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AGGIORNAMENTO AL 27.08.2019 |
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Ancora in merito ai lavori di demolizione e
ricostruzione:
cosa significa, esattamente, l'inciso "con
la stessa
volumetria di
quello preesistente"??
Tanto
per capirci al meglio, esemplifichiamo: se in zona
non paesaggisticamente vincolata si
demolisce un fabbricato di 3.000,00 mc. e se ne
ricostruisce un altro di 1.000,00 (quindi, in diminuzione)
tale intervento edilizio è (recte, dev'essere)
classificato quale "ristrutturazione
edilizia" ex
art.
3, comma 1, lett. d), dpr
n. 380/2001??
In disparte "una sola voce fuori dal coro"
(id est TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 1025),
la
risposta è
SÌ
e con tutti i benefici
di legge del caso {es.: detrazione fiscale
del 50% ovvero
del 65% oppure
del 70%-80% a seconda del caso di specie,
IVA
agevolata del 10% sulla fatturazione dei lavori [ex
art. 7, comma 1, lett. b), l. 23.12.1999 n. 488],
oneri di urbanizzazione al comune (solo se lo
stesso abbia
deliberato in merito) ridotti almeno al 50% della
tariffa piena (ex
art. 44, comma 10-bis, della L.R. n. 12/2005)
nonché del
bonus mobili ed elettrodomestici}. |
EDILIZIA PRIVATA:
La ratio della nozione di
ristrutturazione edilizia dettata dall’art. 3,
d.P.R. n. 380/2001 -secondo cui gli interventi di
demolizione e ricostruzione devono avvenire nel
rispetto della “volumetria preesistente”– è
finalizzata ad escludere dal suo ambito le
ricostruzioni che portano ad incrementi volumetrici
-che vanno, pertanto, ricomprese nella nozione di
nuova costruzione- ma non ricostruzioni che,
come accade nel caso di specie, si differenziano
unicamente per la realizzazione di una minore
volumetria.
---------------
Nel giugno 2011, il sig. Sa.Po. ha demolito un
fabbricato destinato a uso ricovero mezzi agricoli,
delle dimensioni di m. 9,40 per 4,25, ricostruendolo
con misure di m. 7,60 per 4,25, in assenza di
permesso di costruire.
Con provvedimento del 23.08.2012 il Comune di
Cerreto d’Asti ha respinto una prima istanza di
accertamento di conformità presentata dal sig. Po.,
qualificando l’intervento quale nuova costruzione
e non quale ristrutturazione edilizia, stante
la modifica della volumetria e della sagoma del
fabbricato, dovuta alle più ridotte dimensioni.
Il sig. Po. ha, quindi, presentato una nuova istanza
volta ad ottenere il rilascio di un permesso di
costruire per la sanatoria della parte di fabbricato
conforme all’edificio preesistente e –al fine di
superare la ragione di diniego addotta
dall’amministrazione comunale- per la realizzazione
delle opere necessarie a ripristinare la volumetria
e la sagoma originale del fabbricato.
Con provvedimento del 23.09.2013, il Comune ha
rigettato anche questa domanda.
...
7. La fattispecie oggetto del presente giudizio
presenta elementi di indubbia peculiarità, legati al
fatto che è stata realizzata un’opera che si
distingue dal preesistente fabbricato unicamente in
conseguenza delle più ridotte dimensioni (la
lunghezza è stata ridotta da 9,40 m a 7,60 mentre la
larghezza, pari a 4,25 m, è rimasta invariata);
anche la modifica della sagoma contestata è
conseguita unicamente alla realizzazione della
lunghezza inferiore di 1,80 m (v. provvedimento del
23.08.2012).
8. Le doglianze rivolte dal ricorrente avverso la
qualificazione dell’opera quale nuova costruzione,
in conseguenza della modifica di sagoma e volume
dovute alla ricostruzione del manufatto con
dimensioni inferiori rispetto a quello preesistente,
pur fondate, non sono tuttavia sufficienti a portare
all’annullamento del provvedimento impugnato.
9. Sono fondate in quanto la ratio della
nozione di ristrutturazione edilizia dettata
dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 -secondo cui gli
interventi di demolizione e ricostruzione devono
avvenire nel rispetto della “volumetria
preesistente”– è finalizzata ad escludere dal
suo ambito le ricostruzioni che portano ad
incrementi volumetrici -che vanno, pertanto,
ricomprese nella nozione di nuova costruzione-
ma non ricostruzioni che, come accade nel caso di
specie, si differenziano unicamente per la
realizzazione di una minore volumetria.
L’applicazione data dal Comune porta all’esito
illogico di qualificare come nuova costruzione,
anziché come ristrutturazione edilizia, opere
che hanno un minore impatto sul territorio rispetto
a ricostruzioni che conservano la medesima
volumetria del fabbricato preesistente,
pacificamente qualificabili quali ristrutturazioni.
Quanto al vincolo della sagoma, esso non era più
previsto dall’art. 3, d.P.R. n. 380/2001 nella
versione vigente alla data di adozione del secondo
provvedimento e comunque anch’esso non può
giustificare la qualificazione di un intervento
quale nuova costruzione in una fattispecie in
cui la modifica della sagoma è conseguita unicamente
a una mera riduzione della lunghezza del fabbricato
ricostruito di 1,80 m.
Il provvedimento impugnato è dunque illegittimo
nella parte in cui presuppone una qualificazione
dell’opera quale nuova costruzione anziché
quale ristrutturazione edilizia e afferma,
per tale ragione, la non sanabilità del fabbricato
nelle dimensioni attuali (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.07.2019 n. 749 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce
principio fondamentale tratto dalla legislazione
statale quello per cui la constatazione dell'aumento
di volumetria di un fabbricato preesistente è
sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione atteso che questa, nell'attuale
sistema normativo, trova il suo limite nella
necessità di rispettare il volume preesistente del
manufatto su cui si interviene, nel senso che un
intervento che determini un incremento di volume non
può essere qualificato come ristrutturazione anche
quando sia preordinato all'inserimento o alla
realizzazione di servizi o impianti.
Ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella
disciplina della ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione che richiede appunto il
rispetto (o meglio il non superamento) della
preesistente volumetria, senza la quale si è in
presenza di un diverso fabbricato e, quindi, di
nuova costruzione.
In materia di interventi edilizi sono legittimamente
considerati esorbitanti rispetto alla semplice
ristrutturazione quelli che modifichino il
volume.
---------------
Nel
merito il ricorso è fondato in ordine a due dei
profili dedotti, il primo ed il quinto.
...
Sul secondo versante, costituisce principio
fondamentale tratto dalla legislazione statale
quello per cui la constatazione dell'aumento di
volumetria di un fabbricato preesistente è
sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione atteso che questa, nell'attuale
sistema normativo, trova il suo limite nella
necessità di rispettare il volume preesistente del
manufatto su cui si interviene, nel senso che un
intervento che determini un incremento di volume non
può essere qualificato come ristrutturazione anche
quando sia preordinato all'inserimento o alla
realizzazione di servizi o impianti; ciò trova una
implicita ma inequivoca conferma nella disciplina
della ristrutturazione mediante demolizione e
ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o
meglio il non superamento) della preesistente
volumetria, senza la quale si è in presenza di un
diverso fabbricato e, quindi, di nuova costruzione.
In materia di interventi edilizi sono legittimamente
considerati esorbitanti rispetto alla semplice
ristrutturazione quelli che modifichino il
volume (cfr. ex multis Tar Molise 116/2016 e
Cons. St., sez. IV, 17.11.2015, n. 5227).
Sulla prevalenza dei principi di cui alla
legislazione statale ed in tema di illegittimità di
una diversa disciplina regionale ancora di recente è
intervenuta la Consulta, non a caso sulla legge
ligure (cfr. Corte Costituzionale, 03/11/2016, n.
231): “è dichiarato costituzionalmente
illegittimo —per violazione dell'art. 117, comma
terzo, Cost.— l'art. 6, comma 11, secondo trattino,
della legge della Regione Liguria n. 12 del 2015,
con cui è stata sostituita la lett. e) dell'art.
21-bis, comma l, della legge reg. Liguria n. 16 del
2008. La disposizione impugnata dal Governo —che
assoggetta a segnalazione certificata di inizio di
attività (SCIA) gli interventi di ristrutturazione
edilizia comportante incrementi della superficie
all'interno delle singole unità immobiliari o
dell'edificio «con contestuali modifiche
all'esterno»— si pone in evidente contrasto con
l'art. 10, comma 1, lett. c), del TUE, costituente
principio fondamentale della materia «governo del
territorio», il quale assoggetta a permesso di
costruire o a DIA alternativa (art. 22, comma 3,
lett. a, del TUE) gli interventi di ristrutturazione
edilizia comportanti modifiche «dei prospetti»
(ovvero, del fronte o della facciata) e dunque
modifiche «all'esterno» dell'edificio. Né può
ritenersi —secondo l'interpretazione riduttiva
proposta dalla Regione, ma non corrispondente al
tenore letterale— che la disposizione impugnata
assoggetti alla SCIA solo le modifiche di dettaglio
delle facciate esistenti” (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 18.07.2017 n. 626 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire
in esame è stato richiesto per l’effettuazione sull’immobile
esistente di opere di ristrutturazione (e non di nuova
costruzione) da realizzare, per parte dell’edificio,
mediante demolizione e ricostruzione, sicché ai fine dell’autorizzabilità
dell’intervento, ex art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n.
380 del 2001, risulta comunque necessario verificare il
rispetto del vincolo della pari volumetria, parametro non
rispettato dal progetto per cui è causa che prevede una
variazione, sebbene in diminuzione, del volume dell’edificio
preesistente.
---------------
La ricorrente ha impugnato l’atto indicato in epigrafe con
il quale il Comune di Martina Franca ha comunicato il
diniego definitivo sull’istanza di permesso di costruire,
depositata in data 02.09.2013, per la realizzazione di opere
di ristrutturazione su di un immobile di proprietà della
società Sc.Im., già oggetto di condono edilizio ex art. 31
della Legge n. 47 del 1985.
La ricorrente ha esposto in fatto che sull’istanza in
questione, oltre ai pareri favorevoli degli uffici
competenti (Sportello Unico per l’Edilizia, Commissione
Paesaggio e Soprintendenza), il Comune aveva rilasciato
l’autorizzazione paesaggistica n. 98 del 2015, senza
tuttavia poi concludere il procedimento mediante il rilascio
del titolo autorizzativo; con atto depositato il 27.05.2016
la Sc.Im., ritenendo formato sulla domanda il
silenzio-assenso ex art. 20 del DPR n. 380 del 2001, aveva
quindi notiziato il Comune che in data 03.06.2016 avrebbe
iniziato i lavori; a fronte di tale comunicazione, l’Ente
civico aveva dapprima comunicato ex art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990 i motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza e, successivamente, nonostante le osservazioni
fatte pervenire dall’interessata, negato definitivamente il
permesso di costruire.
Il Comune, alla base del diniego di permesso di costruire
ha, da un lato, contestato l’applicabilità dell’istituto del
silenzio assenso, ricadendo l’immobile in questione su area
vincolata; dall’altro, ha articolato i seguenti motivi
ostativi: il progetto risulta in contrasto con l’art. 4
delle NTA del PRG che espressamente prevede “gli edifici
in contrasto con le destinazioni di zona ed i tipi previsti
dal presente PRG non potranno essere trasformati né ampliati”
e l’intervento previsto in progetto di “ristrutturazione
edilizia” è qualificato, ex art. 3, comma 1, lettera d),
del DPR n. 380 del 2001 quale “intervento rivolto a
trasformare gli organismi edilizi”; l’istanza presentata
è carente della dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR
n. 380 del 2001 del progettista abilitato, avendo il tecnico
attestato la sola conformità del progetto alle norme
igienico sanitarie e non anche “agli strumenti
urbanistici approvati ed adottati”; la destinazione
d’uso residenziale del fabbricato in progetto contrasta con
la destinazione di zona a viabilità; l’intervento di
ristrutturazione non rispetta la volumetria e la sagoma
dell’edificio esistente.
...
In ordine, invece, all’altro motivo fondante il diniego
opposto dall’Amministrazione (mancato rispetto del carico
volumetrico e della sagoma dell’immobile esistente), la
ricorrente ne eccepisce, da un lato, la genericità e,
dall’altro, l’infondatezza in quanto il progetto
prevedere la mera diminuzione della volumetria esistente e
la sagoma dell’edificio non sarebbe a suo dire intaccata
dalla proposta progettuale.
La censura va respinta.
Invero, il permesso di costruire in esame, come
correttamente replicato dal Comune, è stato richiesto per
l’effettuazione sull’immobile esistente di opere di
ristrutturazione (e non di nuova costruzione) da
realizzare, per parte dell’edificio, mediante demolizione e
ricostruzione, sicché ai fine dell’autorizzabilità
dell’intervento, ex art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n.
380 del 2001, risulta comunque necessario verificare il
rispetto del vincolo della pari volumetria, parametro non
rispettato dal progetto per cui è causa che prevede una
variazione, sebbene in diminuzione, del volume dell’edificio
preesistente; né può essere condivisa la tesi secondo cui
non vi sarebbe mutamento della sagoma (limite tutt’ora
permanente, anche dopo le modifiche introdotte dall’art. 30
del D.L. n. 69 del 2013, nelle ristrutturazioni con
demolizione e ricostruzione degli immobili vincolati),
tenuto conto di quanto precisato al riguardo dall’Ente, in
modo tutt’altro che generico, al punto 4 del preavviso di
diniego ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990
dell’01.06.2016.
...
Sulla base di tali motivi e considerata, quindi,
l’infondatezza di tutte le censure articolate in ricorso,
l’impugnazione va respinta (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 1025 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le conclusioni valutative del C.T.U. non possono
in alcun modo vincolare il Collegio sul piano giuridico.
Vale sul punto rammentare l'insegnamento giurisprudenziale
secondo il quale le perizie giurate depositate non sono
dotate di efficacia probatoria assoluta, potendo il giudice
discostarsi dalla risultanze in esse contenute sempre che ne
motivi adeguatamente la forza probatoria che intende loro
assegnare.
A maggior ragione è possibile discostarsi dalle valutazioni
giuridiche espresse (impropriamente) dal CTU, dovendo le
stesse essere attentamente vagliate in sede di decisione ed
il cui apprezzamento è affidato alla valutazione
discrezionale del giudice; anzi, l’organo decidente non è
obbligato affatto a tenerne conto e, per converso, ove
ritenga di farvi riferimento, deve autonomamente dare conto
del percorso logico-giuridico adottato.
---------------
L'art. 10, 1° comma - lett. c), del T.U. n. 380/2001, come
modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, assoggetta a permesso di
costruire quegli interventi di ristrutturazione edilizia
«che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici», ovvero si connettano a
mutamenti di destinazione d'uso, limitatamente agli immobili
compresi nelle zone omogenee A). Di converso l'art. 22, 3°
comma - lett. a), dello stesso T.U., come modificato dal
D.Lgs. n. 301/2002, prevede, però, che -a scelta
dell'interessato- tali interventi possono essere realizzati
anche in base a semplice denunzia di inizio attività.
Dalla lettura combinata delle due disposizioni emerge che
sono sempre realizzabili previa mera denunzia di inizio
dell'attività le ristrutturazioni edilizie di portata
minore: quelle, cioè, che determinano una semplice modifica
dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che
compongono la costruzione, in modo che, pur risultando
complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale
consistenza urbanistica (diverse da quelle, descritte
nell'art. 10, 1° comma — lett. c, che possono incidere sul
carico urbanistico).
Il T.U. n. 380/2001 ha introdotto, in sostanza, uno
sdoppiamento della categoria delle ristrutturazioni edilizie
come disciplinata, in precedenza, dall'art. 31, 1° comma —
lett. d), della legge n. 457/1978, riconducendo ad essa
anche interventi che ammettono integrazioni funzionali e
strutturali dell'edificio esistente, pure con incrementi
limitati di superficie e di volume. Ed invero, a seguito
della novella del 2002, pur essendo stato eliminato il
riferimento alla "fedele" ricostruzione, resta inteso che la
ricostruzione a seguito di demolizione costituisce
ristrutturazione se il risultato finale coincide nella
volumetria e nella sagoma con il preesistente edificio
demolito; mentre l'identità della volumetria e della sagoma
non costituisce, invece, un limite per gli interventi di
ristrutturazione che non comportino la previa demolizione
dell'edificio.
Dunque la ristrutturazione edilizia non è necessariamente
vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'edificio esistente e differisce sia dalla
manutenzione straordinaria (che non può comportare aumento
della superficie utile o del numero delle unità immobiliari,
né modifica della sagoma o mutamento della destinazione
d'uso) sia dal restauro e risanamento conservativo (che non
può modificare in modo sostanziale l'assetto edilizio
preesistente e consente soltanto variazioni d'uso
"compatibili" con l'edificio conservato).
Deve ritenersi, però, che le modifiche del "volume", ora
previste dall'art. 10 del T.U., possono consistere in
diminuzioni o traslazioni dei volumi preesistenti ed in
incrementi volumetrici modesti, poiché, qualora si
ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento
dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra
"ristrutturazione edilizia" e "nuova costruzione".
---------------
5a - Passando al merito, va osservato che la Sezione si è
già pronunziata sui ricorsi relativi alla medesima
fattispecie con sentenze
25.10.2016 n. 4920 e
28.10.2016 n. 5009. A tali pronunce, involgenti
le medesime problematiche giuridiche sottese al presente
ricorso, si opereranno ampi riferimenti nel prosieguo di
questa decisione.
...
6b - Il Collegio ritiene che il meccanismo di traslazione
volumetrica, accertato dal CTU e quantificato secondo gli
analitici calcoli eseguiti nella perizia, non possa essere
addotto a giustificazione delle cospicue volumetrie
configurate al nono piano e parte dell’ottavo, con
conseguenti aumenti di superficie.
Al riguardo va ribadito che le conclusioni valutative del
consulente tecnico non possono in alcun modo vincolare il
Collegio sul piano giuridico. Vale sul punto rammentare
l'insegnamento giurisprudenziale secondo il quale le perizie
giurate depositate non sono dotate di efficacia probatoria
assoluta, potendo il giudice discostarsi dalla risultanze in
esse contenute sempre che ne motivi adeguatamente la forza
probatoria che intende loro assegnare (Tar Lazio, sez.
III-quater, 23.01.2014 n. 855; in argomento anche Cons.
Stato, sez. IV, 24.04.2009 n. 2579).
A maggior ragione è possibile discostarsi dalle valutazioni
giuridiche espresse (impropriamente) dal CTU, dovendo le
stesse essere attentamente vagliate in sede di decisione ed
il cui apprezzamento è affidato alla valutazione
discrezionale del giudice; anzi, l’organo decidente non è
obbligato affatto a tenerne conto e, per converso, ove
ritenga di farvi riferimento, deve autonomamente dare conto
del percorso logico-giuridico adottato.
Vale premettere che l'art. 10, 1° comma - lett. c), del T.U.
n. 380/2001, come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002,
assoggetta a permesso di costruire quegli interventi di
ristrutturazione edilizia «che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici»,
ovvero si connettano a mutamenti di destinazione d'uso,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A).
Di converso l'art. 22, 3° comma - lett. a), dello stesso
T.U., come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002, prevede, però,
che -a scelta dell'interessato- tali interventi possono
essere realizzati anche in base a semplice denunzia di
inizio attività.
Dalla lettura combinata delle due disposizioni emerge che
sono sempre realizzabili previa mera denunzia di inizio
dell'attività le ristrutturazioni edilizie di portata
minore: quelle, cioè, che determinano una semplice modifica
dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che
compongono la costruzione, in modo che, pur risultando
complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale
consistenza urbanistica (diverse da quelle, descritte
nell'art. 10, 1° comma — lett. c, che possono incidere sul
carico urbanistico).
Il T.U. n. 380/2001 ha introdotto, in sostanza, uno
sdoppiamento della categoria delle ristrutturazioni edilizie
come disciplinata, in precedenza, dall'art. 31, 1° comma —
lett. d), della legge n. 457/1978, riconducendo ad essa
anche interventi che ammettono integrazioni funzionali e
strutturali dell'edificio esistente, pure con incrementi
limitati di superficie e di volume. Ed invero, a seguito
della novella del 2002, pur essendo stato eliminato il
riferimento alla "fedele" ricostruzione, resta inteso
che la ricostruzione a seguito di demolizione costituisce
ristrutturazione se il risultato finale coincide nella
volumetria e nella sagoma con il preesistente edificio
demolito; mentre l'identità della volumetria e della sagoma
non costituisce, invece, un limite per gli interventi di
ristrutturazione che non comportino la previa demolizione
dell'edificio.
Dunque la ristrutturazione edilizia non è necessariamente
vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'edificio esistente e differisce sia dalla
manutenzione straordinaria (che non può comportare aumento
della superficie utile o del numero delle unità immobiliari,
né modifica della sagoma o mutamento della destinazione
d'uso) sia dal restauro e risanamento conservativo (che non
può modificare in modo sostanziale l'assetto edilizio
preesistente e consente soltanto variazioni d'uso
"compatibili" con l'edificio conservato).
Deve ritenersi, però, che le modifiche del "volume",
ora previste dall'art. 10 del T.U., possono consistere in
diminuzioni o traslazioni dei volumi preesistenti ed in
incrementi volumetrici modesti, poiché, qualora si
ammettesse la possibilità di un sostanziale ampliamento
dell'edificio, verrebbe meno la linea di distinzione tra "ristrutturazione
edilizia" e "nuova costruzione" (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 14.11.2016 n. 5248 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi di cui al comma 1, lettere
a), b), c), d), contemplano, rispettivamente, gli
"interventi di manutenzione ordinaria", gli
"interventi di manutenzione straordinaria",
gli "interventi di restauro e di risanamento
conservativo", gli "interventi di
ristrutturazione edilizia", ma non quelli
comportanti incremento dei volumi edilizi che
rientrano nella categoria residuale degli
"interventi di nuova costruzione" di cui alla
lettera e) che vi ricomprende tutti “quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio
non rientranti nelle categorie definite alle lettere
precedenti”.
La giurisprudenza amministrativa ha precisato al
riguardo che “la semplice constatazione dell'aumento
di superficie e di volumetria è sufficiente a
rendere l'intervento edilizio non riconducibile al
paradigma normativo della ristrutturazione”.
---------------
Nell'attuale sistema normativo la
ristrutturazione trova il suo limite nella
necessità di rispettare il volume preesistente del
manufatto su cui si interviene, nel senso che un
intervento che determini un incremento di volume non
può essere qualificato come ristrutturazione
anche quando sia preordinato all'inserimento o alla
realizzazione di servizi o impianti.
Ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella
disciplina della ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione che richiede appunto il
rispetto (o meglio il non superamento) della
preesistente volumetria; nella fattispecie, essendo
pacifico che il progetto della ricorrente prevede la
realizzazione di nuovi volumi, per quanto modesti e
per quanto preordinati a munire dei servizi igienici
un preesistente e diverso fabbricato, si tratta
quindi di un intervento di nuova costruzione.
---------------
Come noto gli
interventi di cui al comma 1, lettere a), b), c),
d), contemplano, rispettivamente, gli "interventi
di manutenzione ordinaria", gli "interventi
di manutenzione straordinaria", gli "interventi
di restauro e di risanamento conservativo",
gli "interventi di ristrutturazione edilizia",
ma non quelli comportanti incremento dei volumi
edilizi che rientrano nella categoria residuale
degli "interventi di nuova costruzione"
di cui alla lettera e) che vi ricomprende tutti “quelli
di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio non rientranti nelle categorie definite
alle lettere precedenti”.
Contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente,
la giurisprudenza amministrativa ha precisato al
riguardo che “la semplice constatazione
dell'aumento di superficie e di volumetria è
sufficiente a rendere l'intervento edilizio non
riconducibile al paradigma normativo della
ristrutturazione” (cfr. Cons. Stato, V,
08.04.2014, n. 1653; Cons. Stato, IV, 17.11.2015, n.
5227).
Inoltre in fattispecie simile a quella oggetto della
presente controversia è stato affermato che “nell'attuale
sistema normativo la ristrutturazione trova
il suo limite nella necessità di rispettare il
volume preesistente del manufatto su cui si
interviene, nel senso che un intervento che
determini un incremento di volume non può essere
qualificato come ristrutturazione anche
quando sia preordinato all'inserimento o alla
realizzazione di servizi o impianti; ciò trova una
implicita ma inequivoca conferma nella disciplina
della ristrutturazione mediante demolizione e
ricostruzione che richiede appunto il rispetto (o
meglio il non superamento) della preesistente
volumetria; nella fattispecie, essendo pacifico che
il progetto della ricorrente prevede la
realizzazione di nuovi volumi, per quanto modesti e
per quanto preordinati a munire dei servizi igienici
un preesistente e diverso fabbricato, si tratta
quindi di un intervento di nuova costruzione”
(così TAR Latina, 11.06.2015, n. 472) (TAR Molise,
sentenza 11.03.2016 n. 116
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’attuale sistema normativo la
ristrutturazione trova il suo limite nella
necessità di rispettare il volume preesistente del
manufatto su cui si interviene, nel senso che un
intervento che determini un incremento di volume non
può essere qualificato come ristrutturazione
anche quando sia preordinato all’inserimento o alla
realizzazione di servizi o impianti.
Ciò trova una implicita ma inequivoca conferma nella
disciplina della ristrutturazione mediante
demolizione e ricostruzione che richiede appunto il
rispetto (o meglio il non superamento) della
preesistente volumetria.
Nella fattispecie, essendo pacifico che il progetto
della ricorrente prevede la realizzazione di nuovi
volumi, per quanto modesti e per quanto preordinati
a munire dei servizi igienici un preesistente e
diverso fabbricato, si tratta quindi di un
intervento di nuova costruzione.
---------------
Ciò premesso la risoluzione della controversia
presuppone la soluzione di due questioni: 1) la
qualificazione (ristrutturazione edilizia o
intervento di nuova costruzione)
dell’intervento che la ricorrente vorrebbe
realizzare; 2) la definizione del regime urbanistico
dell’area di intervento.
In ordine alla prima questione -che rileva ai fini
della decisione del primo motivo– ritiene il
Collegio che l’intervento di cui la ricorrente ha
chiesto l’assentimento debba qualificarsi come “nuova
costruzione”.
Dagli elaborati progettuali risulta infatti che il
progetto ha ad oggetto la realizzazione di un
piccolo corpo di fabbrica (di poco più di 10 mq.)
destinato a ospitare i servizi igienici di un
distinto fabbricato posto nelle sue immediate
prossimità.
La ricorrente sostiene che l’intervento darebbe
luogo a una ristrutturazione edilizia dato
che questa può consistere anche nella “modifica e
inserimento di nuovi elementi e impianti” (cfr.
articolo 3 dpr 06.06.2001, n. 380).
Va in contrario rilevato che nell’attuale sistema
normativo la ristrutturazione trova il suo
limite nella necessità di rispettare il volume
preesistente del manufatto su cui si interviene, nel
senso che un intervento che determini un incremento
di volume non può essere qualificato come
ristrutturazione anche quando sia preordinato
all’inserimento o alla realizzazione di servizi o
impianti; ciò trova una implicita ma inequivoca
conferma nella disciplina della ristrutturazione
mediante demolizione e ricostruzione che richiede
appunto il rispetto (o meglio il non superamento)
della preesistente volumetria; nella fattispecie,
essendo pacifico che il progetto della ricorrente
prevede la realizzazione di nuovi volumi, per quanto
modesti e per quanto preordinati a munire dei
servizi igienici un preesistente e diverso
fabbricato, si tratta quindi di un intervento di
nuova costruzione.
Alla luce delle considerazioni che precedono il
primo motivo va quindi respinto (TAR Lazio-Latina,
sentenza 11.06.2015 n. 472 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I ricorrenti sostengono che la progettata
ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione sarebbe illegittima
perché comportante una modifica del complessivo
volume preesistente (ancorché in diminuzione).
Orbene, ritiene il Collegio che tale tesi debba
essere disattesa, essendo da condividere quanto
precisato dal TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 3210
del 22.07.2004 in tema di limiti entro i quali è
possibile inquadrare la demolizione e ricostruzione
di un immobile nella ristrutturazione edilizia.
Appare, infatti, corretta e conforme a legge
l’affermazione che la volumetria preesistente
costituisce lo standard massimo di edificabilità in
sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la
possibilità di utilizzare la preesistente volumetria
soltanto in parte in sede di ricostruzione,
essendone precluso soltanto un aumento; cosa
desumibile dalle modifiche della normativa di
riferimento (l’art. 3 DPR 380/2001) intervenute nel
tempo, posto che si è passati dalla necessità di una
“fedele ricostruzione” ad una ricostruzione “con la
stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”,
ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla
normativa antisismica”: è quindi evidente l’intento
del legislatore di impedire soltanto aumenti della
complessiva cubatura degli edifici esistenti, ma non
diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non
appare ostativa alla riconducibilità dell’intervento
alla fattispecie della ristrutturazione edilizia
(come invece sostenuto dei ricorrenti), per cui,
risultando rispettato il disposto delle N.T.A. del
PRG, il motivo in commento va respinto, siccome
infondato.
---------------
Oggetto del gravame introdotto con il presente
ricorso sono i titoli a mezzo dei quali la Ma. srl
ha ricevuto l’assenso dal Comune di Caserta per la
realizzazione di una serie di opere edili a
carattere ristrutturativo, interessanti porzioni
immobiliari urbane di propria pertinenza ubicate
negli stabili di piazza ... n. 57 e n. 63.
In particolare, con il permesso di costruire n. 132
del 23.12.2011 risulta assentito (cfr. la relazione
tecnica allegata) il parziale abbattimento e
ricostruzione “a parità di sagoma e nei limiti
del volume esistente del fabbricato” (in
effetti, però, con volume post operam in
diminuzione rispetto all’esistente) di una unità
immobiliare residenziale; nonché, “per la parte
di fabbricato, attualmente destinato a deposito,
prospiciente il cortile,…il suo recupero
strutturale, attraverso la sua completa
ristrutturazione, con destinazione d’uso di
autorimessa privata, affiancato al piccolo box auto
esistente, ripristinato nella sua funzionalità”.
Con la successiva s.c.i.a. edilizia prot. n. 1123
del 05.01.2012 è stato invece proposto (cfr.
relazione tecnica illustrativa pure ad essa
allegata) un “progetto di variante architettonica
…reso necessario al fine di ridefinire
complessivamente l’articolazione del prospetto nord,
nonché, parzialmente, di quello ubicato lungo il
confine ovest, prospiciente l’area cortilizia del
civico 63”, specificamente articolato nella “realizzazione
di due coppie di balconi, aggettanti il prospetto
ovest, le cui proiezioni sono ricadenti
completamente nell’area di sedime di proprietà
esclusiva del segnalatore”; nella realizzazione,
lungo il prospetto nord, di “una serie di
aperture e di balconi che prospettano, anche in tal
caso sull’area della porzione di fabbricato del
civico 57, di esclusiva proprietà”; nella
previsione “di accorpare i due fabbricati,
attraverso l’apertura di un varco al piano terra”,
nonché di “accorpare il piccolo vano, di recente
acquisizione, ubicato nell’area cortilizia del
civico 63, al piano terra”.
In questa sede, i ricorrenti, sull’assunto di essere
tutti condomini del fabbricato di piazza Matteotti
n. 57, contestano la legittimità dei detti titoli
edilizi di cui si è munita la società
controinteressata, e, invocando la vigente normativa
urbanistica del Comune di Caserta, sostengono,
- con il primo motivo di ricorso, che non sarebbe consentito
il mutamento della destinazione d’uso (da deposito
ad autorimessa) del locale posto al piano terra
dell’edificio di via ... n. 57;
- con il secondo motivo di ricorso, che neppure sarebbe
possibile la modifica del volume complessivo
dell’organismo edilizio preesistente, ancorché in
diminuzione;
- con il terzo ed il quarto dei motivi articolati,
che gli interventi oggetto della s.c.i.a. prot. n.
1123 del 05.01.2012 in realtà avrebbero dovuto
essere assentiti a mezzo di permesso di costruire.
Dal suo canto, la Ma. srl., oltre a contestare la
legittimazione e l’interesse dei ricorrenti alla
proposta impugnazione, nonché ad eccepire
l’inammissibilità dell’impugnazione diretta della
s.c.i.a. (non scaturendo da questa alcun
provvedimento amministrativo tacito), ha dedotto che
con successiva s.c.i.a. prot. n. 11416 del
06.02.2013, essa aveva provveduto ad ottenere
l’assenso ad un’ulteriore variante al progetto in
questione, alla cui stregua non era più prevista la
realizzazione, né dell’autorimessa, né dei balconi
censurati da controparte (sul punto cfr. relazione
tecnica illustrativa allegata a tale nuovo atto).
Va, altresì, segnalato che, con atto depositato il
10.07.2013, la difesa dei ricorrenti ha dichiarato
di rinunciare “esclusivamente ai motivi rubricati
al n° 3) e al n° 4) del ricorso introduttivo, e cioè
quelli relativi all’impugnazione diretta della
s.c.i.a. prot. 1123, depositata dal
controinteressato in data 05.01.2012”.
Così sommariamente delineati i termini del presente
giudizio, osserva il Tribunale che può prescindersi
dall’esaminare, sia l’eccezione della
controinteressata di carenza di legittimazione o di
interesse dei ricorrenti in dipendenza della loro
posizione di proprietari limitrofi agli immobili
oggetto di intervento, sia l’analoga eccezione
incentrata sulla questione della non diretta
impugnabilità della s.c.i.a., non potendo comunque
il ricorso trovare accoglimento, secondo quanto
appresso specificato.
In primo luogo, infatti, essendovi stata espressa
rinunzia da parte della difesa dei ricorrenti ai
motivi proposti sub 3 e sub 4 dell’atto
introduttivo, il ricorso va dichiarato improcedibile,
quanto a tali punti, per sopravvenuta carenza di
interesse: invero, se pure in assenza delle
formalità prescritte dai commi 1 e 3 dell’art. 84
cpa (in particolare stante la mancata necessaria
notifica dell’atto alla controparte almeno dieci gg.
prima dell’udienza), non può dirsi sostanziata una
rituale rinunzia al ricorso (nel caso di specie
parziale e limitata ai due citati motivi,
nell’ambito di un ricorso cumulativo), comunque il
comportamento tenuto dai ricorrenti appare univoco,
nel senso dell’essere per essi sopravvenuta una
carenza dell’interesse alla decisione della causa,
suscettibile di fondare, ai sensi dell’art. 84, co.
4, cpa, la declaratoria di improcedibilità dei
motivi di ricorso in commento.
Analoga declaratoria di improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse, va, altresì,
pronunziata in relazione al primo motivo di ricorso,
stante la sopravvenienza dell’oggettiva circostanza
costituita da una significativa modifica
progettuale, apportata dalla Ma. srl mediante
l’ulteriore s.c.i.a. prot. n. 11416 del 06.02.2013,
con la quale è stata esclusa la realizzazione di
modifiche della destinazione d’uso del locale
deposito esistente, in modo da non operarne più la
trasformazione in autorimessa privata: poiché
l’assenso a tale nuova progettazione risulta
incontestato (e, comunque, documentato dalla
controinteressata), ne deriva che ai ricorrenti non
può essere riconosciuto più alcun interesse alla
definizione del motivo di ricorso in commento,
essendo questo interamente incentrato su una pretesa
illegittimità del mutamento di destinazione d’uso
previsto nell’originario titolo edilizio oggetto di
impugnazione, né potendo ad essi derivare alcuna
utilità da un eventuale annullamento sul punto del
permesso di costruire impugnato (ormai superato).
Rimane, quindi, da esaminare nel merito soltanto il
secondo motivo di ricorso, con il quale i
ricorrenti, nell’impugnare il permesso di costruire
n. 132/2011 rilasciato dal Comune di Caserta,
sostengono che la progettata ristrutturazione
edilizia mediante demolizione e ricostruzione,
sarebbe illegittima perché comportante una modifica
del complessivo volume preesistente (ancorché in
diminuzione).
Orbene, ritiene il Collegio che la tesi dei
ricorrenti debba essere disattesa, essendo da
condividere quanto precisato dal TAR Puglia-Bari
nella sentenza n. 3210 del 22.07.2004 in tema di
limiti entro i quali è possibile inquadrare la
demolizione e ricostruzione di un immobile nella
ristrutturazione edilizia.
Appare, infatti, corretta e conforme a legge
l’affermazione che la volumetria preesistente
costituisce lo standard massimo di edificabilità in
sede di ricostruzione, nel senso che sussiste la
possibilità di utilizzare la preesistente volumetria
soltanto in parte in sede di ricostruzione,
essendone precluso soltanto un aumento; cosa
desumibile dalle modifiche della normativa di
riferimento (l’art. 3 DPR 380/2001) intervenute nel
tempo, posto che si è passati dalla necessità di una
“fedele ricostruzione” ad una ricostruzione “con
la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”,
ed oggi alla “demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria…preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla
normativa antisismica”: è quindi evidente
l’intento del legislatore di impedire soltanto
aumenti della complessiva cubatura degli edifici
esistenti, ma non diminuzioni della stessa.
Pertanto, la prevista diminuzione di volumetria non
appare ostativa alla riconducibilità dell’intervento
alla fattispecie della ristrutturazione edilizia
(come invece sostenuto dei ricorrenti), per cui,
risultando rispettato il disposto delle N.T.A. del
PRG, il motivo in commento va respinto, siccome
infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 25.07.2014 n. 4265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
Nessun dubbio, invece, in aree sottoposte a vincoli
-ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42-
laddove la demolizione/ricostruzione è
ascritta alla "ristrutturazione edilizia"
unicamente se sia rispettata la "medesima sagoma dell'edificio preesistente"
(e, conseguentemente, anche il volume). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
novella apportata dal d.l. n. 69/2013 all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 ha espunto il limite della
sagoma ai fini della possibilità di qualificare come
ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e
ricostruzione.
La norma fa tuttavia salva l’ipotesi degli
immobili sottoposti a vincoli, ovvero ricadenti in zone
vincolate ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, per i quali
continua a valere il rispetto della sagoma, oltre che del
volume.
---------------
Con il sesto motivo It. aggiunge che, anche a voler
ritenere applicabile il trattamento sanzionatorio vigente
all’epoca di commissione dell’abuso, l’applicazione
dell’art. 196 l.r. n. 65/2014 cit. risulterebbe comunque
errata, stante la rivendicata natura di ristrutturazione
edilizia dell’intervento (vengono riproposti in parte qua i
medesimi profili di gravame già posti a fondamento del
ricorso introduttivo).
I motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
Come già rilevato, la novella apportata dal d.l. n. 69/2013
all’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 ha espunto il limite della
sagoma ai fini della possibilità di qualificare come
ristrutturazione edilizia gli interventi di demolizione e
ricostruzione. La norma fa tuttavia salva l’ipotesi degli
immobili sottoposti a vincoli, ovvero ricadenti in zone
vincolate ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, per i quali
continua a valere il rispetto della sagoma, oltre che del
volume (cfr. TAR Toscana, n. 582/2016, cit.; TAR
Sardegna, sez. II, 05.12.2017, n. 772; Cass. pen., sez.
III, 08.03.2016, n. 33043).
L’edificio di proprietà della It. ricade in zona
agricola sottoposta a vincolo paesaggistico (d.m. 30.07.1974), di modo che l’intervento –comportando modifiche
della sagoma– va classificato come nuova costruzione alla
luce sia della disciplina vigente al momento della sua
realizzazione e al momento della richiesta di sanatoria, sia
della disciplina attuale.
La scelta sanzionatoria praticata
dal Comune resistente, ai sensi dell’art. 196 l.r. n.
65/2014, si sottrae pertanto ai vizi dedotti (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 07.02.2019 n. 210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora l’intervento di demolizione e
ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite
della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di
intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto
alla categoria della nuova costruzione.
Ad avviso del Collegio la locuzione “…immobili sottoposti
a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto
dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo
edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto
di tutela.
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non
possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della
natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche
nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del
Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi
in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità
non già assoluta ma solo relativa.
---------------
La questione centrale sottoposta al Collegio concerne la
qualificazione dell’intervento proposto dalla ricorrente,
ossia se lo stesso vada classificato come ristrutturazione
(ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n.
380/2001 oppure come nuova costruzione (ai sensi dell’art.
3, comma 1, lett. e), del medesimo decreto).
In particolare costituisce punto nodale della questione la
portata dell’inciso di cui al citato art. 3, comma 1, lett.
d), del DPR n. 380/2001 in punto di definizione degli
interventi di ristrutturazione edilizia per il quale “Rimane
fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni, gli interventi di demolizione e
ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Nel caso di specie, infatti, si è in presenza di un
intervento di demolizione e ricostruzione senza aumento di
volumetria ma con modifica della sagoma, da realizzarsi su
un immobile ricadente in zona E agricola, con destinazione
commerciale giusto provvedimento di condono del 2010, non
specificamente vincolato ma ricadente in zona genericamente
vincolata ai sensi del DM 30.11.1965 (modificato nel 1968)
di tutela paesaggistica del territorio del Comune di Olbia,
oltre che nell’ambito del PPR che comprende il Comune di
Olbia.
Occorre dunque stabilire, anzitutto, se la disposizione che
esclude l’ammissibilità degli interventi di demolizione e
ricostruzione con modifica di sagoma di immobili non
specificamente vincolati ma ricadenti nelle zone agricole
ricomprese in ambito vincolato debba trovare applicazione
nel caso di specie.
Orbene, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del
2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia) stabilisce che rientrano
nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
quelli consistenti nella demolizione e, successiva,
ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato
preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta
dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge
21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge
09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma.
La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più
menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che,
attualmente, possono considerarsi interventi di
ristrutturazione anche quelli che si limitano semplicemente
al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, come detto, l’ultimo periodo della disposizione
specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con
riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
[…] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Come si vede questa norma prevede un’eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio.
Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo
della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione
e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite
della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di
intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto
alla categoria della nuova costruzione, con necessaria
applicazione applicati sia dell’art. 26 della LR 8/2015 che
detta disposizioni generali di salvaguardia dei territori
rurali, sia dell’art. 83 delle NTA del PPR.
Ad avviso del Collegio la locuzione “…immobili sottoposti
a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto
dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo
edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto
di tutela (in termini: Cass. Pen., Sez. III, 08.03.2016 n.
33043).
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non
possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della
natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche
nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del
Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi
in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità
non già assoluta ma solo relativa.
L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base
della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento
di cui è causa –che incide su un’area soggetta a vincolo
paesaggistico e che pacificamente non rispetta il limite
della sagoma preesistente– va correttamente qualificato come
intervento di nuova costruzione.
Sotto questo profilo non è decisiva la circostanza che
l’immobile fosse stato oggetto di un provvedimento di
condono anche in ordine alla destinazione commerciale.
Il condono edilizio è infatti un istituto eccezionale che
consente al richiedente il mantenimento e la conservazione
di un fabbricato abusivamente realizzato ma non lo sottrae
alla disciplina urbanistica applicabile in ragione della sua
localizzazione.
Pertanto –con riguardo al caso di specie- l’eventuale
demolizione dell’immobile in questione comporterà –per il
caso di riedificazione con modifica della sagoma-
l’applicazione della disciplina della nuova costruzione in
zona agricola, con conseguente verifica, ai fini del
rilascio del titolo edilizio, del possesso dei requisiti
oggettivi e soggettivi previsti dalla normativa vigente.
Ciò, del resto, è confermato dall’art. 39, comma 5, della
legge regionale n. 8/2015 in punto di rinnovo del patrimonio
edilizio con interventi di demolizione e ricostruzione, che
all’ultimo alinea precisa che “Nelle zone urbanistiche E
ed H non è ammessa deroga alle vigenti disposizioni
regionali”.
La qualificazione nei termini predetti di nuova costruzione
dell’intervento proposto dalla ricorrente conduce quindi
alla reiezione del ricorso che, a ben vedere, muove
interamente dal presupposto non fondato che i lavori oggetto
della DUAAP avessero natura di ristrutturazione edilizia.
In conclusione, quindi, il ricorso si rivela infondato e va
respinto (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 05.12.2017 n. 772). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
chiarire come, pur nella successione di
modifiche interessanti le norme in tema di ristrutturazione edilizia, quest’ultima tipologia di
intervento edilizio ricomprenda, nel proprio ambito
generale, tipologie differenti, solo per alcune
delle quali il legislatore prevede la necessità del
permesso di costruire; da un lato, dunque, vi è la
generale definizione di ristrutturazione edilizia
(art. 3, co. 1, lett. d); dall’altro, le specifiche
“species” del genus ristrutturazione edilizia per le
quali occorre il permesso di costruire (art. 10, co.
1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato:
“Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30,
comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69,
convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi
sono ora tre distinte ipotesi di intervento
rientranti nella definizione di “ristrutturazione
edilizia”, che possono portare “ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente”:
- la prima, non comportante demolizione del
preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in
via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti”;
- la seconda, caratterizzata da demolizione e
ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla
normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto
al testo previgente, non è più richiesta l’identità
di sagoma);
- la terza, rappresentata dagli interventi “volti al
ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza”.
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi
innanzi indicate riguardino immobili sottoposti a
vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà parlarsi
di ristrutturazione edilizia solo in presenza,
nell’immobile ricostruito, della identità di sagoma
dell’edificio preesistente".
Per effetto della lett. c) del medesimo articolo,
anche l’art. 10, co. 1, lett. c), del DPR n. 380/2001
è stato modificato, di modo che è necessario il
permesso di costruire per “gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o
delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma
di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni”.
Infine, con modifica introdotta dall’art. 17, co. 1,
lett. d), d.l. 12.09.2014 n. 133, conv. in l.
11.11.2014 n. 164, alla necessità di permesso
di costruire per i casi in cui il nuovo fabbricato
comporti anche “aumento di unità immobiliari” e
“modifica del volume”, si è sostituita la più
limitata ipotesi di “modifiche della volumetria
complessiva degli edifici” (eliminando, dunque, il
caso dell’aumento delle unità immobiliari).
E’ appena il caso di osservare che il legislatore,
in sede di elencazione delle ipotesi di
ristrutturazione edilizia con necessità di permesso
di costruire, ha ricompreso anche quella comportante
modifiche di sagoma di edifici vincolati ex d.lgs.
n. 42/2004, ipotesi da riferirsi ai soli casi in cui
la ristrutturazione riguardi edifici vincolati, ma
senza abbattimento, poiché, in tale ultima ipotesi,
ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. d), si
fuoriesce dalla definizione di “ristrutturazione
edilizia”.
---------------
In definitiva, non tutti gli interventi di
ristrutturazione edilizia necessitano del rilascio
del permesso di costruire, ma solo quelli
specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett.
c) e, per quel che interessa nella presente sede,
quelli che “portino ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva
degli edifici o dei prospetti”, posto che le
ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma
(mutamenti di destinazione d’uso di immobili in zona
A, interventi che modificano la sagoma di immobili
sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n.
42/2004), non interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio
del permesso di costruire una modifica (parziale o
totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un
aumento della volumetria complessiva; solo in questi
casi, d’altra parte, l’intervento si caratterizza
(in ossequio alla prescrizione normativa) come
“trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione
ricostruttiva” (come definita dalla
giurisprudenza), a
maggior ragione se con invarianza, oltre che di
volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi
è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai
sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001, manca il
presupposto per la richiesta e corresponsione del
contributo di costruzione.
Infine, giova osservare che, del tutto
coerentemente, il legislatore, all’art. 22, co. 1,
lett. c), DPR n. 380/2001, prevede, tra gli
interventi sottoposti a segnalazione certificata di
inizio di attività (SCIA), anche i casi di
ristrutturazione edilizia per i quali non è
necessario il permesso di costruire, fermo restando
la possibilità per l’interessato (co. 7) di
richiedere comunque il permesso di costruire “senza
obbligo del pagamento del contributo di costruzione
di cui all’art. 16” (con esclusione dei casi in cui,
ai sensi dell’art. 23, la SCIA è sostitutiva del
permesso di costruire).
---------------
Con il
terzo motivo di appello, la società
appellante lamenta, in sostanza, il difetto di
motivazione in ordine alle ragioni di fatto e di
diritto che hanno indotto l’amministrazione a
determinare il contenuto dell’atto oggetto di
censura, non considerando la “peculiarità della
fattispecie”.
Giova osservare, in punto di fatto, che è pacifico
tra le parti che l’intervento per il quale la
società ricorrente ha richiesto il permesso di
costruire non comporta modifica della sagoma, della
superficie esistente ed autorizzata, dei volumi e
della destinazione d’uso (v. pagg. 11-12 app.; pag.
13 memoria Comune di Monza del 11.01.2017).
Inoltre, il permesso di costruire n. 91 del Comune
di Monza, oggetto di (parziale) impugnazione, è
stato emesso il 13.01.2015, ed è, dunque, a
tale data che occorre fare riferimento onde
individuare la normativa urbanistico-edilizia
concretamente applicabile.
5.1. Tanto precisato, occorre osservare che l’art.
16 DPR n. 380/2001 prevede che, salvi i casi di
esenzione di cui all’art. 17, co. 3, “il rilascio
del permesso di costruire comporta la corresponsione
di un contributo commisurato all’incidenza degli
oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione”.
Come appare evidente, la norma collega il pagamento
del contributo di costruzione al rilascio del
permesso di costruire; in altre parole, è per quelle
opere per la cui realizzazione la legge prevede tale
titolo autorizzatorio che il contributo di
costruzione è dovuto.
Il precedente art. 10 prevede che il permesso di
costruire è necessario per gli “interventi di
trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio”, espressamente indicando, tra questi,
(comma 1) gli interventi di nuova costruzione (lett.
a), gli interventi di ristrutturazione urbanistica
(lett. b), e gli interventi di ristrutturazione
edilizia (lett. c).
Il comma 2 prevede, inoltre, che le Regioni possono
stabilire con legge “quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio
attività”.
In sostanza, il legislatore statale collega la
necessità di permesso di costruire a fenomeni di
“trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio” e, in primo luogo, qualifica tali la
nuova costruzione, la ristrutturazione urbanistica e
la ristrutturazione edilizia; in secondo luogo,
demanda alle Regioni di individuare quali interventi
(diversi da quelli precedentemente indicati)
comportanti trasformazione urbanistica (ma non
necessariamente edilizia), richiedano il permesso di
costruire in ragione della loro natura ed incidenza,
in particolare, sul carico urbanistico.
In ambedue le ipotesi innanzi considerate, appare
evidente come il permesso di costruire si colleghi
sempre ad interventi che incidono sul territorio,
trasformandolo sul piano urbanistico–edilizio, o
anche su uno solo dei due.
5.2. Più in particolare, per il caso di
ristrutturazione edilizia, l’art. 10, co. 1, lett.
c) –nel testo vigente al momento del rilascio del
titolo edilizio- prevede la necessità del permesso
di costruire non già per tutti i casi di
ristrutturazione edilizia, bensì, più precisamente,
per quelli che “portino ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva
degli edifici o dei prospetti, ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione
d’uso, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni”.
Al contempo, l’art. 3, co. 1, lett. d), del DPR n.
380/2001
“gli interventi rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi
di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche
quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione
con la stessa volumetria di quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché
quelli volti al ripristino di edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo
che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia
rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di
chiarire, con considerazioni che qui si intendono
completamente riportate (v. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443, e giurisprudenza ivi
richiamata), come, pur nella successione di
modifiche interessanti le norme in tema di
ristrutturazione edilizia, quest’ultima tipologia di
intervento edilizio ricomprenda, nel proprio ambito
generale, tipologie differenti, solo per alcune
delle quali il legislatore prevede la necessità del
permesso di costruire; da un lato, dunque, vi è la
generale definizione di ristrutturazione edilizia
(art. 3, co. 1, lett. d); dall’altro, le specifiche
“species” del genus ristrutturazione edilizia per le
quali occorre il permesso di costruire (art. 10, co.
1, lett. c).
Si è, in particolare, affermato:
“Per effetto della modifica introdotta dall'art. 30,
comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69,
convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98, ... vi
sono ora tre distinte ipotesi di intervento
rientranti nella definizione di “ristrutturazione
edilizia”, che possono portare “ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente”:
- la prima, non comportante demolizione del
preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in
via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione
di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti”;
- la seconda, caratterizzata da demolizione e
ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla
normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto
al testo previgente, non è più richiesta l’identità
di sagoma);
- la terza, rappresentata dagli interventi “volti al
ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne
la preesistente consistenza”.
Inoltre, qualora la seconda e la terza delle ipotesi
innanzi indicate riguardino immobili sottoposti a
vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004, potrà parlarsi
di ristrutturazione edilizia solo in presenza,
nell’immobile ricostruito, della identità di sagoma
dell’edificio preesistente".
Per effetto della lett. c) del medesimo articolo,
anche l’art. 10, co. 1, lett. c), del DPR n. 380/2001
è stato modificato, di modo che è necessario il
permesso di costruire per “gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o
delle superfici, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma
di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni”.
Infine, con modifica introdotta dall’art. 17, co. 1,
lett. d), d.l. 12.09.2014 n. 133, conv. in l.
11.11.2014 n. 164, alla necessità di permesso
di costruire per i casi in cui il nuovo fabbricato
comporti anche “aumento di unità immobiliari” e
“modifica del volume”, si è sostituita la più
limitata ipotesi di “modifiche della volumetria
complessiva degli edifici” (eliminando, dunque, il
caso dell’aumento delle unità immobiliari).
E’ appena il caso di osservare che il legislatore,
in sede di elencazione delle ipotesi di
ristrutturazione edilizia con necessità di permesso
di costruire, ha ricompreso anche quella comportante
modifiche di sagoma di edifici vincolati ex d.lgs.
n. 42/2004, ipotesi da riferirsi ai soli casi in cui
la ristrutturazione riguardi edifici vincolati, ma
senza abbattimento, poiché, in tale ultima ipotesi,
ai sensi del precedente art. 3, co. 1, lett. d), si
fuoriesce dalla definizione di “ristrutturazione
edilizia”.
In definitiva, non tutti gli interventi di
ristrutturazione edilizia necessitano del rilascio
del permesso di costruire, ma solo quelli
specificamente indicati dall’art. 10, co. 1, lett.
c) e, per quel che interessa nella presente sede,
quelli che “portino ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva
degli edifici o dei prospetti”, posto che le
ulteriori due ipotesi contemplate dalla norma
(mutamenti di destinazione d’uso di immobili in zona
A, interventi che modificano la sagoma di immobili
sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n.
42/2004), non interessano il caso di specie.
Occorre, dunque, perché sia necessario il rilascio
del permesso di costruire una modifica (parziale o
totale) dell’organismo edilizio preesistente ed un
aumento della volumetria complessiva; solo in questi
casi, d’altra parte, l’intervento si caratterizza
(in ossequio alla prescrizione normativa) come
“trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio”.
Nelle ipotesi, invece, di “ristrutturazione
ricostruttiva” (come definita dalla giurisprudenza:
Cons. Stato, sez. IV, 07.04.2015 n. 1763; 09.05.2014 n. 2384;
06.07.2012 n. 3970), a
maggior ragione se con invarianza, oltre che di
volume, anche di sagoma e di area di sedime, non vi
è necessità di permesso di costruire e, dunque, ai
sensi dell’art. 16 DPR n. 380/2001, manca il
presupposto per la richiesta e corresponsione del
contributo di costruzione.
Infine, giova osservare che, del tutto
coerentemente, il legislatore, all’art. 22, co. 1,
lett. c), DPR n. 380/2001, prevede, tra gli
interventi sottoposti a segnalazione certificata di
inizio di attività (SCIA), anche i casi di
ristrutturazione edilizia per i quali non è
necessario il permesso di costruire, fermo restando
la possibilità per l’interessato (co. 7) di
richiedere comunque il permesso di costruire “senza
obbligo del pagamento del contributo di costruzione
di cui all’art. 16” (con esclusione dei casi in cui,
ai sensi dell’art. 23, la SCIA è sostitutiva del
permesso di costruire).
5.3. Le conclusioni alle quali si è innanzi
pervenuti non contrastano con quanto previsto, per
la Regione Lombardia, dall’art. 44 l.reg. 11.03.2005 n. 12, posto che, nel definire le modalità di
determinazione degli oneri di urbanizzazione per gli
interventi di ristrutturazione edilizia, tale
disposizione non impone una generalizzata onerosità
dell’intervento, come si evince dall’inciso “se
dovuti”, riferito agli oneri e più volte ripetuto
(v. co. 8, 10, 10-bis).
Inoltre –diversamente considerando rispetto alla
sentenza impugnata (pag. 10)- è solo nei sensi e
limiti innanzi esposti, che può trovare applicazione
quanto previsto dalla delibera della Giunta comunale
di Monza 03.11.2008 n. 43, laddove la stessa
prevede il pagamento di oneri di urbanizzazione per
gli interventi di ristrutturazione comportanti
demolizione e ricostruzione, in misura pari a quelli
previsti per le nuove costruzioni
6. Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello
è fondato:
- sia in relazione al primo profilo del secondo
motivo (sub lett. b1), poiché, in presenza di
interventi che non comportano “trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio”, nei sensi e
limiti normativamente considerati ed innanzi
esposti, non è dovuto il contributo di cui all’art.
16, co. 1, DPR n. 380/2001;
- sia in relazione al terzo motivo di appello (sub
lett. c), posto che l’amministrazione, lungi dal
procedere ad una “automatica” applicazione dell’art.
