolgono solo la funzione di dare luce ed aria all’appartamento ma permettono anche agli occupanti una comoda prospectio, sia per l’altezza alla quale è posizionata che per le sue dimensioni, integrando quindi i requisiti della “veduta”.
Ne consegue che l’eventuale eliminazione della “veduta” mediante l’apposizione della grata non è idonea ad escludere l’esistenza della violazione edilizia, almeno al momento della realizzazione dell’abuso, e ciò determina l’insussistenza del requisito della c.d. doppia conformità.
Per tali ragioni il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli ulteriori aspetti, vanno respinti. L’impugnato diniego di sanatoria, in effetti, si regge anche solo sul difetto di conformità edilizia al momento di realizzazione dell’abuso, esonerando il Collegio dall’approfondire in fatto la natura dell’apertura dopo l’installazione delle inferriate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse.
Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente già adottate.

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1. In primo luogo occorre respingere l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere sollevata dal Comune per non aver, il ricorrente, impugnato l’ordinanza di demolizione anteriore al diniego di accertamento di conformità.
In merito occorre rammentare che, secondo la giurisprudenza della Sezione, "
la presentazione dell’istanza di sanatoria –sia essa di accertamento di conformità sia essa di condono– produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse. Invero il riesame dell’abusività dell’opera provocato dalla predetta istanza di sanatoria comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (esplicito od implicito, di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa. Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere. Del pari nel caso di positiva delibazione dell’istanza non si avrebbe più interesse alla definizione del giudizio, essendo stato sanato il lamentato abuso, con effetto estintivo anche delle sanzioni acquisitive eventualmente già adottate (cfr., TAR Lombardia, Milano, II, 11.06.2019, n. 1319; 03.05.2019, n. 1003; 23.11.2018, n. 2635; TAR Lombardia, Brescia, I, 10.07.2017, n. 904; TAR Molise, I, 26.02.2016, n. 105)" (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Non può giustificare la violazione dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, citato, la circostanza che la costruzione del ricorrente sarebbe stata realizzata a propria volta in violazione della stessa norma.
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza anche costituzionale l'obbligo di rispettare le distanze tra edifici, perseguendo il pubblico interesse (igiene, decoro, sicurezza e assetto urbanistico) trova applicazione anche con riferimento ad un precedente fabbricato realizzato in tutto o in parte abusivamente od illegittimamente.

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3. Anche il terzo motivo è infondato.
In merito occorre specificare che il ricorrente paventa l’esistenza di un abuso simmetrico al tempo della realizzazione dell’edificio prospiciente. Si tratta però di un fatto totalmente privo di prova in quanto non è chiara la situazione di fatto al tempo della costruzione del primo dei due immobili.
A ciò si aggiunge che l’amministrazione ha chiarito che le distanze sono state misurate con riferimento ad una parte dell’edificio coperta da valido titolo edilizio ed in relazione alla destinazione d’uso dei locali previsti nei titoli.
In ogni caso occorre rammentare che, secondo la giurisprudenza (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 30.03.2006 n. 348) "non può giustificare la violazione dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, citato, la circostanza che la costruzione del ricorrente sarebbe stata realizzata a propria volta in violazione della stessa norma. Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza anche costituzionale (Corte Costituzionale n. 120 del 18.04.1996) l'obbligo di rispettare le distanze tra edifici, perseguendo il pubblico interesse (igiene, decoro, sicurezza e assetto urbanistico) trova applicazione anche con riferimento ad un precedente fabbricato realizzato in tutto o in parte abusivamente od illegittimamente" (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATASimilmente a quanto avviene in sede di adozione delle ordinanze di demolizione di manufatti realizzati abusivamente, la motivazione relativa alla rilevata difformità delle opere edilizie si rinviene con l’accertamento della loro realizzazione, in assenza dei presupposti titoli edilizi o in difformità dagli stessi, mentre il carattere del tutto vincolato dell’attività di contrasto alle violazioni in ambito edilizio, quale conseguenza delle sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
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L’assenza del requisito della doppia conformità, ossia della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza titolo sia alla disciplina urbanistica vigente all’atto della sua realizzazione che a quella vigente al momento della richiesta di sanatoria impedisce il rilascio del permesso in sanatoria.
Il diniego di sanatoria, motivato con l’avvenuta realizzazione di s.l.p. (superficie lorda di pavimento) abusiva, risulta pertanto conforme alle prescrizioni legali, atteso che il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (e anche dell’eventuale presupposto diniego di sanatoria), da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento.
A tal fine è stato evidenziato come nelle ipotesi “di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
   - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico;
   - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti”.
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Con riguardo all’eccezione legata all’impossibilità della riduzione in pristino e del grave pregiudizio che potrebbe derivare alle parti legittime dell’immobile, va ribadito che un onere siffatto grava sulla parte privata, visto che, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001.
Oltretutto l’eventualità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria può essere apprezzata dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è successiva e autonoma sia rispetto al diniego di sanatoria che all’ordine di demolizione.
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MASSIMA
4. Con la seconda e la terza censura, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità del diniego di sanatoria, poiché lo stesso non risulterebbe motivato in maniera puntuale rispetto all’asserito contrasto con la pianificazione urbanistica vigente e nemmeno sarebbero state considerate le peculiarità della fattispecie concreta, ossia la realizzazione del soppalco contestualmente alla costruzione dell’immobile, la sua originaria assentibilità e il pregiudizio per le parti legittimamente edificate in caso di rimozione.
4.1. Le doglianze sono infondate.
Similmente a quanto avviene in sede di adozione delle ordinanze di demolizione di manufatti realizzati abusivamente, la motivazione relativa alla rilevata difformità delle opere edilizie si rinviene con l’accertamento della loro realizzazione, in assenza dei presupposti titoli edilizi o in difformità dagli stessi, mentre il carattere del tutto vincolato dell’attività di contrasto alle violazioni in ambito edilizio, quale conseguenza delle sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 06.08.2018, n. 1946; 02.05.2018, n. 1190).
In tal senso, appare pienamente satisfattiva la motivazione posta a supporto dell’atto impugnato, che, seppure in maniera sintetica, ha evidenziato come “l’intervento proposto comporta l’incremento di S.L.P. in contrasto con le N.T. del Piano delle Regole del PGT vigente”.
Del resto, come riconosciuto anche dalla parte ricorrente, l’assenza del requisito della doppia conformità, ossia della conformità dell’intervento edilizio realizzato senza titolo sia alla disciplina urbanistica vigente all’atto della sua realizzazione che a quella vigente al momento della richiesta di sanatoria impedisce il rilascio del permesso in sanatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 27.05.2019, n. 1199; 08.01.2019, n. 31).
Il diniego di sanatoria, motivato con l’avvenuta realizzazione di s.l.p. (superficie lorda di pavimento) abusiva, risulta pertanto conforme alle prescrizioni legali, atteso che il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (e anche dell’eventuale presupposto diniego di sanatoria), da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
A tal fine è stato evidenziato come nelle ipotesi “di edificazioni radicalmente abusive e giammai assistite da alcun titolo, il richiamo alla figura, peraltro ambigua e controversa, dell’interesse pubblico in re ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
   - da un lato, come si è detto, il rilevato carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico;
   - dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta –per così dire– ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere –in modo esplicito o implicito– una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti
” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 03.05.2018, n. 1198).
...
4.2. Infine, con riguardo all’eccezione legata all’impossibilità della riduzione in pristino e del grave pregiudizio che potrebbe derivare alle parti legittime dell’immobile, va ribadito che un onere siffatto grava sulla parte privata, visto che, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170); oltretutto l’eventualità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria può essere apprezzata dalla sola P.A. nella fase esecutiva del procedimento sanzionatorio, che è successiva e autonoma sia rispetto al diniego di sanatoria che all’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, VI, 04.06.2018, n. 3371; TAR Lombardia, Milano, II, 18.01.2019, n. 106; 06.08.2018, n. 1946).
4.3. Ne discende il rigetto anche delle suesposte censure.
5. In conclusione, all’infondatezza delle scrutinate doglianze, segue il rigetto del ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 1482 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATAa) «nel nostro ordinamento non si rinviene alcun dato normativo positivo da cui inferire che la vendita all’asta nell’ambito di una procedura espropriativa importerebbe effetto sanante degli eventuali illeciti edilizi realizzati.
Tale conclusione, peraltro, non può trarsi nemmeno facendo applicazione del principio generale del cd effetto purgativo derivante dalla natura di acquisto a titolo originario del bene, effetto che riguarda più propriamente i diritti, i pesi e le limitazioni legali gravanti sul bene, e non già lo stato di fatto materiale e antigiuridico in cui in ipotesi si trovi il bene. L’unico aspetto espressamente preso in considerazione dal legislatore per l’ipotesi che il bene acquistato sia affetto da illeciti edilizi riguarda la scansione dei tempi per attivare la procedura di sanabilità delle opere.
Ai sensi dell’art. 40, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985, infatti, “nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”»;
   b) l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti costituiscono atti vincolati e, pertanto, non richiedono alcun altra motivazione in ordine alle ragioni che impongono la rimozione dell’abuso, neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso;
   c) la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria dev’essere valutata nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
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Premesso che:
   - con ordinanza n. 59 dell’08.03.2019, è stata ingiunta ai ricorrenti la demolizione di opere abusive riguardanti l’abitazione in contrada ... n. 47, identificata in Catasto al fl. 5, part. 150, sub 7 e consistenti in: 1) corpo di fabbrica in muratura ordinaria di mq. 85; 2) tettoia chiusa su tre lati della superficie complessiva di mq. 15,87; 3) vano ripostiglio in struttura metallica; 4) tettoia chiusa su due lati della superficie complessiva di mq. 27,90;
Rilevato che il ricorso deduce:
   - l’affidamento incolpevole, dimostrato dal fatto che l’immobile è stato acquistato mediante asta giudiziaria e che gli abusi risalgono a svariati anni prima;
   - la mancata valutazione dell’applicabilità di una sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 33 del T.U. edilizia;
Ritenuto che il ricorso è manifestamente infondato, in quanto:
   a) «nel nostro ordinamento non si rinviene alcun dato normativo positivo da cui inferire che la vendita all’asta nell’ambito di una procedura espropriativa importerebbe effetto sanante degli eventuali illeciti edilizi realizzati. Tale conclusione, peraltro, non può trarsi nemmeno facendo applicazione del principio generale del cd effetto purgativo derivante dalla natura di acquisto a titolo originario del bene, effetto che riguarda più propriamente i diritti, i pesi e le limitazioni legali gravanti sul bene, e non già lo stato di fatto materiale e antigiuridico in cui in ipotesi si trovi il bene.
L’unico aspetto espressamente preso in considerazione dal legislatore per l’ipotesi che il bene acquistato sia affetto da illeciti edilizi riguarda la scansione dei tempi per attivare la procedura di sanabilità delle opere. Ai sensi dell’art. 40, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985, infatti, “nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”
» (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.05.2017 n. 1996);
   b) l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti costituiscono atti vincolati e, pertanto, non richiedono alcun altra motivazione in ordine alle ragioni che impongono la rimozione dell’abuso, neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 17.10.2017 n. 9 e Sez. VI, 20.11.2018 n. 6566; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 19.03.2019 n. 584);
   c) la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria dev’essere valutata nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 31.08.2018 n. 5128) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 1305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAppartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP), prevista dall'art. 143, R.D. 1775/1933, la controversia relativa a provvedimenti assunti in tema di concessione edilizia sotto qualunque profilo, laddove si contesti la violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), R.D. 523/1904.
Detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
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Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Esiste un costante orientamento dei TAR circa il difetto di giurisdizione in controversie come quella in esame.
In più occasioni è stato affermato che appartiene alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143, R.D. 1775/1933, la controversia relativa a provvedimenti assunti in tema di concessione edilizia sotto qualunque profilo, laddove si contesti la violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), R.D. 523/1904; detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.06.2019 n. 965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA- secondo la giurisprudenza più recente, quando viene presentata la domanda di sanatoria degli abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori): infatti, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto anzitutto ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono, effettuando comunque una nuova valutazione della situazione, mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione dell’istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse nei confronti dei pregressi provvedimenti repressivi, stante la necessità di una riedizione del potere sanzionatorio.
Pertanto, la P.A. ha il dovere di procedere prioritariamente all’esame della domanda di condono, che comporta l’esigenza di una nuova valutazione e determinazione sugli illeciti edilizi ed il superamento degli originari provvedimenti repressivi, posto che, in caso di accoglimento, l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l’autorità amministrativa è comunque tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione, fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato;
   - a tale orientamento aderisce la giurisprudenza di questa Sezione, la quale ancora di recente ha avuto modo di precisare che la presentazione, da parte del destinatario di un ordine di demolizione, di una domanda di condono o sanatoria per le opere sanzionate, comporta in ogni caso l’improcedibilità del ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione, perché, determinando l’obbligo per il Comune di valutare l’istanza, con la conseguente necessità di assumere un nuovo provvedimento favorevole o sfavorevole in esito alla definizione della richiesta di sanatoria, fa perdere efficacia all’originario provvedimento repressivo, il quale non può più essere portato ad esecuzione.
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Secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente, la presentazione dell’istanza di condono delle opere abusive comporta la perdita di efficacia dell’ordinanza di demolizione: quest’ultima, nonostante la mancanza, nel giudizio di annullamento proposto avverso di essa dal privato, di un’ordinanza cautelare che ne avesse sospeso l’efficacia, è stata comunque privata dei suoi effetti dalla pendenza della domanda di condono, che ne ha precluso ogni ulteriore possibilità di esecuzione.
Per conseguenza, una volta respinta la domanda di sanatoria, il Comune deve adottare una nuova ordinanza di demolizione (in sostituzione della precedente), anziché emanare illegittimamente il provvedimento di esecuzione d’ufficio dell’ordine demolitorio ormai privato dei suoi effetti.
Né si potrebbe obiettare che si tratterebbe di un distinguo soltanto formale, dovendo comunque procedersi alla rimozione delle opere abusive non sanate: infatti, l’emanazione ad opera della P.A. di un nuovo provvedimento demolitorio consente all'istante, eventualmente, di ottemperarvi spontaneamente, prima di vedersi destinatario di un ordine coattivo.
E la differenza tra le due ipotesi (rimozione spontanea dell’abuso – esecuzione coattiva) si coglie con facilità sul piano sanzionatorio (cfr. art. 7 della l. n. 47/1985, ed ora art. 31 del d.P.R. n. 380/2001).
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In disparte tale eccezione (senz’altro condivisibile, in linea di principio), osserva però il Collegio che i motivi aggiunti sono fondati e da accogliere nella parte in cui –terzo motivo aggiunto– è con essi dedotta l’illegittimità dell’ordine di esecuzione d’ufficio, in quanto non preceduto da una rinnovata ordinanza di demolizione, che il Comune avrebbe dovuto adottare a seguito del rigetto dell’istanza di concessione in sanatoria.
Ed invero, come ricordato da un recentissimo precedente della Sezione (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 08.04.2019, n. 427):
   - “secondo la giurisprudenza più recente, quando viene presentata la domanda di sanatoria degli abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei lavori): infatti, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto anzitutto ad esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono, effettuando comunque una nuova valutazione della situazione, mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione dell’istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse nei confronti dei pregressi provvedimenti repressivi, stante la necessità di una riedizione del potere sanzionatorio. Pertanto, la P.A. ha il dovere di procedere prioritariamente all’esame della domanda di condono, che comporta l’esigenza di una nuova valutazione e determinazione sugli illeciti edilizi ed il superamento degli originari provvedimenti repressivi, posto che, in caso di accoglimento, l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l’autorità amministrativa è comunque tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione, fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 04.01.2018, n. 44);
   - a tale orientamento aderisce la giurisprudenza di questa Sezione, la quale ancora di recente ha avuto modo di precisare che la presentazione, da parte del destinatario di un ordine di demolizione, di una domanda di condono o sanatoria per le opere sanzionate, comporta in ogni caso l’improcedibilità del ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione, perché, determinando l’obbligo per il Comune di valutare l’istanza, con la conseguente necessità di assumere un nuovo provvedimento favorevole o sfavorevole in esito alla definizione della richiesta di sanatoria, fa perdere efficacia all’originario provvedimento repressivo, il quale non può più essere portato ad esecuzione (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 21.01.2019, n. 56)
”.
Da quanto esposto emerge chiaramente che, secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente ed al quale si ritiene qui di aderire, la presentazione ad opera del sig. Vi. dell’istanza di condono delle opere abusive ha comportato –al contrario di quanto assume il Comune– la perdita di efficacia dell’ordinanza di demolizione del 09.08.1993: quest’ultima, nonostante la mancanza, nel giudizio di annullamento proposto avverso di essa dal privato, di un’ordinanza cautelare che ne avesse sospeso l’efficacia, è stata comunque privata dei suoi effetti dalla pendenza della domanda di condono, che ne ha precluso ogni ulteriore possibilità di esecuzione.
Per conseguenza, una volta respinta la domanda di sanatoria, il Comune avrebbe dovuto adottare una nuova ordinanza di demolizione (in sostituzione della precedente), anziché emanare illegittimamente il provvedimento di esecuzione d’ufficio dell’ordine demolitorio ormai privato dei suoi effetti. Né si potrebbe obiettare che si tratterebbe di un distinguo soltanto formale, dovendo comunque procedersi alla rimozione delle opere abusive non sanate: infatti, come ben evidenzia nel terzo motivo aggiunto il ricorrente, l’emanazione ad opera della P.A. di un nuovo provvedimento demolitorio gli avrebbe consentito eventualmente di ottemperarvi spontaneamente, prima di vedersi destinatario di un ordine coattivo. E la differenza tra le due ipotesi (rimozione spontanea dell’abuso – esecuzione coattiva) si coglie con facilità sul piano sanzionatorio (cfr. art. 7 della l. n. 47/1985, ed ora art. 31 del d.P.R. n. 380/2001).
Sussisteva, dunque, un indubbio interesse del privato all’adozione, da parte della P.A., di una nuova ordinanza di demolizione, onde evitare le conseguenze sanzionatorie ora accennate. Di qui, in ultima analisi, la fondatezza del terzo motivo aggiunto, che deve essere quindi accolto (con assorbimento di tutte le ulteriori censure), non potendosi condividere in alcun modo le argomentazione avanzate sul punto dalla difesa comunale: in particolare, erra il Comune lì dove argomenta che la reiterazione del procedimento sanzionatorio si sarebbe rivelata un’inutile ed antieconomica duplicazione dell’agire amministrativo.
In conclusione, pertanto, mentre il ricorso originario è complessivamente infondato e da respingere, quello per motivi aggiunti è fondato e da accogliere, attesa la fondatezza del terzo motivo aggiunto e con assorbimento degli altri.
Per conseguenza, va annullato il provvedimento comunale con il quale è stata disposta l’esecuzione d’ufficio della demolizione delle opere abusive, gravato –come detto– a mezzo dei motivi aggiunti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.06.2019 n. 768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti pericolosi e non pericolosi non autorizzata - Area su cui terzi depositino in modo incontrollato rifiuti - Responsabilità del proprietario - Doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti - Fattispecie: contratto di locazione e attività di autoriparazioni/carrozzeria - Art. 42 Costituzione - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
Il proprietario di un'area su cui terzi depositino in modo incontrollato rifiuti, è penalmente responsabile dell'illecita condotta di questi ultimi in quanto tenuto a vigilare sull'osservanza da parte dei medesimi delle norme in materia ambientale e ciò in quanto, in tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione.
E' stato, infatti, affermato che risponde del reato di gestione non autorizzata di rifiuti il proprietario che conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi un'attività di smaltimento di rifiuti, in quanto incombe sul primo, anche al fine di assicurare la funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.), l'obbligo di verificare che il concessionario sia in possesso dell'autorizzazione per l'attività di gestione dei rifiuti e che questi rispetti le prescrizioni contenute nel titolo abilitativo
(Sez. 3, n. 36836 del 09/07/2009, Riezzo)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.06.2019 n. 27911 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGONessuna indennità per il settimo giorno lavorativo al comandante-dirigente della polizia locale.
Al comandante della polizia locale, con qualifica dirigenziale, non spetta alcuna indennità o risarcimento per il lavoro prestato oltre il sesto giorno, anche se imposto dall'ente in ragione del principio di onnicomprensività della sua retribuzione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 25.06.2019 n. 17000.
Infatti la prestazione effettuata nel settimo giorno consecutivo di lavoro, con riposo compensativo sul giorno successivo, esige, per la sua particolare onerosità, uno specifico compenso che, trovando causa nello stesso rapporto di lavoro, ha natura di retribuzione e non di risarcimento o di indennizzo.
La vicenda
Il comandante della polizia locale aveva chiesto al proprio ente la remunerazione del lavoro prestato oltre il sesto giorno lavorativo, senza aver fruito di alcun riposo compensativo, a causa di un ordine del sindaco e dell'assessore di assicurare la presenza in servizio anche il sabato e la domenica. Inoltre, il comandante ha reclamato anche l'indennità di vigilanza. Mentre il tribunale di primo grado ha accolto la sua domanda, la Corte d'appello l'ha rigettata, precisando che il dirigente ha piena autonomia nell'organizzare e gestire il proprio orario di lavoro.
Il comandante ha proposto, allora, ricorso in Cassazione, deducendo l'errore dei giudici d'appello che non hanno adeguatamente tenuto conto dell'obbligo del comandante, anche se dirigente, di seguire le direttive organizzative e di servizio impartite alla polizia municipale dal sindaco e dall'assessore, suoi diretti superiori gerarchici.
Le indicazioni dell'Aran e del contratto
In merito all'indennità di vigilanza, l'Aran nei suoi orientamenti applicativi ha avuto modo di precisare che, la retribuzione del dirigente -a differenza degli altri dipendenti- è composta di una retribuzione di posizione e di risultato, corrisposta secondo la graduazione disposta dall'ente locale. Pertanto, dal momento della istituzione della posizione dirigenziale relativa al settore della polizia municipale, con l'attribuzione al titolare delle funzioni stabilite dalla legge 65/1986, l'ente avrebbe dovuto già inserire tra le risorse generali destinate al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato anche quelle connesse al finanziamento dell'indennità di vigilanza (810,84 euro annui), in virtù delle previsioni dell'articolo 37 del contratto del 10.04.1996.
In merito alle giornate lavorative oltre il sesto giorno, il contratto collettivo della dirigenza degli enti locali nulla dispone su retribuzioni supplementari o indennità, a differenza dei dirigenti della sanità dove il contratto collettivo prevede che, nel caso in cui il dirigente sia chiamato sul luogo di lavoro per prestare la propria attività nel settimo giorno lavorativo (domenica o festività), ha diritto, oltre al recupero della giornata, anche al compenso per il lavoro straordinario prestato o all'eventuale recupero delle ore lavorate.
La conferma della Cassazione
I giudici della Cassazione confermano le conclusioni della Corte d'appello precisando che, in merito alla dirigenza, è sufficiente richiamare la natura onnicomprensiva della retribuzione secondo cui il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa, incluso anche il lavoro prestato nel settimo giorno lavorativo o l'indennità di vigilanza (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.07.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva: natura giuridica.
La giurisprudenza ha chiarito che l’acquisizione gratuita costituisce un’autonoma sanzione che segue l’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
In altre parole, l’acquisizione gratuita rappresenta una sanzione autonoma, avente come presupposto un illecito diverso dall’abuso edilizio, che consiste nella mancata ottemperanza all’ordine di demolizione in precedenza emesso dall’amministrazione.
Presupposto essenziale affinché possa configurarsi l’acquisizione gratuita è la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione dell’immobile abusivo entro il termine di novanta giorni fissato dalla legge.
Più precisamente, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce l’effetto automatico della mancata ottemperanza all’ingiunzione a demolire. In coerenza con tale assunto, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, il provvedimento di acquisizione presenta una natura meramente dichiarativa, non implicando alcuna valutazione discrezionale.
La giurisprudenza ha precisato che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva per la quale non si sia ottemperato all’ordinanza di rimessione in pristino non può essere disposta nei confronti del proprietario solo quando questi risulti, in modo inequivocabile, estraneo all’abuso commesso, ovvero quando risulti che egli, dopo esserne venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
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L’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce effetto automatico dell’omessa ottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Il formale provvedimento di acquisizione è funzionale all'immissione nel possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari e deve essere preceduto dall’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Per scrupolo si sottolinea che, tenuto conto dei principi già innanzi espressi a proposito della natura dell’atto di acquisizione, deve ritenersi non necessaria la notifica del verbale di accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione, proprio in forza della natura automatica dell’acquisto da parte dell’amministrazione, a fronte dell’inadempimento del privano (inadempimento neppure messo in discussione in questa sede). In altri termini, il verbale di accertamento non assume portata lesiva degli interessi del privato; ne consegue la non impugnabilità di tale verbale e la sostanziale irrilevanza della sua notificazione.
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Per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera edilizia abusiva consegue all’inottemperanza all’ordine di demolizione come atto dovuto e non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento.
Più in generale, ai sensi del comma 3 dell’art. 31 citato, l’amministrazione è tenuta a verificare solo se la demolizione è avvenuta, mentre gli effetti dell’inottemperanza sono già prestabiliti dalla legge.
Per tale ragione, tale procedimento non deve essere necessariamente preceduto da una comunicazione di avvio, trattandosi di un’azione amministrativa dovuta e rigidamente vincolata, con riferimento alla quale non sono richiesti apporti partecipativi del privato.

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6 – L’appello è infondato per le ragioni di seguito esposte.
La giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 4479 del 2018) ha chiarito che l’acquisizione gratuita costituisce un’autonoma sanzione che segue l’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
In altre parole, l’acquisizione gratuita rappresenta una sanzione autonoma, avente come presupposto un illecito diverso dall’abuso edilizio, che consiste nella mancata ottemperanza all’ordine di demolizione in precedenza emesso dall’amministrazione (cfr. Corte Cost. n. 82 del 1991 e n. 345 del 1991).
Presupposto essenziale affinché possa configurarsi l’acquisizione gratuita è la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione dell’immobile abusivo entro il termine di novanta giorni fissato dalla legge.
Più precisamente, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce l’effetto automatico della mancata ottemperanza all’ingiunzione a demolire. In coerenza con tale assunto, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, il provvedimento di acquisizione presenta una natura meramente dichiarativa, non implicando alcuna valutazione discrezionale (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3415).
6.1 - La giurisprudenza ha precisato che l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva per la quale non si sia ottemperato all’ordinanza di rimessione in pristino non può essere disposta nei confronti del proprietario solo quando questi risulti, in modo inequivocabile, estraneo all’abuso commesso, ovvero quando risulti che egli, dopo esserne venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (cfr. Cons. St., sez. VI, 358 del 2016).
7 – In fatto, nel caso di specie, è vero che l’acquisizione è stata disposta nei confronti di un soggetto giuridico diverso rispetto all’autore dell’abuso e rispetto al destinatario dell’ordine di demolizione.
Tuttavia, l’identità soggettiva tra il destinatario dell’ordine demolitorio emesso nel 1997 e l’attuale legale rappresentante della Società appellante (Lu.Ch.) dimostrano inequivocabilmente come anche la Società, terzo acquirente, attraverso le persone titolari delle cariche sociali, fosse –sostanzialmente- a conoscenza dell’abuso e della notifica dell’ordine di demolizione avvenuta proprio nei confronti di Luciano Chiesi.
Potrebbe altrimenti assai facilmente eludersi la cogenza di un ordine di demolizione attraverso trasferimenti di comodo a società riconducibili ai medesimi titolari degli immobili sui quali insiste l’abuso edilizio.
7.1 - Ne consegue che la prospettazione dell’appellante, secondo cui tale circostanza sarebbe ininfluente a dimostrare la conoscenza dell’ordinanza di demolizione da parte della società appellante, appare strumentale e destituita di riscontro.
Appare infatti ragionevole considerare conosciuta l’ordinanza di demolizione dalla persona giuridica, anche se a questa non notificata, in quanto pacificamente nella cognizione dal soggetto che riveste la carica di legale rappresentante e titolare dei poteri gestori dell’ente (art. 2475-bis c.c.), ovvero dall’organo con cui l’ente si interfaccia all’esterno e che è titolare della gestione societaria.
7.2 – Da un altro punto di vista, è infatti vero che il legale rappresentate della società non potrebbe disporre del patrimonio sociale uti dominus, tuttavia, tale soggetto ben avrebbe potuto attivarsi, nel rispetto della disciplina legale e statutaria che governa la società, per eliminare l’abuso.
7.3 - Nel peculiare caso in esame, deve sottolinearsi che, a far data dalla declaratoria di perenzione del ricorso avverso il provvedimento di demolizione (2011), e dunque dalla cessazione degli effetti della sospensiva, sono decorsi ben sei anni, senza che l’appellante abbia in alcun modo provveduto ad attivarsi per ovviare all’abuso edilizio. Ne consegue che ben può essere ravvisata un’inerzia colpevole da parte della Società appellante, seppur terza acquirente del manufatto e non autrice dell’abuso.
8 – Deve essere rigettato anche il secondo motivo di appello con cui si deduce l’erroneità dalla sentenza per omessa rilevazione della violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nella parte in cui ha disatteso il secondo motivo di ricorso, che denunciava l’inosservanza dello schema procedimentale previsto dalla legge.
Al riguardo, l’appellante valorizza il quarto comma dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 secondo cui “l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
8.1 – Come già accennato, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce effetto automatico dell’omessa ottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Il formale provvedimento di acquisizione è funzionale all'immissione nel possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari e deve essere preceduto dall’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Nel caso di specie non è in discussione che l’amministrazione abbia proceduto a quest’ultimo accertamento tramite il sopraluogo degli agenti comunali e la redazione del relativo verbale.
Per scrupolo si sottolinea che, tenuto conto dei principi già innanzi espressi a proposito della natura dell’atto di acquisizione, deve ritenersi non necessaria la notifica del verbale di accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione, proprio in forza della natura automatica dell’acquisto da parte dell’amministrazione, a fronte dell’inadempimento del privano (inadempimento neppure messo in discussione in questa sede). In altri termini, il verbale di accertamento non assume portata lesiva degli interessi del privato; ne consegue la non impugnabilità di tale verbale e la sostanziale irrilevanza della sua notificazione (cfr. Cons. St., Sez. V, 17.06.2014, n. 3097).
9 – Deve essere disattesa anche la censura alla sentenza gravata nella parte in cui, rigettando il terzo motivo di ricorso, ha ritenuto legittimo il provvedimento gravato ritenendo che “per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera edilizia abusiva consegue all’inottemperanza all’ordine di demolizione come atto dovuto e non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento”.
Secondo l’appellante, attese anche le peculiarità del caso di specie, la comunicazione di avvio del procedimento sarebbe invece stato atto dovuto alla Società appellante, in ragione del fatto che la stessa non ha mai conosciuto né avuto notizia del provvedimento demolitorio del 1997.
11.2 – Ad escludere la meritevolezza della censura valgono le considerazioni già svolte circa la natura vincolata ed automatica dell’istituto dell’acquisizione.
Più in generale, ai sensi del comma 3 dell’art. 31 citato, l’amministrazione è tenuta a verificare solo se la demolizione è avvenuta, mentre gli effetti dell’inottemperanza sono già prestabiliti dalla legge. Per tale ragione, tale procedimento non deve essere necessariamente preceduto da una comunicazione di avvio, trattandosi di un’azione amministrativa dovuta e rigidamente vincolata, con riferimento alla quale non sono richiesti apporti partecipativi del privato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.06.2019 n. 4336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.

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12 – Con il quarto motivo di appello si lamenta la mancata valorizzazione dell’affidamento di cui sarebbe titolare l’odierna appellante e rinvenibile nel fatto che l’immobile de quo è pervenuto nella disponibilità della stessa nel 1998, senza che l’amministrazione notificasse alcunché in relazione all’abuso.
Inoltre, secondo l’appellante la sospensione giudiziale della demolizione per un lungo tempo (nel caso di specie oltre quattordici anni) comporterebbe la necessità dell’Amministrazione di porre in essere una nuova valutazione della determinazione illo tempore assunta, al fine di verificare la concretezza e l’attualità dell’interesse pubblico all’esecuzione dello stesso.
12.1 - La censura è infondata.
In primo luogo, non può essere messa in discussione la conoscenza da parte dell’appellante della natura abusiva dell’opera, né dell’ordine di demolizione che la colpiva, dal momento che il legale rappresentante della stessa era il precedente proprietario dell’immobile e colui che aveva proposto ricorso avverso l’ordine di demolizione.
Inoltre, nella materia in questione, non è in alcun modo predicabile una valutazione da parte dell’amministrazione circa l’attualità dell’interesse pubblico alla repressione degli abusi edilizi anche a distanza di tempo dalla realizzazione degli stessi, trattandosi di una materia rigidamente vincolata al ricorrere dei relativi presupposti di legge.
12.2 – Per la medesima ragione, deve escludersi la necessità di esaminare la posizione del destinatario del provvedimento repressivo.
La giurisprudenza, seppur in riferimento alla sanzione demolitoria, ha infatti avuto modo di chiarire che: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.06.2019 n. 4336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla natura non edilizia dell’installazione di una tenda parasole o pergotenda.
Trattasi di una “pergotenda” quell'opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessità di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione".
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR 06/06/2001, n. 380, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera (nella fattispecie esaminata in alluminio anodizzato) destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda, onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
L’esposta conclusione trova conforto anche nell’allegato al D.M. 02/03/2018 avente ad oggetto il “glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, il quale, al n. 50, include le pergotende tra gli interventi realizzabili in regime di edilizia libera”.
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Ai sensi dell'art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 31/2017, “Non può disporsi la rimessione in pristino nel caso di interventi e opere ricompresi nell'ambito di applicazione dell'art. 2 del presente decreto e realizzati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente regolamento non soggette ad altro titolo abilitativo all'infuori dell'autorizzazione paesaggistica”, sicché l’opera in questione non si profila illegittima neppure su quest’altro versante.
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5.2 Il motivo di ricorso è parzialmente fondato.
Giova esaminare ciascuna delle opere per le quali è stato domandato l’accertamento di conformità da parte dell’interessato, nell’ordine dedotto dall’interessato, iniziando quindi dalle tende parasole o pergotende.
Rispetto a questa tipologia di opera, va ricordato quanto di recente affermato dal Consiglio di Stato, sez. VI, 3.04.2019 n. 2206: “Trattasi, quindi, di una “pergotenda”, ovvero di un’opera che, secondo il condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a soddisfare esigenze precarie, non necessità di titolo abilitativo in considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della sua funzione" (Cons. Stato, Sez. VI, 09/07/2018, n. 4777; 25/01/2017, n. 306; 27/04/2016, n. 1619).
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR 06/06/2001, n. 380 e 15 della L.R. 06/06/2008, n. 16 (applicabile ratione temporis), sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera (nella fattispecie esaminata in alluminio anodizzato) destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a rimanere costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda, onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
L’esposta conclusione trova conforto anche nell’allegato al D.M. 02/03/2018 avente ad oggetto il “glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, il quale, al n. 50, include le pergotende tra gli interventi realizzabili in regime di edilizia libera”.
5.2.1 Il richiamato precedente, dal quale non v’è motivo di discostarsi, ha espressamente statuito la natura non edilizia dell’installazione di una tenda parasole, sicché, effettivamente, si profila illegittimo il provvedimento gravato, nella parte in cui non riconosce la conformità urbanistica ed edilizia di un’opera che non necessita, per la sua installazione, neppure di un’autorizzazione espressa.
5.2.2 Da un punto di vista paesaggistico, va peraltro ricordato come, ai sensi dell'art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 31/2017, “Non può disporsi la rimessione in pristino nel caso di interventi e opere ricompresi nell'ambito di applicazione dell'art. 2 del presente decreto e realizzati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente regolamento non soggette ad altro titolo abilitativo all'infuori dell'autorizzazione paesaggistica”, sicché l’opera in questione non si profila illegittima neppure su quest’altro versante (per questa conclusione, vedi Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/10/2018, n. 5737).
5.2.3 Si ritiene, peraltro, che la superiore statuizione non possa mutare in considerazione della circostanza dedotta dall’ente locale a sostegno del diniego, ossia che le tende sono state apposte su di un immobile oggetto di non meglio precisate plurime violazioni edilizie.
Questa circostanza, quand’anche circostanziata e dimostrata da parte del Comune (e non è questo il caso), non muta, infatti, la natura delle opere installate, e non rende ciò che, per consistenza e dimensioni, non ha le caratteristiche proprie dell’attività edilizia necessitante di un’autorizzazione, e dunque rientrare nel novero delle opere che invece la presuppongono.
5.2.4 In definitiva, può dunque accogliersi la censura e pronunciarsi l’annullamento del diniego con riferimento alle opere elencate nei punti 1, 2, 4 e 6 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.06.2019 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla posa di un "cancello".
L’apposizione di un cancello costituisce, tradizionalmente, espressione della facoltà di godimento del proprietario e, in particolare, dello jus escludendi alios connaturato a questo diritto, cosicché anch’essa non necessita di un titolo abilitativo edilizio e non sottostà al regime dell’autorizzazione paesaggistica.
Invero, “L'apposizione di un cancello non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire. Inoltre, in quanto attività edilizia libera o al più integrante intervento di mera manutenzione ordinaria, esula dall'assoggettamento ad autorizzazione paesaggistica in ossequio all'art. 149 del D.Lgs. n. 42 del 2004, non potendosi conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto, la sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata previa acquisizione”.
Si può dunque pronunciare l’annullamento del provvedimento gravato nella parte in cui, al punto 7, dispone il diniego di accertamento di conformità per quest’opera.
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5.3 Continuando l’esame della censura, va delibata quella inerente all’apposizione di un cancello a chiusura della proprietà della ricorrente.
5.3.1 Come rilevato anche in precedenti di questa Sezione (cfr. TAR Campania-Salerno, Sez. II, 04/03/2019, n. 358; TAR Campania–Salerno, Sez. II, 13/11/2018, n. 1623; TAR Campania–Salerno, Sez. II, 31/08/2018, n. 1235) l’apposizione di un cancello costituisce, tradizionalmente, espressione della facoltà di godimento del proprietario e, in particolare, dello jus escludendi alios connaturato a questo diritto, cosicché anch’essa non necessita di un titolo abilitativo edilizio e non sottostà al regime dell’autorizzazione paesaggistica.
5.3.2 L’assunto è corroborato anche da altre decisioni del Giudice Amministrativo.
Secondo quanto affermato dal TAR Campania-Napoli Sez. III, 11/05/2015, n. 2600, “L'apposizione di un cancello non comporta trasformazione urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di costruire. Inoltre, in quanto attività edilizia libera o al più integrante intervento di mera manutenzione ordinaria, esula dall'assoggettamento ad autorizzazione paesaggistica in ossequio all'art. 149 del D.Lgs. n. 42 del 2004, non potendosi conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto, la sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata previa acquisizione” (cfr., altresì, TAR Basilicata–Potenza, Sez. I, 31/05/2016, n. 575; TAR Umbria–Perugia, Sez. I, 11/06/2014, n. 307).
5.3.3 Si può dunque pronunciare l’annullamento del provvedimento gravato nella parte in cui, al punto 7, dispone il diniego di accertamento di conformità per quest’opera (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.06.2019 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'installazione di una "ringhiera in ferro battuto in sostituzione di un parapetto in pietra".
Non può accogliersi la doglianza prospettata che concerne l’installazione di una ringhiera in ferro battuto in sostituzione di un parapetto in pietra.
L’opera infatti incide sul c.d. prospetto dell’edificio, poiché va a mutare quella che è la sua conformazione estetica fruibile dall’esterno.
Un simile intervento, per poter essere effettuato, è soggetto a permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001.
E’ legittimo dunque, in questo caso, il diniego opposto dal Comune e motivato in ragione dell’inedificabilità della zona in cui si situa l’immobile, nella quale, in virtù del P.R.G. e del P.U.T., sono possibili soltanto interventi di manutenzione ordinaria, di consolidamento statico, di eliminazione delle barriere architettoniche e relativi all’adeguamento funzionale degli alberghi e delle altre strutture ricettive, nonché degli edifici adibiti alla produzione di beni e servizi, nei termini strettamente necessari ad ottemperare a disposizioni di norme di legge specifiche, mentre quello compiuto dalla ricorrente, in forza dell’art. 10, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, poc’anzi richiamato, è sussumibile all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia.
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5.4 Non può invece accogliersi la doglianza prospettata, relativamente al punto 8) del provvedimento, che concerne l’installazione di una ringhiera in ferro battuto in sostituzione di un parapetto in pietra.
L’opera infatti incide sul c.d. prospetto dell’edificio, poiché va a mutare quella che è la sua conformazione estetica fruibile dall’esterno.
Un simile intervento, per poter essere effettuato, è soggetto a permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Calabria–Catanzaro, Sez. I, 26/01/2018, n. 244).
5.4.1 E’ legittimo dunque, in questo caso, il diniego opposto dal Comune di Positano e motivato in ragione dell’inedificabilità della zona in cui si situa l’immobile, nella quale, in virtù del P.R.G. e del P.U.T., sono possibili soltanto interventi di manutenzione ordinaria, di consolidamento statico, di eliminazione delle barriere architettoniche e relativi all’adeguamento funzionale degli alberghi e delle altre strutture ricettive, nonché degli edifici adibiti alla produzione di beni e servizi, nei termini strettamente necessari ad ottemperare a disposizioni di norme di legge specifiche, mentre quello compiuto dalla ricorrente, in forza dell’art. 10, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, poc’anzi richiamato, è sussumibile all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.06.2019 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOLegittimo il licenziamento per l'affidamento senza gara di servizi extra convenzione Consip.
È legittimo il licenziamento del dirigente che abbia affidato a una Spa alcuni servizi extra convenzione Consip senza il rispetto della procedura a evidenza pubblica, con conseguente duplicazione del corrispettivo versato.