16, co. 1, cit. ai casi di ristrutturazione
edilizia, avrebbe dovuto congruamente motivare le
ragioni per le quali, in presenza della (affatto
particolare) tipologia di intervento oggetto di
istanza di permesso di costruire, riteneva di
procedere all’adozione del permesso di costruire con
corrispondente onerosità dell’intervento e, dunque,
imposizione degli oneri a carico del richiedente.
Da quanto esposto consegue, in riforma della
sentenza di I grado, ed in corrispondenza della
domanda formulata con il ricorso instaurativo del
giudizio, l’annullamento del permesso di costruire
13.01.2015 n. 91, nella parte in cui con il
medesimo è stato richiesto il versamento del
contributo di costruzione per un importo di Euro
257.377,54.
Resta fermo il potere del Comune di Monza di
verificare che il progetto presentato ed oggetto di
istanza, presenti tutte le caratteristiche innanzi
indicate che, ove esistenti, comportano la non
corresponsione di oneri ai sensi dell’art. 16 DPR n.
380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2017 n. 2567 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rispetto alla normativa precedente, il nuovo art.
3 del DPR n. 380 del 2001 siccome modificato dall’art. 30,
comma 1°, lett. a), del DL n. 69/2013, al fine di
qualificare un intervento edilizio realizzato mediante
demolizione e ricostruzione dell’edificio come “ristrutturazione
edilizia”, non richiede più la verifica dell’identità di
“sagoma”, essendo sufficiente il rispetto del vincolo della
medesima volumetria, con l’unica eccezione degli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, in relazione
ai quali continua a permanere anche il vincolo di sagoma.
---------------
Con ricorso tempestivamente notificato la Ma.Co. snc ha impugnato
la nota indicata in epigrafe con la quale il Comune di
Leverano ha respinto l’istanza di permesso di costruire
relativa ad un intervento di ristrutturazione edilizia ex
art. 3, comma 1, lett. d), DPR n. 380 del 2001.
La ricorrente ha esposto in fatto di avere presentato, in
data 13.01.2016, istanza di permesso di costruire per
la ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione di un immobile esistente; dopo tale istanza la
Marino Congedo aveva ottenuto il permesso di costruire n. 6
del 2015; in seguito, l’interessata aveva presentato
un’ulteriore istanza di permesso di costruire inerente lo
stesso edificio, al fine di poter procedere alla
ristrutturazione edilizia con una differente soluzione
progettuale rispetto a quella inizialmente assentita,
beneficiando delle modalità più “liberali” introdotte
dall’art. 30, comma 1°, lett. a), del DL n. 69 del 2013, emendativo della precedente disciplina contenuta nell’art. 3
del DPR n. 380 del 2001 in ordine alla vincolo della sagoma;
l’Ente, tuttavia, con le note impugnate, aveva respinto
l’istanza, ritenendo necessario il mantenimento del vincolo
della sagoma, per la tipicità dell’immobile interessato
(masseria).
La ricorrente ha contestato la decisione assunta
dall’Amministrazione in quanto, a suo dire, nel caso in
esame non ricorrerebbe nessuna delle eccezioni introdotte
dal legislatore con il DL n. 69 del 2013 per imporre il
mantenimento del vincolo della sagoma, in deroga alla
“liberalizzazione” prevista sul punto dalla nuova normativa.
Nel corso del giudizio si sono costituiti il Comune di
Leverano e il controinteressato Fe.Ve. i quali
hanno contestato le avverse doglianze e chiesto il rigetto
dell’impugnazione.
All’esito del giudizio, stante la nuova disciplina
introdotta dal DL n. 69 del 2013 in materia di
ristrutturazione edilizia, il ricorso va accolto.
Invero, il legislatore con tale ultima modifica normativa,
all’art. 30, comma 1, ha così disposto: “Fermo restando quanto
previsto dall'articolo 22, comma 6, del Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, al medesimo decreto sono apportate le
seguenti modificazioni: a) all'articolo 3, comma 1, lettera
d), ultimo periodo, le parole: «e sagoma» sono soppresse e
dopo la parola "antisismica" sono aggiunte le seguenti: «nonché
quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente”.
Pertanto, a seguito di tale intervento legislativo, l’art. 3,
comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001 in rilievo in
questa sede, definisce gli interventi di ristrutturazione
edilizia, come tutti “gli interventi rivolti a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la
modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
e gli interventi di ripristino di edifici crollati o
demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente”.
In altri termini, rispetto alla normativa precedente, il
nuovo art. 3 del DPR n. 380 del 2001, al fine di qualificare
un intervento edilizio realizzato mediante demolizione e
ricostruzione dell’edificio come “ristrutturazione
edilizia”, non richiede più la verifica dell’identità di
“sagoma”, essendo sufficiente il rispetto del vincolo della
medesima volumetria, con l’unica eccezione degli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, in relazione
ai quali continua a permanere anche il vincolo di sagoma.
Nel caso in esame l’immobile oggetto della domanda di
permesso di costruire articolata dal ricorrente non risulta
sottoposto ad alcuno dei vincoli di cui al D.Lgs. n. 42 del
2004, ma nel provvedimento impugnato il Comune di Leverano
ha ritenuto che il vincolo di sagoma operi comunque, per la
c.d. “tipicità” dell’edificio da ristrutturare, qualificato
nello strumento urbanistico comunale come “masseria” e tale
conclusione, ad avviso dell’Ente, sarebbe legittima in forza
di quanto statuito nell’art. 23-bis, comma 4, del DPR n. 380
del 2001.
Tale norma così recita: “All'interno delle zone omogenee A)
di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e in quelle equipollenti secondo l'eventuale
diversa denominazione adottata dalle leggi regionali, i
comuni devono individuare con propria deliberazione, da
adottare entro il 30.06.2014, le aree nelle quali non e'
applicabile la segnalazione certificata di inizio attività
per interventi di demolizione e ricostruzione, o per
varianti a permessi di costruire, comportanti modifiche
della sagoma. […] Nelle more dell'adozione della
deliberazione di cui al primo periodo e comunque in sua
assenza, non trova applicazione per le predette zone
omogenee A) la segnalazione certificata di inizio attività
con modifica della sagoma”.
Ad avviso del Comune da tale disposizione deriverebbe la
possibilità per gli Enti locali di introdurre delle
eccezioni ulteriori (rispetto a quella dei vincoli ex D.Lgs.
n. 42 del 2004 già prevista dall’art. 3 del DPR n. 380 del
2001) all’applicabilità della “liberalizzazione” introdotta
dal DL n. 69 del 2013; in altri termini, secondo
l’Amministrazione, anche in presenza di immobili non
vincolati ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 (per i quali
il legislatore nazionale ha previsto il permanere del
vincolo della sagoma nelle ristrutturazioni), i Comuni,
nelle zone omogenee A), potrebbero prevedere nei propri
strumenti urbanistici altre ipotesi nelle quali imporre a
chi intenda ristrutturare un edificio, il mantenimento della
stessa sagoma preesistente; pertanto, del tutto legittima
sarebbe la decisione contenuta nel provvedimento impugnato
di richiedere al signor Lezzi di rispettare tale parametro
nella ristrutturazione della sua “masseria”.
La tesi non può essere condivisa.
Invero, dalla lettura della norma, dalla sua collazione
sistematica (nell’ambito del titolo II riguardante i “titoli
abilitativi” da richiedere per le diverse attività edilizie
elencate nella parte generale) e dall’oggetto della
disposizione (autorizzazioni preliminari alla segnalazione
certificata di inizio attività e alla comunicazione
dell'inizio dei lavori) si evince chiaramente che la ratio
di tale previsione non è quella di consentire ai Comuni di
restringere la portata innovativa dell’art. 30 del DL n. 69
del 2013, introducendo altre ipotesi nelle quali imporre il
vincolo della sagoma nelle ristrutturazioni, bensì quello di
demandare a tali Enti locali la scelta, nelle zone omogenee
di tipo A), di quale titolo edilizio richiedere
(segnalazione certificata di inizio attività ovvero
permesso di costruire) per interventi di demolizione e
ricostruzione, o per varianti a permessi di costruire,
comportanti modifiche della sagoma, ferma restando la
disciplina dettata dal legislatore nazionale in ordine ai
casi riconducibili agli interventi di ristrutturazione.
Peraltro, tale conclusione trova conferma nello stesso art.
3, comma 2, del DPR n. 380 del 2001 dove si legge: “Le
definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni
degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti
edilizi” e risulta coerente con l’esigenza di garantire che
il principio generale contenuto nell’art. 3 del DPR n. 380
del 2001 trovi applicazione uniforme su tutto il territorio
nazionale.
Pertanto, non ricorrendo nel caso in esame nessuna delle
ipotesi derogatorie all’eliminazione del vincolo della
sagoma contenute nell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001, il
provvedimento impugnato, motivato con riferimento a tale
ragione ostativa, va senz’altro ritenuto illegittimo, fermo
restando l’obbligo per l’Amministrazione, nel ripronunciarsi
sull’istanza del ricorrente, di valutare ogni altro aspetto
rilevante della questione, compreso il rispetto del vincolo
della medesima volumetria, sul quale ha insistito il
controinteressato Ve., ma che non può essere analizzato
in questa sede, trattandosi di profilo non espressamente
utilizzato dal Comune per fondare la decisione assunta con
il provvedimento impugnato (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 04.05.2017 n. 675 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dispone l’art. 3, co. 1, lett. d), TUE che per interventi di
ristrutturazione edilizia si intendono “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria … di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Emerge pertanto da tale previsione normativa che, al
fine dell’attuazione degli interventi di ristrutturazione,
nella forma di ricostruzione di edifici crollati o demoliti,
è necessario procedere a preventivo accertamento della
preesistente consistenza dell’immobile. In particolare, per
gli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004 occorre che “…
sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
---------------
4.2. Tanto premesso, e venendo ora al caso di specie, rileva
il Collegio che il diniego in esame si fonda sul contrasto
del progetto sia con le NTA del Piano di recupero, sia con
la previsione di cui all’art. 3 TUE.
4.3. Orbene, per quel che attiene a tale ultimo aspetto,
dispone l’art. 3, co. 1, lett. d), TUE che per interventi di
ristrutturazione edilizia si intendono “gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria … di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
4.4. Emerge pertanto da tale previsione normativa che, al
fine dell’attuazione degli interventi di ristrutturazione,
nella forma di ricostruzione di edifici crollati o demoliti,
è necessario procedere a preventivo accertamento della
preesistente consistenza dell’immobile. In particolare, per
gli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004 –tale
dovendosi ritenere l’immobile in esame– occorre che “…
sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
5. Ciò premesso, e venendo ora al caso di specie, si legge
nel ricorso (cfr. p. 10) che l’intervento proposto dal
ricorrente consiste nella rimozione di infissi e serramenti,
sanitari e rivestimenti esistenti, nonché nell’effettuazione
di interventi comportanti la “…demolizione del solaio
esistente, ad esclusione del locale destinato a servizio
igienico”.
Trattasi pertanto, di interventi di ristrutturazione
edilizia, ai sensi del cennato art. 3, lett. d), TUE.
6. Ciò chiarito, si legge nell’impugnato provvedimento che
il diniego si è fondato, tra l’altro, sulla impossibilità di
definire la reale consistenza del manufatto.
Orbene, tale rilievo è rimasto insuperato.
Da un lato, infatti, devono ritenersi del tutto irrilevanti
gli atti di compravendita 02.11.1919 e 09.01.1955,
trattandosi di elementi assolutamente datati nel tempo, e
pertanto del tutto inidonei ad individuare la “…sagoma
dell'edificio preesistente” (art. 3 lett. d) TUE).
Alla stessa stregua, del tutto irrilevanti devono ritenersi
gli estremi catastali dell’immobili, non essendo essi idonei
a definire la sagoma dell’immobile.
Sarebbe stato utile, invece, individuare la sagoma attuale
dell’immobile mediante illustrazione fotografica dello
stesso. Sennonché, tale corredo fotografico non è stato
prodotto in giudizio. In particolare, il ricorrente non ha
prodotto alcuna fotografia attestante lo stato attuale
dell’immobile, la qual cosa deve ritenersi del tutto
inspiegabile, trattandosi di adempimento non implicante
alcun particolare sacrificio, essendo nella sua immediata
disponibilità.
In definitiva, non solo la preesistente, ma anche l’attuale
sagoma dell’immobile in esame, deve ritenersi elemento del
tutto generico e fumoso, e soprattutto giammai provato dal
ricorrente.
In questa situazione di “deserto probatorio”, devono
allora ritenersi insuperate le considerazioni
dell’Amministrazione circa la natura “diruta”
dell’immobile in esame, e l’impossibilità di accertarne
l’esatta consistenza.
Pertanto, in difetto di uno specifico requisito richiesto ai
fini della ristrutturazione edilizia (individuazione
della sagoma dell’edificio preesistente), del tutto
legittimamente l’Amministrazione ha negato il rilascio del
chiesto atto abilitativo.
7. E poiché tale motivazione assume carattere “autoreggente”,
essendo ex se idonea a supportare il disposto
diniego, del tutto irrilevante si appalesa l’esame
dell’ulteriore profilo di criticità dedotto
dall’Amministrazione, e relativo al contrasto del progettato
intervento con le NTA del Piano di recupero.
8. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è infondato
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.03.2017 n. 393 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 30, lett. a), del d.l. n. 69 del 2013
convertito con l. 08.08.2013 n. 98 ha avuto il
solo effetto, all’insegna dell’incentivazione delle attività
edilizia di ristrutturazione, di dilatare la nozione di ristrutturazione edilizia attuabile mediante d.i.a. e poi
s.c.i.a., fino a comprendervi la demolizione e successiva
ricostruzione con la stessa volumetria ma con sagoma diversa
e gli interventi di ricostruzione di immobili già demoliti o
crollati se sia possibile accertarne la preesistente
consistenza.
Ha poi precisato che relativamente agli immobili sottoposti
ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e quelli di
ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono ristrutturazione edilizia solo ove sia rispettata la
medesima sagoma dell’edificio preesistente; il rispetto
della sagoma rimane quindi ancora necessario, per rientrare
nell’alveo della ristrutturazione edilizia assoggettata a s.c.i.a, per gli edifici esistenti su aree sottoposte ai
vincoli di cui al Codice dei beni culturali e del paesaggio.
---------------
La riforma di cui al c.d. decreto del fare ha
operato solo sul piano della definizione della categoria
edilizia della ristrutturazione e sul correlativo livello
del regime edilizio cui la stessa è assoggettata, che resta
quello della s.c.i.a. se viene conservata la stessa sagoma
dell’immobile preesistente allorché l’immobile modificato
insista su area vincolata ovvero, in caso di immobile sito
in area non vincolata, malgrado sia modificata la sagoma
stessa pur rimanendo inalterata la volumetria ovvero, nel
caso di interventi di ripristino di edifici già crollati o
demoliti, allorché, pur modificandosene la sagoma, sia
possibile accertarne la preesistente consistenza.
Invero, l’art. 30, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 69 del
2013 testualmente dispone “a) all'articolo 3, comma 1,
lettera d), ultimo periodo, le parole: «e sagoma» sono
soppresse e dopo la parola "antisismica" sono aggiunte le
seguenti: «nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente»".
La novella è quindi intervenuta unicamente a modificare la
definizione di ristrutturazione edilizia riportata all’art.
3, lett. d), del Testo unico sull’edilizia; correlativamente,
la lett. c) del medesimo comma 1 dell’art. 30 in disamina,
ha operato la modifica dell’art. 10 del Testo unico,
dedicato alla indicazione degli interventi edilizi
assoggettati a permesso di costruire, stabilendo infatti che
“c) all'articolo 10, comma 1, lettera c) le parole: "della
sagoma," sono soppresse; dopo le parole «comportino
mutamenti della destinazione d'uso» sono aggiunte le
seguenti: «, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli
ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni»".
A seguito della modifica dell’art. 10 del D.P.R. n. 380 del
2001 sono quindi interventi soggetti a permesso di
costruire, “gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A comportino mutamenti della
destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli
ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni”.
---------------
Che questo sia il portato della modifica degli artt. 3,
lett. d) e 10, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 è
confermato dalla giurisprudenza della Cassazione penale,
secondo la quale “Anche in seguito alle modifiche
introdotte dall'art. 30 d.l. 21.06.2013 n. 69 (c.d. "decreto
del fare"), conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, gli interventi
di demolizione e ricostruzione e gli interventi di
ripristino di edifici crollati o demoliti per i quali non
sia possibile accertare la preesistente consistenza non sono
qualificabili come ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'art. 3, comma 1, lett. d), t.u. edilizia, e sono
assoggettati al regime del permesso di costruire, fermo
restando che con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 s.m.i., i
medesimi interventi non sono assimilabili alla
ristrutturazione edilizia ove non sia rispettata la medesima
sagoma dell'edificio preesistente”, ulteriormente
precisando che “gli interventi di "ristrutturazione
edilizia", consistenti nel ripristino o nella
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a
permesso di costruire se non è possibile accertare la
preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadono in
zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di
rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio, e,
invece, alla procedura semplificata della SCIA, se si tratta
di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente
vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche
quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio”.
Anche il giudice amministrativo ha precisato che “Ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n.
380, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), d.l.
21.06.2013 n. 69, convertito nella l. 09.08.2013 n. 98,
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia anche
quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, mediante la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza, con inderogabilità soltanto della
preesistente volumetria mentre può essere modificata la
sagoma anteriore, tranne che non si tratti di immobili
sottoposti a vincolo paesistico ex d.lgs. 22.01.2004 n. 42”.
---------------
3. Ad avviso del Collegio la censura è infondata e va
disattesa.
L’art. 30, lett. a), del d.l. n. 69 del 2013 convertito con
l. 08.08.2013 n. 98 ha una portata precettiva più limitata
rispetto a quella pretesa dalla ricorrente, avendo avuto il
solo effetto, all’insegna dell’incentivazione delle attività
edilizia di ristrutturazione, di dilatare la nozione di
ristrutturazione edilizia attuabile mediante d.i.a. e poi
s.c.i.a., fino a comprendervi la demolizione e successiva
ricostruzione con la stessa volumetria ma con sagoma diversa
e gli interventi di ricostruzione di immobili già demoliti o
crollati se sia possibile accertarne la preesistente
consistenza.
Ha poi precisato che relativamente agli immobili sottoposti
ai vincoli di tutela di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e quelli di
ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono ristrutturazione edilizia solo ove sia rispettata la
medesima sagoma dell’edificio preesistente; il rispetto
della sagoma rimane quindi ancora necessario, per rientrare
nell’alveo della ristrutturazione edilizia assoggettata a s.c.i.a, per gli edifici esistenti su aree sottoposte ai
vincoli di cui al Codice dei beni culturali e del paesaggio.
3.1. La riforma di cui al c.d. decreto del fare ha cioè
operato solo sul piano della definizione della categoria
edilizia della ristrutturazione e sul correlativo livello
del regime edilizio cui la stessa è assoggettata, che resta
quello della s.c.i.a. se viene conservata la stessa sagoma
dell’immobile preesistente allorché l’immobile modificato
insista su area vincolata ovvero, in caso di immobile sito
in area non vincolata, malgrado sia modificata la sagoma
stessa pur rimanendo inalterata la volumetria ovvero, nel
caso di interventi di ripristino di edifici già crollati o
demoliti, allorché, pur modificandosene la sagoma, sia
possibile accertarne la preesistente consistenza.
Invero, l’art. 30, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 69 del
2013 testualmente dispone “a) all'articolo 3, comma 1,
lettera d), ultimo periodo, le parole: «e sagoma» sono
soppresse e dopo la parola "antisismica" sono aggiunte le
seguenti: «nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente»".
La novella è quindi intervenuta unicamente a modificare la
definizione di ristrutturazione edilizia riportata all’art.
3, lett. d), del Testo unico sull’edilizia; correlativamente,
la lett. c) del medesimo comma 1 dell’art. 30 in disamina,
ha operato la modifica dell’art. 10 del Testo unico,
dedicato alla indicazione degli interventi edilizi
assoggettati a permesso di costruire, stabilendo infatti che
“c) all'articolo 10, comma 1, lettera c) le parole: "della
sagoma," sono soppresse; dopo le parole «comportino
mutamenti della destinazione d'uso» sono aggiunte le
seguenti: «, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli
ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni»".
A seguito della modifica dell’art. 10 del D.P.R. n. 380 del
2001 sono quindi interventi soggetti a permesso di
costruire, “gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A comportino mutamenti della
destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli
ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni”.
3.2. Che questo sia il portato della modifica degli artt. 3,
lett. d) e 10, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001 è
confermato dalla giurisprudenza della Cassazione penale,
secondo la quale “Anche in seguito alle modifiche
introdotte dall'art. 30 d.l. 21.06.2013 n. 69 (c.d. "decreto
del fare"), conv. nella l. 09.08.2013 n. 98, gli interventi
di demolizione e ricostruzione e gli interventi di
ripristino di edifici crollati o demoliti per i quali non
sia possibile accertare la preesistente consistenza non sono
qualificabili come ristrutturazione edilizia ai sensi
dell'art. 3, comma 1, lett. d), t.u. edilizia, e sono
assoggettati al regime del permesso di costruire, fermo
restando che con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 s.m.i., i
medesimi interventi non sono assimilabili alla
ristrutturazione edilizia ove non sia rispettata la medesima
sagoma dell'edificio preesistente”, ulteriormente
precisando che “gli interventi di "ristrutturazione
edilizia", consistenti nel ripristino o nella
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a
permesso di costruire se non è possibile accertare la
preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadono in
zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di
rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio, e,
invece, alla procedura semplificata della SCIA, se si tratta
di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente
vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche
quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio”
(Cassazione penale, Sez. III, 03/06/2014, n. 40342).
Anche il giudice amministrativo ha precisato che “Ai
sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n.
380, come modificato dall'art. 30, comma 1, lett. a), d.l.
21.06.2013 n. 69, convertito nella l. 09.08.2013 n. 98,
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia anche
quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, mediante la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza, con inderogabilità soltanto della
preesistente volumetria mentre può essere modificata la
sagoma anteriore, tranne che non si tratti di immobili
sottoposti a vincolo paesistico ex d.lgs. 22.01.2004 n. 42”
(TAR Basilicata, 11.09.2014, n. 642) (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 11.01.2017 n. 291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
E
l'Agenzia delle Entrate, in primis, non era
d'accordo ma, successivamente, si è ricreduta
(favorevolmente) avendo interrogato, all'uopo, il
C.S.LL.PP.!! |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Interpello articolo 11, comma 1, lettera a),
legge 27.07.2000, n. 212 – Articolo 16-bis del TUIR –
agevolazioni per recupero del patrimonio edilizio e per
“bonus mobili” in caso di demolizione e ricostruzione
dell’immobile con volumetria inferiore rispetto a quella
preesistente (Agenzia delle Entrate,
risposta 18.07.2019 n. 265).
---------------
QUESITO
Il signor X, per il tramite del suo geometra, signor Y,
chiede se possa beneficiare della detrazione fiscale per
interventi di recupero del patrimonio edilizio e di quella
prevista dal cosiddetto bonus mobili, in relazione ad un
edificio residenziale di sua proprietà, sito nel Comune di
…..
Per il predetto immobile, non soggetto a vincolo di tutela
ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, il contribuente evidenzia
di aver presentato la Segnalazione Certificata Inizio Lavori
Asseverata (di seguito SCIA) presso il Comune di ….in data
13/04/2018, al fine di effettuare lavori di ristrutturazione
edilizia, consistenti nella demolizione e ricostruzione
dell’immobile, con diminuzione della volumetria
preesistente, all’interno della sagoma e dell’area di sedime
esistente.
In particolare, l’istante dichiara che la SCIA presentata è
conforme alla normativa e alla disciplina edilizia ed
urbanistica sia statale, con particolare riferimento agli
artt. 3, 10 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo Unico
dell’Edilizia), che regionale, con riguardo in particolare
all’art. 13 e all’Allegato (art. 9, comma 1) della legge
regionale dell’Emilia Romagna 30.07.2013, n. 15).
...
L’articolo 16-bis del d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (di seguito TUIR)
prevede una detrazione ai fini IRPEF delle spese relative
agli interventi di recupero del patrimonio edilizio “di cui
alle lettere b), c) e d) dell’articolo 3 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380,
effettuati sulle singole unità immobiliari residenziali di
qualsiasi categoria catastale, anche rurali, e sulle loro
pertinenze”.
Ai sensi dell’art. 16, comma 2, del decreto legge 04.06.2013, n. 63 (convertito con modificazioni dalla legge
03.08.2013, n. 90) ai contribuenti che fruiscono della
detrazione prevista dall’art. 16-bis del TUIR, per gli
interventi di recupero del patrimonio edilizio, è
riconosciuta una detrazione per le spese sostenute dal 06.06.2013 per l’acquisto di mobili e di grandi
elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, nonché A
per i forni, e per le apparecchiature per le quali sia
prevista l’etichetta energetica, finalizzati all’arredo
dell’immobile oggetto di recupero (cosiddetto “bonus
mobili”).
Per accedere alle predette agevolazioni fiscali, è
necessario che i contribuenti effettuino sugli immobili
agevolati gli interventi di recupero del patrimonio edilizio
previsti alle lettere b), c) e d) dell’articolo 3 del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380 (cosiddetto “Testo unico dell’edilizia”).
In particolare, ai sensi della lettera d) della predetta
disposizione, sono definiti di “ristrutturazione edilizia”
gli interventi volti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente.
Nell’ambito di tali interventi sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica, nonché gli interventi volti al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza.
In base alla successiva lettera e) del medesimo comma 1,
invece, gli interventi di trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie
definite alle lettere precedenti del medesimo comma sono
definiti “interventi di nuova costruzione”.
Con riferimento alla fattispecie in esame, il contribuente
dichiara di aver ristrutturato un edificio ad uso
residenziale mediante un intervento di demolizione e
successiva ricostruzione che ha prodotto un edificio con
diminuzione della volumetria preesistente, all’interno della
sagoma e dell’area di sedime esistente. Occorre pertanto
chiarire se tale tipo di intervento possa rientrare o meno
tra quelli agevolabili ai sensi della normativa indicata in
premessa.
Al riguardo, si evidenzia che
il Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici (di seguito, C.S.L.P.), nell’adunanza
collegiale straordinaria del 16.07.2015, ha chiarito
alcune questioni interpretative relative all’articolo 3,
lettera d), del Testo Unico dell’edilizia, come modificato
dall’articolo 30, comma 1, lettera d), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98), sorte ai fini dell’applicazione
delle agevolazioni in materia di interventi di
ristrutturazione edilizia e riqualificazione energetica di
edifici esistenti.
In particolare, in tale parere il C.S.L.P. ha espresso
l’avviso secondo cui “le modifiche apportate alla
definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia di
cui al comma 1, lett. d), dell’articolo 3 del d.P.R.
380/2001 (…) consentono (…) di ritenere che gli interventi
di demolizione e ricostruzione, anche con volumetria
inferiore rispetto a quella preesistente, rientrino in
questa fattispecie”.
Ad avviso del C.S.L.P., dalle richiamate modifiche, consegue
che, per gli interventi di ristrutturazione edilizia non
soggetti ai vincoli ai sensi del citato decreto legislativo
n. 42 del 2004 “la volumetria dell’edificio preesistente
costituisce attualmente l’unico parametro edilizio ed
urbanistico che non può essere travalicato affinché
l’intervento di demolizione e ricostruzione rientri nella
fattispecie della ristrutturazione edilizia (…). In quest’ottica
(…) la volumetria preesistente rappresenta lo standard
massimo di edificabilità, cioè il limite massimo di volume
edificabile, quando si tratta di interventi di
ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e
ricostruzione, per i quali la norma non consente aumenti
complessivi della cubatura preesistente”.
Di conseguenza, secondo il C.S.L.P. “interventi di
demolizione e ricostruzione che non sfruttino l’intera
volumetria preesistente, ma ne ricostruiscano soltanto una
quota parte (…) appaiono rientrare a pieno titolo nella
fattispecie della ristrutturazione edilizia, come definita a
termini di legge, risultando pienamente in linea con le (…)
finalità”.
Sulla base dei chiarimenti resi dal predetto autorevole
Organo Collegiale, si ritiene, dunque che nel caso in cui il
contribuente abbia realizzato un intervento di
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e successiva
ricostruzione, che abbia prodotto un edificio con volumetria
inferiore rispetto all’immobile preesistente, potrà
beneficiare delle agevolazioni fiscali in argomento, sempre
che siano pienamente rispettati tutti i requisiti
imposti dalle relative normative in materia. |
EDILIZIA PRIVATA: Sconto
fiscale top. Ampliato l’accesso all’ecobonus. Risposte delle Entrate in tema
di ristrutturazioni.
Il bonus di riqualificazione energetico comprende
l'immobile ricostruito, anche se più piccolo del precedente. Lo stesso vale
per il rifacimento del tetto condominiale a spese di uno solo dei condomini
(proprietari).
Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate
nella
risposta 27.06.2019 n. 210 e n. 213, pubblicate
ieri, sull'applicabilità della detrazione fiscale per il risparmio
energetico derivante dalla ristrutturazione di un edificio.
Il contribuente, nel caso di un intervento di ristrutturazione edilizia
mediante demolizione e successiva ricostruzione, che ha prodotto un edificio
con sagoma diversa e volumetria inferiore rispetto all'immobile
preesistente, potrà beneficiare della detrazione delle spese sostenute per
la riqualificazione energetica, sempre che siano pienamente rispettati i
limiti di efficienza e trasmittanza energetica imposti dalla normativa in
materia.
Tuttavia, ciò non vale nel caso in cui l'intervento in questione sia
riferito ad un immobile non sottoposto ai vincoli previsti dal dlgs n. 42
del 2004 (Codice dei beni culturali e paesaggio) dove, per definirsi
ristrutturazione edilizia ed accedere all'agevolazione fiscale, l'intervento
deve rispettare il requisito della “medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Per gli interventi di rifacimento del tetto condominiale, il contribuente,
che da solo ha sostenuto le spese, ha diritto alla detrazione per il totale
delle spese sostenute, anche eccedenti rispetto a quelle a lui imputabili in
base ai millesimi di proprietà, comunque entro il limite massimo di 60mila
euro (articolo 1, comma 345, legge 296/2006). Il condomino, per i lavori
delle aree comuni, infatti, può sfruttare interamente il limite di
detrazione previsto per la propria unità immobiliare, ma non può avvalersi
dei limiti attribuibili ad altre unità immobiliari del medesimo condominio.
Inoltre, in presenza di una convenzione stipulata in forma scritta tra tutti
i condomini, che attribuisce al condomino la possibilità di sostenere le
spese di rifacimento del tetto, permette allo stesso di poter cedere la
detrazione sulla spesa sostenuta per l'esecuzione dei lavori.
Compenso Ctu. Obbligo di fattura elettronica, ai fini Iva, anche ai compensi
derivanti dall'attività di consulente tecnico d'ufficio (Ctu). Il reddito
derivante dall'attività di Ctu resa nell'ambito di un giudizio civile, se è
svolta con carattere di abitualità da parte del professionista, infatti,
dovrà essere assoggettato al regime del reddito di lavoro autonomo, di cui
all'articolo 53, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir).
È la risposta dell'Agenzia delle entrate n. 211, pubblicata ieri.
Con riferimento alla ritenuta d'acconto Irpef, essa dovrà essere versata
all'Erario, non dall'Amministrazione della giustizia, ma dalla parte
soccombente, titolare passivo del rapporto di debito nei confronti del
consulente ed esposta all'obbligo di sopportare l'onere economico,
ricompresa tra i soggetti che rivestono la qualifica di sostituto d'imposta,
dovuta in caso di corresponsione di compensi costituenti per il percipiente
reddito di lavoro autonomo (articolo 25, comma 1, dpr n. 600 del 1973).
Qualora, invece, la parte soccombente non rivestisse la qualifica di
sostituto d'imposta, la ritenuta d'acconto Irpef non dovrà essere operata e,
dunque, non dovrà essere evidenziata in fattura dal consulente.
Avviso «Smart cities and Communities and Social Innovation».
I «contributi
in natura», erogati dal Miur nell'ambito dell'Avviso «Smart cities and
Communities and Social Innovation», si configurano come misure finalizzate a
sostenere l'attività di ricerca imponibili ai fini Irpef quali redditi
assimilati a quelli di lavoro dipendente.
Lo ha chiarito l'Agenzia delle
entrate nella risposta n. 214 di ieri.
Secondo l'Agenzia, la rilevanza fiscale di tali somme è, infatti, da
ravvisarsi nelle finalità e nell'oggetto di attività di ricerca, che induce
a ricondurre tali contributi, anche se erogati sotto forma di rimborso
spese, tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.
In relazione alla ritenuta sui redditi assimilati a quelli di lavoro
dipendente, le ritenute alla fonte sui «contributi in natura» devono essere
riscosse mediante versamento diretto e devono essere versate entro il giorno
sedici del mese successivo a quello in cui le ritenute sono state operate (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Fruizione delle agevolazioni per
riqualificazione energetica degli edifici e per interventi
di recupero del patrimonio edilizio in caso di demolizione e
ricostruzione dell’immobile con volumetria inferiore
rispetto a quello preesistente – Articoli 1, commi da 344 a
349, della legge n. 296 del 2006 e 16-bis del TUIR.
Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge
27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate,
risposta 27.06.2019 n. 210).
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QUESITO
“ALFA” chiede un parere circa l’applicabilità della
detrazione fiscale per il risparmio energetico derivante
dalla ristrutturazione di un edificio ai sensi della legge
27.12.2006 n. 296, del DM 19.02.2007 e della legge
27.12.2017, n. 205.
In particolare, il caso posto all’esame dall’istante
riguarda un edificio residenziale unifamiliare esistente,
sottoposto a ristrutturazione edilizia mediante demolizione
e successiva ricostruzione.
“ALFA” riferisce che l’edificio risultante a seguito
dell’intervento edilizio ha una diversa sagoma rispetto al
precedente, e un indice di prestazione energetica per la
climatizzazione invernale inferiore a quello massimo
prescritto dall’allegato A del DM 11.03.2008.
Inoltre, l’istante riferisce che il volume del fabbricato
nello stato legittimo ante operam ammontava a … mc,
mentre il volume del fabbricato ricostruito ammonta a … mc,
con una diminuzione, quindi, dell’1,5%.
...
Con riferimento alla fattispecie in esame, il contribuente
dichiara di aver ristrutturato un edificio ad uso
residenziale mediante intervento di demolizione e successiva
ricostruzione che ha prodotto un edificio con sagoma diversa
e volumetria lievemente inferiore rispetto all’immobile
preesistente.
Occorre pertanto chiarire se tale tipo di intervento possa
rientrare o meno tra quelli agevolabili ai sensi della
normativa indicata in premessa.
Al riguardo, si evidenzia che il Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici (di seguito, C.S.L.P.), nell’adunanza
collegiale straordinaria del 16.07.2015, ha
chiarito alcune questioni interpretative relative
all’articolo 3, lettera d), del Testo Unico dell’edilizia,
come modificato dall’articolo 30, comma 1, lettera d), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (convertito, con
modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98), sorte ai fini
dell’applicazione delle agevolazioni in materia di
interventi di ristrutturazione edilizia e riqualificazione
energetica di edifici esistenti.
In particolare, in
tale parere
il C.S.L.P. ha espresso
l’avviso secondo cui “le modifiche apportate alla
definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia di
cui al comma 1, lett. d), dell’articolo 3 del d.P.R.
380/2001 (…) consentono (…) di ritenere che gli interventi
di demolizione e ricostruzione, anche con volumetria
inferiore rispetto a quella preesistente, rientrino in
questa fattispecie”.
Ad avviso del C.S.L.P., dalle richiamate modifiche, consegue
che, per gli interventi di ristrutturazione edilizia non
soggetti ai vincoli ai sensi del citato decreto legislativo
n. 42 del 2004 “la volumetria dell’edificio preesistente
costituisce attualmente l’unico parametro edilizio ed
urbanistico che non può essere travalicato affinché
l’intervento di demolizione e ricostruzione rientri nella
fattispecie della ristrutturazione edilizia (…). In quest’ottica
(…) la volumetria preesistente rappresenta lo standard
massimo di edificabilità, cioè il limite massimo di volume
edificabile, quando si tratta di interventi di
ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e
ricostruzione, per i quali la norma non consente aumenti
complessivi della cubatura preesistente”.
Di conseguenza, secondo il C.S.L.P. “interventi di
demolizione e ricostruzione che non sfruttino l’intera
volumetria preesistente, ma ne ricostruiscano soltanto una
quota parte (…) appaiono rientrare a pieno titolo nella
fattispecie della ristrutturazione edilizia, come definita a
termini di legge, risultando pienamente in linea con le (…)
finalità”.
Tali conclusioni muovono da un’analisi dell’evoluzione della
normativa edilizia, culminata con le modifiche apportate
all’art. 3 del Testo Unico dell’Edilizia dall’articolo 17
del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (c.d. decreto Sblocca
Italia), sempre nell’ottica di “semplificare le procedure
edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle
imprese”.
Sulla base dei chiarimenti resi dal predetto autorevole
Organo Collegiale, si ritiene, dunque che nel caso in cui il
contribuente abbia realizzato un intervento di
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e successiva
ricostruzione, che abbia prodotto un edificio con sagoma
diversa e volumetria inferiore rispetto all’immobile
preesistente, potrà beneficiare della detrazione delle spese
sostenute per la riqualificazione energetica, sempre che
siano pienamente rispettati i limiti di efficienza e
trasmittanza energetica imposti dalla normativa in materia.
Si precisa, infine, che tale soluzione vale nel caso in cui
l’intervento in questione sia riferito ad un immobile non
sottoposto ai vincoli previsti dal citato decreto
legislativo n. 42 del 2004; in tale ultimo caso, infatti,
come già evidenziato, ai sensi dell’articolo 3 della lettera
d) del Testo Unico dell’edilizia, l’agevolazione fiscale in
argomento non potrebbe essere riconosciuta, in quanto
l’intervento sull’edificio non potrebbe definirsi di “ristrutturazione
edilizia” non essendo rispettato il requisito della “medesima
sagoma dell’edificio preesistente” richiesto dalla
norma. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: OGGETTO:
Guida alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche
relativa all’anno d’imposta 2018: spese che danno diritto a
deduzioni dal reddito, a detrazioni d’imposta, crediti
d’imposta e altri elementi rilevanti per la compilazione
della dichiarazione e per l’apposizione del visto di
conformità (Agenzia delle Entrate,
circolare 31.05.2019 n. 13/E).
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Di particolare interesse, si legga a pag. 234 a seguire:
●
Spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio,
per misure antisismiche e bonus verde (Righi E41/E53, quadro
E, sez. IIIA e IIIB) - Art. 16-bis del TUIR - Art. 16 del
decreto legge n. 63 del 2013 – art. 1, commi 12-15, legge
27.12.2017, n. 205 - decreto interministeriale 18.02.1998
...
Interventi che danno diritto alla detrazione
L’agevolazione riguarda le spese sostenute nel corso
dell’anno per interventi effettuati su singole unità
immobiliari residenziali e su parti comuni di edifici
residenziali situati nel territorio dello Stato. Sono
esclusi gli edifici a destinazione produttiva, commerciale e
direzionale.
Per l’individuazione delle abitazioni residenziali ammesse
all’agevolazione, non deve essere utilizzato un principio di
prevalenza delle unità immobiliari destinate ad abitazione
rispetto a quelle destinate ad altri usi ed è, quindi,
ammessa al beneficio fiscale l’abitazione, realmente
utilizzata come tale, ancorché unica all’interno di un
edificio (ad esempio, l’unità immobiliare adibita ad
alloggio del portiere per le cui spese di ristrutturazione i
singoli condòmini possono calcolare la detrazione in ragione
delle quote millesimali di proprietà) (Circolare 24.02.1998
n. 57, paragrafo 3.1).
Sono compresi nell’ambito applicativo della disposizione
tutti gli interventi, anche innovativi, realizzati su
pertinenze o su aree pertinenziali (senza alcun limite
numerico) già dotate del vincolo di pertinenzialità con
l’unità immobiliare principale (Circolare 24.02.1998 n. 57,
paragrafo 3.3).
In caso di interventi realizzati sulle parti comuni di un
edificio, le relative spese possono essere considerate, ai
fini del calcolo della detrazione, soltanto se riguardano un
edificio residenziale considerato nella sua interezza.
Qualora la superficie complessiva delle unità immobiliari
destinate a residenza ricomprese nell’edificio sia superiore
al 50 per cento, è possibile ammettere alla detrazione anche
il proprietario e il detentore di unità immobiliari non
residenziali che sostengano le spese per le parti comuni.
Se tale percentuale risulta inferiore, è comunque ammessa la
detrazione per le spese realizzate sulle parti comuni da
parte dei possessori o detentori di unità immobiliari
destinate ad abitazione comprese nel medesimo edificio
(Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.2). La detrazione
per gli interventi realizzati sulle parti comuni spetta
anche ai proprietari di soli box o cantine.
Gli interventi edilizi agevolabili, sotto il profilo tecnico
e nei loro contenuti, sono classificati e dettagliatamente
definiti dall’art. 3 del Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato
con DPR n. 380 del 2001. In sostanza, al fine di definire
ciò che beneficia dell’agevolazione fiscale, il legislatore
rimanda alla legge quadro sull’edilizia.
Interventi edilizi di cui alle lettere a),
b), c) e d) dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni, la
detrazione spetta per le spese di:
− manutenzione ordinaria (lett. a) ;
− manutenzione straordinaria (lett. b);
− restauro e di risanamento conservativo (lett. c);
− ristrutturazione edilizia (lett. d).
Per gli interventi effettuati sulle singole unità
immobiliari e/o sulle relative pertinenze, la detrazione
compete per le medesime spese, ad eccezione di quelle
relative alla manutenzione ordinaria.
L’agevolazione è riferita ad interventi eseguiti su singole
unità immobiliari residenziali, di qualsiasi categoria
catastale, anche rurali e sulle loro pertinenze, accatastate
o in via di accatastamento.
Gli interventi devono essere eseguiti su edifici esistenti e
non devono realizzare una nuova costruzione (Circolare
11.05.1998 n. 121, paragrafo 4). Unica eccezione è
rappresentata dalla realizzazione di autorimesse o posti
auto pertinenziali.
Gli interventi previsti in ciascuna delle categorie edilizie
sopra richiamate sono, di norma, integrati o correlati ad
interventi di categorie diverse; ad esempio, negli
interventi di manutenzione straordinaria sono necessarie,
per completare l’intervento edilizio nel suo insieme, opere
di pittura e finitura ricomprese in quelle di manutenzione
ordinaria.
Pertanto, al fine dell’esatta individuazione degli
interventi da realizzare e della puntuale applicazione delle
disposizioni agevolative, occorre tener conto del carattere
assorbente della categoria “superiore” rispetto a
quella “inferiore” (Circolare 24.02.1998 n. 57,
paragrafo 3.4).
...
Ristrutturazione edilizia - Art. 3, comma
1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001
Gli interventi di ristrutturazione edilizia sono quelli
volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino e la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio,
l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di elementi ed
impianti che possono portare ad un edificio parzialmente o
completamente diverso dal preesistente. Gli effetti di tale
trasformazione sono tali da incidere sui parametri
urbanistici al punto che l’intervento stesso è considerato
di “trasformazione urbanistica” e, come tale,
soggetto al relativo titolo abilitativo (Circolare
24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.4).
È possibile, ad esempio, fruire della detrazione d’imposta,
in caso di lavori in un fienile che risulterà con
destinazione d’uso abitativo solo a seguito dei lavori di
ristrutturazione che il contribuente intende realizzare
purché nel provvedimento amministrativo che autorizza i
lavori risulti chiaramente che gli stessi comportano il
cambio di destinazione d’uso del fabbricato, già strumentale
agricolo, in abitativo (Risoluzione 08.02.2005 n. 14).
L’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, così
come riformulato dall’art. 30, comma 1, lett. a), del DL n.
69 del 2013, ridefinisce la fattispecie degli interventi di
ristrutturazione edilizia eliminando il riferimento al
rispetto della “sagoma” per gli interventi di
demolizione e successiva ricostruzione ed imponendo il solo
rispetto della volumetria preesistente fatte salve le
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica.
Poiché la nozione di sagoma edilizia è intimamente legata
anche all’area di sedime del fabbricato e considerato che il
legislatore ha eliminato il riferimento al rispetto della
sagoma per gli immobili non vincolati, la detrazione è
ammessa anche se l’intervento di ristrutturazione edilizia
consistente nella demolizione e ricostruzione comporti anche
lo spostamento di lieve entità rispetto al sedime originario
(risposta all’Interrogazione
a risposta immediata in commissione 5-01866 del 14.01.2014).
Con gli interventi di ristrutturazione edilizia è possibile
aumentare la superficie utile, ma non il volume
preesistente.
Nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e
ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele
ricostruzione, nel rispetto della volumetria dell’edificio
preesistente (fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica, di cui
all’articolo 3, lettera d), del DPR n. 380 del 2001);
conseguentemente, in caso di demolizione e ricostruzione con
ampliamento della volumetria preesistente, la detrazione non
spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo
complesso, una “nuova costruzione”.
Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (adunanza
collegiale straordinaria del 16.07.2015), nel chiarire
alcune questioni interpretative relative al citato art. 3,
comma 1, lettera d), DPR n. 380 del 2001, ha precisato,
invece, che “la volumetria preesistente rappresenta lo
standard massimo di edificabilità, cioè il limite massimo di
volume edificabile, quando si tratta di interventi di
ristrutturazione edilizia consistenti nella demolizione e
ricostruzione, per i quali la norma non consente aumenti
complessivi della cubatura preesistente”.
Di conseguenza, secondo il citato Consiglio Superiore, “interventi
di demolizione e ricostruzione che non sfruttino l’intera
volumetria preesistente, ma ne ricostruiscano soltanto una
quota parte (…) appaiono rientrare a pieno titolo nella
fattispecie della ristrutturazione edilizia”.
Pertanto,
nel caso in cui siano realizzati interventi
edilizi di demolizione e successiva ricostruzione con una
volumetria inferiore rispetto a quella preesistente, le
relative spese potranno beneficiare della detrazione.
Qualora, invece, la ristrutturazione avvenga senza
demolizione dell’edificio esistente e con ampliamento dello
stesso, la detrazione compete solo per le spese riferibili
alla parte esistente in quanto l’ampliamento configura,
comunque, una “nuova costruzione”. Tali criteri sono
applicabili anche agli interventi di ampliamento previsti in
attuazione del Piano Casa (Risoluzione 04.01.2011 n. 4).
Il contribuente ha l’onere di mantenere distinte, in termini
di fatturazione, le due tipologie di intervento
(ristrutturazione e ampliamento) o, in alternativa, essere
in possesso di un’apposita attestazione che indichi gli
importi riferibili a ciascuna tipologia di intervento,
rilasciata dall’impresa di costruzione o ristrutturazione
sotto la propria responsabilità, utilizzando criteri
oggettivi.
In caso di ristrutturazione con ampliamento di un box
pertinenziale la detrazione spetta anche per le spese
relative all’ampliamento a condizione che lo stesso sia
funzionale alla creazione di un nuovo posto auto. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Articolo 16-bis, comma 3 del TUIR di cui al d.P.R.
22.12.1986, n. 917 - Detrazione per le spese riferibili alla
parte esistente oggetto di ristrutturazione dell’edificio
esistente e con ampliamento
(Agenzia delle Entrate,
risposta 21.05.2019 n. 150).
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La società istante ALFA, (d’ora in poi anche "la
società"), è un’impresa immobiliare di costruzione per la
rivendita. Recentemente ha acquistato un immobile oggetto di
un intervento edilizio.
Tale intervento consiste nella ristrutturazione
dell’immobile per mq XXX e nell’ampliamento per mq XXX di
superficie utile; tale ampliamento di fatto, però, non
risulta dal permesso di costruire che è stato rilasciato
come un permesso per ristrutturazione edilizia.
Poiché la destinazione d’uso è cambiata da commerciale ad
abitativa cambia anche il calcolo della superficie
edificabile; la maggiore superficie realizzabile è dovuta al
fatto che alcuni vani “tecnici”, che prima costituivano
superficie complessiva, ora non vengono più computati, per
cui è possibile edificare più metri di superficie utile. La
parte ristrutturata corrisponde al 71% circa e la parte
ampliata al 29% circa dell’intero edificio.
Tanto premesso, la società istante, che a breve dovrà
incominciare a stipulare i primi contratti preliminari e/o
proposte di acquisto, chiede di sapere se sulle unità
immobiliari cedute i futuri acquirenti potranno godere della
detrazione di cui all’articolo 16-bis, comma 3, del TUIR.
Se, invece, non fosse possibile fruire del bonus fiscale per
intero, l’istante chiede se detto intervento possa essere
considerato come mera ristrutturazione edilizia scorporando,
in proporzione dal prezzo di vendita delle singole unità
immobiliari, la quota parte relativa all’ampliamento.
...
PARERE DELL’AGENZIA DELL’ENTRATE
Per le ragioni di seguito esposte, si ritiene che gli
acquirenti dell’immobile ceduto dall’istante potranno fruire
della detrazione di cui all’articolo 16-bis, comma 3, del
TUIR solo per le spese riferibili alla parte esistente, sul
presupposto che i lavori effettuati consistano in una
ristrutturazione senza demolizione dell’edificio esistente
con ampliamento dello stesso.
La detrazione richiamata dall’articolo 16-bis, comma 3, del
TUIR opera, tra l’altro, nel caso di ristrutturazione
edilizia di cui alle lettere c) e d) dell’articolo 3, comma
1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In particolare, la lettera d) dell’articolo 3, comma 1, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 definisce “interventi di
ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione,
la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti
al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione,
purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni, gli interventi di demolizione e
ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Si rappresenta che
la qualificazione delle opere edilizie spetta, in
ultima analisi, al Comune o ad altro ente territoriale, in
qualità di organo competente in tema di classificazioni
urbanistiche e che la condizione di rispetto della
volumetria dell’edificio preesistente deve essere asserita
da professionisti abilitati in sede di presentazione del
progetto al competente Sportello Unico per l’Edilizia.
Ai fini delle agevolazioni in esame è
necessario che dal titolo amministrativo di autorizzazione
dei lavori risulti che l’opera consiste in un intervento di
conservazione del patrimonio edilizio esistente (cfr.
articolo 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001)
e non in un intervento di nuova costruzione (cfr. articolo
3, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 380 del 2001),
purché risulti invariata la volumetria, perciò inquadrabile
come fedele ricostruzione ex articolo 3, comma 2,
lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sostanzialmente quello che la disposizione normativa
richiede è che la volumetria dell’edificio sottoposto a
lavori di ristrutturazione rimanga identica a quella
preesistente ai lavori stessi.
In relazione agli interventi di demolizione e ricostruzione
di edifici, è stato acquisito il parere del Consiglio
Superiore dei Lavori Pubblici. Il Servizio Tecnico Centrale
del detto Consiglio, in data 17.04.2018, ha comunicato il
parere n. 27/2018 espresso dalla Prima Sezione del Consesso
nell’adunanza del 22.03.2018.
Tale parere ha specificato che rientrano tra gli interventi
di “ristrutturazione edilizia” di cui all’articolo 3, comma
1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 quelli di
demolizione e ricostruzione di un edificio con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica, e, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli, di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi di
demolizione e ricostruzione che rispettino la medesima
sagoma dell’edificio preesistente.
Infatti, come chiarito con circolare del 04.04.2018, n. 7/E,
pag. 238 e seguenti, in merito agli interventi di
ristrutturazione edilizia ex articolo 3, comma 1, lettera
d), del Testo Unico dell’Edilizia nell’ipotesi di
ristrutturazione con demolizione e ricostruzione,
la detrazione compete solo in caso di fedele
ricostruzione, nel rispetto della
volumetria dell’edificio preesistente;
conseguentemente, nell’ipotesi di demolizione e
ricostruzione con ampliamento della volumetria preesistente,
la detrazione non spetta in quanto l’intervento si
considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione”.
Qualora, invece, la ristrutturazione avvenga senza
demolizione dell’edificio esistente e con ampliamento dello
stesso, la detrazione per i futuri acquirenti compete solo
per le spese riferibili alla parte esistente in quanto
l’ampliamento configura, comunque, una “nuova costruzione”.
Dall’esame dell’istanza e della documentazione integrativa
acquisita con emerge che la società ALFA, oltre ad aver
effettuato dei lavori di ristrutturazione, ha anche
costruito un avancorpo commerciale. La parte ristrutturata
corrisponde al 71% circa e la parte ampliata al 29% circa
dell’intero edificio.
L’istante ha precisato che comunque tale operazione non ha
avuto impatti sulla volumetria, in quanto la superficie
complessiva è rimasta identica a quella dell’edificio
preesistente in virtù del cambio di destinazione d’uso
dell’immobile oggetto d’intervento da uso commerciale a uso
civile. Tuttavia, a sostegno di tale affermazione non è
stato prodotto alcun documento tecnico che possa provare
quanto asserito dall’istante.
Pertanto, nel caso di specie la fruizione della detrazione
di cui all’articolo 16-bis, comma 3, del TUIR è consentita,
come chiarito nella circolare del 04.04.2018, n. 7/E, solo
per le spese riferibili alla parte esistente, sul
presupposto che i lavori effettuati consistano in una
ristrutturazione senza demolizione dell’edificio esistente e
con ampliamento dello stesso. Bisognerà mantenere distinte,
in
termini di fatturazione, le due tipologie di intervento o,
in alternativa, essere in possesso di un’apposita
attestazione che indichi gli importi riferibili a ciascuna
tipologia di intervento, rilasciata dall’impresa di
costruzione o ristrutturazione sotto la propria
responsabilità, utilizzando criteri oggettivi.
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Al riguardo si legga anche:
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Ristrutturazione con ampliamento: ok alla detrazione fiscale
ma solo per una parte -
Il Bonus ristrutturazioni compete
esclusivamente per le spese riferibili alla porzione
esistente e non a quella che, invece, configura una “nuova
costruzione” (22.05.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA
PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, luglio 2019).
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Per quanto riguarda la guida “Ristrutturazioni edilizie:
le agevolazioni fiscali”, come si ricorderà, dal 30.06.2019
(data di entrata in vigore della legge di conversione del
decreto legge n. 34/2019) i contribuenti che beneficiano
della detrazione spettante per gli interventi effettuati per
il conseguimento di risparmi energetici (cioè quelli
indicati nell’articolo 16-bis, comma 1, lettera h, del Testo
unico delle imposte sui redditi) possono scegliere di cedere
il corrispondente credito in favore del fornitore dei beni e
servizi necessari alla loro realizzazione.
A sua volta, il fornitore ha facoltà di cedere il credito
d’imposta ricevuto ai suoi fornitori di beni e servizi, con
esclusione della possibilità di ulteriori cessioni da parte
di questi ultimi. Non è prevista, in ogni caso, la cessione
a istituti di credito e a intermediari finanziari.
Con il
provvedimento 31.07.2019 n.
660057/2019 di prot.
l’Agenzia delle entrate ha stabilito che la cessione dei
crediti va comunicata, a pena d’inefficacia, entro il 28
febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle
spese che danno diritto alle detrazioni e con le stesse
modalità specificate dal provvedimento del 18.04.2019 (punto
4). I crediti ceduti sono utilizzabili dal cessionario,
esclusivamente in compensazione, in 10 quote annuali di pari
importo.
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni degli
edifici sarà l’amministratore del condominio a dover
comunicare la cessione sempre entro il 28 febbraio dell’anno
successivo a quello di sostenimento delle spese, ma con le
modalità individuate dal provvedimento del 28.08.2017 (punto
4.2). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Interpello n. 904-686/2018 - Istanza di Interpello art. 11
legge 212/2000 - COMUNE DI CISANO BERGAMASCO
(Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia,
interpello 13.06.2018 n. 86936 di
prot.).
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QUESITO
Il Comune di Cisano Bergamasco, per il tramite del
rappresentante legale, chiede chiarimenti in merito
all'esatta definizione degli interventi di
ristrutturazione edilizia disciplinati dall'art. 3,
comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001.
In particolare, l'ente locale istante -dopo aver illustrato
le modifiche legislative che hanno interessato la norma
recata dal predetto art. 3, comma 1, lett. d), evidenzia che
l'intervento di demolizione e ricostruzione di un fabbricato
è qualificabile come intervento di ristrutturazione edilizia
secondo la normativa di settore, solo nel caso in cui venga
rispettata la volumetria originaria (non la sagoma)
dell'unità immobiliare demolita.
In proposito, viene richiamata la risoluzione n. 34/E del
27.04.2018, con la quale, sulla base di un parere del
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, è stato ribadito
che "rientrano tra gli interventi di ristrutturazione
edilizia quelli di demolizione e ricostruzione di un
edificio con la stessa volumetria di quello preesistente".
Ciò posto,
l'ente locale istante, in qualità di soggetto
preposto al rilascio del titolo abilitativo alla
realizzazione dell'intervento, chiede di specificare:
· cosa si intende per "stessa volumetria di quello preesistente";
· se i lavori edilizi di demolizione e successiva ricostruzione di
un fabbricato con una volumetria inferiore a quella
preesistente possano essere definiti come interventi di
ristrutturazione edilizia.
Più specificatamente,
il comune interpellante chiede di
sapere se nel caso di errata qualificazione dell'intervento
edilizio (esempio intervento di nuova costruzione
come intervento di ristrutturazione edilizia e
viceversa) da parte dell'Ufficio tecnico del Comune, lo
stesso ente sia responsabile dell'indebita fruizione delle
detrazioni di imposta previste dall'art. 16-bis del TUIR.