Ad affermarlo è la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 24.06.2019 n. 16842 che ha ritenuto proporzionata la massima sanzione disciplinare rispetto alla gravità della condotta contestata, e altresì considerato non rilevante, ai fini della validità del provvedimento, la violazione del termine di cinque giorni per la trasmissione della notizia del fatto all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari da parte del dirigente responsabile.
La vicenda
La decisione della Suprema corte riguarda la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato da un'azienda ospedaliera romana a un suo dirigente, reo di aver affidato a una Spa servizi extra convenzione Consip senza rispettare la procedura a evidenza pubblica, determinando così una duplicazione della spesa per l'azienda ospedaliera.
Il lavoratore impugnava la sanzione disciplinare sia nel merito, ritenendo eccessivamente grave il provvedimento adottato, sia nella forma, in quanto il responsabile della struttura aveva segnalato la notizia del fatto ben oltre i cinque giorni previsti dall'articolo 55, comma 3, del Dlgs 165/2001.
I giudici di merito, in entrambi i gradi di giudizio, confermavano la bontà del licenziamento ritenendo proporzionata la misura rispetto al fatto, nonché non rilevante la violazione del termine per la segnalazione all'ufficio competente, in quanto trattasi di termine non perentorio.
La decisione
La questione arriva così in Cassazione che conferma la legittimità della massima sanzione disciplinare e sottolinea, in particolare, la correttezza della valutazione, da parte dei giudici di merito, della condotta contestata «di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro».
Quanto all'aspetto formale della vicenda, inoltre, i giudici di legittimità precisano che il termine per la trasmissione della notizia di comportamenti punibili da parte del dirigente della struttura all'ufficio competente per i procedimenti disciplinari ha natura soltanto sollecitatoria e non anche perentoria. Ciò significa che l'inosservanza dell'articolo 55, comma 3, del Dlgs 165/2001, che impone al dirigente della struttura amministrativa di trasmettere la notizia del fatto entro cinque giorni, «non comporta di per sé l'illegittimità della sanzione inflitta».
La violazione di tale termine, precisa infine il Collegio, «assume rilievo solo allorché la trasmissione degli atti venga ritardata in misura tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa», circostanza questa non allegata né provata dal dirigente nel corso dei giudizi di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio non ignora che in linea di principio è inammissibile il rilascio di un provvedimento abilitativo che consenta di realizzare opere edilizie in contrasto con la normativa urbanistica, atteso che o viene in considerazione un’opera avente natura precaria, ed allora non si rende conseguentemente necessario altro titolo abilitativo, o viene in rilievo un’opera avente carattere di stabilità, ed allora necessita in ogni caso il rispetto della normativa urbanistica.
Pertanto, il comune non può, mediante l’inserimento nel titolo abilitativo di clausole o condizioni, permettere la realizzazione, in contrasto con la programmazione di settore, di opere che siano in grado di alterare in modo permanente l’assetto urbanistico.
Invero, non può essere rilasciata una concessione edilizia cd. “in precario” con la quale l’amministrazione comunale consenta una situazione di palese abuso edilizio sulla base del solo impegno del costruttore di rimuovere in futuro i manufatti contrastanti con le indicazioni di piano regolatore generale su semplice richiesta dello stesso comune e breve preavviso, in quanto, oltre a snaturare la tipicità della concessione di costruzione, non potrebbe avere altra funzione che quella di tollerare una situazione di evidente abuso edilizio.
Nondimeno, all’epoca del rilascio del titolo in precario di cui trattasi, vigeva l’originario testo dell’art. 31 della l. 17.08.1942 n. 1150 che –di per sé– non contemplava il divieto di apporre limiti temporali alle licenze edilizie.
E se è dunque vero che –alla stregua dell’attuale assetto normativo della materia– l’istituto del permesso di costruire “in precario” non è previsto dall’ordinamento perché il permesso di costruire postula ex se la sussistenza di una trasformazione del territorio che abbia natura di prevedibile stabilità, risulta altrettanto innegabile che nella vigenza dell’originaria disciplina contenuta nell’art. 31 della l. 1150 del 1942 –e ben prima, dunque, dell’entrata in vigore dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che attualmente disciplina in via generale quale “attività edilizia libera” le fattispecie di edificazione non permanente- le amministrazioni comunali utilizzavano diffusamente la prassi –talvolta codificandola anche nei propri regolamenti edilizi- di rilasciare permessi di costruire provvisori (ovvero “in precario”) in fattispecie pure dissimili tra loro ma per lo più per assentire opere non conformi alle prescrizioni dello strumento urbanistico ma alle quali, per natura e destinazione, veniva riconosciuta una durata limitata e predeterminabile.
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4.3. Il Collegio rimarca -da ultimo- che è inesatto il rilievo dell’appellante contenuto a pag. 15 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio secondo il quale l’impugnata ingiunzione di demolire dovrebbe reputarsi illegittima poiché la costruzione di cui trattasi non sarebbe stata realizzata in maniera abusiva.
Come accennato dianzi, certamente tale costruzione non era abusiva al momento del rilascio del titolo con il quale ne era stata assentita la realizzazione, ma lo è divenuta dopo il decorso del termine previsto per la sua rimozione.
Né l’attuale appellante può ora ragionevolmente sostenere che la licenza con la quale era stata autorizzata la costruzione stessa era illegittima in quanto contemplava una scadenza.
Sotto questo specifico profilo, il Collegio non ignora che in linea di principio è inammissibile il rilascio di un provvedimento abilitativo che consenta di realizzare opere edilizie in contrasto con la normativa urbanistica, atteso che o viene in considerazione un’opera avente natura precaria, ed allora non si rende conseguentemente necessario altro titolo abilitativo, o viene in rilievo un’opera avente carattere di stabilità, ed allora necessita in ogni caso il rispetto della normativa urbanistica; pertanto, il comune non può, mediante l’inserimento nel titolo abilitativo di clausole o condizioni, permettere la realizzazione, in contrasto con la programmazione di settore, di opere che siano in grado di alterare in modo permanente l’assetto urbanistico (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.03.2000, n. 1507 e 18.03.1991, n. 280; cfr., altresì, il puntuale precedente di Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 363, secondo il quale non può essere rilasciata una concessione edilizia cd. “in precario” con la quale l’amministrazione comunale consenta una situazione di palese abuso edilizio sulla base del solo impegno del costruttore di rimuovere in futuro i manufatti contrastanti con le indicazioni di piano regolatore generale su semplice richiesta dello stesso comune e breve preavviso, in quanto, oltre a snaturare la tipicità della concessione di costruzione, non potrebbe avere altra funzione che quella di tollerare una situazione di evidente abuso edilizio).
Nondimeno, all’epoca del rilascio del titolo in precario di cui trattasi, vigeva l’originario testo dell’art. 31 della l. 17.08.1942 n. 1150 che –di per sé– non contemplava il divieto di apporre limiti temporali alle licenze edilizie.
E se è dunque vero che –alla stregua dell’attuale assetto normativo della materia– l’istituto del permesso di costruire “in precario” non è previsto dall’ordinamento perché il permesso di costruire postula ex se la sussistenza di una trasformazione del territorio che abbia natura di prevedibile stabilità, risulta altrettanto innegabile che nella vigenza dell’originaria disciplina contenuta nell’art. 31 della l. 1150 del 1942 –e ben prima, dunque, dell’entrata in vigore dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che attualmente disciplina in via generale quale “attività edilizia libera” le fattispecie di edificazione non permanente- le amministrazioni comunali utilizzavano diffusamente la prassi –talvolta codificandola anche nei propri regolamenti edilizi- di rilasciare permessi di costruire provvisori (ovvero “in precario”) in fattispecie pure dissimili tra loro ma per lo più per assentire opere non conformi alle prescrizioni dello strumento urbanistico ma alle quali, per natura e destinazione, veniva riconosciuta una durata limitata e predeterminabile (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 4315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla realizzazione di box ex lege 122/1989 e sulla loro pertinenzialità delle singole unità immobiliari.
La disciplina dell'art. 9 l. n. 122/1989 va interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in modo tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen., 05.12.2011, n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989, art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso che devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i parcheggi medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente fruibili soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio.
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4.3. Ciò posto, risulta del tutto assodato che l’attuale appellante ha chiesto il rilascio dell’assenso a costruire un’autorimessa, composta da più box e parcheggi aperti, a’ sensi dell’art. 9 della l. 122 del 1989, ossia un’opera che per l’espresso tenore letterale di tale articolo di legge può essere realizzata esclusivamente dai proprietari di immobili nel sottosuolo degli immobili medesimi ovvero nei locali ubicati al piano terreno dei fabbricati di loro proprietà, ad uso esclusivo dei residenti e -sempre e comunque- quale pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (cfr. il testo dell’art. cit.).
Giova a tale riguardo precisare che la disciplina testé riassunta va interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in modo tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen., 05.12.2011, n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989, art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso che devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i parcheggi medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente fruibili soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 23.03.2016 n. 2116.
Orbene, il Collegio non ignora la giurisprudenza citata dall’appellante secondo la quale -come si è detto innanzi, e in modo anche divergente dalle anzidette sentenze della Cassazione penale- “ai fini della realizzazione di un parcheggio interrato, non si deve ritenere necessario che il numero di proprietari di immobili siti nelle vicinanze sia individuato nel momento della proposizione della domanda o della costruzione di questo, richiedendosi solo che il vincolo pertinenziale venga previsto e poi effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte , senza che il vincolo stesso debba preesistere” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26.05.2003, n. 2852 e 09.10.2006, n. 5954 citate dall’appellante, cui va aggiunta anche il primo e del tutto consonante precedente di Cons. Stato, Sez. V, 15.06.2001, n. 3176)
Ma, a ben vedere, nella presente fattispecie non rileva il momento nel quale il vincolo pertinenziale viene ad essere effettivamente costituito, bensì la sussistenza degli stessi presupposti per formalmente costituirlo.
E risulta oltremodo significativa la circostanza che l’attuale appellante non solo nel procedimento che si è concluso con l’adozione del provvedimento di diniego, ma anche durante l’intero e quanto mai consistente lasso di tempo occupato dai due gradi di processo non è stato in grado di comprovare il carattere pertinenziale dell’opera che parrebbe a tutt’oggi intenzionato a realizzare.
Se difetta –per così dire– “a monte” il materiale requisito della pertinenzialità dell’opera e non è offerta neppure nel contraddittorio processuale una prova sulla sua sussistenza, allora è del tutto evidente che l’attuale appellante e già ricorrente in primo grado difetta di una propria legitimatio ad causam e, quindi, essendo carente dello stesso, necessario presupposto per poter ottenere il titolo necessario alla realizzazione dell’opera, non ha evidentemente interesse a’ sensi dell’art. 100 c.p.c. ad adire la presente sede giudiziale.
Discende da questo contesto che è di per sé impraticabile qualsivoglia censura di disparità di trattamento rispetto alla posizione di altro proprietario che –a dire dell’appellante- avrebbe intrapreso la realizzazione di analoga opera in area finitima senza che gli sia stata chiesta già all’atto della presentazione del progetto la dimostrazione della pertinenzialità dell’opera, nonché con riguardo alla posizione dello stesso attuale appellante, il quale per altra consimile opera da lui realizzata riferisce di aver ottenuto il parere favorevole della Commissione Edilizia senza la preventiva imposizione della comprova della pertinenzialità dei posti auto da lui realizzati.
Va infatti evidenziato a tale riguardo che il medesimo appellante non comprova se poi a tali realizzazioni abbia fatto seguito l’effettiva costituzione del vincolo di pertinenzialità; e va soprattutto rimarcato, in via del tutto assorbente, che nella presente fattispecie rileva solo ed esclusivamente la dianzi rilevata carenza di dimostrazione della pertinenzialità dell’opera qui in esame.
Preme inoltre evidenziare che nella specie non ricorre l’ipotesi di motivazione postuma circa il difetto del requisito della pertinenzialità disposta dall’amministrazione comunale in sede processuale, mediante la propria relazione istruttoria e le proprie memorie defensionali.
Il requisito della pertinenzialità doveva infatti intendersi in re ipsa imprescindibile per il solo fatto che il tecnico incaricato dal Ta. ha chiesto di realizzare l’opera secondo la disciplina contemplata dall’art. 9 della l. 122 del 1989: e ciò –si badi– anche a prescindere da come e quando la medesima amministrazione comunale ha chiesto di verificare la sussistenza del requisito in questione.
La stessa amministrazione comunale, poi, nel respingere il progetto, nel provvedimento qui impugnato ha comunque inserito expressis verbis nel contesto delle prescrizioni imposte per la riproposizione del progetto medesimo una non equivoca richiesta: “nel caso di riproposizione del progetto l’intervento è subordinato all’effettiva documentazione di pertinenzialità agli edifici posti nel contorno del perimetro individuato in progetto”.
L’attuale appellante, come si è visto innanzi, reputa che tale richiesta non sia riconducibile a motivo del diniego, costituendo essa a suo avviso soltanto una “puntualizzazione” per l’eventuale presentazione di un nuovo progetto, e non già –come viceversa è– una puntuale prescrizione di un sottostante ed imprescindibile requisito che –si ribadisce– egli si è sistematicamente astenuto dal comprovare.
Ma è proprio tale asseritamente mera “puntualizzazione” che nella specie mette a nudo –anche al di là della sua collocazione formale nel contesto del provvedimento impugnato- quel difetto di interesse del Ta. che del tutto correttamente il giudice di primo grado ha colto, laddove –per l’appunto– dalla mancata comprova della “pertinenzialità” dell’opera, inderogabilmente richiesta quale conditio sine qua non per la sua realizzazione, ha fatto ivi testualmente discendere, quale fulcro motivazionale della propria pronuncia, la conseguenza che “difetta pertanto il requisito dell’interesse alla proposizione della domanda, posto che l’eventuale annullamento dell’atto impugnato comporterebbe pur sempre l’obbligo per la p.a. di riesaminare la domanda che, essendo carente del presupposto indicato, non potrebbe sortire esito positivo per l’interessato” (cfr. ivi).
5. La conferma della sentenza in rito di inammissibilità resa in primo grado determina l’assorbimento, anche nel presente giudizio d’appello, di tutte le censure che l’attuale appellante ha dispiegato con riguardo all’intrinseca legittimità del provvedimento da lui impugnato innanzi al TAR (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'intervenuta presentazione della domanda di accertamento di conformità non paralizza i poteri sanzionatori comunali e non determina, pertanto, alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell'ingiunzione di demolizione, comportando che l'esecuzione della sanzione è da considerarsi solo temporaneamente sospesa.
Ciò anche al fine di evitare che pur in presenza del rigetto dell'istanza di sanatoria l'amministrazione debba reiterare l'ordine di demolizione.
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7.1. In primo luogo, il diniego deliberato dall'amministrazione sulla istanza di accertamento di conformità richiede che il giudizio si concentri su tale ultima determinazione dato che, ove fosse confermata, si confermerebbe anche la validità dell'ordine di demolizione.
Pertanto, non è rilevante che tale ultimo provvedimento sia stato notificato successivamente alla istanza di sanatoria, dato che il Comune ha poi stabilito che le opere non fossero sanabili in quanto non conformi alle norme vigenti.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti chiarito da tempo che "l'intervenuta presentazione della domanda di accertamento di conformità non paralizza i poteri sanzionatori comunali e non determina, pertanto, alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell'ingiunzione di demolizione, comportando che l'esecuzione della sanzione è da considerarsi solo temporaneamente sospesa" (Cons. Stato, Sez. VI, nn. 6233 del 2018, 1909 del 2013).
Ciò anche al fine di evitare che pur in presenza del rigetto dell'istanza di sanatoria l'amministrazione debba reiterare l'ordine di demolizione (Cons. Stato, Sez. VI, nn. 6233 del 2018, 446 del 2015) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 24.06.2019 n. 4304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAvvalimento, impegno dell’impresa ausiliaria. Dichiarazione per soccorso istruttorio.
La dichiarazione di impegno dell'impresa ausiliaria in una gara d'appalto pubblico è elemento essenziale per la corretta applicazione dell'istituto dell'avvalimento; inapplicabile il soccorso istruttorio in caso di assenza.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sec. II, con la sentenza 21.06.2019, n. 8121 in merito alla disciplina dettata dal'articolo 89 del codice dei contratti pubblici. In particolare, i giudici hanno affermato che la dichiarazione d'impegno dell'ausiliaria rappresenta un «atto essenziale, ai fini dell'operatività dell'istituto dell'avvalimento, in quanto costituisce lo strumento attraverso il quale l'ausiliaria assume un obbligo giuridico diretto nei confronti della stazione appaltante».
La sentenza declina anche la natura di questo impegno giuridico che è essenziale ai fini dell'applicazione delle misure previste dall'art. 80, comma 12 del codice appalti (segnalazione all'Anac e, se del caso, iscrizione nel casellario informatico) nel caso di falsità delle dichiarazioni dei sottoscrittori e, quindi, dell'ausiliaria. Inoltre, la stessa caratteristica di essenzialità è connessa alla operatività della solidarietà dell'ausiliaria nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto (disciplinata dall'art. 89, comma 5, del codice).
Infine, la dichiarazione di impegno rileva anche per le verifiche in fase esecutiva che coinvolgono direttamente l'ausiliaria alla quale vanno inviate le comunicazioni di cui all'articolo 52 e quelle inerenti all'esecuzione dei lavori.
In generale, poi la sentenza ribadisce da un lato che le dichiarazioni dell'impresa ausiliaria e il contratto di avvalimento sono atti diversi, per natura, contenuto, finalità, costituendo la dichiarazione un atto di assunzione unilaterale di obbligazioni precipuamente nei confronti della stazione appaltante e il contratto di avvalimento l'atto bilaterale di costituzione di un rapporto giuridico patrimoniale, stipulato tra l'impresa partecipante alla gara e l'impresa ausiliaria, contemplante le reciproche obbligazioni delle parti e le prestazioni da esse discendenti.
Se la dichiarazione d'impegno dell'ausiliaria è un elemento necessario ai fini del perfezionamento dell'avvalimento, conclude la sentenza, deve ritenersi che essa non possa essere acquisita attraverso il soccorso istruttorio (articolo ItaliaOggi del 05.07.2019).

APPALTI: Punteggio premiale negli appalti di servizi solo se non snatura la prestazione richiesta.
Nell'ambito dell'affidamento dei servizi è ammissibile un punteggio premiale aggiuntivo nel caso di proposte oggettivamente migliorative delle prestazioni richieste, ma non anche l'offerta di ulteriori servizi in grado di alterare la prestazione richiesta dalla stazione appaltante.

Ciò è quanto emerge da due sentenze degli ultimi giorni che si esprimono in modo opposto: il TAR Lazio-Roma - Sez. II-ter - sentenza 21.06.2019 n. 8121 e il TAR Lombardia-Milano - Sez. IV - sentenza 12.06.2019 n. 1327.
Sull'ammissibilità del criterio premiale anche per i servizi
In senso favorevole si pronuncia il Tar Lazio. Il ricorrente ha contestato il criterio di valutazione che prevedeva l'assegnazione di un punteggio, tra gli altri, per l'incremento delle ore di pulizia. La tesi è che tali criteri sarebbero illegittimi perché diretti a valorizzare «esclusivamente l’aspetto quantitativo e non anche quello qualitativo dell’offerta tecnica» costituendo «un’indiretta forma di ribasso economico attraverso il riconoscimento di ore di servizio aggiuntive rispetto a quelle programmate».
Il giudice respinge la doglianza statuendo la legittimità del criterio utilizzato perché «pertinente rispetto alla natura e all’oggetto dell’appalto, come richiesto dall’articolo 95, comma 6, Dlgs n. 5016, in quanto (…) finalizzato ad un miglioramento oggettivo della prestazione e, quindi, attiene a un aspetto qualitativo (e non già quantitativo come, invece, dedotto da parte ricorrente) della stessa».
A nulla è valso il richiamo da parte del ricorrente al precedente del Tar Umbria n. 581/2018 che ha invece annullato gli atti di gara per l'offerta migliorativa consistente in un «surplus di ore di lavoro messo a disposizione e liberamente utilizzabile dall’amministrazione in base alle proprie esigenze» che sostanzialmente non deteterminava, secondo il giudice capitolino, alcun miglioramento qualitativo della prestazione da rendere.
E la tesi contraria dell'inammissibilità
Di diverso avviso, invece, il Tar Lombardia, - sezione IV - n. 1327/2019 che annulla gli atti di gara per diversi vizi di legittimità ma, per ciò che in questa sede interessa, per la violazione dell'articolo 95, comma 14-bis, del codice.
Secondo la ricorrente il bando –tra gli altri– doveva ritenersi illegittimo per la previsione di un punteggio premiale, rispetto alle previsioni del capitolato capitolato, per prestazioni ulteriori da rendere gratuitamente.
Il giudice, pur in modo non chiarissimo, ritiene persuasive le doglianze evidenziando che «il comma 14-bis, articolo 95, del Dlgs n. 50/2016 per come formulato, limita il divieto di prevedere un punteggio premiale per l’offerta di prestazioni aggiuntive da rendere gratuitamente agli appalti di lavori (Tar Veneto - Sezione I - sentenza n. 105/2018)».
La disposizione parla testualmente «di "opere aggiuntive" e di "progetto esecutivo a base d’asta": elementi questi incompatibili con la struttura di un appalto di servizi quale quello oggetto di causa».
È, però, proprio la sentenza del Tar Veneto, richiamata da questo giudice, che introduce il chiarimento sulla possibilità di offrire un punteggio premiale per prestazioni aggiuntive nei servizi. Il richiamo al comma 14-bis (aggiunto dal Dlgs n. 56/2017 all'articolo 95 del Dlgs n. 50/2016), si deve ritenere non appropriato in quanto precipuamente riferito agli affidamenti di lavori (come risulta dal letterale richiamo a "opere aggiuntive" rispetto a quanto previsto nel "progetto esecutivo" a base d'asta), ma non anche ai servizi per i quali difficilmente si può parlare di "opere aggiuntive", o di un "progetto esecutivo" posto a base d'asta.
È il principio, alla base della norma, che può essere oggetto di estensione analogica. E tale principio si sostanzia -semplicemente- nel generale divieto di «evitare che il singolo operatore possa alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis con proposte che si traducano in una diversa ideazione del contratto in senso alternativo rispetto a quanto voluto dalla Pa», ma ciò non impedisce che possa essere attribuito un punteggio aggiuntivo «solo in relazione al miglioramento e all’implementazione degli stessi servizi oggetto di gara» e non anche per servizi aggiuntivi (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Opere sottoposte ad autorizzazione edilizia e paesaggistica - Assenza o difformità delle autorizzazioni prescritte - Valutazione del giudice - Causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Pluralità dei comportamenti - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Principio di correlazione tra accusa e sentenza - Rapporto di continenza - Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 - Art. 44, D.P.R. n. 380/2001 - Artt. 131-bis, 133 cod. pen..
Ai fini dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Sicché, ai fini dell'applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all'art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti
(Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone).
Inoltre, il principio di correlazione tra accusa e sentenza non è violato quando tra il fatto contestato e quello ritenuto dal giudice sussiste un rapporto di continenza, con la conseguenza che non è nulla la pronuncia con cui l'imputato, che sia stato tratto a giudizio per rispondere del reato di esecuzione dei lavori in assenza del permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, sia stato invece condannato per la totale difformità delle opere eseguite rispetto ai titoli abilitativi già rilasciati (in specie era stato rigettato il ricorso sul presupposto che le difformità edilizie erano state precisamente individuate e contestate nel capo di imputazione) (Sez. 3, n. 15820 del 25/11/2014, dep. 2015, Picariello)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2019 n. 27523 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Direttore dei lavori - Onere di vigilare - Assenza dal cantiere - Responsabilità - Art. 29 D.P.R. n. 380/2001.
L'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico (Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602 del 17/06/2010, Ponzio) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2019 n. 27523 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: Prevenzione degli infortuni sul lavoro - Impresa strutturata come persona giuridica - Destinatario delle normativa antinfortunistica - Responsabilità - Individuazione - Legale rappresentante - Onere della prova - Giurisprudenza.
In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in una impresa strutturata come persona giuridica, il destinatario delle normativa antinfortunistica è il suo legale rappresentante, essendo la persona fisica per mezzo della quale l'ente collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive e sulla quale ricade l'onere di dimostrare che dalla sua qualifica non discende anche quella di datore di lavoro (Sez. 3, n. 2580 del 21/11/2018, dep. 2019, Slabu; quanto al soggetto attivo del reato di omesso versamento delle ritenute, cfr. identicamente Sez. 3, n. 2741 del 10/10/2017, dep. 2018, Turina) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2019 n. 27523 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASebbene in giurisprudenza possano rinvenirsi affermazioni, più o meno incidentali, sulla natura sanzionatoria dell’ordine di demolizione, è del pari vero che si è affermato che “l'ordine di demolizione -avendo natura ripristinatoria- prescinde dalla valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione”.
Pertanto, si deve dare continuità all’orientamento già espresso dal primo giudice e pacifico in materia, secondo il quale il responsabile dell’abuso edilizio è sempre tenuto a risponderne, a nulla valendo la circostanza dell’avvenuta alienazione dell’immobile in cui il suddetto abuso è stato realizzato ai fini della configurazione di questo tipo di responsabilità.
Infatti, nel caso di specie, non è la passata titolarità del diritto di proprietà sul bene a venire in rilievo, ma la circostanza che l’appellante sia l’esecutrice e la committente delle opere abusive.
Va quindi ribadita la legittimità dell’operato del Comune che, all’interno dell’ordinanza impugnata e di cui si controverte, ha indicato la precedente proprietaria e ricorrente quale soggetto responsabile dell’abuso e, per questo motivo, obbligato a rimuoverlo.
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Il fine perseguito dalla norma -il ripristino dello stato dei luoghi e la modifica degli immobili per renderli conformi agli strumenti urbanistici– è raggiunto tramite gli interventi imposti dall’autorità amministrativa -la demolizione o la rimozione delle opere abusive– ma senza che questo implichi che l’onere spettante ai soggetti obbligati si limiti unicamente ad una attività reale.
Va infatti evidenziato come le demolizioni implichino in sé lo svolgimento di una pluralità di atti giuridicamente rilevanti, che vanno dalla stipulazione dei negozi di diritto privato con i soggetti tecnici incaricati delle operazioni, all’approntamento delle provviste economiche, alla eventuale richiesta di interventi da parte di altre autorità pubbliche (quale, ad esempio, il pubblico ministero in caso di immobili sottoposti a sequestro, ecc.).
Non tutte queste operazioni devono essere ricondotte all’azione esclusiva della proprietà del manufatto da demolire, ben potendo il soggetto non più proprietario concorrere in uno degli altri modi sopra esemplificativamente indicati.
Pertanto, l’esistenza di obblighi solidaristici -che la giurisprudenza ha riconosciuto tramite la possibilità dell’azione di regresso- ricadenti in capo al soggetto a cui si ascrive la realizzazione dell’abuso edilizio nei confronti di altro soggetto subentrato nella titolarità dell’immobile su cui gravano tali abusi impongono, da un lato, una partecipazione attiva di tutti gli obbligati al conseguimento del risultato giuridicamente utile ed evidenziano, dall’altro, l’esistenza di possibilità concrete di concorso anche da parte del soggetto non proprietario.
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2.1. La doglianza non ha pregio.
Va in primo luogo rimarcata la perplessità che pone l’introduzione di un elemento di discrimine tra l’attività conformativa e quella ripristinatoria dell’amministrazione, entrambe in tema di demolizione dei manufatti edilizi abusivi, trattandosi invece di due entità che, quand’anche ritenute concettualmente diverse, vengono invece in rilievo giuridicamente in un unico provvedimento, ossia l’ordine di demolizione, e senza alcuna diversità disciplinare (e, in verità, nelle norme di legge dove si trovano indicati le diverse nozioni –ad esempio, nell’art. 134 della l.r. Toscana n. 1 del 2005– il ripristino dello stato dei luoghi e la modifica degli immobili per renderli conformi agli strumenti urbanistici appaiono gli obiettivi a cui mirano, teleologicamente, la demolizione o la rimozione delle opere abusive, dando evidenza di un mero rapporto di strumentalità).
Il che evidenzia l’inutilità argomentativa della proposta differenziazione, secondo il principio che frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora.
La detta inutilità appare ancora più marcata ove si osserva che, quand’anche questa differenza –giuridica e non concettuale- fosse predicabile, non porterebbe ad alcuna delle conseguenze ipotizzate dall’appellante.
Infatti, sebbene in giurisprudenza possano rinvenirsi affermazioni, più o meno incidentali, sulla natura sanzionatoria dell’ordine di demolizione (da ultimo, Cons. Stato, IV, 22.06.2016, n. 2758; Cons. Stato, VI, 06.09.2017, n. 4243), è del pari vero che, proprio in relazione alla ricostruzione propugnata dalla difesa appellante, si è affermato che “l'ordine di demolizione -avendo natura ripristinatoria- prescinde dalla valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione” (da ultimo, Cons. Stato, VI, 07.11.2018, n. 6285; Cons. Stato, VI, 01.03.2018, n. 1263).
Pertanto, anche a voler accedere alla ricostruzione operata dalla difesa appellante, il risultato non cambierebbe, dovendosi dare continuità all’orientamento già espresso dal primo giudice e pacifico in materia, secondo il quale il responsabile dell’abuso edilizio è sempre tenuto a risponderne, a nulla valendo la circostanza dell’avvenuta alienazione dell’immobile in cui il suddetto abuso è stato realizzato ai fini della configurazione di questo tipo di responsabilità.
Infatti, nel caso di specie, non è la passata titolarità del diritto di proprietà sul bene a venire in rilievo, ma la circostanza che l’appellante sia l’esecutrice e la committente delle opere abusive.
Va quindi ribadita la legittimità dell’operato del Comune di Lastra a Signa, che, all’interno dell’ordinanza impugnata e di cui si controverte, ha indicato la precedente proprietaria e ricorrente quale soggetto responsabile dell’abuso e, per questo motivo, obbligato a rimuoverlo.
2.2. Anche la dedotta questione di costituzionalità deve essere dichiarata manifestamente infondata.
Occorre evidenziare come, nel rapporto teleologico sopra evidenziato, il fine perseguito dalla norma -il ripristino dello stato dei luoghi e la modifica degli immobili per renderli conformi agli strumenti urbanistici– è raggiunto tramite gli interventi imposti dall’autorità amministrativa -la demolizione o la rimozione delle opere abusive– ma senza che questo implichi che l’onere spettante ai soggetti obbligati si limiti unicamente ad una attività reale.
Va infatti evidenziato come le demolizioni implichino in sé lo svolgimento di una pluralità di atti giuridicamente rilevanti, che vanno dalla stipulazione dei negozi di diritto privato con i soggetti tecnici incaricati delle operazioni, all’approntamento delle provviste economiche, alla eventuale richiesta di interventi da parte di altre autorità pubbliche (quale, ad esempio, il pubblico ministero in caso di immobili sottoposti a sequestro, ecc.). Non tutte queste operazioni devono essere ricondotte all’azione esclusiva della proprietà del manufatto da demolire, ben potendo il soggetto non più proprietario concorrere in uno degli altri modi sopra esemplificativamente indicati.
Pertanto, l’esistenza di obblighi solidaristici -che la giurisprudenza ha riconosciuto tramite la possibilità dell’azione di regresso, su cui da ultimo, Cons, Stato, IV, 06.04.2016, n. 1378- ricadenti in capo al soggetto a cui si ascrive la realizzazione dell’abuso edilizio nei confronti di altro soggetto subentrato nella titolarità dell’immobile su cui gravano tali abusi impongono, da un lato, una partecipazione attiva di tutti gli obbligati al conseguimento del risultato giuridicamente utile ed evidenziano, dall’altro, l’esistenza di possibilità concrete di concorso anche da parte del soggetto non proprietario.
Sempre al fine di giustificare la manifesta infondatezza, va ricordato che la Corte Costituzionale, con la sentenza 15.07.1991, n. 345, nell’escludere che l'acquisizione gratuita al comune dell'opera, dell'area di sedime e di quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva possa operare in danno del proprietario estraneo all'abuso, ha parimenti evidenziato come esista una scissione tra la possibilità di eseguire la demolizione, anche d’ufficio, e la previa acquisizione di proprietà dell’area.
E tali argomentazioni, che incidono sui poteri autoritativi dell’amministrazione, ben possono essere riportate nella fattispecie in esame, sottolineando come siano molteplici le opportunità di azione che anche la parte non più proprietaria possa porre in essere per eliminare l’abuso da lei stessa commesso.
La questione di legittimità costituzionale proposta è quindi manifestamente infondata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.06.2019 n. 4251  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Obbligo per il Comune di aderire alla convenzione stipulata dal soggetto aggregatore regionale.
Se il soggetto aggregatore ovvero la centrale di committenza regionale ha stipulato una convenzione, la pubblica amministrazione non può avviare una autonoma procedura di gara soprattutto se non esprime una adeguata motivazione.

Ad affermarlo è il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.06.2019 n. 4190.
La vicenda
La ricorrente, affidataria dell'accordo quadro stipulato con il soggetto aggregatore regionale per la fornitura di «servizi integrati di vigilanza armata, portierato e altri servizi» e del «servizio di vigilanza passiva (con portierato e accoglienza)», ha impugnato gli atti relativi al procedimento di gara «autonomo» avviato dal Comune.
Secondo il ricorrente, le motivazioni addotte dalla stazione appaltante dovevano ritenersi inadeguate e generiche, in particolare il riferimento per giustificare l'appalto autonomo «ai propri specifici bisogni» e per mantenere la «stabilità occupazionale del personale impiegato negli appalti» come «da apposito protocollo d'intesa sottoscritto con le organizzazioni sindacali».
Queste motivazioni, a detta dell'appaltatore, non potevano essere ritenute sufficienti a fondare la deroga all'obbligo della pubblica amministrazione, in relazione a un certo tipo di prestazioni (come da Dpcm 24.12.2015, pur non citato in sentenza) e, nel caso, di specie relativamente all'appalto del servizio «di presidio e ricevimento del pubblico» (ritenuto riconducibile all'oggetto della convenzione).
La sentenza
Palazzo Spada ha accolto le censure in quanto, in presenza di una convenzione stipulata con accordo quadro bandita dalla centrale unica regionale per servizi sostanzialmente analoghi a quelli di specie, non è emersa dagli atti del procedimento «una motivazione sufficientemente idonea a costituire il presupposto dell'esercizio del potere di indizione di una gara autonoma, ai sensi dell'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015».
Nelle determinazioni del procedimento, non sono state evidenziate «le ragioni per le quali il servizio oggetto di convenzione non sarebbe» risultato idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali.
È parsa inadeguata e generica, in particolare, la stessa motivazione adotta circa la necessità di applicare la clausola sociale per l'assorbimento, con mantenimento delle stesse condizioni economiche, del personale già operante nel servizio.
In realtà, come si legge in sentenza, l'applicazione della convenzione, «e in particolare l'articolo 12 della stessa», avrebbe comunque consentito l'assorbimento del personale precedentemente impegnato nel servizio, «senza che vi fosse la necessità di ricorrere a nuove assunzioni».
La decisione di non aderire alla convenzione non è quindi apparsa supportata da adeguati richiami idonei a superare i vincoli imposti dall'articolo 9, comma 3, del decreto-legge 66/2014, convertito con modificazioni dalla legge 89/2014, e del successivo Dpcm del 24.12.2015.
Disposizioni che impongono l'obbligo per la pubblica amministrazione (e in certi casi anche per i Comuni), per alcuni tipi di prestazioni, di aderire alle convenzioni stipulate dal soggetto aggregatore regionale. A esempio, nel caso dei servizi di guardiania e vigilanza armata l'obbligo di adesione, si ripete, anche per i Comuni, insiste nel caso di appalto per importi pari o superiori, come nel caso di specie, ai 40mila euro (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.06.2019).

URBANISTICASebbene in molte pronunce si affermi che i termini di validità del piano attuativo decorrono dalla stipula della convenzione, costituendo essa condizione di efficacia del piano attuativo, è stato, altresì, precisato, da altra avveduta giurisprudenza che tale principio potrebbe trovare applicazione soltanto nei casi in cui la convenzione sia stata stipulata entro un termine ragionevole dall’approvazione del piano e non nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui la stipula della convenzione sia stata per lungo tempo ritardata.
In tal caso, infatti, si determinerebbe un differimento sine die della scadenza del termine di validità del piano attuativo che, oltre a confliggere con il chiaro disposto dell’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 -che fissa in un "tempo, non maggiore di anni dieci” quello entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato- si pone in contrasto con la ratio della previsione di un termine finale alla validità dei piani attuativi, ovvero garantire l'adeguatezza e rispondenza delle previsioni in esso contenute agli interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche.
Tali conclusioni ricevono ulteriore conferma nei principi giurisprudenziali secondo cui "il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo. Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria".
Diversamente opinando, si verificherebbe un’inammissibile inversione logica, condizionandosi l’efficacia del piano attuativo a quella della convenzione ad esso accessoria, mentre è la scelta pianificatoria a poter incidere sui rapporti instaurati con la convenzione.
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Sebbene in molte pronunce si affermi che i termini di validità del piano attuativo decorrono dalla stipula della convenzione, costituendo essa condizione di efficacia del piano attuativo, è stato, altresì, precisato, da altra avveduta giurisprudenza (cfr. ex multis TAR Sardegna, sez. II, 22/01/2018, n. 36, TAR Perugia, (Umbria) sez. I, 28/11/2016, n. 745, Consiglio di Stato sez. VI, 05/12/2013, n. 5807) che tale principio potrebbe trovare applicazione soltanto nei casi in cui la convenzione sia stata stipulata entro un termine ragionevole dall’approvazione del piano e non nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui la stipula della convenzione sia stata per lungo tempo ritardata.
In tal caso, infatti, si determinerebbe un differimento sine die della scadenza del termine di validità del piano attuativo che, oltre a confliggere con il chiaro disposto dell’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 -che fissa in un "tempo, non maggiore di anni dieci” quello entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato- si pone in contrasto con la ratio della previsione di un termine finale alla validità dei piani attuativi, ovvero garantire l'adeguatezza e rispondenza delle previsioni in esso contenute agli interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche.
Tali conclusioni ricevono ulteriore conferma nei principi giurisprudenziali secondo cui "il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315). Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria" (Consiglio di Stato n. 1574/2013).
Diversamente opinando, si verificherebbe un’inammissibile inversione logica, condizionandosi l’efficacia del piano attuativo a quella della convenzione ad esso accessoria, mentre è la scelta pianificatoria a poter incidere sui rapporti instaurati con la convenzione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.06.2019 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’art. 30, c. 3-bis, DL 69/2013 si riferisce testualmente ai termini di validità delle convenzioni urbanistiche e non a quelli dei piani attuativi (“3-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni.”.).
La norma ha natura eccezionale ed è di stretta interpretazione (“la previsione di precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e di termini per l'avvio e il completamento dei lavori risponde a rilevanti esigenze di interesse pubblico, ossia alla necessità per la collettività di poter contare sulla realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e definito, con la conseguenza che un differimento ex lege di tale termine presenta un evidente carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema e l'interpretazione restrittiva di norme quali, ad esempio, il comma 3-bis dell'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 è imposta innanzitutto dal principio generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale con riferimento a tutte le norme eccezionali”.
Non può, quindi, esserne estesa l’applicazione anche al termine previsto dall’art. 17 L. 1150/1942.
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Né ha inciso sul termine di efficacia del piano la proroga ex lege disposta dall’art. 30, c. 3-bis, DL 69/2013.
La disposizione, infatti, si riferisce testualmente ai termini di validità delle convenzioni urbanistiche e non a quelli dei piani attuativi (“3-bis. Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre anni.”.).
La norma ha natura eccezionale ed è di stretta interpretazione (“la previsione di precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e di termini per l'avvio e il completamento dei lavori risponde a rilevanti esigenze di interesse pubblico, ossia alla necessità per la collettività di poter contare sulla realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e definito, con la conseguenza che un differimento ex lege di tale termine presenta un evidente carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema e l'interpretazione restrittiva di norme quali, ad esempio, il comma 3-bis dell'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 è imposta innanzitutto dal principio generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale con riferimento a tutte le norme eccezionali” TAR Campania Napoli Sez. II, Sent., (ud. 23/01/2018) 14.02.2018, n. 1010.
Non può, quindi, esserne estesa l’applicazione anche al termine previsto dall’art. 17 L. 1150/1942 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.06.2019 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIlleciti professionali, decide l’appaltante. Esclusione anche in pendenza di ricorsi.
La stazione appaltante può comunque escludere da una gara un'impresa che si sia resa colpevole di gravi illeciti professionali, anche in pendenza di un ricorso che contesti i fatti oggetto dell'illecito professionale.

È quanto ha affermato la Corte di giustizia europea nella sentenza 19.06.2019 - causa C-41/18 che, con riguardo ad un appalto per l'affidamento di un servizio (refezione scolastica), ha ritenuto la normativa italiana in contrasto con la direttiva 2014/24.
L'articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice (nella versione precedente lo Sblocca cantieri) autorizza a escludere dalla gara un operatore economico qualora, in particolare, si dimostri, con mezzi adeguati, in primo luogo, che lo stesso operatore si è reso colpevole di gravi illeciti professionali tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità; in secondo luogo, che i medesimi gravi illeciti professionali, che possono risultare da significative carenze verificatesi nell'esecuzione di un precedente appalto pubblico, hanno dato luogo alla risoluzione del contratto concluso dal medesimo con l'amministrazione aggiudicatrice, a una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni e, in terzo luogo, che tale risoluzione non è stata contestata in giudizio o è stata confermata all'esito di un giudizio.
Nella direttiva appalti (2014/24) l'articolo 57, comma 4, lettera c) e g), prevede invece la facoltatività dell'esclusione che verrebbe, diversamente, minata dalla semplice proposizione da parte di un candidato o di un offerente di un ricorso diretto contro la risoluzione di un precedente contratto di appalto pubblico di cui era firmatario, quand'anche il suo comportamento fosse risultato tanto carente da giustificare tale risoluzione.
Da qui, la decisione della Corte di ritenere contraria al diritto eurounitario una normativa come quella italiana in forza della quale la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico assunta da un'amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione impedisce all'amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d'appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti, sull'affidabilità dell'operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019).

APPALTIIlleciti negli appalti, più potere alla PA. L’esclusione dalle gare per macchie nel curriculum è discrezionale. Bianchi (Ance): «Troppe incertezze, servono altre correzioni al Codice».
L’esclusione dalle gare, operata sulla base del curriculum delle imprese, va configurata come un potere discrezionale della pubblica amministrazione. E non può essere agganciata in nessun caso ad automatismi, come la pronuncia di una sentenza di condanna.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ieri (sentenza 19.06.2019 - causa C-41/18) ha esaminato uno dei passaggi più contestati della storia dell’ultimo Codice appalti (Dlgs 50/2016): l’articolo 80, comma 5, lettera c). Un passaggio, peraltro, analizzato da una larghissima giurisprudenza italiana, sia dei Tar che del Consiglio di Stato, e integralmente riscritto di recente dal decreto semplificazioni (Dl 135/2018). I giudici lussemburghesi, va sottolineato, hanno esaminato la versione precedente del testo, dichiarandone il contrasto con i principi comunitari. Ma sono giunti a conclusioni che, comunque, sono destinate ad avere un impatto fortissimo sull’applicazione futura di queste regole.
La norma sui gravi illeciti professionali è di derivazione comunitaria: nasce da una direttiva (2014/24/Ue, articolo 57, paragrafo 4) che punta a dare alle stazioni appaltanti la possibilità di escludere da una gara operatori economici che, nella loro storia professionale, si siano dimostrati inaffidabili in diversi modi. La vecchia versione dell’articolo 80, secondo il giudice del rinvio (il Tar Campania), avrebbe azzerato il potere discrezionale della Pa, agganciando in modo automatico l’esclusione a situazioni come la risoluzione di un contratto contestata in giudizio.
Anche se l’ultima versione della norma è stata in parte corretta, la sentenza di ieri raggiunge conclusioni comunque molto rilevanti: soprattutto le linee guida n. 6 dell’Anac hanno, infatti, già provato a tipizzare le situazioni che possono portare all’esclusione delle imprese (anche se l’Anac -va sottolineato anche questo- ha sempre parlato di potere discrezionale pieno della Pa).
Ora la Corte di Giustizia Ue traccia una linea netta e afferma chiaramente un principio, opposto a quello della tipizzazione: la possibilità di escludere un’impresa per gravi illeciti è un potere discrezionale della Pa e non può essere paralizzato dalle prerogative di soggetti terzi. Ad esempio, la semplice decisione di contestare in giudizio a un’impresa carenze di esecuzione di un appalto non può portare obbligatoriamente all’esclusione automatica. È la Pa che indice la sua gara ad essere completamente padrona della selezione dei suoi offerenti, senza vincoli esterni.
«Questa decisione -spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente Ance con delega alle opere pubbliche- conferma, ancora una volta, che questa norma è nata male, per effetto delle richieste che ci sono arrivate dall’Europa, e ha creato una marea di problemi applicativi». L’interpretazione della Corte Ue, per Bianchi, procede su questa china: «Affermare la piena discrezionalità è negativo per le imprese, perché non dà certezze, ma anche per le pubbliche amministrazioni, perché nessuna Pa si prenderà adesso la responsabilità di avviare un’esclusione, esponendosi a un ricorso e al blocco immediato dell’appalto». Il meccanismo potrebbe essere sostenibile per gli uffici legali delle Pa più strutturate ma, di certo, non per i piccoli Comuni.
L’articolo 80, quindi, nonostante le indicazioni che arrivano dall’Europa, dovrebbe essere oggetto di altre correzioni. Per l’Ance, «serve una tipizzazione, anche non esaustiva, dei casi che possono portare all’esclusione. E bisogna circoscrivere le situazioni che possono essere considerate rilevanti, almeno al livello delle sentenze di primo grado». Non è possibile, cioè, escludere un operatore che sia soltanto indagato. La riforma continua sui gravi illeciti professionali non sembra, insomma, destinata ad arrestarsi dopo questa pronuncia (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2019).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
L’articolo 57, paragrafo 4, lettere c) e g), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza della quale la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisce all’amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d’appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti, sull’affidabilità dell’operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce.

APPALTIPer la CGUE la contestazione in giudizio della risoluzione per illecito professionale non preclude alla p.a. di valutare l’affidabilità dell’operatore.
La Corte di giustizia UE ha affermato la non conformità alle direttive europee del Codice dei contratti pubblici nella parte in cui prevede che la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico, assunta da un'amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisce all'amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d'appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti, sull'affidabilità dell'operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce.
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Contratti pubblici – Gara – Grave illecito professionale – Risoluzione anticipata del contratto di appalto – Esclusione dell’operatore solo in caso di non contestazione o conferma in sede giudiziale della risoluzione – Principio di proporzionalità – Violazione.
L’articolo 57, paragrafo 4, lettere c) e g), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza della quale la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisce all’amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d’appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti, sull’affidabilità dell’operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce (1).
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   (1) I. - Il rinvio pregiudiziale del Tar per la Campania, sez. IV, ordinanza 13.12.2017 n. 5893 (oggetto della News US in data 19.12.2017, al quale si rinvia per ulteriori approfondimenti) è stato occasionato da una controversia in materia di affidamento di un servizio per la refezione scolastica in cui una impresa concorrente ha contestato, ai sensi dell’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a., la mancata esclusione di altra concorrente, già destinataria, in una precedente gara, di un provvedimento di risoluzione contrattuale per grave inadempimento (tossinfezione alimentare), successivamente impugnato dinanzi al competente giudice civile.
Il Tar aveva dubitato della compatibilità della disciplina interna contenuta nell’art. 80, comma 5, lettera c), del d.lgs. n. 50 del 2016 con i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento, certezza del diritto, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità ed effettività, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, nonché con la disposizione di cui all’art. 57, comma 4, lettere c) e g), di detta direttiva, nella parte in cui tale disposizione consente l’ammissione automatica, in assenza di qualsiasi valutazione di affidabilità e senza che sia stata dimostrata l’adozione di misure di self cleaning, di un’impresa che abbia precedentemente commesso illeciti professionali e che abbia contestato in giudizio la precedente risoluzione del contratto intervenuta per via di tali illeciti.
Il Tar aveva evidenziato che:
   a) i principi di proporzionalità e di effettività dovrebbero proibire qualsiasi automatismo in caso di impossibilità di escludere un operatore economico;
   b) l’art. 80, comma 5, del Codice dei contratti pubblici violerebbe i succitati principi e, quindi, la direttiva 2014/24/UE poiché impedisce all’amministrazione aggiudicatrice di effettuare una valutazione motivata sulla gravità dell’illecito professionale all’origine della risoluzione di un precedente contratto per il motivo che la risoluzione del medesimo è contestata dinanzi a un giudice civile;
   c) l’art. 57, paragrafo 4, lettera g), della direttiva in questione non richiederebbe in alcun modo una statuizione definitiva della responsabilità dell’aggiudicatario.
   II. – Con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia UE, dopo aver analizzato la normativa di riferimento, ha affermato che:
      d) le cause di esclusione facoltative devono essere valutate secondo il principio di proporzionalità (art. 57, par. 4, della direttiva 2014/24/UE) il quale non consente al legislatore nazionale di considerare automaticamente irrilevanti, ai fini dell’ammissione ad una nuova gara, gli illeciti professionali che hanno dato luogo ad una precedente risoluzione contrattuale avverso la quale sia stato proposto ricorso e lo stesso sia ancora pendente;
      e) in ragione del tenore dei considerando 101 e 102 della direttiva n. 2014/24/UE, nell’applicare motivi di esclusione facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero prestare particolare attenzione al principio di proporzionalità;
      f) in base all’art. 57, par. 4, della direttiva n. 2014/24/UE, che è sostanzialmente sovrapponibile all’art. 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE:
         f1) il compito di valutare se un operatore economico debba essere escluso da una procedura di aggiudicazione di appalto appartiene alle amministrazioni aggiudicatrici e non a un giudice nazionale;
         f2) la facoltà di cui dispone qualsiasi amministrazione aggiudicatrice di escludere un offerente da una procedura di aggiudicazione di appalto è destinata in modo particolare a consentirle di valutare l’integrità e l’affidabilità di ciascuno degli offerenti;
         f3) i due motivi di esclusione previsti dall’art. 57, paragrafo 4, lettere c) e g), si basano su un elemento essenziale del rapporto tra l’aggiudicatario dell’appalto e l’amministrazione aggiudicatrice, vale a dire l’affidabilità del primo, sulla quale si fonda la fiducia che vi ripone la seconda (“il considerando 101, primo comma, della direttiva in parola prevede che le amministrazioni aggiudicatrici possono escludere gli «operatori economici che si sono dimostrati inaffidabili», mentre il suo secondo comma prende in considerazione, nell’esecuzione degli appalti pubblici precedenti, «comportamenti scorretti che danno adito a seri dubbi sull’affidabilità dell’operatore economico”, cfr. punto 30);
         f4) le amministrazioni aggiudicatrici devono poter escludere un operatore economico in qualunque momento della procedura e non solo dopo che un organo giurisdizionale abbia pronunciato una sentenza che accerti l’esistenza del grave illecito professionale;
         f5) se un’amministrazione aggiudicatrice dovesse essere automaticamente vincolata da una valutazione effettuata da un terzo, le sarebbe probabilmente difficile accordare un’attenzione particolare al principio di proporzionalità al momento dell’applicazione dei motivi facoltativi di esclusione;
      g) in relazione al perimetro della discrezionalità del legislatore interno, in un assetto normativo in cui gli Stati membri sono chiamati a specificare le condizioni di applicazione della disciplina nel rispetto del diritto dell’Unione:
         g1) il potere discrezionale degli Stati membri non è assoluto e, “una volta che uno Stato membro decide di recepire uno dei motivi facoltativi di esclusione previsti dalla direttiva 2014/24, deve rispettarne gli elementi essenziali, quali ivi previsti. Precisando che gli Stati membri specificano «le condizioni di applicazione del presente articolo» «nel rispetto del diritto dell’Unione», l’articolo 57, paragrafo 7, della direttiva 2014/24 osta a che gli Stati membri snaturino i motivi facoltativi di esclusione stabiliti in tale disposizione o ignorino gli obiettivi o i principi ai quali è ispirato ciascuno di detti motivi”;
         g2) “quando è stata chiamata a interpretare i motivi facoltativi di esclusione, come quelli previsti all’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d) o g), della direttiva 2004/18, le uniche disposizioni che non comportavano alcun rinvio al diritto nazionale, la Corte si è basata sull’articolo 45, paragrafo 2, secondo comma, della medesima direttiva, in forza del quale gli Stati membri precisano, nel rispetto del diritto dell’Unione, le condizioni di applicazione del suddetto paragrafo 2, per circoscrivere più rigorosamente il potere discrezionale di tali Stati e definire, a sua volta, la portata della causa facoltativa di esclusione controversa (v., in particolare, sentenza del 13.12.2012, Forposta, C-465/11, in www.curia.europa.eu, punti da 25 a 31)”;
      h) dal testo dell’art. 57, paragrafo 4, della direttiva n. 2014/24/UE risulta che il legislatore dell’Unione ha inteso affidare all’amministrazione aggiudicatrice, e a essa soltanto, nella fase della selezione degli offerenti, il compito di valutare se un candidato o un offerente debba essere escluso da una procedura di aggiudicazione di appalto;
      i) l’art. 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici non è conforme all’ordinamento europeo per la parte in cui limita la possibilità per l’amministrazione di escludere da una procedura d’appalto un operatore economico qualora, in particolare, essa dimostri, con mezzi adeguati che:
         i1) in primo luogo, lo stesso operatore si è reso colpevole di gravi illeciti professionali tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità;
         i2) in secondo luogo, i medesimi gravi illeciti professionali, che possono risultare da significative carenze verificatesi nell’esecuzione di un precedente appalto pubblico, hanno dato luogo alla risoluzione del contratto concluso dal medesimo con l’amministrazione aggiudicatrice, a una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni;
         i3) in terzo luogo, tale risoluzione non è stata contestata in giudizio o è stata confermata all’esito di un giudizio;
      j) tale disposizione non è idonea a preservare l’effetto utile della previsione dell’art. 57, paragrafo 4, lettera c) o g), della direttiva n. 2014/24/UE poiché il potere discrezionale dell’amministrazione è paralizzato dalla proposizione di un ricorso contro la risoluzione di un precedente contratto d’appalto di cui l’offerente era firmatario “quand’anche il suo comportamento sia risultato tanto carente da giustificare tale risoluzione” (punto 38);
      k) l’art. 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici non incoraggia un aggiudicatario nei cui confronti è stata emanata una decisione di risoluzione di un precedente contratto di appalto pubblico ad adottare misure riparatorie (self cleaning), le quali consentirebbero all’operatore economico di prendere provvedimenti per dimostrare di essere affidabile e meritevole di fiducia nonostante ricorra un motivo di esclusione.
   III. – Per completezza si segnala che:
      l) nella giurisprudenza nazionale, con specifico riferimento alla contestazione giudiziale della risoluzione per grave illecito professionale, si vedano, tra le altre:
         l1) nel senso che la contestazione giudiziale non si traduca in un’automatica ammissione: Consiglio di Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299 (in Urbanistica e appalti, 2018, 657, con nota di CONTESSA; in Giur. it., 2018, 1681, con nota di FOÀ, RICCIARDO CALDERARO; in Foro amm., 2018, 441, in Appalti & Contratti, 2018, fasc. 3, 78, e in Gazzetta forense, 2018, 335), secondo cui: “l’esistenza di una contestazione giudiziale della risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada esclusivamente nell’ipotesi esemplificativa, con applicazione del relativo regime operativo; difatti, il “fatto” in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito professionale, secondo l’ipotesi generale”. Invero, “sussistendo una relazione di genus ad speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso generale, la stazione appaltante non può avvalersi dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso, l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante giuridico il comportamento contrattuale indiziato” (in termini Tar per la Campania, sez. I, 29.05.2019, n. 2885);
         l2) nel senso che, laddove la gara rientri nel campo di applicazione del d.lgs. n. 50 del 2016, viene a configurarsi un ineludibile obbligo legale di ammissione del concorrente, qualora la anticipata risoluzione del contratto sia stata contestata in giudizio si vedano, tra le altre: Tar per la Sicilia, 03.11.2017, n. 2511; Tar per la Puglia, sez. III, 18.07.2017, n. 828; Cons. Stato, sez. V, 27.04.2017, n. 1955 (in Guida al dir., 2017, fasc. 21, 94, con nota di PONTE); Tar per la Puglia, sez. I, 30.12.2016, n. 1480; Tar per la Puglia–Lecce, sez. III, 22.12.2016, n. 1935 (in Foro it., 2017, 1735); Tar per la Calabria, sez. I, 19.12.2016, n. 2522 (in Foro it., 2017, 1735);
         l3) sulla specifica questione della necessaria definitività della disposta risoluzione del pregresso rapporto contrattuale per procedere alla esclusione dalla gara: Cons. Stato, sez. V, 11.12.2017, n. 5818; Cons Stato, sez. V, 25.05.2012, n. 3078; Cons. Stato, sez. V, 21.01.2011, n. 409 (in Riv. amm. appalti, 2011, 227, con nota di PIGNATTI);
      m) nella giurisprudenza europea, le pronunce rese sull’art. 45, comma 2, della direttiva 2004/18 (Corte di giustizia UE, sez. IV, 14.12.2016, causa C-171/15, Taxi Services BV, in Foro amm., 2016, 2890, nonché oggetto della News US, in data 09.01.2017, ai cui approfondimenti si rinvia; idem, sez. X, 18.12.2014, C-470/13, in Foro amm., 2014, 3034 e in www.curia.europa.eu, 2014; idem, sez. III, 13.12.2012, C-465/11, in www.curia.europa.eu, 2012) rifiutano ogni automatismo in materia di cause di esclusione facoltativa nel caso di grave errore professionale, dovendo la relativa determinazione ispirarsi a criteri di proporzionalità; ne discende che analogo principio, contrario ad ogni automatismo, deve valere in ipotesi di meccanismi che abbiano il contrario effetto di precludere l’esclusione;
      n) il tema della compatibilità della disciplina delle cause di esclusione previste dall’art. 80, comma 5, del decreto legislativo n. 50 del 2016 ha costituito oggetto di ulteriori rinvii pregiudiziali:
         n1) Cons. Stato, sez. V, ordinanza 23.08.2018, n. 5033 (oggetto della News US in data 07.09.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) e Cons. Stato, sez. V, ordinanza, 03.05.2018, n. 2639 (oggetto della News US in data 08.05.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) con le quali il giudice d’appello ha rimesso nuovamente la analoga questione della compatibilità, con il diritto dell’Unione europea, della normativa interna sulle cause di esclusione del concorrente dalla partecipazione a una procedura di gara, in caso di grave illecito professionale che abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto di appalto, nella parte in cui richiede che  l’operatore possa essere escluso solo se la risoluzione non sia contestata giudizialmente o sia confermata all’esito di un giudizio;
         n2) sotto altro profilo, in tema di errore professionale quale causa di esclusione della gara, la Corte di giustizia UE, sez. IX, ordinanza, 04.06.2019, C-425/18, Consorzio Nazionale Servizi Società Cooperativa (CNS), emessa a seguito di rinvio pregiudiziale del Tar per il Piemonte, sez. I, ordinanza 21.06.2018, n. 770 (rispettivamente oggetto della News US n. 81 in data 16.07.2019 e News US in data 02.07.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) ha affermato che “l’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d), della direttiva 2004/18/CE […], deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che è interpretata nel senso di escludere dall’ambito di applicazione dell’«errore grave» […] i comportamenti che integrano una violazione delle norme in materia di concorrenza, accertati e sanzionati dall’autorità nazionale garante della concorrenza con un provvedimento confermato da un organo giurisdizionale, e che preclude alle amministrazioni aggiudicatrici di valutare autonomamente una siffatta violazione per escludere eventualmente tale operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico”;
      o) in dottrina, per una accurata ricostruzione della nuova disciplina dell’esclusione basata sul grave illecito professionale, delle differenze fra vecchio e nuovo regime europeo e nazionale, delle linee guida A.N.A.C. e sulla rilevanza del c.d. self cleaning, si vedano, tra gli altri: R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 854 ss. (cui si rinvia per ampia trattazione anche delle modifiche disciplinari rispetto alla pregressa normativa di cui al d.lgs. n. 163 del 2006), secondo cui la circostanza che il legislatore italiano abbia scelto di disciplinare l’esclusione per grave illecito professionale in termini di obbligatorietà (esercitando l’opzione concessa dalle direttive del 2014 e costruendo tale figura come un genus all’interno del quale collocare una nutrita serie di fattispecie) è conforme al diritto europeo ed ai principi espressi dalla menzionata sentenza della Corte di giustizia UE, sez. IV, 14.12.2016, cit., e fa propendere per il carattere esemplificativo del catalogo sancito dall’art. 80, comma 5, lettera c), del nuovo codice dei contratti pubblici; A. AMORE, Le cause di esclusione di cui all’art. 80 d.lgs. n. 50/2016 tra Linee guida dell’ANAC e principi di tassatività e legalità, in Urbanistica e appalti, 2017, 6, 763; M. DIDONNA, Gravi illeciti professionali, morosità del concorrente e garanzie <difensive> in Urbanistica e appalti, 2018, 4, 538; id., Revoca di precedenti affidamenti e <gravi illeciti professionali> nel d.lgs. n. 50/2016, in www.Italiappalti.it, 19.01.2017; id., Il <grave errore professionale>, tra attuale incertezza e imminente prospettiva europea, in Urbanistica e appalti, 2016, 1, 61; F. MASTRAGOSTINO, Motivi di esclusione e soccorso istruttorio dopo il correttivo al codice dei contratti pubblici, in Urbanistica e appalti, 2017, 6, 745. Sulle Linee guida ANAC n. 6 adottate, in attuazione dell’art. 80, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016, con determinazione n. 1293 del 16.11.2016 (su cui si veda il parere del Cons. Stato, comm. speciale, 03.11.2016, n. 2286/2016) e modificate con determinazione n. 1008 dell’11.10.2017 (su cui si veda il parere del Cons. Stato, comm. speciale, 25.09.2017, n. 2042/2017) cfr. L. MAZZEO e L. DE PAULI, Le linee guida dell’ANAC in tema di gravi illeciti professionali, in Urbanistica e appalti, 2018, 2, 155. MANGANARO, M. GERMANO’, Nuove disposizioni normative sulle cause di esclusione da una procedura di appalto pubblico, in Urbanistica e appalti, 2019, 3, 301;
     p) sulla natura esemplificativa delle ipotesi di “grave errore professionale” indicate dall’art. 80, comma 5, lettera c), d.lgs. n. 80 del 2016 cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.09.2018, n. 5142; Cons. Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299, che ha esaminato la disposizione anche alla luce dell’art. 57, par. 4, direttiva del 2014/24/UE del 26.02.2014; Cons. Stato, sez. V, 27.04.2017, n. 1955 (in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 699);
      q) la soluzione divisata dalla sentenza in rassegna era stata anticipata dall'art. 5, comma 1, d.l. 14.12.2018, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.02.2019, n. 12, che ha sostituito, nel corpo dell’art. 80, comma 5 cit., l'originaria lettera c), con le lettere c), c-bis) e c-ter);
     r) l'art. 1, comma 20, lettera o), della legge n. 55 del 2019 (di conversione del d.l. c.d. “sblocca cantieri”, oggetto della News normativa n. 74 del 10.07.2019) ha introdotto nell’art. 80, comma 5, del decreto legislativo n. 50 del 2016 la lettera c-quater, ai sensi della quale l’amministrazione appaltante deve disporre l’esclusione dell’operatore economico che abbia commesso “grave inadempimento nei confronti di uno o più subappaltatori, riconosciuto o accertato con sentenza passata in giudicato”.
Si tratta di una causa di esclusione obbligatoria, introdotta autonomamente dal legislatore nazionale, non essendo prevista dalle direttive europee, e che può essere ricondotta al più ampio genus del grave illecito professionale.
Come osserva, puntualmente, R. DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici recati dal d.l. n. 32/2019, in corso di pubblicazione in Urbanista e Appalti, il d.l. interviene anche sulla materia della durata massima delle cause ostative di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, sia con riguardo alle condanne penali, al fine di coordinare la disciplina del Codice dei contratti pubblici con la legge n. 3 del 2019 in tema di delitti contro la p.a., sia con riguardo alle violazioni dell’art. 80, quinto comma, al fine di dare migliore attuazione alle direttive europee, in particolare con riguardo alla decorrenza della causa ostativa.
Con riguardo agli illeciti penali indica una durata variabile della causa di esclusione in base alla tipologia di reato e all’entità della condanna, se la sentenza penale di condanna definitiva non fissa la durata della pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Nel caso in cui ricorra una delle ipotesi descritte al quinto comma dell’art. 80, la durata della causa ostativa è di tre anni, decorrenti dalla data di adozione del provvedimento amministrativo di esclusione ovvero, in caso di contestazione in giudizio, dalla data di passaggio in giudicato della sentenza.
Tuttavia, in caso di contestazione in giudizio, non vi è un totale congelamento della causa di esclusione, che piuttosto, da obbligatoria, diviene facoltativa. Si stabilisce infatti che, nel tempo occorrente alla definizione del giudizio, la stazione appaltante deve tenere conto di tale fatto ai fini della propria valutazione circa la sussistenza dei presupposti per escludere dalla partecipazione alla procedura l’operatore economico che l’abbia commesso (art. 80, comma 10-bis, ultimo periodo). Il d.l., superando i problemi ermeneutici emersi con la formulazione previgente (ma sul punto si veda R. DE NICTOLIS, op. ult. cit.), fa decorrere la durata del termine della causa ostativa dall’accertamento del fatto, che o è contenuto nel provvedimento amministrativo non contestato, ovvero, in caso di contestazione, nella condanna giudiziale passata in giudicato.
Per il caso di contestazione giudiziale, come anticipato, si ipotizza una causa di esclusione facoltativa e non obbligatoria, al fine di evitare che la lunghezza del giudizio congeli sine die la causa di esclusione (CGUE, Sez. IV, sentenza 19.06.2019, C-41/18 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti, la Cassazione conferma il danno all’immagine della PA.
Chi si assenta illegittimamente dal posto di lavoro non procura all'ente di appartenenza soltanto un danno patrimoniale ma lede anche l'immagine dell'amministrazione.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 18.06.2019 n. 26956 che si è occupata del caso di un vigile urbano di un piccolo centro pugliese.
L'agente di polizia municipale -si racconta nella sentenza- «con artifici e raggiri consistiti nell'attestare la propria presenza in ufficio ininterrottamente per tutto l'orario di servizio, con timbratura all'inizio ed alla fine del turno, ometteva di registrare i suoi allontanamenti dal posto di lavoro, procurandosi un ingiusto profitto, consistito nella retribuzione e nei suoi accessori, ai danni della pubblica amministrazione».
Richiamando la propria giurisprudenza secondo cui l'assenza reiterata dell'imputato aveva determinato un danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una frazione della prestazione giornaliera non effettuata, la Corte ha osservato che non è necessario che il danno venga provato nel suo preciso ammontare.
Ma ha sottolineato che «deve ritenersi significativo il danno all'immagine per il Comune ... derivante dalla reiterata assenza dal posto di lavoro ... siccome percepita dai cittadini, che hanno avuto anche la possibilità di notarli sulla pubblica via o, peggio, in pubblici locali in orari lavorativi» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.06.2019).
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MASSIMA
2.3 Quanto ai rimanenti motivi di ricorso, la giurisprudenza di questa Corte ha più volte precisato che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella ripetizione di quelli già dedotti in appello, motivatamente esaminati e disattesi dalla corte di merito, dovendosi i motivi stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (vedi Cass., Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Rv. 243838)
Sono inoltre precluse alla Corte di legittimità sia la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento delle decisione impugnata che l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una maggiore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare al controllo se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito (Sez. Un., sent. n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260).
Nel caso in esame, l'eccezione relativa alla considerazione che non è stato quantificato il danno economico non considera quanto motivatamente considerato dalla Corte territoriale, e cioè che "
deve ritenersi significativo il danno all'immagine per il Comune di Villa Castelli derivante dalla reiterata assenza dal posto di lavoro dei due imputati siccome percepita dai cittadini, che hanno avuto anche la possibilità di notarli sulla pubblica via o, peggio, in pubblici locali in orari lavorativi" (pag. 4 sentenza impugnata), richiamando la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l'assenza reiterata dell'imputato aveva determinato un danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una frazione della prestazione giornaliera non effettuata, e che non è necessario che il danno venga provato nel suo preciso ammontare; nessuna contestazione specifica è infine stata sollevata sui servizi di osservazione svolti dai carabinieri, per cui l'ultimo motivo di ricorso è inammissibile in quanto generico.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa qualifica di coordinatore dei vigili non è attribuibile nei piccoli Comuni con meno di sette addetti.
La legge quadro della polizia locale divide l'organizzazione in profili professionali (articolo 7, comma 3, legge 65/1986) che prevedono la figura del comandante, degli addetti alle attività di coordinamento e controllo e degli operatori (vigili). A sua volta il contratto collettivo ha attratto nella categoria D la figura professionale di addetto al coordinamento e controllo, anche a fronte della qualifica di diritto attribuitagli dalla medesima legge quadro (articolo 5, comma 1), di agente di polizia giudiziaria.

La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 18.06.2019 n. 16312 ha stabilito che nei piccoli Comuni le funzioni di addetto al coordinamento e controllo eventualmente, pur formalmente attribuite dall'ente non possono fare riferimento alle disposizioni della legge quadro, in quanto applicabili esclusivamente in caso di elevazione a corpo di polizia municipale per la quale serve l'appartenenza di almeno sette addetti, con la conseguenza che nessuna mansione superiore può essere esercitata, e quindi richiesta, dal dipendente cui l'incarico sia stato conferito.
I motivi di contestazione
In un piccolo Comune di soli due addetti alla polizia locale, l'amministrazione nominava uno dei due quale coordinatore per affidare successivamente le funzioni al segretario comunale. Il dipendente estromesso, dalle funzioni di coordinatore, adiva il giudice del lavoro reclamando il demansionamento per essere stato privato delle funzioni di coordinamento. Non avendo avuto esito positivo nei due gradi di giudizio, il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo che, nei casi in cui non sussistano i presupposti per la costituzione del corpo di polizia municipale e per l'attribuzione delle qualifiche di comandante, coordinatore e vigile semplice, il Comune può sempre istituire i richiamati profili professionali, esercitando poteri organizzativi di natura discrezionale, che incontrano come unico limite il divieto di assegnare il dipendente a mansioni inferiori rispetto alla qualifica posseduta.
Pertanto, a dire del ricorrente, una volta che l'ente ha previsto figura apicale del coordinatore dei vigili urbani, non aveva alcun potere successivamente di privare il dipendente nominato della funzione di coordinamento ormai attribuitagli. Nel contratto decentrato, inoltre, era stata riconosciuta un'indennità di specifiche responsabilità, evidentemente volta a compensare la maggiore professionalità richiesta per l'espletamento della funzione assegnata.
La revoca dell'incarico, poi, avendo natura sanzionatoria, era da considerarsi nulla per violazione dello statuto dei lavoratori, avendo l'ente adottato il provvedimento senza l'obbligatorio esercizio del diritto di difesa da parte del dipendente. Il dipendente ha quindi chiesto alla Corte di cassazione la riparazione del danno subito per il demansionamento.
L'analisi della Corte
La Cassazione ha confermato il rigetto del ricorso, sostenendo che il provvedimento attuato dall'ente ha natura organizzativa e non sanzionatoria. Infatti, l'articolo 7 della legge 65/1986, che disciplina le condizioni per l'istituzione del corpo di polizia municipale, si applica esclusivamente alle realtà territoriali più estese, dovendosi escludere, quanto ai Comuni di piccole dimensioni, non solo che la norma, ancorata al tassativo presupposto che il servizio sia svolto da almeno sette addetti, sia suscettibile di interpretazione estensiva, ma anche che possa farsi ricorso all'analogia.
In questo contesto, inoltre, il medesimo contratto collettivo nazionale delle autonomie locali prevede che l'inquadramento nella categoria superiore possa essere disposta esclusivamente per gli addetti al coordinamento e controllo che, come disposto dalla legge quadro, non risulta attuabile nei comuni di piccole dimensioni.
In altri termini, un eventuale potere unilaterale del datore di lavoro pubblico sarebbe nullo in quanto disposto in violazione della declaratoria contrattuale, ossia con attribuzioni di benefici migliorativi al dipendente pubblico non previsti dalla contrattazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019).
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MASSIMA
12. è infondato il terzo motivo, con il quale il ricorrente si duole della violazione delle leggi nn. 65/1986 e 142/1990;
12.1. la Corte territoriale ha escluso che l'incarico di coordinamento implicasse lo svolgimento di mansioni superiori e l'attribuzione di un profilo professionale diverso da quello dell'agente di polizia municipale ed ha correttamente ritenuto che l'appellante non potesse invocare l'art. 7 della legge n. 65/1986, nella parte in cui prevede, al comma 3, che l'ordinamento del Corpo di polizia municipale «si articola di norma in: a) responsabile del Corpo (comandante); b) addetti al coordinamento e al controllo; c) operatori (vigili)»;
12.2. il Collegio intende dare continuità all'orientamento, già espresso da questa Corte, secondo cui
l'art. 7 della legge n. 65 del 1986, che disciplina le condizioni per l'istituzione del corpo di polizia municipale, si applica esclusivamente alle realtà territoriali più estese, dovendosi escludere, quanto ai comuni di piccole dimensioni, non solo che la norma, ancorata al tassativo presupposto che il servizio sia svolto da almeno sette addetti, sia suscettibile di interpretazione estensiva, ma anche che possa farsi ricorso all'analogia (Cass. n. 16580/2010);
12.3.
infatti, ove risulti inapplicabile per difetto del requisito numerico la norma speciale (alla quale rinvia l'art. 70, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001), la disciplina dell'organizzazione degli uffici degli enti locali va tratta dal d.lgs. n. 267/2000 che, nell'abrogare la legge n. 142/1990, erroneamente invocata dal ricorrente, ha attribuito alla potestà regolamentare degli enti territoriali l'ordinamento degli uffici e del personale, precisando, peraltro, che la potestà stessa, in ragione dell'affermata applicabilità del «d.lgs. 03.02.1993 n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni» nonché delle «altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni» (art. 88), deve essere esercitata «tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale» ( art. 88, comma 2);
12.4.
il richiamato rapporto fra le fonti è stato ribadito dal d.lgs. n. 165/2001 che ha previsto, all'art. 70, comma 3, che «il rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali è disciplinato dai contratti collettivi previsti dal presente decreto nonché dal d.lgs. 18.08.2000 n. 267»;
12.5.
anche per il personale del comparto autonomie locali, pertanto, il legislatore ha affidato la materia degli inquadramenti allo speciale sistema di contrattazione collettiva del settore pubblico (Cass. S.U. n. 16038/2010), limitando il potere unilaterale del datore di lavoro pubblico, il quale «ha solo la possibilità di adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo nel contratto collettivo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie, in quanto il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato», con la conseguenza che «è nullo l'atto in deroga anche in melius alle disposizioni del contratto collettivo, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell'art. 21-septies della legge 07.08.1990 n. 241, dovendosi escludere che la RA. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva» ( Cass. S.U. n. 21744/2009);
12.6. ne discende che il motivo è infondato nella parte in cui sostiene che, seppure in difetto dei presupposti richiesti dall'art. 7 della legge n. 65/1986, il Comune, nell'esercizio del suo potere regolamentare, poteva istituire una «figura apicale di coordinatore dei vigili urbani», atteso che il potere organizzativo trova limite, quanto all'organizzazione ed alla gestione del personale, nella classificazione operata dalle parti collettive, alla quale il ricorso non fa cenno, tanto che si ignora persino in quale area il La. fosse inquadrato e quale posizione economica lo stesso avesse acquisito;
12.5. si deve poi aggiungere che il ricorrente, pur dolendosi dell'omessa considerazione delle determinazioni assunte dall'ente nell'esercizio della sua potestà regolamentare, non indica con quale atto sarebbe stato istituito il profilo di coordinatore e solo indirettamente richiama, nel corpo della quarta censura, l'art. 13 del regolamento del servizio di Polizia Municipale, regolamento rispetto al quale non risultano assolti gli oneri di specificazione e di allegazione, perché il La. non ne riporta il contenuto né precisa se lo stesso sia stato o meno acquisito agli atti del giudizio;

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Segretario comunale: affidamento del servizio di coordinamento di polizia locale. Nei micro comuni il coordinatore può essere il segretario che non assume la qualifica di comandante ma solo la direzione generale.
In presenza di due soli operatori di polizia municipale il sindaco può affidare il coordinamento del servizio al segretario comunale e il precedente incaricato al coordinamento non ha titolo per rivendicare alcuna prevaricazione.
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2. la Corte territoriale ha premesso che con delibera del 28.03.2007 la direzione della Polizia Municipale, alla quale erano addetti solo due dipendenti, era stata attribuita ad interim al segretario comunale, al fine di garantire un «sereno e pacifico svolgimento delle delicate funzioni connesse alle precipue attività d'ufficio» e di assicurare il raccordo con l'esecutivo e con le altre articolazioni municipali;
3. il giudice d'appello ha escluso che il provvedimento perseguisse finalità sanzionatorie nei confronti del Laudari, perché l'amministrazione, nell'attribuire ad un organo esterno le funzioni di direzione, aveva posto a fondamento dell'atto esigenze organizzative e non la necessità di reagire alla violazione di comportamenti, tenuti dallo stesso Laudari, contrari alle direttive ed agli ordini di servizio ricevuti;
4. ha evidenziato, inoltre, che non poteva essere ravvisato un illegittimo demansionamento, perché la nomina del Laudari a coordinatore aveva la finalità di individuare un unico interlocutore nei rapporti fra gli uffici comunali e la Polizia Municipale e di garantire al tempo stesso che i due vigili svolgessero l'attività in modo coordinato, ma non implicava l'attribuzione della qualifica prevista dalla legge n. 65/1986, applicabile nei soli casi di formale istituzione del Corpo di Polizia Municipale, non avvenuta nella fattispecie, nella quale faceva difetto la condizione, richiesta dal legislatore, dell'assegnazione al servizio di almeno sette dipendenti;
...
12. è infondato il terzo motivo, con il quale il ricorrente si duole della violazione delle leggi nn. 65/1986 e 142/1990;
12.1. la Corte territoriale ha escluso che l'incarico di coordinamento implicasse lo svolgimento di mansioni superiori e l'attribuzione di un profilo professionale diverso da quello dell'agente di polizia municipale ed ha correttamente ritenuto che l'appellante non potesse invocare l'art. 7 della legge n. 65/1986, nella parte in cui prevede, al comma 3, che l'ordinamento del Corpo di polizia municipale «si articola di norma in: a) responsabile del Corpo (comandante); b) addetti al coordinamento e al controllo; c) operatori (vigili)»;
12.2. il Collegio intende dare continuità all'orientamento, già espresso da questa Corte, secondo cui l'art. 7 della legge n. 65 del 1986, che disciplina le condizioni per l'istituzione del corpo di polizia municipale, si applica esclusivamente alle realtà territoriali più estese, dovendosi escludere, quanto ai comuni di piccole dimensioni, non solo che la norma, ancorata al tassativo presupposto che il servizio sia svolto da almeno sette addetti, sia suscettibile di interpretazione estensiva, ma anche che possa farsi ricorso all'analogia (Cass. n. 16580/2010);
12.3. infatti, ove risulti inapplicabile per difetto del requisito numerico la norma speciale (alla quale rinvia l'art. 70, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001), la disciplina dell'organizzazione degli uffici degli enti locali va tratta dal d.lgs. n. 267/2000 che, nell'abrogare la legge n. 142/1990, erroneamente invocata dal ricorrente, ha attribuito alla potestà regolamentare degli enti territoriali l'ordinamento degli uffici e del personale, precisando, peraltro, che la potestà stessa, in ragione dell'affermata applicabilità del «d.lgs. 03.02.1993 n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni» nonché delle «altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni» ( art. 88), deve essere esercitata «tenendo conto di quanto demandato alla contrattazione collettiva nazionale» ( art. 88, comma 2);
12.4. il richiamato rapporto fra le fonti è stato ribadito dal d.lgs. n. 165/2001 che ha previsto, all'art. 70, comma 3, che «il rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali è disciplinato dai contratti collettivi previsti dal presente decreto nonché dal d.lgs. 18.08.2000 n. 267»;
12.5. anche per il personale del comparto autonomie locali, pertanto, il legislatore ha affidato la materia degli inquadramenti allo speciale sistema di contrattazione collettiva del settore pubblico (Cass. S.U. n. 16038/2010), limitando il potere unilaterale del datore di lavoro pubblico, il quale «ha solo la possibilità di adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo nel contratto collettivo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie, in quanto il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato», con la conseguenza che «è nullo l'atto in deroga anche in melius alle disposizioni del contratto collettivo, sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell'art. 21-septies della legge 07.08.1990 n. 241, dovendosi escludere che la RA. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva» ( Cass. S.U. n. 21744/2009);
12.6. ne discende che il motivo è infondato nella parte in cui sostiene che, seppure in difetto dei presupposti richiesti dall'art. 7 della legge n. 65/1986, il Comune, nell'esercizio del suo potere regolamentare, poteva istituire una «figura apicale di coordinatore dei vigili urbani», atteso che il potere organizzativo trova limite, quanto all'organizzazione ed alla gestione del personale, nella classificazione operata dalle parti collettive, alla quale il ricorso non fa cenno, tanto che si ignora persino in quale area il La. fosse inquadrato e quale posizione economica lo stesso avesse acquisito;
12.5. si deve poi aggiungere che il ricorrente, pur dolendosi dell'omessa considerazione delle determinazioni assunte dall'ente nell'esercizio della sua potestà regolamentare, non indica con quale atto sarebbe stato istituito il profilo di coordinatore e solo indirettamente richiama, nel corpo della quarta censura, l'art. 13 del regolamento del servizio di Polizia Municipale, regolamento rispetto al quale non risultano assolti gli oneri di specificazione e di allegazione, perché il La. non ne riporta il contenuto né precisa se lo stesso sia stato o meno acquisito agli atti del giudizio (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 18.06.2019 n. 16312).