...
Contrariamente alle previsioni appena richiamate, il quesito
rappresentato nell'istanza in esame non riguarda
l'interpretazione di una norma tributaria i cui effetti
ricadono nella sfera giuridica del Comune istante, ma
concerne una problematica di carattere non fiscale, ovvero
la riconducibilità o meno di un determinato intervento
edilizio nell'ambito della "nuova costruzione" ovvero della
"ristrutturazione edilizia".
Detta qualificazione, richiesta ai fini del rilascio da
parte dell'ufficio tecnico del Comune del titolo abilitativo
ai lavori, comporta valutazioni tecniche -che attengono
l'interpretazione della normativa urbanistica di settore
recata dal DPR n. 380 del 2001- che esulano dalla competenza
dell'Agenzia delle entrate.
Si rappresenta, ad ogni buon fine, che per quanto concerne
la riconducibilità dei lavori di demolizione e ricostruzione
di un fabbricato nel novero degli interventi di
ristrutturazione edilizia, si ribadiscono i chiarimenti
forniti con i documenti di prassi richiamati dall'istante
(da ultimo circolare 7/E del 2018).
Si rileva, inoltre, che in virtù
delle modifiche normative intervenute in materia, è stata
altresì avviata, tramite le strutture centrali dell'Agenzia
delle Entrate, un'apposita istruttoria presso il Ministero
competente, il cui esito verrà prontamente reso noto.
Si fa presente, infine, che l'unico
soggetto responsabile di fronte l'Agenzia delle Entrate
dell'indebita fruizione delle detrazioni di imposta di cui
all'art. 16-bis del TUIR, fatte salve eventuali
responsabilità di tipo civilistico, è il contribuente che ha
illegittimamente beneficiato della detrazione Iperf per le
spese sostenute per la realizzazione di intervento edilizio
erroneamente qualificato come ristrutturazione edilizia
dall'Ufficio comunale competente. |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Interpello art. 11, legge 27.07.2000, n. 212-
Riconducibilità degli interventi di demolizione e
ricostruzione tra gli interventi relativi alla
adozione di misure antisismiche per le quali è
possibile fruire della detrazione di imposta ai
sensi dell’art. 16 del Decreto Legge 04.06.2013, n.
63 (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 27.04.2018 n. 34/E).
---------------
QUESITO
I Sig.ri Alfa, Beta e Gamma, comproprietari,
ciascuno per un terzo, di una unità immobiliare sita
nel Comune X, dichiarata inagibile a seguito del
terremoto verificatosi nelle Marche nel 1972,
volendo procedere alla demolizione e alla fedele
ricostruzione dell’immobile, pongono i seguenti
quesiti:
1) se spetti la detrazione di imposta di cui all’art. 1-quater del
D.L. n. 63 del 2013, consistente nella detrazione
dell’80 per cento, con tetto massimo di spesa
incentivabile di 96.000 euro, in relazione a spese
per l’intervento di demolizione e fedele
ricostruzione, con riduzione di due classi di
rischio sismico, di unità immobiliare attualmente
censita nella categoria catastale F/2 (unità
collabenti), in quanto danneggiata dal sisma;
...
Ciò premesso, relativamente al quesito rappresentato
al punto 1), la scrivente fa presente che
il
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, con il
parere n. 27/2018, ha precisato che rientrano tra
gli interventi di “ristrutturazione edilizia”
di cui all’art. 3, comma 1, lett. d) del D.P.R. n.
380 del 2001 (Testo Unico dell’Edilizia) quelli di
demolizione e ricostruzione di un edificio con la
stessa volumetria di quello preesistente, fatte
salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica, e, con
riferimento agli immobili sottoposti a vincoli, di
cui al d.lgs. n. 42 del 2004, gli interventi di
demolizione e ricostruzione che rispettino la
medesima sagoma dell’edificio preesistente.
Con il medesimo parere, il Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici ha ritenuto che gli interventi di
demolizione e ricostruzione come sopra
rappresentati, progettati ed eseguiti in conformità
alle vigenti norme tecniche per le costruzioni,
rappresentino una efficace strategia di riduzione
del rischio sismico su una costruzione non adeguata
alle norme tecniche medesime e, pertanto, “dal punto
di vista tecnico, detti interventi possono
certamente rientrare fra quelli di cui all’art.
16-bis, comma 1, lett. i), del TUIR, relativi
all’adozione di misure antisismiche”.
Ciò posto, sulla base del predetto parere,
si
ritiene che gli interventi consistenti nella
demolizione e ricostruzione di edifici adibiti ad
abitazioni private o ad attività produttive possono
essere ammessi alla detrazione di cui al citato art.
16 del decreto legge n. 63 del 2013, nel rispetto di
tutte le condizioni previste dalla norma agevolativa,
sempre che concretizzino un intervento di
ristrutturazione edilizia e non un intervento di
nuova costruzione. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: OGGETTO:
Guida alla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche
relativa all’anno d’imposta 2017: spese che danno diritto a
deduzioni dal reddito, a detrazioni d’imposta, crediti
d’imposta e altri elementi rilevanti per la compilazione
della dichiarazione e per l’apposizione del visto di
conformità (Agenzia delle Entrate,
circolare 27.04.2018 n. 7/E).
---------------
Di particolare interesse, si legga da pag. 215 in avanti:
● Spese per interventi di
recupero del patrimonio edilizio (Righi E41/E53, quadro E,
sez. IIIA e IIIB) - Art. 16-bis del TUIR - decreto
interministeriale 18.02.1998
...
Aspetti generali
Dall’imposta lorda si detrae un importo pari al 36 per cento
(elevato, dal 26.06.2012, al 50 per cento) delle spese
sostenute per interventi di recupero del patrimonio edilizio
realizzati su parti comuni di edifici residenziali e su
singole unità immobiliari residenziali di qualsiasi
categoria catastale e relative pertinenze. La detrazione,
introdotta dall’art. 1, comma 1, della legge n. 449 del
1997, è stata resa permanente dall’art. 4 del DL n. 201 del
2011 che ha previsto l’introduzione nel TUIR dell’art.
16-bis.
La detrazione spetta anche nel caso di interventi di
restauro e risanamento conservativo e di ristrutturazione
edilizia riguardanti interi fabbricati, eseguiti da imprese
di costruzione o ristrutturazione immobiliare e da
cooperative edilizie che provvedano entro diciotto mesi
(fino al 31.12.2014 erano sei mesi) dal termine dei lavori
alla successiva alienazione o assegnazione dell’immobile.
La detrazione è ripartita in dieci rate annuali di pari
importo.
In applicazione del criterio di cassa, la detrazione spetta
nel periodo in cui le spese sono sostenute. La detrazione
compete, pertanto, anche se il pagamento delle spese è
eseguito in un periodo d’imposta antecedente a quello in cui
sono iniziati i lavori o successivo a quello in cui i lavori
sono completati (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 4).
...
Interventi che danno diritto alla
detrazione
L’agevolazione riguarda le spese sostenute nel corso
dell’anno per interventi effettuati su singole unità
immobiliari residenziali e su parti comuni di edifici
residenziali situati nel territorio dello Stato. Sono
esclusi gli edifici a destinazione produttiva, commerciale e
direzionale.
Per l’individuazione delle abitazioni residenziali ammesse
all’agevolazione, non deve essere utilizzato un principio di
prevalenza delle unità immobiliari destinate ad abitazione
rispetto a quelle destinate ad altri usi ed è, quindi,
ammessa al beneficio fiscale l’abitazione, realmente
utilizzata come tale, ancorché unica all’interno di un
edificio (ad esempio, l’unità immobiliare adibita ad
alloggio del portiere per le cui spese di ristrutturazione i
singoli condòmini possono calcolare la detrazione in ragione
delle quote millesimali di proprietà) (Circolare 24.02.1998
n. 57, paragrafo 3.1).
Sono compresi nell’ambito applicativo della disposizione
tutti gli interventi, anche innovativi, realizzati su
pertinenze o su aree pertinenziali (senza alcun limite
numerico) già dotate del vincolo di pertinenzialità con
l’unità immobiliare principale (Circolare 24.02.1998 n. 57,
paragrafo 3.3).
In caso di interventi realizzati sulle parti comuni di un
edificio, le relative spese possono essere considerate, ai
fini del calcolo della detrazione, soltanto se riguardano un
edificio residenziale considerato nella sua interezza.
Qualora la superficie complessiva delle unità immobiliari
destinate a residenza ricomprese nell’edificio sia superiore
al 50 per cento, è possibile ammettere alla detrazione anche
il proprietario e il detentore di unità immobiliari non
residenziali che sostengano le spese per le parti comuni. Se
tale percentuale risulta inferiore, è comunque ammessa la
detrazione per le spese realizzate sulle parti comuni da
parte dei possessori o detentori di unità immobiliari
destinate ad abitazione comprese nel medesimo edificio
(Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.2).
La detrazione per gli interventi realizzati sulle parti
comuni spetta anche ai proprietari di soli box o cantine.
Gli interventi edilizi agevolabili, sotto il profilo tecnico
e nei loro contenuti, sono classificati e dettagliatamente
definiti dall’art.3 del Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato
con DPR n. 380 del 2001. In sostanza, al fine di definire
ciò che beneficia dell’agevolazione fiscale, il legislatore
rimanda alla legge quadro sull’edilizia.
Interventi edilizi di cui alle lettere a),
b), c) e d), dell’art. 3 del DPR n. 380 del 2001
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni, la
detrazione spetta per le spese di:
manutenzione ordinaria (lett. a) ;
manutenzione straordinaria (lett. b);
restauro e di risanamento conservativo (lett. c);
ristrutturazione edilizia (lett. d).
Per gli interventi effettuati sulle singole unità
immobiliari e/o sulle relative pertinenze, la detrazione
compete per le medesime spese, ad eccezione di quelle
relative alla manutenzione ordinaria. L’agevolazione è
riferita ad interventi eseguiti su singole unità immobiliari
residenziali, di qualsiasi categoria catastale, anche rurali
e sulle loro pertinenze, accatastate o in via di
accatastamento.
Gli interventi devono essere eseguiti su edifici esistenti e
non devono realizzare una nuova costruzione (Circolare
11.05.1998 n. 121, paragrafo 4). Fanno eccezione gli
interventi relativi ai parcheggi pertinenziali nonché quelli
di demolizione e “fedele ricostruzione”, sempre che
dal titolo abilitativo risulti che rientrano nella categoria
della ristrutturazione edilizia.
Gli interventi previsti in ciascuna delle categorie sopra
richiamate sono, di norma, integrati o correlati ad
interventi di categorie diverse; ad esempio, negli
interventi di manutenzione straordinaria sono necessarie,
per completare l’intervento edilizio nel suo insieme, opere
di pittura e finitura ricomprese in quelle di manutenzione
ordinaria.
Pertanto, al fine dell’esatta individuazione degli
interventi da realizzare e della puntuale applicazione delle
disposizioni agevolative, occorre tener conto del carattere
assorbente della categoria “superiore” rispetto a
quella “inferiore” (Circolare 24.02.1998 n. 57,
paragrafo 3.4).
...
Ristrutturazione edilizia - Art. 3, comma
1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001
Gli interventi di
ristrutturazione edilizia sono quelli volti a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino e la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di elementi ed impianti che possono
portare ad un edificio parzialmente o completamente diverso
dal preesistente. Gli effetti di tale trasformazione sono
tali da incidere sui parametri urbanistici al punto che
l’intervento stesso è considerato di “trasformazione
urbanistica” e, come tale, soggetto al relativo titolo
abilitativo (Circolare 24.02.1998 n. 57, paragrafo 3.4).
È possibile, ad esempio, fruire della detrazione d’imposta,
in caso di lavori in un fienile che risulterà con
destinazione d’uso abitativo solo a seguito dei lavori di
ristrutturazione che il contribuente intende realizzare
purché nel provvedimento amministrativo che autorizza i
lavori risulti chiaramente che gli stessi comportano il
cambio di destinazione d’uso del fabbricato, già strumentale
agricolo, in abitativo (Risoluzione 08.02.2005 n. 14).
Attraverso gli interventi di ristrutturazione edilizia è
possibile aumentare la superficie utile, ma non il volume
preesistente.
Nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e
ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele
ricostruzione, nel rispetto della volumetria dell’edificio
preesistente (fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica, di cui
all’articolo 3, lettera d), del DPR n. 380 del 2001);
conseguentemente, in caso di demolizione e ricostruzione con
ampliamento della volumetria preesistente, la detrazione non
spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo
complesso, una “nuova costruzione”. Qualora, invece,
la ristrutturazione avvenga senza demolizione dell’edificio
esistente e con ampliamento dello stesso, la detrazione
compete solo per le spese riferibili alla parte esistente in
quanto l’ampliamento configura, comunque, una “nuova
costruzione”. Tali criteri sono applicabili anche agli
interventi di ampliamento previsti in attuazione del Piano
Casa (Risoluzione 4.01.2011 n. 4).
Il contribuente ha l’onere di mantenere distinte, in termini
di fatturazione, le due tipologie di intervento o, in
alternativa, essere in possesso di un’apposita attestazione
che indichi gli importi riferibili a ciascuna tipologia di
intervento, rilasciata dall’impresa di costruzione o
ristrutturazione sotto la propria responsabilità,
utilizzando criteri oggettivi. In caso di ristrutturazione
con ampliamento di un box pertinenziale la detrazione spetta
anche per le spese relative all’ampliamento a condizione che
lo stesso sia funzionale alla creazione di un nuovo posto
auto.
L’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380 del 2001, così
come riformulato dall’art. 30, comma 1, lett. a), del DL n.
69 del 2013, ridefinisce la fattispecie degli interventi di
ristrutturazione edilizia eliminando il riferimento al
rispetto della “sagoma” per gli interventi di
demolizione e successiva ricostruzione ed imponendo il solo
rispetto della volumetria preesistente fatte salve le
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica.
Poiché la nozione di sagoma edilizia è intimamente legata
anche all’area di sedime del fabbricato e considerato che il
legislatore ha eliminato il riferimento al rispetto della
sagoma per gli immobili non vincolati, la detrazione è
ammessa anche se l’intervento di ristrutturazione edilizia
consistente nella demolizione e ricostruzione comporti anche
lo spostamento di lieve entità rispetto al sedime originario
(risposta all’Interrogazione
a risposta immediata in commissione 5-01866 del 14.01.2014). |
Ed altri soggetti, ancora, hanno detto la loro... |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere - Interventi di
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione - Riduzione della volumetria preesistente e
spostamento e spostamento di sedime - Art. 3, comma 1, lett.
d), del DPR n. 380 del 2001; art. 16-bis del DPR 917 del
1986; art. 1, commi 344-347 legge n. 296 del 2006 (Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Sez. I,
nota 16.07.2015 n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: parere su ristrutturazione edilizia e su
demolizione e ricostruzione con riduzione di volume
(Regione Emilia Romagna,
nota
15.05.2014 n. 209517 di prot.).
---------------
Si risponde alla richiesta di parere relativamente a
due quesiti.
A. Il primo riguarda le modalità di esecuzione
dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato con
"conservazione dell'edificio". In particolare il quesito è
diretto a saper se rientrano nella categoria di intervento
significative riduzioni del volume e dell'area di sedime,
nonché limitati aumenti del sedime senza incrementi
volumetrici.
...
B. Il secondo quesito è relativo alla classificazione
dell'intervento di demolizione di un edificio e della
conseguente ricostruzione con riduzione della volumetria
preesistente. In particolare la richiesta è volta a
conoscere se la coincidenza tra il volume demolito e quello
ricostruito sia un requisito essenziale affinché
l'intervento possa essere configurato nella ristrutturazione
edilizia. (...continua). |
Tuttavia, a questo punto, mancherebbe la "ciliegina"
sulla torta e cioè (come ribadito dallo stesso C.S.LL.PP. nel proprio parere
ut supra) che il M.I.T.
(Ufficio Legislativo - competente per materia) dicesse la propria
(definitivamente) di
talché si apponga l'imprimatur alla tesi
sopra esplicitata. |
27.08.2019
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
APPALTI:
Sulla questione interpretativa degli artt. 5 e 5-bis del
d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato col d.lgs. n. 97 del 2016.
La legge propende per l’esclusione assoluta della disciplina
dell’accesso civico generalizzato in riferimento agli atti delle procedure
di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici.
Tale esclusione consegue non ad incompatibilità morfologica o funzionale ma
al delineato rapporto positivo tra norme, che non è compito dell’interprete
variamente atteggiare, richiedendosi allo scopo, per l’incidenza in uno
specifico ambito di normazione speciale, un intervento esplicito del
legislatore.
---------------
3. Col primo motivo (violazione degli artt.
3 e 5 e 5-bis, D.lgs.vo n. 33/2013 in
relazione all’art. 53, D.lgs.vo n. 50/2016 e
all’art. 13, D.lgs.vo n. 163/2006) si
censurano le argomentazioni sopra riportate,
premettendosi che l’art. 53 del d.lgs. n. 50
del 2016 -così come già l’art. 13 del d.lgs.
n. 163 del 2006 (fonte che regola la gara
Consip cui inerisce l’istanza ostensiva di
Di. s.r.l.)- opera espresso riferimento
agli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, facendo salvo soltanto
quanto espressamente previsto nel Codice dei
contratti pubblici. A tale premessa si fanno
seguire le osservazioni di cui appresso.
3.1. L’istituto dell’accesso civico è stato
introdotto nell’ordinamento con il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, dunque anteriormente al
vigente Codice dei contratti pubblici,
istituito invece con d.lgs. 18.04.2016,
n. 50; inoltre, l’accesso civico c.d.
generalizzato -ovvero il diritto di accesso
non condizionato dalla titolarità di
situazioni giuridicamente rilevanti, cui la Di. ha ricondotto la propria istanza- è
stato introdotto nel corpo del d.lgs. n. 33
del 2013 con il d.lgs. 25.05.2016, n.
97, sicché ben avrebbe potuto essere
inserito nel Codice dei contratti con il
c.d. correttivo di cui al d.lgs. 19.04.2017, n. 56, se si fosse voluto consentire
l’accesso civico generalizzato per la
materia dei contratti pubblici; anche in
applicazione del noto brocardo ubi lex
voluit, dixit, ubi noluit, tacuit, la
circostanza sarebbe indicativa della volontà
di escludere tale materia dall’ambito di
applicazione del predetto istituto.
3.2. Sarebbe erronea la lettura che è stata
fatta in sentenza dell’art. 5-bis del d.lgs.
n. 33 del 2013, poiché la disposizione, da
un lato reca un elenco specifico di ipotesi
in cui l’accesso civico è escluso (commi 1 e
2), dall’altro annovera, tra i casi di
esclusione, le ipotesi più generali in cui
“l’accesso è subordinato dalla disciplina
vigente al rispetto di specifiche
condizioni, modalità o limiti” (comma 3): il
sistema di accesso ai documenti nell’ambito
dei contratti pubblici, come disciplinato
attualmente dall’art. 53 del d.lgs. n. 50
del 2016, rientra tra le ipotesi eccettuate
dall’art. 5-bis, comma 3, poiché soggiace ai
limiti imposti dallo stesso art. 53, che, a
sua volta, detta una disciplina speciale ed
in parte anche derogatoria rispetto alle
regole stabilite per l’accesso c.d.
ordinario; di tale specialità è detto
incidentalmente nella sentenza del Consiglio
di Stato, V, 20.03.2019, n. 1817.
3.3. Nel caso di specie, per di più,
l’accesso civico generalizzato si sarebbe
dovuto escludere considerando le ragioni
che, in concreto, hanno indotto Di. s.r.l.
a formulare istanza di accesso, in qualità
di partecipante alla gara indetta da Consip
per l’affidamento del servizio, e
considerando altresì l’interesse dichiarato
a conoscere eventuali inadempienze
nell’esecuzione del servizio, che potrebbero
comportare la risoluzione del contratto per
inadempimento e l’affidamento del servizio
all’ATI seconda in graduatoria, di cui Di.
s.r.l. è mandante.
Da ciò, l’inapplicabilità
dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013, che
presuppone che il diritto venga esercitato
per lo scopo previsto dall’art. 1 di
“favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche” (come
da giurisprudenza di merito richiamata nel
ricorso: Tar Marche, sez. I, 18.10.2018, n. 677 e, sia pure in diversa materia, Tar Lazio, sez. I-quater, 28.03.2019,
n. 4122).
3.4. La giurisprudenza di merito richiamata
invece nella sentenza impugnata sarebbe non
pertinente (come Tar Campania–Napoli,
VI, 22.12.2017, n. 6028) ovvero non
condivisibile (come Tar Lombardia–Milano, IV, 11.01.2019, n. 45, peraltro
contraddetta da altra dello stesso Tar
Lombardia–Milano, I, 25.03.2019, n.
630); in particolare, non sarebbe
condivisibile l’assunto che la regola in
materia di accesso è costituita dalla
disciplina del d.lgs. n. 33 del 2016,
laddove le eccezioni alla stessa devono
essere interpretate restrittivamente e tra
queste vi sarebbero appunto le ipotesi
richiamate in via omnicomprensiva dal comma
3 dell’art. 5-bis: all’opposto, secondo
l’appellante, l’ambito di esclusione
dell’applicabilità dell’istituto non sarebbe
circoscritto alle sole ipotesi di divieto,
ma comprenderebbe quelle di accesso
consentito con “specifiche condizioni,
modalità o limiti”.
3.5. In una prospettiva teleologica e
sistematica, andrebbe considerato che gli
atti delle procedure di affidamento ed
esecuzione dei contratti pubblici sono
formati e depositati nel contesto di una
disciplina speciale, che rappresenta un
complesso normativo chiuso, comprendente
anche la regolamentazione dell’accesso agli
atti.
In tale prospettiva, risulta
giustificata la scelta di non consentire un
accesso indiscriminato a soggetti non
qualificati, trattandosi di documentazione
da un lato assoggettata ad un penetrante
controllo pubblicistico da parte di enti
istituzionalmente preposti alla vigilanza e
dall’altro coinvolgente interessi di natura
economica ed imprenditoriale di per sé
sensibili (come da previsione dell’art.
5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33
del 2013, di cui il Tar Toscana non ha
tenuto conto).
3.6. Quanto all’art. 5-bis, comma 6, sul
quale si basa una delle argomentazioni della
sentenza, va rilevato che le Linee Guida
sono state effettivamente approvate dal
Consiglio dell’ANAC con deliberazione del 28.12.2016, ma che sono state concertate
con il Garante della Privacy, con la
Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997 e con gli enti
territoriali e che la vigilanza sul settore
dei contratti pubblici non è l’unica
affidata all’Autorità.
4. La società appellata Di. s.r.l. -dopo
aver ribadito di essere titolare di un
interesse qualificato, in quanto seconda in
graduatoria e potenziale affidataria del
servizio in caso di risoluzione del
contratto per le asserite inadempienze di
CNS- si difende richiamando le deduzioni
svolte nel ricorso introduttivo in punto di
ammissibilità dell’accesso civico
generalizzato -sostanzialmente fatte proprie
dalla sentenza gravata- e riferendo di altri
arresti conformi dello stesso Tar
Toscana, sez. III, 17.04.2019, n. 577 e
sez. I, 26.04.2019, n. 611.
Quindi
sostiene che “il cittadino, ai fini del
controllo generalizzato sull’attività della P.A., ha certamente interesse a capire se un
contratto è stato correttamente eseguito
[…]”, sicché l’interpretazione che esclude
la possibilità di accesso agli atti
esecutivi dei contratti pubblici sarebbe
“completamente abrogatrice della norma sulla
trasparenza”.
5. Il Collegio ritiene che il motivo di appello sia fondato e che le
contrarie deduzioni dell’appellata vadano disattese.
Va premesso che l’accesso ai documenti in possesso delle pubbliche
amministrazioni è, oggi, regolato da tre diversi sistemi, ciascuno
caratterizzato da propri presupposti, limiti ed eccezioni:
- l’accesso
documentale degli artt. 22 e seg. della legge 07.08.1990, n. 241;
- l’accesso civico ai documenti oggetto di pubblicazione, già regolato dal d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
- l’accesso civico generalizzato, introdotto
dalle modifiche apportate a quest’ultimo impianto normativo dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97 (cfr., per le differenze tra i vari tipi di accesso, tra
le altre Cons. Stato, IV, 12.08.2016, n. 3631 e, di recente, id., V, 20.03.2019, n. 1817).
5.1. Tale attuale coesistenza di tre istituti a portata generale, ma a
diverso oggetto, comporta in principio che ciascuno sia, a livello
ordinamentale, pari ordinato rispetto all’altro, di modo che: nei rapporti
reciproci ciascuno opera nel proprio ambito, sicché non vi è assorbimento
dell’una fattispecie in un’altra; e nemmeno opera il principio
dell’abrogazione tacita o implicita ad opera della disposizione successiva
nel tempo (art. 15 disp. prel. al Cod. Civ.) tale che l’un modello di
accesso sostituisca l’altro, o gli altri, in attuazione di un preteso
indirizzo onnicomprensivo che tende ad ampliare ovunque i casi di piena
trasparenza dei rapporti tra pubbliche amministrazioni, società e individui.
5.2. Siffatta ricostruzione incentrata sulla coesistenza di più modelli
legali di accesso comporta una prima conseguenza, di ordine procedurale, ed
anche processuale, concernente la qualificazione dell’istanza di accesso, in
prima battuta, da parte dell’amministrazione interpellata e, quindi, da
parte del giudice chiamato a pronunciarsi sul diniego o sul silenzio.
Nel caso in cui l’opzione dell’istante sia espressa per un determinato
modello, resta precluso alla pubblica amministrazione –fermi i presupposti
di accoglibilità dell’istanza- di diversamente qualificare l’istanza stessa
al fine di individuare la disciplina applicabile; in correlazione, l’opzione
preclude al privato istante la conversione in sede di riesame o di ricorso
giurisdizionale (cfr., per l’inammissibilità dell’immutazione in corso di
causa dell’actio ad exhibendum, pena la violazione del divieto di mutatio
libelli e di ius novorum, Cons. Stato, IV, 28.03.2017, n. 1406 e id., V,
n. 1817/2019 cit.).
Un tale rigore resta peraltro di fatto temperato dall’ammissibilità -affermata incidentalmente nei precedenti appena citati e qui ribadita- della
presentazione cumulativa di un’unica istanza, ai sensi di diverse
discipline, con evidente aggravio per l’amministrazione (del quale
l’interprete non può che limitarsi a dare atto), dal momento che dovrà
applicare e valutare regole e limiti differenti. Nulla infatti,
nell’ordinamento, preclude il cumulo anche contestuale di differenti istanze
di accesso.
5.2.1. Tale ultima evenienza non rileva ai fini della presente decisione.
Infatti, sebbene la Di. s.r.l. abbia avanzato le diverse istanze al Comune
di Scandicci, sopra indicate, cumulativamente fondate sugli artt. 22 e seg.
della legge n. 241 del 1990, sull’art. 53 d.lgs. n. 50 del 2016 e sull’art.
3 del d.lgs. n. 33 del 2013, si è infine opposta, col ricorso introduttivo
notificato il 29.10.2018, al diniego di cui alla nota dell’08.10.2018, deducendone, come unico motivo di gravame, l’illegittimità per
violazione degli artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 33 del 2013.
5.2.2. Giova precisare, al fine di meglio chiarire i confini del giudizio di
appello, che il Consorzio appellante non ha impugnato la decisione di
rigetto dell’eccezione di irricevibilità del ricorso, che era stata
formulata dal Comune di Scandicci (facendo leva sul carattere asseritamente
riproduttivo del provvedimento impugnato, che avrebbe confermato un
precedente diniego dell’amministrazione comunale non tempestivamente
opposto).
Pertanto, la questione del rapporto tra le diverse istanze di accesso
presentate dalla società Di. s.r.l. al Comune di Scandicci è estranea al
perimetro della presente decisione.
5.3. Questo perimetro è piuttosto segnato dalla delimitazione fissata dalla
stessa Di. s.r.l. quando, pur con qualche profilo di contraddittorietà in
punto di individuazione dell’interesse al ricorso, ha tuttavia precisato di
agire non per fare “valere (solo) la sua posizione di concorrente
originaria, ma altresì quella di soggetto che può svolgere un accesso
civico” e, come detto, ha denunciato la violazione delle norme in tema di
accesso civico generalizzato.
5.3.1. L’oggetto del giudizio porta quindi alla questione del rapporto tra
la normativa in tema di accesso civico e la normativa in tema di accesso
agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici.
Tale rapporto è condizionato dalla detta coesistenza ordinamentale dei tre
modelli di accesso ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni
(e soggetti equiparati) attualmente disciplinati in via generale.
Se, come sopra rilevato, essi operano in posizione tra loro pari ordinata,
risulta, proprio in ragione di ciò, più complesso il coordinamento di
ciascuno con le discipline settoriali in tema di accesso tuttora vigenti con
regole e limiti propri (non solo in materia di contratti pubblici, ma anche,
tra l’altro, in materia ambientale e dell’ordinamento degli enti locali,
nonché in materia di atti dello stato civile e atti conservati negli archivi
di Stato e negli altri archivi disciplinati dal Codice dei beni culturali e
del paesaggio, o in materia tributaria).
Si tratta di un coordinamento da effettuare volta a volta, verificando se la
disciplina settoriale, da prendere prioritariamente in considerazione in
ossequio al principio di specialità, consenta la reciproca integrazione
ovvero assuma portata derogatoria.
6. Per come fatto palese dalla motivazione della sentenza impugnata e dai
motivi di appello, nel caso di specie la questione si risolve nel giudicare
se l’art. 53 (Accesso agli atti e riservatezza) del d.lgs. n. 50 del 2016
-il quale stabilisce che “salvo quanto espressamente previsto nel presente
codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di
esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte,
è disciplinato dagli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”-
comporti l’esclusione dell’applicabilità della disciplina dell’accesso
civico, in particolare ai sensi dell’art. 5 -bis, comma 3 del d.lgs. n. 33
del 2013, per il quale “il diritto di cui all’art. 5, comma 2, è escluso nei
casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è
subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni,
modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’art. 24, comma 1, della l. 241
del 1990”.
6.1. Come è noto e come appare anche dai contrapposti richiami
giurisprudenziali delle parti, sulla questione l’orientamento dei Tribunali
amministrativi regionali è diviso: per un primo indirizzo i documenti
afferenti alle procedure di affidamento ed esecuzione di un appalto sono
esclusivamente sottoposti alla disciplina di cui all’art. 53 del d.lgs. n.
50 del 2016 e pertanto restano esclusi dall’accesso civico generalizzato di
cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013; per l’indirizzo
contrapposto, si deve invece riconoscere l’applicabilità della disciplina
dell’accesso civico generalizzato anche alla materia degli appalti pubblici.
6.2. La presente vicenda allo stato decisa dal Tribunale amministrativo
regionale per la Toscana, con la sentenza qui appellata, pubblicata il 25.03.2019, n. 422, riflette tale contrasto.
Infatti, l’istanza di accesso al Comune di Scandicci è stata preceduta da
analoghe istanze rivolte dalla società Di. s.r.l. a Consip s.p.a. in
qualità di stazione appaltante della gara indetta da quest’ultima con bando
del 23 maggio 2012 ed aggiudicata, per il Lotto 5 – Toscana, al r.t.i.
costituito tra CN. (mandataria) e Pr.Ve. s.p.a., Te.Se.
s.r.l., So. s.p.a. e Ex. s.p.a. (mandanti). A seguito del diniego
opposto da Consip s.p.a. e del silenzio da questa serbato su un’ulteriore
istanza avanzata richiamando espressamente l’art. 5 del d.lgs. n. 33 del
2013, Di. s.r.l. ha proposto un separato ricorso dinanzi al Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, competente per territorio, notificato
il 25.07.2018.
Quest’ultimo ricorso è stato deciso in primo grado con sentenza pubblicata
il 14.01.2019, n. 425, che l’ha respinto, esprimendo l’indirizzo
contrario a quello fatto proprio dalla sentenza oggetto del presente
gravame.
La sentenza n. 425/2019 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio,
Roma è stata, a sua volta, appellata con ricorso proposto da Di. s.r.l.,
iscritto al n. 1092/2019 R.G., trattato –in presenza delle parti private
coincidenti con quelle del presente giudizio, ma a posizioni processuali
invertite- nella stessa camera di consiglio del 13.06.2019 e deciso con
separata sentenza.
7. Al fine di dare soluzione convergente alla medesima questione
-differentemente risolta, nel giudizio di primo grado, nei confronti delle
stesse parti private- si osserva quanto segue, condividendo e sviluppando le
censure di cui alla seconda ed alla quarta delle argomentazioni
dell’appellante.
L’art. 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, introdotto dall’art. 6, comma 2, del
d.lgs. n. 97 del 2016, intitolato “esclusioni e limiti all’accesso civico”
va considerato nella sua interezza, e non solo per quanto previsto dal comma
3.
I primi due comma si occupano dei limiti legali all’accesso civico
generalizzato. Questi operano nel presupposto della legittimazione
soggettiva generalizzata, quindi data a “chiunque” agisca uti cives, senza
dover dimostrare la titolarità di una determinata situazione soggettiva.
Al riguardo, nonostante negli orientamenti di primo grado siano presenti
affermazioni intese a valorizzare la motivazione della richiesta di accesso,
va preferita l’opposta interpretazione, in linea con la previsione dell’art.
5, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, che esclude la preventiva
“funzionalizzazione” dell’accesso al raggiungimento delle finalità indicate
nell’art. 5, comma 2 (favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico). Siffatte finalità vanno
intese come quelle in base alle quali è riconosciuto al cittadino un diritto
di accesso generalizzato (collegato peraltro all’esercizio di funzioni
istituzionali nel senso già valorizzato nel precedente di questo Consiglio
di Stato, VI, 25.06.2018, n. 3907) da bilanciare, nel caso concreto, con
gli interessi confliggenti, pubblici e privati, elencati nei primi due comma
dell’art. 5-bis in commento.
Resta poi –ma il tema è estraneo all’economia della presente decisione e
dunque non qui è il caso di affrontarlo- la questione della serietà e della
congruenza dell’istanza di accesso, che concerne il livello di
apprezzabilità dell’interesse che la muove e della sua relazione con le
finalità proprie dell’istituto.
La portata di detto bilanciamento di interessi contrapposti -che
l’amministrazione deve effettuare ponendo in concreto a confronto
l’interesse generale ed astratto alla conoscibilità del dato (prescindendo,
quindi, come detto, dalla motivazione che muove l’istante) con il pericolo,
invece concreto, di lesione che dalla pubblicazione e dalla divulgazione
potrebbe ricevere il confliggente specifico interesse, pubblico o privato-
palesa la significativa differenza tra la disciplina dell’accesso civico e
quella dell’accesso documentale; in quest’ultima, infatti, la titolarità in
capo all’istante di una posizione differenziata e specifica gli assicura una
maggiore tutela nel rapporto con interessi contrapposti (tanto che è
ripetuta, anche in giurisprudenza, l’affermazione che si rinviene nelle
Linee Guida dell’ANAC, approvate con la deliberazione del 28 dicembre 2016,
che l’accesso documentale consente “un accesso più in profondità a dati
pertinenti” laddove l’accesso generalizzato è “meno in profondità”, ma “più
esteso”: cfr. Cons. Stato, VI, 31.01.2018, n. 651 e, di recente, id.,
V, n. 1817 /2019 cit.).
7.1. La previsione dell’art. 5-bis, comma 3 si distingue da quella dei comma
1 e 2, appena detti, perché è disposizione volta a fissare, non i limiti
relativi all’accesso generalizzato consentito a “chiunque”, bensì le
eccezioni assolute, a fronte delle quali la trasparenza recede.
Anche la tecnica redazionale del comma si distingue da quella dei comma
precedenti, poiché se è vero che l’art. 5-bis, comma 3, non sottrae al
bilanciamento materie direttamente individuate dalla norma medesima (a
differenza degli interessi, pubblici e privati, che sono individuati dal
primo e dal secondo comma), resta che utilizza l’espressione generica di
casi, che fanno eccezione assoluta, in modo da rinviare, per la loro
individuazione, ad altre disposizioni di legge, direttamente o
indirettamente, richiamate dallo stesso comma 3 (sicché l’ampiezza
dell’eccezione dipende dalla portata della normativa cui l’art. 5-bis, comma
3, rinvia). In particolare, sono sottratti al bilanciamento ed esclusi
senz’altro dall’accesso generalizzato: i casi di segreto di Stato ed i casi
di divieti di accesso o di divulgazione previsti dalla legge, i casi
elencati nell’art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (che, al suo
interno, ricomprende intere materie), i casi in cui “l’accesso è subordinato
dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o
limiti”.
7.2. Il Collegio ritiene che, anche in ragione della peculiare tecnica
redazionale appena detta, tale ultima eccezione assoluta ben possa essere
riferita a tutte le ipotesi in cui vi sia una disciplina vigente che regoli
specificamente il diritto di accesso, in riferimento a determinati ambiti o
materie o situazioni, subordinandolo a “condizioni, modalità o limiti”
peculiari; quindi, che l’eccezione non riguardi le ipotesi in cui la
disciplina vigente abbia quale suo unico contenuto un divieto assoluto (o
relativo) di pubblicazione o di divulgazione: se non altro perché tale
ipotesi è separatamente contemplata nella medesima disposizione.
Con ciò -richiamando altresì quanto detto sopra a proposito dei rapporti tra
discipline generali e discipline settoriali sull’accesso- non si ritiene che
a queste seconde vada attribuita sempre e comunque portata derogatoria,
quanto piuttosto che, come anticipato, occorra, volta a volta, verificare la
compatibilità dell’istituto dell’accesso generalizzato con le “condizioni,
modalità o limiti” fissati dalla disciplina speciale.
8. L’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2013 è in linea di sostanziale continuità
con l’art. 13 del d.lgs. n. 163 del 2006 ed è coerente sia con la normativa
eurounitaria precedente (art. 13 della direttiva 2004/17/CE e 6 della
direttiva 2004/18/CE) sia con quella oggetto del recepimento di cui al
vigente Codice dei contratti pubblici (art. 28 direttiva 2014/23/UE, art. 21
direttiva 2014/24/UE e art. 39 direttiva 2014/25/UE).
In coerenza con le richiamate disposizioni sovranazionali settoriali,
nell’ordinamento interno, l’accesso agli atti delle procedure di affidamento
e di esecuzione dei contratti pubblici è regolato in termini impersonali
quanto ai soggetti tenuti a garantirlo (che necessariamente si identificano
con i soggetti che, indipendentemente dalla natura pubblica o privata,
conducono la procedura secondo le regole del Codice) e ai soggetti titolari
del diritto di accesso (che, per contro, non necessariamente si identificano
nei “concorrenti”, salvo che non sia previsto come al comma 6).
I limiti oggettivi del diritto sono invece espressamente perimetrati
mediante il rinvio agli artt. 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n.
241 e, quindi, mediante la fissazione delle deroghe del comma 2 (che elenca
ipotesi di mero differimento) e del comma 5 (che elenca diverse ipotesi di
esclusione assoluta ed un’ipotesi di esclusione relativa – quest’ultima
dovuta all’eccezione alla lettera “a” posta dal comma 6). Tali specifiche
ipotesi derogatorie rispondono a scopi connaturati alla particolare
tipologia di procedimento ad evidenza pubblica, quale quello di preservarne
la fluidità di svolgimento (tanto da sottrarre i documenti procedimentali,
mediante il differimento, anche all’accesso che l’art. 10 della legge n. 241
del 1990 riconosce in ogni momento e fase ai partecipanti) e di limitare la
possibilità di collusioni o di intimazioni degli offerenti. Al divieto di
accesso (temporaneo, mediante differimento, od assoluto) si accompagna
inoltre il divieto di divulgazione di cui all’art. 53, comma 3.
8.1. Tali deroghe specifiche potrebbero rientrare tra le eccezioni assolute
all’accesso civico generalizzato riconosciute dall’art. 5-bis, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 perché si tratta di divieti di accesso e di
divulgazione espressamente previsti dalla legge (come, d’altronde, è altresì
per i contratti secretati o la cui esecuzione richiede speciali misure di
sicurezza, per i quali è appunto dettata un’apposita disciplina di
secretazione, richiamata pure dalle Linee Guida ANAC del 2016).
Pertanto, rispetto alle ipotesi di cui ai comma dell’art. 53 successivi al
comma 1 è del tutto “neutro” l’inciso finale dell’art. 5-bis, comma 3,
laddove comprende tra le esclusioni assolute della disciplina dell’accesso
generalizzato “i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina
vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”. Invero se
servisse a richiamare soltanto divieti di pubblicazione e di divulgazione
previsti dal altre norme esso sarebbe inutilmente ripetitivo.
8.2. Invece, la previsione in questione assume significato autonomo e
decisivo se riferita alle discipline speciali vigenti in tema di accesso e,
per quanto qui rileva, al primo inciso del primo comma dell’art. 53.
Ne consegue che il richiamo testuale alla disciplina degli articoli 22 e
seguenti della legge 07.08.1990 n. 241 va inteso come rinvio alle
condizioni, modalità e limiti fissati dalla normativa in tema di accesso
documentale, che devono sussistere ed operare perché possa essere esercitato
il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di
esecuzione dei contratti pubblici.
9. Tale soluzione è contraria alle conclusioni raggiunte, in un caso
analogo, dalla recente decisione di questo
Consiglio di Stato, III,
05.06.2019, n. 3780, che ha preso le mosse dall’inciso finale dell’art. 5-bis,
comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, onde escluderne la possibilità di
riferirlo ad intere “materie” e sostenere che “diversamente interpretando,
significherebbe escludere l’intera materia relativa ai contratti pubblici da
una disciplina, qual è quella dell’accesso civico generalizzato, che mira a
garantire il rispetto di un principio fondamentale, il principio di
trasparenza ricavabile direttamente dalla Costituzione”.
9.1. Si è detto sopra delle ragioni di tecnica normativa e letterali per i
quali le eccezioni assolute della disciplina dell’accesso civico
generalizzato prescindano dalla riferibilità a determinati settori o materie
altrimenti disciplinati dall’ordinamento.
Parimenti si è detto sopra delle ragioni per le quali non appare
praticabile, allo stato, una lettura evolutiva della disciplina del diritto
di accesso per cui una tipologia di accesso a portata generale, come
l’accesso civico generalizzato, debba ritenersi prevalente sull’altra, in
particolare sull’accesso procedimentale o documentale (sicché, per le dette
ragioni, non si condividono le affermazioni della richiamata sentenza per
cui “non può … ipotizzarsi una interpretazione “statica” e non
costituzionalmente orientata delle disposizioni vigenti in materia di
accesso allorché, intervenuta la disciplina del d.lgs 97/2016, essa non
risulti correttamente coordinata con l’art. 53 codice dei contratti e con la
ancor più risalente normativa generale sul procedimento […]” e per cui “una
interpretazione conforme ai canoni dell’art. 97 Cost. (deve) valorizzare
l’impatto “orizzontale” dell’accesso civico, non limitabile da norme
preesistenti (e non coordinate con il nuovo istituto), ma soltanto dalle
prescrizioni “speciali” e interpretabili restrittivamente, che la stessa
nuova normativa ha introdotto al suo interno”).
9.2. Appaiono invece non in contrasto con quanto qui ritenuto altre
significative affermazioni della decisione n. 3780/2019 cit., e precisamente
in punto di:
- difetto di coordinamento tra le normative generali e quelle
settoriali, specificamente la normativa del Codice dei contratti pubblici;
- importanza e ragione dell’intervento di cui al d.lgs. 25.05.2016 n. 97, che ha introdotto l’accesso civico novellando l’art. 5 d.lgs. n.
33/2013, in quanto dichiaratamente ispirato al cd. “Freedom of information
act” che, nel sistema giuridico americano, ha da tempo superato il principio
dei limiti soggettivi all’accesso, riconoscendolo ad ogni cittadino, con la
sola definizione di un “numerus clausus” di limiti oggettivi, a tutela di
interessi giuridicamente rilevanti, che sono appunto precisati nello stesso
art. 5, co. 2, d.lgs. n. 33/2013” al fine di “favorire forme diffuse di
controllo nel perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche”, promuovendo così “la partecipazione al dibattito
pubblico”; ratio, quest’ultima “declinata in tutte le sue implicazioni” da
questo Consiglio di Stato nel parere favorevole sullo schema di decreto
legislativo di cui alla Commissione speciale 24.02.2016 n. 515.
Ma si tratta di considerazioni che non smentiscono –fatto il debito
riferimento alle “intenzioni del legislatore” (cfr. art. 12, comma 1, disp.
prel. cod. civ.) e allo scopo dell’innovazione legislativa- l’opposta
conclusione sopra raggiunta all’esito dell’interpretazione c.d. letterale.
9.3. Entrambe le questioni sottese alle dette affermazioni della sentenza n.
3780/2019 cit. sono state affrontate dall’appellante, laddove:
- col primo degli argomenti posti a fondamento dell’appello, ha
bene evidenziato che l’accesso civico generalizzato è stato introdotto nel
corpo del d.lgs. n. 33 del 2013 con il d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sicché
avrebbe potuto essere inserito nel Codice dei contratti pubblici con il c.d.
correttivo di cui al d.lgs. 19.04.2017, n. 56, se si fosse voluto
consentire l’accesso civico generalizzato per la materia dei contratti
pubblici; pertanto anche a non voler applicare la massima ubi lex voluit,
dixit, ubi noluit, tacuit, richiamata dall’appellante (al fine di desumere
la volontà di escludere la materia dei contratti pubblici dall’ambito di
applicazione dell’istituto), la circostanza è tale quantomeno da
ridimensionare l’assunto che fa leva sulla prevalenza della legge successiva
generale; non senza considerare che, al contrario, come osservato anche in
alcuni dei precedenti di merito su citati, il d.lgs. n. 97 del 2016 si è
fatto carico di regolamentare le ipotesi di discipline sottratte per
voluntas legis, anche se precedenti l’introduzione dell’istituto
dell’accesso civico, alla possibilità di accesso indiscriminato;
- col quinto degli argomenti posti a fondamento dell’appello,
l’appellante ha aggiunto considerazioni di ordine teleologico e sistematico
che, allo stato attuale dell’ordinamento, ben possono giustificare la deroga
all’accesso civico generalizzato agli atti delle procedure di affidamento e
di esecuzione dei contratti pubblici, consentendolo quindi soltanto a coloro
che –nel rispetto delle specifiche “condizioni” e “limiti” di cui agli artt.
22 e seg. della legge n. 241 del 1990, come richiamati dall’art. 53 del
d.lgs. n. 50 del 2016- siano portatori di un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata.
9.4. A tale ultimo riguardo non può non essere considerato il dato oggettivo
che si tratta di atti formati e depositati nell’ambito di procedimenti
assoggettati, per intero, ad una disciplina speciale ed a sé stante.
Questa disciplina attua specifiche direttive europee di settore che, tra
l’altro, si preoccupano già di assicurare la trasparenza e la pubblicità
negli affidamenti pubblici, nel rispetto di altri principi di rilevanza euro
unitaria, in primo luogo il principio di concorrenza, oltre che di
economicità, efficacia ed imparzialità.
In tale contesto, la qualificazione del soggetto richiedente l’accesso, al
fine di vagliare la meritevolezza della pretesa di accesso individuale, è
perciò ampiamente giustificata.
Per di più –avuto riguardo al contesto ordinamentale- il perseguimento di
buona parte delle finalità di rilevanza pubblicistica poste a fondamento
della disciplina in tema di accesso civico generalizzato, è assicurato, nel
settore dei contratti pubblici, da altri mezzi, ed in particolare: con i
compiti di vigilanza e controllo attribuiti all’ANAC, soprattutto quanto
allo scopo di contrasto alla corruzione, nonché con l’accesso civico c.d.
semplice di cui all’art. 3 e all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013,
dato che molto ampia è la portata dell'obbligo previsto, dalla normativa
vigente, in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti,
informazioni o dati riguardanti proprio i contratti pubblici (ampiezza che,
in una prospettiva sistematica, è indicativa della volontà legislativa di
garantire per questa via, mediante la pubblicità ed il diritto alla
conoscibilità di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 33 del 2013, le finalità di
controllo generalizzato dell’impiego delle risorse e di promozione della
qualità dei servizi sottese al principio di trasparenza).
9.4.1. A proposito dei compiti e del ruolo dell’ANAC e del significato che
la sentenza qui gravata ha attribuito all’art. 5-bis, comma 6, del d.lgs. n.
33 del 2013 (che rimette all’Autorità nazionale anticorruzione la
predisposizione di linee guida recante indicazioni operative “ai fini della
definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico” di cui allo
stesso art. 5-bis), è sufficiente osservare, a completamento di quanto
opposto dall’appellante, che l’ANAC assorbe i compiti e –in parte mutata-
la denominazione dell’Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione
e la trasparenza, già operante nell’ordinamento ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 27.10.2009, n. 150, e quelli in tema di contratti pubblici della
preesistente Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi
e forniture, a seguito dell’art. 19 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
convertito con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114. Pertanto,
le attribuzioni in materia di contratti pubblici sono venute organizzativamente a convergere con quelle in tema di contrasto
all’illegalità ed alla corruzione. Sicché è erroneo il ragionamento che
vorrebbe trarre dalla vigilanza dell’ANAC sul settore dei contratti pubblici
argomento ulteriore per sostenere l’operatività dell’accesso civico
generalizzato anche in tale materia.
9.5. Quanto ai valori e agli interessi in conflitto, merita osservare che,
allo stato, l’interpretazione qui preferita esclude qualsivoglia rilevanza
diretta del limite di cui all’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33
del 2013 (“gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o
giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i
segreti commerciali”), laddove, diversamente opinando:
- l’amministrazione che detiene i documenti per i quali è chiesto
l’accesso dovrebbe tenere conto, caso per caso, delle ragioni di opposizione
degli operatori economici coinvolti, con prevedibile soccombenza nella
maggioranza dei casi concreti dello stesso principio di trasparenza, che si
intende astrattamente tutelare, poiché altrettanto rilevanti sono gli
interessi privati contrapposti all’ostensione di atti ulteriori, rispetto a
tutti quelli per il quali la pubblicazione è obbligatoria per legge (e
quindi consentito, come detto, l’accesso civico c.d. “semplice”) e poiché,
come già detto, quanto maggiore è la “profondità” (id est, il dettaglio)
dell’informazione richiesta da chi non è portatore di uno specifico
interesse diretto, tanto più ampi sono i margini di tutela dei controinteressati;
- notevole sarebbe l’incremento dei costi di gestione del
procedimento di accesso da parte delle singole pubbliche amministrazioni (e
soggetti equiparati), del quale -nell’attuale applicazione della normativa
sull’accesso generalizzato, che si basa sul principio della gratuità (salvo
il rimborso dei costi di riproduzione)- si è fatto carico l’interprete (in
particolare, con riferimento alle richieste “massive o manifestamente
irragionevoli”, cfr. Linee Guida ANAC, par. 4.2 nonché gli arresti
giurisprudenziali che fanno leva sulla nozione di “abuso del diritto”), ma
che, in una prospettiva di diffusa applicazione dell’accesso civico
generalizzato a tutti gli atti delle procedure di affidamento e di
esecuzione di contratti pubblici, necessita di apposita disposizione di
legge;
- infine, il caso di specie è esemplificativo -per come bene
evidenziato dall’appellante con la quarta delle argomentazioni poste a
fondamento del gravame- di come la lettura qui confutata dell’art. 5-bis,
comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 nei suoi rapporti con l’art. 53 del
d.lgs. n. 50 del 2016 potrebbe finire per privare di senso il richiamo che
il comma 1 fa agli artt. 22 e seg. della legge n. 241 del 1990 ed, al
contempo, per distorcere le finalità perseguite con l’introduzione
nell’ordinamento dell’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma
2, del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto questo -come dichiaratamente fatto
da Di. s.r.l.- verrebbe utilizzato per la soddisfazione di interessi
economici e commerciali del singolo operatore, nell’intento di superare i
limiti interni dei rimedi specificamente posti dall’ordinamento a tutela di
tali interessi ove compromessi dalla conduzione delle procedure di
affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici (senza che rilevi -nella
prospettiva ordinamentale dei costi da sopportarsi dalla pubblica
amministrazione, compresi i costi dell’aumento del contenzioso- che detto
intento, volta a volta, risulti o meno raggiunto nel caso concreto).
10. Dato tutto quanto sopra, non resta che concludere che la legge propende
per l’esclusione assoluta della disciplina dell’accesso civico generalizzato
in riferimento agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei
contratti pubblici.
Tale esclusione consegue, non ad incompatibilità morfologica o funzionale,
ma al delineato rapporto positivo tra norme, che non è compito
dell’interprete variamente atteggiare, richiedendosi allo scopo, per
l’incidenza in uno specifico ambito di normazione speciale, un intervento
esplicito del legislatore.
10.1. Dato ciò, il primo motivo di appello va accolto.
11. Il secondo motivo, volto a contrastare le affermazioni della
società ricorrente circa la titolarità di una situazione giuridicamente
tutelata e collegata ai documenti ai quali è chiesto l’accesso, è carente di
interesse per quanto detto sulle ragioni giuridiche poste da Di. s.r.l. a
fondamento del ricorso avverso il diniego di accesso, mediante il richiamo
degli artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 33 del 2013.
11.1. Per completezza si osserva che la pretesa sarebbe stata infondata
anche se avanzata ai sensi degli artt. 53, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 e
22 e seg. della legge n. 241 del 1990 alla stregua della giurisprudenza che
nega la sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, con
riferimento agli atti della fase esecutiva del rapporto contrattuale, al
soggetto che vi è estraneo e che, in mancanza di un provvedimento di
risoluzione adottato dalla pubblica amministrazione, non possa vantare
nemmeno un ipotetico interesse al subentro (cfr. Cons. Stato, V, 11.06.2012, n. 3389).
12. In conclusione, accogliendosi il primo motivo di appello, in riforma
della sentenza appellata, va respinto il ricorso avanzato dalla società
Di. s.r.l. avverso il diniego di ostensione opposto dal Comune di
Scandicci con gli atti impugnati.
12.1. La novità della questione interpretativa degli artt. 5 e 5-bis del
d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato col d.lgs. n. 97 del 2016, ed il
relativo contrasto giurisprudenziale giustificano la compensazione delle
spese processuali
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.08.2019 n. 5503 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri,
previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non consente la destinazione
all’uso abitativo dei locali oggetto di condono edilizio.
La giurisprudenza è stabilmente orientata nel senso di
ritenere che, ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il
certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire
rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano
carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello
primario.
Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata
ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996,
che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti
gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti
fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga
indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli
edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti
costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto
all’abitazione.
E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato
formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o
secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni
igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai
regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di
esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente
sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano
precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m.
05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio
disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili,
al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione
degli incendi e degli infortuni.
---------------
La giurisprudenza (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. 03.06.2013, n. 3034;
id., 03.05.2011, n. 2620) è stabilmente orientata nel senso di ritenere che,
ai sensi dell’art. 35, co. 20, della legge n. 47/1985, il certificato di
abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga
a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di
salubrità richieste da fonti normative di livello primario. Questo in
coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha
fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18.07.1996, che
ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli
obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti
fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35, co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga
indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli
edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti
costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto
all’abitazione. E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva
il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte
primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche
condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad
esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano
espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge
gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari
che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui
al d.m. 05.07.1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del
rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto
inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e
di prevenzione degli incendi e degli infortuni (così Cons. Stato n.
2620/2011, cit.).
Alla luce degli indirizzi interpretativi consolidati, dai quali non vi sono
ragioni per discostarsi, il mancato rispetto del requisito dell’altezza
interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 05.07.1975, non
consente la destinazione all’uso abitativo dei locali di proprietà del
ricorrente.
La certificazione di abitabilità o agibilità conseguita secondo il
meccanismo disciplinato dall’art. 86, co. 4, l.r. n. 1/2005 è pertanto
illegittima, per questo aspetto giustificandosi l’esercizio del potere di
autotutela da parte del Comune resistente
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.06.2019 n. 857 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
26.08.2019 n. 199 "Regolamento recante le modalità per la redazione della
relazione di riferimento di cui all’articolo 5, comma 1, lettera v-bis) del
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 15.04.2019 n. 95). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
24.08.2019 n. 198 "Circolare con la quale si definiscono i criteri per la
comunicazione di informazioni relative al partenariato pubblico-privato ai
sensi dell’art. 44, comma 1-bis del decreto-legge 31.12.2007, n. 248
convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge
28.12.2008, n. 31" (Presidenza del Consiglio dei Ministri,
circolare 10.07.2019). |
ENTI LOCALI: G.U.
22.08.2019 n. 196 "Aggiornamento degli allegati al decreto legislativo n.
118 del 2011" (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 01.08.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U.
22.08.2019 n. 196 "Proroga dell’ordinanza contingibile e urgente
06.08.2013, e successive modificazioni, concernente la tutela
dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della
Salute,
ordinanza 18.07.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: G.U.
22.08.2019 n. 196 "Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche
o di bocconi avvelenati" (Ministero della Salute,
ordinanza 12.07.2019). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI: F.
Risso,
La conferenza di servizi: strumento di
composizione dei conflitti?