CONSIGLIERI COMUNALINon decade il consigliere assenteista se la giustificazione è tardiva ma valida.
In tema di decadenza dalla carica di consigliere di ente locale per assenza alle sedute dell'organo assembleare consiliare dice la sua il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 17.06.2019 n. 4047, fornendo rilevanti precisazioni sulle cause giustificative della mancata partecipazione alle adunanze e circa la disciplina procedimentale applicabile.
Interesse successivo
Oltre a demandare allo statuto dell'ente la previsione dei casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, l'articolo 43, comma 4, del Tuel impone di garantire il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative dell'assenza all'adunanza consiliare.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, queste ultime possono esser invocate anche dopo l'esito dell'eventuale procedimento di decadenza per reiterata e continuata assenza, come accade -nel caso specifico- per l'ipotesi di tardività della convocazione alle sedute non presenziate (violazione in realtà idonea a sottrarre queste sedute dal computo della continuità).
Infatti non sussiste un interesse a impugnare le delibere dell'adunanza disertata (che non costituiscono atti presupposti della delibera di decadenza) né un onere di immediata giustificazione (cioè la contestazione della tardiva convocazione), sorgendo invece l'interesse solo successivamente in via strumentale quando la mancata partecipazione è assunta a concorrente presupposto della dichiarata decadenza.
Primato dello statuto
I magistrati d'appello risolvono anche il conflitto fra disposizioni contraddittorie emanate in sede locale (statuto e regolamento del consiglio), stabilendo una gerarchia tra le fonti normative secondarie.
È chiarito che le previsioni statutarie disciplinanti i casi di decadenza per assenza ingiustificata prevalgono sulle difformi (e più restrittive) previsioni regolamentari, perché, da una parte, è allo statuto che la fonte primaria rimette la formulazione delle fattispecie decadenziali e, dall'altra, poiché in generale i regolamenti comunali disciplinano i settori dell'attività amministrativa sulla base proprio delle linee essenziali indicate dall'atto statutario.
Nel caso specifico, la prevalenza dello statuto, che valorizza la partecipazione alle sedute straordinarie come elemento interruttivo della continuità delle assenze, è affermata anche per un motivo sostanziale: in ossequio al principio di ragionevolezza nell'adozione di misure decadenziali limitative della funzione rappresentativa, va attribuito rilievo alle assenze solo quando mostrano un chiaro atteggiamento insistito di disinteresse per intendimenti futili o inadeguati rispetto agli impegni assunti con l'incarico pubblico elettivo, non ravvisabile nell'espressione di fattiva adesione alle attività consiliari mostrata comunque con la partecipazione alle sedute straordinarie.
Astensione dal voto
Il Consiglio di Stato, inoltre, si occupa di delimitare l'ambito soggettivo di applicazione della norma (articolo 78, comma 2, del Tuel) recante il dovere di astensione in capo agli amministratori dal prendere parte alla discussione e votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.
Al riguardo statuisce che, avendo il procedimento decadenziale natura sanzionatoria, sussiste un conflitto d'interessi (con obbligo di astensione) in ipotesi di accertata grave inimicizia (nel caso di specie: per l'esistenza di situazione di conflitto determinata da ragioni personali a causa di iniziative giudiziarie), tra il consigliere votante e quello suscettibile di decadenza, tale da compromettere la serenità e neutralità di giudizio e vulnerare la presunzione di imparzialità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019).
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SENTENZA
5.1. Le appellanti contestano la sentenza dove ha respinto i cinque motivi di ricorso, e sostanzialmente ripropongono le doglianze di primo grado e censurano la dichiarazione di irricevibilità del terzo motivo del ricorso (tardività della censura di irritualità e di mancato rispetto dei termini nella consegna degli avvisi di convocazione), eccepita dal Comune.
5.2. L’appello è fondato.
5.3. Giova in primo luogo evidenziare come, per costante giurisprudenza bene richiamata dal primo giudice “
le assenze per mancato intervento dei consiglieri dalle sedute del consiglio comunale non devono essere giustificate preventivamente di volta in volta. Ciò in quanto possono essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all'interessato della proposta di decadenza, ferma restando l'ampia facoltà di apprezzamento del Consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze” (Cons. Stato, V 20.02.2017, n. 743); è stato pure chiarito che “le assenze danno luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni assunti con l’incarico pubblico elettivo…” ed inoltre “che la mancanza o l’inconferenza della giustificazione devono essere obiettivamente gravi per assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi” (cfr. Cons. Stato, V, 09.10.2007, n. 5277).
5.4. Nondimeno, la sentenza, pur muovendo da tali logiche e corrette premesse, non perviene ad esiti condivisibili.
5.5. Invero, alla luce dei citati indirizzi, il Collegio rileva come meriti anzitutto accoglimento, con rilievo assorbente, il secondo motivo di appello che contesta la violazione degli artt. 7, 29 e 35, comma 1, lett. a), Cod. proc. amm., la violazione dell’art. 43, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000, dell’art. 10, comma 3, dello Statuto del Comune, e dell’articolo 39, comma 1, del Regolamento del Consiglio comunale.
5.5.1. I ricorrenti di prime cure, premesso che la decadenza era stata dichiarata per accertata assenza a più sedute consecutive di consiglio comunale, avevano dedotto che, per due di tali sedute (quelle del 31.05.2017 e del 05.08.2017), l’avviso di convocazione era stato comunicato in ritardo, ovvero in violazione del termine di cinque giorni (sì che l’assenza non avrebbe potuto essere imputata ai fini della continuità).
5.5.2. La sentenza ha ritenuta inammissibile la doglianza perché la tardività della convocazione andava fatta tempestivamente valere, impugnando la delibera approvata nella relativa seduta alla quale i consiglieri non avrebbero potuto partecipare in conseguenza del ritardo nella comunicazione degli avvisi: e, comunque, la ha stimata infondata (non trattandosi di termini liberi).
5.5.3. Sotto entrambi i profili, gli assunti sono errati.
5.5.4. Deve, in primo luogo, rilevarsi come gli odierni appellanti non avevano un interesse ad impugnare gli esiti deliberativi della seduta per la quale era contestata l’assenza (id est: a contestare la validità delle varie deliberazioni assunte in quelle adunanze) né sussisteva l’onere di immediata contestazione della tardività della loro convocazione: interesse che, invece, è sorto solo, in via strumentale, quando la mancata partecipazione anche alla sedute in esame è stata assunta a concorrente presupposto della dichiarata decadenza.
5.5.6. Invero non vi è correlazione tra la validità delle deliberazioni assunte dal Consiglio comunale nell’assenza dei consiglieri appellanti e la questione della posizione istituzionale dei medesimi in seno al Consiglio comunale, ai fini del mantenimento della carica pubblica, in relazione alla natura delle assenze contestate e alle giustificazioni addotte, costituente invece il thema decidendum del presente giudizio.
5.5.7. La delibera adottata in absentia dei consiglieri all’esito delle sedute per le quali si contesta la tardività delle convocazioni non è, infatti, atto presupposto della delibera di decadenza, oggetto di impugnazione. Infatti la disposta decadenza, per l’addebito dell’assenza e per il suo carattere ingiustificato, non si fonda sui contenuti della deliberazione assunta nell’adunanza per la quale si sostiene l’invalidità della convocazione.
5.5.8. Sotto altro concorrente profilo, è il caso di evidenziare che il consigliere non sarebbe stato tenuto all’immediata giustificazione dell’assenza la quale ha assunto rilievo, ai fini della decadenza, solo in ragione della natura continuativa e reiterata: di talché i consiglieri ben potevano far valere eventuali cause di giustificazione in via postuma, all’esito dell’eventuale dichiarazione di decadenza e nel corso di quel procedimento (come difatti avvenuto nella fattispecie, in sede di osservazioni, con la memoria del 04.11.2017).
5.6. In secondo luogo, non sono condivisibili le statuizioni della sentenza che hanno considerato infondata la doglianza in esame sull’assunto per cui il computo dei giorni ai fini del termine di convocazione “in mancanza di espressa deroga …andrebbe effettuato ai sensi degli artt. 1187 e 2963 c.c. in modo da non contare il dies a quo e contare, invece, il dies ad quem, con conseguente tempestività delle convocazioni”.
5.6.1. Al riguardo, soccorrono le piane previsioni dell’articolo 39, comma 1, del Regolamento del consiglio comunale adottato con deliberazione consiliare n. 2 del 19.02.2000 (di seguito “il Regolamento”), a mente del quale «
l’avviso di convocazione per le adunanze deve essere consegnato ai consiglieri almeno cinque giorni prima della riunione».
5.6.2. Tale previsione non può che essere intesa nel senso che
il termine di cinque giorni, stabilito per la consegna ai consiglieri dell’avviso di convocazione alle adunanze, è termine costituito da giorni liberi e interi, che devono interamente decorrere prima dello svolgimento dell’attività cui sono preordinati e tale da non comprendere né il giorno iniziale della convocazione né quello finale dell’adunanza, in conformità alla giurisprudenza che ha chiarito che ciò garantisce lo svolgimento con pienezza di funzioni del ruolo elettivo da parte del consigliere, garantendo effettiva e consapevole partecipazione ad ogni attività del Consiglio (cfr. pareri Cons. Stato, I, 15.01.2014, n. 461/2014; Cons. Stato, I, 22.01.2010, n. 2261/2009).
5.6.3. Pertanto, acclarata l’effettiva tardività della convocazione per le due sedute, l’assenza alle medesime dei consiglieri (che peraltro, come da memoria defensionale depositata nel procedimento amministrativo, avevano fatto affidamento sul consolidato orientamento quanto al computo dei termini) non poteva essere censurata né sanzionata, né assurgere a concorrente presupposto ai fini della decadenza, non integrando in tal caso l’assenza, determinata dalla violazione dei termini di preavviso comportante lesione delle prerogative dei consiglieri, manifestazione di noncuranza rispetto agli impegni derivanti dall’incarico pubblico elettivo.
5.7. Rilevato dunque che le assenze alle due sedute del 31.05.2017 e del 05.08.2017 era giustificata e venuto meno, con effetto assorbente, il presupposto costituito dall’assenza a tre sedute consiliari consecutive ai fini della decadenza, deve poi evidenziarsi come sia fondato e meriti accoglimento anche il terzo motivo di appello che censura la sentenza dove ha dichiarato inammissibili per difetto di interesse e non ha esaminato nel merito il secondo motivo del ricorso di prime cure (proprio in ragione dell’irricevibilità del terzo motivo e del rigetto del terzo e in parte qua del quinto motivo).
5.7.1. Assume infatti rilievo, ai fini dell’interruzione della continuità delle assenze, anche la presenza di due dei quattro consiglieri odierni appellanti alla seduta straordinaria del 17.10.2016.
5.7.2. A tale conclusione si perviene sulla base dello Statuto del Comune al quale le fonti primarie (art. 43, comma 4, del D.lgs. n. 267 del 2000: «Lo statuto stabilisce i casi di decadenza e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative») rimettono di stabilire i casi di decadenza dei consiglieri per assenza ingiustificata: l’art. 13, comma 3, dello Statuto prevede, infatti, che «I consiglieri comunali che non intervengono alle sessioni per tre volte consecutive senza giustificato motivo sono dichiarati decaduti con deliberazione del consiglio comunale», senza operare distinzioni tra sessioni ordinarie e sessioni straordinarie.
5.7.3. Dette previsioni statutarie prevalgono sulle difformi e più restrittive previsioni regolamentari che attribuiscono rilievo al solo mancato intervento dei consiglieri alle sedute ordinarie: ciò non solo perché, in generale, i regolamenti comunali disciplinano i settori dell’attività amministrativa sulla base delle linee essenziali indicate dallo Statuto (le cui previsioni devono prevalere in caso di contrasto), ma, soprattutto, per ragioni sostanziali.
Le circostanze che possono dar luogo alla decadenza dal ruolo elettivo devono, infatti, essere lette con rigore in ragione del carattere restrittivo della funzione rappresentativa che è proprio della severa misura: a tal fine va dato rilievo alle assenze solo quando mostrano con ragionevole deduzione un atteggiamento insistito di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni assunti con l’incarico pubblico elettivo (vale rammentare che l’art. 51, terzo comma, Cost. afferma: «chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro»).
5.7.4. In conclusione, non è ragionevole escludere la rilevanza, ai fini del computo delle assenze per dichiarare la decadenza dalla carica, delle sedute straordinarie, costituendo l’intervento alle medesime espressione di fattiva partecipazione e adesione alle attività del Consiglio comunale.
5.8. Sono, infine, fondate anche le censure di cui al primo e al quinto motivo di impugnazione con cui le appellanti sono tornate a dolersi della violazione del dovere di astensione di cui all’art. 78, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 (ove si dispone che “gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione e votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini fino al quarto grado” ) -per avere preso parte alla discussione e votazione della decadenza sia il Sindaco (versante in situazione di conflitto con il consigliere Fi.) sia il Presidente del Consiglio Comunale (legato da rapporto di parentela con il consigliere Pe.)- e del difetto di istruttoria e di motivazione quanto alle giustificazioni addotte dai consiglieri alle assenze contestate.
5.8.1. In relazione alla prima censura, è da osservare che,
avendo il procedimento natura sanzionatoria, sussiste l’obbligo di astensione in caso di grave inimicizia tale da vulnerare la presunzione di imparzialità e che tale situazione ricorreva in concreto nel caso di specie per l’esistenza (allegata e provata dalla signora Fi.) di un’obiettiva situazione di conflitto e di contrasto, determinata da ragioni personali, con il Sindaco del Comune (a causa delle iniziative giudiziarie intraprese dalla stessa Fi., costituitasi parte civile nel processo penale pendente dinanzi al Tribunale di Rieti a carico del Sindaco): non può dunque ritenersi che quest’ultimo si trovasse in una posizione di serenità e neutralità personale rispetto ad una decisione discrezionale, quale sicuramente è quella della identificazione e valutazione dei presupposti per dichiarare la decadenza dei consiglieri; né peraltro può assumere rilevanza per escludere l’esistenza di una situazione di conflitto la titolarità dell’interesse, proprio o del Comune, in forza del quale è stata esercitata l’azione civile in quel giudizio penale.
5.8.2.
Avrebbe dovuto poi ugualmente astenersi il Presidente del Consiglio Comunale dalla discussione e votazione della decadenza del fratello, per l’ovvia considerazione per cui, a prescindere dagli esiti di tale partecipazione rispetto al consigliere, la violazione dell’obbligo di astensione in presenza di un siffatto legame di parentela risultava presuntivamente idonea a minare l’esercizio imparziale della funzione amministrativa.
5.9. Con riferimento poi alle doglianze di carenza di istruttoria e di motivazione, non sono condivisibili le statuizioni della sentenza che, da un lato, affermano che i ricorrenti si sarebbero limitati nel caso in questione ad allegare considerazioni estremamente sommarie e generiche (“ragioni di lavoro”, “motivi di lavoro”, “ferie”), ovvero indimostrate o indimostrabili (quale il dissenso politico), in assenza di supporti probatori; dall’altro rilevano che la delibera impugnata conterrebbe un adeguato contemperamento tra il carattere del voto -segreto- e l’esigenza di dare conto della situazione prodottasi in relazione a ciascun consigliere, delle osservazioni formulate, della normativa vigente e della sua interpretazione.
5.9.1. Deve, per converso, rilevarsi come i consiglieri appellanti abbiano giustificato, di volta in volta nell’imminenza delle sedute, prima, e nel corso del procedimento di decadenza, poi, le proprie assenze, adducendo ragioni idonee e specifiche rispetto alla mancata partecipazione: quali motivi di salute e malattia (comprovati anche mediante la presentazione di relativa certificazione medica per i relativi periodi: cfr. giustificazioni fornite dai consiglieri Pe. e Am.), ragioni di lavoro, di servizio o esigenze di fruire di periodi di ferie o, infine, circostanze obiettive correlate all’impossibilità di partecipare alle sedute con cognizione di causa (per la mancata disponibilità della documentazione necessaria in relazione agli argomenti posti all’ordine del giorno, anche in violazione del diritto di accesso e in assenza di riscontro alle motivate richieste formulate dai consiglieri, come avvenuto per la seduta del 21.04.2017).
5.9.2. In presenza di tali specifiche giustificazioni, né apodittiche né tautologiche ma agevolmente verificabili nella fondatezza, serietà e rilevanza, si imponeva al Comune una altrettanto specifica e puntuale motivazione sulle cause addotte (al fine di esternare le ragioni che palesavano un effettivo e concreto disinteresse rispetto agli impegni assunti sì da escludere un utilizzo improprio e distorto dello strumento sanzionatorio). Ma nel caso di specie è invece del tutto mancata nella delibera impugnata: che non può, pertanto, essere integrata in via postuma e nel corso del giudizio.
Ed invero, a parte il generico rinvio alle giustificazioni fornite dai consiglieri, non è rinvenibile nella delibera alcuna esternazione, seppure sintetica, delle motivazioni di inidoneità delle giustificazioni medesime che consenta di verificare se l’Amministrazione ne abbia in concreto tenuto conto sì da rendere chiaramente evidenti dal contesto o, comunque, intuibili le ragioni per cui esse dovessero essere disattese e andasse invece disposta la decadenza.
5.9.3.
È pacifica, dunque, la violazione dell’art. 13, comma 3, dello Statuto del Comune a mente del quale il Consiglio delibera sulla decadenza «tenuto adeguatamente conto delle cause giustificative presentate da parte del consigliere comunale».
6. Per le ragioni esposte, l’appello va accolto. Consegue, in riforma dell’impugnata sentenza, l’annullamento della deliberazione del Consiglio Comunale impugnata dalle ricorrenti in primo grado.

EDILIZIA PRIVATALa ratio dell'art. 8 DM 1444/1968, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e circostanti”, è quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”) caratteristiche di omogeneità.
Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.

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8. L’unica censura spiegata, afferente alla corretta individuazione del parametro di riferimento per le altezze degli edifici è, peraltro, infondata sotto un diverso ed ulteriore profilo.
Il richiamato articolo 8 del DM 1444/1968 prevede per la zona B un'altezza massima non superiore “all'altezza degli edifici preesistenti e circostanti”.
Il ricorrente sostiene che il Comune avrebbe erroneamente preso a riferimento l’altezza degli edifici in aderenza mentre nella più ampia area di prossimità sarebbero presenti fabbricati la cui altezza è superiore a quella del progetto respinto dagli uffici comunali.
Il rilievo non può essere condiviso.
La giurisprudenza ha, invero, affermato al riguardo che “la ratio della norma richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”) caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (cfr. da ultimo per un analogo iter argomentativo Cons. Stato n. 4553/2014, n. 3184/2013)” (TAR Napoli, sez. VII, sentenza n. 4102 del 26.08.2016) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 17.06.2019 n. 387 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Contratto di avvalimento.
Il Consiglio di Stato riassume i principi in materia di contratto di avvalimento così come codificati dalla giurisprudenza prevalente e precisa:
   - nel caso di avvalimento c.d. “tecnico od operativo”, ovvero avente a oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria, sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto (art. 88 del regolamento di esecuzione del previgente codice dei contratti pubblici, riferimento normativo ora da individuarsi nell’ultimo inciso dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, aggiunto dal d.lgs. n. 56 del 2017);
   - in parte diversa è invece la figura dell’avvalimento c.d. “di garanzia”, nel quale l’impresa ausiliaria si limita a mettere a disposizione il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore e nel quale non è conseguentemente necessario, in linea di massima, che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o a indici materiali atti a esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare e a mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità;
   - resta, comunque, fermo in ogni caso che, anche al di là della tipologia di requisito prestato (capacità economico-finanziaria o capacità tecnico-professionale), va esclusa la validità del contratto di avvalimento che applichi formule contrattuali del tutto generiche, ovvero meramente riproduttive del dato normativo o contenenti parafrasi della clausola della lex specialis descrittiva del requisito oggetto dell’avvalimento stesso;
   - l’indagine sull’efficacia del contratto allegato al fine di attestare il possesso dei relativi titoli partecipativi deve essere svolta in concreto, seguendo i criteri ermeneutici del testo contrattuale dettati dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 23 del 2016, la quale ha richiamato le regole generali dell’ermeneutica contrattuale e, segnatamente, i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 Cod. civ.)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.06.2019 n. 4024 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
9.4. Questa Sezione del Consiglio di Stato ha recentemente rilevato (V, 05.04.2019, n. 2243) che, secondo la giurisprudenza prevalente, nel caso di avvalimento c.d. “tecnico od operativo”, ovvero avente a oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria, sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto (art. 88 del regolamento di esecuzione del previgente codice dei contratti pubblici, riferimento normativo ora da individuarsi nell’ultimo inciso dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, aggiunto dal d.lgs. n. 56 del 2017).
In parte diversa è invece la figura dell’avvalimento c.d. “di garanzia”, nel quale l’impresa ausiliaria si limita a mettere a disposizione il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore e nel quale non è conseguentemente necessario, in linea di massima, che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o a indici materiali atti a esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare e a mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità (Cons. Stato, V, 30.10.2017, n. 4973; III, 11.07.2017, n. 3422; V, 15.03.2016, n. 1032).
Resta, comunque, fermo in ogni caso (da ultimo, Cons. Stato, V, n. 6651/2018 cit.) che, anche al di là della tipologia di requisito prestato (capacità economico-finanziaria o capacità tecnico-professionale), va sicuramente esclusa la validità del contratto di avvalimento che applichi formule contrattuali del tutto generiche, ovvero meramente riproduttive del dato normativo o contenenti parafrasi della clausola della lex specialis descrittiva del requisito oggetto dell’avvalimento stesso.
Si è anche osservato (C. Stato, V, n. 2243 del 2019, cit.) come l’indagine sull’efficacia del contratto allegato al fine di attestare il possesso dei relativi titoli partecipativi debba essere svolta in concreto, seguendo i criteri ermeneutici del testo contrattuale dettati dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 23 del 2016, la quale ha richiamato le regole generali dell’ermeneutica contrattuale e, segnatamente, i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367 Cod. civ.).

APPALTI: Screenshot per verificare obbligo di firma digitale.
In una gara d'appalto l'apposizione della firma digitale sui documenti può essere attestata anche con screenshot e può essere riferita anche a un momento successivo a quello in cui il seggio di gara ha controllato la documentazione.

Lo ha precisato il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 13.06.2019 n. 7673.
Il disciplinare di gara non imponeva l'obbligo di presentare files contenenti la documentazione di gara entro determinati limiti dimensionali, ma stabiliva che essi dovessero necessariamente essere di formato «Cades» o «Pades». Inoltre, non era consentito firmare digitalmente una cartella compressa contenente uno o più documenti privi di firma digitale (cfr. il punto B del disciplinare). Uno dei concorrenti aveva prodotto i files allegati all'offerta tecnica inserendoli in una cartella compressa; i files erano tutti muniti di firma digitale, in modalità «Cades».
Il seggio di gara aveva verbalizzato l'avvenuto controllo di quelle firme che la piattaforma non era in grado di controllare automaticamente, a causa dell'eccessiva dimensione del file, e il positivo esito dei controlli è stato riportato nel verbale del 21.02.2018, ove si afferma che «tutti i concorrenti hanno regolarmente inserito all'interno del plico digitale tutti i documenti richiesti dalla lex specialis».
A fronte dell'assenza di indicazioni specifiche della lex specialis circa le modalità di verifica dei files di grandi dimensioni il Tar ha ritenuto dimostrata la presenza di una firma digitale valida a tutta la documentazione di gara della ricorrente principale. Rimaneva da risolvere il punto della mancata allegazione dei report riguardanti il positivo esito delle verifiche effettuate dal seggio di gara sulla cartella. A tale proposito il Tar riconosce che la stazione appaltante ha potuto dimostrare, attraverso il deposito di taluni screenshots, che gli allegati in questione risultano regolarmente sottoscritti.
Inoltre, dice il Tar, non è rilevante che il positivo riscontro della verifica della firma attestato dagli screenshots si riferisca a un momento successivo a quello in cui il seggio di gara ha controllato la documentazione perché i file una volta caricati sul portale di gara, non potevano essere successivamente modificati (articolo ItaliaOggi del 21.06.2019).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOConcessione scaduta, addio lido. Reato usare la spiaggia. Scatta il sequestro penale. La Cassazione sulla direttiva Bolkestein: l'Ue impone di disapplicare la proroga.
Nuvole nere sull'estate italiana. Rischiano il sequestro penale gli stabilimenti balneari che hanno le concessioni scadute. E ciò grazie alla direttiva Bolkestein dell'Unione europea e alla sentenza della Corte di giustizia Ue, secondo cui il privato deve vincere una gara pubblica per poter sfruttare economicamente un bene demaniale come la spiaggia: va dunque disapplicata la norma del dl enti locali 2016 che finisce per stabilizzare gli effetti della proroga automatica delle concessioni al 2020 bocciata dai giudici eurounitari. Esclusa l'applicazione analogica della normativa comunitaria a danno dell'indagato.
È quanto emerge dalla sentenza 12.06.2019 n. 25993 della III Sez. penale della Corte di Cassazione: c'è un unico precedente che risale a un anno fa, sul sequestro di un circolo di vela in Sicilia, la sentenza n. 21281/2018, pure pubblicata dalla terza sezione penale. A rischio sono anche gli approdi e i porti turistici e le strutture sui laghi.
I fatti. Accolto il ricorso proposto dal procuratore della repubblica di Genova contro il no del Tribunale al sequestro preventivo impeditivo: a essere interessata è l'area demaniale nella disponibilità dell'imprenditore indagato per l'occupazione abusiva di cui all'articolo 1161 del codice della navigazione.
Si tratta del titolare di un lido, ma il principio vale per ogni altra struttura turistico-ricreativa sul demanio marittimo: la concessione per sfruttare l'area risale al 1998 e risulta scaduta il 31.12.2009 senza che il titolo sia stato oggetto di legittime proroghe tacite, che sono escluse dalla normativa vigente. E tanto basta a integrare il reato di abusiva occupazione dello spazio demaniale marittimo, senza che rilevi il fatto che prima la spiaggia era in concessione e l'istanza di rinnovo risulta presentata in modo tempestivo: il diritto ha natura costitutiva, mentre il provvedimento di concessione non solo carattere di autorizzazione.
È il decreto legge 194/2009 a prorogare al 21.12.2020 le concessioni sulle spiagge in essere al 30.09.2009, data di entrata in vigore del dl, e in scadenza entro il 31.12.2015. Ma la sentenza C-458/14 della Corte di giustizia ha dichiarato euroincompatibile la normativa interna: il rinnovo automatico delle concessioni contrasta con i principi di libera concorrenza e libertà di stabilimento nell'Unione europea, mentre per rilasciare l'autorizzazione a sfruttare il demanio marittimo bisogna bandire procedure pubbliche alle quali possano partecipare tutti gli operatori interessati.
Congelare la situazione esistente penalizza le imprese di altri Paesi Ue interessate al business del mare italiano. Il dl enti locali 113/2016 non adempie la sentenza della Corte europea e quindi va disapplicato perché in contrasto con il trattato di funzionamento Ue. L'applicazione analogica a danno dell'indagato è esclusa in quanto non si può ipotizzare una violazione del principio di legalità e tassatività: la fattispecie criminosa risulta prevista in precedenza e la norma penale incriminatrice completa in tutti gli aspetti essenziali.
I precedenti. Già nel 2011 la Corte costituzionale ha chiarito, con la sentenza 213/2011, che la proroga contenuta all'articolo 1, comma 18, del decreto legge ha carattere transitorio in attesa di una riforma della materia. Il giudice delle leggi si è pronunciato sulla legittimità di alcune disposizioni delle autonomie territoriali: l'intesa va raggiunta in sede di Conferenza stato-regioni. E fra i principi da rispettare ci sono anche la valorizzazione delle attività imprenditoriali e la tutela degli investimenti, oltre che quelli della concorrenza.
Secondo la Consulta, dunque, il legislatore vuole solo consentire ai titolari degli stabilimenti balneari di completare l'ammortamento degli investimenti fino al riordino della materia. Insomma: le disposizioni del decreto legge 194/2009 si riferiscono esclusivamente alle concessioni nuove, ovvero a quelle sorte dopo la legge 88/2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al decreto legge 400/1993, come modificato dalla legge 88/2001, introdotta nel 1993 e abrogata nel 2001. Un'interpretazione diversa sarebbe in contrasto con i principi europei.
D'altronde la proroga legale al 31.12.2020 non opera automaticamente: presuppone invece una richiesta dell'interessato per consentire all'autorità di verificare i requisiti per il rinnovo. E la «moratoria» risulta applicabile soltanto ad alcune tipologie di attività: l'amministrazione deve controllare l'esistenza di una concessione valida e ancora in essere. Servono quindi un titolo valido a monte e la permanenza dei requisiti.
Sono stati poi il Tar Lombardia e il Tar Sardegna a sollevare la questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia europea, che ha bocciato la proroga automatica di concessioni demaniali marittime perché determinava una disparità di trattamento fra operatori del settore. Sullo stop pesa la circostanza secondo cui le autorizzazioni per lo sfruttamento economico delle aree demaniali sono state attribuite quando già era stato stabilito che tale tipo di contratto doveva essere soggetto a un obbligo di trasparenza. Ma i giudici hanno fornito una serie di aperture che finora non sono state raccolte.
La concessione della spiaggia assegnata senza trasparenza viola la concorrenza soltanto se sull'attività c'è un «interesse transfrontaliero certo», quindi ci sono imprese di altri Paesi europei pronti a investire. E per stabilirlo, si legge nella sentenza C-568/14, bisogna fare riferimento ai tutti i criteri rilevanti: l'importanza economica e la natura dell'appalto; le caratteristiche tecniche; il luogo dell'esecuzione. La Corte di Lussemburgo lascia uno spiraglio aperto: la disparità fra operatori può essere giustificata «da motivi imperativi di interesse generale».
Per esempio la necessità di rispettare il principio della certezza del diritto e, dunque, il legittimo affidamento del concessionario uscente. Spetta al giudice nazionale verificare se le concessioni della Bolkestein devono essere oggetto di un numero limitato di autorizzazioni perché le risorse naturali sono per definizione scarse. E quindi l'accertamento va compiuto caso per caso, sulla base di criteri oggettivi, che fanno riferimento al territorio.
Nulla di tutto questo c'è nel decreto enti locali, addirittura definito «irrilevante» rispetto alle norme bocciate dalla Corte di giustizia europea. È il Consiglio di stato con la sentenza 873/2018 che ha imposto di disapplicare la normativa interna sulle proroghe automatiche perché serve una valutazione in concreto, rapportata alla fattispecie specifica che di volta in volta viene in rilievo, rispetto alle esigenze che possono derogare al principio di evidenza pubblica, cioè alla necessità di bandire le gare per aggiudicarsi le spiagge, funzionale all'apertura del mercato. E la giurisprudenza amministrativa si allinea. La parola, intanto, passa al giudice del rinvio (articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2019).

EDILIZIA PRIVATAL’inciso “nonché quelli volti al ripristino di edifici…purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, è stato introdotto dal D.L. 69/2013, convertito con modificazioni nella L. n. 98/2013, con l’obiettivo di semplificare gli oneri a carico del privato interessato ad intraprendere un’iniziativa edilizia.
In questo senso, il legislatore ha ampliato la casistica degli interventi rientranti nella nozione di “
ristrutturazione edilizia”, a svantaggio di quelli annoverabili, fino a quel momento, in quella di “nuova costruzione", per i quali è sempre necessario acquisire il permesso a costruire.
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Si rammenta che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza, prima della novella legislativa dell'art. 3 d.p.r. 380/2001, la ristrutturazione dei ruderi era considerata intervento di nuova costruzione
Invero, per una fattispecie interessante un intervento su un fabbricato rurale a fini abitativi e precedente alla modifica legislativa, è stato statuito che “La ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia e neppure in quello del risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente".
In virtù della novella legislativa, pertanto, il recupero dei ruderi -sempre che “sia possibile accertarne la preesistente consistenza”- va inquadrato ormai nell’ambito della ristrutturazione edilizia ed è quindi sottratto alla categoria della nuova costruzione, ma di certo non può rientrare in quello del restauro e risanamento conservativo.
Questo anche qualora l'organismo edilizio versi in uno stato precario di conservazione comunque tale da consentire la sua fedele ricostruzione.
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Nel caso di specie il rudere interessato dall’intervento ha una consistenza consolidata nei muri perimetrali e nella quota del solaio di calpestio, tuttavia non ha più il solaio di copertura, che presenta il solo “alloggio putrelle”.
Giova rammentare che, secondo una recente indicazione della Corte di Cassazione, la semplice "
ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, nel comportare modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali: i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.
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2.2.2.- Per il secondo aspetto, relativo allo scopo della norma, l’inciso in esame, “nonché quelli volti al ripristino di edifici…purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”, è stato introdotto dal D.L. 69/2013, convertito con modificazioni nella L. n. 98/2013, con l’obiettivo di semplificare gli oneri a carico del privato interessato ad intraprendere un’iniziativa edilizia.
In questo senso, il legislatore ha ampliato la casistica degli interventi rientranti nella nozione di “ristrutturazione edilizia”, a svantaggio di quelli annoverabili, fino a quel momento, in quella di “nuova costruzione", per i quali è sempre necessario acquisire il permesso a costruire.
Si rammenta che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza, prima della novella legislativa dell'art. 3 d.p.r. 380/2001, la ristrutturazione dei ruderi era considerata intervento di nuova costruzione (si confronti in questo senso, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.09.2017, n. 1167, secondo cui, per una fattispecie interessante un intervento su un fabbricato rurale a fini abitativi e precedente alla modifica legislativa: “La ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell’alveo della ristrutturazione edilizia e neppure in quello del risanamento conservativo, integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente").
In virtù della novella legislativa, pertanto, il recupero dei ruderi -sempre che “sia possibile accertarne la preesistente consistenza”- va inquadrato ormai nell’ambito della ristrutturazione edilizia ed è quindi sottratto alla categoria della nuova costruzione, ma di certo non può rientrare in quello del restauro e risanamento conservativo (TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 16.05.2017, n. 692; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 28.07.2015, n. 1764).
Questo anche qualora l'organismo edilizio versi in uno stato precario di conservazione comunque tale da consentire la sua fedele ricostruzione (Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 18.03.2013, n. 258).
3.- Nel caso di specie –secondo quanto riportato dalla stessa ricorrente nella memoria di controdeduzioni ai motivi ostativi al rilascio del nulla-osta– il rudere interessato dall’intervento ha una consistenza consolidata nei muri perimetrali e nella quota del solaio di calpestio, tuttavia non ha più il solaio di copertura, che presenta il solo “alloggio putrelle”.
Giova rammentare che, secondo una recente indicazione della Corte di Cassazione, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, nel comportare modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali: i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura (Cass. civ., sez. II, 10.01.2019, n. 473).
Ne consegue che, se la Suprema Corte ha valutato intervento di ristrutturazione quello che interessa un edificio da rinnovare, il quale comunque presenti ancora l’originaria copertura, a maggiore ragione non può che rientrare nella stessa categoria il rifacimento dell’edificio che richiede la ricostruzione ex novo della copertura, ormai non più esistente (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.06.2019 n. 3162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Usufruttario non committente - Responsabililità e limiti - Elementi sintomatici della compartecipazione anche solo morale - Necessità - Artt. 29, 44, D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario -ma lo stesso vale per l'usufruttuario- non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a.; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a.).
Pena la sostanziale applicazione del ripudiato principio della responsabilità formale per il mero possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la prova della responsabilità in tali casi non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto quali quelli più sopra indicati (Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanato).

...
Immobile abusivamente realizzato - Comproprietario dell'immobile o mera qualifica d'usufruttuario - Individuazione dell'eventuale corresponsabilità dell'usufruttuario - Responsabilità del committente, direttore dei lavori, appaltatore - Soggetti indicati nell'art. 29 T.U.E. - Altrui condotta illecita - Inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia.
In tema di reati edilizi, la mera qualifica d'usufruttuario dell'immobile abusivamente realizzato è insufficiente ai fini dell'affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all'art. 44 T.U.E. in quanto è necessario un "quid pluris" che consenta l'attribuzione al medesimo della qualifica di committente ovvero di compartecipe con quest'ultimo nella commissione del reato. Ai predetti fini, i criteri che presiedono all'individuazione della corresponsabilità dell'usufruttuario non differiscono con riguardo al comproprietario che non sia committente. Sicché, l'inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi dell'art. 29 d.P.R. T.U.E. non ha rilievo penale.
La vera natura di tale disposizione, di fatti, non è quella di individuare i soggetti attivi di un presunto reato proprio che, salvo specifiche ipotesi, tale invece non è
(Cass. Sez. 3, n. 45146 del 08/10/2015, Fiacchino e a.), bensì quella di estendere la responsabilità penale delle figure indicate nel caso di omesso, costante, controllo, anche sulla condotta altrui, circa la conformità delle opere in corso d'esecuzione ai parametri di legalità sostanziale contenuti nel titolo, negli strumenti urbanistici, nelle disposizioni di legge.
Tale forma di responsabilità non può dunque essere ascritta a soggetti diversi da quelli indicati nell'art. 29 T.U.E., e non può riguardare il (com)proprietario dell'immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi, ovvero l'usufruttuario, che - non rivestendo alcuna delle altre qualità indicate nella disposizione - resti del tutto inerte rispetto all'altrui condotta illecita.
Tuttavia, in conclusione, non si può escludere la possibile responsabilità penale del proprietario o dell'usufruttuario che -pur non essendo committente, costruttore o titolare del permesso di costruire (né, ovviamente, direttore dei lavori)- ponga in essere qualche contributo, materiale o anche soltanto morale, all'attività di illecita trasformazione del territorio posta in essere direttamente da terzi.

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Reati urbanistici - Conformità dell'opera al permesso di costruire - Responsabilità del titolare della permesso edilizio del committente del costruttore e del direttore dei lavori - Obbligo giuridico di impedire o di denunciare l'attività illecita di costruzione abusiva - Esclusione della responsabilità del proprietario inerte.
Il proprietario di un'area su cui viene realizzata una costruzione abusiva (e lo stesso può dirsi per l'usufruttuario), il quale sia rimasto estraneo alla relativa attività edificatoria anche in veste di semplice committente dei lavori, non ha -perché non impostogli da alcuna norma di legge- l'obbligo giuridico di impedire o di denunciare l'attività illecita di costruzione abusiva da altri su detta area posta in essere.
Anzi, la previsione oggi contenuta nell'art. 29 del D.P.R. n. 380/2001, che la legge, «pur indicando alcuni soggetti (il titolare della concessione edilizia, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori) che sono tenuti a garantire la conformità dell'opera alla concessione edilizia e pertanto sono da ritenere responsabili dell'eventuale costruzione in assenza di concessione, tra essi non include il proprietario del terreno.
Pertanto, non v'è alcuna norma di legge che impone a carico del proprietario dell'area l'obbligo di impedire la costruzione abusiva, è da escludere che un tale soggetto possa rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto inerte dinanzi all'illecito commesso da altri
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2019 n. 25546 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer gli incarichi dirigenziali a tempo obbligatoria l'esperienza concreta.
Con la sentenza 07.06.2019 n. 15514, la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha chiarito che, in materia di incarichi dirigenziali a tempo determinato, le attitudini e le capacità professionali del candidato, opportunamente documentati, devono coesistere con la concreta esperienza di lavoro di tipo dirigenziale o ad essa equiparabile, in ragione della lettera dell’art. 19, comma 6, del Dlgs 165/2001 e della ratio legis.
Il fatto
Il caso giunto all’esame della Suprema Corte riguarda una procedura di selezione pubblica per l’assunzione di un dirigente a tempo determinato, da assegnare al servizio verde e tutela ambientale, indetta dal Comune di Rovereto (Tn). Una partecipante alla procedura selettiva, a seguito della pronuncia di difetto di giurisdizione del Trga, aveva adito il Tribunale di Rovereto, contestando di aver appreso che il comune di Rovereto aveva assegnato l’incarico, a suo parere illegittimamente, ad un altro partecipante, senza che l’interessata fosse sottoposta ad alcun colloquio e sulla base di una verifica dei curricula eseguita senza attribuire punteggi, compiere comparazioni e predisporre verbali.
Il Tribunale aveva accolto la domanda ed aveva disposto l’annullamento dell’atto di conferimento dell’incarico, con conseguente risoluzione del contratto sottoscritto dal vincitore, condannando l’Ente a ripetere la valutazione dei soli partecipanti alla procedura in possesso dei requisiti di cui all’art. 19, comma 6, Dlgs 165/2001.
La Corte d’Appello di Trento, con la sentenza n. 127/2012, ha rigettato l’impugnazione proposta dal Comune di Rovereto avverso la sentenza emessa dal giudice di prime cure, richiamando, anzitutto, l’art. 65, Dpr 670/1972, che in materia di personale dei comuni impone a questi ultimi l’osservanza dei principi generali fissati con leggi regionali e, nel caso di specie, di conseguenza, con disposizioni legislative nazionali, considerato che la potestà legislativa in materia di dirigenza è rimessa in via esclusiva allo Stato.
Pertanto, ha confermato la decisione del Tribunale in ragione dei principi enunciati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 324/2010 ed evidenziando che, dall’interpretazione del citato art. 19 Dlgs 165/2001 vigente ratione temporis, la sussistenza del requisito professionale doveva essere desunto anche da un’esperienza di tipo dirigenziale o ad essa equiparabile, che il candidato vincitore non risultava avere maturato.
Le considerazioni della Corte
Prima di esaminare i motivi del ricorso, la Corte di Cassazione ha evidenziato che nella procedura selettiva pubblica, indetta dal comune, tra i requisiti era prescritto, oltre il titolo di studio, anche il requisito professionale, che poteva essere integrato con esperienza di servizio di almeno cinque anni presso pubbliche amministrazioni, oppure con mansioni direttive presso Enti, aziende pubbliche o private, ovvero con l’aver conseguito una particolare specializzazione professionale attestata dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche, ovvero nell’ambito della ricerca e/o della docenza universitaria.
Inoltre, come stabilito dal Regolamento del comune di Rovereto, il conferimento dell’incarico si doveva basare sulla valutazione del curriculum e dei requisiti culturali e professionali, previo avviso al pubblico contenente la funzione dirigenziale, i requisiti richiesti, il trattamento economico base e il termine per la presentazione delle domande.
Passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo il comune ha contestato, anche alla luce del quadro dei rapporti competenziali tra Stato e Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, come la Corte d’Appello avesse, erroneamente, ricondotto il caso alla materia “ordinamento civile”, senza considerare l’ordinamento degli Enti locali e la disciplina del relativo personale, rimessi alla potestà legislativa regionale. Con il secondo ha contestato il convincimento della Corte territoriale riguardo l’obbligo di sussistenza di tutti i requisiti di cui all’art. 19, comma 6, in capo al concorrente vincitore, che, diversamente, il comune riteneva alternativi.
Le conclusioni
La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto entrambi i motivi infondati. Anzitutto, la fattispecie in esame, sebbene regolata dalle disposizioni contenute nel Regolamento comunale, è anche soggetta al dettato dell’art. 19, comma 6, in quanto la disciplina degli incarichi dirigenziali, per quanto attiene ai profili normativi del rapporto, è materia attratta all’ordinamento civile e, in quanto tale, rimessa alla potestà esclusiva dello Stato dall’art. 117, comma 2, lett. l), Costituzione (cfr. Corte cost. n. 324/2010 e n. 62/2019).
Inoltre, come affermato dalla medesima Corte (v. Corte Cost. n. 231/2017, n. 77/2013), la competenza statale esclusiva in materia di “ordinamento civile” vincola gli Enti ad autonomia differenziata anche con riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro con i propri dipendenti e ciò trova conferma nella circostanza che, in materia di personale addetto agli uffici regionali, la potestà legislativa primaria della Regione Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’art. 4 dello stesso Statuto, è esercitata nei limiti dei “principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica”.
Altresì, la Corte d’Appello, nell’interpretare il citato art. 19, comma 6, ha correttamente affermato che, in ragione della lettera della disposizione e della ratio legis, nonché in ragione del confronto tra i testi normativi succedutisi nel tempo, la concreta esperienza di lavoro doveva coesistere con quella scientifica e doveva essere dirigenziale o ad essa equiparabile.
In sintesi, i requisiti stabiliti dal bando di selezione, che richiamava l’art. 119 del Regolamento comunale, non erano conformi all’art. 19, comma 6, Dlgs 165/2001, vigente ratione temporis, con la conseguenza che è stato ritenuto correttamente illegittimo il bando di selezione e la relativa procedura, nonché l’atto di conferimento dell’incarico per il quale era stato disposto l’annullamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.06.2019).