(21.08.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere - Interventi di
ristrutturazione edilizia mediante demolizione e
ricostruzione - Riduzione della volumetria preesistente e
spostamento e spostamento di sedime - Art. 3, comma 1, lett.
d), del DPR n. 380 del 2001; art. 16-bis del DPR 917 del
1986; art. 1, commi 344-347 legge n. 296 del 2006 (Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Sez. I,
nota 16.07.2015 n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: parere su ristrutturazione edilizia e su
demolizione e ricostruzione con riduzione di volume
(Regione Emilia Romagna,
nota
15.05.2014 n. 209517 di prot.).
---------------
Si risponde alla richiesta di parere relativamente a
due quesiti.
A. Il primo riguarda le modalità di esecuzione
dell'intervento di ristrutturazione edilizia realizzato con
"conservazione dell'edificio". In particolare il quesito è
diretto a saper se rientrano nella categoria di intervento
significative riduzioni del volume e dell'area di sedime,
nonché limitati aumenti del sedime senza incrementi
volumetrici.
...
B. Il secondo quesito è relativo alla classificazione
dell'intervento di demolizione di un edificio e della
conseguente ricostruzione con riduzione della volumetria
preesistente. In particolare la richiesta è volta a
conoscere se la coincidenza tra il volume demolito e quello
ricostruito sia un requisito essenziale affinché
l'intervento possa essere configurato nella ristrutturazione
edilizia. (...continua). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Le
tettoie che incidono sull'assetto edilizio preesistente necessitano del
permesso di costruire e non della semplice SCIA, perché non possono essere
considerate quali meri interventi di manutenzione straordinaria ai sensi
dell'art. 3, co 1, lett. b), D.P.R. 380/2001.
Invero, ciò che rileva non è solo la
creazione di un nuovo volume, il che si verifica qualora la tettoia sia
chiusa sui tre lati, ma anche qualora la stessa sia costruita con materiali
idonei a renderla una struttura permanente e sia di dimensioni tali da
incidere in maniera particolarmente significativa sul territorio, in
particolare laddove la stessa insista su una zona vincolata.
---------------
3.- Il primo manufatto consiste dunque in una tettoia.
Come chiarito da condivisa giurisprudenza, le tettoie che incidono
sull'assetto edilizio preesistente necessitano del permesso di costruire e
non della semplice SCIA, perché non possono essere considerate quali meri
interventi di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, co 1, lett.
b), D.P.R. 380/2001 (TAR Lazio, Roma, sez. II, 26.02.2019, n. 2583;
TAR Campania, Napoli, sez. III, 19.02.2019, n. 945).
Come chiarito da questa Sezione, ciò che rileva, infatti, non è solo la
creazione di un nuovo volume, il che si verifica -e non è questa l’ipotesi- qualora la tettoia sia chiusa sui tre lati, ma anche qualora la stessa sia
costruita con materiali idonei a renderla una struttura permanente e sia di
dimensioni tali da incidere in maniera particolarmente significativa sul
territorio, in particolare laddove la stessa insista su una zona vincolata
(TAR Campania, Napoli, sez. III, 28.12.2018, n. 7383; 26.02.2015, n. 1325).
Nel caso di specie la tettoia è fissata alla zona d’ingresso dell’immobile,
è in legno con copertura in tegole e si estende per una superficie, di certo
non trascurabile, di circa mq 25.
I materiali e le dimensioni costituiscono elementi comportanti una
trasformazione urbanistico-edilizia del territorio con perdurante modifica
dello stato dei luoghi; ne consegue l’assoggettabilità di questa opera al
regime sanzionatorio di cui all’art. 31 d.lgs. 380/2001
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.08.2019 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A differenza della nozione civilistica di pertinenza, un
manufatto può essere considerato una pertinenza ai fini edilizi quando è
funzionale all'edificio principale, non è dotato di un autonomo valore di
mercato e non incide sul carico urbanistico mediante la creazione di un
nuovo volume.
Ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando, su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, sia
realizzato un nuovo volume ovvero sia realizzata un'opera come, ad esempio,
una tettoia, che ne comporti l'alterazione della sagoma, come accade nel
caso in discussione.
---------------
Riguardo all’asserita natura pertinenziale, in linea con condivisa
giurisprudenza va chiarito che a differenza della nozione civilistica di
pertinenza, un manufatto può essere considerato una pertinenza ai fini
edilizi quando è funzionale all'edificio principale, non è dotato di un
autonomo valore di mercato e non incide sul carico urbanistico mediante la
creazione di un nuovo volume; ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal
precedente edificio, sia realizzato un nuovo volume ovvero sia realizzata
un'opera come, ad esempio, una tettoia, che ne comporti l'alterazione della
sagoma, come accade nel caso in discussione (Cons. Stato sez. VI, 06.02.2019, n. 904)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.08.2019 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Spetta al condominio, in persona
del suo amministratore, la legittimazione e
l’interesse ad agire per la contestazione
delle modalità di realizzazione di un’opera
sul fondo confinante, in considerazione di
asserite violazioni delle prescrizioni
urbanistico-edilizie.
---------------
In linea generale, la
legittimazione a contestare un provvedimento
di assegnazione in concessione di uno spazio
di area pubblica per l’installazione di un
chiosco, va riconosciuta in base al criterio
della cosiddetta “vicinitas”, ovvero a
fronte di uno stabile collegamento materiale
tra l'immobile del ricorrente e quello
interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino un’alterazione contra legem del
preesistente assetto urbanistico ed
edilizio.
Ai fini della dimostrazione dell’interesse
al presente ricorso, non deve
conseguentemente dimostrarsi il pregiudizio
della situazione soggettiva protetta,
incidendo ogni edificazione asseritamente
non conforme alla normativa edilizia,
sull'equilibrio urbanistico del contesto, e
sull'armonico ed ordinato sviluppo del
territorio, e come tale idonea a cagionare
danni da ritenersi sussistenti in re ipsa,
nei confronti dei titolari di diritti su
immobili adiacenti, o situati comunque in
prossimità a quelli interessati.
La vicinitas, intesa come situazione di
stabile collegamento giuridico con l’area
oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato, è infatti sufficiente a
radicare la legittimazione ad causam, non
essendo necessario accertare in concreto se
i lavori comportino o meno un’effettiva
lesione per il soggetto che propone
l'impugnazione, dovendo infatti ritenersi
pregiudizievole in re ipsa la realizzazione
di interventi suscettibili di incidere sulla
qualità panoramica, ambientale e
paesaggistica.
---------------
I.1) In primo luogo, il Collegio deve
scrutinare l’eccezione di inammissibilità
del ricorso per difetto di legittimazione
attiva del Condominio, che secondo la difesa
comunale, ai sensi di quanto disposto
nell’art. 1130 c.c,. potrebbe agire per la
tutela dei soli “diritti inerenti alle
parti comuni dell’edificio”, laddove
quelli oggetto del presente giudizio
afferirebbero ai singoli proprietari.
L’eccezione è infondata, spettando infatti
al condominio, in persona del suo
amministratore, la legittimazione e
l’interesse ad agire per la contestazione
delle modalità di realizzazione di un’opera
sul fondo confinante, in considerazione di
asserite violazioni delle prescrizioni
urbanistico-edilizie (C.S. sez. V,
15.02.2010, n. 809), come ha avuto luogo nel
caso si specie.
I.2) Sotto altro profilo, la difesa comunale
e la controinteressata, deducono la carenza
di interesse in capo ai ricorrenti, che non
avrebbero dimostrato quali posizioni
suscettibili di tutela sarebbero state lese
dai provvedimenti impugnati.
In linea generale, come anche evidenziato
nella sentenza n. 1485/2018 cit., osserva il
Collegio che la legittimazione a contestare
un provvedimento di assegnazione in
concessione di uno spazio di area pubblica
per l’installazione di un chiosco, va
riconosciuta in base al criterio della
cosiddetta “vicinitas”, ovvero a
fronte di uno stabile collegamento materiale
tra l'immobile del ricorrente e quello
interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino un’alterazione contra legem
del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio.
Ai fini della dimostrazione dell’interesse
al presente ricorso, non deve
conseguentemente dimostrarsi il pregiudizio
della situazione soggettiva protetta,
incidendo ogni edificazione asseritamente
non conforme alla normativa edilizia,
sull'equilibrio urbanistico del contesto, e
sull'armonico ed ordinato sviluppo del
territorio, e come tale idonea a cagionare
danni da ritenersi sussistenti in re ipsa,
nei confronti dei titolari di diritti su
immobili adiacenti, o situati comunque in
prossimità a quelli interessati (TAR
Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 23.02.2017, n.
109).
La vicinitas, intesa come situazione
di stabile collegamento giuridico con l’area
oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato, è infatti sufficiente a
radicare la legittimazione ad causam,
non essendo necessario accertare in concreto
se i lavori comportino o meno un’effettiva
lesione per il soggetto che propone
l'impugnazione, dovendo infatti ritenersi
pregiudizievole in re ipsa la
realizzazione di interventi suscettibili di
incidere sulla qualità panoramica,
ambientale e paesaggistica (C.S., Sez. IV,
09.09.2014, n. 4547).
Con riferimento al caso di specie, premesso
che non risulta contestata la vicinitas
dei ricorrenti al chiosco oggetto del
presente giudizio, l’eccezione va pertanto
respinta, considerato che il trasferimento
della struttura gestita dalla
controinteressata può effettivamente
introdurre un elemento di discontinuità
negli ambiti limitrofi, idoneo ad incidere
negativamente sul valore delle relative
proprietà, radicando così l’interesse alla
sua contestazione (C.S., Sez. IV,
08.01.2016, n. 35) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza 05.08.2019 n. 1851 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Installazione
di un chiosco.
Tra gli “interventi di
nuova costruzione”, per cui è necessario il
permesso di costruire, vi sono quelli
relativi all'installazione di manufatti
leggeri, anche prefabbricati, e di strutture
di qualsiasi genere, che siano utilizzati
quali ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, ad eccezione
di quelli diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee.
Rientrano infatti nella nozione giuridica di
costruzione, per la quale occorre il
permesso di costruire, tutti quei manufatti
che, anche se non necessariamente infissi
nel suolo, e pur semplicemente aderenti a
questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente
occasionale.
Ne consegue che l’installazione di un
chiosco, malgrado la sua precarietà
strutturale, la sua rimovibilità, e
l’assenza di opere murarie, in quanto
manufatto non deputato ad un uso per fini
contingenti, ma invece ad un utilizzo
reiterato nel tempo, è da ritenersi come
nuova costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 05.08.2019 n. 1851 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
II) Quanto al merito, nel primo motivo,
gli istanti sostengono che il Comune abbia
illegittimamente assentito la collocazione
del chiosco della controinteressata nella
nuova area, per non aver preventivamente
rilasciato il permesso di costruire.
Il motivo è fondato atteso che, come
ritenuto nella sentenza n. 1485/2018 cit.,
in base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1,
lett e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come
modificato dalla L. n. 221 del 28.12.2015,
tra gli “interventi di nuova costruzione”,
per cui è necessario il permesso di
costruire, vi sono quelli relativi
all'installazione di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, che siano utilizzati quali
ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli
diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano
infatti nella nozione giuridica di
costruzione, per la quale occorre il
permesso di costruire, tutti quei manufatti
che, anche se non necessariamente infissi
nel suolo, e pur semplicemente aderenti a
questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente
occasionale, essendo pertanto necessario
munirsi di permesso di costruire anche per
l'installazione di un chiosco (TAR Campania,
Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2282).
Malgrado la precarietà strutturale del
manufatto, la sua rimovibilità, e l’assenza
di opere murarie, il chiosco non è infatti
deputato ad un uso per fini contingenti,
quanto invece, ad un utilizzo reiterato nel
tempo (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I,
13.03.2017, n. 409), come tale idoneo ad
alterare lo stato dei luoghi, con
conseguente incremento del carico
urbanistico (C.S., Sez. VI, 03.06.2014 n.
2842).
II.1) Contrariamente a quanto dedotto dalla
resistente, ai fini del rigetto delle
censure, non assume alcun rilievo il fatto
che il chiosco oggetto del presente giudizio
fosse precedentemente installato in altro
luogo del territorio comunale.
Malgrado il provvedimento impugnato abbia
effettivamente autorizzato il trasferimento
della struttura gestita dalla
controinteressata, e non la sua
installazione ex novo, non risulta
che sia mai stato rilasciato alcun permesso
di costruire in favore del chiosco per cui è
causa, che in ogni caso, avrebbe dovuto
essere richiesto ed ottenuto anche con
riferimento alla nuova ubicazione, essendo
necessario accertarne la rispondenza ai
contenuti degli strumenti di pianificazione
ed alla regolamentazione urbanistica ivi
applicabili.
II.2) Nelle more del giudizio, la
controinteressata ha del resto provveduto a
presentare una segnalazione certificata di
inizio attività, alternativa al permesso di
costruire “in sanatoria”, in corso di
esame da parte degli Uffici Comunali, ciò
che, anche in via di fatto, conferma la
fondatezza del motivo.
Peraltro, come correttamente dedotto dai
ricorrenti, detta istanza non è idonea a
giustificare il differimento della
definizione del presente giudizio, che ha
infatti ad oggetto questioni ulteriori
rispetto alla mancanza del permesso di
costruire, che in ogni caso, a tutt’oggi,
non è stato rilasciato.
Gli ulteriori argomenti sviluppati dai
ricorrenti nelle loro memorie depositate in
vista dell’udienza di merito, secondo cui “la
procedura attivata dalla controinteressata
non è valida”, atteso che la stessa, “al
fine di ottenere la sanatoria
dell’intervento edilizio, non avrebbe dovuto
presentare una Scia in sanatoria, bensì
un’istanza di permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001”,
risultano invece non pertinenti rispetto
all’oggetto del giudizio.
Come detto, lo scrutinio del presente motivo
impone infatti al Collegio di pronunciarsi
sull’an del permesso di costruire, ai
fini del rilascio di un’autorizzazione al
trasferimento del chiosco gestito dalla
controinteressata, e non invece sul
procedimento necessario ad ottenere la
sanatoria in caso di sua mancanza, ciò che è
pertanto palesemente estraneo al contenuto
dei provvedimenti in questa sede impugnati,
fermo restando che, ai sensi dell’art. 34,
secondo comma, c.p.a., non è consentita
alcuna pronuncia su poteri non ancora
esercitati. |
LAVORI PUBBLICI: Retrocessione
parziale del bene espropriato.
La retrocessione
parziale del bene espropriato presuppone un
provvedimento dell'Amministrazione volto a
dichiarare l'inservibilità del bene per lo
scopo che ne ha determinato
l'espropriazione, o comunque la
manifestazione di tale volontà, anche a
mezzo di acta concludentia, con valenza
costitutiva del diritto alla restituzione
del bene già espropriato, ma non utilizzato.
In altri termini, la dichiarazione di
inservibilità dei beni all'opera pubblica è
il frutto di una valutazione discrezionale
dell'amministrazione, di fronte alla quale
il privato vanta una posizione di interesse
legittimo; il diritto soggettivo alla
retrocessione parziale dei beni nasce
soltanto se la stessa amministrazione abbia
dichiarato, appunto, che quei beni non
servono più all'opera pubblica
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.08.2019 n. 1812 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Va innanzi tutto rilevato che con l’atto
introduttivo del giudizio i ricorrenti hanno
chiesto l’accertamento del loro diritto (e
la conseguente condanna
dell’Amministrazione) alla “retrocessione
ex artt. 46 e/o 47 del d.p.r. 327 del 2001”.
Come noto l’art. 46 del DPR n. 327/2001
dispone che se l'opera pubblica o di
pubblica utilità non è stata realizzata o
cominciata entro il termine di dieci anni,
decorrente dalla data in cui è stato
eseguito il decreto di esproprio, ovvero se
risulta anche in epoca anteriore
l'impossibilità della sua esecuzione,
l'espropriato può chiedere che sia accertata
la decadenza della dichiarazione di pubblica
utilità e che siano disposti la restituzione
del bene espropriato e il pagamento di una
somma a titolo di indennità.
Il successivo art. 47 che disciplina la
retrocessione parziale stabilisce che “1.
Quando è stata realizzata l'opera pubblica o
di pubblica utilità, l'espropriato può
chiedere la restituzione della parte del
bene, già di sua proprietà, che non sia
stata utilizzata. In tal caso, il soggetto
beneficiario della espropriazione, con
lettera raccomandata con avviso di
ricevimento, trasmessa al proprietario ed al
Comune nel cui territorio si trova il bene,
indica i beni che non servono all'esecuzione
dell'opera pubblica o di pubblica utilità e
che possono essere ritrasferiti, nonché il
relativo corrispettivo.
2. Entro i tre mesi successivi,
l'espropriato invia copia della sua
originaria istanza all'autorità che ha
emesso il decreto di esproprio e provvede al
pagamento della somma, entro i successivi
trenta giorni.
3. Se non vi è l'indicazione dei beni,
l'espropriato può chiedere all'autorità che
ha emesso il decreto di esproprio di
determinare la parte del bene espropriato
che non serve più per la realizzazione
dell'opera pubblica o di pubblica utilità”.
Si tratta di due istituti (la retrocessione
totale e quella parziale) molto differenti
quanto a presupposti sostanziali e a
disciplina procedimentale.
La retrocessione parziale presuppone,
infatti, un provvedimento
dell'Amministrazione volto a dichiarare
l'inservibilità del bene per lo scopo che ne
ha determinato l'espropriazione, o comunque
la manifestazione di tale volontà, anche a
mezzo di acta concludentia, con
valenza costitutiva del diritto alla
restituzione del bene già espropriato, ma
non utilizzato (Consiglio di Stato sez. IV
02.01.2019, n. 22; Cons. Stato, Sez. IV,
21.01.2014, n. 269).
In altri termini, la dichiarazione di
inservibilità dei beni all'opera pubblica è
il frutto di una valutazione discrezionale
dell'amministrazione, di fronte alla quale
il privato vanta una posizione di interesse
legittimo; il diritto soggettivo alla
retrocessione parziale dei beni nasce
soltanto se la stessa amministrazione abbia
dichiarato, appunto, che quei beni non
servono più all'opera pubblica (cfr., ex
multis, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
13.05.2015, n. 386). |
APPALTI: Compatibilità
con i principi eurounitari e costituzionali del rito appalti super
accelerato ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. - Dies a quo del termine per
l'impugnazione dell'ammissione.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti - Rito superaccelerato – Art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. - Contrasto con i principi eurounitari e costituzionali
– Manifesta infondatezza.
●
Processo amministrativo – Rito appalti - Rito superaccelerato – Art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. – Ammissione - Dies a quo dell’impugnazione – Ante
d.lgs. n. 57 del 2017 – Conoscenza in forma diversa dalla pubblicazione -
Rilevanza.
●
L’onere dell’immediata impugnazione dell’ammissione alla gara degli altri
concorrenti ad una gara pubblica, previsto dal comma 2-bis dell’art. 120
c.p.a., non contrasta né con il diritto europeo, a condizione che i
provvedimenti emessi in tale fase siano accompagnati dall’esposizione dei
motivi pertinenti, così da garantire che gli interessati possano conoscere
dei vizi di legittimità eventualmente verificatisi, né con i principi
costituzionali, non essendo ingiustificatamente lesivo del diritto a
contestare in giudizio gli atti della pubblica amministrazione garantito dal
combinato disposto dei più volte citati artt. 24 e 113 Cost. (1).
●
Prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56,
che ha sancito in modo espresso la necessità della pubblicazione ai fini
della decorrenza del termine per azionare il rimedio ex art. 120, comma
2-bis, c.p.a. non vi sono ragioni sufficienti, legate all’esigenza di non
sacrificare eccessivamente il diritto di difesa in giudizio, per applicare
anche al provvedimento di ammissione alla gara le regole generale sulla
conoscibilità dell’atto e della sua lesività, essendo sufficiente, per far
decorrere il termine per l’impugnazione, la conoscenza comunque avvenuta
dell’ammissione, ad esempio durante la seduta di gara (2).
---------------
(1) La Sezione, richiamando Corte giust. comm. Ue, ord.,
14.02.2019, nella causa C-54/18, ha affermato che l’onere di impugnare
l’ammissione di un concorrente alla gara è compatibile con il diritto
europeo. Il giudice europeo ha infatti osservato che non vi è contrasto tra
il c.d. rito sulle ammissione alla gara ed i principi di accessibilità ed
efficacia dei ricorsi sanciti dagli artt. 1, par. 3, e 2-quater della
direttiva 89/665, come modificati dalla direttiva 2007/66, a condizione che
i provvedimenti emessi in tale fase siano accompagnati dall’esposizione dei
motivi pertinenti, così da garantire che gli interessati possano conoscere
dei vizi di legittimità eventualmente verificatisi, ed anche se per effetto
dell’inutile decorso del termine previsto per reagire in sede
giurisdizionale ogni ulteriore contestazione sia preclusa (cfr. in
particolare i §§ 38 e 49).
Ad analoghe conclusioni la Sezione giunge anche in relazione alla conformità
con i principi costituzionali.
Nell’interpretazione adeguatrice data dalla Corte di giustizia il comma
2-bis dell’art. 120 c.p.a. risulta infatti conforme anche con il diritto di
azione nei confronti degli atti contro la pubblica amministrazione: infatti
il ricorso non è impedito dalla previsione di un termine di 30 giorni
rispetto ad un atto di cui si conoscano le sottostanti ragioni.
A diversa conclusione non induce il fatto che l’eventuale accoglimento
dell’impugnazione contro di esso non attribuirebbe al ricorrente l’utilità
finale connessa alla procedura di gara. Infatti da un lato, l’accertamento
di una causa di esclusione di un competitore per il medesimo contratto
pubblico rappresenta comunque un vantaggio in vista del conseguimento del
medesimo risultato ultimo; dall’altro lato si determina così un regime di
relativa stabilità del provvedimento di aggiudicazione, con la preclusione a
fare valere nei confronti dell’atto finale di gara eventuali vizi di fasi
precedenti (v. i rilievi svolti dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 26.04.2018, n. 4).
L’idoneità del rito sulle ammissioni ad attribuire al ricorrente
un’apprezzabile utilità rende evidente che la scelta legislativa non è
ingiustificatamente lesiva del diritto a contestare in giudizio gli atti
della pubblica amministrazione garantito dal combinato disposto dei più
volte citati artt. 24 e 113 Cost., ma costituisce un ragionevole
bilanciamento tra contrapposte esigenze dell’impresa partecipante e
dell’amministrazione.
(2) La Sezione ha dato atto del diverso orientamento secondo cui la
conoscenza acquisita in forme diverse dalla pubblicazione del provvedimento
di ammissione è stata ritenuta comunque irrilevante anche nel regime
antecedente all’entrata in vigore del citato correttivo (Cons.
St., sez. III, 29.03.2019, n. 2079; id.,
sez. V, 08.01.2019, n. 173)
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 24.07.2019 n. 5234 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
possibilità di utilizzo delle ordinanze contingibili e urgenti -provvedimenti a
contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotati di capacità derogatoria
dell’ordinamento giuridico- costituisce una soluzione del tutto residuale,
prevista per fronteggiare senza indugio situazioni caratterizzate da
eccezionale urgenza, occorrendo, comunque, che l’Amministrazione verifichi
preventivamente che la situazione concreta non sia tale da consentire
l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte
dall’ordinamento.
Tale strumento reca con sé, infatti, l’inevitabile compressione di diritti
ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge
sicché si impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui
ricorrenza l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata
istruttoria, nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale,
non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità
degli atti amministrativi.
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle
ordinanze de quibus sono costituiti:
a) dall'impossibilità di differire
l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un
danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla
situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti
dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione
del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può
essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, diversi da quelli tipici
indicati dalle legge.
---------------
3. Il ricorso è fondato.
3.1 In via preliminare ed in termini generali si osserva che la possibilità
di utilizzo delle ordinanze contingibili e urgenti -provvedimenti a
contenuto atipico e a carattere temporaneo, dotati di capacità derogatoria
dell’ordinamento giuridico- costituisce una soluzione del tutto residuale,
prevista per fronteggiare senza indugio situazioni caratterizzate da
eccezionale urgenza, occorrendo, comunque, che l’Amministrazione verifichi
preventivamente che la situazione concreta non sia tale da consentire
l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte
dall’ordinamento (in termini, Cons. Stato, sez. V, 22.03.2016, n. 1189;
25.05.2015, n. 2967; 05.09.2015, n. 4499, TAR Bari, sez. I, 24.03.2015, n. 479).
Tale strumento reca con sé, infatti, l’inevitabile compressione di diritti
ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle legge
sicché si impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui
ricorrenza l’Amministrazione è tenuta ad appurare attraverso un’accurata
istruttoria, nel rispetto di limiti di carattere sostanziale e procedurale,
non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità
degli atti amministrativi (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. V, 26.07.2016, n. 3369; 22.03.2016, n. 1189; 25.05.2015, n. 2967; TAR
Campania, sez. V, 09.11.2016, n. 5162; 10.09.2012, n. 3845;
TAR Bari, sez. I, 24.03.2015, n. 479).
Per costante giurisprudenza, in particolare, presupposti indefettibili delle
ordinanze de quibus sono costituiti:
a) dall'impossibilità di differire
l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un
danno incombente (urgenza);
b) dall'impossibilità di far fronte alla
situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti
dall'ordinamento giuridico (contingibilità);
c) dalla precisa indicazione
del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può
essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, diversi da quelli tipici
indicati dalle legge (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. V, 24.03.2017,
n. 621, 09.11.2016, n. 5162 e 17.02.2016, n. 860; TAR Puglia,
Lecce, sez. I, 12.01.2016, n. 69; Cons. di St., sez. V, 26.07.2016,
n. 3369)
(TAR Campania, Sez. V,
sentenza 19.07.2019 n. 3983 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Unico
centro decisionale.
La verifica
dell’esistenza in un procedura di gara di un
“unico centro decisionale”, recte della
imputabilità delle offerte a tale unico
centro deliberativo, deve essere effettuata
ab externo e cioè sulla base di elementi
strutturali o funzionali ricavati dagli
assetti societari e personali delle società,
ovvero, ove per tale via non si pervenga a
conclusione positiva, mediante un attento
esame del contenuto delle offerte dal quale
si possa evincere l’esistenza dell’unicità
soggettiva sostanziale.
Ciò che rileva è la significanza complessiva
(e non già parcellizzata) degli elementi
fattuali connotanti la azione delle imprese
coinvolte, in vista della gara e nel corso
delle gara: l’applicazione dell’art. 80,
comma 5, lett. m), d.lgs. 50/2016, si
imporrà solo allorquando potrà escludersi in
nuce –secondo l’id quod plerumque accidit–
la “fisiologia” delle offerte formulate dai
partecipanti, come costituenti il frutto non
già di scelte autonomamente formulate, bensì
di valutazioni “etero-guidate” e previamente
stabilite tra le parti, in guisa da
precostituire una posizione collettiva di
superiorità informativa rispetto alla platea
degli altri ignari concorrenti, sfruttandola
al fine di ottenere la aggiudicazione della
pubblica commessa in favore di uno dei
partecipanti all’accordo.
D’altro canto indispensabile, in subiecta
materia, il ricorso alla prova presuntiva,
ciò che costituisce un modus operandi
assolutamente necessitato nella vicenda in
questione, così come in tutte le vicende in
cui si tratti di far emergere,
nell’interesse generale, fatti e circostanze
che i protagonisti hanno l’interesse a
celare; di qui l’inevitabile ricorso al
ragionamento deduttivo stante la ovvia
difficoltà (quando non l’impossibilità) di
reperire prove dirette (c.d. smoking gun) di
fatti o circostanze occulte o occultate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 19.07.2019 n. 1688 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2. I ricorsi sono fondati.
2.1. Vanno, in via liminare, rimarcate le
prescrizioni che governano le procedure in
esame:
- “Si applica l’articolo 97 del d.lgs. 50/2016, compreso il
comma 8: si applica l’esclusione automatica
dei concorrenti che presentano un ribasso
uguale o superiore alla soglia di anomalia
(in presenza di almeno 10 offerte ammesse).
Il seggio di gara provvederà ad individuare
la soglia di anomalia ai sensi dell’art. 97,
comma 2, del d.lgs. 50/2016, procedendo al
sorteggio dei criteri esposti nel predetto
articolo, in presenza di almeno cinque
offerte ammesse. La stazione appaltante si
riserva la facoltà di verificare
contemporaneamente la congruità delle prime
5 offerte. La procedura di verifica è
espletata in applicazione del procedimento e
dei criteri di cui all'art. 97 del d.lgs.
50/2016” (art. 10, disciplinare; cfr.,
art. 5, nonché all. 5 al bando);
- l’art. 97, comma 8, del d.lgs. 50/2016 dispone, di poi, che “Per
lavori, servizi e forniture, quando il
criterio di aggiudicazione è quello del
prezzo più basso e comunque per importi
inferiori alle soglie di cui all'articolo
35, e che non presentano carattere
transfrontaliero, la stazione appaltante
prevede nel bando l'esclusione automatica
dalla gara delle offerte che presentano una
percentuale di ribasso pari o superiore alla
soglia di anomalia individuata ai sensi del
comma 2 e dei commi 2-bis e 2-ter (…)
l'esclusione automatica non opera quando il
numero delle offerte ammesse è inferiore a
dieci”;
- all’art. 6 del disciplinare, ancora, è testualmente dato leggere
che “La gara viene espletata con il
criterio del minor prezzo, inferiore a
quello posto a base di gara, determinato
mediante offerta a prezzi unitari, al netto
degli oneri per l’attuazione dei piani di
sicurezza. Per la valutazione delle offerte
anomale in presenza di almeno cinque offerte
ammesse, verrà individuata la soglia di
anomalia ai sensi dell’art. 97,comma 2, del
d.lgs. 50/2016 procedendo al sorteggio dei
criteri esposti nel predetto articolo.
Qualora il numero delle offerte ammesse
risulti inferiore a cinque non si procederà
alla determinazione della soglia di
anomalia, fermo restando il potere della
stazione appaltante di valutare la congruità
delle offerte qualora, in base ad elementi
specifici, appaiono anormalmente basse.
Qualora il numero delle offerte ammesse
risulti pari o superiore a dieci, si
procederà all’esclusione automatica delle
offerte anomale”.
2.2. Orbene, la presentazione e la
ammissione di offerte in misura superiore a
dieci, unitamente alla concreta modulazione
delle medesime, ha determinato:
- la piena operatività delle prescrizioni della lex specialis
e dell’art. 97, comma 8, d.lgs. 50/2016, in
punto di “esclusione automatica delle
offerte anomale”;
- la applicabilità di tale meccanismo escludente in danno, tra le
altre concorrenti, della società ricorrente;
- la collocazione in posizione potiore nelle due graduatorie
di due imprese rientranti nel novero di
quelle su cui si appuntano le doglianze di
parte ricorrente, nelle cui offerte erano
indicati gli stessi subappaltatori
(segnatamente, Mo. e Li.Co. s.r.l.).
2.3. La società ricorrente prospetta che una
tale situazione costituisca il frutto di una
strategia concertata tra esse imprese, e
quelle indicate per il subappalto, ciò che
avrebbe dovuto indurre la stazione
appaltante, previo l’esperimento di una
apposita istruttoria, ad escludere tali
imprese dalla gara ex art. 80, comma 5,
lett. m), del d.lgs. 50/2016, a tenore del
quale “Le stazioni appaltanti escludono
dalla partecipazione alla procedura
d'appalto un operatore economico in una
delle seguenti situazioni (…) l'operatore
economico si trovi rispetto ad un altro
partecipante alla medesima procedura di
affidamento, in una situazione di controllo
di cui all'articolo 2359 del codice civile o
in una qualsiasi relazione, anche di fatto,
se la situazione di controllo o la relazione
comporti che le offerte sono imputabili ad
un unico centro decisionale”.
2.4. In particolare, tale ultima norma
attribuisce rilevanza a due condizioni, che
devono ricorrere congiuntamente, ed
afferenti:
- a latere soggettivo, al rapporto esistente tra le varie
imprese partecipanti alla gara, assuma esso
la natura del vincolo di controllo o di
collegamento ben noto in campo societario e
codificato all’art. 2359 c.c., ovvero il
carattere di una “relazione, anche di
fatto” tra di esse;
- a latere oggettivo, alla ascrivibilità delle diverse
offerte formulate ad un unico centro
deliberativo, frutto dunque di una volontà
comune e di un contegno concordato tra le
imprese.
2.5. E’ evidente che la presenza di un “formale”
vincolo di controllo o di collegamento a’
sensi dell’art. 2359 c.c. rende in certo
modo più agevole la prova, in ogni caso
gravante in capo alla stazione appaltante,
della sussistenza del previo concerto e,
dunque, della alterazione del libero
svolgimento della gara e della leale
competizione tra i partecipanti, presidiato
dalla segretezza delle singole offerte e
dalla loro irriducibilità ad un unico centro
decisionale.
2.6. Nella fattispecie che ne occupa,
tuttavia, un tale nesso di collegamento e di
controllo tra le imprese “sospette”
non è stato neanche allegato dalla società
ricorrente.
In questo caso, indi, la esistenza di un
previo concerto tra di esse, nella decisione
di partecipare alla gara e nella concreta
modulazione delle offerte –sia per quanto
attiene alla percentuale del ribasso, sia
per ciò che afferisce alla scelta dei
subappaltatori- non può che essere desunta
dalle circostanze di fatto che in concreto
hanno connotano la partecipazione alla gara
e la formulazione delle diverse offerte.
2.6.1. Nella vicenda in esame, pertanto, le
inferenze deduttive –in assenza di vincoli
che già a latere soggettivo avvincano
le imprese- non possono che prendere le
mosse dall’agere in concreto posto in
essere dalle imprese nella gara: è dalla
valutazione complessiva di tale contegno che
solo potrà discendere il giudizio circa:
- la esistenza di una “relazione, anche di fatto” tra le
imprese;
- la eziologica riconducibilità a tale relazione delle offerte
formulate dalle imprese interessate.
2.6.2. La verifica dell’esistenza di un “unico
centro decisionale”, recte della
imputabilità delle offerte a tale unico
centro deliberativo, “deve essere
effettuata ab externo e cioè sulla base di
elementi strutturali o funzionali ricavati
dagli assetti societari e personali delle
società, ovvero, ove per tale via non si
pervenga a conclusione positiva, mediante un
attento esame del contenuto delle offerte
dal quale si possa evincere l’esistenza
dell’unicità soggettiva sostanziale (Cons.
St., sez. V, 03.01.2019, n. 69; 10.01.2017,
n. 39)” (solo da ultimo, CdS, III,
07.03.2019, n. 1577).
2.6.3. Ciò che rileva è la significanza
complessiva (e non già parcellizzata) degli
elementi fattuali connotanti la azione delle
imprese coinvolte, in vista della gara e nel
corso delle gara: l’applicazione dell’art.
80, comma 5, lett. m) d.lgs. 50/2016, si
imporrà solo allorquando potrà escludersi
in nuce –secondo l’id quod plerumque
accidit- la “fisiologia” delle
offerte formulate dai partecipanti, come che
costituenti il frutto non già di scelte
autonomamente formulate, bensì di
valutazioni “etero-guidate” e
previamente stabilite tra le parti, in guisa
da precostituire una posizione collettiva di
superiorità informativa rispetto alla platea
degli altri ignari concorrenti, sfruttandola
al fine di ottenere la aggiudicazione della
pubblica commessa in favore di uno dei
partecipanti all’accordo.
2.6.4. E’ d’altro canto indispensabile,
in subiecta materia, il ricorso alla
prova presuntiva, ciò che costituisce un
modus operandi assolutamente necessitato
nella vicenda che ci occupa, così come in
tutte le vicende in cui si tratti di far
emergere, nell’interesse generale, fatti e
circostanze che i protagonisti hanno
l’interesse a celare.
Di qui l’inevitabile ricorso al ragionamento
deduttivo stante la ovvia difficoltà (quando
non l’impossibilità) di reperire prove
dirette (cd. smoking gun) di fatti o
circostanze occulte o occultate. |
APPALTI FORNITURE: Obbligo
di indicare i propri costi della manodopera
e gli oneri aziendali.
Ai sensi all’articolo
95, comma 10, D.Lgs. n. 50/2016, non vi è
obbligo di indicare i propri costi della
manodopera e gli oneri aziendali concernenti
l'adempimento delle disposizioni in materia
di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
nel caso delle forniture senza posa in
opera, dei servizi di natura intellettuale e
degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, lettera a).
La fornitura con posa in opera presuppone
che per fruire del bene fornito sia
necessaria un’attività ulteriore, accessoria
e strumentale rispetto alla prestazione
principale della consegna del bene,
finalizzata alla messa in funzione dello
stesso, mentre nella fornitura senza posa in
opera il bene fornito può essere fruito
immediatamente dal destinatario una volta
consegnato.
Al riguardo, è irrilevante che si tratti di
attività di valore minimo nell’economia
complessiva del contratto, perché, se anche
così fosse, comunque nella fornitura con
posa in opera, quest’ultima è per
definizione un’attività accessoria e
strumentale; diversamente il contratto
sarebbe un appalto di servizi ovvero un
contratto misto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.07.2019 n. 1680 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3.1. Passando al merito, occorre per prima
cosa verificare se, per la natura delle
prestazioni oggetto dell’appalto, il
contratto per cui è causa sia esentato
dall’obbligo dichiarativo di cui
all’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n.
50/2016.
Invero, ai sensi della precitata
disposizione, non vi è obbligo di indicare
«i propri costi della manodopera e gli oneri
aziendali concernenti l'adempimento delle
disposizioni in materia di salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro» nel caso «delle
forniture senza posa in opera, dei servizi
di natura intellettuale e degli affidamenti
ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera
a)».
3.2. Come questa Sezione ha già avuto modo
di chiarire, la fornitura con posa in opera
presuppone che per fruire del bene fornito
sia necessaria un’attività ulteriore,
accessoria e strumentale rispetto alla
prestazione principale della consegna del
bene, finalizzata alla messa in funzione
dello stesso, mentre nella fornitura senza
posa in opera il bene fornito può essere
fruito immediatamente dal destinatario una
volta consegnato (cfr. sentenza n.
661/2019).
Ora, a mente della legge di gara, l’appalto
comprende, oltre alla locazione operativa di
prodotti informatici e la fornitura di
materiali di consumo, anche –tra gli altri-
«gli interventi per installazioni,
modifiche, spostamenti delle PdL [postazioni
di lavoro: n.d.r.]» e «la gestione delle
configurazioni software delle PdL» (art.
3 lettera d’invito). Sono a carico del
appaltatore, tra l’altro, «l’attuazione di
tutte le operazioni necessarie alla
consegna, installazione e verifica del
corretto funzionamento delle apparecchiature
fornite» (punto 4.4.7.3. del Capitolato
tecnico).
Può, quindi, concludersi che quella in esame
sia una fornitura con posa in opera, per ciò
solo assoggettata all’obbligo dichiarativo
di cui all’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n.
50/2016.
Al riguardo è irrilevante che –secondo
quanto prospettato dalla difesa della
stazione appaltante– si tratti di attività
di valore minimo nell’economia complessiva
del contratto, perché, se anche così fosse,
comunque nella fornitura con posa in opera,
quest’ultima è per definizione un’attività
accessoria e strumentale; diversamente il
contratto sarebbe un appalto di servizi
ovvero un contratto misto.
3.3. Peraltro, a ben guardare non convince
nemmeno la tesi qualificatoria del contratto
per cui è causa come appalto di servizi di
natura intellettuale, tenuto conto che lo
stesso comprende anche attività materiali o
attività che comunque non richiedono un
patrimonio di cognizioni specialistiche per
la risoluzione di problematiche non
standardizzate.
Esemplificativamente, la fornitura di
consumabili comprende la consegna, la
sostituzione e il ritiro di quelli esauriti
(punto 4.4.5.3. del capitolato tecnico); la
manutenzione delle postazioni di lavoro
comprende la pulizia e il ricondizionamento
di filtri, dissipatori, rullini di
trascinamento delle stampanti, ripristino di
file corrotti o mancanti, salvataggio e
ripristino dati utente, reinstallazione di
software (punto 4.4.6.3. del capitolato
tecnico).
Lo stesso servizio di service desk
consiste nella ricezione delle chiamate e le
richieste di assistenza da parte degli
utenti e nello smistamento presso le
strutture competenti a risolvere la
problematica lamentata (punto 4.4. del
capitolato tecnico). Dunque, ancora una
volta una prestazione non riconducibile al
concetto di servizio di natura
intellettuale.
3.4. Sicché, deve concludersi che i
concorrenti erano obbligati, ai sensi
dell’articolo 95, comma 10, D.Lgs. n.
50/2016 a indicare in offerta i costi della
manodopera.
4.1. Sulle conseguenze della violazione del
suvvisto obbligo dichiarativo fissato ex
lege, questa Sezione ha costantemente
affermato che i costi della manodopera
costituiscono elemento essenziale
dell’offerta, in quanto la loro indicazione
consente di verificare la salvaguardia dei
livelli retributivi minimi dei lavoratori (cfr.
TAR Lazio–Roma, Sez. II, sentenza n.
6540/2018); che la mancata quantificazione
del costo della manodopera rende incompleta
l’offerta, senza che sia possibile attivare
il soccorso istruttorio non trattandosi
della carenza di meri elementi formali della
domanda di partecipazione (cfr. TAR
Lombardia–Milano, Sez. IV, sentenza n.
1855/2018); che trattandosi di norma
imperativa, l’articolo 95, comma 10, D.Lgs.
n. 50/2016 va a eterointegrare la lex
specialis di gara (cfr. TAR Liguria,
Sez. I, sentenza n. 299/2018), rendendo
vigente e cogente l’obbligo anche ove non
espressamente previsto (cfr. TAR
Lombardia–Milano, Sez. IV, sentenza n.
2515/2018).
4.2. Questa ricostruzione del quadro
normativo, per vero non univoca nella
giurisprudenza, ha trovato l’avallo
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, che, nel rimettere alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea la questione
di conformità della disciplina nazionale ai
pertinenti principi e disposizioni
eurounitari, ha ritenuto che l’articolo 95,
comma 10, D.Lgs. n. 50/2016 debba essere
interpretato nel senso che «la mancata
puntuale indicazione in sede di offerta dei
costi della manodopera comporti
necessariamente l’esclusione dalla gara e
che tale lacuna non sia colmabile attraverso
il soccorso istruttorio», con la
conseguenza che «siccome l'obbligo di
separata indicazione di tali costi è
contenuto in disposizioni di legge dal
carattere sufficientemente chiaro per gli
operatori professionali, la mancata
riproduzione di tale obbligo nel bando e nel
capitolato della gara non potrebbe comunque
giovare a tali operatori in termini di
scusabilità dell'errore» (ordinanze nn.
1, 2 e 3 del 2019).
4.3.1. In realtà, della questione era già
stata nelle more investita la CGUE, la quale
ha concluso che «I principi della
certezza del diritto, della parità di
trattamento e di trasparenza, quali
contemplati nella direttiva 2014/24/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
26.02.2014, sugli appalti pubblici e che
abroga la direttiva 2004/18/CE, devono
essere interpretati nel senso che essi non
ostano a una normativa nazionale, come
quella oggetto del procedimento principale,
secondo la quale la mancata indicazione
separata dei costi della manodopera, in
un’offerta economica presentata nell’ambito
di una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico, comporta l’esclusione
della medesima offerta senza possibilità di
soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in
cui l’obbligo di indicare i suddetti costi
separatamente non fosse specificato nella
documentazione della gara d’appalto, sempre
che tale condizione e tale possibilità di
esclusione siano chiaramente previste dalla
normativa nazionale relativa alle procedure
di appalti pubblici espressamente richiamata
in detta documentazione. Tuttavia, se le
disposizioni della gara d’appalto non
consentono agli offerenti di indicare i
costi in questione nelle loro offerte
economiche, i principi di trasparenza e di
proporzionalità devono essere interpretati
nel senso che essi non ostano alla
possibilità di consentire agli offerenti di
sanare la loro situazione e di ottemperare
agli obblighi previsti dalla normativa
nazionale in materia entro un termine
stabilito dall’amministrazione
aggiudicatrice» (sentenza n. 309/2019
nella causa C-309/2018). |
EDILIZIA PRIVATA: -
la decadenza di una concessione edilizia costituisce atto vincolato che deve
intervenire ogni qualvolta esistono i presupposti di legge, non si verifica
in modo automatico ma necessita di un’esplicita pronuncia
dell’amministrazione;
- la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del
verificarsi del relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che
il provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo;
- dalla qualificazione della decadenza come effetto legale, deriva poi che
il termine di efficacia in questione non possa mai ritenersi prorogato in
via automatica, e che a tal fine sia comunque necessaria un’istanza
proveniente dall’interessato.
---------------
4.3.1. Sul punto gioverà ricordare che la giurisprudenza è ormai
consolidata nel ritenere che :
- la decadenza di una concessione edilizia costituisce atto vincolato che
deve intervenire ogni qualvolta esistono i presupposti di legge, non si
verifica in modo automatico ma necessita di un’esplicita pronuncia
dell’amministrazione (ex multis Cons. St. n. 3612/2000; Tar Valle d’Aosta n.
40/1998);
- la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del verificarsi del
relativo presupposto, ovvero del decorso del termine, sì che il
provvedimento comunale sul punto è meramente dichiarativo: (così C.d.S. sez.
IV 22.10.2015 n. 4823 e 11.04.2014 n. 1747, nonché in linea di
principio su una fattispecie di mancato inizio lavori C.d.S. sez. V 20.10.2004 n. 6831);
- dalla qualificazione della decadenza come effetto legale, deriva poi che il
termine di efficacia in questione non possa mai ritenersi prorogato in via
automatica, e che a tal fine sia comunque necessaria un’istanza proveniente
dall’interessato: così C.d.S. sez. IV 23.02.2012 n. 974 e 10.10.2007 n. 4423
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 01.07.2019 n. 3585 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
fattispecie, è stato chiesto il rilascio dell’assenso a costruire
un’autorimessa a’ sensi dell’art. 9 della l. 122 del 1989,
ossia un’opera che per l’espresso tenore letterale di tale articolo di legge
può essere realizzata esclusivamente dai proprietari di immobili nel
sottosuolo degli immobili medesimi ovvero nei locali ubicati al piano
terreno dei fabbricati di loro proprietà, ad uso esclusivo dei residenti e -sempre e comunque- quale pertinenza delle singole unità immobiliari, anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (cfr.
il testo dell’art. cit.).
Giova a tale riguardo precisare che la disciplina testé riassunta va
interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel
cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in modo
tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi
anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare
residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen., 05.12.2011,
n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la realizzazione di
parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989,
art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a
quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a condizione che detti
immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da
assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i
parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di
iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina
urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione
della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in
questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso che
devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i parcheggi
medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente fruibili
soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità
immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una
relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un
nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il
fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio.
Orbene, il Collegio non ignora la giurisprudenza citata dall’appellante
secondo la quale -come si è detto innanzi, e in modo anche divergente dalle
anzidette sentenze della Cassazione penale- “ai fini della realizzazione di
un parcheggio interrato, non si deve ritenere necessario che il numero di
proprietari di immobili siti nelle vicinanze sia individuato nel momento
della proposizione della domanda o della costruzione di questo,
richiedendosi solo che il vincolo pertinenziale venga previsto e poi
effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte , senza che il
vincolo stesso debba preesistere”.
Ma, a ben vedere, nella presente fattispecie non rileva il momento nel quale
il vincolo pertinenziale viene ad essere effettivamente costituito, bensì la
sussistenza degli stessi presupposti per formalmente costituirlo.
---------------
4.3. Ciò posto, risulta del tutto assodato che l’attuale appellante
ha chiesto il rilascio dell’assenso a costruire un’autorimessa, composta da
più box e parcheggi aperti, a’ sensi dell’art. 9 della l. 122 del 1989,
ossia un’opera che per l’espresso tenore letterale di tale articolo di legge
può essere realizzata esclusivamente dai proprietari di immobili nel
sottosuolo degli immobili medesimi ovvero nei locali ubicati al piano
terreno dei fabbricati di loro proprietà, ad uso esclusivo dei residenti e -sempre e comunque- quale pertinenza delle singole unità immobiliari, anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (cfr.
il testo dell’art. cit.).
Giova a tale riguardo precisare che la disciplina testé riassunta va
interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel
cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in modo
tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi
anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare
residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen., 05.12.2011,
n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la realizzazione di
parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989,
art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a
quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a condizione che detti
immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da
assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i
parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di
iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina
urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione
della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in
questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso che
devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i parcheggi
medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente fruibili
soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità
immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una
relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un
nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il
fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio (cfr.
sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 23.03.2016 n. 2116.
Orbene, il Collegio non ignora la giurisprudenza citata dall’appellante
secondo la quale -come si è detto innanzi, e in modo anche divergente dalle
anzidette sentenze della Cassazione penale- “ai fini della realizzazione di
un parcheggio interrato, non si deve ritenere necessario che il numero di
proprietari di immobili siti nelle vicinanze sia individuato nel momento
della proposizione della domanda o della costruzione di questo,
richiedendosi solo che il vincolo pertinenziale venga previsto e poi
effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte , senza che il
vincolo stesso debba preesistere” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26.05.2003,
n. 2852 e 09.10.2006, n. 5954 citate dall’appellante, cui va aggiunta
anche il primo e del tutto consonante precedente di Cons. Stato, Sez. V, 15.06.2001, n. 3176).
Ma, a ben vedere, nella presente fattispecie non rileva il momento nel quale
il vincolo pertinenziale viene ad essere effettivamente costituito, bensì la
sussistenza degli stessi presupposti per formalmente costituirlo.
E risulta oltremodo significativa la circostanza che l’attuale appellante
non solo nel procedimento che si è concluso con l’adozione del provvedimento
di diniego, ma anche durante l’intero e quanto mai consistente lasso di
tempo occupato dai due gradi di processo non è stato in grado di comprovare
il carattere pertinenziale dell’opera che parrebbe a tutt’oggi intenzionato
a realizzare.
Se difetta –per così dire– “a monte” il materiale requisito della pertinenzialità dell’opera e non è offerta neppure nel contraddittorio
processuale una prova sulla sua sussistenza, allora è del tutto evidente che
l’attuale appellante e già ricorrente in primo grado difetta di una propria
legitimatio ad causam e, quindi, essendo carente dello stesso, necessario
presupposto per poter ottenere il titolo necessario alla realizzazione
dell’opera, non ha evidentemente interesse a’ sensi dell’art. 100 c.p.c. ad
adire la presente sede giudiziale.
Discende da questo contesto che è di per sé impraticabile qualsivoglia
censura di disparità di trattamento rispetto alla posizione di altro
proprietario che –a dire dell’appellante- avrebbe intrapreso la
realizzazione di analoga opera in area finitima senza che gli sia stata
chiesta già all’atto della presentazione del progetto la dimostrazione della pertinenzialità dell’opera, nonché con riguardo alla posizione dello stesso
attuale appellante, il quale per altra consimile opera da lui realizzata
riferisce di aver ottenuto il parere favorevole della Commissione Edilizia
senza la preventiva imposizione della comprova della pertinenzialità dei
posti auto da lui realizzati.
Va infatti evidenziato a tale riguardo che il medesimo appellante non
comprova se poi a tali realizzazioni abbia fatto seguito l’effettiva
costituzione del vincolo di pertinenzialità; e va soprattutto rimarcato, in
via del tutto assorbente, che nella presente fattispecie rileva solo ed
esclusivamente la dianzi rilevata carenza di dimostrazione della
pertinenzialità dell’opera qui in esame.
Preme inoltre evidenziare che nella specie non ricorre l’ipotesi di
motivazione postuma circa il difetto del requisito della pertinenzialità
disposta dall’amministrazione comunale in sede processuale, mediante la
propria relazione istruttoria e le proprie memorie defensionali.
Il requisito della pertinenzialità doveva infatti intendersi in re ipsa
imprescindibile per il solo fatto che il tecnico incaricato dal Ta. ha
chiesto di realizzare l’opera secondo la disciplina contemplata dall’art. 9
della l. 122 del 1989: e ciò –si badi– anche a prescindere da come e
quando la medesima amministrazione comunale ha chiesto di verificare la
sussistenza del requisito in questione.
La stessa amministrazione comunale, poi, nel respingere il progetto, nel
provvedimento qui impugnato ha comunque inserito expressis verbis nel
contesto delle prescrizioni imposte per la riproposizione del progetto
medesimo una non equivoca richiesta: “nel caso di riproposizione del
progetto l’intervento è subordinato all’effettiva documentazione di
pertinenzialità agli edifici posti nel contorno del perimetro individuato in
progetto”.
L’attuale appellante, come si è visto innanzi, reputa che tale richiesta non
sia riconducibile a motivo del diniego, costituendo essa a suo avviso
soltanto una “puntualizzazione” per l’eventuale presentazione di un nuovo
progetto, e non già – come viceversa è – una puntuale prescrizione di un
sottostante ed imprescindibile requisito che –si ribadisce– egli si è
sistematicamente astenuto dal comprovare.
Ma è proprio tale asseritamente mera “puntualizzazione” che nella specie
mette a nudo –anche al di là della sua collocazione formale nel contesto
del provvedimento impugnato- quel difetto di interesse del Ta. che del
tutto correttamente il giudice di primo grado ha colto, laddove –per
l’appunto– dalla mancata comprova della “pertinenzialità” dell’opera,
inderogabilmente richiesta quale conditio sine qua non per la sua
realizzazione, ha fatto ivi testualmente discendere, quale fulcro
motivazionale della propria pronuncia, la conseguenza che “difetta pertanto
il requisito dell’interesse alla proposizione della domanda, posto che
l’eventuale annullamento dell’atto impugnato comporterebbe pur sempre
l’obbligo per la p.a. di riesaminare la domanda che, essendo carente del
presupposto indicato, non potrebbe sortire esito positivo per l’interessato”
(cfr. ivi)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’obbligo
per il Comune di prendere in consegna le opere di urbanizzazione deriva
direttamente dall’articolo 28 della legge n. 1150/1942, in virtù del quale
le parti (lottizzante e Comune) devono prevedere in convenzione il termine
entro il quale dovrà avvenire la cessione gratuita delle aree interessate
dalle opere di urbanizzazione in favore del Comune.
---------------
... per la declaratoria di illegittimità e l'annullamento:
- del silenzio serbato dal Comune di Cabras
sull'intimidazione/diffida 13.05.2015, trasmessa il 14.05.2015, e del
conseguente inadempimento alla presa in carico, da parte
dell'Amministrazione Comunale, delle opere di urbanizzazione primaria della
lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras;
per l'accertamento e la declaratoria dell'obbligo:
- del Comune di Cabras di prendere in carico, mediante l'adozione
degli atti e delle operazioni materiali all'uopo occorrenti, tutte le opere
di urbanizzazione primaria realizzate nella lottizzazione Funtana Meiga in
territorio di Cabras, entro e non oltre il termine di trenta giorni dalla
comunicazione o notificazione della sentenza;
...
Passando al merito della questione controversa, il ricorso in esame, nella
parte in cui si chiede l’accertamento dell’obbligo del Comune di Cabras di
prendere in carico tutte le opere di urbanizzazione primaria realizzate
nella lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras, risulta
parzialmente fondato nei sensi di seguito specificati.
Ritiene il collegio di dovere confermare, anche avuto riguardo alla
fattispecie oggi in esame, i principi già affermati da questo Tribunale,
seconda sezione, in fattispecie analoghe ed in particolare con la sentenza
del Tar Sardegna, seconda sezione, n. 282 del 27.03.2018, nonché con la
sentenza n. 404 del 15.05.2013, confermata dal Consiglio di Stato con la
sentenza n. 4169 dell’08.09.2015.
In ordine all’obbligo del Comune di prendere in carico le opere di
urbanizzazione primaria, si richiama la costante giurisprudenza della
Sezione, in base alla quale l’obbligo per il Comune di prendere in consegna
le opere di urbanizzazione deriva direttamente dall’articolo 28 della legge
n. 1150/1942, in virtù del quale le parti (lottizzante e Comune) devono
prevedere in convenzione il termine entro il quale dovrà avvenire la
cessione gratuita delle aree interessate dalle opere di urbanizzazione in
favore del Comune (cfr. al riguardo, ex multis, TAR Sardegna, Sezione
II, n. 404 del 15.05.2013 e n. 480 del 04.08.2011).
In primo luogo, si rileva che la presa in carico delle opere di
urbanizzazione da parte del Comune deve avvenire previo collaudo delle opere
di urbanizzazione e trasferimento della proprietà delle aree di sedime delle
opere medesime al patrimonio comunale
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 22.06.2019 n. 563 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per stabilire se un atto amministrativo costituisce conferma impropria
(atto meramente confermativo), e quindi non autonomamente impugnabile, o
invece conferma in senso proprio, e quindi atto autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini, si dovrà verificare se l'atto successivo sia stato
adottato con o senza una nuova istruttoria ed una nuova ponderazione dei
presupposti di fatto e di diritto, nonché degli interessi coinvolti, sottesi
all'adozione del provvedimento originario. [...] Il provvedimento di
conferma si differenzia, pertanto, dall'atto meramente confermativo per due
caratteristiche: perché viene disposta una nuova istruttoria e perché, in
seguito ad essa, viene adottato un provvedimento di conferma, che assorbe e
sostituisce quelli confermato.
In sostanza, gli atti "meramente
confermativi", sono quelli “mediante i quali la p.a. dichiara di
mantenere fermo un precedente provvedimento, del quale venga chiesto il
ritiro, costituendo mera riaffermazione di una precedente determinazione e
difettando di effetti innovativi.
Tali atti -come noto- non si considerano autonomamente impugnabili perché,
non ravvisandosi in essi un nuovo contenuto lesivo, difetta ogni interesse
dei destinatari ad una nuova impugnazione (in ciò differenziandosi dagli
atti c.d. a effetti confermativi, i quali non sono una mera riaffermazione
ma una dichiarazione con cui l'autorità compie un riesame della situazione
alla luce dei nuovi elementi rappresentati, ma alla fine riconferma le
statuizioni contenute nel precedente provvedimento)”.
Si è ancora precisato che: “il provvedimento di conferma si configura
dunque come esito di un procedimento di secondo grado, senza che rilevi il
fatto che la decisione assunta coincida perfettamente con quella contenuta
nel precedente provvedimento, perché quel che conta è che essa sia il frutto
di un rinnovato esercizio del potere amministrativo; in altri termini,
sollecitata, in entrambi i casi, a riaprire il procedimento da un'istanza
esterna, l'Amministrazione con l'atto meramente confermativo dà una risposta
negativa non riscontrando valide ragioni di riapertura del procedimento
concluso con la precedente determinazione, laddove con il provvedimento di
conferma dà una risposta positiva, riapre il procedimento e adotta una nuova
determinazione; di conseguenza solo nel caso del provvedimento di conferma
in senso proprio vi è un procedimento e, all'esito di questo, un nuovo
provvedimento, sia pure di contenuto identico al precedente”.
---------------
Costituisce principio consolidato, condiviso anche da questo Tribunale, che
"per stabilire se un atto amministrativo costituisce conferma impropria
(atto meramente confermativo), e quindi non autonomamente impugnabile, o
invece conferma in senso proprio, e quindi atto autonomamente lesivo e da
impugnarsi nei termini, si dovrà verificare se l'atto successivo sia stato
adottato con o senza una nuova istruttoria ed una nuova ponderazione dei
presupposti di fatto e di diritto, nonché degli interessi coinvolti, sottesi
all'adozione del provvedimento originario. [...] Il provvedimento di
conferma si differenzia, pertanto, dall'atto meramente confermativo per due
caratteristiche: perché viene disposta una nuova istruttoria e perché, in
seguito ad essa, viene adottato un provvedimento di conferma, che assorbe e
sostituisce quelli confermato" (così, ex plurimis, TAR Veneto, Sez.
I, sentenza n. 27/2017, TAR Milano, (Lombardia) sez. IV, 08/03/2019, (ud.
07/02/2019, dep. 08/03/2019), n. 499).
In sostanza, secondo consolidata giurisprudenza, gli atti "meramente
confermativi", sono quelli “mediante i quali la p.a. dichiara di
mantenere fermo un precedente provvedimento, del quale venga chiesto il
ritiro, costituendo mera riaffermazione di una precedente determinazione e
difettando di effetti innovativi.
Tali atti -come noto- non si considerano autonomamente impugnabili perché,
non ravvisandosi in essi un nuovo contenuto lesivo, difetta ogni interesse
dei destinatari ad una nuova impugnazione (in ciò differenziandosi dagli
atti c.d. a effetti confermativi, i quali non sono una mera riaffermazione
ma una dichiarazione con cui l'autorità compie un riesame della situazione
alla luce dei nuovi elementi rappresentati, ma alla fine riconferma le
statuizioni contenute nel precedente provvedimento)” (così Consiglio di
Stato sez. IV, 14/04/2014, (ud. 18/03/2014, dep. 14/04/2014), n. 1805).
Si è ancora precisato che: “il provvedimento di conferma si configura
dunque come esito di un procedimento di secondo grado, senza che rilevi il
fatto che la decisione assunta coincida perfettamente con quella contenuta
nel precedente provvedimento, perché quel che conta è che essa sia il frutto
di un rinnovato esercizio del potere amministrativo; in altri termini,
sollecitata, in entrambi i casi, a riaprire il procedimento da un'istanza
esterna, l'Amministrazione con l'atto meramente confermativo dà una risposta
negativa non riscontrando valide ragioni di riapertura del procedimento
concluso con la precedente determinazione, laddove con il provvedimento di
conferma dà una risposta positiva, riapre il procedimento e adotta una nuova
determinazione; di conseguenza solo nel caso del provvedimento di conferma
in senso proprio vi è un procedimento e, all'esito di questo, un nuovo
provvedimento, sia pure di contenuto identico al precedente” (Consiglio
di Stato sez. V - 17/01/2019, n. 432)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.06.2019 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità determina il venir
meno dell’efficacia dell’ordinanza di demolizione, comportando l’obbligo per
l’amministrazione di rideterminare la sanzione alla luce della nuova
istruttoria svolta sulla domanda di sanatoria.
Sicché, non v’è ragione di ritenere che il medesimo effetto non si produca
anche nell’ipotesi in cui l’ordinanza di demolizione sia stata adottata a
seguito di C.I.L.A., poiché anche in questo caso l’accertamento di
conformità determina l’obbligo per l’amministrazione di verificare la
“doppia conformità” sostanziale delle opere alla normativa
urbanistico-edilizia.
Pertanto, essendo venuta meno l’efficacia del provvedimento impugnato prima
ancora della notifica del ricorso, esso si palesa inammissibile, per difetto
originario di interesse.
---------------
Considerato:
- che il ricorrente ha presentato istanza di accertamento di
conformità e di autorizzazione semplificata in sanatoria in data 08.02.2019,
anteriore alla notifica del ricorso;
- che il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale alla
stregua del quale la presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità determina il venir meno dell’efficacia dell’ordinanza di
demolizione, comportando l’obbligo per l’amministrazione di rideterminare la
sanzione alla luce della nuova istruttoria svolta sulla domanda di sanatoria
(ex plurimis: TAR Veneto, 29.12.2015, n. 1418, TAR Campania, Napoli,
06.02.2017 n. 749, TAR Lazio, Roma, Sez. II-ter, 03.02.2015 n. 1960; TAR
Lazio, Roma, II-bis, 13.06.2017, n. 6980; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis,
13.06.2017, n. 6979; TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 06.06.2017, n. 6688;
17.11.2017 n. 11550);
- che non v’è ragione di ritenere che il medesimo effetto non si
produca anche nell’ipotesi in cui l’ordinanza di demolizione sia stata
adottata a seguito di C.I.L.A., poiché anche in questo caso l’accertamento
di conformità determina l’obbligo per l’amministrazione di verificare la “doppia
conformità” sostanziale delle opere alla normativa urbanistico-edilizia;
- che, pertanto, essendo venuta meno l’efficacia del provvedimento
impugnato prima ancora della notifica del ricorso, esso si palesa
inammissibile, per difetto originario di interesse
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.06.2019 n. 742 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
inammissibile il ricorso con riferimento all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione poiché la stessa ha perso efficacia a seguito della successiva
presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria.
Ed invero,
<<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne
l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria
emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque
a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di
positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla
definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della
stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio. Ne consegue, “da un lato, che è preclusa
all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e,
dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza
di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”>>.
Ed invero, ad avviso di questa Sezione (e le medesime conclusioni valgono
per ogni ipotesi di sanatoria edilizia “tipizzata” dal Legislatore):
1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo
dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione
degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che
l’Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un
abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato.
Difatti, “L’ordine di
demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta
di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima,
è illegittimo in quanto l’Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa
prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale
effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza
dell’azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò
che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l’Amministrazione dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, l’esecuzione della misura demolitoria in
mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001
vanificherebbe a priori l’interesse ad ottenere la sanatoria delle opere
abusive, determinando l’inconveniente di demolire manufatti, per poi
eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire”;
2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto
inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la
conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non
hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo
provvedimento repressivo”;
3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti,
determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso”>>.
Le sopra riportate soluzioni interpretative soddisfano evidenti esigenze
pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel
demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a
(successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i
presupposti per il suo rilascio”.
---------------
1. - Il ricorso è, comunque, inammissibile, con riferimento
all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, ex art. 33 del D.P.R. n.
380/2001, prot. n. 90/D dell’08.05.2014, in quanto tale ordinanza ha
perso efficacia a seguito della successiva presentazione dell’istanza di
permesso di costruire in sanatoria del 29.07.2014, ai sensi dell’art. 36
del D.P.R. n. 380/2001.
1.1 - Ed invero, il Collegio non ravvisa, allo stato, ragioni per
discostarsi dalla giurisprudenza consolidata di questa Sezione, secondo cui
<<il riesame dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne
l’eventuale sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria
emanazione da parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque
a superare l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di
positiva delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla
definizione del giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della
stessa, l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione
oggetto dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania-Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266). Ne consegue, “da un lato, che è preclusa
all’Amministrazione la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e,
dall’altro, la necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza
di sanatoria, dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR
Puglia, Lecce, III, 19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce,
Sezione Terza, 12.04.2018, n. 628, idem, 30.09.2016, n. 1512),
con l’assegnazione, quindi, di un ulteriore termine per adempiere.
Ed invero, ad avviso di questa Sezione (e le medesime conclusioni valgono
per ogni ipotesi di sanatoria edilizia “tipizzata” dal Legislatore):
1) la presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n.
380/2001 in epoca anteriore all’adozione del provvedimento repressivo
dell’abuso edilizio comporta l’illegittimità di quest’ultimo per violazione
degli artt. 31 e 36 dello stesso D.P.R. n. 380/2001, in quanto la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità impedisce che
l’Amministrazione, prima del suo esame, possa attivarsi per eliminare un
abuso che potrebbe potenzialmente essere sanato; difatti, “L’ordine di
demolizione adottato in data successiva alla presentazione della richiesta
di sanatoria edilizia, in assenza di preventiva determinazione su quest’ultima,
è illegittimo in quanto l’Amministrazione è tenuta a pronunciare su di essa
prima di procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive. Un tale
effetto invalidante discende dal principio di economicità e coerenza
dell’azione amministrativa che impedisce di sanzionare preventivamente ciò
che potrebbe essere sanato; fermo restando che, anche in caso di diniego del
richiesto accertamento di conformità, l’Amministrazione dovrebbe emettere
una nuova ordinanza di demolizione, l’esecuzione della misura demolitoria in
mancanza della previa definizione del procedimento ex art. 36, DPR 380/2001
vanificherebbe a priori l’interesse ad ottenere la sanatoria delle opere
abusive, determinando l’inconveniente di demolire manufatti, per poi
eventualmente consentirne la ricostruzione in base a nuovo permesso di
costruire” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 13.01.2011, n. 11;
TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909);
2) la presentazione di domanda di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente all’adozione
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, “Non essendovi
alcun interesse a ricorrere, posto che l’atto impugnato, in quanto
inefficace, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente, con la
conseguenza che, nel caso di concessione in sanatoria, i ricorrenti non
hanno interesse a proporre e coltivare il ricorso avverso l’ingiunzione a
demolire, mentre, nel caso di diniego, dovranno impugnare il nuovo
provvedimento repressivo” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 18.09.2013, n. 1938);
3) viceversa, <<la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità
ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti,
determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso” (ex multis,
TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.08.2012 n. 1447...” )>> (TAR
Puglia, Lecce, Sezione Terza, 12.09.2014, n. 2342).
Le sopra riportate soluzioni interpretative soddisfano evidenti esigenze
pratiche e di interesse pubblico, “evitando l'inconveniente consistente nel
demolire un’opera, per poi consentirne la ricostruzione in base a
(successivo ed eventuale) titolo abilitativo, nel caso in cui sussistano i
presupposti per il suo rilascio” (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 06.06.2016, n. 909)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 18.06.2019 n. 1061 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
per i titoli edilizi “ordinari” il termine d’impugnazione decorre dal
momento in cui sia materialmente apprezzabile la portata lesiva
dell’intervento assentito, per i titoli in sanatoria il termine decorre
invece dalla data in cui l’interessato ne abbia avuta la piena conoscenza in
forza di comunicazione individuale, non supplita dall’eventuale
pubblicazione.
Il diverso regime si spiega con la circostanza che, in presenza di opere
edilizie abusive, la sopravvenienza di un titolo sanante costituisce un
evento ipotetico e incerto in relazione al quale è irragionevole pretendere
dall’interessato l’esecuzione di continue verifiche agli uffici comunali o
accessi all’albo pretorio onde evitare di decadere dall’impugnazione.
---------------
2. In via pregiudiziale, la difesa dell’amministrazione resistente eccepisce
l’irricevibilità del ricorso, assumendo che il termine per l’impugnazione
dovrebbe farsi decorrere dall’ultimo giorno della pubblicazione del titolo
in sanatoria rilasciato alla signora Ri., eseguita il 15.06.2015 a norma
dell’art. 20, co. 6, d.P.R. n. 380/2011 e dell’art. 23, co. 1, lett. a),
d.lgs. n. 33/2013.
L’eccezione è infondata.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che, mentre per i titoli edilizi “ordinari”
il termine d’impugnazione decorre dal momento in cui sia materialmente
apprezzabile la portata lesiva dell’intervento assentito, per i titoli in
sanatoria il termine decorre invece dalla data in cui l’interessato ne abbia
avuta la piena conoscenza in forza di comunicazione individuale, non
supplita dall’eventuale pubblicazione. Il diverso regime si spiega con la
circostanza che, in presenza di opere edilizie abusive, la sopravvenienza di
un titolo sanante costituisce un evento ipotetico e incerto in relazione al
quale è irragionevole pretendere dall’interessato l’esecuzione di continue
verifiche agli uffici comunali o accessi all’albo pretorio onde evitare di
decadere dall’impugnazione (fra le molte, cfr. Cons. Stato, sez. VI,
10.09.2018, n. 5307; C.G.A.R.S., sez. giurisd., 14.04.2014, n. 207; Cons.
Stato sez. IV, 26.03.2013, n. 1699; id., sez. V, 27.06.2012, n. 3777; id.,
sez. VI, 16.09.2011, n. 5170; id., sez. VI, 10.12.2010, n. 8705).
Nella specie, nessuna comunicazione individuale dell’avvenuto rilascio del
permesso di costruire in sanatoria risulta eseguita nei confronti dei
ricorrenti, che pure avevano tentato di opporsi alla sanatoria e la cui
posizione era perciò nota al Comune. Il termine per l’impugnazione, di
conseguenza, non può che farsi decorrere dall’accesso agli atti eseguito l’8
marzo 2016
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.06.2019 n. 856 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA- URBANISTICA: Gli
standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n.
765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi
pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggio.
Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde
pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne
rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del
territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del
rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non
vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una
destinazione a verde privato.
---------------
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 251 del 26.11.2014, con cui il Dirigente del
Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha annullato in
autotutela la SCIA presentata al prot. 20183 il 22.07.2014 dal Sig. Ro.Ba.
per l'avvio dell'attività di realizzazione di una recinzione in pali e rete
metallica in area a verde privata ubicata in Cecina, via ...;
- dell'ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale il Dirigente
del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha disposto il
divieto di prosecuzione delle attività di cui alla SCIA innanzi richiamata;
...
1. Il ricorrente, signor Ro.Ba., è proprietario nel Comune di Cecina di
un’area inedificata, di forma rettangolare, posta in fregio alla via ....
Essa ha destinazione urbanistica a verde pubblico secondo il regolamento
urbanistico comunale approvato con deliberazione consiliare del 27.03.2014,
che il signor Ba. ha impugnato in parte qua mediante ricorso straordinario
al Presidente della Repubblica, ancora non definito.
Il presente giudizio origina, invece, dall’impugnazione che il ricorrente
propone avverso i provvedimenti adottati dal Comune a fronte
dell’iniziativa, da lui formalizzata con S.C.I.A. del 22.07.2014, di
recintare l’area in questione sull’unico lato libero (quello al confine con
la pubblica via, essendo gli altri lati già delimitati dai muri di cinta
delle proprietà limitrofe).
Si tratta in particolare dell’ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale
è stata inibita la prosecuzione dell’attività, e della successiva ordinanza
n. 251 del 26.11.2014 di “annullamento” in autotutela della S.C.I.A.,
ambedue motivate – in estrema sintesi – con riguardo all’esigenza di
tutelare l’uso pubblico gravante sull’area, che verrebbe a essere impedito
dalla recinzione.
...
Attualmente, l’area è destinata a standard di “verde pubblico esistente”
che le deriva dal regolamento urbanistico approvato dal Comune nel 2014. È
dunque errata la qualificazione contenuta nella S.C.I.A. presentata dal
ricorrente, ove si parla di area a “verde privato”.
Dal canto loro, gli atti impugnati prima che alla destinazione urbanistica
hanno riguardo, lo si è accennato, all’esistenza di un diritto di uso
pubblico formatosi attraverso l’utilizzo collettivo del bene come area verde
al servizio della collettività indeterminata dei cives, protratto da tempo
immemorabile e accompagnato dall’idoneità del bene stesso a soddisfare
esigenze di carattere generale, nonché confermato dalla ripetuta esecuzione
di interventi manutentivi (taglio dell’erba, piantumazione di alberi) da
parte del Comune. L’ordinanza del 26.11.2014 fa espressamente risalire le
origini dell’uso pubblico del terreno all’epoca dell’urbanizzazione di
quell’area cittadina e all’iniziale previsione del suo acquisto gratuito
alla mano pubblica, poi non verificatosi; e parimenti ascrive a tale
previsione iniziale la giustificazione dell’attuale destinazione a verde del
terreno.
Ora, è ben possibile scorgere nel contratto di compravendita/donazione del
1973 e negli impegni assunti in quella sede dagli allora proprietari un
principio di prova della messa a disposizione del terreno in favore della
collettività. Ai fini di causa, non giova tuttavia approfondire se ci si
trovi in presenza della costituzione di una servitù pubblica per dicatio
ad patriam, che, com’è noto, prescinde dalle ragioni e dalle intenzioni
sottese al comportamento del proprietario, il quale assoggetti
volontariamente e in modo non precario un bene all’uso pubblico.
A essere irrimediabilmente incompatibile con la chiusura del fondo è,
infatti, la sua destinazione a standard di verde pubblico esistente, che
sembra voler prendere atto di una situazione in essere e della quale i
provvedimenti comunali danno comunque conto.
Gli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n.
765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi
pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggio. Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di
verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che
ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale
del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio
del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio,
non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una
destinazione a verde privato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n.
4148; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Se poi la destinazione impressa al fondo di proprietà del ricorrente
presenti natura conformativa o espropriativa, con tutto quel che ne consegue
in termini di durata e di indennizzabilità, è questione che non dipende
dalla compressione di singole facoltà dominicali, ma, più in generale, dal
contenuto delle attività consentite al proprietario dalla disciplina
urbanistica dell’area. In ogni caso, essa non rileva ai fini della presente
decisione e andrà risolta in altra sede.
Indipendentemente dalla prova certa dell’esistenza del diritto di uso
pubblico rivendicato dall’amministrazione resistente, il divieto di
prosecuzione dell’attività opposto dal Comune al ricorrente appare dunque
frutto di una scelta legittima ed anzi obbligata, come legittimo è il
successivo “annullamento” della S.C.I.A., ancorché non necessario una
volta esercitato il potere inibitorio (nel sistema delineato dall’art. 19
della legge n. 241/1990, l’intervento in autotutela disciplinato dal quarto
comma ha una funzione rimediale rispetto al mancato esercizio del potere
inibitorio di cui al terzo comma).
3. In forza di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso non può
trovare accoglimento
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.06.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Resta
escluso che la determinazione e richiesta del contributo di costruzione
debba avvenire "una tantum" al momento del rilascio del permesso di
costruire, ben potendo (ed anzi dovendo) intervenire anche successivamente
per l'eventuale differenza in favore del bilancio comunale, purché
nell'ordinario termine di prescrizione decennale, e ferma restando la
necessità (rispettata nel caso di specie) di riferimento a tariffe già
approvate alla data del rilascio del permesso di costruire.
E' stato statuito, invero, che:
- «Le
delibere con cui i Comuni determinino i costi in misura differente da quanto
deciso dalla Regione, avvalendosi di facoltà previste da leggi regionali …,
hanno carattere eventuale e non condizionano l'immediata vigenza e
operatività del costo-base fissato dalla Regione. Tali delibere si applicano
comunque solo ai nuovi permessi, ma solo per la parte di incremento o
diminuzione rispetto al costo-base fissato con atto regionale; in altri
termini, nel caso di contributo di costruzione per nuove costruzioni, il
principio di irretroattività delle delibere comunali sopravvenute opera sì,
ma solo per il costo in aumento o in riduzione», e che
- «[...] l'ipotesi ora in discussione è assimilabile all'errore di
calcolo, perché non sussiste una differenza sostanziale tra il caso in cui
la determinazione del contributo di costruzione richiesto sia l'esito di una
non corretta operazione aritmetica e quello in cui il Comune abbia applicato
una tariffa diversa da quella effettivamente vigente, perché in entrambe le
ipotesi l'ente, per una falsa rappresentazione della realtà, ha determinato
l'onere in una misura diversa da quella che avrebbe avuto il diritto-dovere
di pretendere».
Altresì, si è affermato che: “Gli atti con i quali la p.a. determina e
liquida il contributo di costruzione, previsto dall'art. 16 d.P.R. n. 380
del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una
potestà pubblicistica, ma costituiscono l'esercizio di una facoltà connessa
alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio
del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell'ambito di un
rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al
termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né
la disciplina dell'autotutela dettata dall'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990
né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli
atti provvedimentali manifestazioni di imperio. La p.a., nel corso di tale
rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del
privato, l'importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato,
richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell'ordinario termine
di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del
titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza”.
---------------
1. La società ricorrente, titolare di permesso di costruire n. 85/09, per
l’edificazione di edificio in agro di Galatone, chiede l’annullamento degli
atti in epigrafe, con cui il Comune ha chiesto il pagamento del conguaglio
degli oneri concessori comunali.
...
2. Con un unico, articolato motivo di gravame, la ricorrente deduce la
violazione dell’art. 16 d.P.R. n. 380/01 (TUE), nonché del principio di
irretroattività degli atti aventi natura patrimoniale, avuto riguardo al
principio per il quale la determinazione degli oneri concessori non solo
deve avvenire sulla base delle tariffe vigenti, ma che la stessa non possa
che essere richiesta una tantum al momento del rilascio del permesso
edilizio, senza possibilità di applicazione postuma e retroattiva di
coefficienti non considerati al momento del rilascio del titolo.
Le censure sono infondate.
2.2. Secondo l’orientamento già espresso da questa Sezione (Tar Lecce, n.
156/2018) e confermato dal Consiglio di Stato,
«Le
delibere con cui i Comuni determinino i costi in misura differente da quanto
deciso dalla Regione, avvalendosi di facoltà previste da leggi regionali …,
hanno carattere eventuale e non condizionano l'immediata vigenza e
operatività del costo-base fissato dalla Regione. Tali delibere si applicano
comunque solo ai nuovi permessi, ma solo per la parte di incremento o
diminuzione rispetto al costo-base fissato con atto regionale; in altri
termini, nel caso di contributo di costruzione per nuove costruzioni, il
principio di irretroattività delle delibere comunali sopravvenute opera sì,
ma solo per il costo in aumento o in riduzione», inoltre, «[...]
l'ipotesi ora in discussione è assimilabile all'errore di calcolo, perché
non sussiste una differenza sostanziale tra il caso in cui la determinazione
del contributo di costruzione richiesto sia l'esito di una non corretta
operazione aritmetica e quello in cui il Comune abbia applicato una tariffa
diversa da quella effettivamente vigente, perché in entrambe le ipotesi
l'ente, per una falsa rappresentazione della realtà, ha determinato l'onere
in una misura diversa da quella che avrebbe avuto il diritto-dovere di
pretendere» (Cons. St. n. 2821/2017).
2.3. Di recente, tali principi sono stati confermati dal Consiglio di Stato,
che nella sua veste più autorevole ha affermato che: “Gli atti con i
quali la p.a. determina e liquida il contributo di costruzione, previsto
dall'art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non
essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono
l'esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta
dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la
sua onerosità, nell'ambito di un rapporto obbligatorio a carattere
paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale,
sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell'autotutela
dettata dall'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le
disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali
manifestazioni di imperio. La p.a., nel corso di tale rapporto, può pertanto
sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l'importo di
tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o
rimborsandone a questi la differenza nell'ordinario termine di prescrizione
decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio,
senza incorrere in alcuna decadenza” (C.d.S, AP n. 12/2018).
2.4. Alla stregua dei principi sopra riportati, resta escluso che la
determinazione e richiesta dei contributi di costruzione debbano avvenire "una
tantum" al momento del rilascio del permesso di costruire, ben potendo
(ed anzi dovendo) intervenire anche successivamente per l'eventuale
differenza in favore del bilancio comunale, purché nell'ordinario termine di
prescrizione decennale, e ferma restando la necessità (rispettata nel caso
di specie) di riferimento a tariffe già approvate alla data del rilascio del
permesso di costruire.
3. Per tali ragioni, la richiesta di pagamento deve ritenersi immune dalle
lamentate censure, costituendo la risultante della corretta applicazione dei
principi sopra espressi.
4. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è infondato
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 12.06.2019 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene di condividere quella giurisprudenza che, pronunciandosi
su analoghe controversie, ha avuto modo di precisare che:
a) “(…)in base alla procedura delineata dal comma 9 dell'art. 87
dlgs 259/2003, il
decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza di
installazione di un impianto di telefonia mobile e la mancanza di un
provvedimento di diniego comunicato entro detto termine comportino la
formazione del silenzio-assenso sulla relativa istanza, che costituisce
titolo abilitativo per la realizzazione dell’impianto stesso, su cui
l’ufficio preposto non può intervenire se non previo annullamento in sede di
autotutela del provvedimento di assenso in precedenza perfezionatosi e
sempre ove sussista un effettivo interesse pubblico al ripristino della
legalità;
b) (…) ai fini del rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 87
non sia necessario che l’istante produca né il preteso parere igienico
sanitario “non esistendo equivalenza in termini edilizi tra il concetto di
costruzione e quello d'impianto tecnologico, che non richiede di essere
sottoposto alle stesse valutazioni igieniche che si richiedono per le
costruzioni fruibili in termini di abitazione delle persone”, né -tanto meno- il parere A.R.P.A. richiesto, ai
sensi del comma 4 del citato art. 87, solo ed esclusivamente ai fini della
concreta attivazione dell’impianto e non per la formazione del titolo
edilizio e per l’inizio dei lavori, né, ancora, il titolo di proprietà, non essendo esso prescritto
né dalla norma né dal modello di domanda di cui all’allegato 13, del d.lgs.
n. 259/2003 né, infine, la
denuncia della verifica sismica al competente Ufficio del Genio Civile che,
sebbene debba essere effettuata prima dell'inizio dei lavori, non risulta di
fatto contemplata fra i documenti che devono essere tassativamente allegati
all'istanza/comunicazione di cui all’art. 87”.
---------------
F. - Ciò premesso in punto di fatto, il Collegio osserva che la disciplina
applicabile alla fattispecie in esame è contenuta nell’art. 87 d.lgs. n.
259/2003, disposizione che prevede che, decorsi novanta giorni dalla
presentazione dell’istanza di autorizzazione senza che sia comunicato un
provvedimento di diniego da parte del Comune o un parere negativo da parte
dell’organismo competente a effettuare i controlli di cui all'art. 14 legge
n. 36/2001 (l’ARPA Sicilia) si ha la formazione tacita sia
dell'autorizzazione comunale, sia del parere favorevole dell'organismo
competente ad effettuare i controlli.
In forza della citata disciplina, il Comune destinatario della predetta
istanza ha l’onere di verificare la compatibilità dell’impianto, per i soli
profili urbanistici ed edilizi di propria esclusiva competenza, nel termine
di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza, e il termine predetto
non è sospeso durante il tempo necessario per il rilascio del parere ARPA.
Il Collegio ritiene di condividere quella giurisprudenza, che pronunciandosi
su analoghe controversie, ha avuto modo di precisare che:
a) “(…)in base alla procedura delineata da tale comma 9, il
decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione dell'istanza di
installazione di un impianto di telefonia mobile e la mancanza di un
provvedimento di diniego comunicato entro detto termine comportino la
formazione del silenzio-assenso sulla relativa istanza, che costituisce
titolo abilitativo per la realizzazione dell’impianto stesso, su cui
l’ufficio preposto non può intervenire se non previo annullamento in sede di
autotutela del provvedimento di assenso in precedenza perfezionatosi e
sempre ove sussista un effettivo interesse pubblico al ripristino della
legalità (in tal senso, ex multis, TAR Campania, Napoli, sezione VII, n.
2407/2015) (…);
b) (…) ai fini del rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 87
non sia necessario che l’istante produca né il preteso parere igienico
sanitario “non esistendo equivalenza in termini edilizi tra il concetto di
costruzione e quello d'impianto tecnologico, che non richiede di essere
sottoposto alle stesse valutazioni igieniche che si richiedono per le
costruzioni fruibili in termini di abitazione delle persone” (in tal senso,
C.G.A.R.S., n. 220/2015), né -tanto meno- il parere A.R.P.A. richiesto, ai
sensi del comma 4 del citato art. 87, solo ed esclusivamente ai fini della
concreta attivazione dell’impianto e non per la formazione del titolo
edilizio e per l’inizio dei lavori (ex multis, questa Sezione interna, n.
1740/2015), né, ancora, il titolo di proprietà, non essendo esso prescritto
né dalla norma né dal modello di domanda di cui all’allegato 13, del d.lgs.
n. 259/2003 (in tal senso, TAR Sicilia, Palermo, n. 1007/2007) né, infine, la
denuncia della verifica sismica al competente Ufficio del Genio Civile che,
sebbene debba essere effettuata prima dell'inizio dei lavori, non risulta di
fatto contemplata fra i documenti che devono essere tassativamente allegati
all'istanza/comunicazione di cui all’art. 87 (in tal senso, Consiglio di
Stato, sezione VI, n. 7128/2010)” (TAR, Sicilia, Catania, sez. I,
06/06/2017, n. 1326; sez. I, 19/10/2016, n. 2585).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono e della documentazione
versata in atti deve ritenersi che il provvedimento del 31.12.2009, numero
105, con cui si ordina “l'immediata rimozione di quanto fini qui
collocato ...”, risulta illegittimo essendosi formato per silentium
il provvedimento comunale di autorizzazione alla realizzazione della s.r.b.,
per il cui perfezionamento non era necessario che la società ricorrente
dimostrasse al Comune intimato l'avvenuto rilascio del parere ARPA.
G. - Pertanto, in accoglimento del primo motivo ed assorbita ogni altra
censura, il ricorso va accolto con conseguente annullamento del
provvedimento impugnato
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 31.05.2019 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
presenza di provvedimenti con motivazione plurima, solo l'accertata
illegittimità di tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati
può comportare l'illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei
medesimi.
Ne consegue che nei casi in cui il provvedimento impugnato risulti sorretto
da più ragioni giustificatrici tra loro autonome, logicamente indipendenti e
non contraddittorie, il giudice, qualora ritenga infondate le censure
indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso,
idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la
potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con
assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento,
indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame,
in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del
ricorrente all'esame delle altre doglianze
---------------
8.1. Occorre, in primo luogo, evidenziare che il provvedimento impugnato è
un atto plurimotivato in quanto basato su molteplici giustificazioni.
Secondo la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, in presenza
di provvedimenti con motivazione plurima, solo l'accertata illegittimità di
tutti i singoli profili su cui essi risultano incentrati può comportare
l'illegittimità e il conseguente effetto annullatorio dei medesimi (cfr.
Cons. St., V, 10.03.2009 n. 1383; Cons. St., V, 28.12.2007, n. 6732; Tar
Campania, Napoli, VII, 28.07.2014, n. 4349; Tar Campania, Napoli, VII,
09.12.2013 n. 5632).
Ne consegue che, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, nei casi in cui
il provvedimento impugnato risulti sorretto da più ragioni giustificatrici
tra loro autonome, logicamente indipendenti e non contraddittorie, il
giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei
motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne
ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso
sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte
avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui
i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto
implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre
doglianze (cfr. Cons. St., IV, 05.02.2013, n. 694; Cons. St., IV, 08.06.2007
n. 3020; Tar Campania, Napoli, III, 09.02.2013, n. 844; Tar Campania,
Napoli, II, 15.01.2013, n. 304)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 30.05.2019 n. 2909 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di rilascio del permesso in sanatoria il Comune non ha il potere di
dirimere controversie tra privati -potere che spetta all'autorità
giudiziaria ordinaria-, dovendo solo verificare se l’intervento sia conforme
alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione
dell’abuso e della domanda.
---------------
Si osserva che, per costante orientamento giurisprudenziale, in sede di
rilascio del permesso in sanatoria il Comune non ha il potere di dirimere
controversie tra privati -potere che spetta all'autorità giudiziaria
ordinaria- (Cons. Stato, Sez. IV, 25.09.2014, n. 4818, Cons. Stato, Sez. V,
07.09.2007, n. 4703, Cons. Stato, Sez. I, 29.05.2013, n. 4927, Cons. Stato,
Sez. VI, 21.11.2016, n. 4861, Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.12.2011 n.
6731; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.12.2007 n. 6332 e 11.04.2007 n. 1654),
dovendo solo verificare se l’intervento sia conforme alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione dell’abuso e
della domanda
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.05.2019 n. 627 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Secondo
un consolidato insegnamento:
- se, sul piano generale, le scelte di pianificazione urbanistica
costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte
dell’Amministrazione (risultando le stesse, nell’ambito del sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, censurabili, oltre che per
violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza
ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito
“sconfinamento” nel cd. “merito amministrativo”);
- sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo
all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in
considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità
(civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.),
ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una
pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti”.
---------------
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è
precisato che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede
di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano
su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di
carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità
di una motivazione puntuale e “mirata”.
In particolare, si è affermato che “le scelte urbanistiche richiedono una
motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata,
ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative
dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area
muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una
singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con
il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una
nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati
contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
---------------
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione,
in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità; in occasione
della formazione di uno strumento urbanistico generale, l'Amministrazione
risultando dotata della più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte
ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel
rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli
interessi in gioco e il fine pubblico.
In tal senso, la scelta di imprimere una particolare destinazione
urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto
essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche
considerazioni.
Tali evenienze generatrici di affidamento “qualificato”, sulla scia della
giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza di
convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra
Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di
concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In mancanza di tali eventi non è configurabile un'aspettativa qualificata ad
una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo
un'aspettativa generica analoga a quella di qualunque altro proprietario di
aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione
cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non
può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in
contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico
seguiti per la redazione dello stesso.
Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione
può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni
urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta
effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi
rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria
dell'area secondo la previgente destinazione.
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto
della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio
illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori.
Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta
congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale
degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della
congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella
relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la
predisposizione del piano stesso.
---------------
1. Vanno premesse alla disamina delle dedotte censure talune coordinate
interpretative dalla giurisprudenza elaborate in tema di sindacabilità delle
scelte urbanistiche dell’Amministrazione, per come sostanziate dall’adozione
di una pianificazione del territorio avente carattere modificativo e/o
immutativo rispetto alla previgente disciplina.
Secondo un consolidato insegnamento (ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
05.09.2016 n. 3806 e 11.10.2017 n. 4707):
- se, sul piano generale, le scelte di pianificazione urbanistica
costituiscono esercizio di ampia discrezionalità da parte
dell’Amministrazione (risultando le stesse, nell’ambito del sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, censurabili, oltre che per
violazione di legge, solo per manifesta illogicità e/o irragionevolezza
ovvero insufficienza della motivazione, onde evitare un indebito “sconfinamento”
nel cd. “merito amministrativo”);
- sempre sul piano generale, si è sottolineato che “l’interesse
pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio non è funzionale solo
all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in
considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità
(civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.),
ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una
pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti” (Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012 n.
2710).
Quanto alla motivazione che deve sorreggere le scelte urbanistiche, si è
precisato che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede
di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esse incidano
su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di
carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità
di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV,
03.11.2008 n. 5478).
In particolare, si è affermato (Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221; id.,
08.06.2011 n. 3497), che “le scelte urbanistiche richiedono una
motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni
interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata,
ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative;
così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate del P.R.G., per le quali quest’ultimo prevedeva
diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative
dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area
muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale,
che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.
In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una
singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte
dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola
previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di
sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con
il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona
precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre,
di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa
modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una
nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati
contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute”.
È pacifico in giurisprudenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione,
in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (Cons. Stato, Ad.
Plen., 22.12.1999 n. 24; sez. IV, 20.06.2012 n. 3571; TAR Veneto, sez. II,
06.08.2012 n. 1101); in occasione della formazione di uno strumento
urbanistico generale, l'Amministrazione risultando dotata della più ampia
discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare
l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti
previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine
pubblico.
In tal senso, la scelta di imprimere una particolare destinazione
urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto
essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche
considerazioni (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 17.02.2012
n. 854).
Tali evenienze generatrici di affidamento “qualificato”, sulla scia
della giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza
di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi
tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di
concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione.
In mancanza di tali eventi non è configurabile un'aspettativa qualificata ad
una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo
un'aspettativa generica analoga a quella di qualunque altro proprietario di
aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione
cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicché non
può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in
contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico
seguiti per la redazione dello stesso (cfr., ex multis, Cons. Stato,
sez. VI, 17.02.2012 n. 854 cit.; sez. IV, 04.04.2011 n. 2104).
Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione
può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni
urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta
effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi
rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria
dell'area secondo la previgente destinazione.
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto
della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio
illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori.
Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta
congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale
degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della
congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella
relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la
predisposizione del piano stesso (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2012 n.
4867 cit.)
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.05.2019 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Del Documento di Piano va
rammentata la natura ricognitiva ed il carattere meramente programmatico,
come del resto sottolineato in giurisprudenza: di talché in tale strumento è
individuabile “una finalità di programmazione”, alla quale è estranea l’esplicitazione
di “prescrizioni incidenti in via diretta sul regime giuridico dei suoli;
conseguentemente”, con riveniente esclusione che “qualsiasi scostamento
dalla scheda d'ambito, realizzato in sede di pianificazione attuativa, dia
luogo di per sé ad illegittimità dello strumento attuativo per violazione
del P.G.T.”.
---------------
La lettura degli atti del P.G.T.
consente di verificare il pieno rispetto di quanto disposto dall’art. 8,
comma 2, lett. e), della l.r. 12/2005 relativamente ai contenuti del
Documento di Piano relativamente alla disciplina degli Ambiti di
Trasformazione.
Tale norma (nel testo vigente al momento dell’approvazione del P.G.T.),
prevedeva, infatti, che il Documento di Piano “individua, anche con
rappresentazioni grafiche in scala adeguata, gli ambiti di trasformazione,
definendone gli indici urbanistico-edilizi in linea di massima, le vocazioni
funzionali e i criteri di negoziazione, nonché i criteri di intervento,
preordinati alla tutela ambientale, paesaggistica e storico-monumentale,
ecologica, geologica, idrogeologica e sismica, laddove in tali ambiti siano
comprese aree qualificate a tali fini nella documentazione conoscitiva”.
Documento di Piano del quale va rammentata, peraltro, la natura ricognitiva
ed il carattere meramente programmatico, come del resto sottolineato in
giurisprudenza: di talché in tale strumento è individuabile “una finalità
di programmazione”, alla quale è estranea l’esplicitazione di “prescrizioni
incidenti in via diretta sul regime giuridico dei suoli; conseguentemente”,
con riveniente esclusione che “qualsiasi scostamento dalla scheda
d'ambito, realizzato in sede di pianificazione attuativa, dia luogo di per
sé ad illegittimità dello strumento attuativo per violazione del P.G.T.”
(cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 30.11.2015, n. 2503 e 21.05.2013, n.
1339) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.05.2019 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha individuato le caratteristiche proprie del concetto di
pertinenza urbanistica (distinta, dal punto di vista concettuale, dalla
corrispondente nozione civilistica) nel nesso
oggettivo, strumentale e funzionale, con la cosa principale, nel mancato
possesso per natura e struttura di pluralità di destinazioni in capo al
manufatto, nel carattere durevole, nella non differente utilizzabilità
economica, nella ridotta dimensione unitamente ad una propria individualità
fisica, nell’accessione ad un edificio preesistente edificato e nell’assenza
di un autonomo valore di mercato.
Invero, “La
realizzazione di nuovi manufatti, anche qualora possano essere qualificati
come pertinenze sotto il profilo civilistico, richiede il titolo edilizio.
La qualifica di pertinenza urbanistica è infatti applicabile soltanto a
opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici,
ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne
risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica. In
sostanza, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini
edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume".
---------------
Preliminarmente, va rilevato che la giurisprudenza ha individuato le
caratteristiche proprie del concetto di pertinenza urbanistica (distinta,
dal punto di vista concettuale, dalla corrispondente nozione civilistica:
TAR Emilia Romagna, Bologna, II, 13.09.2006, nr. 2029) nel nesso
oggettivo, strumentale e funzionale, con la cosa principale, nel mancato
possesso per natura e struttura di pluralità di destinazioni in capo al
manufatto, nel carattere durevole, nella non differente utilizzabilità
economica, nella ridotta dimensione unitamente ad una propria individualità
fisica, nell’accessione ad un edificio preesistente edificato e nell’assenza
di un autonomo valore di mercato (TAR Calabria, Catanzaro, II, 10.06.2008, nr. 647; TAR Lazio, Latina,
04.07.2006, nr. 428; da ultimo, vedasi
Consiglio di Stato, sez. VI , 06/02/2019, n. 904, secondo cui “La
realizzazione di nuovi manufatti, anche qualora possano essere qualificati
come pertinenze sotto il profilo civilistico, richiede il titolo edilizio.
La qualifica di pertinenza urbanistica è infatti applicabile soltanto a
opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali
ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici,
ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera
cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne
risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica. In
sostanza, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini
edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo
preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo
valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la
creazione di un "nuovo volume").
Anche nella fattispecie in esame, dunque, poiché manca, in tutta evidenza,
la connessione meramente accessoria e funzionale con l’edificio
preesistente, e poiché le opere hanno autonoma fruibilità ed identità
edilizia, non risulta provata l’affermata natura di opere pertinenziali
(TAR Sicilia-Catania, sez. I,
sentenza 14.05.2019 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d’uso del garage non è possibile a meno
che non sia provato il rispetto dei vincoli derivanti dall’art. 41-sexies
della legge n. 1150 del 1942, degli artt. 17 e 18 della legge n. 765 del 1967 e dell’art. 33 della legge n. 47
del 1985.
Invero, tale normativa -per il suo rilievo pubblicistico- non consente il
rilascio di titoli edilizi con essa contrastanti, sia se si tratti di titoli
comportanti la realizzazione ex novo di edifici, sia se di tratti di titoli
che –a titolo di sanatoria– comunque consolidano la commissione di illeciti
caratterizzati dalla riduzione delle superfici destinate a parcheggio; con
la conseguenza che il mutamento di destinazione d’uso, con riduzione degli
spazi destinati a parcheggi, può essere assentito in sede amministrativa –in
presenza degli altri necessari presupposti– solo quando risulti che non si
incide nella misura minima dei medesimi spazi, come imposti dalla legge.
---------------
In primo luogo, risulta evidente (e non viene smentito in ricorso) che le
opere di cui trattasi sono ulteriori rispetto al corpo di fabbrica
principale da condonare (il provvedimento invero, fa salvi gli ulteriori
provvedimenti sull’istanza di condono edilizio prot. n. 12083 del 04.06.1986,
per le opere preesistenti); inoltre, il cambio di destinazione d’uso del
garage non è comunque possibile a meno che non sia provato il rispetto dei
vincoli derivanti dall’art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, degli
artt. 17 e 18 della legge n. 765 del 1967 e dell’art. 33 della legge n. 47
del 1985 (normativa che, per il suo rilievo pubblicistico, non consente il
rilascio di titoli edilizi con essa contrastanti, sia se si tratti di titoli
comportanti la realizzazione ex novo di edifici, sia se di tratti di titoli
che –a titolo di sanatoria– comunque consolidano la commissione di
illeciti caratterizzati dalla riduzione delle superfici destinate a
parcheggio; con la conseguenza che il mutamento di destinazione d’uso, con
riduzione degli spazi destinati a parcheggi, può essere assentito in sede
amministrativa –in presenza degli altri necessari presupposti– solo quando
risulti che non si incide nella misura minima dei medesimi spazi, come
imposti dalla legge; v. Cass. civ., 24.11.2003, n. 17882; Cons. Stato,
Sez. V, 15.07.2013 n. 3845; TAR Calabria, Catanzaro, II, 14.06.2016, n. 1242; Consiglio di Stato , sez. VI, 25.09.2017, n. 4469;
TAR Calabria, Reggio Calabria, 05.02.2018, nr. 58)
(TAR Sicilia-Catania, sez. I,
sentenza 14.05.2019 n. 1124 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permane il potere dell’autorità amministrativa di
rilasciare, sino all’esecuzione d’ufficio, la concessione in sanatoria ove
accerti l’esistenza dei relativi presupposti.
Infatti, sebbene l’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 richiami il precedente
art. 31, comma 3, esso, a ben vedere, indica comunque, quale termine ultimo
per la presentazione della domanda di sanatoria, l’avvenuta irrogazione
delle sanzioni amministrative su un piano di effettività e non già meramente
previsionale: e tanto poiché il termine di novanta giorni ai sensi del
citato art. 31, comma 3, è fissato unicamente per la demolizione volontaria
del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il decorso di detto
termine la P.A. può -e deve, trattandosi di attività vincolata- procedere
agli ulteriori adempimenti della serie procedimentale) mentre, fino a quando
l’opera esiste nella sua integrità (e, quindi, fino all’esecuzione
d’ufficio), è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di
evitare le previste sanzioni amministrative.
---------------
L’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale non perde efficacia a
seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità di
cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, né del diniego di sanatoria (infine
sopravvenuto).
Ed invero, il Collegio ritiene opportuno ricordare (quanto al rapporto tra
ordinanza di demolizione e istanza di sanatoria edilizia) che è
giurisprudenza consolidata quella secondo cui:
- <<il riesame
dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale
sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da
parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare
l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva
delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del
giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa,
l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio. Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione
la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima
inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la
necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria,
dell’emanazione di una nuova misura demolitoria”>>,
con l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere, prima di
procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive: e tanto anche a tutela
del destinatario dell’ingiunzione a demolire, il quale, quindi, può così
beneficiare dell’ulteriore (nuovo) termine di novanta giorni (nel caso di
rigetto dell’istanza di sanatoria), decorrenti dall’adozione della (nuova)
ordinanza di demolizione, per provvedere alla demolizione del manufatto
edilizio abusivo ed evitare, quindi, l’adozione degli ulteriori atti sanzionatori da parte della P.A..
Tuttavia, analoga ratio non sussiste nella fattispecie (come quella in
esame), in cui l’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 sia
stata presentata successivamente all’adozione del provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale, in considerazione della
(presupposta) definitività dell’ordinanza di demolizione e del già
intervenuto effetto ablatorio del (già) disposto atto di acquisizione.
---------------
2.5 - I ricorrenti deducono, infine, l’“illegittimità
sopravvenuta” dei provvedimenti impugnati con l’atto introduttivo del
giudizio, in ragione dell’avvenuta presentazione del permesso di costruire
in sanatoria del manufatto edilizio realizzato “sine titulo”, sostenendo che
“Siffatta istanza, quantunque successiva all’emissione dell’atto formale di
accertamento dell’inadempimento dell’ordine di demolizione e di acquisizione
delle aree al patrimonio comunale, impone che gli effetti del provvedimento sanzionatorio gravato debbano ritenersi venuti meno, non essendo conforme a
logica -e, dunque, ipotizzabile- che siffatto provvedimento venga portato
alle sue conseguenze, peraltro estreme, in pendenza della domanda di
legittimazione postuma” (“caducazione automatica”), in ossequio ai principi
di economia e di ragionevolezza dell’azione amministrativa.
Sostengono, poi, che, in caso di diniego della sanatoria, “si darà luogo
all’emissione di un nuovo ordine di demolizione, il cui fondamento
deriverebbe non solo dalla abusività dell’opera, ma anche -e soprattutto-
dal definitivo accertamento della insanabilità dell’abuso”.
2.5.1 - Anche tale censura non convince.
Il Collegio ritiene opportuno, sul punto, premettere, condividendo (nella
presente sede di merito) quanto affermato dalla Sesta Sezione del Consiglio
di Stato con la menzionata ordinanza cautelare 13.11.2013, n. 4421
(laddove ha ritenuto che “permane il potere dell’autorità amministrativa di
rilasciare, sino all’esecuzione d’ufficio, la concessione in sanatoria ove
accerti l’esistenza dei relativi presupposti” ed anche, essenzialmente,
sostenuti, “In limine”, nel ricorso introduttivo medesimo, nella parte in
cui si espone che “risultano sussistenti tutte le condizioni per considerare
ammissibile e tempestiva l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36
D.P.R. n. 380/2001 e, segnatamente, l’anteriorità di detta istanza rispetto
all’irrogazione delle sanzioni amministrative sul piano effettivo e non solo previsionale”), che permane il potere dell’autorità amministrativa di
rilasciare, sino all’esecuzione d’ufficio, il permesso di costruire in
sanatoria, qualora accerti l’esistenza dei relativi presupposti.
Infatti, sebbene l’art. 36 del D.P.R. n. 380 cit. richiami il precedente
art. 31, comma 3, esso, a ben vedere, indica comunque, quale termine ultimo
per la presentazione della domanda di sanatoria, l’avvenuta irrogazione
delle sanzioni amministrative su un piano di effettività e non già meramente
previsionale: e tanto poiché il termine di novanta giorni ai sensi del
citato art. 31, comma 3, è fissato unicamente per la demolizione volontaria
del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il decorso di detto
termine la P.A. può -e deve, trattandosi di attività vincolata- procedere
agli ulteriori adempimenti della serie procedimentale) mentre, fino a quando
l’opera esiste nella sua integrità (e, quindi, fino all’esecuzione
d’ufficio), è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di
evitare le previste sanzioni amministrative.
Ciò precisato, ad avviso del Collegio, l’ordinanza di acquisizione al
patrimonio comunale non perde efficacia a seguito della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n.
380/2001, né del diniego di sanatoria (infine sopravvenuto).
Ed invero, il Collegio ritiene opportuno ricordare (quanto al rapporto tra
ordinanza di demolizione e istanza di sanatoria edilizia) che è
giurisprudenza consolidata di questa Sezione quella secondo cui (ex multis,
TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 31.03.2017, n. 534) <<il riesame
dell’abusività dell’opera (sia pure al fine di verificarne l’eventuale
sanabilità), provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, comporta (in ogni caso) la necessaria emanazione da
parte del Comune di un nuovo provvedimento, che vale comunque a superare
l’originaria ordinanza di demolizione: difatti, in caso di positiva
delibazione dell’istanza, non si avrà più interesse alla definizione del
giudizio; viceversa, (anche) in caso di rigetto della stessa,
l'Amministrazione dovrà necessariamente adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio (che vale comunque a superare l’ingiunzione oggetto
dell’impugnativa - ex plurimis, TAR Campania Salerno, I, 15.11.2013, n. 2266). Ne consegue, “da un lato, che è preclusa all’Amministrazione
la possibilità di portare a esecuzione la sanzione demolitoria prima
inflitta, ormai improduttiva di effetti giuridici, e, dall’altro, la
necessità, in caso di rigetto espresso o tacito dell’istanza di sanatoria,
dell’emanazione di una nuova misura demolitoria” (TAR Puglia, Lecce, III,
19.06.2013, n. 1454)>> (TAR Puglia, Lecce, III, 30.09.2016, n.
1512), con l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere, prima di
procedere all’irrogazione delle sanzioni definitive: e tanto anche a tutela
del destinatario dell’ingiunzione a demolire, il quale, quindi, può così
beneficiare dell’ulteriore (nuovo) termine di novanta giorni (nel caso di
rigetto dell’istanza di sanatoria), decorrenti dall’adozione della (nuova)
ordinanza di demolizione, per provvedere alla demolizione del manufatto
edilizio abusivo ed evitare, quindi, l’adozione degli ulteriori atti sanzionatori da parte della P.A..
Tuttavia, analoga ratio non sussiste nella fattispecie (come quella in
esame), in cui l’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 sia
stata presentata successivamente all’adozione del provvedimento di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale, in considerazione della
(presupposta) definitività dell’ordinanza di demolizione e del già
intervenuto effetto ablatorio del (già) disposto atto di acquisizione
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 07.05.2019 n. 749 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’istituto
del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis l. 241/1990 si applica anche
nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che
deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego dell’istanza
presentata dall’interessato che non sia stato preceduto dall’invio della
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in quanto in mancanza di
tale preavviso al soggetto interessato risulta preclusa la piena
partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di un apporto
collaborativo.
---------------
Risulta, innanzitutto, fondata la censura, di carattere formale, di
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, in relazione
all’adozione della nota comunale del 02.07.2017.
Invero, l’istituto del preavviso di rigetto di cui al succitato art. 10-bis
si applica anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve essere ritenuto illegittimo il provvedimento di diniego
dell’istanza presentata dall’interessato che non sia stato preceduto
dall’invio della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento, in
quanto in mancanza di tale preavviso al soggetto interessato risulta
preclusa la piena partecipazione al procedimento e dunque la possibilità di
un apporto collaborativo (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI,
02.05.2018, n. 2615; id., 01.03.2018, n. 1269; TAR Sardegna, sez. II,
20.09.2018, n. 797; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 08.09.2017, n. 2137).
La comunicazione comunale del 02.07.2017 è, dunque, illegittima, e va
annullata, non essendo stata data la possibilità alla ricorrente di
partecipare al procedimento al fine di fornire il proprio apporto
collaborativo, esponendo le ragioni a sostegno della propria domanda
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 04.05.2019 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
mancato inizio dei lavori nel termine di legge.
La giurisprudenza ha chiarito che “la ratio complessiva della disciplina
dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) sta nell'obiettivo di
mantenere il controllo sull'attività di edificazione, ovviamente per sua
natura non istantanea, non solo al momento del rilascio del titolo
abilitativo ma, anche, successivamente al momento della realizzazione,
garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il compimento dell'opera
iniziata: il quadro teleologico che connota tale compendio normativo
giustifica il carattere automatico dell'effetto decadenziale, tanto è vero
che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un
provvedimento avente non solo carattere strettamente vincolato
all'accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i
termini stabiliti dall'art. 15, comma 2, ma anche natura ricognitiva del
venir meno degli effetti del titolo precedentemente rilasciato”.
E’ stato ripetutamente affermato che la decadenza della concessione edilizia
per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto, e che
il provvedimento che la pronuncia ha carattere meramente dichiarativo di un
effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del
termine fissato dalla legge.
In definitiva, la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del
verificarsi del relativo presupposto: il provvedimento comunale sul punto ha
quindi carattere strettamente vincolato ed ha valore meramente ricognitivo
della vicenda già prodottasi, tanto che, in realtà, l'adozione di un
provvedimento amministrativo espresso non è neppure necessaria
---------------
1.1 Secondo l’art. 15, comma 2, del DPR 380/2001 nel testo vigente
ratione temporis “Il termine per l'inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro
il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni
dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto
per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga
richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento
motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da
realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive,
ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto
in più esercizi finanziari”.
1.2 La giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 23/11/2018 n. 6628
che richiama sez. IV – 05/07/2017 n. 3283) ha chiarito che “la ratio
complessiva della disciplina dell'art. 15 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U.
Edilizia) sta nell'obiettivo di mantenere il controllo sull'attività di
edificazione, ovviamente per sua natura non istantanea, non solo al momento
del rilascio del titolo abilitativo ma, anche, successivamente al momento
della realizzazione, garantendo solo entro limiti temporali ragionevoli il
compimento dell'opera iniziata: il quadro teleologico che connota tale
compendio normativo giustifica il carattere automatico dell'effetto
decadenziale, tanto è vero che la declaratoria di decadenza del permesso di
costruire costituisce un provvedimento avente non solo carattere
strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio o completamento
dei lavori entro i termini stabiliti dall'art. 15, comma 2, ma anche natura
ricognitiva del venir meno degli effetti del titolo precedentemente
rilasciato”.
E’ stato ripetutamente affermato che la decadenza della concessione edilizia
per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto, e che
il provvedimento che la pronuncia ha carattere meramente dichiarativo di un
effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso
del termine fissato dalla legge (cfr. per tutte TAR Campania Napoli, sez.
VIII – 02/04/2019 n. 1827).
In definitiva, la decadenza del titolo edilizio è effetto legale del
verificarsi del relativo presupposto: il provvedimento comunale sul punto ha
quindi carattere strettamente vincolato ed ha valore meramente ricognitivo
della vicenda già prodottasi, tanto che, in realtà, l'adozione di un
provvedimento amministrativo espresso non è neppure necessaria (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II – 18/01/2018 n. 137, che richiama Consiglio di
Stato, sez. IV – 22/10/2015, n. 4823; TAR Puglia Lecce, sez. I – 10/04/2018
n. 603)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.04.2019 n. 416 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento di concessione di occupazione di suolo del demanio marittimo
non può valere anche come permesso di costruire trattandosi di materie
sottoposte a disciplina diversa, rimesse ad Amministrazioni distinte e
rispondenti a diverse finalità.
Infatti il rilascio della concessione di suolo demaniale marittimo non
detiene alcuna valenza autorizzativa sul piano edilizio, ossia non esime dal
conseguimento del titolo abilitante all’edificazione.