APPALTIPrincipio di rotazione, nelle procedure negoziate la PA deve giustificare l'invito al gestore uscente.
Nelle procedure negoziate ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito del gestore uscente, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo, in particolare, riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale, ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento.

Lo stabilisce il Consiglio di Stato con la sentenza 06.06.2019 n. 3831 della Sezione V.
Il caso
Il caso si riferisce ad una gara di servizi, svolta mediante procedura negoziata per l’affidamento della manutenzione e riparazione di veicoli comunali. Nella specie il ricorrente denunciava la violazione del principio di rotazione fissato dall’articolo 36 del Dlgs n. 50 del 2016, stante l’invito a partecipare alla procedura rivolto anche al gestore uscente.
Sia il Giudice di primo grado che il Consiglio di Stato hanno ritenuto fondata la censura accertando il mancato rispetto da parte della stazione appaltante del principio in questione.
Nel caso di specie la stazione appaltante non ha palesato le ragioni che l’hanno indotta a derogare al principio. Il che –a giudizio del Consiglio di Stato– ha reso illegittima per ciò solo la procedura e l’aggiudicazione del contratto al concorrente che non avrebbe dovuto partecipare.
La decisione
Il Consiglio di Stato ha chiarito che il principio di rotazione non è un requisito soggettivo di partecipazione. Con esso non si contesta la qualità di gestore uscente, bensì il mancato rispetto da parte della stazione appaltante di un principio posto a presidio della trasparenza e della concorrenza nei pubblici affidamenti.
Il principio, fissato dall’articolo 36 Dlgs n. 50/2016 per gli appalti sotto soglia (quale, per l’appunto, l’appalto in esame), mira a evitare il crearsi di posizioni di rendita anticoncorrenziali e a consentire, di contro, l’apertura più ampia possibile del mercato agli operatori (si veda Tar Veneto, Sezione I, sentenza n. 320/2018).
Per la giurisprudenza amministrativa il principio di rotazione si riferisce propriamente non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da interpellare e da invitare per presentare le offerte, ed assumendo, quindi, nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al carattere ‘fiduciario’ della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo, e, infine, di assicurare l’avvicendamento delle imprese affidatarie.
Quindi, è onere della stazione appaltante motivare adeguatamente in ordine alla ricorrenza di elementi che, eccezionalmente, consentono di invitare il gestore uscente e per i quali ritiene di non poter prescindere dall’invito.
In sostanza, ove l’Amministrazione si determini a invitare anche il precedente gestore, deve spiegare l’apparente contrasto con il principio di rotazione, poiché esso costituisce il contrappeso normativo alla massima economicità e semplificazione procedimentale che caratterizza le procedure informali e che, appunto, tende ad evitare che la posizione peculiare del gestore uscente possa costituire ragione di reale o presunto favoritismo (si veda Consiglio di Stato, sentenza n. 4661/2014) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2019).
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9.1. La censura è infondata.
9.2. Giova anzitutto richiamare la norma di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 50 del 2016, a mente del quale “l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese”.
9.3. Alla luce del piano tenore letterale della norma non meritano condivisione le critiche appuntate alla sentenza appellata in quanto effettivamente il principio ivi affermato mira ad evitare il crearsi di posizioni di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati operatori economici, favorendo, per converso, l’apertura al mercato più ampia possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche competitive.
9.4.
Il principio di rotazione si riferisce propriamente non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da interpellare e da invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al carattere “fiduciario” della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo (cfr. Cons. di Stato, III, 12.09.2014, n. 4661, ove si rilevava che il principio di rotazione non avesse ragion d’essere in rapporto alle concrete caratteristiche della procedura in cui l’ente appaltante, pur avendo fatto richiamo all’art. 125 del previgente codice dei contratti, aveva impostato la procedura come una gara vera e propria, in ragione dell’ampissima apertura al mercato e dell’elevatissimo numero di ditte invitate e, dunque, senza alcuna discrezionalità né alcuna negoziazione) e di assicurare l’avvicendamento delle imprese affidatarie.
Pertanto
detto principio rotazione trova applicazione non solo per gli affidamenti diretti sotto soglia (come sostiene l’appellante), ma anche per le procedure negoziate di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia” (quale è quello in esame), rispetto alle quali il principio di rotazione è stato già ritenuto obbligatorio dalla giurisprudenza di questo Consiglio.
9.5. Anche a voler conferire rilievo al fatto che il gestore uscente non sia stato invitato alla procedura dalla stazione appaltante, ma abbia partecipato per adesione spontanea, il dato si infrange irrimediabilmente sul chiaro tenore testuale della norma citata che impone il rispetto del principio di rotazione sia negli inviti, sia negli affidamenti, in modo da assicurare l’effettiva (e più ampia) partecipazione delle imprese concorrenti: sicché, anche in presenza di una manifestazione di interesse del gestore uscente, la stazione appaltante ben avrebbe potuto (e dovuto), in ossequio al disposto di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 50 del 2016, non invitarlo alla procedura (o motivare adeguatamente in ordine alla ricorrenza di elementi che, eccezionalmente, lo consentivano e per le quali riteneva di non poter prescindere dall’invito.).
9.6. Risultano condivisibili i rilievi mossi all’operato dell’Amministrazione comunale, nella misura in cui “non ha palesato le ragioni che l’hanno indotta a derogare a tale principio”: ciò in linea con i principi giurisprudenziali per cui “
ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito di quest’ultimo (il gestore uscente), dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee guida n. 4)” (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., Sez. V, 03.04.2018, n. 2079; id., Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125).
9.7. Nella fattispecie in esame, per vero, in disparte l’assenza di giustificazione sulla deroga al principio in questione, non ricorreva neanche l’ipotesi di un numero ridotto di operatori economici presenti sul mercato (avendo lo stesso Comune, per sua stessa ammissione, provveduto a implementare l’elenco dei partecipanti sino a dieci operatori, numero che tuttavia non costituiva indice di un’effettiva apertura al mercato tale da rendere non pertinente il richiamo alla rotazione), risultando pure irrilevanti, e comunque inidonei a compensare la mancata osservanza del principio di rotazione (funzionale, come si è detto, ad assicurare i principi di concorrenzialità e massima partecipazione degli operatori economici alle procedure di affidamento), gli accorgimenti procedurali predisposti dalla stazione appaltante (quali l’esperimento della procedura in via telematica attraverso la piattaforma digitale, la pubblicazione dell’avviso pubblico, l’espletamento di una preventiva indagine di mercato).
Infatti, come chiarito dalla richiamata giurisprudenza,
il suddetto avviso non costituisce atto di indizione di una procedura di gara concorsuale, ma un’indagine conoscitiva di mercato non vincolante tesa ad individuare operatori economici da invitare alla successiva procedura negoziata sicché, già nella fase successiva dell’invito, per espressa statuizione dell’art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016, si innesta la regola dell’esclusione del gestore uscente: in definitiva, lo strumento della manifestazione di interesse, pur strumentale a garantire la più ampia partecipazione possibile agli operatori economici da invitare, non rende affatto superflua la rotazione.
9.8. A ciò si aggiunga poi che, come chiarito dalla giurisprudenza,
la norma in oggetto da un lato non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 41 Cost. in quanto “in senso contrario è dirimente rilevare che l’art. 36 cit. contiene una norma pro-competitiva che favorisce l’ingresso delle piccole e medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che va garantita anche al gestore uscente, al quale -salvo motivate eccezioni- si impone soltanto di “saltare” il primo affidamento, di modo che alla successiva gara esso si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti”, dall’altro garantisce quelli di cui all’ art. 97 Cost, poiché “l’aumento delle chances di partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal principio di rotazione) favorisce l’efficienza e l’economicità dell’approvvigionamento dei servizi (Cons. Stato, Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125).
10. Il secondo motivo di appello è, invece, incentrato sulla pretesa tardività dell’impugnazione della censura inerente la violazione del principio di rotazione ex art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016, censura che, pur conosciuta dal Consorzio sin dalla partecipazione del precedente aggiudicatario e dal momento in cui l’Amministrazione aveva formalizzato e pubblicato l’elenco degli operatori economici da invitare alla procedura negoziata, è stata proposta solo con il ricorso per motivi aggiunti ed oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art. 120, comma 2-bis c.p.a.: alla fallace conclusione di infondatezza dell’eccezione il giudice di prime cure sarebbe pervenuto ritenendo erroneamente che il principio di rotazione negli inviti non integrerebbe un requisito di partecipazione.
10.1. Anche tale motivo è infondato.
10.2.
Il principio di rotazione non è un requisito soggettivo di partecipazione: invero ciò che si contesta non è certo la qualità di gestore uscente, nota sin dall’inizio alla ricorrente, né quindi il difetto del corrispondente requisito negativo soggettivo, bensì il mancato rispetto da parte della stazione appaltante di un principio, quello di rotazione, posto a presidio della trasparenza e della concorrenza nei pubblici affidamenti.
La pretesa applicabilità della disciplina e dei termini di impugnazione del rito super-accelerato, in assenza dei presupposti di legge, non può dunque inferirsi dall’assunto di parte appellante, secondo cui la lesione dell’interesse degli altri operatori emergerebbe nella sua portata concreta già al momento dell’invio delle lettere di invito: tanto più poi che, nel caso di specie, il verbale del 09.11.2017 (recante l’aggiudicazione provvisoria a M&D) risultava sprovvisto, come evidenziato, di qualsivoglia motivazione (secondo quanto invece richiesto ai fini del decorso dei termini dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.) in ordine all’invito e all’ammissione del gestore uscente.
10.3. Anche in relazione a tale profilo è pertanto corretta la motivazione della sentenza impugnata lì dove, muovendo dal carattere eccezionale del rito ex art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm. applicabile esclusivamente alle ipotesi ivi previste ovvero “le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico professionali”, conclude per la deducibilità della violazione del principio in esame, non integrante un requisito di partecipazione e soggetto all’ordinaria condizione dell’interesse ad agire, solo con l’atto conclusivo della procedura (id est: con l’aggiudicazione dell’appalto ad altra concorrente).
11. Parimenti non meritano favorevole considerazione le critiche appuntate e proposte in via autonoma dall’appellante incidentale avverso il capo della sentenza appellata che ha disposto la mera riattivazione della procedura e non l’aggiudicazione diretta in favore del Consorzio, in relazione all’esercizio di residui poteri discrezionali, che nella fattispecie ancora sussistono, dovendo la stazione appaltante provvedere ad effettuare la fase di verifica dei requisiti prima di procedere all’aggiudicazione definitiva: tale atto potrà essere adottato in presenza dei presupposti di legge e previa verifica, da parte della stazione appaltante, circa la sussistenza dei requisiti di capacità economica finanziaria e tecnico professionale in capo all’odierna appellata.
12. Corretta risulta poi la sentenza nella parte in cui non ha ritenuto riconoscibile alcun risarcimento del danno per equivalente monetario, ben potendo il Consorzio appellante incidentale ancora acquisire il bene della vita (l’aggiudicazione della procedura cui aspira): il Comune non ha infatti dato seguito nelle more del giudizio di primo grado alla stipula del contratto con M&D.
13. Il rigetto dell’appello principale esime la Sezione dall’esame dei motivi del ricorso incidentale proposti in subordine, da ritenersi assorbiti, dovendo al riguardo osservarsi, per mera completezza, che le censure dedotte con tali mezzi risultano comunque infondate per le motivazioni già esposte nelle precedenti decisioni di questa Sezione (rese in casi analoghi su ricorso in appello dello stesso Consorzio odierno appellato) a cui integralmente si rinvia (Cons. di Stato, V, 18.02.2019, n. 1099; V, 24.01.2019, n. 605) nelle quali si è affermata la legittimità del ricorso al criterio del prezzo più basso in gare analoghe stante la natura standardizzata delle prestazioni oggetto dell’appalto e non ricorrendo nella fattispecie neppure un servizio ad alta intensità di manodopera, risultando pure assolto l’onere motivazionale sulle ragioni della scelta di tale criterio.
14. Per le ragioni esposte, gli appelli, principale e incidentale, vanno entrambi respinti.

EDILIZIA PRIVATAPer ius receptum, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamnte vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive;
Tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
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12. Privo di pregio è, ancora, l’ordine di doglianze volto a denunciare l’omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio e dell’invito a conformare le attività contestate alla normativa violata (cfr. retro, sub n. 3.a).
12.1. Sotto il primo profilo, è qui sufficiente rammentare che, per ius receptum, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo (nella specie, peraltro, reso avveduto delle contestazioni rivoltegli mediante l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 8 del 21.01.2008: sul punto, cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 4533/2017; n. 399/2019; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 4272/2011; sez. II, n. 1082/2012; sez. VI, n. 2368/2017; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 7156/2018), il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez. VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez. V, n. 3438/2014; sez. III, n. 2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015; Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez. II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n. 664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez. III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez. VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n. 4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n. 121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n. 995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n. 5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018; Napoli, sez. III, n. 898/2018; n. 1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n. 1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 2098/2015; n. 10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR Puglia, Lecce, sez. III, n. 1708/2016; n. 1552/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 05.06.2019 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGORimessa alla Consulta la questione delle progressioni interne a posizioni organizzative.
Con l’ordinanza 03.06.2019 n. 7067, il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, ha sottoposto alla Corte questioni di legittimità costituzionale riguardo:
   1. l’articolo 1, comma 93, lettere a), b), c) e d), della Legge 205/2017, in quanto l’istituzione di posizioni organizzative nuove, caratterizzate da marcati poteri di natura dirigenziale e destinate ad essere ricoperte con procedure selettive interne, potrebbe risultare elusiva del giudicato scaturente dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015, con possibile violazione dell’art. 136 della Costituzione;
   2. l’articolo 1, comma 93, lettere a), b), c) e d), della Legge 205/2017, perché le posizioni organizzative prefigurate dal legislatore, per le funzioni ed il trattamento giuridico ed economico ad esse connesso, integrerebbero una vera e propria progressione di carriera alla quale dovrebbe accedersi con concorso pubblico e non con una selezione interna, con possibile violazione degli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione;
   3. l’art. 1, comma 93, lettera e), Legge 205/2017, poiché le deroghe alla disciplina ordinaria per l’accesso alla qualifica dirigenziale previste dalla disposizione in esame –e relative all’esonero dalla prova preselettiva, alla valutazione di titoli in relazione alle esperienze lavorative pregresse e alla riserva di posti in favore degli interni nella misura fino al 50% dei posti messi a concorso– attribuirebbero un vantaggio competitivo ingiustificato in favore degli interni destinatari di funzioni dirigenziali delegate, o di incarichi di posizione organizzative speciali, e si porrebbero in contrasto con gli artt. 3, 51, 97 e 136 della Costituzione.
La rilevanza della questione, anche in riferimento alla prospettata illegittimità propria dell’art. 12 del Regolamento, deriva dal fatto che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto la norma attributiva del potere, mentre l’ipotetico annullamento per il vizio proprio dell’atto non sarebbe completamente satisfattivo per la parte ricorrente, residuando la rilevanza della questione in relazione alla prospettata illegittimità delle deroghe alla disciplina per l’accesso alla carriera dirigenziale.
Da un lato, emerge la prassi dell’Amministrazione di reiterare il conferimento di incarichi dirigenziali a propri funzionari, avvalendosi di un’apposita norma regolamentare poi annullata in sede giurisdizionale, dall’altro l’introduzione della previsione legislativa censurata, il cui vero obiettivo è rivelato dal secondo periodo della norma in questione, ove, da un lato, si fanno salvi i contratti stipulati in passato tra le Agenzie e i propri funzionari, dall’altro si consente ulteriormente che, nelle more dell’espletamento delle procedure concorsuali, da completare entro il 31.12.2013, le Agenzie attribuiscano incarichi dirigenziali a propri funzionari, mediante la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso.
Conseguentemente, la Corte ha ritenuto l’articolo 8, comma 24, Dl 16/2012 costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 51 e 97 Costituzione, avendo contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica.
Ma ciò che maggiormente viene in rilievo, ai fini della valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, è che, indubbiamente, la posizione organizzativa disciplinata dall’art. 1, comma 93, lettere a), b), c) e d), Legge 205/17 costituisce una vera e propria progressione di carriera verticale per i dipendenti appartenenti alla terza area, proprio perché la nuova funzione è caratterizzata dall’esercizio di poteri non riconducibili all’area in esame.
Con la sentenza n. 37/2015, la Corte Costituzionale ha precisato che non solo il conferimento di incarichi dirigenziali, ma anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso». Anche un nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio, pertanto, è soggetto alla regola del pubblico concorso (Corte Cost. n. 217/2012). Secondo il Tar, l’art. 93, comma 1, lettera e) della Legge n. 205/2017, nella parte in cui prevede l’esonero dalla prova preselettiva per i dipendenti interni correlata ad un’elevata riserva di posti in favore dei dipendenti medesimi:
   - risulta non coerente con il principio della necessità del pubblico concorso, di cui agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, in quanto attribuisce una posizione privilegiata nell’accesso ai dipendenti interni non logica, anche alla luce della contestuale previsione di una cospicua riserva di posti;
   - si pone in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, perché l’esonero dalla prova preselettiva è previsto non solo per coloro che sono in possesso di particolari requisiti di qualificazione, derivanti dalla natura dell’attività svolta (nella fattispecie identificata con l’espletamento per due anni di funzioni dirigenziali e, comunque, di incarichi di responsabilità), ma anche per coloro che vantano la sola anzianità decennale nella terza area alle dipendenze delle Agenzie fiscali e ciò può costituire un’ingiustificata discriminazione rispetto ad altri dipendenti di altre amministrazioni in possesso di analoghi requisiti;
   - si pone in contrasto anche con il principio di buon andamento dell’attività amministrativa, oggetto dell’art. 97 della Costituzione, in quanto l’esonero non risponde né all’esigenza di agevolare la speditezza della procedura concorsuale né di selezionare, comunque, sulla base di criteri obiettivi, i candidati più meritevoli (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALIIl consigliere comunale revocato non può essere risarcito per il danno all'immagine.
Quando la percezione collettiva viene influenzata dall’irrompere di eventi di natura penale ovvero dalla presenza di indagini sfociate in arresti e processi in sede penale, in relazione a fatti di notevole allarme sociale, oltre che rilevanti per la dimensione politica del reo, il Consigliere comunale revocato per tali fatti non può accedere ad alcun risarcimento per danno all’immagine.
Questa è la tesi emergente dalla sentenza 03.06.2019 n. 3731 del Consiglio di Stato, Sez. III.
Il fatto
Con decreto del ministro dell’Interno veniva rimosso dalla carica un Consigliere comunale in conseguenza di due ordinanze di custodia cautelare, emesse dal Tribunale del luogo, per fatti di concussione.
Entrambe le misure cautelari venivano, poi, successivamente revocate dal Tribunale del riesame, con due separate ordinanze.
Il provvedimento di revoca veniva impugnato dinanzi al Giudice amministrativo che lo annullava e, successivamente, l’interessato proponeva un nuovo ricorso dinanzi al Tar, per chiedere la condanna del ministero dell’Interno al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per l’effetto del provvedimento amministrativo dichiarato illegittimo dal Tar.
La richiesta di risarcimento veniva respinta; il rigetto è stato confermato con la sentenza in rassegna.
La decisione
Il Collegio giudicante non ha ravvisato la possibilità di stabilire un risarcimento da danno non patrimoniale per atto amministrativo illegittimo.
In conformità alla decisione di primo grado, il Consiglio di Stato ravvisa che deve tenersi conto del condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui, in casi analoghi, il risarcimento del danno derivante dalla mancata percezione dell'indennità di carica è destituito di fondamento, in quanto la corresponsione di tale emolumento è correlata all'effettivo svolgimento delle funzioni di Consigliere comunale, allo scopo di compensare le eventuali diminuzioni patrimoniali subite, con riferimento all'esercizio dell'attività lavorativa propria del Consigliere, impegnato nelle sedute assembleari.
In ogni caso, immediatamente dopo l’adozione del provvedimento lesivo nei confronti del ricorrente, l’intero Consiglio comunale era stato sciolto, per cui era evidente che, anche se non fosse mai stato adottato il provvedimento individuale di revoca, il Consigliere non avrebbe potuto più percepire l’indennità, essendo venuto meno l’organo collegiale di cui avrebbe dovuto continuare a far parte.
Conclusioni
Quanto al danno all’immagine, il Consiglio di Stato ha rimarcato che il pregiudizio all’immagine e alla carriera politica, più che dal provvedimento ministeriale di rimozione dal Consiglio comunale, è derivato dai procedimenti penali nei quali il revocato è stato coinvolto, oltre che dalle ordinanze di custodia cautelare che l’hanno colpito in una fase storica nella quale vicende simili hanno compromesso l’immagine e la carriera politica della maggior parte degli esponenti politici dell’epoca, in conseguenza di un sentimento ampiamente diffuso nell’opinione pubblica che, comunque lo si voglia giudicare, ha provocato un profondo rivolgimento politico e istituzionale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.07.2019).

APPALTI SERVIZIL’art. 212 del D.Lgs. n. 152/2006 (Norme in materia ambientale) al comma 5 così testualmente dispone: “L’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio e di intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi”.
Sicché, partecipando ad una gara d'appalto ed in carenza di tale iscrizione, non può che conseguire l’esclusione dalla gara stessa per carenza di un requisito abilitativo per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporto rifiuti, rientrante nel novero dei requisiti speciali di idoneità professionale in relazione alle attività oggetto di appalto, che, come affermato dalla giurisprudenza e dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, costituisce requisito di partecipazione alla gara (e, come tale, va posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte), e non soltanto di esecuzione del servizio.
Pertanto, nel caso di appalto avente ad oggetto le attività di cui all’art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, anche a voler ritenere che la stazione appaltante non avesse previsto nella legge di gara tra i requisiti di partecipazione quello dell’iscrizione all’Albo in parola, la disciplina di gara, avuto riguardo allo specifico oggetto dell’appalto, dovrebbe ritenersi automaticamente etero-integrata dal diritto nazionale vigente, colmandosi le lacune del provvedimento adottato dalla Pubblica Amministrazione secondo un meccanismo analogo a quello di cui agli artt. 1374 e 1339 c.c.
Sarebbe quindi irrilevante la collocazione nel Capitolato della richiesta del requisito che doveva essere posseduto anche a prescindere da una specifica previsione nella lex specialis.
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Il requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali è un requisito di natura soggettiva relativo alla idoneità professionale degli operatori a norma dell’art. 83, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016, e costituisce titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti dei rifiuti pericolosi e non, sì che “il relativo possesso determina quindi l’abilitazione soggettiva all’esercizio della professione e costituisce pertanto, un requisito che si pone a monte dell'attività di gestione dei rifiuti, pacificamente rientrando nell’ambito dei requisiti di partecipazione e non di esecuzione”, risultando poi la presenza soggettiva di siffatto requisito per poter concorrere a gare aventi ad oggetto dette attività “conforme all’immanente principio di ragionevolezza e di proporzionalità – in specie, quanto a necessarietà e adeguatezza”.
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5.1. Come esposto in narrativa l’appellante ripropone con l’odierno gravame solo le censure attinenti all’asserita carenza del requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali in capo al RTI aggiudicatario, impugnando le relative statuizioni della sentenza di prime cure che hanno respinto il motivo sul presupposto che venisse in rilievo un mero requisito di esecuzione ( richiesto “nell’ambito dell’appalto e delle attività relative alla gestione dei rifiuti in esso comprese”), non necessario ai fini della ammissione alla gara: ciò si ricaverebbe, ad avviso del primo giudice, dalla previsione del requisito in esame nel solo Capitolato, e dalla circostanza che la lex specialis, non impugnata sul punto dalla ricorrente, non lo indicasse espressamente tra quelli richiesti, a pena di esclusione, per la partecipazione alla gara; sotto altro concorrente profilo, sarebbe poi dirimente il riferimento contenuto nel Capitolato all’impresa appaltatrice (il che presupporrebbe appunto l’intervenuta aggiudicazione) e la possibilità di delega del servizio di trasporto dei rifiuti (per la quale era richiesta l’iscrizione all’Albo nella categorie 4F e 5F) ad un’impresa terza (di cui la ditta appaltatrice può appunto avvalersi).
5.2. L’appellante contesta una siffatta ricostruzione, rilevando anzitutto come la circostanza che oggetto dell’appalto in questione fosse, tra l’altro, anche l’attività di raccolta dei rifiuti e trasporto di essi presso gli impianti di smaltimento imponesse l’applicazione alla fattispecie dell’art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale) che al comma 5 così testualmente dispone: “L’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio e di intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi”.
5.3. Conformemente a tale previsione di legge, pertanto, il Capitolato, integrando sul punto il bando, ha richiesto che le concorrenti fossero in possesso del requisito minimo dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali categoria 2-bis, nonché 4F e 5F (pag. 65): in particolare l’operatore economico avrebbe dovuto essere in possesso della categoria 2-bis richiesta dal D.M. n. 120 del 03.06.2014 per il produttore di rifiuti (che è per l’appunto l’operatore economico affidatario della commessa), nonché delle ulteriori categorie 4F e 5F richieste per l’operatore economico che effettua l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi (categoria 4) e pericolosi (categoria 5); solo per tali ultime due categorie (4F e 5F) il Capitolato avrebbe consentito, sempre ad avviso dell’appellante, che, qualora l’attività di raccolta e trasporto rifiuti pericolosi fosse stata svolta in regime di subappalto, fosse il subappaltatore a possedere l’iscrizione, fermo restando l’obbligo in capo all’operatore economico concorrente di possedere (ai fini della partecipazione alla gara) comunque il requisito dell’iscrizione nell’Albo Gestori Ambientali per la categoria 2-bis.
5.4. Sennonché nella specie né la mandatari I.C. Se. né la mandante Il Ri. erano iscritte nell’Albo: da qui non poteva che conseguire, secondo La Lu., l’esclusione dalla gara per carenza di un requisito abilitativo per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporto rifiuti, rientrante nel novero dei requisiti speciali di idoneità professionale in relazione alle attività oggetto di appalto, che, come affermato dalla giurisprudenza (Cons. di Stato, Sez. V, 22.10.2018, n. 6032; id., V, 19.04.2017, n. 1825) e dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (delibera ANAC del 28.03.2018, n 324), costituisce requisito di partecipazione alla gara (e, come tale, va posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte), e non soltanto di esecuzione del servizio.
5.5. Pertanto, nel caso di appalto avente ad oggetto le attività di cui all’art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, anche a voler ritenere che la stazione appaltante non avesse previsto nella legge di gara tra i requisiti di partecipazione quello dell’iscrizione all’Albo in parola, la disciplina di gara, avuto riguardo allo specifico oggetto dell’appalto, dovrebbe ritenersi automaticamente etero-integrata dal diritto nazionale vigente, colmandosi le lacune del provvedimento adottato dalla Pubblica Amministrazione secondo un meccanismo analogo a quello di cui agli artt. 1374 e 1339 c.c.
5.6. Sarebbe quindi irrilevante la collocazione nel Capitolato della richiesta del requisito che doveva essere posseduto anche a prescindere da una specifica previsione nella lex specialis.
...
6.1. Devono anzitutto richiamarsi le previsioni di cui all’art. 212, comma 5 e 6, del d.lgs. 152 del 2006 recante Norme in materia ambientale (di seguito “T.U.A.” o “Codice dell’ambiente”) in base alle quali: “L'iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti, nei limiti di cui all'articolo 208, comma 15. Sono esonerati dall'obbligo di cui al presente comma le organizzazioni di cui agli articoli 221, comma 3, lettere a) e c), 223, 224, 228, 233, 234, 235 e 236, a condizione che dispongano di evidenze documentali o contabili che svolgano funzioni analoghe, fermi restando gli adempimenti documentali e contabili previsti a carico dei predetti soggetti dalle vigenti normative.
6. L'iscrizione deve essere rinnovata ogni cinque anni e costituisce titolo per l'esercizio delle attività di raccolta, di trasporto, di commercio e di intermediazione dei rifiuti; per le altre attività l'iscrizione abilita alla gestione degli impianti il cui esercizio sia stato autorizzato o allo svolgimento delle attività soggette ad iscrizione
.”
6.2. Richiamate tali previsioni, giova in primo luogo evidenziare come vero è che, in base al consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa che la Sezione condivide ed a cui intende dare continuità, il requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali è un requisito di natura soggettiva relativo alla idoneità professionale degli operatori a norma dell’art. 83, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016, e costituisce titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti dei rifiuti pericolosi e non, sì che “il relativo possesso determina quindi l’abilitazione soggettiva all’esercizio della professione e costituisce pertanto, un requisito che si pone a monte dell'attività di gestione dei rifiuti, pacificamente rientrando nell’ambito dei requisiti di partecipazione e non di esecuzione” (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.10.2018, n. 6032), risultando poi la presenza soggettiva di siffatto requisito per poter concorrere a gare aventi ad oggetto dette attività “conforme all’immanente principio di ragionevolezza e di proporzionalità – in specie, quanto a necessarietà e adeguatezza” (Cons. di Stato, V, 19.04.2017, n. 1825)
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2019 n. 3727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Abbandono in modo incontrollato dei rifiuti - Associazione dilettantistica senza scopo di lucro - Associazione di tiro a volo - Nozione di Ente - Condotta di abbandono - Illecita gestione - Attività di smaltimento mediante combustione - Condotta sanzionata riferibile a chiunque - In assenza di titolo abilitativo - Assoluta occasionalità - Differenza tra artt. 256, comma 2 e 256, comma 1, lett. b), d.lgs. 152/2006 n. 152/2006.
Si configurano i reati di cui agli artt. 256, comma 2 e 256, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152/2006, nei confronti del presidente di un'associazione di tiro a volo, per abbandono in modo incontrollato dei rifiuti nelle aree dove viene svolta l'attività di tiro ed in quelle limitrofe, quali piattelli rotti, borre, bossoli di cartucce vuote e pallini in piombo ed, inoltre, nella fattispecie, per aver illecitamente smaltito mediante combustione parte di tali rifiuti.
Pertanto, nella nozione di enti cui fa riferimento l'art. 256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006 rientrano anche le associazioni ed integra il reato sanzionato da tale disposizione l'abbandono, da parte del rappresentante di un'associazione sportiva dilettantistica di tiro al volo dei rifiuti derivanti da tale attività. Tali considerazioni valgono esclusivamente per la condotta di abbandono, mentre per ciò che attiene all'illecita gestione, pure contestata per lo smaltimento mediante combustione, ciò che rileva è la mera mancanza di titolo abilitativo, atteso che, riguardo al reato di cui all'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, si è chiarito come la condotta in esso sanzionata sia riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa, che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità
(Sez. 3, n. 29992 del 24/6/2014, P.M. in proc. Lazzaro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2019 n. 23794 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: Cantieri - Prevenzione degli infortuni sul lavoro - Lavorazioni da eseguire ad altezza superiore ai due metri - Obbligo di parapetti, impalcature, ponteggi o altre opere - Sostituzione con uso di cinture di sicurezza - Impossibilità - Attuazione della direttiva 92/57/CEE concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili - Fattispecie.
L'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, previsto solo sussidiariamente o in via complementare.
Sicché, in tema di infortuni sul lavoro, l'uso delle cinture di sicurezza -misura di carattere generale e imperativo- deve essere adottato in tutti i casi in cui il lavoratore sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la sola esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta: ne consegue che l'esonero dalla protezione delle cinture non è previsto allorché tali parapetti siano idonei soltanto a facilitare il lavoro, o, tutt'al più, ad attenuare soltanto il rischio.

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Cantiere e piani di sicurezza (PSC, POS, PSS) - Responsabilità del datore di lavoro o del committente, appaltatore o del concessionario - Responsabile dei lavori e sicurezza - Sussistenza - Giurisprudenza.
I vari piani di sicurezza (Piano di Sicurezza e Coordinamento (i cui contenuti minimi sono definiti dagli artt. 2, 3 e 4, d.P.R. 222/2003), redatto dal committente o dal responsabile dei lavori; il Piano di Sicurezza Sostitutivo, redatto a cura dell'appaltatore e del concessionario; il Piano Operativo di Sicurezza, redatto da ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici) sono strumenti che non si sostituiscono, ma si integrano, nell'ottica di una sicurezza del cantiere che il legislatore tende a garantire sempre con maggiore rigore.
La giurisprudenza ha delineato gli ambiti di responsabilità anche del committente
(dal quale, peraltro, non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo; tra le altre, Sez. 4, n. 27296 del 02/12/2016, Vettor, Rv. 270100; Sez. 4, n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi, Rv. 264974), senza tuttavia rimuovere alcun profilo di responsabilità in capo al datore di lavoro, primo destinatario della posizione di garanzia nei confronti dei propri dipendenti, allorquando - anche a fronte di competenze altrui - destini gli stessi a mansioni oggettivamente pericolose, in ragione del generale contesto in cui si svolgono.

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Infortuni sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro - Comportamento negligente o imprudente del lavoratore - Irrilevanza - Cautele insufficienti.
In tema di infortuni sul lavoro, non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (Sez. 4, n. 7364 del 14/01/2014, Scarselli: fattispecie relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla configurabilità della responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un'idonea impalcatura -"trabattello"- nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.05.2019 n. 23140 - link a www.ambientediritto.it).

VARINotaio non responsabile se omette le visure ipotecarie poiché esonerato dalle parti.
Il notaio incorre in responsabilità professionale se non adempie correttamente la propria prestazione, atteso che la dovuta diligenza non si sostanzia solo nella redazione dell’atto richiesto dalle parti, ma comprende anche le cd. attività preparatorie (tra le quali rientra il compimento delle visure catastali e ipotecarie).
Tuttavia, detta responsabilità è esclusa qualora le parti, per ragioni d’urgenza, lo abbiano da ciò espressamente esonerato.
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1. Ro.Cr. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, il notaio Fe. De Pa. e —sulla premessa di aver acquistato, con scrittura privata autenticata dal convenuto, alcune porzioni immobiliari che erano risultate poi gravate da ipoteca giudiziale, sicché ella si era vista costretta a versare l'ulteriore somma di curo 330.000 per liberare gli immobili— chiese che il professionista fosse condannato al risarcimento dei relativi danni.
Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda e condannò l'attrice al pagamento delle spese di giudizio, rilevando che le parti avevano, con apposita previsione del contratto di compravendita, esonerato il notaio dalle verifiche ipotecarie e catastali.
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Tanto premesso, il Collegio rileva che la Corte romana ha correttamente richiamato il precedente di cui alla sentenza 13.06.2013, n. 14865, il quale, inserendosi in un orientamento che può definirsi consolidato, ha stabilito che
il notaio incorre in responsabilità professionale qualora non adempia correttamente la propria prestazione; tale dovuta diligenza non si espleta solo nella redazione dell'atto richiesto dalle parti, ma comprende anche le c.d. attività preparatorie (tra cui il compimento delle visure catastali e ipotecarie); tale responsabilità è però da escludere qualora tutte le parti che procedono alla stipula lo abbiano espressamente esonerato da tali attività.
Nella specie la Corte di merito, con un accertamento in fatto non più riesaminabile in questa sede, ha verificato che le parti avevano esplicitamente esonerato il notaio dall'onere di compiere le dovute visure ipotecarie e catastali, per ragioni improrogabili di urgenza; e che non era stato dimostrato in alcun modo che il notaio fosse già a conoscenza dell'esistenza di formalità pregiudizievoli (v., in tal senso, la sentenza 02.07.2010, n. 15726), mentre l'attrice non aveva dimostrato che per le visure il notaio avesse ugualmente ricevuto un compenso.
A fronte di tale motivazione le argomentazioni della ricorrente, generiche e comunque ripetitive di quelle già poste in sede di merito, ipotizzando anche che il notaio non abbia dimostrato la correttezza del suo comportamento, si rivelano non idonee a superare la ratio decidendi della sentenza impugnata e tendenti ad ottenere in questa sede un nuovo e non consentito esame del merito.
2. Il ricorso, pertanto, è rigettato (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 24.05.2019 n. 14169).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali.
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In tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio.
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E' pur vero che l'ordine di demolizione può essere irrogato solo per le violazioni sostanziali e non per quelle formali: «In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali» (Sez. 3, n. 6371 del 07/11/2013 - dep. 11/02/2014, De Cesare, Rv. 25889901).
Ma questo è rilevante prima dell'ordine di demolizione di cui alla sentenza di condanna; successivamente l'adeguamento alla normativa antisismica, per la revoca dell'ordine di demolizione, deve risultare completo.
Infatti il permesso di costruire in sanatoria comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche ma non anche di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio: «
In tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio» (Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017 - dep. 07/08/2017, Rizzo, Rv. 27079201; vedi anche Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018 - dep. 07/12/2018, CARDELLA LUCA, Rv. 27421201 e Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017 - dep. 13/03/2018, Franchino e altri, Rv. 27254601) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.05.2019 n. 22580).

ENTI LOCALIPer cambiare nome alla città serve sempre il referendum.
Per cambiare denominazione al comune serve sempre il referendum. Anche se il mutamento del nome dell'ente consiste solo nell'aggiunta della parola «terme» a quello del comune. La consultazione preventiva delle popolazioni interessate è infatti una «fase obbligatoria» che non può essere sostituita dalla presentazione ex post di una petizione da parte dei cittadini dissenzienti volta a congelare il cambio di nome.
Lo ha affermato la Corte Costituzionale nella sentenza 23.05.2019 n. 123 che ha bocciato una legge regionale della Sicilia (n. 1/2018) in quanto in contrasto con l'art. 133 della Costituzione e con lo stesso statuto della regione.
La legge impugnata dalla presidenza del consiglio consentiva ai comuni sui cui territori insistono insediamenti e/o bacini termali la possibilità di aggiungere la parola «terme» alla propria denominazione, previa deliberazione del consiglio comunale adottata a maggioranza di due terzi dei consiglieri. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della delibera nell'albo pretorio, i cittadini avrebbero potuto esprimere il proprio dissenso presentando una petizione sottoscritta da almeno un quinto degli elettori.
La mancata presentazione della petizione avrebbe reso definitivo il cambio di nome. In questo modo secondo la regione si sarebbe risparmiato tempo e denaro rendendo solo eventuale, e non più obbligatorio, il coinvolgimento delle popolazioni interessate. Ma la Consulta non è stata dello stesso avviso. Secondo la Corte, attribuire alla mancata presentazione della petizione l'effetto implicito di adesione alla modifica del nome è «inammissibile» perché «ad una semplice inerzia non può essere riconosciuto alcun valore giuridico, meno che mai quello di adesione alla modifica, all'esito di una assai singolare consultazione tacita».
A sua volta singolare, osserva la Corte, risulta l'attribuzione di un effetto di «veto» alla presentazione di una petizione, sottoscritta da almeno un quinto di elettori dissenzienti rispetto alla deliberazione adottata dal consiglio comunale. Una scelta che, osserva la Consulta, «assegna un incongruo potere di blocco a una minoranza, pur a fronte dell'asserito significato adesivo alla proposta di modifica, assegnato al comportamento di coloro (la maggioranza) che tale petizione non abbiano sottoscritto» (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza minima da osservarsi tra edifici.
Le previsioni di cui all'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 —riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici— essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l'igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose, devono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei Comuni, che si devono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici.
Inoltre, traendo le norme del succitato d.m. n. 1444 del 1968 la propria efficacia dall'art. 41-quinquies comma 8, l. 17.08.1942, n. 1150 —in tale parte non abrogato dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380— le relative previsioni devono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi.
Pertanto, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.05.2019 n. 3280 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
3. In ordine al primo ordine di motivi, con cui si invoca la risalenza del manufatto e la conseguente rilevanza dell’originario sedime anche rispetto alle norme sulle distanze, la tesi appellante non è suscettibile accoglimento, né in linea generale, né in relazione al caso di specie.
Sul primo versante va ribadito il principio per cui le previsioni di cui all' art. 9, d.m. 02.04.1968, n. 1444 —riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici— essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l'igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose, devono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei Comuni, che si devono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le norme del succitato d.m. n. 1444 del 1968 la propria efficacia dall' art. 41-quinquies comma 8, l. 17.08.1942, n. 1150 —in tale parte non abrogato dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380— le relative previsioni devono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi; pertanto, ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. ad es.. Consiglio di Stato, sez. IV, 30/10/2017 , n. 4992).
Conseguentemente, a fronte di una difformità, dal titolo rilasciato, in violazione delle distanze, il conseguente abuso va sanzionato, senza che possa in contrario valere un eventuale accordo fra privati. Né un titolo edilizio sopravvenuto, rispetto all’originaria prima costruzione, può tacitamente legittimare una violazione delle distanze stesse.
Sul secondo versante, nel caso di specie assume rilievo dirimente sul punto la accertata difformità dal titolo assentito. Infatti, la necessità del rispetto della distanza di 4,30 mt dalla proprietà del controinteressato Br. era direttamente stabilita nel progetto di ristrutturazione approvato, con la conseguenza, preliminare ed assorbente nel caso in esame, del fatto che l’opera accertata costituisce abuso in quanto in diretto contrasto con il progetto approvato.