---------------
In secondo luogo va osservato che, come già chiarito in giurisprudenza “il
provvedimento di concessione di occupazione di suolo del demanio marittimo
non può valere anche come permesso di costruire trattandosi di materie
sottoposte a disciplina diversa, rimesse ad Amministrazioni distinte e
rispondenti a diverse finalità; infatti il rilascio della concessione di
suolo demaniale marittimo non detiene alcuna valenza autorizzativa sul piano
edilizio, ossia non esime dal conseguimento del titolo abilitante
all’edificazione” (cfr. Tar Sicilia, Palermo, Sez. II, 17.05.2016, n.
1223; Tar Campania, Napoli, sez. IV, 20.01.2009, n. 202; Tar Lazio, Roma,
sez. I. 16.05.2008, n. 4381).
Nel caso di specie le opere realizzate, ancorché oggetto di un provvedimento
di concessione demaniale marittima da parte della competente autorità,
necessitavano pertanto comunque di un autonomo titolo edilizio comunale e
dell’autorizzazione paesaggistica, stante la piena autonomia, oltre che
l’operatività su livelli diversi, dei distinti settori amministrativi
chiaramente evincibile dalla duplice normativa, edilizia e paesaggistica da
una parte, marittima dall’altra, applicabile (cfr. Consiglio di Stato, Sez.
VI, 24.09.2012, n. 5059), dato che la necessità dell'apposito titolo
edilizio per le opere da eseguirsi dai privati su aree demaniali era ed è,
infatti, espressamente prevista dall'art. 8 del DPR 06.06.2001, n. 380, in
cui è stato trasfuso il contenuto dell'art. 31, comma 3, della legge
17.08.1942, n. 1150
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.04.2019 n. 513 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa è granitica nel ritenere che la risalenza nel
tempo dell'intervento edilizio e, in particolare, la pretesa realizzazione
delle opere in un periodo antecedente al 1967 (data di entrata in vigore
della cit. legge 06.08.1967, n. 765, c.d. “legge ponte”), non sono tali da
affermare che per la realizzazione del manufatto in questione non fosse
necessario un idoneo titolo abilitativo.
Ed invero, la c.d. “legge ponte” ha soltanto esteso a tutto il territorio
comunale quell'obbligo di titolo abilitativo per l'esercizio dello ius
aedificandi che per i centri urbani risultava già introdotto dall'art. 31
della legge 17.08.1942, n. 1150, ma che per alcune città era già in
precedenza previsto nei rispettivi regolamenti edilizi.
Si richiama, sul punto, la giurisprudenza espressasi con riguardo, ad
esempio, al caso del regolamento edilizio comunale del 1934 per la città di
Roma ovvero al caso del regolamento edilizio approvato nel 1935 per il
Comune di Napoli.
La giurisprudenza prevalente ha, pertanto, evidenziato in via generale la
mancanza di legittimità per le costruzioni realizzate in assenza di titolo
edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di
espansione, ove l’obbligo di munirsi del relativo titolo fosse previsto dai
regolamenti edilizi comunali.
Peraltro, l'art. 31, ultimo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 prevede che
"Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era
richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150,
e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di
costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo
conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di
oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente
legge": la norma, perciò, nel prevedere la condonabilità degli abusi, li
individua con riferimento anche all'obbligo del titolo edilizio previsto dai
regolamenti comunali.
---------------
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, ai fini della prova della
preesistenza di un manufatto in epoca antecedente l'introduzione
dell'obbligo generalizzato, anche al di fuori dei centri cittadini, in aree
agricole, della previa licenza edilizia (1967), occorre idonea visura
catastale riportante l'immobile o altra prova documentale sufficiente al
conseguimento di siffatta prova, come ad esempio un contratto notarile che
faccia menzione del manufatto, indicandone una data certa di preesistenza e
fornendone una adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente
registrato che del manufatto faccia più dettagliata menzione.
---------------
Ciò precisato, la richiesta di disapplicazione del predetto regolamento,
formulata dalla difesa di parte ricorrente, deve essere disattesa, in quanto
il cit. art. 6 del regolamento edilizio -che richiede, per ottenere il
titolo abilitativo nei progetti relativi ad interventi sugli edifici
esistenti, l’indicazione degli estremi dei provvedimenti abilitativi
assentiti che hanno legittimato l'intervento, anche mediante sanatoria, per
gli edifici costruiti o modificati dopo il 1945, e per gli edifici di epoca
anteriore, la documentazione dell’anteriorità stessa- risulta pienamente
coerente con la lettura interpretativa del Collegio (cfr. supra) in
ordine al contenuto costituzionalmente conforme dell’art. 76, comma 8, della
legge Regione Veneto 27.06.1985, n. 61.
Né può poi concordarsi con quanto affermato dalla difesa di parte ricorrente
(cfr. pag. 3 della memoria di replica depositata in data 12.03.2019) secondo
cui la richiesta comunale sarebbe irragionevole, potendosi al più richiedere
che l’edificazione fosse anteriore al 01.09.1967, data di entrata in vigore
della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”).
Ed invero, la giurisprudenza -cfr. TAR Veneto, sez. II, 05.06.2015, n. 642-
ha chiarito che il regolamento edilizio del Comune di Verona del 1924 già
prescriveva la preventiva autorizzazione del Sindaco per la realizzazione di
qualsiasi opera edilizia nel territorio comunale (e dunque non solo
all’interno del centro abitato).
Va peraltro evidenziato che la giurisprudenza amministrativa è granitica nel
ritenere che la risalenza nel tempo dell'intervento edilizio e, in
particolare, la pretesa realizzazione delle opere in un periodo antecedente
al 1967 (data di entrata in vigore della cit. legge 06.08.1967, n. 765, c.d.
“legge ponte”), non sono tali da affermare che per la realizzazione
del manufatto in questione non fosse necessario un idoneo titolo abilitativo.
Ed invero, la c.d. “legge ponte” ha soltanto esteso a tutto il
territorio comunale quell'obbligo di titolo abilitativo per l'esercizio
dello ius aedificandi che per i centri urbani risultava già
introdotto dall'art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, ma che per alcune
città era già in precedenza previsto nei rispettivi regolamenti edilizi
(arg. ex Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2014, n. 435).
Si richiama, sul punto, la giurisprudenza espressasi con riguardo, ad
esempio, al caso del regolamento edilizio comunale del 1934 per la città di
Roma (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2014, n. 435; TAR Lazio, Roma, sez.
II, 27.03.2018, n. 3411; cfr. anche Cass. civ., Sez. Unite, 16.03.1984, n.
1792) ovvero al caso del regolamento edilizio approvato nel 1935 per il
Comune di Napoli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV,
18.07.2016, n. 3588).
La giurisprudenza prevalente –cui si ritiene di aderire– ha, pertanto,
evidenziato in via generale la mancanza di legittimità per le costruzioni
realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del
centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo di munirsi del
relativo titolo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali (arg. ex TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 18.07.2016, n. 3588).
Peraltro, l'art. 31, ultimo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 prevede che
"Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era
richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150,
e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di
costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo
conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di
oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente
legge": la norma, perciò, nel prevedere la condonabilità degli abusi, li
individua con riferimento anche all'obbligo del titolo edilizio previsto dai
regolamenti comunali (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 18.09.2018, n.
9449; TAR Liguria, sez. I, 30.12.2014, n. 1975).
Neppure può condividersi l’argomento della difesa dell’esponente (cfr.
sempre a pag. 3 della memoria di replica depositata in data 12.03.2019),
secondo cui anche del predetto presupposto la ricorrente avrebbe dato
dimostrazione (cfr. pagg. 6-7 della memoria), fornendo gli elementi che
deporrebbero, concordemente, per la pacifica esistenza del rustico ante
settembre 1967.
Ed invero, il richiamo alle fotografie del rustico allegate al progetto
presentato dall’allora proprietario del terreno, protocollate in data
08.11.1968 n. 74549 P.G. – n. 1987 SK, dunque riconducibili a data certa; il
documento del 27.08.1970 a firma del procuratore della “Immobiliare San
Felice” che espressamente affermava che l’immobile “ab immemori
esisteva”; la comunicazione prot. 061468 in data 13.10.1970, a firma
dell’allora fittavolo che definiva il rustico “vecchio stracampito”;
le fotografie del rustico ante e post abbattimento (foto in cui parte del
rustico appare ricoperta da folta vegetazione), nonché la documentazione
relativa al pozzo, contrariamente a quanto afferma parte ricorrente non sono
elementi che depongono per l’esistenza del rustico ante settembre 1967.
Secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, infatti, ai fini della
prova della preesistenza di un manufatto in epoca antecedente l'introduzione
dell'obbligo generalizzato, anche al di fuori dei centri cittadini, in aree
agricole, della previa licenza edilizia (1967), occorre idonea visura
catastale riportante l'immobile o altra prova documentale sufficiente al
conseguimento di siffatta prova, come ad esempio un contratto notarile che
faccia menzione del manufatto, indicandone una data certa di preesistenza e
fornendone una adeguata descrizione, un contratto agrario debitamente
registrato che del manufatto faccia più dettagliata menzione (arg. ex TAR
Campania, Napoli, sez. III, 10.05.2017, n. 2515; TAR Campania, Salerno, sez.
I, 06.02.2015, n. 291)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.04.2019 n. 507 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
la costante giurisprudenza:
a) allorquando una concessione sia stata ottenuta dall’interessato
in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà è
consentito all’Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela
ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare
ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi
sussistente in re ipsa. Risultando azzerato sia l’interesse del destinatario
del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso, quando il
privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore
l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà;
b) anche dopo l’espressa previsione della necessaria considerazione
degli interessi dei destinatari dei provvedimenti ampliativi e del termine
ragionevole in cui deve essere esercitata l’autotutela (art. 21-nonies della
l. n. 241 del 1990 e novella del 2005), l’Adunanza plenaria n. 8/2017, ha
affermato “che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a
lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di
affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale
gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il
documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”;
c) anche l’ultima novella, con la legge n. 124 del 2015, all’art.
21-nonies cit. ha dettato una disciplina specifica per il caso di falsa
rappresentazione dei fatti deve essere interpretata restrittivamente in
riferimento alla necessità dell’accertamento processuale penale.
---------------
10.2. Premesso in punto di fatto che, come visto, la concessione veniva
rilasciata sulla base di un presupposto erroneamente rappresentato dal
richiedente in riferimento alla situazione giuridica dell’immobile da
demolire, va rammentato che secondo la costante giurisprudenza:
a) allorquando una concessione sia stata ottenuta dall’interessato
in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà è
consentito all’Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela
ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare
ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi
sussistente in re ipsa. Risultando azzerato sia l’interesse del
destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo
trascorso, quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire
inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione
della realtà;
b) anche dopo l’espressa previsione della necessaria considerazione
degli interessi dei destinatari dei provvedimenti ampliativi e del termine
ragionevole in cui deve essere esercitata l’autotutela (art. 21-nonies della
l. n. 241 del 1990 e novella del 2005), l’Adunanza plenaria n. 8 del 2017,
ha affermato “che la non veritiera prospettazione da parte del privato
delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto
illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una
posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere
motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di
parte”;
c) anche l’ultima novella, con la legge n. 124 del 2015, all’art.
21-nonies cit. ha dettato una disciplina specifica per il caso di falsa
rappresentazione dei fatti deve essere interpretata restrittivamente in
riferimento alla necessità dell’accertamento processuale penale (Cons.
Stato, sez. V, n. 3940 del 2018)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.04.2019 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di agibilità è finalizzato
esclusivamente alla tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza
dell'edificio e non è diretto anche a garantire la conformità
urbanistico-edilizia del manufatto; con la conseguenza che la verifica di
conformità edilizia effettuata a tal fine è svolta nei limiti necessari a
inferirne l’assentibilità della agibilità; restando diverso e distinto il
profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli
edilizi, che non può ricavarsi da un incidentale accertamento compiuto in
sede di rilascio della licenza di agibilità.
---------------
10.3. Ad ogni modo, a prescindere dal tema dell’affidamento nella nostra
fattispecie non prospettabile, il certificato di agibilità è finalizzato
esclusivamente alla tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza
dell'edificio e non è diretto anche a garantire la conformità
urbanistico-edilizia del manufatto; con la conseguenza che la verifica di
conformità edilizia effettuata a tal fine è svolta nei limiti necessari a
inferirne l’assentibilità della agibilità; restando diverso e distinto il
profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli
edilizi, che non può ricavarsi da un incidentale accertamento compiuto in
sede di rilascio della licenza di agibilità (da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
n. 2456 del 2018)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.04.2019 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli
incentivi versati al dipendente a seguito di sentenza vanno corrisposti al
lordo delle ritenute previdenziali, assistenziali e fiscali.
L'accertamento e la liquidazione del credito spettante
al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo
sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali
gravanti sul lavoratore, atteso che la determinazione delle prime attiene
non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario
tra contribuente ed erario, e devono essere pagate dal lavoratore soltanto
dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle
differenze retributive dovutegli, mentre, quanto alle seconde, il datore di
lavoro, ai sensi dell'art. 19 della l. n. 218 del 1952, può procedere alle
ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo
pagamento del relativo contributo.
---------------
La ricorrente ha denunciato violazione falsa e applicazione dell'art. 92 del
D.Lvo n. 163/2006, dell'art. 46 TUIR (DPR n. 917/1986), dell'art. 2, comma
9, della L. n. 335/1995, dell'art. 6 D.Lvo n. 314/1997, nonché dell'art. 19
L. n. 218/1952, in reazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., lamentando il
riconoscimento, in favore del lavoratore, del diritto a percepire l'intero
importo portato dal decreto ingiuntivo a suo tempo opposto, nella misura
lorda ivi intimata, sebbene poi ridotto, in parte, per effetto di quanto
nelle more pagato dalla società, dunque al lordo delle ritenute fiscali e
previdenziali, laddove in particolare il succitato art. 92, nel prevedere
l'attribuzione di un incentivo ai professionisti interni della medesima
azienda appaltante, aveva elevato l'aliquota massima dell'incentivo
dall'1,5% al 2%, comprendendo in tale aumento anche gli oneri previdenziali
e assistenziali a carico del prestatore d'opera e del datore di lavoro (co.
5 dell'art. 92:
«...
una somma non superiore al 2% dell'importo di gara di un'ì'era o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione» ).
L'impugnata sentenza di appello, tuttavia, non avrebbe considerato i doveri
di sostituto d'imposta, gravanti su di essa parte ricorrente nella
corresponsione delle somme a titolo d'incentivo ex cit. art. 92, assimilate
ai crediti di lavoro, trattandosi di incarichi conferiti ed eseguiti in
costanza di rapporto di lavoro dipendente, sicché il pagamento delle
spettanze doveva considerarsi disciplinato dal testo unico sulle imposte sui
redditi.
Dunque, gli importi riconosciuti a titolo d'incentivo per attività svolte in
costanza di rapporto di lavoro subordinato, in quanto elemento aggiuntivo
della retribuzione, andavano sottoposti alle trattenute fiscali e
previdenziali.
Né assumeva rilevanza, a dire della ricorrente, il fatto che nella specie il
pagamento non fosse avvenuto tempestivamente, dovendo comunque l'ANAS
versare i dovuti contributi, in quanto non esonerata da ciò in base all'art.
19 della L. n. 218/1952, norma che invece la Corte d'Appello aveva male
interpretato ed applicato, richiamando alcuni precedenti giurisprudenza di
legittimità. Il fatto che il pagamento del dovuto era avvenuto oltre la
scadenza prevista non incideva sui doveri di "sostituto", sia ai fini
fiscali che previdenziali, posti a carico di parte datoriale in base alla
richiamata normativa.
Le anzidette censure non appaiono fondate.
Ed invero non si discute che le somme di cui è processo, ancorché dovute a
titolo di incentivo al dipendente professionista, però nell'ambito del
rapporto di lavoro subordinato intrattenuto con lo stesso, rivestano natura
retributiva, ciò che tuttavia non assume carattere dirimente, in senso
favorevole alle tesi sostenute da
parte ricorrente.
Infatti, correttamente l'impugnata sentenza, che pure in modo espresso ha
considerato le somme de quibus dovute a titolo di differenze
retributive, ha ritenuto applicabile il principio secondo cui l'accertamento
e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze
retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali,
sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore,
atteso che la determinazione delle prime attiene non al rapporto civilistico
tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario,
e devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia
effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive
dovutegli, mentre, quanto alle seconde, il datore di lavoro, ai sensi
dell'art. 19 della l. n. 218 del 1952, può procedere alle ritenute
previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento
del relativo contributo (Cass. lav. n. 18044 del 14/09/2015. V., parimenti,
Cass. lav. n. 21010 del 26/06 - 13/09/2013, secondo cui l'accertamento e la
liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive
debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, atteso che il
meccanismo di queste ultime si pone in relazione
al distinto rapporto d'imposta, sul quale il giudice chiamato
all'accertamento ed alla liquidazione delle spettanze retributive -come pure
all'assegnazione delle relative somme in sede di esecuzione forzata- non ha
il potere d'interferire, restando le dette somme assoggettate a tassazione,
secondo il criterio c.d. di cassa e non di competenza, soltanto una volta
che saranno dal lavoratore effettivamente percepite.
Così precisandosi, poi, in motivazione:
«Questa
Corte ha, anche di recente, affermato il principio secondo cui
l'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per
differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute
fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul
lavoratore.
Ed infatti, quanto a queste ultime, al datore di lavoro è consentito
procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso
di tempestivo pagamento del relativo contributo (ai sensi dell'art. 19 della
legge 04.04.1952, n. 218); per quanto concerne, invece, le ritenute fiscali,
esse non possono essere detratte dal debito per differenze retributive,
giacché la determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra
datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e
dovranno essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia
effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive
dovutegli. . ...Cass. n. 19790 del 28/09/2011, da ultimo sulla stessa linea
cfr. Cass. n. 3525 del 13/02/2013).
In motivazione, si precisa che, quanto alle ritenute fiscali, il meccanismo
di queste inerisce ad un momento successivo a quello dell'accertamento e
della liquidazione delle spettanze retributive e si pone in relazione al
distinto rapporto d'imposta, sul quale il giudice chiamato all'accertamento
ed alla liquidazione predetti non ha il potere d'interferire (Cass.
07.07.2008, n. 18584; Cass. 11.02.2011, n. 3375); del resto, il lavoratore
le vedrà assoggettate, secondo il criterio c.d. di cassa e non di
competenza, a tassazione soltanto una volta che le avrà percepite, facultato
oltretutto a scegliere modalità di applicazione di aliquote più favorevoli
in rapporto al carattere eccezionale della fonte di reddito nel caso
concreto. ...»)
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 21.03.2019
n. 8017). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
40, comma 6, l. n. 47/1985 (Mancata presentazione dell’istanza), per il
quale: “Nella ipotesi in cui
l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della
presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure
esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi
giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito
per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in
vigore della presente legge”, va letto nel senso che il termine ivi
previsto per la presentazione della domanda di sanatoria inizia a decorrere
da quando l’aggiudicatario è stato messo in grado di conoscere il decreto di
trasferimento emesso a suo favore e cioè dal momento in cui ne abbia
raggiunta piena ed effettiva conoscenza.
---------------
- Visto l’art. 40, comma 6, l. n. 47 del 1985 (Mancata
presentazione dell’istanza), per il quale: “Nella ipotesi in cui
l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della
presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure
esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi
giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito
per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in
vigore della presente legge”;
- Considerato che l’art. 40, comma 6, l. n. 47 cit., va letto nel
senso che il termine ivi previsto per la presentazione della domanda di
sanatoria inizia a decorrere da quando l’aggiudicatario è stato messo in
grado di conoscere il decreto di trasferimento emesso a suo favore e cioè
dal momento in cui ne abbia raggiunta piena ed effettiva conoscenza (TAR
Toscana, sez. II, 12.06.2013 n. 967);
- Considerato che nella specie risulta dagli atti che parte
ricorrente abbia avuto effettiva e piena conoscenza del decreto de quo in un
momento anteriore alla sua notifica e precisamente in data 14.05.2013,
quando gliene è stata rilasciata copia in forma esecutiva da parte della
cancelleria dell’ufficio giudiziario competente;
- Ritenuto che, pertanto, correttamente l’Amministrazione
resistente abbia rilevato l’intempestività delle domande di sanatoria
presentate dalla ricorrente e che il motivo di ricorso all’esame sia
evidentemente infondato;
- Ritenuto che l’art. 46, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001,
concernente la nullità degli atti giuridici relativi ad edifici la cui
costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17.03.1985 e che fa decorrere il
termine di centoventi giorni per la presentazione della domanda di permesso
di costruire in sanatoria “dalla notifica del decreto emesso dalla
autorità giudiziaria”, non giovi alla posizione di parte ricorrente
perché non applicabile nel caso di specie, vertendosi su una istanza
presentata espressamente ai sensi dell’art. 40, l. n. 47 cit.
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 08.02.2019 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
realizzazione di nuovi volumi mediante opere cementizie o
incorporazione di strutture metalliche in parti murarie a
sostegno di materiale vitreo e quant’altro contribuisca ad
intercludere stabilmente lo spazio per renderlo abitabile o
più convenientemente utilizzabile è attività edilizia che
non rientra nel regime eccezionale dell’autorizzazione
comunale, bensì in quello ordinario della concessione
edilizia, permesso di costruire, non trattandosi di
manutenzione straordinaria, né di opera di recupero
abitativo, né di pertinenza dell’edificio, né di impianto
tecnologico al suo servizio.
---------------
Il ricorso è infondato.
Con la prima censura si deduce la violazione
dell’art. 33, d.P.R. n. 380/2001, oltre all’eccesso di
potere per travisamento del fatto, risultando palesemente
censurabile l’atteggiamento della P.A., nel ritenere
applicabile, nel caso di specie, le rubricate norme, in
quanto:
- la natura non di trasformazione ovvero di costruzione ex novo
ma di mera sistemazione dello stato dei luoghi preesistente
senza alcuna aggiunta e/o modifica urbanisticamente
apprezzabile, rende l’intervento censurato con il
provvedimento gravato, non necessitante di alcuna
autorizzazione abilitativa, né permesso a costruire,
trattandosi di un cancello che non interviene a modificare
lo stato dei luoghi, né la destinazione d’uso dell’area da
esso delimitata, che resta esterna all’appartamento del
ricorrente e financo alle parti comuni del fabbricato di cui
questo è parte;
- né l’intervento sostitutivo della struttura preesistente, di mera
manutenzione, quand’anche a volersi ritenere straordinaria,
abbisognava, a mente della normativa in vigore al momento
del presunto commesso abuso, di titolo autorizzativo,
trattandosi di opere che non hanno alterato il preesistente
stato dei luoghi, né l’aspetto esteriore del fabbricato, non
potendosi le opere oggetto dell’accertamento considerare
abusive ex art. 33 perché, per l’appunto, non richiedenti
permesso a costruire;
- del resto, la conseguenza dell’omissione autorizzativa, stante la
peculiare natura dell’opus contestato, comunque non potrebbe
essere quella dell’abbattimento o della rimozione delle
opere, di talché è evidente l’errore per travisamento del
fatto e la pedissequa illegittimità del provvedimento
gravato.
La censura è infondata.
E’ a dir subito che l’impugnata ordinanza mutua la sua parte
motiva dal richiamo per relationem al verbale della Polizia
Municipale del 14.03.2011 prot. 3950/PM/1989/UT nel quale le
opere contestate vengono così descritte: “…….dalla data
del 09.02.1974 alla data del 22.12.2009 (esecuzione del
sopralluogo), è stato apposto un cancello realizzato con
tondini di ferro e lamiera di dimensioni di circa 2,20 x
2,30 a chiusura del varco che metteva in comunicazione il
cortile del fabbricato di Via ..., 42 col disimpegno
condominiale che dava accesso alla attuale proprietà Ca.Al.
e, all’ingresso secondario alla gabbia di scale della scala
“A”.
Tale situazione ha, di fatto, comportato a termini dell’art.
11, comma 1, lettera “b” del regolamento edilizio di
Portici, un ampliamento di superficie utile abitabile e di
volume con cambio di destinazione d’uso,
Il cancello appare di vecchia installazione……..”.
E’ a dir subito che l’intervento sanzionato con la
demolizione è stato ricondotto dal resistente Comune fra
quelli di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 1,
lettera c), dell’art. 10 (“interventi subordinati a
permesso di costruire”) del d.P.R. n. 380 del 2001, per
tali dovendosi intendere quelli che <<portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino modifiche della volumetria
complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino mutamenti della destinazione d'uso nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma di
immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni>>;
il successivo comma 2, prevede che <<2. Le regioni
stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
segnalazione certificata di inizio attività>>.
Siffatta fattispecie di illeciti edilizi, è sanzionata dal
successivo art. 33, comma 1, alla stregua del quale: <<1.
Gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia di
cui all'articolo 10, comma 1, eseguiti in assenza di
permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero
demoliti e gli edifici sono resi conformi alle prescrizioni
degli strumenti urbanistico-edilizi entro il congruo termine
stabilito dal dirigente o del responsabile del competente
ufficio comunale con propria ordinanza, decorso il quale
l'ordinanza stessa è eseguita a cura del comune e a spese
dei responsabili dell'abuso (…….)>>.
Tale essendo la normativa di riferimento, parte ricorrente
assume genericamente, senza fornire alcun principio di
prove, che tratterebbe di intervento non di trasformazione
edilizia del territorio ovvero di costruzione ex novo, ma di
mera sistemazione dello stato dei luoghi preesistente senza
alcuna aggiunta e/o modifica urbanisticamente apprezzabile,
la qual cosa renderebbe l’intervento censurato con il
provvedimento gravato, non necessitante di alcuna
autorizzazione abilitativa, né permesso a costruire,
Difficilmente sostenibile è, quindi, la tesi di parte
ricorrente per la quale, nel caso di specie, si tratterebbe
di atti di manutenzione (anche straordinaria) che non
necessiterebbero di alcun titolo abilitativo edilizio, a
fronte della indubbia trasformazione del territorio
concretatasi con l’apposizione di un cancello che, a
prescindere dalle dimensioni e dalla caratteristiche
realizzative dello stesso, - come contestato con verbale
della Polizia Municipale del 14.03.2011 prot. 3950/PM/1989/UT,
quale atto facente fede privilegiata, sino a querela di
falso (cfr. C. di S., sez. V, 05.11.2010, n. 7770), in
quanto posto “a chiusura del varco che metteva in
comunicazione il cortile del fabbricato di Via ..., 42 col
disimpegno condominiale che dava accesso alla attuale
proprietà Ca.Al. e, all’ingresso secondario alla gabbia di
scale della scala “A”, “ha, di fatto, comportato a termini
dell’art. 11, comma 1, lettera “b” del regolamento edilizio
di Portici, un ampliamento di superficie utile abitabile e
di volume con cambio di destinazione d’uso”.
Il Collegio, pur non ignorando quella giurisprudenza per la
quale la realizzazione di un cancello, di norma, non implica
una trasformazione urbanistica del territorio per la quale
si richiede il permesso di costruire, tuttavia, considerata
la peculiare funzione assolta, nel caso di specie, dal
cancello, come sopra descritta, sembra corretta inquadrare
l’apposizione dello stesso nell’ambito di un più complesso e
articolato intervento di ristrutturazione edilizia, tale da
essere, conseguentemente, assoggettato al regime normativo a quest’ultima riservato.
In proposito per giurisprudenza conforme <<La
realizzazione di nuovi volumi mediante opere cementizie o
incorporazione di strutture metalliche in parti murarie a
sostegno di materiale vitreo e quant’altro contribuisca ad
intercludere stabilmente lo spazio per renderlo abitabile o
più convenientemente utilizzabile è attività edilizia che
non rientra nel regime eccezionale dell’autorizzazione
comunale, bensì in quello ordinario della concessione
edilizia, permesso di costruire, non trattandosi di
manutenzione straordinaria, né di opera di recupero
abitativo, né di pertinenza dell’edificio, né di impianto
tecnologico al suo servizio>> (Cass. sez. III,
20.04.1983, n. 3398) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.05.2017 n. 2514 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la giurisprudenza, è posto in capo al
proprietario (o al responsabile dell'abuso) ingiunto della
demolizione l'onere di provare non solo la risalenza dell'immobile, ma anche e soprattutto il titolo
abilitativo idoneo a legittimare le opere stesse. Un
temperamento è ammesso nel caso in cui l'Amministrazione
procedente ometta del tutto qualsivoglia riferimento
cronologico in ordine alla realizzazione del manufatto e
rimanga inerte in giudizio, nulla opponendo a un serio
principio di prova contraria offerto dal ricorrente, ferma restando l’esigenza di
giustificare le opere con un titolo abilitativo idoneo,
salvo a dimostrare che le opere stesse risalgono ad un’epoca
in cui non era necessario alcun titolo abilitativo.
---------------
Pertanto, considerato che solo a decorrere dall'01.09.1967,
in seguito all'entrata in vigore della l. 06.08.1967 n. 765
(cd. "legge-ponte"), sussiste l'obbligo generalizzato
di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la
realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio
comunale, mentre, prima di quella data, ai sensi dell'art.
31, l. 17.08.1942 n. 1150, sussisteva l'obbligo di previa
licenza edilizia solo per edificare nei centri abitati o
nelle zone di espansione previste dal p.r.g., ne consegue
che, ove siano stati realizzati senza titolo interventi
edilizi in area posta fuori dal centro abitato, in un
momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la
necessità del titolo abilitativo fuori dal centro abitato,
non è configurabile un abuso edilizio e, quindi, tali opere
devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la
sanzione della demolizione.
---------------
Onde sfuggire alle accennate difficoltà probatorie in merito
alla non necessarietà di uno specifico titolo abilitativo,
parte ricorrente forse basandosi anche su un passaggio della
motivazione dell’ordinanza impugnata (“Il cancello appare
di vecchia installazione”, assume che detto cancello era
stato apposto dall’allora detentore di porzione di
fabbricato in via ... 42 di Portici, nel marzo del 1996, in
sostituzione di precedente cancello di epoca remota, sempre
esistito, ma ridotto in condizioni di consunzione tali per
cui ne fu necessaria la sostituzione e tale ero lo stato di
fatto esistente all’atto del trasferimento giudiziario
avvenuto in data 07.02.2006.
Tuttavia, a prescindere che si attesta nel provvedimento
impugnato che “dalla data del 09.02.1974 alla data del
22.12.2009 (esecuzione del sopralluogo), è stato apposto un
cancello” realizzato con le caratteristiche
planovolumetriche e le modalità costruttive ivi indicate,
decisivo è il rilievo che l’Autorità urbanistica,
nell’emettere una sanzione sotto il profilo urbanistico ed
edilizio l’abuso commesso, pur dovendo sempre espletare
un’istruttoria adeguata anche relativamente all’epoca della
edificazione (onde individuare il regime giuridico di
riferimento), non deve fornire, quale condizione di
legittimità per l’irrogazione della sanzione, (anche) prova
certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che
secondo la giurisprudenza, anche di questa Sezione è posto
in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso)
ingiunto della demolizione l'onere di provare non solo la
risalenza dell'immobile, ma anche e soprattutto il titolo
abilitativo idoneo a legittimare le opere stesse. Un
temperamento è ammesso nel caso in cui l'Amministrazione
procedente ometta del tutto qualsivoglia riferimento
cronologico in ordine alla realizzazione del manufatto e
rimanga inerte in giudizio, nulla opponendo a un serio
principio di prova contraria offerto dal ricorrente (cfr.
TAR Napoli, sez. III, 15/01/2013, n. 290 e TAR Valle
d’Aosta, 02/08/1990, n. 68), ferma restando l’esigenza di
giustificare le opere con un titolo abilitativo idoneo,
salvo a dimostrare che le opere stesse risalgono ad un’epoca
in cui non era necessario alcun titolo abilitativo.
Nella fattispecie, la ricorrente ha omesso di provare quanto
asserisce particolarmente in merito alla preesistenza delle
opere contestate, nulla sul punto chiarendo le allegazioni
prodotte.
Pertanto, considerato che solo a decorrere dall'01.09.1967,
in seguito all'entrata in vigore della l. 06.08.1967 n. 765
(cd. "legge-ponte"), sussiste l'obbligo generalizzato
di preventivo titolo edilizio autorizzatorio per la
realizzazione di opere in qualsiasi parte del territorio
comunale, mentre, prima di quella data, ai sensi dell'art.
31, l. 17.08.1942 n. 1150, sussisteva l'obbligo di previa
licenza edilizia solo per edificare nei centri abitati o
nelle zone di espansione previste dal p.r.g., ne consegue
che, ove siano stati realizzati senza titolo interventi
edilizi in area posta fuori dal centro abitato, in un
momento storico in cui nessuna norma comunale prevedeva la
necessità del titolo abilitativo fuori dal centro abitato,
non è configurabile un abuso edilizio e, quindi, tali opere
devono ritenersi legittime e non può essere irrogata la
sanzione della demolizione (TAR Lecce, sez. III, 20/01/2014,
n. 191).
Tuttavia nel caso del ricorrente tale prova non è stata
fornita, per modo che si appalesa conferente il richiamo a
quella giurisprudenza per la quale l’onere della prova circa
la data di realizzazione dell'abuso può ritenersi
sufficientemente soddisfatto solo quando le prove addotte
risultino obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e
documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi
probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di
realizzazione del manufatto (cfr. TAR Brescia sez. II,
02/10/2013, n. 814).
Va inoltre considerato che nella specie il manufatto in
questione, insistente in area soggetta a vincolo
paesaggistico, comporta una modifica dello stato dei luoghi
che richiede una distinta autorizzazione, non solo in caso
di realizzazione ex novo, ma anche nel caso,
ipotizzato dal ricorrente, di sostituzione innovativa (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.05.2017 n. 2514 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura di illecito permanente degli abusi
edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della
disciplina esistente al momento dell’adozione del
provvedimento sanzionatorio e secondo
condivisa giurisprudenza: <<La
vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il
potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a
prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento
dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa
sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo
nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere
di affidamenti o situazioni consolidate>>.
---------------
Al fine di divenire destinatario di un provvedimento sanzionatorio di demolizione e riduzioni in
pristino, non è necessario essere “committente e
responsabile” dei lavori, bastando unicamente la
qualifica di attuale proprietario.
Ai sensi dell'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001, affinché il
proprietario di una costruzione abusiva possa essere
destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre
stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la
stessa disposizione si limita a prevedere la legittimazione
passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione
dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo
accertamento di una qualche responsabilità. Il presupposto
per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è
l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione
dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi
contrastante con quella codificata nella normativa
urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto
che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio
e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto
dominicale. In considerazione di ciò, la misura
ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore
dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi
aventi causa;
Ed, ancora: <<L'ordinanza di
demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei
confronti del proprietario dell'immobile, anche se estraneo
alla realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua
posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella
fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al
patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza
dell'ordine demolitorio>>.
---------------
Con la seconda censura si deduce la perenzione
dell’azione amministrativa e la carenza di interesse ad
agire, apparendo il procedimento amministrativo viziato
anche dal decorso di tempo ultradecennale dal compimento
dell’opus qualificato come abusivo, ciò, sia considerando
l’intervento manutentivo del 1966 come un quid novi, sia, a
maggiore ragione -come appare più corretto- ancor più
risalente negli anni, da un lato non potendosi ravvisare
l’interesse della P.A. a censurare un comportamento rispetto
al quale la sua potestà di controllo non siasi esercitata
per oltre un decennio dal suo compimento; dall’altro, per il
radicamento in capo al titolare dell’opera della legittimità
della sua condotta, in mancanza di tempestiva censura negli
ordinari termini di prescrizione cui anche l’iniziativa di
controllo della regolarità urbanistica soggiace, quantomeno
trattandosi non di opera radicalmente abusiva ma di
intervento edilizio limitato all’apposizione di un cancello
ad un’area scoperta, come nel caso di specie.
La censura non è fondata.
In proposito basta il rilievo che la natura di illecito
permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli
stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione
del provvedimento sanzionatorio (cfr. TAR Piemonte, sez. I,
22.03.2013, n. 354; TAR Veneto n. 1068 del 2013) e secondo
condivisa giurisprudenza: <<La
vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il
potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a
prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento
dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa
sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo
nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere
di affidamenti o situazioni consolidate>>
(TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045).
Con la terza censura si eccepisce il difetto di
legittimazione passiva, manifestandosi l’impugnato
provvedimento censurabile anche nella qualificazione del suo
destinatario, che non può essere individuato in chi ha
acquisito la proprietà dell’immobile oltre dieci anni dopo
il compimento dell’intervento edilizio in contestazione,
indebitamente individuato come il committente e responsabile
dei lavori, non si intende in base a quali accertamenti di
fatto, in realtà per il solo fatto di essere stato
attualmente riconosciuto come il proprietario
dell’appartamento assuntivamente asservente l’area
delimitata dal cancello, che, invece, gli stessi rilievi
effettuati dall’autorità procedente hanno acclarato essere
al servizio delle parti comuni del fabbricato (quantomeno
della scala A del medesimo).
In sostanza parte ricorrente contesta la propria
legittimazione passiva, sul piano sostanziale, a divenire
destinatario del provvedimento di demolizione in qualità di
“committente e responsabile dei lavori”, asserendo di
risultare privo di tali qualifiche e dichiarandosi
unicamente di essere attualmente proprietario dell’area
delimitata dal cancello qua per avere acquisito la proprietà
dell’immobile oltre dieci anni dopo il compimento
dell’intervento edilizio in contestazione.
La prospettazione di parte ricorrente non è condivisibile.
Al riguardo al fine di divenire destinatario di un
provvedimento sanzionatorio di demolizione e riduzioni in
pristino, non è necessario essere “committente e
responsabile” dei lavori, bastando unicamente la
qualifica di attuale proprietario.
Ai sensi dell'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001, affinché il
proprietario di una costruzione abusiva possa essere
destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre
stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la
stessa disposizione si limita a prevedere la legittimazione
passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione
dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo
accertamento di una qualche responsabilità. Il presupposto
per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è
l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione
dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi
contrastante con quella codificata nella normativa
urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto
che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio
e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto
dominicale. In considerazione di ciò, la misura
ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore
dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi
aventi causa (cfr. TAR Firenze, sez. III,
28/02/2017, n. 313); ed, ancora: <<L'ordinanza di
demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei
confronti del proprietario dell'immobile, anche se estraneo
alla realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua
posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella
fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al
patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza
dell'ordine demolitorio>> (TAR Campania, Salerno, sez.
I, 05/01/2017, n. 29).
Ne deriva che, nella fattispecie, parte ricorrente, nella
incontestata sua qualità di proprietaria dell’area su cui
insiste l’opera abusiva, a pieno titolo, risulta essere
passivamente legittimato, sul piano sostanziale, a divenire
destinatario dell’impugnata ordinanza di demolizione,
Infine inammissibile è la richiesta genericamente proposta
dall’Ente comunale di risarcimento del danno subito per la
costruzione abusiva, che “può sempre ledere
l’inviolabilità delle funzioni comunali e l’ordinato
sviluppo dei programmi”.
Infatti, al riguardo basterà rilevare che la domanda risulta
affatto irrituale essendo avanzata in memorie difensive non
notificate al ricorrente, sulle quali non si è instaurato il
contraddittorio processuale.
In definitiva, preso atto che il Comune aveva correttamente
valutato la tipologia dell’opera sanzionata con l’impugnata
ordinanza, dalla cui abusività, ai sensi dell’art. 33 del
D.P.R. n. 380 del2001, scaturiva con carattere vincolato
l’ordine di demolizione, che per tale sua natura, non
necessita di una specifica motivazione o della comparazione
dei contrapposti interessi, il ricorso è infondato e va,
dunque, respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.05.2017 n. 2514 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza assolutamente prevalente:
- <<Gli
atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>;
- <<L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto>>;
- infine non può sottacersi che il privato non può limitarsi a
dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche
quantomeno indicare quali sono gli elementi conoscitivi che
avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione.
In ogni caso, versandosi in tema di atto dovuto e vincolato,
nel caso di specie, risulta applicabile l’art. 21-octies
della legge n. 241 del 1990, risultando palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe
potuto essere diverso se fosse stato comunicato al
ricorrente l’avvio del procedimento, atteso che l’irrogata
sanzione demolitoria è stata disposta per la totale
difformità dell’intervento contestato rispetto a quanto
assentito con il permesso di costruire.
---------------
La censura è infondata.
Preliminare parte ricorrente lamenta la mancata
comunicazione avvio procedimento. Invero per giurisprudenza,
assolutamente prevalente e condivisa dal Collegio: <<Gli
atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII,
05.12.2014, n. 6383; TAR Campania, Napoli, sez. II,
15.01.2015, n. 233); infine non può sottacersi che il
privato non può limitarsi a dolersi della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche quantomeno indicare
quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto
nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr.
C. di S., sez. V, 29.04.2009, n. 2737).
In ogni caso, versandosi in tema di atto dovuto e vincolato,
nel caso di specie, risulta applicabile l’art. 21-octies
della legge n. 241 del 1990, risultando palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza non avrebbe
potuto essere diverso se fosse stato comunicato al
ricorrente l’avvio del procedimento, atteso che l’irrogata
sanzione demolitoria è stata disposta per la totale
difformità dell’intervento contestato rispetto a quanto
assentito con il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.01.2017 n. 278 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La relazione tecnica dell'UTC redatta all’esito del
sopralluogo costituisce atto facente fede privilegiata, sino
a querela di falso.
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Nel merito, premesso che -come si apprende dalla medesima
ordinanza impugnata- parte ricorrente aveva chiesto ed
ottenuto il permesso di costruire n. 107 del 16.10.2014
(pratica edilizia n. 575/13) “per restauro e risanamento
conservativo con ricostruzione filologica del fabbricato”,
preceduta -aggiunge parte ricorrente- dal rilascio, in data
18.09.2014, dell’autorizzazione paesaggistica n. 53, previa
acquisizione del parere/proposta della C.E.I. e del parere
favorevole della locale Soprintendenza B.A.C. in data
08.09.2014, il deducente asserisce che: “In sede
operativa i lavori sono stati, quindi, predisposti,
organizzati e condotti in assoluta rispondenza alle
soluzioni progettuali (in particolare quelle strutturali)
previste dal progetto esecutivo ed oggetto dei calcoli
strutturali depositati al G.C.”, inoltre, che “tali
soluzioni progettuali sono state rigorosamente osservate in
sede esecutiva e senza assolutamente discostarsene, e senza
alcuna rilevante difformità”, ed infine che -come
dettagliatamente illustrato nella relazione tecnica generale
e di calcolo delle strutture- si ispirano a modalità
esecutive dell’intervento di restauro e risanamento
conservativo, che si informano ai seguenti principi e
soluzioni tecniche (interventi di cuci e scuci ecc.).
Tuttavia l’intento progettuale del ricorrente resta
confinato nell’ambito delle intenzioni se non si traduce,
materializza od esternalizza, poi, nella realizzazione di
un’opera conforme a quanto progettato e ed a prescindere
dalla causa che osti a tanto, anche se esterna alla sfera
dell’istante.
Ciò è proprio quanto avvenuto nella fattispecie in esame,
laddove, nonostante i lodevoli intenti, la diligenza profusa
in sede operativa e gli accorgimenti tecnici adottati dal
ricorrente, è un dato oggettivo (e quali che ne siano le
cause), emergente da atti facenti fede privilegiata sino a
querela di falso (verbale del 15.11.2015 a seguito di
sopralluogo della Polizia Municipale laddove è stato
constatato che “i lavori di restauro e risanamento
conservativo erano fermi, e dal confronto della
documentazione tecnica presente nella suddetta pratica
edilizia n. 575/13 del Servizio Edilizia Privata" (permesso
di Costruire n. 106 del 16.10.2014, con lo stato dei luoghi
si è constatato che il manufatto in muratura è crollato,
così come asserito dal Direttore dei Lavori, ed in luogo è
in corso di realizzazione un manufatto in c.a. di circa mq.
140,00 ed altezza interna circa m. 9,00).
Inoltre, da detto confronto, è emerso (“……”): segue l’elenco
delle difformità riscontrate “1. Sostituzione della
struttura portante del piano cantinato seminterrato da
muratura costituita da pietrame misto, in una struttura ex
novo in c.a., formata da pilastri, pareti in c.a. e solaio
intermedio in latero-cemento…….; 2. Ampliamento di circa mq.
50,00 del piano cantinato, realizzato sempre con struttura
in c.a.; 3. Realizzazione ex novo della struttura precedente
del piano terra costituita da muratura portante e volte, con
una nuova struttura in c.a. composta da pilastri, travi ed
il solaio di copertura ancora in casseforme e non ancora
gettato……..; 4. All’ingresso dell’area di cantiere è
presente, altresì, una piccola rampa in cls per l’accesso
degli automezzi al cantiere……; 5. Il nuovo manufatto misura
una superficie di circa mq. 140,00, mentre il solaio
intermedio misura circa mq. 150,00, l’altezza interna totale
misura circa m. 9,00 ……”, come da Relazione Tecnica prot. n.
71968/2015 del 17.11.2015, redatta dai tecnici del
Servizio Antiabusivismo Edilizio a seguito di sopralluogo,
non mancandosi, altresì, di precisare che “non risultano
presenti all’interno del fascicolo del su citato Permesso di
Costruire, varianti e/o relazioni che accertano la
legittimità delle opere edilizie sopra descritte (……).”.
Secondo la prospettazione di parte ricorrente, trattasi di
manufatti del periodo anteguerra ed, allo stato, l’unico
elemento nuovo aggiunto e contestato nel provvedimento
impugnato è costituita dall’ampliamento del cantinato del
50% (che però già di per sé integra la difformità totale dal
permesso di costruire), ma trattasi di volume che sarebbe
destinato ad essere tombato consistente in una struttura in
cemento armato all’interno.
Tuttavia la tesi del Comune, suffragata dalla suddetta
Relazione Tecnica, redatta all’esito del sopralluogo, quale
atto facente fede privilegiata, sino a querela di falso
(cfr. C. di S, sez. V, cfr. C. di S, sez. V, 05.11.2010, n.
7770), è nel senso che le opere realizzate, o in quanto non
contemplate o comunque totalmente difformi, proprio per la
presunta differente misura di 140 mq. dal Permesso di
costruire n. 106 del 16.10.2014, in alcun modo potevano
essere considerarsi legalizzate o, comunque, presidiate dal
Permesso di costruire in precedenza rilasciato.
Inoltre non è dato comprendere come parte ricorrente possa
da ultimo ritenere dirimente che “l’Amministrazione avrebbe
dovuto dare oggettivo peso e rilievo (in luogo di
descriverla acriticamente ed asetticamente come una
difformità) alle rilevate (ed apparenti) differenti
dimensioni del manufatto, se proprio la presunta differente
misura di 40 mq. dimostra in maniera oggettiva", ciò che è
descritto ai punti 1), 2) e 3) precedenti ed in premessa, ovverosia che “la struttura realizzata ha conformazione
plano altimetrica palesemente disposta e realizzata per
risultare interna ed in aderenza al perimetro esterno; ed ha
funzione portante della muratura incerta”.
Da tutto quanto innanzi, non condivisbile è la
prospettazione di parte ricorrente per la quale “il
Comune ha errato a considerare l’intervento qualificandolo
come abusivo, nella specie della difformità totale e/o
essenziale dal titolo (ossia dal P. di C.); ad obliterare
colpevolmente che l’intervento conservativo veniva attuato
con modalità sostanzialmente e formalmente consentite; e
comunque specificamente dettagliate nella progettazione
esecutiva strutturale interna. Modalità assolutamente
collimanti con la natura dell’intervento di restauro e
risanamento conservativo e con la finalità delle N.T.A. di
P.T.P. che è quella di avere un manufatto, dopo l’intervento
di consolidamento (anche strutturale interno), in tutto
identico esteriormente a quello preesistente e con l’impiego
dei materiali preesistenti e di altri di pari tipologia” (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.01.2017 n. 278 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La astratta possibilità che anche i c.d. "ruderi"
possano avere (a condizione, ovviamente, della loro “leggibilità”)
una loro rilevanza al punto che ne sia possibile una loro
ricostruzione, in alternativa ad una costruzione “ex novo”, può essere ammessa astrattamente in diritto positivo, ma in
concreto essa deve pur sempre inquadrarsi nelle categorie
edilizie tradizionali come, allo stato della normativa,
delineato nell’art. 3, d.P.R. 380/2001; pertanto, la
qualifica di un manufatto come “rudere” non implica
l’applicazione automatica di una disciplina ad esso
automaticamente riferibile, non trattandosi di un’autonoma
categoria edilizio, dovendo invece inquadrarsi in concreto a
seconda dei casi, quale restauro e risanamento conservativo,
ovvero ristrutturazione edilizia, ovvero, ancora, quale
nuova opera.
---------------
Con la seconda censura si deduce la violazione
dell’art. 3, lett. d), TUED, come modificato dall’art. 30,
co. 1, lett. a), legge n. 98 del 2013; la violazione
dell’art. 31, difetto di presupposto, violazione del giusto
procedimenti, atipicità; violazione degli artt. 33 e 34,
d.P.R. n. 380/2001, oltre all’eccesso di potere (per
violazione del giusto procedimento, difetto assoluto di
motivazione), al riguardo, rilevando che:
- quanto innanzi trova, invero, indiretto riscontro anche sul piano
squisitamente normativo, atteso che, con la novella
rubricata, è stata esclusa la annoverabilità tra gli
interventi di nuova costruzione degli interventi di recupero
dei manufatti diruti, avvertendo, inoltre, che è stata
inclusa nella tipologia della ristrutturazione edilizia di
cui al novellato art. 3, lett. d) del T.U. n. 380/2001,
soltanto la ricostruzione di ruderi (che in precedenza era
qualificata dalla giurisprudenza nuova costruzione, come
nuova opera), per i quali non sia individuabile l’altezza
e/o l’area di sedime e/o la sagoma dell’edificio da
recuperare, in quanto i resti della muratura perimetrale non
consentono di individuare immediatamente le caratteristiche
plano volumetriche originarie; l’art. 3, infatti, ha
stabilito che può procedersi “al ripristino di edifici
“crollati”, attraverso la loro ricostruzione, purché sia
possibile accertarne la preesistente consistenza”,
evidentemente con mezzi ed indagini diverse dall’esame
obiettivo dello stato attuale del fabbricato ed attinenti,
invece, alla documentazione grafica e fotografica
descrittiva dell’organismo originario;
- nella specie, il manufatto, sia pure privo di copertura, risulta
ancora “leggibile” in rilevante parte della struttura
portante, di inequivoca leggibilità quanto alla
individuazione della quota di imposta della preesistente
copertura e totalmente suscettivo, quindi, di essere
funzionalmente recuperato, con fedele ricostruzione delle
consistenze, con opere di risanamento;
- in altri termini, deve ritenersi che, a seguito dell’introduzione
dell’art. 3, lett. d), ultima parte, del T.U. 380/2001, deve
ragionevolmente considerarsi come opera di risanamento
conservativo quella diretta , come nella fattispecie, al
fedele recupero di ruderi, le cui intere caratteristiche
planivolumetriche siano (ancora) obiettivamente “leggibili”
attraverso l’esame dello stato dei luoghi; come opera di
ristrutturazione di cui all’art. 3, cit., diretta a
recuperare ruderi la cui precedente consistenza sia
ricostruibile con certezza solo attraverso in indagini
ulteriori e diverse dal semplice esame del rudere stesso; e
come nuova opera quelle di ricostruzione di ruderi per i
quali non sia identificabile l’originaria, consistenza, né
attraverso l’esame dello stato dei luoghi, né con indagini
svolte sulla documentazione grafica e fotografica relativa
al fabbricato, con palese, illegittimità, anche sotto tale
profilo, del provvedimento impugnato che giammai poteva
sanzionare un intervento legittimo e men che mai avvalendosi
del potere di cui all’art. 31;
- in ogni caso, nella specie, non si discute della legittimità in
sé del fabbricato (realizzato in epoca ottocentesca) e delle
parti murarie di esso rimanenti ed, attesa la natura
dell’intervento e dei lavori assentiti il Comune avrebbe
dovuto tenere conto e valutare l’incidenza della demolizione
alla stregua del principio di portata generale secondo cui
quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte realizzata o da realizzare in conformità, si
applica la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34 del
T.U. 380/2001, al riguardo, avendo da tempo la giurisprudenza
amministrativa precisato che deve essere irrogata la
sanzione pecuniaria ogni qual volta -come nella specie- la
demolizione delle pretese opere abusive possa compromettere
la stabilità o l’utilizzazione delle stesse; principio,
questo, ribadito anche in tema di ristrutturazioni dall’art.
33 e già desumibile dall’art. 421 della L. 1150 del 1942 e
chiaramente estensibile anche per analogia alla fattispecie
de qua; ma di tale valutazione non v’è traccia nel
provvedimento impugnati e da ciò è evidente che il Comune
non si è affatto posta l’alternativa di irrogare la sanzione
demolitoria o quella pecuniaria;
- non è dato intendere l’interesse pubblico perseguito con il
gravissimo provvedimento demolitorio.
Anche tale censura non è fondata.
In punto di diritto l’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001,
alle lettere c) e d), pone tale distinzione tra la categorie
urbanistico-edilizia del restauro e del risanamento
conservativo, da una parte e della ristrutturazione
dall’altra:
c) "interventi di restauro e di risanamento conservativo",
gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo
edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un
insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli
elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo
stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi
compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento,
il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo
edilizio;
d) "interventi di ristrutturazione edilizia", gli
interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria [e sagoma] di quella preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente (lettera modificata dall'articolo 1 del D.Lgs.
del 27.12.2002, n. 301 e dall'articolo 30, comma 1, lettera
a), del D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, dalla Legge 09.08.2013, n. 98).
La astratta possibilità, poi, che anche i c.d. ruderi
possano avere (a condizione, ovviamente, della loro “leggibilità”)
una loro rilevanza al punto che ne sia possibile una loro
ricostruzione, in alternativa ad una costruzione “ex novo”, può essere ammessa astrattamente in diritto positivo, ma in
concreto essa deve pur sempre inquadrarsi nelle categorie
edilizie tradizionali come, allo stato della normativa,
delineato nell’art. 3, d.P.R. 380/2001; pertanto, la
qualifica di un manufatto come “rudere” non implica
l’applicazione automatica di una disciplina ad esso
automaticamente riferibile, non trattandosi di un’autonoma
categoria edilizio, dovendo invece inquadrarsi in concreto a
seconda dei casi, quale restauro e risanamento conservativo,
ovvero ristrutturazione edilizia, ovvero, ancora, quale
nuova opera (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.01.2017 n. 278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La
Valutazione di impatto ambientale, in sigla VIA, è l'istituto, mediante il
quale devono essere preventivamente individuati gli effetti sull'ambiente di
un dato progetto. Tale istituto, proprio perché richiede l'elaborazione di
uno studio particolarmente complesso ed oneroso, non è imposto
indiscriminatamente per tutti gli interventi capaci di incidere
negativamente sull'ambiente.
Per tale ragione, per taluni interventi, (fra cui rientra in astratto quello
per cui è causa, consistente nel progetto di ampliamento di un impianto per
la produzione e la lavorazione dell'acciaio) è previsto un procedimento a
doppio stadio: nella prima fase, si compie appunto lo screening, ovvero la
"verifica di assoggettabilità", al fine di stabilire se sia necessaria o
meno la fase della valutazione; nella seconda fase, si ha la valutazione che
è eventuale, ovvero ha luogo solo se lo screening conclude in tal senso.
L'attività mediante la quale l'Amministrazione interessata provvede alle
valutazioni poste alla base dello screening è, dunque, connotata da
discrezionalità tecnica, con la conseguenza che essa non può essere
sindacata in sede giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui ci
sia stato un non corretto esercizio del potere sotto il profilo del difetto
di motivazione, di illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti di
fatto e di incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti.
In tal senso, è altresì necessario che sia la parte ricorrente ad indicare i
vizi presenti nella valutazione operata dall'Amministrazione, non essendo
sufficienti generiche contestazioni (come ravvisabile nella fattispecie
concreta).
---------------
18. E’ a sua volta infondato il motivo terzo, con il quale si
valorizzano, in sintesi estrema, presunte lacune e illogicità del decreto
screening impugnato, e si sostiene che comunque l’intervento per cui è causa
si sarebbe dovuto comunque assoggettare a VIA per le sue concrete
caratteristiche. In proposito, per maggior chiarezza, vanno richiamati la
normativa e i principi giurisprudenziali applicabili alla fattispecie.
19. Sotto il profilo normativo, come è noto, la Valutazione di impatto
ambientale, in sigla VIA, è l’istituto, già previsto dal D.P.R. 12.04.1996
ed ora dagli artt. 19-24 del D.lgs. 03.04.2006 n. 152, o T.U. ambiente
mediante il quale, nella formula dell’art. 5, lettera b), del T.U. “vengono
preventivamente individuati gli effetti sull'ambiente di un progetto”.
Detto istituto prevede, in sintesi, l’elaborazione di uno studio
particolarmente complesso ed oneroso, che per tal ragione, come previsto dal
legislatore nazionale in ossequio alla normativa uniforme europea, non è
imposto indiscriminatamente per tutti gli interventi capaci di influenzare
negativamente l’ambiente.