EDILIZIA PRIVATACostituisce jus receptum il principio a mente del quale la sanzione ripristinatoria costituisce atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.
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4. Prima facie infondato è il secondo ordine di motivi.
In proposito, infatti, costituisce jus receptum il principio a mente del quale la sanzione ripristinatoria costituisce atto vincolato, per la cui adozione non è necessaria la valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né la comparazione di questi con gli interessi privati coinvolti, né tanto meno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo in alcun modo ammissibile l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 17.07.2018, n. 4368) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.05.2019 n. 3280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba applicare la sanzione pecuniaria.
Più in generale, resta salvo il principio a mente del quale, con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall'art. 34 invocato, deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato.
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5. Parimenti infondato è il terzo ordine di rilievi.
In linea generale deve ritenersi che anche gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire soggiacciano alla sanzione demolitoria, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, si debba applicare la sanzione pecuniaria (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 04/06/2018, n. 3371).
Nel caso di specie, gli elementi invocati al riguardo da parte appellante appaiono del tutto generici, in specie rispetto alla pluralità e gravità delle difformità contestate, in gran parte rilevanti anche rispetto ad interessi fondamentali quali quelli tutelati dalle norme sulle distanze.
Più in generale, resta salvo il principio a mente del quale, con riguardo agli interventi e alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dall'art. 34 invocato, deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva e autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09/07/2018, n. 4169) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.05.2019 n. 3280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accordi di programma e accordi ex art. 15 legge n. 241 del 1990.
Se per gli accordi di programma ex art. 34 il principio della necessaria unanimità consensuale trova fondamento –e, prima ancora, logica giustificazione– nelle peculiarità che assistono la configurazione di tale istituto (nonché la prefigurazione funzionale dello stesso all’attuazione delle finalità per esso previste), non assimilabile ratio assiste gli accordi –ex art. 15 della legge 241, piuttosto che ex art. 30 del T.U.E.L.– diversamente preordinati ad esigenze di carattere organizzativo-funzionale, con ricadute anche di carattere finanziario, che consentono alle Amministrazioni di imprimere ai servizi e alle attività alle medesime facenti capo modalità attuative e di svolgimento coinvolgenti una pluralità di attori istituzionali (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.05.2019 n. 497 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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4. Ciò osservato, con il primo dei due motivi di gravame dalla parte ricorrente identicamente articolati per i tre ricorsi all’esame, il Comune di Canneto sull’Oglio contesta la violazione del principio di “immodificabilità” della Convezione, laddove non veicolata dal “consenso unanime da parte di tutte le amministrazioni coinvolte”.
4.1 Fonda parte ricorrente tale rilievo sulla portata dell’art. 15 della legge 241 del 1990; il quale, nel prevedere che “le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune” (comma 1), stabilisce (al successivo comma 2) che “per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall'articolo 11, commi 2 e 3”.
Tale ultima disposizione, a sua volta, prevede che per detti accordi “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”.
Dal che, il fondamento giustificativo della posizione di parte ricorrente, che individua nel “mutuo consenso” –evidentemente veicolato dall’unanime decisione di tutti i soggetti partecipanti all’accordo– l’unica modalità elettivamente preordinata ad apportare interventi modificativi al disposto convenzionale; in difetto del quale, conseguentemente, l’accordo medesimo si dimostrerebbe insuscettibile di essere inciso per effetto di determinazioni assunte “a maggioranza” dagli Enti partecipanti.
4.2 Tale ordine di considerazioni non rivela, ad avviso del Collegio, persuasivi profili di condivisibilità.
E ciò in quanto, come correttamente sostenuto dalla difesa delle resistenti Amministrazioni, la norma dal ricorrente Comune invocata non preclude che, in sede di determinazione della disciplina convenzionale dell’accordo stipulato per la gestione di servizi di comune interesse, le parti diversamente disciplinino (o non disciplinino) le modalità modificative dello stesso; così come alle parti stesse, ben è consentito (rectius; non è affatto preclusa) l’individuazione di peculiari modalità attuative del diritto di recesso dalla convenzione stessa da parte dei partecipanti (recesso che, è opportuno rilevare, ex se integra una modificazione della convenzione ex art. 15, per come realizzata dalla fuoriuscita di uno o più degli originari aderenti, con riveniente modificabilità contenutistica dell’accordo non soltanto sotto il profilo soggettivo, ma, derivativamente e conseguentemente, anche sotto il profilo della disciplina degli obblighi e dei diritti, quale ricaduta proprio della ridisegnata platea dei soggetti concorrenti all’attuazione del modulo convenzionale).
Va, in proposito, sottolineato come l’art. 15 sopra citato, così come l’art. 30 del D.Lgs. 267/2000, non precludano la possibilità di pervenire –a maggioranza; e non all’unanimità– ad interventi con portata modificativa dell’accordo.
Anzi, la disposizione da ultimo citata (a differenza della generale disposizione ex art. 15) non reca alcun rinvio, ob relationem, alla disciplina civilistica.
E lo stesso Testo Unico degli Enti Locali individua (art. 34, comma 4) la necessità dell’unanimità soltanto per gli Accordi di programma disciplinati da tale disposizione.
Previsione, questa, che anche questo Tribunale ha (correttamente) interpretato nel senso che “il tipo di interessi sotteso ad un procedimento amministrativo regolato da un accordo di programma è, per definizione, non disponibile da una sola amministrazione proprio perché il legislatore ne ha attributo la competenza in modo ripartito ad una pluralità di esse”: con la conseguenza che “la non disponibilità da parte di una singola amministrazione degli interessi pubblici sottesi all’azione amministrativa esercitata in forma consensuale è, per definizione, pertanto, caratteristica degli accordi di programma” (sentenza Sez I, 30.04.2010 n. 1635).
4.3 Se per gli accordi di programma ex art. 34 il principio della necessaria unanimità consensuale trova fondamento –e, prima ancora, logica giustificazione– nelle peculiarità che assistono la configurazione di tale istituto (nonché la prefigurazione funzionale dello stesso all’attuazione delle finalità per esso previste), non assimilabile ratio assiste gli accordi –ex art. 15 della legge 241, piuttosto che ex art. 30 del T.U.E.L.– diversamente preordinati ad esigenze di carattere organizzativo-funzionale, con ricadute anche di carattere finanziario, che consentono alle Amministrazioni di imprimere ai servizi ed alle attività alle medesime facenti capo modalità attuative e di svolgimento coinvolgenti una pluralità di attori istituzionali.
E, in difetto di alcuna preclusione normativamente fissata, non è dato comprendere la ragione, anche per siffatta modalità convenzionale, di stabilire il principio di una necessaria unanimità di consensi ai fini di apportare alla comune disciplina eventuali interventi modificativi: i quali, laddove la prospettazione sul punto esposta dalla parte ricorrente dovesse trovare apprezzamento, si vedrebbero di fatto “paralizzati” (ancorché in presenza di una favorevole componente maggioritaria) da quello che verrebbe a configurarsi quale vero e proprio “diritto di veto” (suscettibile di essere azionato anche da uno solo dei soggetti partecipanti al fine di scongiurare qualsivoglia immutazione all’accordo, quantunque presidiata dal consenso di (tutti i; o la maggior parte dei) soggetti parimenti parte dell’accordo.
Potrebbe, specularmente, sostenersi che la modificabilità a maggioranza di quest’ultimo è suscettibile di esporre la posizione del soggetto “dissenziente” alla volontà della maggioranza degli altri aderenti.
In disparte dalla riscontrabilità, nel meccanismo di funzionamento della volontà maggioritaria, di una coordinata pacificamente trasversale alle modalità formative della volontà di soggetti aventi plurima composizione, va osservato come funzione di garanzia per il soggetto in disaccordo sia rappresentata dalla potestà, al medesimo riconosciuta (anche nella fattispecie all’esame) di recedere dall’accordo: svincolando, per l’effetto, la propria posizione (e, conseguentemente, rescindendo il vincolo associativo), laddove al modulo convenzionale siano stati, in sede modificativa dell’originario testo, impressi contenuti con condivisi e/o non accettabili.
5. Esclusa, alla stregua di quanto esposto al precedente punto, la condivisibilità delle argomentazioni esposte con il primo motivo di ricorso, anche la seconda delle doglianze sviluppata dalla parte ricorrente non si presta a favorevole considerazione.
Non consta, infatti, che le avversate determinazioni si pongano in violazione del principio di leale collaborazione, per come dalla parte stessa sostenuto.
Il processo modificativo della Convenzione di che trattasi ha, infatti, formato oggetto non solo di necessaria procedimentalizzazione, ma anche di estesa ed articolata discussione fra i Comuni partecipanti, come adeguatamente comprato dalla copiosa documentazione dalla parti versata in atti: di tal guisa che non appare utilmente argomentabile –secondo un lettura dinamicamente orientata (e necessariamente commisurata alla caratterizzazione della vicenda) dell’art. 97 Cost.– né una lesione delle prerogative partecipative, né, tanto meno, una vulnerazione dei principi di corretto svolgimento dell’iter procedimentale.
6. La constatata infondatezza degli esaminati motivi di ricorso, impone il rigetto delle impugnative, come sopra riunite.

URBANISTICA: Vincoli conformativi ed espropriativi.
La distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi non discende dalla collocazione del vincolo in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma va operata in relazione agli effetti dell'atto di pianificazione.
Se quest’ultimo mira ad una zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera area in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo ha carattere conformativo, mentre, ove imponga solo un vincolo particolare incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un'opera pubblica, lo stesso va qualificato come preordinato alla relativa espropriazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2019 n. 3190 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
15. Nel primo motivo di appello, il signor De Lu. contesta la decisione del Tar che non ha considerato la natura espropriativa e quindi la decadenza del vincolo di destinazione a verde pubblico attrezzato dell’area interessata alla realizzazione dell’impianto di carburanti.
15.1. La censura non è fondata.
Il Tar ha correttamente ritenuto che il vincolo in esame avesse natura conformativa in relazione alla circostanza che le opere relative alla destinazione impressa all’area potessero essere realizzate anche ad iniziativa privata o promiscua pubblico–privato ai sensi dell’art. 19, comma 3, delle NTA del PRG del comune di Molfetta (verde pubblico attrezzato con opere che possono essere realizzate e gestite anche da privati tramite apposita convenzione con il Comune).
15.2. D’altra parte, come ha avuto modo di evidenziare la giurisprudenza del Consiglio di Stato,
i vincoli conformativi non comportano la perdita definitiva della proprietà privata, ma impongono limitazioni e condizioni restrittive agli interventi edilizi in funzione degli obiettivi di tutela dell'interesse pubblico e, a differenza, dei vincoli espropriativi, pur limitando e condizionando l'attività edificatoria, non comportano indennizzi per le limitazioni previste dallo strumento urbanistico e non hanno scadenza temporale (cfr. ex multis, Cons. Stato sez. IV, 22.10.2018, n. 5994).
15.3.
I vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore generale per attrezzature e servizi, quali ad esempio verde pubblico attrezzato, realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in regime di economia di mercato, pur avendo carattere particolare, sfuggono pertanto allo schema ablatorio e alle connesse garanzie costituzionali in termini di alternatività fra indennizzo e durata predefinita, e non costituiscono vincoli espropriativi, bensì soltanto conformativi, funzionali all'interesse pubblico generale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797 e 24.05.2018, n. 3116).
...
Per completezza va, comunque, osservato che anche ove il vincolo fosse qualificato come espropriativo, seguendo la ricostruzione proposta dall’appellante, tuttavia tale qualificazione non comporterebbe l’attuale assentibilità dell’intervento, in quanto il vincolo espropriativo sarebbe comunque decaduto e la zona sarebbe divenuta “zona bianca”, sicché l’intervento sarebbe comunque non assentibile perché eccedente i ridotti limiti di edificabilità previsti per tali zone.
Ove decada un vincolo espropriativo, per inutile decorso del tempo, non si verifica infatti alcuna reviviscenza della pregressa disciplina in ordine agli indici di edificabilità. L'area necessita invece dell’esercizio, a tale fine, del potere pianificatorio dell’Amministrazione comunale (cfr. Cons. Stato, sez. IV. 24.08.2016, n. 3684).
15.8. Più in generale, in relazione alla compatibilità della previsione del piano particolareggiato rispetto a quelle del PRG, che invece poneva chiaramente un vincolo conformativo, va rilevato che
la distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi non discende dalla collocazione del vincolo in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma va operata in relazione agli effetti dell'atto di pianificazione.
Se quest’ultimo mira ad una zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera area in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo ha carattere conformativo, mentre, ove imponga solo un vincolo particolare incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un'opera pubblica, lo stesso va qualificato come preordinato alla relativa espropriazione
(cfr. Cass. civile, sez. I, 18.06.2018, n. 16084).

TRIBUTI: Area edificabile anche senza indice. Cassazione: la mancata indicazione incide solo sul valore.
«Parimenti irrilevante è che il Piano strutturale comunale non indichi l'indice di fabbricabilità, incidendo questo aspetto solo sul quantum del valore venale e, dunque, sulla base imponibile».

Questa la conclusione cui giunge la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 15.05.2019 n. 12938 e ordinanza 15.05.2019 n. 12937 ove era chiamata a dirimere la questione inerente l'assoggettamento ad imposta delle aree inquadrate tra quelle urbanizzabili nel Piano strutturale comunale (Psc) disciplinato dalla legge regione Emilia-Romagna, n. 20 del 2000, e non inserite nel Piano operativo comunale (Poc).
Oltre a ribadire l'assoggettamento ad Ici, e quindi ad Imu, per tali aree, come già emerso in altre pronunce sul Psc ove si rimarcava la differenza tra funzioni urbanistiche e fiscali indipendentemente dalle diverse denominazioni date agli strumenti urbanistici dalle norme regionali, la Corte si spinge ancor più in là ritenendo che anche l'area edificabile, appartenente alle zone urbanizzate o urbanizzabili secondo lo strumento urbanistico, priva di un indice edificatorio è da attrarre alla definizione di area edificabile, ciò in quanto l'assenza dell'indice si riflette non nella determinazione della natura dell'oggetto d'imposta bensì ai fini della determinazione della base imponibile.
A ben vedere la Corte evidenzia un principio che può apparire scontato: mentre è l'articolo 2, comma 1, lettera b), dlgs n. 504 del 1992 a dare la definizione di area edificabile, e qui nessun accenno viene fatto all'indice di edificabilità, l'attributo viene, invece, a far parte degli elementi tassativi ai fini della quantificazione della base imponibile come previsto dal successivo articolo 5, comma 5; come a dire: una cosa è l'area altra cosa è il suo valore.
La conclusione dei giudici non solo conferma l'operato di quei comuni che hanno optato per la tassazione delle aree comprese nel Psc in assenza di Poc, ma offre una definizione di area edificabile ancor più allargata comprendendo in essa anche quelle porzioni di territorio che, sebbene prive di indice edificatorio, non possono essere considerate per tale motivo esenti dal tributo perché «non edificabili».
Seguendo tale insegnamento occorrerà attribuire un valore ai fini Imu anche a tali aree, le quali, a dire il vero, da sempre sono qualificate come edificabili ai fini del calcolo delle imposte sulle compravendite o sui redditi da plusvalenza.
Le pronunce in commento hanno, quindi, il pregio di allineare ancor più la definizione di area edificabile tra le varie imposte che gravano su tale bene come già il legislatore aveva stabilito con l'art. 36, comma 2, dl n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2006, il quale aveva, di fatto, sancito il formale distacco tra la nozione di area edificabile ai fini urbanistici e quella, ben più ampia, valida ai fini fiscali (articolo ItaliaOggi del 07.06.2019).

APPALTIGare, è illegittima la preferenza territoriale. Vìola il principio della par condicio.
È illegittima per violazione della par condicio la clausola di un bando di gara che preveda una specifica localizzazione dei soggetti affidatari e preclude la partecipazione di operatori che, seppure ubicati nel territorio, non si trovino nelle sole frazioni indicate dal disciplinare di gara.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentnza 15.05.2019 n. 3147.
La vicenda riguardava l'affidamento del servizio di manutenzione ordinaria e straordinaria degli automezzi di proprietà comunale per tre anni (2018-2020) con procedura negoziata, preceduta da avviso esplorativo, indetta sulla base del criterio del prezzo più basso. Negli atti di gara si prevedeva una «clausola di territorialità» imponente, per la partecipazione, che il concorrente disponesse di una sede operativa in un determinato comune o ad una distanza minima dalle sedi dell'amministrazione comunale.
In primo grado, la sentenza in forma semplificata aveva ritenuto illegittima la clausola di territorialità a pena di esclusione, in quanto in violazione del criterio della par condicio tra gli operatori. Il giudizio di appello ha confermato la pronuncia di primo grado.
In particolare, la clausola della lex specialis di gara disponeva che «i soggetti affidatari dei servizi in questione devono essere localizzati, per ovvie ragioni di economicità, in prossimità delle sedi dell'amministrazione comunale, e che la partecipazione alla procedura dovrà essere limitata agli operatori economici che operano in tali zone»; si trattava di alcune ben individuate zone abitate e industriali del comune e di una frazione comunale con esclusione di altre frazioni. Il bando prevedeva che sarebbero state «ammesse a partecipare le ditte che hanno la sede operativa localizzata in comuni limitrofi entro la distanza indicativa di 0,5 km dal confine comunale».
I giudici hanno ritenuto che si trattasse di una clausola irragionevole, al di là del corredo motivazionale sotteso. L'irragionevolezza è stata ravvisata nella ristrettezza degli eterogenei parametri fissati dalla lettera di invito, che, per quanto finalizzati all'economicità, violano in modo non proporzionato i principi di libera concorrenza e di massima partecipazione, di matrice anche eurounitaria, i quali vietano ogni discriminazione dei concorrenti in base all'elemento territoriale
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019).

EDILIZIA PRIVATAAutovelox fuori strada non fa multe.
Non è possibile attivare un controllo automatico della velocità sul lato opposto di marcia rispetto a quello scelto dalla prefettura. Infatti non sono valide le multe accertate con un misuratore posizionato in maniera errata.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 09.05.2019 n. 12309.
Un utente stradale incorso nei rigori dell'autovelox ha proposto con successo censure fino ai giudici del palazzaccio evidenziando la posizione irregolare del misuratore. In pratica il decreto che autorizza il comune al controllo dell'eccesso di velocità indica la possibilità di controllo solo in un senso di marcia. Ovvero nella direzione opposta a quella percorsa dal trasgressore.
Gli Ermellini hanno confermato le decisioni dei giudici di merito. Anche se la norma non richiede che il decreto del prefetto individui un singolo senso di marcia è evidente che se l'autorizzazione del rappresentante governativo è finalizzata ad attivare il controllo solo da un lato non vale l'accertamento effettuato sul lato opposto (articolo ItaliaOggi del 04.06.2019).

INCARICHI PROFESSIONALILa parcella va sudata. IL LEGALE DIMOSTRI IL LAVORO SVOLTO.
Il legale ha l'onere di dimostrare l'attività svolta nell'ipotesi in cui il cliente contesti la parcella e ciò quand'anche quest'ultima sia stata vistata dall'Ordine di appartenenza: è quanto ha asserito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza 06.05.2019 n. 11790 intervenendo sul ricorso di una donna che, in sede di merito, aveva proposto opposizione a decreto ingiuntivo nei confronti del suo difensore: in primo grado, ne era stata dichiarata l'improponibilità stante il fatto che era stata «formulata tardivamente»; in secondo, invece, la stessa opposizione non poteva considerarsi fondata perché basata sulla «mera contestazione» del compenso richiesto, «senza, tuttavia, assolvere all'onere di indicare su quali aspetti del credito azionato erano state formulate le critiche attinenti all'an e al quantum».
Invero, spiegano i giudici della VI-2 sezione civile, la Corte di appello aveva «illegittimamente» respinto il gravame ritenendo sufficiente, a fondamento della pretesa del professionista, la mera allegazione della documentazione che lo stesso aveva prodotto in sede monitoria, con ciò venendo meno ad un orientamento, ormai pacifico e confermato da diverse pronunce giurisprudenziali, secondo il quale «in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di diritti e onorari di avvocato o procuratore, la contestazione comunque mossa dell'opponente circa la pretesa fatta valere dall'opposto sulla base della parcella corredata dal parere del Consiglio dell'Ordine non deve necessariamente avere carattere specifico, essendo sufficiente una contestazione anche di carattere generico a investire il giudice del potere/dovere di dar corso alla verifica della fondatezza della contestazione e, correlativamente, a determinare l'onere probatorio a carico del professionista in ordine all'attività svolta quanto alla corretta applicazione della pertinente tariffa».
Ne consegue che pur a fronte di una siffatta contestazione generica, il professionista è «comunque» tenuto ad assolvere il relativo onere probatorio inerente tanto all'an quanto al quantum. Così argomentando hanno cassato la sentenza impugnata e rinviato la questione ad altra corte di appello in diversa composizione
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI: Natura della diffida.
La giurisprudenza amministrativa distingue tra diffide “in senso stretto” e atti che, ancorché formalmente qualificati come diffide, sono tuttavia costitutivi di effetti giuridici sfavorevoli per i destinatari (come, ad esempio, gli “ordini”).
Le diffide in senso stretto consistono nel formale avvertimento –indirizzato ad un soggetto (pubblico o privato), tenuto all’osservanza di un obbligo in base ad un preesistente titolo (legge, sentenza, atto amministrativo, contratto)- di ottemperare all’obbligo stesso; esse, dunque, non hanno carattere novativo di tale obbligo e usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un termine dilatorio per l’adozione di provvedimenti sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari, i quali, nonostante l’intimazione, siano rimasti inosservanti del proprio obbligo.
Ne consegue che, proprio per il loro carattere ricognitivo di obblighi che l’amministrazione assume come preesistenti e per il fatto di non vincolare la successiva azione amministrativa, le diffide in senso stretto non sono immediatamente lesive della sfera giuridica del destinatario, a differenza dei successivi provvedimenti sfavorevoli, e -come tali- non sono ritenute atti immediatamente impugnabili.
A diverse conclusioni si deve pervenire quando l’atto, comunque denominato, sia idoneo a produrre direttamente (immediatamente) effetti giuridici, facendo sorgere un obbligo prima non sussistente o assegnando in modo definitivo ad un bene o ad una condotta una nuova qualificazione giuridica o vincolando (anche solo per alcuni profili) l’amministrazione alla successiva adozione di atti sfavorevoli; tale è, ad esempio, la diffida a demolire opere abusive
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.05.2019 n. 984 - commento tratto da
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MASSIMA
1) Riferisce la ricorrente, attualmente in liquidazione, di avere esercitato sino al 21 dicembre 2012 l’attività di recupero di rifiuti inerti non pericolosi (operazioni R13, R3 ed R5) in un impianto ubicato in parte sul territorio del Comune di Besano (R13 ed R3) ed in parte sul territorio del Comune di Viggiù (R13 ed R5).
Alla scadenza dell’autorizzazione, avendo deciso di cessare l’attività, l’esponente ha presentato alla Provincia di Varese la comunicazione all’uopo prescritta per lo svolgimento di una campagna di attività, finalizzata allo smaltimento e recupero dei rifiuti ancora presenti sul sito, mediante vagliatura e triturazione con impianto mobile.
Conclusa con esito positivo tale campagna di attività, la ricorrente ha presentato alla Provincia di Varese una proposta di indagine ambientale preliminare, al fine di verificare l’eventuale contaminazione del sito, allegando relazione tecnica, rapporti di prova e report finale della campagna. La ricorrente ha, in sintesi, concluso che, stando ai rilievi svolti, i valori riscontrati risultavano conformi ai limiti di legge (di cui all’Allegato 5, Tabella 1, del titolo V, Parte IV del T.U. 152/2006); conseguentemente, essa ha richiesto alla Provincia lo svincolo della fideiussione a suo tempo prestata per il corretto ripristino dello status quo ante.
Al fine di riscontrare la richiesta della ricorrente, la Provincia ha -a sua volta- richiesto ai Comuni di Besano e di Viggiù di comunicare l’esistenza di eventuali motivi ostativi al predetto svincolo.
Ha, in un primo tempo, risposto soltanto il Comune di Besano, precisando che nulla ostava allo svincolo della polizza.
In assenza di riscontro ad opera della competente Provincia, Besano Ambiente ha ulteriormente sollecitato, da un lato, il Comune di Viggiù, a riscontrare la nota della Provincia, e, dall’altro, la stessa amministrazione provinciale, a svincolare la garanzia.
Soltanto con nota del 19/09/2014 il Comune di Viggiù ha risposto, preannunciando la sussistenza di un motivo ostativo, poiché la ricorrente avrebbe erroneamente ritenuto di applicare i limiti fissati dalla tabella 1, colonna B, dell’Allegato V, parte IV del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, dovendosi invece applicare i parametri di cui alla colonna A. Con la stessa comunicazione il Comune ha assegnato alla ricorrente un termine di 10 giorni per le osservazioni, decorso il quale ha preannunciato l’adozione del “provvedimento finale”.
A fronte delle osservazioni di parte ricorrente, il Comune di Viggiù, con nota del 15/10/2014, richiamando la nota del 19/09/2014, ha invitato Besano Ambiente al deposito del Piano di Caratterizzazione.
Con successiva nota del 24/06/2015 lo stesso Comune, richiamando la nota del 15/10/2014, ha diffidato la ricorrente alla presentazione del Piano, precisando che, in difetto, avrebbe effettuato la segnalazione all’AG per omessa bonifica.
Con ulteriore nota del 04/09/2015 il Comune, dopo avere specificato che “anche alla data di inizio attività di recupero di rifiuti autorizzata dalla Provincia di Varese la destinazione urbanistica era riconducibile all’agricolo” (ragion per cui i parametri applicabili erano quelli di cui alla citata Colonna A) ha ribadito “quanto nella nota prot. 4963 del 24.06.2015, altresì relativamente alla tempistica”.
...
5.2) Sulla eccezione d’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, sollevata dal resistente facendo leva sul carattere non provvedimentale degli atti impugnati, il Collegio osserva quanto segue.
La giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.01.2018, n. 62; TAR Veneto, III, 01.08.2016, n. 925) distingue tra diffide “in senso stretto” ed atti che, ancorché formalmente qualificati come diffide, sono tuttavia costitutivi di effetti giuridici sfavorevoli per i destinatari (come, ad esempio, gli “ordini”).
Le diffide in senso stretto «consistono nel formale avvertimento –indirizzato ad un soggetto (pubblico o privato), tenuto all’osservanza di un obbligo in base ad un preesistente titolo (legge, sentenza, atto amministrativo, contratto)- di ottemperare all’obbligo stesso. Esse, dunque, non hanno carattere novativo di tale obbligo e usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un termine dilatorio per l’adozione di provvedimenti sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari, i quali, nonostante l’intimazione, siano rimasti inosservanti del proprio obbligo» (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.01.2018, n. 62).
Ne consegue che,
proprio per il loro carattere ricognitivo di obblighi che l’amministrazione assume come preesistenti e per il fatto di non vincolare la successiva azione amministrativa, le diffide in senso stretto non sono immediatamente lesive della sfera giuridica del destinatario, a differenza dei successivi provvedimenti sfavorevoli, e -come tali- non sono ritenute atti immediatamente impugnabili (Cons. Stato, sez. V, 20.08.2015 n. 2215; Cons. Stato, sez. IV, 09.11.2005 n. 6257).
A diverse conclusioni si deve pervenire quando l’atto, comunque denominato, sia idoneo a produrre direttamente (immediatamente) effetti giuridici, facendo sorgere un obbligo prima non sussistente o assegnando in modo definitivo ad un bene o ad una condotta una nuova qualificazione giuridica o vincolando (anche solo per alcuni profili) l’amministrazione alla successiva adozione di atti sfavorevoli; tale è, ad esempio, la diffida a demolire opere abusive.
5.3) Nel caso di specie, l’atto di diffida impugnato (la nota prot. 4693 del 24.06.2015) adottato dal Comune di Viggiù, ha natura di diffida in senso stretto. Ed infatti:
   - in primo luogo, esso si pone in termini meramente ricognitivi di obblighi che, secondo lo stesso Comune, discendono a carico dell’interessata, in termini generali ed astratti, direttamente da una norma di legge, quale l’art. 242, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (richiamato nella nota prot. 6192 del 15.10.2014, a sua volta integralmente richiamata nel preambolo della diffida impugnata);
   - in secondo luogo, l’accertamento dell’inadempimento a tali obblighi ha carattere meramente preliminare rispetto alle definitive valutazioni di competenza (ex art. 242, commi 12 e 13, d.lgs. n. 152/2006) della Regione e della Provincia competenti. A tal fine, occorre osservare che la nota in esame non vincola di per sé Regione e Provincia all’adozione necessitata di conseguenti provvedimenti per il caso di superamento del termine indicato in diffida, poiché a tal fine è necessaria una nuova determinazione da parte di un organo diverso da quello che ha adottato la diffida medesima e che provvede solo dopo aver sentito in conferenza di servizi, all’uopo convocata, le amministrazioni di cui all’art. 242, comma 13, d.lgs. citato (nella specie, in forza dell’art. 5, comma 1, della legge regionale 27/12/2006, n. 30, come richiamata dalla Delib. G.R. Lombardia 24/01/2007, n. 8/4033, allegato 1, trattandosi di sito che ricade nel territorio di due Comuni, non ha luogo il trasferimento al Comune delle funzioni relative alle procedure operative e amministrative inerenti gli interventi di bonifica, ma si applicano le procedure operative ed amministrative di cui al Titolo V - parte quarta - del D.Lgs. n. 152/2006);
   - in terzo luogo, l’adozione dell’atto di diffida non priva in alcun modo l’amministrazione destinataria del potere, di cui alla norma statale da ultimo citata, di adottare gli atti di propria competenza.
5.4) Nel contesto così come innanzi descritto, la mera indicazione nell’atto di diffida di un termine puntuale per adempiere agli obblighi ritenuti sussistenti a carico della ricorrente non muta la natura dell’atto prot. 4693 (diffida in senso stretto), quale atto avente natura endoprocedimentale, non immediatamente lesivo. Si tratta peraltro, giova osservare ad abundantiam, di termine già ampiamente decorso al momento della proposizione del ricorso in epigrafe senza che alcun effetto giuridico sfavorevole si sia direttamente (immediatamente) prodotto nella sfera giuridica dell’istante.
Va, pertanto, ribadita l’inammissibilità dell’impugnazione rivolta avverso la predetta nota prot. 4693 del 24/6/2014.
6) A fortiori è inammissibile per difetto d’interesse, per le stesse considerazioni sin qui esposte, l’impugnazione in epigrafe, sia laddove si dirige alla nota prot. 5735 del 04.09.2015, mediante cui il Responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di Viggiù ha in sostanza ribadito la diffida del 24.06.2015, sia ove rivolta alla nota prot. 6192 del 15.10.2014, recante un mero “invito” al deposito del piano di caratterizzazione.
7) Per le suesposte considerazioni, quindi, il ricorso in epigrafe specificato è inammissibile.

PATRIMONIO: Cimiteri, illegittima la riserva agli islamici.
È illegittima la clausola di una convenzione con la quale un comune ha stabilito che nel reparto islamico del cimitero debbano essere accolti solo i defunti di quella religione, appositamente attestata da un Centro islamico.

Lo ha sancito il TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, con la sentenza 20.04.2019 n. 383.
Comune di Bergamo e Centro culturale islamico onlus avevano stipulato una convenzione che designava quest'ultima come assegnataria di un'area sulla quale essa avrebbe provveduto alla realizzazione del reparto cimiteriale riservato e separato, a sua cura e spese.
Tale convenzione prevedeva che il Centro si impegnasse ad accogliere nel proprio cimitero tutti i defunti di quella religione. In seguito, per fare fronte all'incremento della richiesta di sepolture islamiche, il comune aveva previsto l'inclusione nel reparto speciale islamico –appositamente ed opportunamente orientato e organizzato secondo le esigenze della liturgia coranica– di un'ulteriore area.
In occasione di tale ampliamento, però, il comune aveva parzialmente modificato il contenuto della convenzione, prevedendo che nel reparto islamico del cimitero venissero accolti tutti i defunti di quella religione con la preventiva attestazione della professione della fede islamica da parte del Centro culturale islamico di Bergamo. In mancanza dell'attestazione il comune avrebbe disposto l'ordinaria inumazione nel campo comune del cimitero di Bergamo.
Con ricorso alcune associazioni islamiche avevano subito impugnato tale modifica, che avrebbe violato i principi costituzionali relativi al diritto di libertà dell'espressione religiosa, subordinando la sepoltura nel settore islamico all'attestazione della fede islamica demandata a un soggetto privato quale l'Associazione centro culturale islamico onlus, senza, peraltro, fissare criteri o vincoli. Il Tar accoglie il ricorso.
Deve, infatti, ritenersi illegittima la clausola successivamente apposta dall'ente locale. In particolare il collegio ha osservato che tale clausola è in contrasto con i principi costituzionali che garantiscono la libertà di religione e della sua professione. Libertà che risulta chiaramente violata nel momento in cui la possibilità di accedere al rito funebre islamico per il deceduto è subordinata all'acquisizione, da parte dei parenti, di una certificazione attestante la fede islamica dello stesso, rilasciata da un soggetto privo di alcuna legittimazione in tal senso, trattandosi di una mera associazione privata (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019).

APPALTI: Esclusione, la 231 non basta.
Per escludere la società dalla procedura d'appalto non basta il rinvio a giudizio chiesto per la 231 laddove l'ex amministratore è accusato di corruzione e turbata libertà degli incanti. Risulta insufficiente la contestazione all'ente della responsabilità amministrativa non aver saputo adottare modelli adeguati a combattere il malaffare perché anche dopo il dl semplificazioni spetta sempre più alla stazione appaltante motivare il grave illecito professionale che legittima l'estromissione dalla gara.

Così la sentenza 18.04.2019 n. 897 del TAR Lombardia-Milano, Sez. I.
Nelle more il gip dichiara estinto l'illecito amministrativo contestato alla società, ma contro l'amministratore si apre il processo, nel quale peraltro lo stesso comune si costituisce parte civile.
Non c'è dubbio che anche di fronte alla richiesta del pubblico ministero l'amministrazione possa decidere di estromettere l'impresa dalla procedura, ma deve giustificare con un'adeguata spiegazione l'esercizio dei più ampi poteri discrezionali che le sono riconosciuti. Lo stesso dl semplificazioni che ha modificato l'art. 80 del codice appalti prevede la motivazione sul tempo trascorso dalla violazione oltre che sulla gravità della condotta.
Il punto di equilibrio fra concorrenza e trasparenza risulta spostato in favore delle amministrazioni pubbliche. Nella specie l'onere non viene adempiuto: nella comunicazione imposta dalla legge 241/1990 il comune esclude la società dai lavori di bonifica dell'area dall'amianto limitandosi a ricordare che pende il procedimento penale. L'ente locale non spiega perché i fatti contestati a società e amministratore integrino l'illecito professionale, ma nel verbale sottolinea che il reato addebitato è un grave delitto contro la pubblica amministrazione: un dato di fatto e non una motivazione.
È vero: il comune si trova a disagio perché l'impresa risulta indagata in una vicenda che lo coinvolge e intende agire per tutelare l'interesse pubblico. Ma la p.a. si appiattisce sull'indagine penale e sarebbe contro i principi di Costituzione e Cedu estromettere l'azienda senza che il gip si sia pronunciato sulle accuse. Spese compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2019).

TRIBUTIImpianti elettrici accatastabili. E tassabili. Comuni a caccia di nuove basi imponibili.
La crisi economica oramai decennale, insieme ai sempre minori trasferimenti da parte dello Stato, spinge gli enti locali, al fine di non aggravare il carico impositivo con maggiori aliquote nei confronti dei soggetti già stabilmente accertati quali contribuenti, a verificare la correttezza nei confronti di questi ultimi delle loro basi imponibili ma, soprattutto, a ricercarne di nuove.
Un esempio, al riguardo, è rappresentato dai soggetti proprietari di impianti, costituiti da cabine e reti per la distribuzione dell'energia elettrica i quali avrebbero dovuto includere nella stima di detti impianti gli elementi caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio, tale da realizzare un unico bene complesso, prescindendo dalla transitorietà di detta connessione (per esempio le ciminiere, le pompe, i ventilatori, le caldaie, le turbine).
Tali soggetti, approfittando di un contrasto giurisprudenziale (poi risolto dal dl 44/2005) e di prassi (risolto dalla circolare dell'Agenzia del Territorio n° 6/T del 30/11/2012), hanno spesso ritenuto di non essere tenuti a presentare alcuna dichiarazione di aggiornamento catastale al fine di includere nel classamento già accettato dall'Agenzia del Territorio gli elementi, sui quali non vi era la citata uniformità di prassi e di giudicato.
Già da alcuni anni, però, diversi enti locali hanno cercato di tradurre in base imponibile la rilevanza dell'insistenza su un'area di detti impianti (caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio accatastato) applicando un concetto già presente nel Regio decreto 652 del 1939, secondo il quale si considera unità immobiliare urbana ogni parte dell'immobile che di per sé stessa è utile a produrre un reddito proprio (autonomia funzionale e reddituale).
Questo ha portato alla formulazione di ricorsi contro le pretese impositive degli enti locali: dopo giudizi ondivaghi da parte dei magistrati tributari, un punto fermo sembra sia stato conseguito attraverso la sentenza 11.04.2019 n. 10125 della Corte di Cassazione, Sez. V civile, la quale ha stabilito che «il mancato accatastamento determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto irragionevole) esenzione dall'Ici, in contraddizione con il principio costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva capacità contributiva».
Pertanto bene ha fatto il comune, una volta constatata la rilevanza catastale degli impianti, a procedere con l'emissione degli avvisi di accertamento. E' comunque da sottolineare il fatto che i giudici hanno riconosciuto l'incertezza normativa: ciò ha comportato la non applicazione delle sanzioni.
Prima che si formasse tale orientamento da parte della Cassazione, tuttavia, è intervenuto il legislatore a ridurre l'impatto economico sugli operatori con la legge 208/2015 (cosiddetta «svuotaimpianti»), la quale prevede che la rendita degli opifici non debba comprendere gli impianti stabilmente infissi al suolo (cosiddetti «imbullonati»): in tal modo tale rendita viene significativamente ridotta.
Analogo contrasto in giurisprudenza e nella prassi, si ritrova a proposito della classificazione catastale di cave, miniere, saline, laghi, stagni da pesca e tonnare, che l'articolo 18 del Regio decreto 08.10.1931 n. 1572 esclude dalla stima fondiaria e che l'Agenzia del territorio, con nota prot. 75779 del 04.11.2008, ritiene debbano essere iscritte al catasto fabbricati in base a quanto disposto dall'articolo 2 del decreto ministeriale 28/1998: in esso si precisa che l'unità immobiliare è costituita da una porzione di fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da “un'area”, che, nello stato in cui si trova e secondo l'uso locale, presenta potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.
Appare pertanto utile che gli enti locali tentino di recuperare attraverso gli accertamenti tributari il gettito sinora non accertato su tutte queste fattispecie
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2019).
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MASSIMA
4. Il motivo è privo di pregio.
Occorre premettere che, come emerge dagli scritti difensivi e dalla stessa sentenza impugnata, la società Enel presentò la dichiarazione Docfa con riferimento ai soli edifici che contengono la centrale di produzione idroelettrica e, sulla base della rendita allora proposta, la società ricorrente versò l'imposta comunale per l'anno 2005, omettendo di versare l'imposta comunale per gli impianti e gli immobili serventi la centrale, non denunciati con la menzionata procedura.
In assenza di rendita attribuita sia pure provvisoriamente a detti impianti (sbarramento del Ba., area serbatoio Ba., canale di raccolta e area esterna), il criterio utilizzabile per determinare la base imponibile dell'Ici con riferimento a detti beni era quello fondato sul valore di bilancio alla stregua del disposto dell'art. 5 cit., secondo il quale la base imponibile Ici di immobili ad uso industriale, appartenenti al gruppo D, deve essere determinata attraverso il criterio del valore contabile ossia sull'ammontare al lordo delle quote di ammortamento che risulta dalle scritture contabili.
Sennonché, in mancanza della dedotta produzione da parte dell'Enel della documentazione contabile richiesta dall'amministrazione comunale, quest'ultima ha provveduto alla determinazione della rendita sulla base di una stima redatta da un professionista incaricato da Bim che ha determinato il valore adottando il criterio comparativo con immobili similari agli impianti non dichiarati, come consentito dal quarto comma dell'art. 5 cit., che è stato abrogato solo con la legge finanziaria n. 296/2006.
L'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504, stabilisce che, per i fabbricati non iscritti in catasto (diversi da quelli di cui al precedente comma 3), il valore va determinato "con riferimento alla rendita dei fabbricati similari già iscritti". Per la determinazione del valore degli immobili classificati in cat. D non iscritti e privi di rendita la mancanza della "distinta contabilizzazione in bilancio" non permette, difatti, il calcolo del valore secondo la previsione di cui all'art. 5, terzo comma, del d.lgs. n. 504 del 1992, ma consente solo l'applicazione della regola residuale ivi contenuta nell'art. 5, quarto comma, secondo la quale il valore ai fini I.C.I. deve essere stabilito con riferimento a fabbricati "similari" già iscritti in catasto (Cass. n. 6609/2013; Cass. n. 16916 del 2009).
Ed invero -quando trattasi di immobili classificati in cat. D non iscritti privi di rendita- deve esser riaffermato il principio per cui
deve ritenersi che il legislatore abbia inteso prevedere due criteri tra di loro subordinati. E cioè dapprima viene il cosiddetto criterio contabile ex art. 5, comma 3, d.lgs. n. 504 del 1992 e secondariamente il più generale criterio di cui all'art. 5, comma 4, stesso d.lgs. del calcolo della rendita a mezzo del confronto con immobili "similari" già censiti.
5. Quanto alla dedotta insussistenza del potere impositivo dell'ente comunale, in virtù dei commi 335 e 336 della l. n. 311 del 2004 e della l. n. 662 del 1996, art. 3, comma 58, alla stregua dei quali il comune richiede agli interessati la presentazione di atti di aggiornamento e se i soggetti interessati non ottemperano alla richiesta, gli uffici dell'Agenzia del territorio provvedono alla iscrizione in catasto dell'immobile non accatastato, si osserva quanto segue.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. nn. 5784, 10489 e 21532 del 2013; n. 11477/2018) dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi, il classamento può avvenire alternativamente o in forza della I. n. 662 del 1996, art. 3, comma 58, oppure ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, commi 335 e 336.
L'opposta interpretazione fa leva sulle disposizioni normative introdotte dall'art. 1, commi 337 e 336, della legge 30.12.2014 nr. 311 (finanziaria 2005) che avrebbero «definitivamente sancito la configurazione del sistema dei rapporti tra contribuente ed amministrazioni preposte alla determinazione delle rendite catastali nel senso che la deroga alla efficacia ex nunc degli atti di attribuzione e modificazioni delle rendite decorrente solo dalla loro notificazione, a cura dell'ufficio del territorio competente, ai soggetti intestatari della partita, ai sensi dell'art 74 - è prevista ai fine di sanzionare la renitenza all'obbligo di presentazione della denuncia catastale».
In realtà
le norme citate consentono ai Comuni di avvalersi motu proprio di uno strumento procedurale per promuovere l'adeguamento catastale alla reale situazione del patrimonio immobiliare al fine di garantire maggiore equità fiscale e contrastare fenomeni di evasione fiscale.
Ne consegue che,
come insegna questa Corte (cfr. Cass. 4336/2015), la disciplina di cui all'art. 1, commi 336 e 337, l. 311 del 2004 si applica nel caso in cui sia il Comune a richiedere ai titolari dei diritti reali la presentazione di atti di aggiornamento per immobili non dichiarati in catasto.
Nella fattispecie in esame non si verte nella suesposta ipotesi in quanto l'attribuzione catastale agli immobili di proprietà della società Enel non è avvenuta su richiesta del Comune secondo la procedura disciplinata dall'art. 1, comma 336, legge citata.
Nel caso di specie, come in quello considerato nella sentenza n. 19196 del 2006, il Comune «non si è affatto sostituito all'Ufficio competente nel potere a questi spettante di attribuzione della nuova rendita all'immobile», ma, constatata la rilevanza catastale degli impianti, si è mantenuto nell'esercizio dei suoi poteri di liquidazione e di accertamento dell'imposta, limitandosi a non riconoscere l'esenzione dei beni in questione (cfr. anche Cass. n. 1706/2016).
La disposizione che impone al comune l'obbligo di richiedere all'ufficio competente l'attribuzione della rendita nell'ipotesi di negligenza del contribuente, non esclude il potere del Comune di provvedere alla determinazione della rendita provvisoria ex art. 5 cit. L'omessa dichiarazione di taluni beni e il mancato accatastamento determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto irragionevole) esenzione dall'ICI, in contraddizione con il principio costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva capacità contributiva.
Alla luce del doveroso rispetto di siffatto principio,
l'omessa dichiarazione non può (e non poteva nemmeno prima del 2006) costituire un impedimento al riconoscimento della sua imponibilità, in particolare ove tale mancato accatastamento sia stato determinato da un'omissione del contribuente, che non abbia provveduto a denunciare al Catasto i cespiti (Cass. n. 19196 del 2006).
Nelle ipotesi di debenza dell'ICI a seguito di omessa presentazione della dichiarazione relativamente a immobili non iscritti in catasto, il Comune può procedere ad accertamento senza dover preventivamente chiedere l'atto di classamento all'Agenzia del Territorio (Cass. n. 15534 del 2010): né risulta, o viene dedotto, che vi sia stata una richiesta da parte della società contribuente di un accatastamento diverso da quello (o di una variazione di quello) sulla cui base agisce il Comune ai fini della determinazione della base imponibile. Sotto questo profilo non sussiste un difetto di legittimazione passiva del Comune.
Per tali ragioni anche detto motivo è infondato.
Per quanto attiene alla censura specifica relativa all'assenza di redditualità degli impianti, vale osservare che con l'articolo 1-quinquies del DL n. 44/2005 è stato disposto che "ai sensi e per gli effetti dell'art. 1, comma 2, della Legge n. 212/2000, l'art. 4 del regio decreto n. 652/1939, convertito con modificazioni dalla Legge 1249/1939,
limitatamente alle centrali elettriche, si interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della rendita catastale, ai sensi dell'art. 10 del citato regio decreto legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze dell'attività industriale di cui al periodo precedente anche se fisicamente non incorporati al suolo".
Tanto precisato, i giudici di legittimità hanno affermato che, in virtù di quanto disposto dal sopra menzionato articolo 1-quinquies (norma di natura strettamente interpretativa),
le centrali elettriche non possono escludere gli impianti mobili dal computo della rendita catastale ai fini dell'Ici, in quanto esse costituiscono una parte essenziale dell'impianto fisso, senza le quali verrebbe meno la classificabilità dell'unità immobiliare come centrale elettrica.
In buona sostanza, questa Corte ha ritenuto che
i serbatoi, le ciminiere, le pompe, i ventilatori, le caldaie, i canali sono elementi essenziali costitutivi del bene "centrale elettrica", ovvero impianti necessari al ciclo di produzione dell'energia elettrica, in quanto è "impossibile separare l'uno dall'altro senza la sostanziale alterazione del bene complesso... che non sarebbe più nel caso di specie, una centrale elettrica" (Cass. n. 24060/2006; n. 4030/2012), poiché anch'essi costituiscono una componente strutturale ed essenziale della centrale stessa, sicché questa senza quelle non potrebbe più essere qualificata tale, restando diminuita nella sua funzione complessiva ed unitaria ed incompleta nella sua struttura (v. Cass. n. 3354 del 2015).
Precisando, altresì, che "
In tema di classamento di immobili e con riferimento all'attribuzione della rendita catastale alle centrali idroelettriche, il D.L. 31.03.2005, n. 44, art. 1-quinquies convertito in L. 31.05.2005, n. 88, includendo nella stima gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio, tale da realizzare un unico bene complesso, e prescindendo dalla transitorietà di detta connessione nonché dai mezzi di unione a tal fine utilizzati, impone di tener conto, nel calcolo della rendita, anche del valore delle turbine, le quali si configurano come elementi essenziali della centrale, incorporati alla stessa e non separabili senza una sostanziale alterazione del bene complesso".
Tale disposizione, in quanto volta a dirimere un contrasto ermeneutico insorto relativamente alla situazione specifica delle centrali elettriche, non appare irragionevole né introduce un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri beni classificabili nel gruppo catastale D, tenuto conto della disomogeneità degl'immobili inclusi in tale categoria, né infine contrasta con il principio della capacità contributiva, la cui violazione non è prospettabile in riferimento alla determinazione della rendita catastale, che non costituisce un'imposta né un presupposto d'imposta (Cass. n. 13319 del 2006).
Questa impostazione ermeneutica è stata sostanzialmente seguita anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2008, allorché è stata investita della questione dì legittimità costituzionale del ricordato del D.L. 31.03.2005, n. 44, art. 1-quinquies.
In proposito, il giudice delle leggi ha affermato che "
il legislatore ha inteso risolvere il contrasto interpretativo con riferimento alle centrali elettriche (che si era determinato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione), senza innovare il concetto di immobile per incorporazione, quale emergente dalla normativa esistente ed evidenziato dalla giurisprudenza in precedenza richiamata. L'unico effetto (del D.L. 31.03.2005, n. 44, art. 1-quinquies) è quello di considerare immobili le centrali elettriche, senza alcuna possibilità per il giudice di fornire una diversa interpretazione, ma non anche quello di escludere dal novero degli immobili per incorporazione le altre costruzioni pure se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo. Tutte le infrastrutture diverse dai fabbricati delle centrali, come gallerie, pozzi, laghi, dighe, turbine, condotte etc., che non costituivano pertinenze delle stesse, sono beni da sottoporre ad imposizione".
6. Con la seconda censura, si lamenta violazione degli artt. 1 e 25 del R.D. 1775/1933 e dell'art. 18 del R.D. 08.10.1931, ex art. 360 n. 3 c.p.c., per avere i giudici territoriali escluso la rilevanza, ai fini impositivi, della gestione in concessione delle opere idrauliche, in quanto le norme citate escludono dalla stima fondiaria i laghi con superficie stabilmente occupata per la relativa industria, ragion per cui le opere idrauliche in questione non sono suscettibili di attribuzione di rendita catastale.
Deduce la ricorrente che le sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal suolo acquistano attitudine ad usi di pubblico interesse e quindi inglobati nelle acque pubbliche, il che consente il ritorno allo stato, al temine della concessione, delle opere di raccolta e di derivazione delle acque, degli adduttori delle acque.
7. Anche detta censura è priva di pregio.
Nel caso di specie,
le aree cd. "scoperte", lo sbarramento e il canale, risultano indispensabili al concessionario del bene demaniale per svolgere la propria attività imprenditoriale; ciò che conta ai fini ICI è che ogni area sia suscettibile di costituire un'autonoma unità immobiliare, potenzialmente produttiva di reddito.
In particolare, la censura riguarda l'insussistenza dei presupposti per l'imposizione tributaria ai fini ICI ex artt. 1 e 3 della legge 504 del 1992 perché i beni per i quali è stata rilevata l'omessa presentazione della dichiarazione ICI, in particolare gli impianti (sbarramento e area serbatoio Baghetto, canale raccolta e area esterna), attraverso i quali l'ente sfrutta in concessione le risorse idriche, appartengono al demanio dello Stato e non alla società concessionaria che non sarebbe quindi soggetto passivo di imposta.
9. Sennonché,
con la l. 1643/1962 le acque pubbliche sono state affidate ex lege in concessione all'Enel e secondo l'art. 18 legge 23/12/2000 nr. 388 in caso di concessioni su aree demaniali il concessionario di un bene è soggetto passivo ai fini del pagamento dell'imposta comunale sugli immobili, come espressamente prevede la norma. Pertanto appare corretto e dovuto il recupero dell'imposta ICI da parte del Comune sussistendone i presupposti impositivi.
Del resto, la CTR ha accertato, con valutazione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, che la concessione per derivare acqua non ha alcuna attinenza con le opere in questione.

EDILIZIA PRIVATADeve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
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A questo proposito, occorre rammentare che <<la precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera>>.
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
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Proprio con riferimento alle tettoie, è stato di recente affermato che deve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite (in questo senso, TAR Napoli, sez. III, 29/05/2018, n. 3545).
A questo proposito, peraltro, occorre rammentare che <<la precarietà di un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera>> (C. Stato, sez. IV, 26/09/2018, n. 5525; nello stesso senso, C. Stato, sez. VI, 11/01/2018, n. 150).
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (TAR Brescia, sez. I, 07/08/2018, n. 800)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Scadenza di un termine a ritroso nella giornata di sabato.
In base all’interpretazione più restrittiva alla quale aderisce il TAR Piemonte se un termine calcolato a ritroso cade di sabato, il termine ultimo è il venerdì precedente (se è un giorno lavorativo) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.03.2019 n. 354 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. – Va, preliminarmente, rilevata la tardività del deposito della memoria di replica effettuato dall’Azienda ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo in data 27.10.2018.
Invero, ai sensi dell'art. 73, comma 1, del codice del processo amministrativo, le parti possono produrre memorie di replica fin a venti giorni liberi prima dell'udienza (nel rito per gli appalti il termine è dimezzato).
Il termine dimezzato (di dieci giorni liberi prima dell’udienza), nel caso di specie, da parte dell’Azienda ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo, non è stato rispettato.
Invero, dieci giorni liberi prima dell’udienza pubblica fissata per il giorno 07.11.2018, vengono a coincidere con il 26.10.2018 (il 27.10.2018 infatti è un sabato e in base all’interpretazione più restrittiva alla quale aderisce questo Collegio se un termine calcolato a ritroso cade di domenica o di sabato, il termine ultimo sarà sempre il venerdì precedente (se è un giorno lavorativo) mentre, come sopra evidenziato, la memoria di replica è stata depositata solo in data 27.10.2018.
Di tale memoria non può, pertanto, tenersi conto ai fini della decisione.
La giurisprudenza è, difatti, concorde nel ritenere che i termini fissati dall'art. 73 comma 1, del codice del processo amministrativo, per il deposito di memorie difensive e documenti abbiano carattere perentorio, in quanto espressione di un precetto di ordine pubblico processuale posto a presidio del contraddittorio e dell'ordinato lavoro del giudice; sicché la loro violazione conduce all'inutilizzabilità processuale delle memorie e dei documenti presentati tardivamente, che vanno considerati tamquam non essent (Consiglio di Stato, sez. III, 25.03.2013, n. 1640; sez. IV, 15.02.2013, n. 916; sez. V, 13.02.2013, n. 860).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Trasformazione di un’area destinata a verde in un insediamento residenziale – Carattere di reato permanente – Perdurante attentato al bene giuridico protetto – Fattispecie.
La lottizzazione abusiva consistente nella trasformazione di un’area destinata a verde in un insediamento residenziale assume carattere di reato permanente quando va al contempo a confliggere con vincoli ambientali dovuti alla presenza di una risorsa naturale destinata dalla pubblica amministrazione all’uso pubblico oppure di vincoli connessi a ragioni di sicurezza pubblica. Il questi casi l’offesa tipica del reato di lottizzazione abusiva si rinnova fin tanto che persiste il vincolo e la situazioni di fatto che lo giustifica (nella fattispecie l’area lottizzata, destinata dal PRG a verde agricolo, era gravata da vincolo dovuto alla presenza di pozzi di acqua potabile, connessi alla rete dell’acquedotto comunale, ed inoltre gravata da vincolo aeroportuale).
Tale affermazione appare coerente col principio espresso nell’importante sentenza della Cassazione sez. III penale, n. 44836, dell’08.10.2018
(Pres Cavallo, Est. Di Nicola) secondo cui: “Il reato di lottizzazione abusiva è un reato di durata ed ha natura di reato progressivo nell’evento. Nondimeno, nella lottizzazione abusiva cosiddetta “materiale”, non sempre il reato si risolve e si consuma con la sola realizzazione di opere, in quanto la condotta lottizzatoria può perdurare ininterrottamente nel tempo, alla stessa stregua del reato permanente, allorché, indipendentemente dall’avvenuto completamento delle opere programmate ed eseguite, o da ulteriori condotte criminose del lottizzatore o di terzi, essa consenta, come nel caso in esame, l’uso o lo sfruttamento del territorio da parte di terzi, correlativamente impedendo o rendendo più difficoltoso la concreta fruizione del bene da parte della collettività, privata del verde pubblico e del servirsi dei parcheggi, secondo la destinazione impressa alla zona dalla pubblica amministrazione. In tale caso, la situazione antigiuridica innescata dall’iniziale condotta lottizzatoria si protrae nel tempo in considerazione del perdurante attentato al bene giuridico protetto dall’incriminazione, con la conseguenza che anche il solo mantenimento della situazione contra ius è, in tal caso, sufficiente a perpetuare e ad approfondire l’offesa”
  (TRIBUNALE di Palermo, Sez. III penale, sentenza 26.03.2019 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAScia, 18 mesi per contestare le opere.
Diciotto mesi è il termine entro cui il privato controinteressato può chiedere all'amministrazione di verificare la legittimità delle opere edilizie realizzate a seguito di una Scia (segnalazione certificato inizio attività).
È stata la Corte costituzionale con sentenza 13.03.2019 n. 45 a risolvere la complessa vicenda della mancanza di un termine indicato nella norma che consente al privato (art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990), di chiedere all'amministrazione di sanzione le opere realizzate con una Scia.
Il Tar Toscana aveva sollevato la questione di costituzionalità di questa norma per violazione non solo degli artt. 3, 11, 97 e 117 della Costituzione ma anche dell'art. 1 del protocollo addizionale alla Cedu, perché sarebbe comunque necessario un termine. La Corte costituzionale, facendo comunque salva la discrezionalità del legislatore, ha tuttavia ritenuto di avvalersi di una pronuncia additiva di principio che, senza invadere la sfera riservata al legislatore, fornisce comunque uno strumento per dare una soluzione costituzionalmente corretta alla lettura di una determinata norma.
La Corte ha così ritenuto che trova comunque sempre applicazione il termine dell'esercizio della tutela di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, che dispone appunto un termine massimo di 18 mesi dal titolo abilitativo in quanto deve essere necessariamente essere salvaguardato il principio di tutela dell'affidamento del soggetto che ha presentato la Scia e realizzato i lavori, perché non può essere esposto sine die al rischio dell'inibizione della relativa attività edificatoria oggetto di Scia.
Questo termine certo di 18 mesi, ritiene la Corte, è richiamato dall'art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 in quanto è norma generale secondo cui le verifiche cui è chiamata l'amministrazione in ordine alla Scia devono essere esercitate entro i 60 gg. o 30 dalla presentazione della Scia stessa e poi entro i successivi 18 mesi (art. 19, comma 4, che rinvia all'art. 21-nonies della legge n. 241/1990), per l'eventuale contestazione anche da parte di terzi.
Decorsi questi termini, la situazione soggettiva di colui che ha presentato la Scia si consolida definitivamente nei confronti dell'amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo controinteressato. Quest'ultimo, infatti, è pur sempre titolare dell'interesse legittimo pretensivo all'esercizio del controllo amministrativo e, quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l'interesse si estingue.
Restano, ovviamente, sempre salvi i casi di dichiarazioni mendaci o false attestazioni in relazione alle quali si può trovare applicazione del termine dei 18 mesi (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2019).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione a chiedere il titolo edilizio per opere finalizzate alla gestione di un servizio riservato per legge a determinati soggetti.
L’art. 11 del DPR 380/2001 stabilisce che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Tale legittimazione, che vale anche per gli altri titoli edilizi previsti dalla normativa nazionale e regionale, non trova limite nel fatto che le opere edilizie siano finalizzate alla gestione di un servizio che la legge riserva solo a determinati soggetti in quanto lo jus aedificandi non si confonde con lo jus utendi, fruendi et abutendi del bene realizzato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.03.2019 n. 519 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2. Venendo al merito, il primo motivo di ricorso è infondato.
L’art. 11 del DPR 380/2001 stabilisce che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Tale legittimazione vale anche per gli altri titoli edilizi previsti dalla normativa nazionale e regionale, come si rileva dal successivo art. 23, comma 1.
Essa inoltre non trova limite nel fatto che le opere edilizie siano finalizzate alla gestione di un servizio che la legge riserva solo a determinati soggetti in quanto lo jus aedificandi non si confonde con lo jus utendi, fruendi et abutendi del bene realizzato.
Ne consegue che la controinteressata, in qualità di soggetto attuatore del piano, ben poteva chiedere di realizzare edifici destinati a servizi facenti parte di altri settori economici, riferendosi l’art. 42, comma 1, del regolamento regionale n. 6 del 2004 al diverso ambito dell’organizzazione ed erogazione dei servizi per il commiato.

EDILIZIA PRIVATA: La SCIA e la DIA non vanno impugnate nel termine decadenziale, quasi fossero un provvedimento amministrativo, ma l’unica tutela riconosciuta dalla legge ai terzi che si ritengano lesi dai lavori iniziati a seguito di una segnalazione certificata di inizio attività o di una denuncia o dichiarazione di inizio attività è quella di sollecitare l’utilizzo dei poteri inibitori del Comune, che le ricorrenti hanno effettivamente richiesto, e poi impugnare l’atto di vigilanza comunale se non favorevole (v. art. 19, co. 6-ter, legge 07.08.1990, n. 241).
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1. Per quanto riguarda le eccezioni pregiudiziali, esse sono infondate.
Il fatto che anche le ricorrenti abbiano sottoscritto la convenzione urbanistica per l’attuazione del Piano di recupero non costituisce una causa escludente la legittimazione ma, al contrario, il titolo per chiederne la corretta applicazione.
Deve escludersi anche la tardività dell’azione in quanto la SCIA e la DIA non vanno impugnate nel termine decadenziale, quasi fossero un provvedimento amministrativo, ma l’unica tutela riconosciuta dalla legge ai terzi che si ritengano lesi dai lavori iniziati a seguito di una segnalazione certificata di inizio attività o di una denuncia o dichiarazione di inizio attività è quella di sollecitare l’utilizzo dei poteri inibitori del Comune, che le ricorrenti hanno effettivamente richiesto, e poi impugnare l’atto di vigilanza comunale se non favorevole (v. art. 19, co. 6-ter, legge 07.08.1990, n. 241).
Pertanto, il fatto stesso che l’Amministrazione si sia nella fattispecie pronunciata sull’istanza delle ricorrenti –quale che sia il termine entro il quale quell’istanza era stata presentata– dà di per sé loro titolo ad impugnare l’atto sfavorevole emesso dall’ente locale.
Le eccezioni di rito vanno quindi respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.03.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sul piano civilistico, con la convenzione di lottizzazione i proprietari dei terreni interessati alla urbanizzazione pongono in essere un negozio di consorzio urbanistico volontario -con assunzione delle obbligazioni a fini organizzativi e con costituzione degli effetti reali necessari per conferire al territorio l'assetto giuridico conforme al progetto approvato dalla amministrazione- il quale consorzio, come tale, è assoggettato alla disciplina della comunione dettata dal codice civile, in proporzione alle relative quote ex art. 1101, comma 2.
In particolare, si tratta di “negozio (interno) di costituzione di un consorzio urbanistico volontario.
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2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.08.2011 n. 4576) ha chiarito che “Sul piano civilistico, con la convenzione di lottizzazione i proprietari dei terreni interessati alla urbanizzazione pongono in essere un negozio di consorzio urbanistico volontario -con assunzione delle obbligazioni a fini organizzativi e con costituzione degli effetti reali necessari per conferire al territorio l'assetto giuridico conforme al progetto approvato dalla amministrazione- il quale consorzio, come tale, è assoggettato alla disciplina della comunione dettata dal codice civile, in proporzione alle relative quote ex art. 1101, comma 2”. In particolare, si tratta di “negozio (interno) di costituzione di un consorzio urbanistico volontario” (così Cass. civ. Sez. I, 26/04/2010, n. 9941).
Il carattere meramente interno della ripartizione delle quote comporta che la ripartizione delle stesse non condiziona la validità degli atti autorizzatori comunali e che la sua violazione produce effetti solo tra le parti del consorzio urbanistico.
Infatti è da escludere che la violazione di tale ripartizione violi l’interesse pubblico al corretto sviluppo urbanistico della città che il Comune persegue con il rilascio dei titoli edilizi.
Per quanto riguarda poi l’individuazione delle c.d. attività compatibili (piccoli interventi commerciali e/o di terziario, come studi professionali, attività sportive e ricreative, attività commerciali legate all’agriturismo) e la loro localizzazione (distribuite in modo omogeneo per ogni edificio e collocate in linea generale al piano terra dei fabbricati), è chiaro che la previsione ha un carattere meramente indicativo/descrittivo e non reca i parametri stringenti che le ricorrenti invocano, sì da residuare un significativo margine di autonomia ai vari soggetti in sede di attuazione del piano.
Il primo profilo del motivo va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.03.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la natura dell’attività esercitata nella c.d. "Casa del commiato", si tratta di una prestazione di servizi.
Tale attività, alla luce delle destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti indicate dall’art. 23-ter del DPR 380/2001, è compatibile con la destinazione d’uso commerciale, essendo notorio che l’attività commerciale in genere comprende la prestazione di servizi.
Da ultimo occorre specificare che la "Casa del commiato" non è destinata alla tumulazione ma ai servizi funerari di accompagnamento delle salme, con la conseguenza che non appare manifestamente incompatibile con la funzione residenziale delle aree limitrofe e con le altre funzioni ammesse nel comparto, salvi i circoscritti limiti legati alle distanze.
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Ugualmente deve dirsi per quanto riguarda la contestata violazione del regime della comunione tra i soggetti attuatori in quanto, come sopra indicato, non rileva in questa sede se sia stata effettivamente violata la proporzione tra le relative quote, purché risultino rispettate le soglie di volumetria/s.l.p. previste dal piano.
Per quanto poi si riferisce alla natura dell’attività esercitata nella c.d. "Casa del commiato", si tratta di una prestazione di servizi. Infatti l’art. 42 del Regolamento regionale 09.11.2004, n. 6 stabilisce che 1. I soggetti autorizzati allo svolgimento di attività funebre possono realizzare e gestire propri servizi per il commiato. A sua volta il c. 6 stabilisce che il gestore della sala per il commiato trasmette al comune il tariffario delle prestazioni concernenti i servizi per il commiato.
Tale attività, alla luce delle destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti indicate dall’art. 23-ter del DPR 380/2001, è compatibile con la destinazione d’uso commerciale, essendo notorio che l’attività commerciale in genere comprende la prestazione di servizi.
L’impossibilità di equiparare la "Casa del commiato" ad una destinazione d’uso illecita comporta poi che è irrilevante stabilire se le altre parti lo avessero saputo oppure no.
Per quanto attiene alla quantificazione della slp residua, deve escludersi che le ricorrenti abbiano subito un danno dalla realizzazione della Casa del Commiato in quanto non risulta provata la saturazione dell’attività commerciale e l’impossibilità di convertire volumetria residenziale in commerciale. Il Comune ha infatti evidenziato che tutte le richieste delle ricorrenti sono state soddisfatte.
Da ultimo occorre specificare che la "Casa del commiato" non è destinata alla tumulazione ma ai servizi funerari di accompagnamento delle salme, con la conseguenza che non appare manifestamente incompatibile con la funzione residenziale delle aree limitrofe e con le altre funzioni ammesse nel comparto, salvi i circoscritti limiti legati alle distanze.
Peraltro l’Amministrazione ha ragionevolmente evidenziato che “il fabbricato destinato a Casa del Commiato ha un corpo di fabbrica isolato, e posto ad una distanza dagli edifici più vicini dei rispettivi ricorrenti > di 35/40 m. e inoltre risulta marginale al rimanente contesto residenziale del Piano di Recupero” (in questi termini la nota del 18.02.2016).
In definitiva quindi il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.03.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Apertura buste telematiche in seduta non pubblica.
La mancata apertura delle buste telematiche in seduta pubblica non comporta la violazione dei principi di trasparenza e pubblicità codificati negli artt. 4 e 30 del Dlgs. 50/2016.
Per il TAR, nella fattispecie, la stazione appaltante si è comportata correttamente, in quanto la lettera di invito aveva previsto la trasmissione delle buste (amministrativa ed economica) in via telematica, su piattaforma Sintel.
Queste modalità di trasmissione sono assistite, secondo il collegio, da garanzie oggettive fornite da operatori esterni alla stazione appaltante e dunque sono per sé idonee a escludere la possibilità di manipolare il contenuto delle offerte, una volta pervenute alla stazione appaltante, senza lasciare tracce informatiche.
Di conseguenza, non è necessario, e costituirebbe anzi un inutile aggravio procedurale, aggiungere ulteriori adempimenti, a maggior ragione se si tratta di precauzioni pensate in origine per salvaguardare il contenuto di plichi cartacei
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.02.2019 n. 152 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Sull’integrazione dell’offerta
18. Non è possibile superare la mancata previsione di una delle prestazioni necessarie per il corretto svolgimento del servizio. Il problema non è evidentemente il solo costo aggiuntivo da sommare al resto della spesa, ma l’assunzione dell’obbligo giuridico di erogare la prestazione omessa. Un atto d’obbligo formulato a posteriori con effetto sanante non sarebbe solo chiarificatore, ma equivarrebbe a una modifica dell’offerta. Se tale opportunità fosse concessa, vi sarebbe un trattamento privilegiato rispetto ai concorrenti che hanno fin dall’inizio impostato le loro offerte nel senso voluto dalla stazione appaltante.
19. La procedura di verifica di anomalia ex art. 97 del Dlgs. 50/2016 non può trasformarsi in uno strumento di convalida delle offerte incomplete attraverso la dimostrazione della sostenibilità economica delle stesse, una volta integrate con i contenuti giuridici mancanti. Il fatto che nello specifico l’incompletezza dell’offerta del RTI Se. sia stata individuata nella procedura di verifica di anomalia (così qualificata nella deliberazione del direttore generale n. 1631/2018, punto 8) è quindi irrilevante.
20. In concreto, si possono presentare situazioni variegate. Nelle fattispecie al confine tra integrazione e chiarimento, ad esempio, si potrebbero aggiungere all’offerta gli elementi mancanti che abbiano un costo oggettivo stabilito da un’autorità pubblica o da un soggetto imparziale.
21. Nel caso in esame, tuttavia, non solo si può osservare un’omissione che richiederebbe una vera e propria integrazione dell’offerta, per sé problematica, come si è visto sopra, ma mancano anche dei parametri che consentano di condurre in modo oggettivo la prova di resistenza sul costo delle prestazioni.
La quantificazione della spesa per una singola guardia medica in 30 €/ora, infatti, è una semplice ipotesi di Se. 2000 So.Co.So., oltretutto elaborata (v. doc. 19) a partire dal compenso orario per la reperibilità (3 €/ora) e dal gettone per i singoli accessi alla struttura ospedaliera (50 €/intervento).
Mancano statistiche attendibili che rendano omogenei i dati, e verifiche provenienti da un’autorità pubblica o da un soggetto imparziale. Occorre poi sottolineare che la voce “Spese generali e utile di impresa” non è interamente a disposizione della scomposizione e ricomposizione dei costi dell’offerta, in quanto una provvista ragionevole deve sempre rimanere integra per le spese generali, e occorre inoltre che sopravviva in qualche misura anche l’utile di impresa.
Sul criterio di aggiudicazione
22. La scelta del criterio del minor prezzo ai sensi dell’art. 95, comma 4, del Dlgs. 50/2016 è coerente con l’urgenza alla base della gara e con il carattere standardizzato delle prestazioni richieste.
Poiché la gara non è finalizzata a individuare il concessionario dell’intera UO di Riabilitazione ma un fornitore di prestazioni medico-infermieristiche, con alcune attività accessorie, e poiché le prestazioni medico-infermieristiche devono essere conformi a protocolli omogenei allo scopo di tutelare la salute dei pazienti, non vi sono i presupposti per chiedere ai concorrenti l’elaborazione di un’offerta tecnica.
L’aggiudicazione è necessariamente determinata dall’abbattimento del costo del lavoro, che la stessa stazione appaltante nella lettera di invito indica come la voce di spesa di gran lunga prevalente.
23. Il fatto che si tratti di un appalto di servizi sanitari non modifica la realtà sostanziale, e dunque non impone l’applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’art. 142, comma 5-septies, del Dlgs. 50/2016 in mancanza di una qualsiasi utilità per la stazione appaltante. Non è ragionevole aggravare la procedura di gara cercando di individuare il miglior rapporto qualità/prezzo se, per la specificità delle prestazioni richieste, il numeratore è fisso per tutti i concorrenti.
24. Parimenti, il fatto che vi sia un’alta intensità di manodopera non fa ricadere automaticamente l’appalto tra quelli che richiedono particolari protezioni ai sensi dell’art. 50 del Dlgs. 50/2016. Nel caso in esame, la competizione avviene in effetti sul costo del lavoro, ma, viste le professionalità coinvolte, non nella parte più bassa della curva delle retribuzioni. Non vi è quindi alcuna ragione per adottare il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa come forma tutela preventiva dei lavoratori.
Sull’apertura delle buste telematiche
25. Per quanto riguarda la mancata apertura delle buste telematiche in seduta pubblica, si ritiene che tale circostanza non comporti la violazione dei principi di trasparenza e pubblicità codificati negli artt. 4 e 30 del Dlgs. 50/2016.
26. In realtà, la stazione appaltante si è comportata correttamente, in quanto la lettera di invito aveva previsto la trasmissione delle buste (amministrativa ed economica) in via telematica, su piattaforma Sintel.
Queste modalità di trasmissione sono assistite da garanzie oggettive fornite da operatori esterni alla stazione appaltante, e dunque sono per sé idonee a escludere la possibilità di manipolare il contenuto delle offerte, una volta pervenute alla stazione appaltante, senza lasciare tracce informatiche.
Di conseguenza, non è necessario, e costituirebbe anzi un inutile aggravio procedurale, aggiungere ulteriori adempimenti, a maggior ragione se si tratta di precauzioni pensate in origine per salvaguardare il contenuto di plichi cartacei.

URBANISTICAIn giurisprudenza si tende a escludere la possibilità di configurare posizioni di controinteressato al ricorso giurisdizionale proposto contro atti di pianificazione generale, atteso che l'interesse qualificato, che costituisce la premessa per il riconoscimento della posizione di controinteressato, deve essere espressamente tutelato dal provvedimento ed oggettivamente percepibile come un vantaggio, indipendentemente dall'interesse perseguito dal ricorrente, e tali requisiti non ricorrono nel caso dello strumento urbanistico generale, poiché la sua funzione esclusiva è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dalle posizioni dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o svantaggi che ad essi possono derivare dalla pianificazione, salvo i possibili casi di titolarità di posizioni differenziate, autonomamente individuabili e tutelabili.
Tuttavia, la regola generale sopra enunciata, secondo cui nel caso d’impugnazione di atti di pianificazione urbanistica, rivestendo essi natura di atti generali, non vi sono controinteressati dal punto di vista formale, subisce un'eccezione quando sia impugnato un piano o una variante urbanistica avente un oggetto circoscritto, nonché nei casi in cui sia evidente l'esistenza di posizioni specifiche in capo a soggetti interessati al mantenimento dell'atto, che determinano la loro qualità di controinteressati.
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7.1. In giurisprudenza si tende a escludere la possibilità di configurare posizioni di controinteressato al ricorso giurisdizionale proposto contro atti di pianificazione generale, atteso che l'interesse qualificato, che costituisce la premessa per il riconoscimento della posizione di controinteressato, deve essere espressamente tutelato dal provvedimento ed oggettivamente percepibile come un vantaggio, indipendentemente dall'interesse perseguito dal ricorrente, e tali requisiti non ricorrono nel caso dello strumento urbanistico generale, poiché la sua funzione esclusiva è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dalle posizioni dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o svantaggi che ad essi possono derivare dalla pianificazione, salvo i possibili casi di titolarità di posizioni differenziate, autonomamente individuabili e tutelabili (C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 914/2017, C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 4092/2015).
Deve, infatti, ricordarsi in proposito che, secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa condiviso dal Collegio, la regola generale sopra enunciata, secondo cui nel caso d’impugnazione di atti di pianificazione urbanistica, rivestendo essi natura di atti generali, non vi sono controinteressati dal punto di vista formale, subisce un'eccezione quando sia impugnato un piano o una variante urbanistica avente un oggetto circoscritto, nonché nei casi in cui sia evidente l'esistenza di posizioni specifiche in capo a soggetti interessati al mantenimento dell'atto, che determinano la loro qualità di controinteressati (così, ad es., C.d.S. Sez. III, sentenza n. 652/2017; TAR Marche, sentenza n. 549/2016; TAR Genova, sentenza n. 578/2016; TAR Piemonte, sentenza n. 1326/2015; TAR Toscana, sentenza n. 1406/2014; TAR Molise, sentenza n. 469/2013, TAR Sardegna, sentenza. n. 959/2913; TAR Piemonte, sentenza n. 3734/2010) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 13.02.2019 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare l’ammissione ad una gara d’appalto.
La disposizione di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. –ai sensi del quale il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11- non implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell'atto (o in mancanza di pubblicazione di un autonomo atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante) il termine decorre, comunque, dal momento dell'intervenuta piena conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a patto che l’interessato sia in grado di percepire i profili che ne rendano evidente la lesività per la propria sfera giuridica in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale.
Nella decisione il Collegio dà atto della presenza di un opposto orientamento, secondo cui la pubblicazione degli atti della procedura, ai sensi dell’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, è incombente necessario riservato alla stazione appaltante, che non può surrogare la comunicazione “ufficiale” in seduta pubblica, pur se avvenuta alla presenza dei rappresentanti delle imprese, ma non ritiene che il principio generale della piena conoscenza dell’ammissione di ditte concorrenti venga in realtà derogato dalle disposizioni sopra richiamate
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.02.2019 n. 947 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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L’art. 120, comma 2-bis, del c.p.a. prevede che: “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11”.
Risponde a quanto documentato negli atti di causa la versione dei fatti fornita dall’appellante, ovverosia che vi è stata prima la fase di ammissione che si è conclusa il 25.09.2017 e quindi quella della valutazione delle offerte chiusasi l’11.12.2017; il 22 settembre, in presenza di rappresentanti di alcune delle concorrenti, tra questi segnatamente An.Vu. e Pa.Ma. per l’a.t.i. Vu.Ta., sono state aperte le buste A relative alla documentazione amministrativa relativa ai requisiti soggettivi e pubblicato il relativo contenuto, passaggio necessario per l’ammissione all’esame delle buste B e C, offerta tecnica ed offerta economica e quindi la seduta è stata aggiornata al 25 settembre successivo nella quale la documentazione presentata è stata riconosciuta completa e conforme con la conseguente ammissione alla fase di esame dell’offerta per quattro concorrenti, tra cui l’a.t.i. Fe..
Tali determinazioni sono state suggellate con la decisione di procedere all’esame delle offerte delle concorrenti ammesse e ciò sempre in presenza di An.Vu. e An.Vi., rappresentanti ufficiali dell’a.t.i. Vu.Ta..
Ora, l’unico motivo del ricorso introduttivo dell’a.t.i. Vu.Ta. consisteva nella contestazione nei confronti dell’aggiudicataria di aver presentato corredata da cauzione provvisoria, prestata dalla Ma.Fi.Ca. s.p.a., non più iscritta nell’elenco speciale di cui all’articolo 106 del d.lgs. 01.09.1993, n. 385 (TUB), abilitato a prestare, in via esclusiva o prevalente, garanzie nei confronti del pubblico, ai sensi del DM n. 53/2015, così come invece richiesto, a pena di esclusione, tra le “Condizioni di partecipazione” al punto “III.1.6).
Tale situazione è necessariamente emersa nelle sedute di commissione del 22 e del 25.09.2017 ai rappresentanti della Vu.Ta. al momento della pubblicazione dei contenuti delle buste A delle concorrenti e costoro erano pienamente al corrente della situazione della Ma.Fi.Ca. s.p.a. secondo quanto emerge dalla nota del 19.03.2018 della stessa Ma., nota depositata agli atti del ricorso di primo grado, in cui la Ma. lamentava oltre al mancato pagamento da parte della Vu.Ta. di una serie di polizze ad essa rilasciate, anche delle doglianze della Vu. nel ricorso al Tribunale amministrativo napoletano avverso l’aggiudicazione ad a.t.i. capeggiato da Fe. nella gara de quo, fondato unicamente sulla mancanza di autorizzazione della Ma. ad emettere cauzioni, a fronte di un rapporto di prestazioni di garanzie tra Vu. e Ma. che procedeva da almeno due anni, ivi compresa cauzione provvisoria per l’appalto identico a quello in causa per il periodo immediatamente precedente.
Dunque, se non fossero state sufficienti le presenze dei rappresentanti della Vu. alle predette sedute, da quest’ultima nota emerge che quanto rappresentato dalla Vu. era in piena conoscenza di questa ed andava contestato, ammessa e non concessa la fondatezza delle tesi, nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo e non successivamente all’aggiudicazione.
Come già argomentato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St. n. 1843 del 2018; Cons. St. 5870 del 2017), la disposizione in parola non implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell'atto -o, per quanto qui interessa, in mancanza di pubblicazione di un autonomo atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante- il termine decorre, comunque, dal momento dell'intervenuta piena conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a patto che l’interessato sia in grado di percepire i profili che ne rendano evidente la lesività per la propria sfera giuridica in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale.
In altri termini, “la piena conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua pubblicazione sul profilo telematico della stazione appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e determina la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso” (Cons. St. 5870 del 2017).
Ciò sulla scorta generale di quanto precisato dall’Adunanza plenaria con la pronuncia n. 4 del 26.04.2018, secondo cui la previsione di cui all’art. 120, comma 2-bis, è finalizzata a consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione.
Il legislatore ha quindi inteso evitare che con l’impugnazione dell’aggiudicazione possano essere fatti valere vizi attinenti alla fase della verifica dei requisiti di partecipazione alla gara, il cui eventuale accoglimento farebbe regredire il procedimento alla fase appunto di ammissione, con grave spreco di tempo e di energie lavorative, oltre al pericolo di perdita di eventuali finanziamenti, il tutto nell’ottica dei principi di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di proporzionalità del procedimento di gara.
Tale norma pone evidentemente un onere di immediata impugnativa dei provvedimenti in questione, a pena di decadenza, non consentendo di far valere successivamente i vizi inerenti agli atti non impugnati; l’omessa attivazione del rimedio processuale entro il termine preclude al concorrente la possibilità di dedurre le relative censure in sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, ovvero di paralizzare, mediante lo strumento del ricorso incidentale, il gravame principale proposto da altro partecipante avverso la sua ammissione alla procedura
Perciò non può che concludersi che le circostanze ventilate che a parere dell’appellata avrebbero dovuto determinare l’esclusione dell’a.t.i. Fe. dovevano ritenersi note non oltre la seduta del 25.09.2017 quale termine ultimo, in cui si è chiuso l’esame della busta A concernente la documentazione amministrativa, formalmente riconosciuta l’ammissione dei concorrenti asseritamente in regola e deciso di procedere all’apertura delle buste tecniche e successivamente economiche.
Il Collegio conosce i precedenti in senso contrario, ripresi nella sentenza impugnata, secondo cui la pubblicazione degli atti della procedura, ai sensi dell’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 5 bis del d.lgs. 07.03.2005 n. 82, è incombente necessario riservato alla stazione appaltante, che non può surrogare la comunicazione “ufficiale” in seduta pubblica, pur se avvenuta alla presenza dei rappresentanti delle imprese, ma non ritiene che il principio generale della piena conoscenza dell’ammissione di ditte concorrenti venga in realtà derogato, soprattutto alla luce degli elementi che hanno caratterizzato la vicenda in esame ora passati in rassegna.
E la specificazione contenuta già nel bando di gara secondo cui la cauzione provvisoria era da costituirsi all’atto della presentazione dell’offerta, non lascia spazio a differenti interpretazioni sulla sua natura di requisito essenziale di partecipazione, visto che il disciplinare stabiliva l’esclusione dalla gara in caso di mancata costituzione (per tutte, Cons. Stato, VI, 09.07.2018 n. 4180).