Per taluni di essi, fra i quali rientra in astratto quello per cui è causa,
è previsto infatti un procedimento a doppio stadio: nella prima fase, si
compie appunto lo screening, ovvero nella terminologia dell’art. 5,
lettera m), del T.U. la “verifica di assoggettabilità”, che serve a “valutare,
ove previsto, se progetti possono avere un impatto significativo e negativo
sull'ambiente e devono essere sottoposti alla fase di valutazione”; la
VIA poi si fa nella seconda fase, che è eventuale, ovvero ha luogo solo se
lo screening conclude in tal senso.
20. Ciò posto, è di tutta evidenza che l’attività mediante la quale
l’amministrazione provvede alle valutazioni poste alla base dello screening
è connotata da discrezionalità tecnica, e quindi può essere sindacata nella
presente sede giurisdizionale di legittimità nei limiti che la
giurisprudenza ha in generale elaborato al riguardo.
In proposito, è anzitutto costante l’affermazione di principio, ribadita da
ultimo da C.d.S. sez. V 01.10.2002 n. 7262, per cui “il giudizio di
discrezionalità tecnica, caratterizzato dalla complessità delle discipline
specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell'esito della
valutazione, sfugge al sindacato del giudice amministrativo in sede di
legittimità laddove non vengano in rilievo indici sintomatici del non
corretto esercizio del potere sotto il profilo del difetto di motivazione,
di illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti di fatto e di
incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti”,
precisandosi anzi che le illegittimità e incongruenze debbono essere “macroscopiche”
e “manifeste”, come si legge in motivazione di C.d.S. sez. V
17.05.2005 n. 2460, proprio con riguardo al sindacato sulla VIA di un
impianto industriale; conforme, sempre in tema di valutazioni di impatto
ambientale, anche C.d.S. sez. VI 19.02.2008 n. 561.
21. Se il sindacato in tema di discrezionalità tecnica postula che nell’atto
sia rinvenibile, in sintesi, una illogicità, è senz’altro conforme a logica,
oltre che ai principi processuali, che sia la parte ricorrente a dover
indicare in modo specifico in cosa tale illogicità consisterebbe, senza
limitarsi a generiche contestazioni.
In tal senso è la giurisprudenza, secondo la quale, in termini generali, è
necessario che “il ricorrente supporti la propria domanda, allegando e
dimostrando in giudizio tutti gli elementi costitutivi della sua pretesa”,
e solo ove non vi riesca “per la sua posizione di disparità sostanziale
con l'amministrazione” potrà chiedere che il giudice faccia ricorso al
“metodo acquisitivo” della prova, fermo che anche in tal caso egli è
soggetto a un “onere di principio di prova”, nel senso che “è
tenuto… a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto
il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte”,
ricostruzione rispetto alla quale il giudice potrà acquisire d’ufficio gli
elementi rilevanti.
In tali termini, sempre su questione tecnica, C.d.S. sez. VI 04.09.2007 n.
4621, con argomentazione che appare tuttora valida alla luce dell’art. 64,
comma 1, c.p.a., secondo il quale l’onere probatorio posto a carico delle
parti si riferisce comunque agli elementi che “siano nella loro
disponibilità”.
22. Sempre secondo logica, sia la dimostrazione diretta dell’illogicità di
un dato atto sia la prospettazione della possibilità di essa in termini
attendibili vanno compiute in modo analitico e discorsivo, ovvero spiegando
quali dovrebbero essere gli errori commessi e perché; non sarà invece
sufficiente la mera allegazione apodittica di elementi di segno contrario a
quelli valorizzati dall’amministrazione, quali pareri di esperti di propria
fiducia e simili.
In tal senso, sempre in termini generali, ad esempio C.d.S. sez. IV
05.08.2005 n. 4196, per cui “il sindacato giurisdizionale sulla
discrezionalità tecnica non può sfociare nella sostituzione dell'opinione
del giudice, e a maggior ragione della parte, a quella espressa dall'organo
amministrativo, ove tale opinione, pur se non condivisa sul piano soggettivo
in dipendenza della fisiologica opinabilità che connota la interpretazione e
applicazione di scienze non esatte, non venga considerata errata sul piano
della tecnica”.
23. Le considerazioni sin qui esposte, lo si dice per completezza, non sono
poi contraddette dalla giurisprudenza europea e nazionale citata dai
ricorrenti alle pp. 20 e 21 del ricorso principale, giurisprudenza che in
sintesi si limita a ribadire il ruolo, e pertanto l’importanza, del
procedimento di VIA, senza però indicare regole particolari alle quali il
sindacato del Giudice in proposito dovrebbe soggiacere.
Ciò è in particolare vero con riguardo al ruolo del principio di
precauzione, che i ricorrenti invocano a loro favore alle pp. 28-29
dell’atto, sostenendo che “il rischio è… ritenuto inaccettabile finché
non sia dimostrato il contrario” (p. 29, quarto e quinto rigo), ovvero
secondo logica che sussisterebbe una sorta di presunzione di impossibilità
di realizzare interventi come quello per cui è causa. Tale interpretazione
infatti non va condivisa.
24. Come è noto, il principio di precauzione, recepito dal Trattato
dell’Unione europea e in precedenza dal Trattato comunitario, si fonda in
termini giuridici sull’art. 15 della Dichiarazione di Rio del 1992, per cui
“In order to protect the environment, the precautionary approach shall be
widely applied by States according to their capabilities. Where there are
threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty
shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to
prevent environmental degradation.”, il che in traduzione suona “Al
fine di proteggere l'ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere
ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità . In
caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di una piena
certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l'adozione
di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a
prevenire il degrado ambientale”.
25. Come è pure noto, il principio in questione ha dato luogo a dispute
scientifiche, filosofiche e politiche sul suo effettivo valore, sembrando ad
alcuni interpretabile in modo estremo; si è sostenuto infatti che infatti
che esso equivarrebbe alla “prudenza imposta per legge”, ovvero al
divieto di utilizzare tutti i risultati della ricerca scientifica prima di
esser certi della loro assoluta non pericolosità per l’ambiente; si è
sostenuto poi che la certezza in merito non si potrebbe mai raggiungere,
perché le verità scientifiche sono sempre come tali provvisorie e
suscettibili di modifica.
26. Nella sede presente, va però sottolineato che tale lettura estrema del
principio, quale che sia l’opinione intellettuale al riguardo che si ritenga
di condividere, non è quella adottata dalla giurisprudenza europea e
nazionale, che è invece prudente. Essa ha infatti sottolineato che “protective
measures”, ovvero “misure preventive”, adottate in base al
principio stesso e comprensive all’evidenza della proibizione preventiva di
una certa attività “may not properly be based on a purely hypothetical
approach to risk, founded on mere suppositions which are not yet
scientifically verified”, ovvero “non si possono fondare
sull’apprezzamento di un rischio puramente ipotetico, fondato su mere
supposizioni allo stato non ancora verificate in termini scientifici”.
L’enunciato è di Corte CE 09.09.2003 C-236/01 Monsanto, ed è richiamato in
modo esplicito, fra le molte, in Corte CE 05.02.2004 C- 24/2000 Commissione
vs. Repubblica Francese; la stessa lettura è presupposta, nella
giurisprudenza nazionale, ad esempio da TAR Lombardia Brescia 11.04.2005 n.
304, TAR Campania Napoli 27.02.2007 n. 1231, TAR Veneto 24.02.2004 n. 396 e
da ultimo C.d.S. sez. VI 19.01.2010 n. 183. Ciò si giustifica anche
osservando, con Cass. civ. 23.01.2007 n. 1391, relativa all’attività di un
impianto che emetteva radiazioni elettromagnetiche, che le attività
pericolose nel nostro ordinamento, se svolte entro date condizioni, sono
lecite.
Si ritorna quindi al punto già ribadito, la necessità di una dimostrazione
discorsiva da parte del ricorrente, non limitata a mere allegazioni, di
errori di apprezzamento compiuti dalla p.a.
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 11.03.2011 n. 398 - link a www.ambientediritto.it). |
AGGIORNAMENTO AL 19.08.2019 |
ã |
SEGRETARI
COMUNALI: |
il
vigente sistema ordinamentale consente (legittimamente)
l’attribuzione al segretario di funzioni dirigenziali:
- solo con atto formale del capo dell’Amministrazione e previa
adeguata motivazione; in ogni caso
- previo accertamento dell’assenza di adeguate figure professionali
interne e
- solamente in via temporanea. |
PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
comunali: quella dannosa voglia di "dirigente apicale"
(in memoria di Stefano Fedeli)
(14.08.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
---------------
Non è compito dei segretari comunali
svolgere funzioni di direzione di strutture amministrative
assumendo la qualità di dirigenti. Tali funzioni possono
essere gestite, specie nei comuni di grandi dimensioni, solo
per in via temporanea e suppletiva, avendo prima dimostrato
l’assoluta carenza di professionalità interne.
La
sentenza 23.07.2019 n. 489
della Corte dei conti, Sezione giurisdiz. per la Puglia, è
particolarmente rilevante perché smonta in modo ultimativo
il castello di sabbia del “dirigente apicale” ed
indica in modo chiaro e puntuale quali sono le peculiarità
della funzione dei segretari comunali.
E’ una sentenza importantissima, che evidenzia le gravissime
pecche purtroppo contenute nella superficiale
sentenza
22.02.2019 n. 23 della
Corte costituzionale (sul punto:
cliccare qui e
cliccare anche qui),
in particolare nella debolissima parte nella quale la
Consulta ha in modo vistosamente erroneo considerato
costituzionalmente legittimo lo spoil system, anche in
considerazione delle funzioni dirigenziali viste come
“tipiche” della figura del segretario comunale.
Una svista imperdonabile, che viene indirettamente, ma
ferocemente evidenziata dalle considerazioni della Corte dei
conti della Puglia, che, limitandosi a leggere ed applicare
in maniera niente più che piana e corretta le disposizioni
normative e contrattuali, ricorda come le funzioni
dirigenziali siano, per i segretari comunali, solo un
accessorio, eventuale e non tipizzante per nulla le proprie
funzioni. Con buona pace di chi pervicacemente cerca di
ammantare la figura con quel ruolo di “dirigente apicale”
che la mancata riforma Madia ha impedito venisse in essere.
E’ bene specificare che la Corte dei conti ha riconosciuto
la responsabilità per danno erariale a carico di un
segretario comunale di un comune di grandi dimensioni, che
per anni ha svolto funzioni di dirigente di una quantità
ingiustificabile anche solo logicamente, prima che
organizzativamente, di servizi, ottenendo maggiorazioni
retributive persino superiori a quelle ammesse dal
contratto. Non si può non fare proprie le considerazioni,
sul punto, della Corte dei conti: “Quello che sconcerta
ancor di più, e che rende irrimediabilmente grave sotto il
profilo omissivo la sua condotta, e che la ricollega causalmente al danno qui azionato è il fatto che il soggetto
che è rimasto passivo e inerte in ordine a emolumenti
ricevuti e spiccatamente esorbitanti rispetto al dovuto, sia
proprio colui che istituzionalmente aveva il dovere
giuridico di conformare alla legalità l’agere
amministrativo”.
Lo sconcerto è forte. E dura da anni, esattamente da quel
1997 che introducendo l’inutile figura del direttore
generale ha scatenato in molti (non tutti, ovviamente) i
segretari comunali gli appetiti da “dirigente apicale”.
Si sono visti incarichi di direttore generale in comuni con
pochissimi dipendenti e senza Peg, incarichi in comuni
convenzionati ma singoli per ciascun comune, cifre
elevatissime non giustificate da funzioni nuove e diverse.
Uno spreco di denaro pubblico, che nel 2009 portò alla
cancellazione (purtroppo limitata ai soli comuni con
popolazione fino a 100.000 abitanti) del direttore generale.
Sconcerta, comunque, ancora che la voglia di “apicalità” e,
soprattutto, di ottenere maggiorazioni retributive, invece
di passare dalla via maestra di una migliore contrattazione
collettiva capace di valorizzare le funzioni effettivamente
caratterizzanti dei segretari, in modo strisciante anche
sigle sindacali abbiano lavorato per creare una condizione
di “dirigente apicale” di fatto (preparatoria, senza
successo, alla riforma Madia), soffiando sul fuoco delle
ambizioni personali.
La gran parte dei segretari comunali sa qual è il proprio
ruolo, conosce la profonda differenza del coordinamento
rispetto alla gestione operativa, valorizza la prima in
funzione del miglior funzionamento della seconda.
Per non pochi, al contrario, la funzione del segretario
praticamente non può che ridursi a quella di un dirigente
che assommi su di sé (salvo, spesso, poi deleghe diffuse e
in bianco) funzioni gestionali, gestite fin troppo, poi, nel
rispetto della “fiducia” contrattata a suon di inevitabili
reciproche concessioni con sindaci disposti a remunerare
queste funzioni dirigenziali anche ben oltre i limiti
contrattuali. Con sprezzo dell’evidente rischio di danno
erariale.
Questa visione della “apicalità” dirigenziale necessitata
del segretario comunale viene letteralmente posta nel nulla
dalla sentenza della Corte dei conti. Essa evidenzia quali
siano le rilevanti e complesse competenze previste
dall’articolo 97 del d.lgs 267/2000, non negando,
ovviamente, che è operante il comma 4, lettera d), per
effetto del quale il sindaco può attribuire al segretario
ogni altra funzione.
Sagacemente, il giudice contabile
osserva, però: “Tale ultima previsione, pur integrando una
sorta di clausola in bianco, si dà consentire, in linea di
principio (per ragioni di flessibilità organizzativa),
l’affidamento al segretario di funzioni gestionali, va però
contemperata con altre disposizioni affermative di principi
di ordine generale, come quella secondo cui i compiti c.dd.
di amministrazione attiva spettano ai dirigenti e non
possono essere loro sottratti se non in virtù di una norma
primaria espressa (cfr. l’art. 4, comma 2 e 3, l’art. 15 e
ss. del citato t.u.p.i.; l’art. 107, comma 4, del t.u.o.e.l.)”.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali ai segretari
comunali non è posta in posizione di equivalenza con la
scelta di assegnare incarichi di direzione ai dirigenti.
Questi ultimi sono titolari in via esclusiva della gestione.
Il che non può non portare alla conclusione secondo la quale
l’assegnazione di funzioni di direzione ai segretari (lo
stesso vale per l’attivazione dell’articolo 110 del Tuel) va
saldamente giustificato con l’evidenziazione di una
situazione non rimediabile se non con una temporanea
attività di “supplenza”, fermo restando che se
l’organizzazione prevede una struttura di vertice, essa non
può restare acefala o essere a tempo indefinito affidata
alla preposizione direzionale di un soggetto che non può e
non deve svolgere la funzione direzionale in via
continuativa, come il segretario comunale.
Sul punto, la Corte dei conti della Puglia è chiarissima:
“l’Accordo integrativo del 22.12.2003, sottoscritto in
attuazione dell’articolo 41, comma 4, del CCNL, e il
successivo Accordo integrativo del 13.01.2009. In
particolare, il primo dei citati accordi ha stabilito a
quali condizioni possa essere concessa la maggiorazione
dell’indennità in parola, condizioni che possono essere sia
di carattere oggettivo che di carattere soggettivo. Senza
entrare nello specifico di tali condizioni,
basti qui mettere in luce che il contratto precisa
che tale maggiorazione è consentita a condizione che al
segretario siano affidati incarichi gestionali comunque
afferenti alle sue funzioni istituzionali, ma “in via temporanea e dopo
aver accertato l’inesistenza delle necessarie
professionalità all’interno dell’Ente”. L’Accordo fissa poi
la misura minima e massima di tale maggiorazione, che non
può essere inferiore al 10% e superiore al 50% della
retribuzione di posizione in godimento, ad eccezione dei
comuni inferiori a 3.000 abitanti”.
Dunque, è l’ordinamento giuridico ad impedire di considerare
come fungibili gli incarichi dirigenziali. Essi sono
competenza esclusiva dei dirigenti. La scelta di affidarli
al segretario è transeunte e motivata da una verifica reale
di assenza di professionalità interne.
Spiega ancora la
Corte dei conti: “Tanto è vero che le sopra indicate
disposizioni contrattuali integrative si sono fatte carico
di precisare che l’attribuzione al segretario di funzioni
dirigenziali possa avvenire solo con atto formale del capo
dell’Amministrazione e in ogni caso previo accertamento
dell’assenza di adeguate figure professionali interne e
(solo) in via temporanea. Ciò evidenza chiaramente che la
strada dell’affidamento di compiti gestionali ai segretari
sia percorribile solo in via transitoria, e in caso di
eccezionale assenza delle necessarie professionalità
all’interno dell’Ente (ex multis, Cass., S.L. 12.06.2007, n.
13708; Cons. St., Sez. V, 25.09.2006, n. 5625; cfr.
anche Parere Min. Interno 17.12.2008): solo in tal modo è
possibile conciliare la facoltà concessa dal citato art. 97, co. 4, lett. d), del t.u.o.e.l.,
da un lato (come detto) con
l’intestazione ex lege di tali funzioni ai dirigenti,
dall’altro con l’esercizio in concreto dei compiti
gestionali negli enti di piccole dimensioni (notoriamente
privi di dirigenza e, sovente, anche di dipendenti inidonei
a svolgerle) o in particolari frangenti, tali da generare
situazioni di paralisi gestionale non risolvibili aliunde
(ex multis, Tar Piemonte, sez. II, 04.11.2008 n. 2739; Cons.
St., sez. IV, 21.08.2006 n. 4858). Dunque, nel rispetto di
tali presupposti al segretario possono essere attribuite
funzioni dirigenziali”.
L’ultimo passaggio enfatizzato in
grassetto smentisce le diverse ed erronee conclusioni cui,
invece, purtroppo è giunta la Consulta.
Può, comunque, un comune decidere per scelta organizzativa
di puntare su un segretario “dirigente apicale” di fatto e
quindi in ogni caso dotarlo di funzioni dirigenziali in via
continuativa, sì da giustificare anche una remunerazione
superiore alle maggiorazioni previste contrattualmente?
La risposta della Sezione Puglia è radicale e negativa: “Non
coglie nel segno sul punto l’assunto difensivo che fa leva
sulla asserita legittimità della retribuzione di posizione
in quanto finalizzata a remunerare funzioni gestionali
affidate non in via temporanea ma continuativa. In
proposito, per vero, è appena il caso di osservare che
la
stessa attribuzione di funzioni gestionali affidate non in
via temporanea, ma stabile e duratura al segretario generale
–sia pure attraverso diversi provvedimenti a tempo
riguardanti distinti servizi– si appalesa contra legem
perché effettuata in difetto dei presupposti normativi”.
C’è un vizio di legittimità genetico e non superabile nella
scelta di attribuire funzioni gestionali ai segretari
comunali. Che, per altro, sebbene spesso ottengano queste
funzioni a seguito delle “contrattazioni” spesso improprie
coi sindaci, poi pagano molto caramente, in termini di
serenità operativa e condizioni di lavoro, la disponibilità
data a riscontro delle maggiorazioni contrattuali.
Nel caso di specie, lo sconcerto mostrato dalla Corte dei
conti, sorge anche solo guardando l’incredibile elenco di
incarichi dirigenziali assegnati al segretario, con
molteplici decreti sindacali:
-
gestione dell’Ufficio Legale,
-
gestione della Segreteria Comunale,
-
gestione della Presidenza del Consiglio Comunale,
-
gestione del Servizio Sistemi Informativi e Statistica,
-
gestione del Contratto d’Area,
-
gestione del del 2° Settore “Attuazione Politiche per
l’Occupazione”,
-
gestione del del 5° Settore “Attuazione Politiche Sociali,
Educative, Culturali e Ricreative”,
-
gestione dell’Ufficio di Piano.
Una “non organizzazione”, uno schema organizzativo
semplicemente assurdo e non credibile, con una
concentrazione direzionale ingiustificabile, implausibile e
oggettivamente irrazionale.
Per altro, spiega la sentenza della Sezione Puglia “nessuno
dei competenti decreti sindacali di conferimento evidenzia
(se non nel limitato caso di cui al decreto n. 52 del
13.10.2010, in cui il segretario è stato incaricato ad
interim, per tre giorni, della gestione del Settore Bilancio
a causa del congedo del titolare dell’ufficio) alcun
elemento da cui arguire la mancanza in concreto di idonee
professionalità all’interno dell’Ente o la presenza di
situazioni contingenti di sorta, ulteriori rispetto alla
richiamata astratta esigenza di riorganizzare gli uffici, o
a quella generica di sgravare il dirigente fino ad allora
designato dal relativo carico”.
Indicazioni che sarebbero
state ancor più generali, in considerazione della dimensione
del comune, di quasi 60.000 abitanti, che, secondo la Corte
“induce ad ipotizzare –in difetto di contrarie allegazioni– un organico dirigenziale di assoluto rilievo e
consistenza, anche in termini di presenza di idonee figure
dirigenziali nei settori di competenza gestionale affidati,
invece, al segretario”.
La conclusione della Corte è caustica: “In definitiva,
il
sistema ordinamentale sopra tratteggiato [...] non consente
che ai segretari siano conferite funzioni gestionali in
pianta stabile, se non nei casi limite sopra indicati
(comuni privi di idonee figure dirigenziali, situazioni di
paralisi gestionale, ecc.) e previa adeguata motivazione”.
Laddove i segretari sono caricati di queste funzioni, la
verifica puntuale spesso porterebbe ad osservare situazioni
del tutto improprie, come quelle della sentenza, in cui la
caccia alla mostrina di “dirigente apicale” porta a
situazioni paradossali e dannose per l’erario; oppure, a
situazioni del tutto opposte, nelle quali, specie in piccoli
comuni, il segretario viene subissato di funzioni e
competenze, senza mezzi, senza strumenti, con strutture
spesso torpide, che agiscono a “tenaglia” con
l’amministrazione nello schiacciare l’ordinato svolgersi
delle competenze della figura.
La Corte costituzionale con la
sentenza
22.02.2019 n. 23 ha perso
l’occasione enorme di riallineare l’ordinamento a logica e
razionalità. La sentenza della Corte dei conti della Puglia
è lì, scolpita, a ricordarci di questa occasione
drammaticamente sfuggita. |
|
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
inammissibile, per carenza del requisito della lesività, il ricorso proposto
per l'annullamento giurisdizionale di un atto comunale recante una mera
“diffida” ad eseguire interventi urgenti di messa in sicurezza di immobili.
Trattasi, infatti, di atto che assume carattere meramente preparatorio, a
rigore nemmeno necessario, rispetto all'adozione della successiva ordinanza
contingibile ed urgente, prevista dall’art. 54, comma 2, del T.U.E.L., la
quale costituisce il provvedimento conclusivo del procedimento.
---------------
Per poter essere eseguita, l'ordinanza contingibile ed urgente può dirigersi
nei confronti del destinatario solamente per la realizzazione di lavori su
beni di cui lo stesso è proprietario e che rientrino nella sua disponibilità
ossia che si trovi in rapporto tale con la fonte di pericolo da consentirgli
di eliminare la riscontrata situazione di rischio.
---------------
Invero, con specifico riferimento all’ultimo atto indicato, va richiamata la
pacifica giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. per tutte, Consiglio
di Stato, sez. V, 20.08.2015, n. 3955; TAR Campania, Napoli, sez. V,
26.05.2016, n. 2719 e 15.12.2016, n. 5781), secondo cui è inammissibile, per
carenza del requisito della lesività, il ricorso proposto per l'annullamento
giurisdizionale di un atto comunale recante una mera “diffida” ad
eseguire interventi urgenti di messa in sicurezza di immobili. Trattasi,
infatti, di atto che assume carattere meramente preparatorio, a rigore
nemmeno necessario, rispetto all'adozione della successiva ordinanza
contingibile ed urgente, prevista dall’art. 54, comma 2, del T.U.E.L., la
quale costituisce il provvedimento conclusivo del procedimento.
2.2. Da quanto precede emerge, con
tutta evidenza, che gli odierni ricorrenti, al momento dell’emissione delle
ordinanze sindacali impugnate, non avevano la materiale disponibilità
dell’immobile in questione e che tale situazione di fatto, non conforme a
quella di diritto, è dipendente dal comportamento inerte tenuto dallo stesso
Comune di Napoli, il quale non ha ancora provveduto a sgomberare lo stabile
dagli occupanti sine titulo ed a restituirlo agli aventi diritto,
così come statuito nella sentenza del Tribunale di Napoli n. 683/2014.
2.3. Orbene, le riferite circostanze sono sufficienti a fondare la diagnosi
di illegittimità dei provvedimenti in discussione, siccome carenti,
anzitutto, del necessario presupposto soggettivo, atteso che i ricorrenti,
al momento della loro adozione, non avevano la disponibilità materiale dei
beni in questione e, pertanto, non erano nella condizione di eliminare la
riscontrata situazione di pericolo (cfr, ex multis, TAR Liguria, sez.
I, 19.04.2013, n. 702 e 27.01.2016, n. 82; TAR Campania, Napoli, sez. V,
16.04.2007, n. 3722). Invero, per poter essere eseguita, l'ordinanza
contingibile ed urgente può dirigersi nei confronti del destinatario
solamente per la realizzazione di lavori su beni di cui lo stesso è
proprietario e che rientrino nella sua disponibilità ossia che si trovi in
rapporto tale con la fonte di pericolo da consentirgli di eliminare la
riscontrata situazione di rischio.
Nel caso di specie risulta pertanto scorrettamente esercitato il potere di
ordinanza ex art. 54 T.U.E.L., non potendo esigersi dai privati l’esecuzione
dei lavori ivi indicati e l’obbligo di non far praticare i luoghi da terzi
prima dell’avvenuto reintegro nel possesso, sgombero e ripristino dello
stato dei luoghi a cura del Comune di Napoli.
Risulta pertanto, fondata, oltre che assorbente, la censura dedotta
nell’ambito del primo motivo di mancanza del requisito soggettivo necessario
per configurare la legittimazione passiva dei ricorrenti (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 01.08.2019 n. 4227 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI: Nel
nostro ordinamento, il riparto delle competenze professionali tra la figura
dell’ingegnere e quella dell’architetto è tuttora dettato dal R.D.
23.10.1925 n. 2537 che, all’art. 51, riconosce spettanti alla professione
d'ingegnere le progettazioni per le costruzioni e per le industrie, per i
lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di
comunicazione, per le costruzioni di ogni specie, per le macchine e gli
impianti industriali, nonché in generale applicative della fisica, con i
rilievi geometrici e le operazioni di estimo.
Ai sensi dell’art. 52, invece, formano oggetto tanto della professione di
ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché
i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative, ad
eccezione delle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere
artistico e il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla
legislazione sui beni culturali, che sono di spettanza esclusiva della
professione di architetto.
In sostanza, la competenza
professionale dell’architetto concorre con quella dell’ingegnere per la
progettazione delle sole opere di edilizia civile, essendo riservate alla
professione ingegneristica le progettazioni di tutti i lavori non compresi
nella costruzione di edifici.
In estrema sintesi tutte le progettazioni tecniche che non attengono
all’edilizia civile rientrano nell’ambito delle competenze dei soli
ingegneri, mentre la progettazione attinente all’edilizia civile può essere
svolta anche dagli architetti, oltre che dagli ingegneri.
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Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente
afferma che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa, in quanto la sua
offerta tecnica, per la parte relativa alla componente impiantistica dei gas
medicali, sarebbe stata illegittimamente sottoscritta da un architetto e non
invece da un ingegnere, secondo quanto disposto dagli artt. 51, 52 e 54 del
R.D. 13.10.1925 n. 2537 recante il Regolamento per le professioni di
ingegnere e di architetto.
Il rilievo è fondato.
Sul punto il Collegio ritiene di non discostarsi dal proprio orientamento di
recente confermato, secondo cui “nel nostro ordinamento, il riparto delle
competenze professionali tra la figura dell’ingegnere e quella
dell’architetto è tuttora dettato dal R.D. 23.10.1925 n. 2537 che, all’art.
51, riconosce spettanti alla professione d'ingegnere le progettazioni per le
costruzioni e per le industrie, per i lavori relativi alle vie ed ai mezzi
di trasporto, di deflusso e di comunicazione, per le costruzioni di ogni
specie, per le macchine e gli impianti industriali, nonché in generale
applicative della fisica, con i rilievi geometrici e le operazioni di
estimo; ai sensi dell’art. 52, invece, formano oggetto tanto della
professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia
civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse
relative, ad eccezione delle opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico e il restauro e il ripristino degli edifici
contemplati dalla legislazione sui beni culturali, che sono di spettanza
esclusiva della professione di architetto; in sostanza, la competenza
professionale dell’architetto concorre con quella dell’ingegnere per la
progettazione delle sole opere di edilizia civile, essendo riservate alla
professione ingegneristica le progettaioni di tutti i lavori non compresi
nella costruzione di edifici” (cfr. TAR Campania, Napoli, I Sez. I, 20.04.2016 n. 1968; Id. 14.09.2016, n. 4299).
In estrema sintesi tutte le progettazioni tecniche che non attengono
all’edilizia civile rientrano nell’ambito delle competenze dei soli
ingegneri, mentre la progettazione attinente all’edilizia civile può essere
svolta anche dagli architetti, oltre che dagli ingegneri (cfr. TAR Campania,
Sez. I, 15.01.2019, n. 231).
Ora, è vero che il Disciplinare di gara (pag. 10) prevedeva espressamente
che la documentazione relativa all’offerta tecnica dovesse essere timbrata e
firmata “da un tecnico abilitato alla professione (ingegnere e/o
architetto)”, ma tale riferimento doveva essere letto secondo diritto nel
senso, cioè, che occorreva comunque la sottoscrizione da parte di un tecnico
abilitato -un ingegnere ovvero un architetto a seconda del contenuto
dell’offerta tecnica- con la conseguenza che nel caso di interventi di
carattere non edilizio, e quindi non di competenza di un architetto, la
proposta dovesse essere sottoscritta da un ingegnere, in quanto unico
tecnico abilitato a farlo, non potendo la lex specialis derogare al riparto
di competenze legislativamente disegnato, ma anzi dovendo essere letta (in
tal senso deve intendersi l’alternativa “e/o" di cui al Disciplinare) come
operante un rinvio alle predette norme di legge.
Del resto, ai fini della valutazione delle competenze necessarie alla
sottoscrizione della parte impiantistica, occorre tenere conto che nel caso
di specie oggetto dell’offerta migliorativa era un impianto relativo a gas
medicali, ovvero una tipologia di intervento che non rientra nell’ambito
delle opere ancillari a quelle civili (ad esempio impianti idraulici ed
elettrici ad uso abitativo) sulle quali si potrebbe ipotizzare una
competenza anche degli architetti, trattandosi di opere, appunto,
normalmente collegate a quelle edili/civili.
Invece, l’impianto in questione è autonomo rispetto alle opere edilizie ed è
verosimilmente connotato da proprie peculiarità tecniche di tipo
ingegneristico, non rilevando quale fosse l’incidenza percentuale di tale
lavorazione rispetto a quelle complessivamente richieste (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 21.11.2018, n. 2018) e senza che potesse ammettersi soccorso
istruttorio, atteso che la sottoscrizione da parte di un professionista
“abilitato” costituiva un elemento qualificante dell’offerta la cui mancanza
era sanzionata espressamente a pena di esclusione nel Disciplinare.
In definitiva il motivo si rivela fondato l’offerta della controinteressata
andava esclusa secondo quanto previsto espressamente dal Disciplinare.
Il ricorso deve pertanto essere accolto e l’aggiudicazione deve essere
annullata, mentre nulla deve essere disposto con riguardo alla domanda di
declaratoria di inefficacia del contratto e di subentro, avendo l’ASL
intimata dichiarato che il contratto non è stato ancora stipulato
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 30.07.2019 n. 4169 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: E'
ancora attuale la ripartizione delle competenze tra architetti e ingegneri
risultante dagli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537
(Regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto) e succ. mod.,
in quanto le previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore
dall’art. 1 del d.P.R. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli artt. 16
(per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione
A), di cui allo stesso d.P.R., e sono compatibili col nuovo assetto degli
studi, perciò tuttora applicabili.
Pertanto, la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli
fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione
letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D..
---------------
1) – la competenza concorrente di ingegneri e architetti si ha
soltanto nell’ambito delle opere di edilizia civile e per gli impianti
tecnologici strettamente connessi a edifici e fabbricati ed in tale senso ha
deciso questo Consiglio di Stato nella sentenza n. 1550/2013 citata dagli
appellanti;
Restano pertanto di competenza esclusiva degli ingegneri, ai sensi dell’art.
51 del R.D. n. 2357 del 1925, gli interventi edilizi ed urbanistici che
consistano in “progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche”,
quando non siano connessi a determinati edifici o fabbricati, cioè attengano
alle opere di urbanizzazione primaria.
In senso contrario non si può argomentare, nel caso
di specie, mediante il riferimento ad alcuni soltanto dei lavori di somma
urgenza indicati dal Comune, per i quali varrebbe la competenza concorrente
(poiché attinenti ad opere riguardanti edifici, scolastici o vincolati),
senza considerare che nell’ordinanza sindacale n. 179 del 2014 sono elencati
numerosi altri lavori non connessi ad edifici (interventi di riparazione di
ponti, strade e infrastrutture idrauliche) e di portata tale da dover essere
ascritti alla competenza esclusiva degli ingegneri.
Analogamente è a dirsi per le opere inserite nel Piano Triennale
dei Lavori Pubblici, che comprende interventi dell’un tipo e dell’altro, e
comunque interventi relativi alla viabilità ed alle infrastrutture di
competenza esclusiva degli ingegneri;
2) - quanto alla competenza esclusiva degli architetti sugli immobili di
interesse storico-artistico, non risulta significativo, nell’economia della
sentenza di primo grado, il riferimento alla competenza concorrente degli
ingegneri per quanto riguarda la “parte tecnica”.
Piuttosto, il primo giudice ha inteso sottolineare, non tanto la marginalità
in assoluto della competenza esclusiva degli architetti che interessa gli
edifici civili con rilevante carattere artistico e quelli vincolati, quanto
la marginale importanza che tali competenze rivestono se riferite al Settore
Lavori Pubblici di un comune –tanto più che tale affermazione trova
riscontro concreto nel Piano Triennale dei Lavori Pubblici del Comune che
prevede un numero piuttosto ridotto di interventi su immobili vincolati.
---------------
4. I motivi possono essere trattati unitariamente, prendendo le
mosse dalla giurisprudenza richiamata in sentenza e negli atti di parte,
secondo cui è ancora attuale la ripartizione delle competenze tra architetti
e ingegneri risultante dagli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537
(Regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto) e succ. mod.,
in quanto le previsioni regolamentari sono espressamente mantenute in vigore
dall’art. 1 del d.P.R. n. 328 del 05.06.2001, oltre che dagli artt. 16
(per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione
A), di cui allo stesso d.P.R., e sono compatibili col nuovo assetto degli
studi, perciò tuttora applicabili (come riconosciuto da Cons. Stato, IV, 05.06.2009, n. 4866 e id., VI, 15.03.2013, n. 1550, nonché di recente id.,
V, 21.11.2018, n. 6593).
Pertanto, la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli
fabbricati, è di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione
letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr.
Cons. Stato, IV, 22.05.2000, n. 2938; id., V, 06.04.1998, n. 416; id.,
IV, 19.02.1990, n. 92).
4.1. Tutto ciò premesso, i motivi di appello, come appresso richiamati
mediante l’indicazione del numero, vanno respinti per le ragioni seguenti:
1) – la competenza concorrente di ingegneri e architetti si ha soltanto
nell’ambito delle opere di edilizia civile e per gli impianti tecnologici
strettamente connessi a edifici e fabbricati ed in tale senso ha deciso
questo Consiglio di Stato nella sentenza n. 1550/2013 citata dagli
appellanti; restano pertanto di competenza esclusiva degli ingegneri, ai
sensi dell’art. 51 del R.D. n. 2357 del 1925, gli interventi edilizi ed
urbanistici che consistano in “progettazione di costruzioni stradali, opere igienico-sanitarie, impianti elettrici, opere idrauliche”, quando non siano
connessi a determinati edifici o fabbricati, cioè attengano alle opere di
urbanizzazione primaria; in senso contrario non si può argomentare, nel caso
di specie, mediante il riferimento ad alcuni soltanto dei lavori di somma
urgenza indicati dal Comune di Novi Ligure, per i quali varrebbe la
competenza concorrente (poiché attinenti ad opere riguardanti edifici,
scolastici o vincolati), senza considerare che nell’ordinanza sindacale n.
179 del 2014 sono elencati numerosi altri lavori non connessi ad edifici
(interventi di riparazione di ponti, strade e infrastrutture idrauliche) e
di portata tale da dover essere ascritti alla competenza esclusiva degli
ingegneri; analogamente è a dirsi per le opere inserite nel Piano Triennale
dei Lavori Pubblici, che comprende interventi dell’un tipo e dell’altro, e
comunque interventi relativi alla viabilità ed alle infrastrutture di
competenza esclusiva degli ingegneri;
2) - quanto alla competenza esclusiva degli architetti sugli immobili di
interesse storico-artistico, non risulta significativo, nell’economia della
sentenza di primo grado, il riferimento alla competenza concorrente degli
ingegneri per quanto riguarda la “parte tecnica” (che trova parziale
smentita nel precedente di questo Consiglio di Stato n. 12/2014 citato dagli
appellanti); piuttosto, il primo giudice ha inteso sottolineare, non tanto
la marginalità in assoluto della competenza esclusiva degli architetti che
interessa gli edifici civili con rilevante carattere artistico e quelli
vincolati, quanto la marginale importanza che tali competenze rivestono se
riferite al Settore Lavori Pubblici di un comune –tanto più che tale
affermazione trova riscontro concreto nel Piano Triennale dei Lavori
Pubblici del Comune di Novi Ligure che prevede un numero piuttosto ridotto
di interventi su immobili vincolati
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 17.07.2019 n. 5012 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
In ordine alla
delimitazione delle competenze tra l’attività dei geometri e quella degli
ingegneri, possono riportarsi le puntuali e condivisibili cui è giunta la
giurisprudenza laddove si precisa quanto segue: “A norma dell'art. 16, lett.
m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n.
1086, e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere
in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla
l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla
competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture
in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia
l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti
nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie
rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il
calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un
architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di
quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento
armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a
norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si
tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni
di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui
progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto
riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi
professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni
introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi
avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni
argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze
professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei
geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da
evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti
margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della
modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di
calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura
di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili
dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o
"evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si
presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa
conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, l. 05.11.1971, n. 1086, e
art. 17, l. 02.02.1974, n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento
armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti
delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente
normativa professionale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle;
a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben
potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di
esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi
che esulano dalle competenze professionali dei geometri".
---------------
6. Con il secondo e quinto
motivo di appello si contesta il capo di sentenza che ha ravvisato la
violazione dell’art. 16 del r.d. n. 274/1929 con riferimento alla
professionalità specifica del geometra che ha redatto –come nella vicenda
qui in esame- il progetto di ricostruzione di un edificio sulla cui base è
stata rilasciata la concessione edilizia ritenuta illegittima dal giudice di
prime cure.
In particolare, con il secondo motivo si lamenta: Mancata valutazione
di un fatto. Omesso esame di motivo di diritto. Pronuncia ultra petita della
sentenza di primo grado.
Il progetto della struttura, contrariamente a quanto affermato nella
sentenza gravata, era assistito da progetto strutturale redatto da
ingegnere. Su tale argomento il Tribunale non si pronuncia nonostante
l'argomento sia stato spiegato a pag. 6 della memoria del 09.05.2012.
Quindi, il progetto della struttura è stato all'origine redatto da un
architetto mentre il geometra ha redatto il progetto d'insieme facendo
proprie le valutazioni e gli elaborati relativi alla struttura già
realizzati dal progettista laureato.
6.1. Con il quinto motivo si lamenta: Ulteriore violazione del
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Erroneità della
motivazione. Carenza di presupposto.
Il Comune –con il presente motivo– riprende le considerazioni già svolte in
riferimento alla professionalità specifica del geometra che dovrebbe essere
parametrata al carattere modesto della costruzione aspetto questo rimesso
alla piena discrezionalità tecnica del Comune e, dunque, sottratto alla
valutazione del Collegio.
6.2. I motivi sono infondati.
Rispetto alle questioni agitate nella presente controversia il Collegio
ritiene di dover richiamare il condiviso approdo giurisprudenziale cui è
pervenuto il Consiglio di Stato (V, 23.02.2015, n. 883; su cui pure CGA,
sentenza n. 74 del 03.03.2017) che in una vicenda del tutto analoga a quella
qui in discussione ha avuto modo di precisare che: "In ordine alla
delimitazione delle competenze tra l’attività dei geometri e quella degli
ingegneri, possono riportarsi le puntuali e condivisibili cui è giunta la
giurisprudenza, come si evincono dalla sentenza di questa stessa Sezione n.
2537 del 28.04.2011, nella quale si precisa quanto segue: “A norma dell'art.
16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll.
05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente
disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone
sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa
professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di
costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività
che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli
architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie
rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il
calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un
architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di
quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento
armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a
norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si
tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o
destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni
di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le
persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui
progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto
riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi
professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni
introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi
avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni
argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze
professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei
geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da
evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti
margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della
modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di
calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura
di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili
dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o
"evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si
presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa
conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, l. 05.11.1971, n. 1086, e
art. 17, l. 02.02.1974, n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento
armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti
delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente
normativa professionale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e
quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione
e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle;
a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben
potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di
esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio
alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi
che esulano dalle competenze professionali dei geometri.".
Nella fattispecie qui in esame la concessione edilizia impugnata attiene
alla ricostruzione di un edificio di tre elevazioni in zona sismica. Si
tratta di un aspetto che il giudice di prime cure ha giustamente posto in
rilievo e che depone nel senso della illegittimità della concessione
impugnata per essere il progetto redatto da un geometra, mentre nessun
rilievo può assumere il fatto che il parere favorevole del Genio Civile di
Catania sia stato espresso sul progetto strutturale redatto da un
architetto, perché trattasi di un aspetto estraneo alla doglianza avanzata
dai ricorrenti introduttivi che hanno dedotto l’illegittimità della
concessione edilizia perché il progetto di ricostruzione dell’edificio in
questione è stato elaborato da un geometra.
Conseguentemente il Comune si è illegittimamente determinato in senso
favorevole ai richiedenti, non curante che il territorio comunale ricade in
zona sismica e che la ricostruzione di un edificio di tre elevazioni non può
considerarsi un’opera modesta
(CGARS,
sentenza
31.12.2018 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: La
possibilità di scindere la progettazione architettonica dai
calcoli strutturali, attraverso distinti incarichi
professionali affidati rispettivamente a un geometra e a un
ingegnere, è coerente con la descrizione delle competenze
professionali dei geometri contenuta nell’art. 16 del RD
274/1929.
---------------
(f) per quanto riguarda le opere in cemento armato, la
difesa del Comune (v. memoria depositata il 19.10.2017) ha
chiarito che i relativi calcoli sono stati effettuati da un
ingegnere. Sussistono dunque tutte le garanzie necessarie
per l’incolumità delle persone. La possibilità di scindere
la progettazione architettonica dai calcoli strutturali,
attraverso distinti incarichi professionali affidati
rispettivamente a un geometra e a un ingegnere, è coerente
con la descrizione delle competenze professionali dei
geometri contenuta nell’art. 16 del RD 274/1929 (v. CS Sez.
II 04.09.2015 n. 2539; TAR Brescia Sez. II 18.04.2013 n.
361)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez, II,
sentenza 19.02.2018 n. 194 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Per
pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale ha carattere assoluto e non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere
incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le
esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura,
il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
detta situazione di inedificabilità, prodotta dal vincolo cimiteriale, è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali, in presenza
delle condizioni specificate nell'art. 338 comma 5, r.d. 01.07.1934, n.
1265.
Si tratta di una disciplina che, per le ragioni sin qui esposte, opera
indipendentemente dal suo recepimento nello strumento urbanistico e prevale
sugli strumenti urbanistici difformi.
Ne deriva che, a maggior ragione, prevale anche su una deliberazione
consiliare di riduzione della fascia di rispetto, che –avendo riguardo al
suo contenuto– possiede una natura latamente regolamentare o di
pianificazione e come tale va disapplicata.
---------------
Sempre per pacifica giurisprudenza, la situazione d'inedificabilità prodotta
dal vincolo cimiteriale è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi
eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, t.u.
leggi sanitarie: invero, tale ultima previsione “non presidia interessi
privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la
sacralità dei luoghi di sepoltura”.
Tra queste ultime sono ricomprese deroghe relative a nuovi piani
urbanistici: ai sensi dell'art. 338, comma 5, t.u. 27.07.1934, n. 1265 il
Consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici “per dare esecuzione
ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché
non vi ostino ragioni igienico-sanitarie”.
Tuttavia, sempre per giurisprudenza, la deroga al vincolo non può applicarsi
a fattispecie relative all’edilizia residenziale privata, chiarendosi che
“la locuzione "per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di
un intervento urbanistico" deve essere interpretata nel senso che gli
interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento
sono solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza pubblica e destinati a
soddisfare interessi pubblicistici di rilevanza almeno pari a quelli posti a
base della fascia di rispetto dei duecento metri”.
---------------
Deve invero rammentarsi che, per pacifica giurisprudenza, il vincolo
cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione
sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla
inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale; detta situazione di inedificabilità,
prodotta dal vincolo cimiteriale, è suscettibile di venire rimossa solo in
ipotesi eccezionali, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338,
comma 5, r.d. 01.07.1934, n. 1265 (Consiglio di Stato sez. IV, 06/10/2017,
n. 4656).
Si tratta di una disciplina che, per le ragioni sin qui esposte, opera
indipendentemente dal suo recepimento nello strumento urbanistico (Consiglio
di Stato, sez. IV, 05.12.2018, n. 6891; Consiglio di Stato, sez. IV,
23.04.2018, n. 2407) e prevale sugli strumenti urbanistici difformi
(Consiglio di Stato, sez. VI , 02.07.2018, n. 4018).
Ne deriva che, a maggior ragione, prevale anche su una deliberazione
consiliare di riduzione della fascia di rispetto, che –avendo riguardo al
suo contenuto– possiede una natura latamente regolamentare o di
pianificazione e come tale va disapplicata (sulla disapplicazione degli atti
a natura regolamentare, vedasi da ultimo Consiglio di Stato, sez. V,
04.02.2019, n. 821, Consiglio di Stato, sez. VI , 24.10.2017, n. 4894).
Pertanto, il primo e principale argomento di ricorso non può trovare
accoglimento.
Quanto al secondo aspetto che caratterizza la fattispecie deve rammentarsi
che, sempre per pacifica giurisprudenza, la situazione d'inedificabilità
prodotta dal vincolo cimiteriale è suscettibile di venire rimossa solo in
ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse
pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell' art. 338, quinto
comma, t.u. leggi sanitarie (Consiglio di Stato, sez. IV , 13.12.2017, n.
5873, che specifica che tale ultima previsione “non presidia interessi
privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la
sacralità dei luoghi di sepoltura”; sulla necessità di stretta
interpretazione delle deroghe di cui al quinto comma dell’art. 338 cit., si
veda Consiglio di Stato, sez. IV , 06.10.2017, n. 4656).
Tra queste ultime sono ricomprese deroghe relative a nuovi piani
urbanistici: ai sensi dell'art. 338, comma 5, t.u. 27.07.1934, n. 1265 il
Consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici “per dare
esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento
urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie” (sul
punto, vedasi TAR, Ancona, sez. I , 19.02.2018, n. 125).
Tuttavia, sempre per giurisprudenza, la deroga al vincolo non può applicarsi
a fattispecie relative all’edilizia residenziale privata, chiarendosi che “la
locuzione "per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un
intervento urbanistico" deve essere interpretata nel senso che gli
interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento
sono solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza pubblica e destinati a
soddisfare interessi pubblicistici di rilevanza almeno pari a quelli posti a
base della fascia di rispetto dei duecento metri” (Cassazione penale ,
sez. III, 13/01/2009, n. 8626, e richiami di giurisprudenza, sia penale che
amministrativa, ivi riportati)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 15.07.2019 n. 9358 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza ampiamente consolidata, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D.
n. 1265/1934 (e dall'art. 57 d.P.R. n. 285/1990) determina una situazione di
inedificabilità ex lege e non necessita di essere recepito dagli strumenti
urbanistici, sui quali si impone come limite legale nei confronti delle
previsioni urbanistiche locali eventualmente incompatibili.
Il vincolo ha carattere assoluto e non consente l’allocazione di edifici o
costruzioni all’interno della fascia di rispetto, a tutela dei molteplici
interessi pubblici cui quest’ultima presiede e che vanno dalle esigenze di
natura igienico sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, al mantenimento di
un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
A escludere l’inedificabilità non rilevano la tipologia del fabbricato o la
natura pertinenziale della costruzione, e gli unici interventi assentibili
all’interno della fascia di rispetto sono quelli indicati dal settimo comma
dell’art. 338 cit. sugli edifici esistenti, con il limite della funzionalità
all’utilizzo degli edifici stessi.
La situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di
venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per
considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nel quinto comma dell’art. 338, norma eccezionale e di stretta
interpretazione che non presidia interessi privati e opera in relazione a
specifiche domande edificatorie, nel senso che l’autorizzazione
eventualmente rilasciata è frutto di una valutazione caso per caso e non può
mai costituire la base legale di un’autorizzazione a costruire in futuro
nella fascia di rispetto.
---------------
2.1. Il motivo è infondato.
L’art. 338 R.D. n. 1265/1934 fa divieto di costruire intorno ai cimiteri “nuovi
edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto
cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune
o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe
ed eccezioni previste dalla legge”.
La disposizione è stata modificata dalla legge n. 166/2002 mediante la
sostituzione, per quanto qui interessa, dei commi quinto e settimo, i quali
rispettivamente stabiliscono:
- “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di
un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie,
il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della
competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto
tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando
l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La
riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura
anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici
e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”;
- “All'interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti
sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali
all'utilizzo dell'edificio stesso, tra cui l'ampliamento nella percentuale
massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli
previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell'articolo 31
della legge 05.08.1978, n. 457”.
Per giurisprudenza ampiamente consolidata, cui il collegio intende dare
continuità, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 (e dall'art.
57 d.P.R. n. 285/1990) determina una situazione di inedificabilità ex
lege e non necessita di essere recepito dagli strumenti urbanistici, sui
quali si impone come limite legale nei confronti delle previsioni
urbanistiche locali eventualmente incompatibili. Il vincolo ha carattere
assoluto e non consente l’allocazione di edifici o costruzioni all’interno
della fascia di rispetto, a tutela dei molteplici interessi pubblici cui
quest’ultima presiede e che vanno dalle esigenze di natura igienico
sanitaria, alla salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati
alla inumazione e alla sepoltura, al mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale. A escludere l’inedificabilità non
rilevano la tipologia del fabbricato o la natura pertinenziale della
costruzione, e gli unici interventi assentibili all’interno della fascia di
rispetto sono quelli indicati dal settimo comma dell’art. 338 cit. sugli
edifici esistenti, con il limite della funzionalità all’utilizzo degli
edifici stessi (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato sez. IV, 23.04.2018, n.
2407; id., sez. VI, 27.02.2018, n. 1164; id., sez. VI, 06.10.2017, n. 4656;
id., sez. V, 18.01.2017, n. 205; TAR Toscana, sez. III, 22.10.2018, n. 1351;
id., 02.02.2015, n. 183; id., 12.11.2013, n. 1553; id., 12.07.2010, n. 2446;
id., 11.06.2010, n. 1815).
La situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di
venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per
considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nel quinto comma dell’art. 338, norma eccezionale e di stretta
interpretazione che non presidia interessi privati e opera in relazione a
specifiche domande edificatorie, nel senso che l’autorizzazione
eventualmente rilasciata è frutto di una valutazione caso per caso e non può
mai costituire la base legale di un’autorizzazione a costruire in futuro
nella fascia di rispetto (cfr. Cons. Stato, IV, n. 4656/2017, cit., e i
precedenti ivi richiamati).
Nella specie, a tacere d’altro, il ricorrente non ha allegato l’esistenza di
alcun profilo di interesse generale in virtù del quale il Comune intimato
avrebbe dovuto prendere in considerazione in suo favore l’ipotesi della
deroga.
Né è dimostrata la sussistenza delle condizioni richieste dal settimo comma
dell’art. 338, che, come detto, disciplina gli interventi di recupero o
funzionali all’utilizzo degli edifici esistenti. Più in particolare, non vi
sono elementi oggettivi a conferma della tesi secondo cui le opere da sanare
sarebbero compatibili con gli stringenti limiti derivanti dall’esistenza del
vincolo cimiteriale e che, di conseguenza, il Comune avrebbe errato nel
qualificarle come nuove costruzioni.
3. In forza delle considerazioni che precedono, il ricorso non può trovare
accoglimento
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.07.2019 n. 1048 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
consolidata giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva
e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare
rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, esso si impone di per sé, con
efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti.
A conferma del particolare rigore che presidia l’interpretazione
dell’art. 338 cit. R.D. n.
1265/1934 va ricordato che numerose sono le pronunce intervenute a
individuare portata e limiti delle modifiche apportate all’art. 338 cit.
dalla novella del 2002 (peraltro inapplicabile alla fattispecie ratione
temporis), rispetto a richieste di privati.
Si è, infatti, affermato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di
stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la
conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta
attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell’elencazione delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti).
---------------
L’esistenza del vincolo cimiteriale nell’area nella quale è stato realizzato
un manufatto abusivo, comportando l’inedificabilità assoluta, impedisce il
rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 33, l. n. 47 del
1985, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta
compatibilità dell’opera con i valori tutelati dal vincolo.
---------------
7. Il motivo è infondato e va rigettato.
7.1. La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (da ultimo sez. VI,
n. 1164 del 2018; sez. IV, n. 5873 del 2017) ha affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva
e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare
rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, esso si impone di per sé, con
efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti.
7.1.1. A conferma del particolare rigore che presidia l’interpretazione
dell’art. 338 cit. va ricordato che numerose sono le pronunce intervenute a
individuare portata e limiti delle modifiche apportate all’art. 338 cit.
dalla novella del 2002 (peraltro inapplicabile alla fattispecie ratione
temporis), rispetto a richieste di privati (Cons. Stato sez. IV n. 4656 del
2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014).
Si è, infatti, affermato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di
stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la
conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta
attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell’elencazione delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti).
7.2. Dall’applicazione dei principi richiamati alla fattispecie consegue la
manifesta infondatezza dell’appello.
Nella controversia non è messa in discussione la costruzione abusiva del
manufatto all’interno della fascia di rispetto di ml 200 dal cimitero. Si
deduce, infatti, l’erronea ricomprensione dello stesso nel centro abitato,
perché non basata su idonea delibera comunale di perimetrazione, ed il
carattere isolato della costruzione; tutto al fine di sostenere che il
Comune avrebbe dovuto valutare la compatibilità dell’immobile con il
vincolo, sull’erroneo presupposto che la presenza di alcuni edifici nella
fascia di rispetto non concreta di per sé una violazione della stessa.
8. Naturalmente, dall’esistenza del vincolo che comporta l’inedificabilità
dell’area di rispetto, deriva l’esclusione di ogni condono, ai sensi
dell’art. 33, co. 1, lett. d), della l. n. 47 del 1985.
La giurisprudenza è univoca in tal senso per i vincoli riconducibili alla
suddetta disposizione (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, n. 3860 del 2017,
n. 4564 del 2015), tra i quali, in particolare, il vincolo cimiteriale (Cons.
Stato, sez. VI, n. 3410 del 2014; sez. IV, n. 6547 del 2009; sez. IV, n.
1185 del 2007).
Infatti, secondo i principi enucleati dalla suddetta giurisprudenza,
l’esistenza del vincolo cimiteriale nell’area nella quale è stato realizzato
un manufatto abusivo, comportando l’inedificabilità assoluta, impedisce il
rilascio della concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 33, l. n. 47 del
1985, senza necessità di compiere valutazioni in ordine alla concreta
compatibilità dell’opera con i valori tutelati dal vincolo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.07.2019 n. 4692 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Com'è noto, il vincolo cimiteriale persegue una triplice finalità:
- in primo luogo, vuole assicurare condizioni di igiene e dì
salubrità mediante la conservazione di una sorta di "cintura sanitaria"
intorno allo stesso cimitero;
- in secondo luogo è finalizzato a garantire la tranquillità ed il
decoro ai luoghi di sepoltura;
- in terzo luogo è diretto a consentire futuri ampliamenti
dell'impianto funerario.
Proprio in considerazione di tale ultima finalità, l'attuale quarto comma
dell'art. 338 R.D. n. 1265/1934 -modificato dall'art. 28, comma 1, lett. b), L.
01.08.2002, n. 166- ha ulteriormente limitato la possibilità di derogare al
divieto assoluto di inedificabilità, circoscrivendola alle sole ipotesi di
costruzione di opere afferenti nuovi impianti cimiteriali o ampliamento di
quelli esistenti, peraltro riferita a due tassative ipotesi quali le
particolari condizioni locali (quindi, ove non sia possibile provvedere
altrimenti); ovvero, che l'impiantò cimiteriale sia separato dal centro
urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale sulla base della
classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi,
laghi, o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti
ferroviari.