EDILIZIA PRIVATA- la nozione di “pertinenza urbanistica” può sostenersi riguardo ad un’opera sfornita di autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di volume e cubatura e comunque dotata di un volume minimo;
   - come già accennato, la nozione amministrativa di pertinenza è divergente dall’accezione civilistica di pertinenza e più ristretta di quest’ultima, essendo circoscritta a quei manufatti che non alterano in modo significativo l’assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono;
   - in altre parole, per giurisprudenza costante la nozione di pertinenza urbanistica, assoggettata ad un regime edilizio alquanto semplice e favorevole, concerne solo opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale, come i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, e non può riguardare opere le quali, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, possano avere una loro autonomia rispetto all’opera principale.
Pertanto, non può parlarsi di pertinenza sotto il profilo urbanistico, ove le dimensioni e la destinazione dell’opera ne mettano in luce l’autonoma rilevanza anche funzionale dal punto di vista edilizio.
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   - osserva, tuttavia, il Collegio che il cd. "fabbricatino” adibito a garage ha caratteristiche dimensionali e volumetriche (superficie coperta di mq. 45,44, pari a mt. 6,4 X 7,10; altezza di mt. 2,30; cubatura di mc. 104,51) tali da escludere che lo stesso possa essere qualificato come “pertinenza”.
Ed invero, secondo la giurisprudenza, la nozione di “pertinenza urbanistica” può sostenersi riguardo ad un’opera sfornita di autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di volume e cubatura e comunque dotata di un volume minimo (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 23.03.2016, n. 1521; id., Sez. II, 02.07.2004, n. 9876);
   - come già accennato, la nozione amministrativa di pertinenza è divergente dall’accezione civilistica di pertinenza e più ristretta di quest’ultima, essendo circoscritta a quei manufatti che non alterano in modo significativo l’assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono (TAR Piemonte, Sez. I, 04.09.2009, n. 2247);
   - in altre parole, per giurisprudenza costante la nozione di pertinenza urbanistica, assoggettata ad un regime edilizio alquanto semplice e favorevole, concerne solo opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale, come i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici, e non può riguardare opere le quali, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, possano avere una loro autonomia rispetto all’opera principale.
Pertanto, non può parlarsi di pertinenza sotto il profilo urbanistico, ove le dimensioni e la destinazione dell’opera ne mettano in luce l’autonoma rilevanza anche funzionale dal punto di vista edilizio (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 30.06.2014, n. 487; TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 05.11.2008, n. 4473; cfr., altresì, C.d.S., Sez. V, 28.04.2014, n. 2196, che sottolinea che il manufatto deve essere di dimensioni ridotte e modeste, affinché sia configurabile come pertinenza sotto il profilo urbanistico) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.01.2019 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di autorimesse e di parcheggi non ubicati totalmente al di sotto del piano naturale di campagna è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie costruzioni fuori terra.
Invero, “la realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 122 del 1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell’originario piano naturale di campagna. Qualora, invece, non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G.”.

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   - né, in proposito, può richiamarsi –come fa la ricorrente– l’art. 9 della l. n. 122/1989, atteso che la realizzazione di autorimesse e di parcheggi non ubicati totalmente al di sotto del piano naturale di campagna è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie costruzioni fuori terra (C.d.S., Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 21.12.2013, n. 964).
Ancora di recente si è affermato che “la realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 122 del 1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell’originario piano naturale di campagna. Qualora, invece, non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G.” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 31.01.2018, n. 274) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.01.2019 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn assenza di una definizione normativa, la nozione di "sagoma" è stata costantemente identificata con la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero con il contorno che viene ad assumere l'edificio con ogni punto esterno e non solamente le superfici verticali con particolari requisiti di continuità, quali le pareti chiuse, cosicché non rilevano le sole aperture che non prevedano sporgenze, mentre il prospetto si riferisce alla superficie e alla facciata della costruzione e quindi al suo profilo estetico-architettonico.
Ne consegue che l'apertura di nuovi balconi su un edificio ricostruito in sostituzione di un precedente manufatto che ne era del tutto sprovvisto non incide solo sull'aspetto architettonico della costruzione ma ne modifica i punti esterni e la superficie verticale.
Sono esclusi, quindi, dal calcolo delle distanze solo gli sporti con funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria (come le mensole, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), non anche le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza, specie ove la normativa locale non preveda un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie.
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Come già stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, nell'ambito delle opere edilizie la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali (quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura), mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente dette componenti siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino del manufatto preesistente senza alcuna variazione rispetto al precedente stato di fatto.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
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A parere della ricorrente, pur essendo indubbio che la ricostruzione mediante demolizione dovesse attuarsi nel rispetto della sagoma della costruzione precedente, quest'ultima, per quanto previsto dall'art. 3, comma primo, lettera d), D.P.R. 380/2001, rappresentando l'involucro esterno o contorno del fabbricato, non era stata alterata dalla realizzazione di balconi, i quali incidevano sul prospetto e quindi sul solo aspetto architettonico ed estetico del fabbricato. Di conseguenza la distanza andava calcolata dai muri perimetrali dell'edificio ricostruito, senza considerare gli elementi aggettanti.
Tale assunto non merita di essere condiviso.
L'art. 31, comma primo, lettera d), L. 457/1978 qualificava come interventi di ristrutturazione edilizia quelli rivolti a trasformare i manufatti mediante un insieme sistematico di opere idonee a condurre ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, con formula idonea ad includere non soltanto le opere che riguardassero un fabbricato ancora esistente (e, cioè, un'entità dotata quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura), ma anche la ricostruzione con la fedele demolizione di un precedente fabbricato nel rispetto della sagoma, del volume e delle superfici preesistenti (cfr., in motivazione, Cass. 14786/2017; Cass. s.u. 21578/2011; Cass. 22688/2009; Cass. 2009/3391).
La ricostruzione previa demolizione è stata, di seguito, espressamente contemplata dal successivo l'art. 3, comma primo, lett. d), del D.P.R. 380/2001, ma lasciando inalterato, con previsione in parte qua non innovativa, l'obbligo di conservare la medesima sagoma e volumetria dell'edificio demolito (cfr., art. 1, D.Lgs. 301/2002, in vigore dal 05.02.2003), conformemente a quanto già disposto dall'art. 31, L. 457/1978.
In assenza di una definizione normativa, la nozione di sagoma è stata costantemente identificata con la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale, ovvero con il contorno che viene ad assumere l'edificio con ogni punto esterno e non solamente le superfici verticali con particolari requisiti di continuità, quali le pareti chiuse, cosicché non rilevano le sole aperture che non prevedano sporgenze, mentre il prospetto si riferisce alla superficie e alla facciata della costruzione e quindi al suo profilo estetico-architettonico (Corte cost. 309/2011; Cass. pen. 3849/1998; Cass. 8081/1994; Cass. pen. 25.11.1987; Cass. pen. 20846/2015).
Ne consegue che l'apertura di nuovi balconi su un edificio ricostruito in sostituzione di un precedente manufatto che ne era del tutto sprovvisto non incide solo sull'aspetto architettonico della costruzione ma ne modifica i punti esterni e la superficie verticale.
Sono esclusi, quindi, dal calcolo delle distanze solo gli sporti con funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria (come le mensole, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), non anche le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza, specie ove la normativa locale non preveda un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie (Cass. 19932/2017; Cass. 18282/2016; Cass. 859/2016; Cass. 1406/2013).
In definitiva, come già stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, nell'ambito delle opere edilizie la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali (quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura), mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente dette componenti siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino del manufatto preesistente senza alcuna variazione rispetto al precedente stato di fatto.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario (cfr., per tutte, Cass. s.u. 21578/2011) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.01.2019 n. 473).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza, in materia edilizia la legittimazione a impugnare i titoli edilizi in capo ai soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta nel settore in questione in base al criterio della vicinitas, vale a dire quando vi sia stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un'alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, o incidono sull'equilibrio urbanistico del contesto e l'armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quello qui in discussione.
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Si asserisce che i ricorrenti non sarebbero legittimati a ricorrere in quanto sono solo residenti su via pubblica ove insiste l'edificio oggetto di concessione (cosa questa che non attribuisce legittimazione a ricorrere). Non si dice se i ricorrenti siano proprietari; sarebbero residenti in pubblica via ma non confinanti; dovrebbe essere accertata la struttura complessiva dell’edificio da ricostruire per accertare se c’è stata una lesione della sfera giuridica dei ricorrenti.
5.1. Il mezzo è infondato.
Per pacifica giurisprudenza in materia edilizia la legittimazione a impugnare i titoli edilizi in capo ai soggetti terzi, non direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta nel settore in questione in base al criterio della vicinitas, vale a dire quando vi sia stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un'alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, o incidono sull'equilibrio urbanistico del contesto e l'armonico e ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quello qui in discussione (cfr. in tal senso per il principio, fra le tante, Cons. St., sez. IV, 11.06.2015, n. 2861; 23.06.2015, n. 3180; 19.11.2015, n. 5278; sez. III, 17.11.2015, n. 5357; sez. VI, 21.03.2016, n. 1156).
Alla luce di tali coordinate che presiedono alla preliminare ricognizione delle condizioni dell'azione, deve ritenersi che nel caso specifico la sussistenza del rapporto di vicinitas tra le rispettive proprietà dei ricorrenti e l’opera edilizia contestata è idoneo e sufficiente a giustificare la sussistenza della legittimazione a ricorrere, consistente nella titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata, meritevole di tutela giuridica, quando, come nel caso di specie, si lamenti che il titolo edilizio rilasciato sia in violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del r.d. n. 274/1929, e degli articoli 9-bis e 28 del regolamento edilizio comunale del Comune di Bronte (Cons. St., sez. VI, 05.01.2015, n. 11) (CGARS, sentenza 31.12.2018 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTII troppi intrecci creano conflitto. Il Consiglio di stato sul codice dei contratti.
La concomitante presenza in commissione di ben due commissari che hanno avuto rapporti –direttamente o indirettamente– con uno dei concorrenti appare integrare l'ipotesi di conflitto di interessi di cui all'art. 42 del codice dei contratti.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 07.11.2018 n. 6299.
Nel caso in esame una commissione di gara era composta, tra gli altri, da un commissario che era stato 14 anni prima un dipendente dell'aggiudicataria e un altro con un figlio che era –sia pure tramite società interinale– dipendente della stessa impresa. Pertanto, una delle ditte partecipanti aveva impugnato la nomina della commissione sopra citata.
I giudici di primo grado avevano ritenuto infondata la «violazione degli obblighi di segnalazione e di apprezzamento delle situazioni potenzialmente incidenti sulla legittimità dell'atto di nomina» con riguardo ai due membri della commissione poiché i fatti evocati avrebbero semmai potuto comportare solo una causa di astensione facoltativa.
Il Consiglio di stato, al contrario, accoglie il ricorso, annulla la delibera di designazione dei componenti della commissione e, conseguentemente gli atti successivi della procedura. Dispone, quindi, la nuova nomina della Commissione di gara e la riedizione delle valutazioni.
I giudici di Palazzo Spada ritengono, infatti, che la compresenza nella medesima Commissione di due commissari legati (seppure in passato o indirettamente per tramite del figlio) alle imprese concorrenti rafforza la percezione di compromissione dell'imparzialità che, invece, la disciplina vuole garantire al massimo livello, al fine di scongiurare il ripetersi nelle gare pubbliche di fenomeni distorsivi della par condicio e di una «sana» concorrenza tra gli operatori economici.
Tale interpretazione risulta, peraltro, confermata dalla molteplicità di strumenti che il nostro ordinamento ha predisposto con finalità di prevenzione dei fenomeni corruttivi e dell'azione della criminalità organizzata, strumenti che hanno passato il vaglio del giudice sovrannazionale proprio in considerazione della peculiarità della situazione nazionale (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

VARIL'acquirente prevale sul comodatario.
Il contratto di comodato di un bene stipulato dall'alienante di esso in epoca anteriore al suo trasferimento non è opponibile all'acquirente del bene stesso.

La sentenza 31.10.2018 n. 27938, nel ribadire che la posizione del comodatario sia, in linea generale, meno protetta rispetto a quella del conduttore, richiama precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità in materia di acquisto, da parte di terzi, del bene oggetto di comodato.
In tali ipotesi, atteso che le disposizioni dell'articolo 1599 del codice civile non sono estensibili, per il loro carattere eccezionale, a rapporti diversi dalla locazione (Cass. n. 5454 del 1991), l'acquirente a titolo particolare della cosa data in precedenza dal venditore in comodato «non può risentire alcun pregiudizio dall'esistenza di tale comodato e ha, pertanto, il diritto di far cessare, in qualsiasi momento, a suo libito, il godimento del bene da parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità della cosa» (Cass. n. 664 del 2016).
La sentenza evidenzia peraltro che, allo stesso modo, «il contratto di comodato è inopponibile in caso di trasferimento coattivo del bene, stante la mancanza di una norma che stabilisca, come l'art. 2923 cod. civ. prevede in favore del conduttore, l'opponibilità del diritto personale di godimento all'aggiudicatario».
Il principio dell'inopponibilità del contratto di comodato al terzo acquirente della cosa, derivante dalla regola generale di relatività degli effetti contrattuali di cui all'articolo 1372 del codice civile, non implica, dunque, che il contratto esaurisca automaticamente i propri effetti al momento del trasferimento, ma solo che il comodatario non possa pretendere di fare valere questi effetti nei confronti del terzo (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

APPALTIGare, accesso difensivo solo se è indispensabile. Tutela di segreti industriali da provare.
In una gara d'appalto chi, per la tutela di segreti tecnici o commerciali, esercita il cosiddetto «accesso difensivo» sugli atti di gara, deve dimostrare la diretta strumentalità del diniego di divulgazione.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 26.10.2018 n. 6083 che tratta la tematica dell'accesso difensivo (divieto di divulgare atti di gara che potrebbero essere oggetto di riservatezza).
I giudici hanno ricordato che, in particolare, in tema di diritto all'accesso alle offerte le norme del codice, nell'individuare un punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza e trasparenza, fanno prevalere le ovvie esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo un vero e proprio divieto di divulgazione.
Tale divieto viene poi superato ripristinando la fisiologica dinamica dell'accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per «le informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali».
Il punto è quindi come contemperare la contrapposizione degli interessi, tema per il quale i giudici hanno precisato che occorre fare riferimento al parametro della «stretta indispensabilità» (previsto all'art. 24, comma 7, secondo periodo, della legge 241/1990) contemplato come idoneo a giustificare la prevalenza dell'interesse di una parte, mossa dall'esigenza di «curare o difendere propri interessi giuridici» rispetto all'interesse di un'altra parte, altrettanto mossa dall'esigenza di curare o difendere interessi giuridici legati ai dati sensibili che la riguardano e che possono essere contenuti nella documentazione chiesta in sede di accesso.
Pertanto, nel quadro del bilanciamento tra il diritto alla tutela dei segreti industriali ed il diritto all'esercizio del cosiddetto «accesso difensivo» ai documenti della gara cui l'impresa richiedente l'accesso ha partecipato, per i giudici risulta necessario l'accertamento dell'eventuale nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell'istanza di accesso e le censure formulate. In tali casi, infine, l'onere della prova del nesso di strumentalità incombe, secondo i principi generali del processo, su chi agisce
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).

APPALTI: Il Rup può essere anche commissario di gara.
Il Rup può essere anche commissario di gara. Nella vigenza del nuovo codice dei contratti, ai sensi dell'art. 77, comma 4, dlgs n. 50 del 2016, nelle procedure di evidenza pubblica, il ruolo di responsabile unico del procedimento può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi.

Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 26.10.2018 n. 6082.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un concorrente impugnava gli esiti di una gara ad evidenza pubblica indetta dal Comune di Carpi - Unione delle Terre d'Argine per l'individuazione di un concessionario di servizio farmaceutico per una farmacia comunale di nuova istituzione, lamentando la violazione dell'art. 77 del dlgs n. 50/2016 per avere un unico soggetto ricoperto le cariche, tra loro asseritamente incompatibili, di dirigente della centrale unica di committenza oltre che di presidente della commissione giudicatrice. Chiamato a decidere la controversia, il consiglio di stato ha avuto modo di ribadire, in concorde indirizzo con l'autorità nazionale anticorruzione (Anac), l'inesistenza di una automatica causa di incompatibilità tra i ruoli, a meno che non sussista la concreta dimostrazione di una comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi. La soluzione così avallata, afferma la sentenza, costituisce l'esito maggiormente coerente con l'opzione interpretativa che il legislatore ha inteso consolidare con le modifiche apportate al codice dei contratti pubblici con il dlgs n. 56/2017.
Ed infatti, integrando il disposto dell'art. 77, comma 4, con l'inciso «la nomina del Rup a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura», si è esclusa ogni automatica incompatibilità conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti affinché il Rup possa legittimamente far parte della commissione gara (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTILa voce del portiere non basta. Il messo deve verificare la sede del destinatario dell’atto. La Cassazione distingue, nell’ordinanza 27035, tra irreperibilità relativa e assoluta.
Il messo notificatore non può fidarsi solo della parola del portiere. Deve, infatti, svolgere accurate ricerche per verificare l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest'ultima non abbia più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune sede del proprio domicilio fiscale, non potendosi ritenere sufficiente, a tal fine, la generica dichiarazione rilasciata dal portiere dello stabile.
A statuire il principio è stata la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con l'ordinanza 24.10.2018 n. 27035.
Provvedimento risulta utile per delineare contorni giuridici e disciplina delle due possibili ipotesi di irreperibilità: quella relativa e quella assoluta.
Il caso. La controversia sottoposta al giudizio del supremo collegio ha a oggetto l'impugnazione proposta dal contribuente avverso un avviso di intimazione di pagamento notificato dall'agente della riscossione alla società per omessa notifica della prodromica cartella di pagamento, recante l'iscrizione a ruolo dell'Iva dovuta a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione per l'anno di imposta 2003.
La società, in particolare, ha richiesto il giudizio degli ermellini, sulla scorta di un unico motivo, per cassare la sentenza della Commissione tributaria regionale con cui era stato rigettato l'appello, dalla medesima proposto, nei confronti della sfavorevole sentenza di primo grado.
La Ctr aveva, infatti, ritenuto regolare la notifica della cartella di pagamento in base a quanto sancisce l'art. 60 del dpr n. 600 del 1973 che non prevede l'invio della raccomandata informativa di cui all'articolo 140 del codice di procedura civile, nell'ipotesi, come quella presuntivamente verificatasi nella fattispecie, di irreperibilità assoluta del destinatario.
Irreperibilità relativa e assoluta. La Cassazione, nel rigettare, preliminarmente, l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dall'Agenzia delle entrate, considerato che la stessa è stata parte nei giudizi di merito in cui la società contribuente aveva contestato anche la fondatezza della pretesa erariale, ha effettuato una nitida e netta distinzione tra le due ipotesi di irreperibilità.
Infatti, nel caso di specie, non si è verificato, a differenza di quanto sostiene l'ufficio notificante, un caso di irreperibilità assoluta, in cui, legittimamente, non è previsto l'invio della raccomandata informativa, ma un'ipotesi di irreperibilità relativa: come sostenuto dal ricorrente, il messo notificatore non ha svolto tutte le ricerche dirette a verificare l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest'ultima non avesse più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede del proprio domicilio fiscale, limitandosi ad attenersi, ritenendola sufficiente ai fini della corretta notifica, alla generica dichiarazione acquisita direttamente dal portiere dello stabile.
La decisione. La Ctr aveva ritenuto idonee a giustificare il ricorso alla notifica a soggetto assolutamente irreperibile, di cui alla lett. e), primo comma, dell'art. 60, dpr n. 600 del 1973, la dichiarazione del portiere dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale della società contribuente. Il custode aveva, infatti, dichiarato di non conoscere la società oggetto della controversia.
Dichiarazione riconosciuta dai giudici di legittimità non idonea allo scopo, circostanza, anzi, che avrebbe dovuto spingere, a maggior ragione, l'ufficiale notificante a compiere ulteriori e specifiche verifiche per accertare se l'indicazione del domicilio della società destinataria dell'atto fosse corretto o se lo stesso non fosse mutato. Verifiche che nella fattispecie concreta, risultanze processuali alla mano, erano state del tutto omesse.
Sulla base di tali considerazioni, il ricorso è stato accolto, senza rinvio, non ricorrendo l'esigenza del compimento di ulteriori accertamenti di fatto né quella di procedere all'esame di altre questioni che la nullità della notifica della cartella di pagamento, prodromica all'avviso di intimazione di pagamento, anch'esso impugnato, ha reso del tutto superflue. L'agente della riscossione controricorrente, peraltro, è stato condannato al pagamento in favore della ricorrente delle spese del giudizio di legittimità, mentre sono state compensate le spese processuali con l'Agenzia delle entrate e quelle dei giudizi di merito.
Notifica da codice di procedura civile nell'ipotesi di irreperibilità relativa. La notifica degli atti impositivi va effettuata in base all'articolo 140 del codice di procedura civile nelle ipotesi di irreperibilità relativa. Ossia, nei casi in cui non sia possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto, l'ufficiale giudiziario è tenuto a depositare la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affiggere avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, deve, infine, dare notizia di tali adempimenti tramite raccomandata con avviso di ricevimento.
La Corte di cassazione aveva già in passato giudicato sul tema, sancendo tale principio. In particolare, la suprema corte, con sentenza n. 16696 del 03/07/2013, confermata anche dalla sentenza n. 5374 del 18/03/2015, aveva chiarito che «la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, nel sistema delineato dall'art. 60 del dpr 29.09.1973, n. 600, va effettuata secondo il rito previsto dall'art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di cui all'art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto, accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato ricerche nel comune dov'è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso comune».
Tale sentenza ricorda anche che «rispetto a tali principi, nulla ha innovato la sentenza della Corte costituzionale del 22.11.2012, n. 258 la quale nel dichiarare «in parte qua», con pronuncia di natura «sostitutiva», l'illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all'attualmente vigente quarto comma) dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, ovvero la disposizione concernente il procedimento di notifica delle cartelle di pagamento, ha soltanto uniformato le modalità di svolgimento di detto procedimento a quelle già previste per la notificazione degli atti di accertamento, eliminando una diversità di disciplina che non appariva assistita da alcuna valida «ratio» giustificativa e non risultava in linea con il fondamentale principio posto dall'art. 3 della Costituzione».
Altro provvedimento da ricordare in materia è l'ordinanza della Cassazione n. 24260 del 13/11/2014 secondo cui «è illegittima la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi (nella specie, cartella di pagamento) effettuata ai sensi dell'art. 60, primo comma, lett. e), del dpr 29.09.1973, n. 600, laddove il messo notificatore abbia attestato la sola irreperibilità del destinatario nel comune ove è situato il domicilio fiscale del contribuente, senza ulteriore indicazione delle ricerche compiute per verificare che il trasferimento non sia un mero mutamento di indirizzo all'interno dello stesso comune, dovendosi procedere secondo le modalità di cui all'art. 140 cod. proc. civ. quando non risulti un'irreperibilità assoluta del notificato all'indirizzo conosciuto, la cui attestazione non può essere fornita dalla parte nel corso del giudizio».
Tali principi sono stati ribaditi dalla recente ordinanza della Cassazione n. 2877 del 07/02/2018 che ha affermato che «in tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dall'art. 60, comma 1, lett. e), del dpr n. 600 del 1973 in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l'ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l'irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest'ultimo non abbia più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede del proprio domicilio fiscale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

TRIBUTI: No rendita no Ici. Esenti fabbricati e aree edificabili. La Ctp di Trento si allinea alla tesi della Cassazione.
Sui fabbricati privi di rendita i contribuenti non pagano l'Ici, e quindi anche l'Imu e la Tasi, né sui fabbricati né sulle aree edificabili sottostanti.
Lo ha affermato la commissione tributaria di primo grado di Trento, II Sez., con la sentenza 05.10.2018 n. 166.
I giudici di merito, dunque, si allineano alla tesi espressa dalla Cassazione sull'intassabilità delle cosiddette aree edificate.
I fabbricati, cosiddetti collabenti, non pagano le imposte locali non perché manca il presupposto impositivo, ma perché non può essere determinata la base imponibile considerato che il loro valore economico è pari a zero. Tuttavia, questo non autorizza l'amministrazione comunale a richiedere il pagamento dei tributi sull'area edificabile poiché si tratta di un'area che è stata già edificata.
La Corte di cassazione (sentenza 17815/2017) ha chiarito che «il fabbricato iscritto in categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol perché collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir meno in capo all'immobile -fino all'eventuale sua completa demolizione- la tipologia normativa di fabbricato».
La categoria «F/2 (unità collabenti)
» viene attribuita ai fabbricati che non sono suscettibili di fornire reddito, come le costruzioni non abitabili o non agibili a causa di dissesti statici, fatiscenza o inesistenza di elementi strutturali e impiantistici, e comunque nel caso in cui la concreta utilizzabilità non sia conseguibile con soli interventi edilizi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Se le effettive condizioni dell'immobile siano tali da renderlo totalmente inutilizzabile, a meno di radicali interventi viene disposto anche l'azzeramento della rendita catastale. E agli atti viene conservata l'unità immobiliare e i relativi identificativi con l'attribuzione della categoria F/2. Non si può tassare, però, l'area edificabile in presenza di un fabbricato regolarmente iscritto in catasto, anche se privo di rendita, perché per ragioni contingenti inagibile. Sul tema ci sono pochi precedenti della Cassazione.
Con sentenza n. 10735/2013 ha stabilito che ai fini Ici «la nozione di fabbricato, di cui al dlgs 30.12.1992, n. 504, art. 2, rispetto all'area su cui esso insiste, è unitaria, nel senso che, una volta che l'area edificabile sia comunque utilizzata, il valore della base imponibile ai fini dell'imposta si trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione realizzata». Ciò che rileva è il fabbricato e non l'area edificabile.
Con la sentenza 23347/2004 ha sostenuto che le aree edificabili sono soggette a imposizione fino a quando venga realizzata una prima costruzione, in quanto da tale momento oggetto di imposta è la costruzione mentre l'area fabbricabile diviene area pertinenziale esente. Pertanto, non sono tenuti a pagare le imposte locali gli immobili in corso di costruzione e tutti quelli privi di rendita
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA - VARICertificato di abitabilità e compravendita.
«In tema di compravendita immobiliare, qualora il venditore ometta di consegnare il certificato di abitabilità e, tuttavia, si accerti l'utilizzabilità del bene, il compratore non può chiedere il risarcimento del danno commisurato all'importo dei canoni di locazione perduti, atteso che il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d'uso di un bene immobile o alla sua abitabilità non è in sé di ostacolo alla valida costituzione di un rapporto locatizio».

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile (ordinanza 18.05.2018 n. 12226) (articolo ItaliaOggi del 05.06.2019).
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MASSIMA
1 Con il primo motivo si denunzia ai sensi dell'art. 360, n. 3, cpc la violazione ed errata applicazione degli artt. 1477, 1453 e 1455 cc. per avere la Corte d'Appello ritenuto che la mancata consegna del certificato di abilità costituisse un inadempimento di scarsa importanza, discostandosi in tal modo dal prevalente orientamento giurisprudenziale.
2 Con il secondo motivo la ricorrente deduce ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc la violazione ed errata applicazione degli artt. 1218, 1453, 1455 e 2697 cc rimproverando alla Corte di Appello di avere invertito l'onere probatorio violando la tradizionale regola secondo cui spettava al convenuto di fornire la prova dell'esatto adempimento oppure che l'inadempimento era stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Ad avviso della ricorrente spettava ai venditori di provare perché non erano stati in grado di adempiere alla loro obbligazione oppure che il certificato potesse essere rilasciato, restando assolutamente irrilevante, rispetto alla inesistenza della agibilità, l'eventuale perfezionamento di procedimenti urbanistici di sanatoria. Richiama il principio della presunzione di colpa dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1218 cc.
Queste due censure, da esaminarsi congiuntamente perché collegate al problema dell'incidenza del certificato di abitabilità nel sinallagma contrattuale, sono manifestamente infondate.
Secondo la prevalente e più recente giurisprudenza di questa Corte,
in tema di compravendita immobiliare, la mancata consegna al compratore del certificato di abitabilità non determina, in via automatica, la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto l'importanza e la gravità dell'omissione in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene, sicché, ove in corso di causa si accerti che l'immobile promesso in vendita presentava tutte le caratteristiche necessarie per l'uso suo proprio e che le difformità edilizie rispetto al progetto originario erano state sanate a seguito della presentazione della domanda di concessione in sanatoria, del pagamento di quanto dovuto e del formarsi del silenzio-assenso sulla relativa domanda, la risoluzione non può essere pronunciata (v. tra le varie, sez. 2, Ordinanza n. 29090 del 05/12/2017 Rv. 646535; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 22561 del 2014; Sez. 2, Sentenza n. 13231 del 31/05/2010 Rv. 613156).
Il principio, affermato in tema di risoluzione del contratto preliminare, vale logicamente anche per il contratto definitivo.
Ebbene, nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato che la mancanza di agibilità non incide sulla funzione economico-sociale del bene e ha tratto tale convincimento dal fatto, pacifico tra le parti e attestato anche nel rogito notarile, "che non constano irregolarità sul piano edilizio-urbanistico (la costruzione risale a data anteriore al 10.09.1967 ed è subentrata concessione in sanatoria in data 03.04.1998 con cambio di destinazione, ora commerciale)".
Come si vede, l'apprezzamento in fatto sulla assenza di elementi ostativi al rilascio del certificato di abitabilità, si rivela conforme ai principi di diritto affermati da questa Corte sugli effetti della mancata consegna del certificato di abitabilità e non si pone neppure in contrasto col precedente citato dalla ricorrente (Ordinanza n. 2438/2016): in quel caso, infatti, il rifiuto dei promissari acquirenti di procedere alla stipula del definitivo era stato ritenuto giustificato in quanto il dato oggettivo della mancata consegna del certificato di destinazione urbanistica -il cui obbligo grava ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ.- non risultava suffragato da alcun elemento che potesse in qualche modo far ritenere sussistente l'idoneità del bene ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene.

PUBBLICO IMPIEGOLicenziato chi registra colleghi. Rischia chi detiene (non autorizzato) le conversazioni. La conclusione a cui si giunge esaminando due pronunce della Corte di cassazione.
Rischia il licenziamento il dipendente che registra occultamente conversazioni tra colleghi. È questa la conclusione a cui si giunge sulla base delle due pronunce, di segno opposto, pubblicate dalla Cassazione lo scorso maggio, a distanza di sei giorni l'una dall'altra. La legittimità delle registrazioni occulte di conversazioni tra colleghi e la loro utilizzabilità in giudizio sono da tempo oggetto di opposti orientamenti giurisprudenziali, come emerge anche dalle due recenti pronunce in commento.

Con la sentenza 10.05.2018 n. 11322, la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha confermato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver consegnato al datore di lavoro, nell'ambito di un procedimento disciplinare, una chiavetta Usb contenente registrazioni di conversazioni tra colleghi durante l'orario di lavoro, a loro insaputa, e per averne effettuate altre, anche video, in assenza della loro autorizzazione.
Poiché la registrazione costituisce trattamento di dati personali, ai fini della decisione la Cassazione ha esaminato la contestazione, anzitutto, sulla base della normativa sulla privacy. Secondo la Suprema corte, le registrazioni sarebbero state effettuate dal lavoratore al solo fine di tutelare la propria posizione, messa a rischio da contestazioni disciplinari «non proprio cristalline» e da un contesto di conflitto con i colleghi: il che costituirebbe trattamento legittimo, ancorché in assenza del consenso e a insaputa degli interessati, in quanto funzionale alla tutela di un diritto.
Il lavoratore avrebbe inoltre adottato tutte le cautele per non diffondere le registrazioni e il trattamento che ne è derivato sarebbe stato pertinente e non eccedente le finalità difensive che lo hanno giustificato. Oltre a queste motivazioni, la Cassazione ha richiamato anche il principio giurisprudenziale secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio da parte di chi vi assiste o partecipa, rientrando tra le riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile, nel processo sia civile che penale (Cass. civ. n. 27424/14 e Cass. pen. n. 31342/11).
La Cassazione ha così confermato l'illegittimità del recesso e, in accoglimento del ricorso incidentale del lavoratore, ha applicato la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori in quanto l'addebito, ancorché materialmente sussistente, è stato ritenuto privo di illiceità.
Con l'ordinanza 16.05.2018 n. 11999, pronunciata in una fattispecie simile, la Suprema corte -Sez. lavoro- è giunta invece ad una conclusione opposta, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver registrato occultamente una conversazione telefonica tra il datore di lavoro e un collega, nonché altre conversazioni avvenute durante una riunione aziendale. Anche in questo caso, le registrazioni -secondo la prospettazione del lavoratore- erano giustificate da finalità di tutela dei propri diritti, ossia nell'ottica di sporgere querela per le condotte mobbizzanti subite.
La Cassazione, però, ha ritenuto illegittima la condotta del lavoratore per due ordini di ragioni: da un lato, ha richiamato l'opposto orientamento giurisprudenziale secondo cui la registrazione di conversazioni tra presenti all'insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza, tale da legittimare il licenziamento (Cass. civ. n. 16629/2016); dall'altro lato, ha ritenuto carenti di prova -e dunque assenti- le condotte mobbizzanti addotte dal lavoratore per giustificare la finalità difensiva delle registrazioni.
Com'è evidente, la linea di confine tra registrazioni occulte legittime o illegittime è molto sottile. La valutazione dipende da diversi fattori e deve pertanto essere condotta caso per caso: certo, il lavoratore dovrà curarsi, soprattutto, di fornire idonee prove della finalità difensiva alla base delle registrazioni e di farne ponderato utilizzo, vista la posta in gioco (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Perché possa ricorrere l’ipotesi di esenzione del contributo di costruzione di cui all’art. 17 DPR 380/2001, occorre che gli interventi da realizzare costituiscano attuazione di norme o di provvedimenti amministrativi che espressamente li prevedono (e non siano invece effetto di una scelta volontaria del soggetto, sia pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che siano stati adottati a seguito di eventi eccezionali, dannosi o pericolosi per la collettività, tali da richiedere l’esercizio di poteri straordinari.
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4. Nel merito, il Collegio ritiene opportuno rilevare –anche al fine di meglio circoscrivere le ragioni per le quali l’appello deve essere accolto- che sia il motivo con il quale si censura la sentenza impugnata per non aver considerato applicabili, nel caso di specie, gli artt. 16, co. 1, e 17, co. 3, DPR n. 380/2001, recante quest’ultimo (lett. d) l’esenzione per la ricostruzione a seguito di “pubbliche calamità” (motivo sub lett. a) dell’esposizione in fatto), sia il motivo con il quale si censura la sentenza per non aver ricondotto le opere alla manutenzione straordinaria, anziché alla ristrutturazione edilizia (sub lett. b1) dell’esposizione in fatto), sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.
4.1. Quanto al primo, occorre premettere che il permesso di costruire è provvedimento naturalmente oneroso (da ultimo, Corte Cost., 03.11.2016 n. 231), di modo che le norme di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale (e da considerarsi, quindi, di stretta interpretazione), non essendo consentito alla stessa potestà legislativa concorrente di ampliare le ipotesi al di là delle indicazioni della legislazione statale, da ritenersi quali principi fondamentali in tema di governo del territorio (Corte Cost., n. 231/2016 cit.).
L’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 prevede la esenzione dal contributo di costruzione “per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità”.
Si tratta di due distinte ipotesi, ambedue sorrette dal presupposto della “pubblica calamità”. Quest’ultima deve essere intesa come un evento imprevisto e dannoso che, per caratteristiche, estensione, potenzialità offensiva sia tale da colpire e/o mettere in pericolo non solo una o più persone o beni determinati, bensì una intera ed indistinta collettività di persone ed una pluralità non definibile di beni, pubblici o privati.
Ciò che caratterizza, dunque, il carattere “pubblico” della calamità e la differenzia da altri eventi dannosi, pur gravi, è la riferibilità dell’evento (in termini di danno e di pericolo) a una comunità, ovvero ad una pluralità non definibile di persone e cose, laddove, negli altri casi, l’evento colpisce (ed è dunque circoscritto) a singoli, specifici soggetti o beni e, come tale, è affrontabile con ordinarie misure di intervento.
Se, dunque –come sostenuto dall’appellante– l’evento deve caratterizzarsi per straordinarietà, imprevedibilità e una portata tale da essere “anche solo potenzialmente pericoloso per la collettività”, ciò non è, tuttavia, sufficiente a qualificarlo quale “calamità pubblica”, posto che deve comunque trattarsi di un evento non afferente a beni determinati e non affrontabile e risolvibile con ordinari strumenti di intervento, sia sul piano concreto che su quello degli atti amministrativi.
In senso riconducibile al concetto ora espresso, gli artt. 2, co. 1, lett. c) e 5 l. 24.02.1992 n. 225, prevedono il conferimento di poteri straordinari di ordinanza per il caso di “calamità naturali” (e, come tali, “pubbliche”), e l’art. 54 DPR 08.08.2000 n. 267, conferisce al Sindaco, quale Ufficiale di Governo, il potere (delegabile nei limiti previsti dal medesimo articolo) di emanare ordinanze contingibili ed urgenti “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; potere di ordinanza che va tenuto distinto da quello, di carattere “ordinario” e riferito al Sindaco quale rappresentante della comunità locale, previsto dall’art. 50 del medesimo Testo Unico degli Enti locali.
In conclusione, perché possa ricorrere l’ipotesi di esenzione di cui all’art. 17 cit., occorre che gli interventi da realizzare costituiscano attuazione di norme o di provvedimenti amministrativi che espressamente li prevedono (e non siano invece effetto di una scelta volontaria del soggetto, sia pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che siano stati adottati a seguito di eventi eccezionali, dannosi o pericolosi per la collettività, tali da richiedere l’esercizio di poteri straordinari.
Nel caso di specie, l’incendio che ha colpito l’immobile della società ricorrente, se pur grave e tale da poter divenire fonte di pericolo per la collettività, ove non tempestivamente circoscritto, tuttavia si caratterizza quale evento che ha colpito beni specifici e che, per dimensioni, caratteristiche ed intensità, è stato tale da non richiedere particolari interventi di contrasto o esercizio di poteri straordinari.
Ne consegue, quindi, la inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ciò che caratterizza gli interventi di manutenzione straordinaria è la preesistenza (e presenza in atto) di un edificio sul quale si interviene al fine di rinnovarlo o parzialmente sostituirlo, onde renderlo più idoneo all’uso cui lo stesso è finalizzato.
Laddove, invece, si interviene mediante demolizione (anche parziale) di un edificio e sua ricostruzione, può ricorrere sia l’ipotesi di ristrutturazione edilizia (laddove si rispettino le condizioni di cui all’art. 3, co. 1, lett. d), DPR n. 380/2001, sia, in difetto di queste ultime, un’ipotesi di nuova costruzione.

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4.2. Quanto al secondo profilo del secondo motivo innanzi indicato, occorre osservare che la natura dell’intervento da realizzare fuoriesce dall’ambito della “manutenzione straordinaria”, come definita sia dall’art. 3, co. 1, lett. b), DPR n. 380/2001, sia dall’art. 27, co. 1, lett. b), l.reg. Lombardia n. 12/2005 (norma, in particolare, evocata dalla ricorrente).
La disposizione legislativa statale qualifica gli interventi di manutenzione straordinaria, tra l’altro, come “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici”, mentre la disposizione regionale qualifica tali, in particolare, “le opere e le modifiche riguardanti il consolidamento, il rinnovamento e la sostituzione di parti anche strutturali degli edifici”.
Per quel che interessa ai fini della presente decisione, ciò che caratterizza gli interventi di manutenzione straordinaria è la preesistenza (e presenza in atto) di un edificio sul quale si interviene al fine di rinnovarlo o parzialmente sostituirlo, onde renderlo più idoneo all’uso cui lo stesso è finalizzato.
Laddove, invece, si interviene mediante demolizione (anche parziale) di un edificio e sua ricostruzione, può ricorrere sia l’ipotesi di ristrutturazione edilizia (laddove si rispettino le condizioni di cui all’art. 3, co. 1, lett. d), DPR n. 380/2001: v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443), sia, in difetto di queste ultime, un’ipotesi di nuova costruzione.
Nel caso di specie, l’intervento oggetto del richiesto permesso di costruire concerneva la “ricostruzione del fabbricato totalmente crollato in quanto investito dall’incendio del 20.09.2012” (v. pagg. 3 – 4 app.), di modo che, alla luce delle considerazioni esposte, non può ricorrere una ipotesi di manutenzione straordinaria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.05.2017 n. 2567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l'accertamento dell'inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni, con salvezza degli atti impugnati.
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4. Con gli ulteriori motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, per comunanza delle relative censure, deduce il ricorrente l’illegittimità dell’impugnato provvedimento, in quanto adottato sulla base di un presupposto –l’avvenuta, totale distruzione del bene– non rispondente all’obiettiva realtà fattuale.
Gli assunti sono infondati.
4.1. Premette anzitutto il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “allorché sia controversa la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l'accertamento dell'inattaccabilità anche di una sola di esse vale a sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni, con salvezza degli atti impugnati” (C.d.S, IV, 17.09.2012, n. 4924. In termini confermativi, cfr. altresì, ex multis, C.d.S, III, 12.09.2012, n. 4850; C.d.S, IV, 30.05.2005, n. 2767; TAR Puglia, Lecce, I, 03.04.2008, n. 981) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 09.03.2017 n. 393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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