La modifica della disciplina del vincolo cimiteriale quindi, nel restringere
le ipotesi di derogabilità della fascia di rispetto, ricompresa nei 200 m.
dal perimetro dell'impianto funerario alle sole opere afferenti gli impianti
cimitériali, riconferma la natura assoluta del vincolo di inedificabilità
ivi insistente per ogni altra opera.
Inoltre, deve evidenziarsi che la norma di cui all'art. 338 mira ad
assicurare condizioni di igiene e salubrità nell'area posta intorno al
cimitero, a garantire la tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura
ed infine a consentire futuri ampliamenti del cimitero medesimo.
---------------
Pertanto, l'art. 338, comma 1, T.U. cit., il cui testo è stato parzialmente
modificato dall'art. 28 della L. 01.08.2002, n. 166, che ha peraltro
confermato il limite della zona di rispetto, nel vietare la costruzione di
nuovi edifici o fabbricati nel raggio di 200 m. dai cimiteri, si riferisce a
qualsiasi tipo di costruzione anche se destinata ad uso diverso da quello di
abitazione, come ha confermato pacifica giurisprudenza, che ha avuto modo di
riconoscere che il vincolo di inedificabilità sull'area di rispetto
cimiteriale è assoluto.
Infatti, anche le opere edilizie qualificate come pertinenze soggiacciono
all'obbligo di conformità allo strumento urbanistico e, a più forte ragione,
al vincolo urbanistico di grado superiore, derogabile solo "ex lege"
e posto per la salvaguardia di interessi rilevanti.
Com'è noto, il predetto vincolo cimiteriale persegue una triplice finalità:
- in primo luogo, vuole assicurare condizioni di igiene e dì
salubrità mediante la conservazione di una sorta di "cintura sanitaria"
intorno allo stesso cimitero;
- in secondo luogo è finalizzato a garantire la tranquillità ed il
decoro ai luoghi di sepoltura;
- in terzo luogo è diretto a consentire futuri ampliamenti
dell'impianto funerario.
Proprio in considerazione di tale ultima finalità, l'attuale quarto comma
del predetto art. 338 -modificato dall'art. 28, comma 1, lett. b), L.
01.08.2002, n. 166- ha ulteriormente limitato la possibilità di derogare al
divieto assoluto di inedificabilità, circoscrivendola alle sole ipotesi di
costruzione di opere afferenti nuovi impianti cimiteriali o ampliamento di
quelli esistenti, peraltro riferita a due tassative ipotesi quali le
particolari condizioni locali (quindi, ove non sia possibile provvedere
altrimenti); ovvero, che l'impiantò cimiteriale sia separato dal centro
urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale sulla base della
classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi,
laghi, o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti
ferroviari.
La modifica della disciplina del vincolo cimiteriale quindi, nel restringere
le ipotesi di derogabilità della fascia di rispetto, ricompresa nei 200 m.
dal perimetro dell'impianto funerario alle sole opere afferenti gli impianti
cimitériali, riconferma la natura assoluta del vincolo di inedificabilità
ivi insistente per ogni altra opera.
Inoltre, deve evidenziarsi che la norma di cui all'art. 338 mira ad
assicurare condizioni di igiene e salubrità nell'area posta intorno al
cimitero, a garantire la tranquillità ed il decoro dei luoghi di sepoltura
ed infine a consentire futuri ampliamenti del cimitero medesimo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 04.07.2019 n. 4587 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina di cui all'art. 338 del Testo Unico delle leggi sanitarie vieta
l'edificazione in fascia di rispetto di manufatti che per inamovibilità e
incorporazione al suolo costituiscono delle costruzioni edilizie.
Il vincolo cimiteriale, come è noto, ha carattere assoluto, valevole per
ogni singolo fabbricato e per ogni tipo di costruzione trattandosi di un
divieto di edificazione posto a tutela della natura e della salubrità dei
luoghi, per cui non opera alcuna distinzione tra manufatti, riguardando
anche gli eventuali manufatti (in ipotesi) pertinenziali.
---------------
3. Deve inoltre osservarsi, come bene ha evidenziato il TAR, che le opere
abusive in esame si trovano in zona di rispetto cimiteriale, ovvero ad una
distanza inferiore al fissato limite di rispetto al cimitero di Quarto e la
disciplina di cui all'art. 338 del Testo Unico delle leggi sanitarie vieta
l'edificazione in fascia di rispetto di manufatti che per inamovibilità e
incorporazione al suolo costituiscono delle costruzioni edilizie, con la
conseguenza che il fabbricato dell’appellante è del tutto incompatibile con
la disciplina di tutela in questione.
Il vincolo cimiteriale, come è noto, ha carattere assoluto, valevole per
ogni singolo fabbricato e per ogni tipo di costruzione trattandosi di un
divieto di edificazione posto a tutela della natura e della salubrità dei
luoghi, per cui non opera alcuna distinzione tra manufatti, riguardando
anche gli eventuali manufatti (in ipotesi) pertinenziali
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 04.07.2019 n. 4586 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La consolidata giurisprudenza sulla materia ha nello specifico chiarito che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva
e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare
rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di
per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in
strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura,
ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell’art. 338, quinto comma, norma che non presidia interessi
privati e non può quindi legittimare interventi edilizi futuri su un’area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la
sacralità dei luoghi di sepoltura;
e) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell’art. 338 (recupero o cambio di destinazione d’uso di
edificazioni preesistenti), mentre resta attivabile nel solo interesse
pubblico -come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma,
delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione
della fascia inedificabile.
---------------
13. Egualmente infondato si presenta anche il motivo di appello con
il quale si vuole affermare la compatibilità dell’intervento, quand’anche
necessitante di permesso di costruire, con gli interessi e i valori che il
cosiddetto vincolo cimiteriale di cui all’art. 338, comma 1, del r.d. n.
1265/1934 (T.U.L.S.) è chiamato a salvaguardare. Tale vincolo, infatti, si
connota come di inedificabilità assoluta e conseguente inderogabilità,
almeno per regola generale, dalla pianificazione urbanistica comunale (cfr.
ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 12.02.2019, n. 1013; id., 15.10.2018, n. 5911; id., Sez. IV,
06.10.2017, n. 4656).
Dispone dunque il ridetto art. 338, comma 1, che: “I cimiteri devono essere
collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato
costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti
urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale
esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”.
Il
quinto comma a sua volta, nel testo da ultimo sostituito dall’art. 28, comma
1, lett. b), della legge n. 166/2002, aggiunge che: “Per dare esecuzione ad
un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non
vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la
riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di
pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la
costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi,
giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive,
locali tecnici e serre”.
La consolidata giurisprudenza sulla materia, dalla quale non è motivo di
discostarsi, ha nello specifico chiarito che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a
carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non
suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva
e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare
rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici (v. Cass.
civ., Sez. I, 20.12.2016, n. 26326);
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di
possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, Sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di
per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in
strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura,
ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, Sez. IV, 22.11.2013, n. 5544; Cass. civ., Sez. I, 17.10.2011, n. 2011; id.,
Sez. I, n. 26326 del 2016, cit.);
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell’art. 338, quinto comma, norma che non presidia interessi
privati e non può quindi legittimare interventi edilizi futuri su un’area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la
sacralità dei luoghi di sepoltura;
e) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell’art. 338 (recupero o cambio di destinazione d’uso di
edificazioni preesistenti), mentre resta attivabile nel solo interesse
pubblico -come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma,
delle opere ammissibili ai fini della riduzione- la procedura di riduzione
della fascia inedificabile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n.
3667; nonché id., 04.07.2014, n. 3410).
Orbene, ritiene il Collegio che nella vicenda in esame da un lato manchi la
prevista connotazione delle opere realizzate, per cui si verte nella
fattispecie di vincolo assoluto di inedificabilità contemplato dal primo
comma della disposizione; dall’altro non sussista l’interesse pubblico alla
riduzione dell’area, per cui la relativa estensione deve essere confermata
nei termini indicati dal legislatore (sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 09.03.2016, n. 949).
14. Da quanto sopra, discende anche l’infondatezza dell’ulteriore motivo col
quale si assume che il TAR avrebbe dovuto disporre ex officio una più
approfondita istruttoria per verificare se il Comune avesse “modulato” il
vincolo di rispetto cimiteriale in sede di pianificazione urbanistica così
da escludere che vi rientrasse l’area interessata dalle serre
dell’appellante.
Il ricordato carattere assoluto del vincolo e il suo
imporsi anche sulle eventuali diverse previsioni degli strumenti urbanistici
rende ragione dell’adeguatezza e sufficienza della motivazione con cui il
primo giudice, sulla scorta delle risultanze in atti, ha ritenuto mantenuta
l’estensione di legge dei 200 metri, non essendo stato dimostrato l’avvenuto
intervento di modifiche con la procedura “rafforzata” con cui il Comune,
sussistendone i presupposti, avrebbe potuto incidere sulla fascia di
rispetto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 13.06.2019 n. 3952 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo cimiteriale previsto dall’art. 338 r.d. 1265/1934, (secondo cui “i cimiteri devono essere collocati
alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire
intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici
vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto,
salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”) costituisce vincolo ex lege a carattere pubblicistico che prevale anche sulle diverse valutazioni
del Prg e relative destinazioni urbanistiche.
Trattasi, in particolare, di vincolo di inedificabilità assoluta e non
relativa, tenuto conto che il caso di specie non rientra nelle eccezioni
relative all’esecuzione di opera pubblica o attuazione di un intervento
urbanistico.
Il vincolo in questione, in conclusione, non rientra nella sfera di
operatività dell’art. 32 L. 47/1985 e le opere realizzate, pertanto, non
sono suscettibili di sanatoria.
---------------
Secondo i principi enucleati dalla giurisprudenza, la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
in considerazione dell’interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, a mente del quale “Per dare
esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento
urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio
comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli
elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui
al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la
realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
La disposizione ora citata appartiene al novero delle norme eccezionali e di
stretta interpretazione, non mirando alla soddisfazione di interessi
privati.
Tanto comporta che la procedura di riduzione della fascia cimiteriale
inedificabile è attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal
legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili, mentre il procedimento
attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è
soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma
dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni
preesistenti).
La conclusione è in linea con il più recente orientamento del Consiglio di
Stato che, nella materia che occupa, ha precisato che “La tutela dei
molteplici interessi pubblici che il vincolo generale previsto dall’art. 338
r.d. n. 1265 del 1934 presidia impone che i possibili interventi urbanistici
ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento siano solo quelli
pubblici o comunque aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della
fascia di rispetto di duecento metri. Pertanto, il comma 5 dell’art. 338
cit. non può essere interpretato nel senso di consentire, eccezionalmente,
con il parere favorevole della Asl, interventi urbanistici volti a
soddisfare interessi pubblici, nei quali siano ricompresi –quali interventi
privati di interesse pubblico- gli insediamenti produttivi e le strutture turistico-ricettive".
---------------
13.3- Deve premettersi che, contrariamente a quanto sostenuto
da parte ricorrente (motivo n. 2 e 3), il vincolo cimiteriale previsto
dall’art. 338 r.d. 1265/1934, (secondo cui “i cimiteri devono essere collocati
alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire
intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro
dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici
vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto,
salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”) costituisce vincolo
ex lege a carattere pubblicistico che prevale anche sulle diverse valutazioni
del Prg e relative destinazioni urbanistiche (nel caso di specie, in
particolare, l’area ricade, in parte, in zona F4: zone di interesse pubblico
destinate a parcheggi: fuoriterra, interrati, a raso).
13.4- Trattasi, in particolare, di vincolo di inedificabilità assoluta e non
relativa, tenuto conto che il caso di specie non rientra nelle eccezioni
relative all’esecuzione di opera pubblica o attuazione di un intervento
urbanistico.
13.5- Il vincolo in questione, in conclusione, non rientra nella sfera di
operatività dell’art. 32 L. 47/1985 e le opere realizzate, pertanto, non sono
suscettibili di sanatoria (ex multis, Consiglio di Stato sez. VI,
15/10/2018, n. 5911).
13.6. – Deve perciò ritenersi che l’esistenza del vincolo cimiteriale
nell'area nella quale sono state realizzate le opere abusive, comportando l'inedificabilità
assoluta, impedisce in radice il rilascio dell’accertamento di conformità,
senza necessità di compiere ulteriori valutazioni.
13.7- Tale conclusione non muta neppure a seguito delle modifiche apportate
all'art. 338 rd cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di
privati.
Secondo i principi enucleati dalla giurisprudenza (Cons. Stato sez.
IV n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014),
infatti, la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
in considerazione dell’interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, a mente del quale “Per dare
esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento
urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio
comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda
sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli
elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di
edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui
al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la
realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
La disposizione ora citata appartiene al novero delle norme eccezionali e di
stretta interpretazione, non mirando alla soddisfazione di interessi
privati.
Tanto comporta che la procedura di riduzione della fascia cimiteriale
inedificabile è attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal
legislatore nell'elencazione delle opere ammissibili, mentre il procedimento
attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è
soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma
dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni
preesistenti) (conforme Consiglio di Stato sez. VI, 15/10/2018, n. 5911).
La conclusione è in linea con il più recente orientamento del Consiglio di
Stato che, nella materia che occupa, ha precisato che “La tutela dei
molteplici interessi pubblici che il vincolo generale previsto dall’art. 338
r.d. n. 1265 del 1934 presidia impone che i possibili interventi urbanistici
ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento siano solo quelli
pubblici o comunque aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della
fascia di rispetto di duecento metri. Pertanto, il comma 5 dell’art. 338
cit. non può essere interpretato nel senso di consentire, eccezionalmente,
con il parere favorevole della Asl, interventi urbanistici volti a
soddisfare interessi pubblici, nei quali siano ricompresi –quali interventi
privati di interesse pubblico- gli insediamenti produttivi e le strutture turistico-ricettive" (Consiglio di Stato sez. IV, 05/12/2018, n. 6891)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 04.06.2019 n. 798 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza in tema di vincolo cimiteriale è particolarmente rigorosa:
- per costante giurisprudenza, si tratta di un vincolo assoluto e
inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi
pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo
diverso contenute negli strumenti urbanistici. Le ipotesi tassative di
deroga al vincolo, previste dai successivi commi 3 e 4 dello stesso articolo
(ndr art. 338 TULLSS), si interpretano quindi come finalizzate al pubblico
interesse, in particolare all'esigenza di ampliare il cimitero stesso, e
quindi non si considerano utilizzabili per consentire la costruzione di
edifici a privati;
- la previsione normativa ha efficacia immediata e diretta ed è
idonea anche ad imporsi ad una pianificazione urbanistica eventualmente
difforme.
---------------
Per contro, come ampiamente osservato dall’amministrazione resistente, la
giurisprudenza in tema di vincolo cimiteriale è particolarmente rigorosa: “per
costante giurisprudenza, si tratta di un vincolo assoluto e inderogabile,
salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi pubblicistici, e come
tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo diverso contenute
negli strumenti urbanistici: così C.d.S. sez. VI 15.10.2018 n. 5911 e sez. V
03.05.2007 n. 1933. Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai
successivi commi 3 e 4 dello stesso articolo (ndr art. 338 TULLSS), si
interpretano quindi come finalizzate al pubblico interesse, in particolare
all'esigenza di ampliare il cimitero stesso, e quindi non si considerano
utilizzabili per consentire la costruzione di edifici a privati: così la già
citata 5911/2018 e sez. V 11.03.1995 n. 377” (Cons. St., sez. VI, n.
1013/2019); la previsione normativa ha efficacia immediata e diretta ed è
idonea anche ad imporsi ad una pianificazione urbanistica eventualmente
difforme (Tar Piemonte n. 18/2012) (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 30.04.2019 n. 526 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La precarietà o meno di un’opera non è un elemento di per sé
rilevante ai fini del rispetto delle distanze ed in particolare, con
riguardo alla fascia di rispetto cimiteriale e relativo vincolo.
In merito al vincolo cimiteriale, infatti, non rileva tanto la precarietà o
meno di una costruzione od opera, quanto la compatibilità della struttura in
esame con il rispetto degli interessi pubblici che detto vincolo è diretto a
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, da un lato, e la
sacralità del luogo, dall’altro.
Al riguardo, si richiama l’insegnamento secondo il quale <<il vincolo
cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione
sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla
inumazione e alla sepoltura>>.
---------------
Con riferimento alla
natura del vincolo di inedificabilità previsto
dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha
affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della
proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e
non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera
obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza
di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con
efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla
pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato
espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua
natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle
eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici.
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che,
rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella
versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto
nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di
stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la
conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta
attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell'elencazione delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti);
c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad
iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate
condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la
costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri esistenti
(comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento
urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente
fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere
stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici
(comma 5).
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella
vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno
specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio
Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia
formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto)
difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o
permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
---------------
Fermo
quanto sopra detto, peraltro, occorre sottolineare che la precarietà o meno
di un’opera non è un elemento di per sé rilevante ai fini del rispetto delle
distanze ed in particolare, con riguardo alla fascia di rispetto cimiteriale
e relativo vincolo.
In merito al vincolo cimiteriale, infatti, non rileva tanto la precarietà o
meno di una costruzione od opera, quanto la compatibilità della struttura in
esame con il rispetto degli interessi pubblici che detto vincolo è diretto a
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, da un lato, e la
sacralità del luogo, dall’altro.
Pertanto, in ogni caso, l’intervento edilizio posto in essere da parte
ricorrente oggetto del presente giudizio risulta rilevante ai fini del
rispetto della disciplina relativa al c.d. vincolo cimiteriale.
Al riguardo, si richiama l’insegnamento secondo il quale <<il vincolo
cimiteriale ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione
sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla
inumazione e alla sepoltura>> (C. Stato, sez. IV , 13/12/2017, n.
5873).
Ebbene, nel caso di specie, se una mera tettoia meramente precaria può,
eventualmente, considerarsi rispettosa di tale vincolo, ancorché realizzata
all’interno della c.d. fascia di rispetto cimiteriale, non confliggendo con
esso proprio per la sua intrinseca amovibilità e per la natura aperta della
struttura, lo stesso non può dirsi per un edificio completamente chiuso e la
cui finalità denota un utilizzo duraturo, che, insistendo all’interno della
fascia di rispetto, si pone inevitabilmente in contrasto con gli interessi
sottesi al vincolo cimiteriale predetto.
2.2. Con riferimento alla natura del vincolo di inedificabilità previsto
dall'art. 338, r.d. n. 1256 del 1934, la giurisprudenza amministrativa ha
affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della
proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e
non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera
obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza
di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo
medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia
di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di
possibile espansione della cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d'indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con
efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad
incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla
pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato
espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua
natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle
eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici (in
ordine ai predetti principi si vedano, tra le altre, C. Stato, sez. IV,
05/12/2018, n. 6891; C. Stato, sez. VI, 02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez.
IV, 13/12/2017, n. 5873).
La natura tendenzialmente assoluta del vincolo predetto comporta che,
rispetto alle richieste dei privati, le deroghe, ammissibili tanto nella
versione dell’art. 338 ante modifica da parte della l. 166 del 2002, quanto
nella versione attuale, devono ritenersi del tutto eccezionali.
In particolare, in giurisprudenza è stato sottolineato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo
per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni
specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di
stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la
conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta
attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell'elencazione delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui
al settimo comma dell'art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti);
c) l'art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad
iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate
condizioni, della zona di rispetto per scelta dell'amministrazione:
- per la
costruzione di nuovi cimiteri o per l'ampliamento di cimiteri esistenti
(comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento
urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente
fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere
stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici
(comma 5) (in ordine ai principi di cui sopra vi vedano, tra le altre, C.
Stato, sez. IV, 05/12/2018, n. 6891; C. Stato, sez. IV, 23/04/2018, n.
2407; C. Stato , sez. VI, 27/07/2015, n. 3667). Numerose sono anche le
pronunce che hanno individuato la portata e i limiti delle modifiche
apportate all'art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste
di privati (C. Stato sez. IV, 23/04/2018, n. 2407; C. Stato, sez. VI,
02/07/2018, n. 4018; C. Stato, sez. IV, 06/10/2017, n. 4656).
Per quanto concerne, in particolare, la deroga di cui al comma 5, sia nella
vecchia che nella nuova formulazione, richiede l’attivazione di uno
specifico procedimento che comporta una valutazione da parte del Consiglio
Comunale finalizzata ad una autorizzazione in deroga.
E’ evidente, a questo riguardo, che tale procedimento (che nella vecchia
formulazione peraltro richiedeva altresì l’intervento del prefetto)
difficilmente può ritenersi compatibile con l’istituto della concessione o
permesso di costruire in sanatoria, oggetto del presente procedimento.
In ogni caso, quand’anche si dovessero ritenere astrattamente applicabili le
disposizioni eccezionali e derogatorie dell’art. 338 citato ad una
fattispecie in sanatoria quale quella in esame, in concreto, nel giudizio
che ci occupa, tali norme non sarebbero invocabili da parte ricorrente in
quanto eventuali deroghe al limite di 200 metri della c.d. fascia
cimiteriale sono ammissibili solo purché sia mantenuta la distanza minima di
50 m tra la struttura cimiteriale e l’opera in contestazione
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante giurisprudenza, il vincolo cimiteriale è un vincolo assoluto e
inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi
pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo
diverso contenute negli strumenti urbanistici.
Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai commi 3 e 4
dell'art. 338 del TULS 22.07.1934 n. 1265, si interpretano quindi come
finalizzate al pubblico interesse, in particolare all’esigenza di ampliare
il cimitero stesso, e quindi non si considerano utilizzabili per consentire
la costruzione di edifici a privati.
---------------
2.1 Il vincolo per cui è causa è quello stabilito a tutela dei cimiteri
dall’art. 338, comma 1, del TULS 22.07.1934 n. 1265, per cui “I cimiteri
devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro
abitato. E' vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il
raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale
risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni
previste dalla legge”.
Per costante giurisprudenza, si tratta di un vincolo assoluto e
inderogabile, salve ipotesi tassative, posto a tutela di interessi
pubblicistici, e come tale prevalente anche su eventuali previsioni di tipo
diverso contenute negli strumenti urbanistici: così C.d.S. sez. VI
15.10.2018 n. 5911 e sez. V 03.05.2007 n. 1933.
Le ipotesi tassative di deroga al vincolo, previste dai successivi commi 3 e
4 dello stesso articolo, si interpretano quindi come finalizzate al pubblico
interesse, in particolare all’esigenza di ampliare il cimitero stesso, e
quindi non si considerano utilizzabili per consentire la costruzione di
edifici a privati: così la già citata 5911/2018 e sez. V 11.03.1995 n. 377
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.02.2019 n. 1013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
rinuncia al mandato da parte del difensore della parte ricorrente non è di
ostacolo alla trattazione della causa, in virtù del principio di ultrattività del mandato
defensionale desumibile dall’art. 85 cod. proc. civ. (applicabile al
processo amministrativo ai sensi dell’art. 39, comma 1, cod. proc. amm.).
Ed invero, la rinuncia al mandato non determina alcun effetto interruttivo
del processo ai sensi dell’art. 79 cod. proc. amm., posto che in ossequio al
principio della perpetuatio dell’ufficio defensionale, consacrato negli artt.
85 e 301 cod. proc. civ., il difensore rinunciante, fino alla sua
sostituzione, conserva lo ius postulandi con riguardo alla causa in corso, e ciò sia per quanto riguarda la legittimazione a
ricevere gli atti nell'interesse del mandante, sia per quanto riguarda la
legittimazione a compiere atti nell'interesse di quest’ultimo.
In altri termini, non può ammettersi una vacatio dello ius postulandi, che
continua a sussistere in capo al difensore rinunciante, non impedendo la
stessa rinuncia il passaggio in decisione del ricorso, in quanto il
difensore che abbia rinunciato è tenuto a svolgere le sue funzioni fino alla
sua sostituzione.
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1. Il Collegio osserva preliminarmente che la rinuncia al
mandato da parte del difensore della parte ricorrente non è di ostacolo alla
trattazione della causa, in virtù del principio di ultrattività del mandato
defensionale desumibile dall’art. 85 cod. proc. civ. (applicabile al
processo amministrativo ai sensi dell’art. 39, comma 1, cod. proc. amm.).
Ed invero, la rinuncia al mandato non determina alcun effetto interruttivo
del processo ai sensi dell’art. 79 cod. proc. amm., posto che in ossequio al
principio della perpetuatio dell’ufficio defensionale, consacrato negli artt.
85 e 301 cod. proc. civ., il difensore rinunciante, fino alla sua
sostituzione, conserva lo ius postulandi con riguardo alla causa in corso (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 14.01.2019, n. 294; Cons. Stato, sez. V, 23.11.2018, n. 6627), e ciò sia per quanto riguarda la legittimazione a
ricevere gli atti nell'interesse del mandante, sia per quanto riguarda la
legittimazione a compiere atti nell'interesse di quest’ultimo (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 11.06.2018, n. 3597; Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2018, n. 1115; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 15.03.2019, n. 1448).
In altri termini, non può ammettersi una vacatio dello ius postulandi, che
continua a sussistere in capo al difensore rinunciante (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 24.10.2018, n. 6064; TAR Lazio Roma, sez. I-ter, 15.11.2018, n. 11046), non impedendo la stessa rinuncia il passaggio in
decisione del ricorso, in quanto il difensore che abbia rinunciato è tenuto
a svolgere le sue funzioni fino alla sua sostituzione (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 24.07.2014, n. 3956)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.07.2019 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un soppalco rientra nell’ambito degli interventi edilizi
minori per i quali non è richiesto il permesso di costruire sola qualora
abbia caratteristiche tali da non incrementare la superficie dell’immobile.
Tuttavia, quest’ultima ipotesi si verifica solo nel caso in cui lo spazio
realizzato col soppalco consista in un vano chiuso, senza finestre o luci,
di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle
persone.
Al contrario, qualora il soppalco determini un aumento della superficie
utile dell’unità con conseguente aggravio del carico urbanistico, rientra
nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia necessitando,
quindi, di un titolo abilitativo.
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7. L’appello è fondato.
Al riguardo, è utile richiamare la giurisprudenza amministrativa, la quale
ha messo in luce che la realizzazione di un soppalco rientra nell’ambito
degli interventi edilizi minori per i quali non è richiesto il permesso di
costruire sola qualora abbia caratteristiche tali da non incrementare la
superficie dell’immobile. Tuttavia, quest’ultima ipotesi si verifica solo
nel caso in cui lo spazio realizzato col soppalco consista in un vano
chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo
assolutamente non fruibile alle persone.
Al contrario, qualora il soppalco determini un aumento della superficie
utile dell’unità con conseguente aggravio del carico urbanistico, rientra
nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia necessitando,
quindi, di un titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09.07.2018, n.
4166)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.07.2019 n. 4780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si
ricava all’interno di un locale, di solito un'abitazione, interponendovi un
solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in
relazione alle caratteristiche del manufatto.
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6. E’ condivisibile viceversa la valutazione del TAR in ordine alla “natura
interna delle opere realizzate, non assoggettabili a permesso di costruire,
peraltro del tutto irrilevanti, stante la loro modestissima entità, in
termini edilizi”.
Ai sensi dell’art. 10, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 “sono subordinati a
permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che
portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”.
Nel caso di specie, è indubbio che l’opera realizzata sia di modeste
dimensioni e, benché abbia determinato un aumento della superficie, si può
affermare che la modificazione riguardi comunque la diversa organizzazione
interna degli spazi e che pertanto non fosse soggetta a permesso di
costruire.
Tale conclusione è coerente con quanto ritenuto da questo Consiglio secondo
cui “la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo
che si ricava all’interno di un locale, di solito un'abitazione,
interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata
caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto” (Cons.
Stato, sez. VI, n. 985/2017).
Peraltro, ove anche ritenuto non riconducibile alla nozione di opere
interne, l’intervento per cui è causa in relazione all’epoca di sua
esecuzione sarebbe stato al più soggetto a DIA, anziché a permesso di
costruire
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 05.07.2019 n. 4668 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non
modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e, in
prospettiva, ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale
da non incrementare la superficie dell’immobile e in particolare quello che
non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé stante.
---------------
Ai sensi dell’art. 26 della legge n. 47 del 1985, non erano “soggette a
concessione né ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che non
siano in contrasto con gli strumenti urbanistici adottati o approvati e con
i regolamenti edilizi vigenti, non comportino modifiche della sagoma della
costruzione, dei prospetti, né aumento delle superfici utili e del numero
delle unità immobiliari, non modifichino la destinazione d’uso delle
costruzioni e delle singole unità immobiliari, non rechino pregiudizio alla
statica dell’immobile… Ai fini dell’applicazione del presente articolo non è
considerato aumento delle superfici utili l'eliminazione o lo spostamento di
pareti interne o di parti di esse”.
In base a tale disciplina, il soppalco, comportando indubitabilmente
l’aumento di superfici utili e incidendo sulla statica dell’immobile, non
avrebbe potuto rientrare nelle opere interne, potendo se mai essere
qualificata come ristrutturazione edilizia per cui era necessaria la
concessione edilizia ai sensi dell’art. 9 della legge n. 47 del 1985 (che
rinviava all’art. 31, comma 1, lettera d), della legge n. 431 del 1978, che
definiva “gli interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere
che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e
l’inserimento di nuovi elementi ed impianti”).
Su tale disciplina era intervenuto l’art. 2, comma 60, della legge n. 662
del 1996, che ha modificato l’art. 4 della legge 04.12.1993, n. 493,
prevedendo la denuncia di inizio attività per “a) opere di manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo; b) opere di eliminazione
delle barriere architettoniche in edifici esistenti consistenti in rampe o
ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;
c) recinzioni, muri di cinta e cancellate; d) aree destinate ad attività
sportive senza creazione di volumetria; e) opere interne di singole unità
immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non
rechino pregiudizio alla statica dell’immobile; f) revisione o installazione
di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e
realizzazione di volumi tecnici che si rendano indispensabili, sulla base di
nuove disposizioni”.
Ritiene il Collegio che anche l’applicazione di tale disposizione,
contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non consenta di ritenere
i soppalchi soggetti solo alla DIA (comunque non presentata nel caso di
specie) e, quindi, la loro esecuzione in assenza di DIA soggetta al regime
sanzionatorio della sola sanzione pecuniaria, in quanto si tratta sì di
opere interne che non incidono evidentemente sul prospetto e sulla sagoma
dell’immobile, ma ne possono pregiudicare la statica, in relazione alla posa
di solai intermedi.
Inoltre, se le modifiche introdotte dalle legge n. 662 del 1996, prevedevano
la DIA anche per gli interventi di “restauro e risanamento conservativo”
(che, in base alla definizione della legge n. 431 del 1978, comma 1, lettera
c), come anche in base a quella di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del
2001, prevede il “rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell’organismo stesso”), non modificavano per la “ristrutturazione
edilizia” il regime della legge n. 47 del 1985, per cui restava
necessaria la concessione edilizia.
Ne deriva che anche in relazione al periodo di vigenza della legge n. 662
del 1996, deve farsi applicazione del consolidato orientamento
giurisprudenziale, ribadito anche di recente da questo Consiglio, per cui i
soppalchi possano ritenersi opere interne non soggette a concessione in
relazione alle concrete caratteristiche del manufatto; in particolare è,
quindi, necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di
dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione
dell'immobile preesistente, con incremento delle superfici dell’immobile e,
in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece
nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il
permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non
incrementare la superficie dell’immobile e in particolare quello che non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé stante (Consiglio di
Stato, sez. VI, 07.05.2018, n. 2701; id., 27.11.2017, n, 5517; id.,
02.03.2017, n. 985).
Applicando tali coordinate giurisprudenziali al caso di specie è evidente
che i soppalchi concretamente realizzati non possano ritenersi mere opere
interne non soggette a permesse di costruire, essendo stato di fatto
realizzato un nuovo ampio locale nell’appartamento, delle dimensioni di un
altro medio appartamento
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 4386 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Funzione
del certificato di agibilità.
Il rilascio del
certificato di agibilità non appare idoneo
ad attestare la conformità edilizia
dell’immobile, considerati i diversi ambiti
di operatività dei citati titoli, fondati su
presupposti diversi e non sovrapponibili: il
certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l’immobile al quale si
riferisce è stato realizzato nel rispetto
delle norme tecniche vigenti in materia di
sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti,
mentre il rispetto delle norme edilizie e
urbanistiche è oggetto della specifica
funzione del titolo edilizio, sicché i
diversi piani possono convivere sia nella
forma fisiologica della conformità
dell’edificio ad entrambe le tipologie
normative sia in quella patologica di una
loro divergenza.
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Inoltre, a prescindere dal tema
dell’affidamento, il rilascio del
certificato di agibilità non appare idoneo
ad attestare la conformità edilizia
dell’immobile, considerati i diversi ambiti
di operatività dei citati titoli, fondati su
presupposti diversi e non sovrapponibili: il
certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l’immobile al quale si
riferisce è stato realizzato nel rispetto
delle norme tecniche vigenti in materia di
sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti,
mentre il rispetto delle norme edilizie ed
urbanistiche è oggetto della specifica
funzione del titolo edilizio, sicché i
diversi piani possono convivere sia nella
forma fisiologica della conformità
dell’edificio ad entrambe le tipologie
normative sia in quella patologica di una
loro divergenza (Consiglio di Stato, V,
29.05.2018, n. 3212; TAR Lazio, Roma, II-bis,
04.06.2019, n. 7180)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 1482 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a
presupposti diversi e non sovrapponibili, dato che il certificato di
agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile al quale si riferisce è
stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di
sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli
impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto
della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani possono
convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio ad
entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro
divergenza.
Pertanto, ai fini dell’agibilità rilevano esclusivamente i presupposti
stabiliti dall’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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Considerato che:
- con il ricorso introduttivo del presente giudizio le società
Ed.Im.Ri. S.r.l. e Nu.Si.Im.Co. S.r.l. Unipersonale hanno agito per
l’annullamento della determinazione in epigrafe indicata, con la quale Roma
Capitale ha disposto la sospensione, senza un termine determinato,
dell'efficacia della segnalazione certificata di agibilità parziale
presentata 23.03.2017, relativa al fabbricato con destinazione residenziale
e non residenziale sito in Roma, Largo ... nn. 15, 19, 21, 23, 25, 27, 29,
31, 33, formulando, altresì, riserva di proposizione della domanda
risarcitoria;
...
Ritenuto che:
- il ricorso si palesa fondato;
- la sospensione dell’efficacia risulta essere stata disposta da
Roma Capitale “sine die”, oltre la scadenza del termine di 30 giorni
previsto per l’esercizio del potere inibitorio dall’art. 19, commi 3 e
6-bis, della l. n. 241/1990, in assenza di ogni esplicitazione
dell’attualità dell’interesse pubblico e di qualsiasi ponderazione degli
altri interessi pubblici e privati coinvolti, nonché al di fuori di
qualsiasi valutazione dei profili di igiene che avrebbero potuto condurre ad
un eventuale giudizio di inabitabilità e dunque allo sgombero dell’edificio,
bensì esclusivamente sulla base di asserite carenze documentali;
- emerge per tabulas dagli atti prodotti dalla parte
ricorrente che le carenze documentali poste a fondamento della
determinazione adottata sono in larga parte insussistenti, venendo in
rilievo documentazione già allegata alla segnalazione, e, per la restante
parte, con precipuo riferimento al nulla osta di regolarità urbanistica, del
tutto ultronee, afferendo a profili radicalmente estranei ai fini della
valutazione avente ad oggetto l’agibilità del fabbricato;
- come chiarito dalla consolidata giurisprudenza anche del Giudice
d’Appello, il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono
collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili, dato che il
certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile al quale
si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici
e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è
oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, sicché i diversi piani
possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio
ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro
divergenza (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2018, n. 3212; id., sez. IV,
24.10.2012 n. 5450; id, sez. V, 30.04.2009 n. 2760);
- pertanto, ai fini dell’agibilità rilevano esclusivamente i
presupposti stabiliti dall’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- anche con riferimento all’impianto di illuminazione, la
circostanza, valorizzata dalla difesa dell’amministrazione, della mancanza
del collaudo dello stesso non è idonea a legittimare la determinazione
adottata, sia alla luce della comunicazione trasmessa all’Inail concernente
al conformità della messa a terra dell’impianto di illuminazione, sia tenuto
conto della omessa esplicitazione di qualsivoglia carenza in concreto
riscontrata;
- alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso va,
quindi, accolto, con assorbimento delle ulteriori deduzioni e, per l’effetto
la determinazione impugnata va annullata
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 04.06.2019 n. 7180 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 24, I co, del T.U. n. 380/2001 il certificato di agibilità
attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, ma
tale accertamento ha proprio l’integrale conformità delle opere realizzate
al progetto approvato come presupposto giuridico di ammissibilità
dell’istanza stessa alla successiva istruttoria di merito.
Sicché, appaiono assolutamente erronei i precedenti dei TAR (isolati e
comunque i risalenti nel tempo) per i quali il certificato di agibilità
sarebbe finalizzato solo al controllo di tipo igienico-sanitario, con
esclusione di qualsiasi riferimento alla conformità dell’edificio al
progetto approvato.
In tale scia, si deve poi annotare che la sentenza impugnata richiama in
modo assolutamente fuorviante la decisione della Sez. V di questo Consiglio
Stato 30.04.2009 n. 2760, che afferma esattamente il contrario di quanto il
TAR vorrebbe fargli dire. In tale sentenza, infatti, si specifica
testualmente che è:
- ”… la stessa legge ad individuare, nella necessaria conformità
dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile
per il legittimo rilascio del suddetto certificato.
- … Ancor prima della logica giuridica è d'altronde la
ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualunque
destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia
e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi
collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (corretto uso
del suolo, difesa dell'ambiente, salubrità degli abitati, sicurezza e
stabilità delle costruzioni, ecc.)”.
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L’istituto dell’abitabilità per le residenze e dell’agibilità per gli usi
non abitativi, originariamente introdotto con l’art. 221 del R.D.
27.07.1934, n. 1265 (T.U. Leggi Sanitarie), era diretta ad accertare che “…che
la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che
i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause
di insalubrità”.
Tale disposizione, fu confermata dalla norma di semplificazione
procedimentale di cui all’art. 4 del D.P.R. 22.04.1994, n. 425 (abrogato
dall'art. 136, comma 2, d.p.r. n. 380/2001) per cui “...il direttore dei
lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità
rispetto al progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la
salubrità degli ambienti”.
Il precetto è stato infine riprodotto nell’art. 25, lett. b), che pone, tra
i presupposti necessari dell’istanza di agibilità, la necessaria allegazione
di una … “dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente il
certificato di agibilità, di conformità dell'opera rispetto al progetto
approvato”.
Pertanto, ai sensi dell’art. 24, I co, del T.U. n. 380/2001 il certificato
di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene,
salubrità, ma tale accertamento ha proprio l’integrale conformità delle
opere realizzate al progetto approvato come presupposto giuridico di
ammissibilità dell’istanza stessa alla successiva istruttoria di merito.
In ragione della lettera delle disposizioni sopra ricordate, appaiono
assolutamente erronei i precedenti dei TAR (isolati e comunque i risalenti
nel tempo) per i quali il certificato di agibilità sarebbe finalizzato solo
al controllo di tipo igienico-sanitario, con esclusione di qualsiasi
riferimento alla conformità dell’edificio al progetto approvato.
In tale scia, si deve poi annotare che la sentenza impugnata richiama in
modo assolutamente fuorviante la decisione della Sez. V di questo Consiglio
Stato 30.04.2009 n. 2760, che afferma esattamente il contrario di quanto il
TAR vorrebbe fargli dire. In tale sentenza, infatti, si specifica
testualmente che è:
- ”… la stessa legge ad individuare, nella necessaria conformità
dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile
per il legittimo rilascio del suddetto certificato.
- … Ancor prima della logica giuridica è d'altronde la
ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualunque
destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia
e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi
collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata (corretto uso
del suolo, difesa dell'ambiente, salubrità degli abitati, sicurezza e
stabilità delle costruzioni, ecc.)” (così la sentenza n. 2760 cit.).
Del tutto inconferente al presente contendere è al riguardo anche il
riferimento nella sentenza all’art. 26 del T.U.E.D., secondo cui il rilascio
del certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del potere
dell’Amministrazione di dichiarazione di inagibilità.
Tale disposizione è infatti manifestamente diretta all’ipotesi che
successivamente si verifichi il venir meno dei requisiti igienico-sanitari
previsti dall’art. 222 r.d. 27.07.1934, n. 1265: si tratta dunque di una
norma di ordine pubblico che non ha rilievo procedimentale, ma carattere
sostanziale, essendo finalizzata alla successiva tutela degli interessi
generali alla sicurezza ed alla salubrità degli immobili.
Quanto al secondo profilo erroneamente il TAR afferma, a fondamento della
sua decisione, che si dovrebbe distinguere tra i “due aspetti, quello
pubblicistico e quello privatistico” e che comunque “… il mancato
completamento delle opere di urbanizzazione riguarda profili di natura
contrattuale non incidenti sugli aspetti di sicurezza e igienico-sanitari e
sulla formazione del silenzio assenso riguardo la domanda di agibilità.”
Esattamente l’appellante afferma, infatti, che l’accertamento della piena
conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie ed alle
prescrizioni del permesso di costruire (ma anche, come si vedrà, alle
disposizioni della convenzione urbanistica) costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità.
In conseguenza ha ragione Ve. quando contesta il presupposto logico e
giuridico delle affermazioni che il TAR ha posto a fondamento della ritenuta
formazione del silenzio-assenso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.10.2012 n. 5450 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi, denunce palesi. Chi è segnalato ha diritto di sapere da chi è
accusato. Il Tar Liguria: il cittadino che subisce un sopralluogo è
portatore di un interesse qualificato.
Non c'è privacy per le spie. Chi subisce in casa un
sopralluogo della polizia municipale alla ricerca di un abuso edilizio ha
diritto a sapere chi lo ha segnalato al Comune. E ciò perché in Italia «non
esistono denunce segrete»: al privato deve essere consegnata un copia
dell'esposto presentato contro di lui anche se la verifica ha avuto esito
negativo.
È
quanto emerge dalla
sentenza
07.06.2019 n. 510, pubblicata
dalla I Sez. del TAR Liguria.
Trasparenza e responsabilità.
Il ricorso è accolto perché il cittadino è portatore di un interesse
qualificato a conoscere il nome di chi lo accusa: il Comune ha 20 giorni di
tempo per tirare fuori le carte. Non convince la tesi secondo cui il no
all'accesso agli atti non incide sul diritto di difesa. Sbaglia l'avvocatura
civica quando esclude l'ostensione dell'esposto in tema di abusi edilizi,
anche quando pende una causa civile contro il condominio, perché con l'esito
negativo basta il verbale del sopralluogo ad attestare che l'immobile è in
regola dal punto di vista urbanistico ed edilizio. La privacy è tutelata ad
esempio in caso di dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva:
divulgare i nomi potrebbe esporli ad azioni discriminatorie o indebite
pressioni da parte del datore.
Per il resto, non ha diritto alla riservatezza chi assume iniziative che
comunque incidono sulla sfera giuridica di terzi. Il nostro ordinamento,
scrivono i giudici, è ispirato a principi democratici di trasparenza e
responsabilità che impediscono di tenere nascosto il nome dell'autore di
denunce, segnalazioni o esposti.
L'atto esce dal controllo dell'autore una volta entrato nella sfera di
conoscenza dell'amministrazione: costituisce il presupposto dell'attività
ispettiva e riguarda direttamente il soggetti inciso in qualità di
denunciato; il quale, dunque, ha diritto a conoscere per intero i documenti
utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza.
Denunce, effetti limitati.
Il Comune, poi, non può ordinare al condomino di abbattere la veranda solo
perché il vicino lo denuncia.
L'amministrazione, infatti, non deve farsi carico di questioni privatistiche
nel momento in cui è chiamata ad assentire l'opera edilizia.
È quanto emerge
dalla sentenza n. 1593/2018, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Campania.
Accolto il ricorso del singolo proprietario esclusivo che vuole costruire
due verandine e una pensilina. L'autotutela scatta perché con l'esposto del
vicino emergono «aspetti controversi» sul diritto di proprietà dei balconi
«incriminati». Ma non sussistono i presupposti affinché il Comune possa
rimangiarsi il permesso di costruire in sanatoria: manca l'assenso del
condominio agli interventi. E ciò perché al momento in cui l'ente locale
concede il titolo in sanatoria non conosce i limiti condominiali al progetto
laddove è controversa la titolarità dei balconi e dei passetti oggetto
dell'intervento.
Dagli allegati tecnici all'istanza di accertamento di conformità emerge che
si tratta di opere effettuate su balconate di pertinenza dell'appartamento
di proprietà del richiedente. E se la questione della titolarità risulta
incerta, non è certo il Comune a doverla chiarire: la circostanza esula dai
poteri di verifica affidatigli in sede di rilascio del titolo edilizio. Né
si può ordinare la demolizione sul rilievo che i manufatti incidono
sull'estetica del fabbricato: il decoro architettonico dell'edificio
condominiale è un'altra questione privatistica di cui non deve ingerirsi
l'amministrazione.
Diritto di sapere anche per chi rischia il processo.
E se invece la segnalazione anonima ha esito positivo? Chi è denunciato ai
vigili urbani ha comunque diritto a vedere l'esposto anche quando rischia il
processo per abuso edilizio. La comunicazione della polizia municipale alla
procura della repubblica, infatti, non rientra fra le attività di polizia
giudiziaria: il destinatario del controllo ha l'interesse qualificato a
conoscere le carte da cui emergerebbe il reato.
È quanto stabilisce la
sentenza n. 11188/2015, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lazio.
Sbaglia il comando della polizia locale a rispondere al proprietario
dell'immobile che l'accesso all'esposto è precluso dall'articolo 329 cpp in
quanto è stata comunicata una notizia di reato. In realtà il responsabile
dei lavori ha diritto a leggere la denuncia: in questo caso la comunicazione
dei vigili in Procura non rientra fra le attività di polizia giudiziaria,
mentre chi è soggetto a un controllo o a un'ispezione ha l'interesse
qualificato a conoscere tutti i documenti dai quali scaturisce l'iniziativa.
Nel nostro caso la polizia municipale, in quanto espressione del Comune,
agisce nell'ambito della sua attività istituzionale, che è amministrativa e
non come polizia giudiziaria quando ha ricevuto l'esposto dal terzo. Risulta
dunque esclusa l'applicazione della regola secondo cui gli atti d'indagine
compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal
segreto fino a quando l'interessato non ne possa avere conoscenza e,
comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Deve invece
riconoscersi al proprietario dell'immobile nei guai per l'opera edilizia la
sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale di accedere ad
esposti o denunce presentati nei suoi confronti.
Diritto alla trasparenza anche per le persone giuridiche.
Il diritto alla trasparenza, poi, va riconosciuto alle persone giuridiche
oltre che a quelle fisiche. La società additata in un esposto rivolto al
Comune sulla sua attività ha diritto a conoscerne il contenuto anche se
l'atto proviene da un privato: è infatti esclusa la tutela della
riservatezza invocata dall'amministrazione quando il documento va comunque a
incidere sulla sfera giuridica della compagine.
È quanto emerge dalla
sentenza n. 898/2017, pubblicata dalla terza sezione del Tar Toscana.
La srl ha
diritto all'ostensione anche se le carte richieste non risultano strumentali
a un'eventuale difesa in giudizio: la società che si trova esposta a un
controllo a un'ispezione è titolare di un interesse qualificato a ottenere
tutti i documenti utilizzati, compresi gli atti di iniziativa e
preiniziativa.
Poteri repressivi.
È escluso, tuttavia, che il Comune possa far finta di niente di fronte
all'istanza di uno dei condomini che vuole siano puniti gli abusi edilizi
compiuti da un altro. E ciò per due motivi: da una parte è possibile
ricorrere alla procedura del silenzio-adempimento dell'ente locale sui
mancati controlli alle opere realizzate senza titolo dal vicino; dall'altra
l'amministrazione deve comunque dar seguito alla domanda della parte privata
anche quando la ritiene inammissibile.
È quanto emerge dalla sentenza n.
3454/2019, pubblicata dalla sezione II-bis del Tar Lazio.
Accolto solo in parte il ricorso proposto da uno dei proprietari esclusivi
contro il silenzio serbato dall'amministrazione: gli uffici devono fornire
almeno un riscontro entro novanta giorni alla denuncia rivolta contro due
condomini del piano terra.
In entrambi i casi gli immobili sorgono manufatti negli spazi di distacco
dal fabbricato contro il divieto contenuto nel regolamento condominiale,
secondo cui le aree devono rimanere destinate a giardino. Ma per un'opera
pende una causa davanti al Tar e per l'altra la domanda di condono: si
tratta del box realizzato dai precedenti proprietari. In ogni caso il Comune
deve rispondere all'istanza del privato che lo sollecita a esercitare i
poteri repressivi in materia edilizia: sono escluse soltanto le domande
pretestuose. E se l'inadempimento continua si può ottenere la nomina di un
commissario che provveda. Il singolo condomino, tuttavia, non può pretendere
che si dia seguito all'obbligo di sistemare a giardino gli spazi assunto dal
Comune quando ha rilasciato il permesso di costruire.
Sbaglia infine l'ente locale a ignorare la diffida proposta
dall'amministratore condominiale, che è legittimato ad agire ex articoli
1130 e 1131 c.c.: l'iniziativa rientra nel potere di compiere atti
conservativi nei confronti del fabbricato.
Lo precisa la sentenza 297/2018,
pubblicata dalla sezione seconda bis del Tar Lazio (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di un esposto non può considerarsi un fatto circoscritto al
suo autore e all’Amministrazione competente all’avvio di un eventuale
procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti comunque incisi in
qualità di “denunciati”.
Merita di essere condiviso, quindi, il prevalente orientamento
giurisprudenziale secondo cui il nostro ordinamento, ispirato a principi
democratici di trasparenza e responsabilità, non ammette la possibilità di
“denunce segrete”: colui il quale subisce un procedimento di controllo o
ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i
documenti amministrativi utilizzati nell’esercizio del potere di vigilanza,
a partire dagli atti di iniziativa e di preiniziativa quali, appunto,
denunce, segnalazioni o esposti.
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In data 10.12.2018, personale del Comune di Genova eseguiva un sopralluogo
presso l’unità immobiliare di proprietà del ricorrente sita in via ... n.
17/1.
All’esito del sopralluogo, veniva esclusa la sussistenza di irregolarità
edilizie con la relazione prot. n. 433333 del 14.12.2018.
Avendo informalmente appreso che l’attività di controllo aveva tratto
impulso da un esposto di privati, l’interessato chiedeva l’ostensione di
tale atto e degli eventuali allegati con istanza presentata al Comune di
Genova in data 15.01.2019.
Il Comune respingeva l’istanza con provvedimento del 31 gennaio successivo,
poiché “l’esposto svolge un ruolo meramente sollecitatorio rispetto ad
una funzione” che la pubblica amministrazione “deve comunque
generalmente esercitare, indipendentemente da segnalazioni private”.
Nella motivazione del diniego, si fa anche riferimento ad un “costante
orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla Civica Avvocatura, secondo
il quale gli esposti in materia di abusivismo edilizio non sarebbero
ostensibili” e si rileva che l’acquisizione dell’esposto non sarebbe
giustificata neppure dalla pendenza di una causa civile con il condominio,
attesa la sufficienza del verbale di sopralluogo ad attestare la regolarità
urbanistico-edilizia dell’immobile.
L’interessato ha impugnato il diniego di accesso con ricorso notificato il
01.03.2019 e depositato il successivo 7 marzo, sollevando specifiche
contestazioni in ordine ai motivi su cui esso fonda.
Resiste il Comune di Genova che, dando lealmente atto dell’esistenza di
difformi orientamenti giurisprudenziali in materia, argomenta in favore
dell’opzione che esclude l’ostensibilità di un esposto da cui non sarebbe
evincibile alcun elemento utile di conoscenza, salvo il nome del
denunciante.
...
La questione inerente alla sussistenza di un diritto di accesso agli esposti
in materia di abusivismo edilizio (e, più in generale, agli atti di impulso
che abbiano dato origine a verifiche, ispezioni o altri procedimenti di
accertamento di illeciti a carico di privati) ha dato luogo a soluzioni
giurisprudenziali non univoche.
Secondo un primo orientamento, il diniego di accesso a tali atti è legittimo
in quanto non incide sul diritto di difesa del soggetto che, a fronte
dell’intervenuta notifica del verbale conclusivo dell’attività ispettiva,
non avrebbe alcun interesse a conoscere il nome dell’autore dell’esposto (cfr.,
fra le ultime, TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 17.10.2018, n. 772).
Tale conclusione appare condivisibile laddove sussista una particolare
esigenza di tutelare la riservatezza dell’autore della segnalazione, come
nel caso delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva che,
qualora divulgate, potrebbero comportare azioni discriminatorie o indebite
pressioni da parte del datore di lavoro (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
24.11.2014, n. 5779).
Al di fuori di tali particolari ipotesi, la tutela della riservatezza non
può assumere un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato dei
soggetti che abbiano assunto iniziative comunque incidenti nella sfera
giuridica di terzi: il principio di trasparenza che informa l’ordinamento
giuridico ed i rapporti tra consociati e pubblica amministrazione si
frappone, infatti, ad una soluzione che impedisca all’interessato di
conoscere i contenuti degli esposti e i loro autori, anche nel caso in cui i
conseguenti accertamenti abbiano dato esito negativo.
Occorre anche considerare che, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza
della pubblica amministrazione, l’esposto costituisce un presupposto
dell’attività ispettiva, sicché il suo autore perde il controllo di un atto
uscito dalla sua sfera volitiva per entrare nella disponibilità
dell’amministrazione.
Per tali ragioni, la presentazione di un esposto non può considerarsi un
fatto circoscritto al suo autore e all’Amministrazione competente all’avvio
di un eventuale procedimento, ma riguarda direttamente anche i soggetti
comunque incisi in qualità di “denunciati” (Cons. Stato, sez. VI,
25.06.2007, n. 3601).
Merita di essere condiviso, quindi, il prevalente orientamento
giurisprudenziale, secondo cui il nostro ordinamento, ispirato a principi
democratici di trasparenza e responsabilità, non ammette la possibilità di “denunce
segrete”: colui il quale subisce un procedimento di controllo o
ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i
documenti amministrativi utilizzati nell’esercizio del potere di vigilanza,
a partire dagli atti di iniziativa e di preiniziativa quali, appunto,
denunce, segnalazioni o esposti (TAR Firenze, sez. I, 03.07.2017, n. 898;
TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.07.2016, n. 980; TAR Lazio, Roma, sez.
III, 01.06.2011, n. 4989; Cons. Stato, sez. V, 19.05.2009, n. 3081).
Sulla base delle suesposte argomentazioni, stante la fondatezza nel merito
del ricorso, deve disporsi l’annullamento del gravato provvedimento di
rigetto dell’istanza di accesso documentale, con contestuale ordine al
Comune di Genova di esibire al ricorrente, mediante estrazione di copia,
l’esposto che ha dato origine al menzionato sopralluogo presso il suo
immobile e la documentazione ad esso eventualmente allegata, entro il
termine di giorni venti dalla comunicazione o, se antecedente, dalla
notificazione della presente sentenza
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 07.06.2019 n. 510 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Denuncia abuso edilizio: è segreta? (02.07.2019 - link a
www.laleggepertutti.it). |
|
IN EVIDENZA |
URBANISTICA: VIA
per un piano attuativo.
L’allegato IV (punto
7.b) al d.lgs. 152 del 2006 (richiamato
dalla previsione di cui all’articolo 6,
comma 7, del medesimo articolato normativo)
impone di assoggettare a V.I.A. i “progetti
di riassetto o sviluppo di aree urbane
all’interno di aree urbane esistenti che
interessano superfici superiori a 10
ettari”; in tale ipotesi la competenza
spetta alla Regione, come conferma la
previsione di cui all’allegato C (punto
7.b.1.) della l.r. 5 del 2010.
Non rileva la circostanza che le aree del
soggetto attuatore abbiano superficie
inferiore ai 10 ettari, atteso che ciò che
va verificato è la superficie dell’intero
piano (fattispecie relativa a piano
attuativo di riqualificazione urbanistica in
ambito industriale/terziario)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.04.2019 n. 933 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento:
A) Per quanto riguarda il ricorso
introduttivo:
a) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona (VA)
n. 93 del 26.05.2017 recante “Adozione
piano attuativo Ch.It.”;
b) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona (VA)
n. 125 del 20.07.2017 recante “Esame
osservazioni ed approvazione P.A. Ch.It.”;
c) della relazione sulle osservazioni pervenute redatta dal
Responsabile del Settore Territorio in data
14.07.2017;
...
1. L’associazione “Comitato
ValleOlonaRespira”, in persona del
legale rappresentante pro tempore, e i
signori Gi.Ga. e Da.Ra. adiscono questo
Tribunale chiedendo l’annullamento:
a) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona n. 93
del 26.05.2017 recante “Adozione piano
attuativo Ch.It.”;
b) della deliberazione della Giunta comunale di Olgiate Olona (VA)
n. 125 del 20.07.2017 recante “Esame
osservazioni ed approvazione P.A. Ch.It.”;
c) della relazione sulle osservazioni pervenute redatta dal
Responsabile del Settore Territorio in data
14.07.2017;
d) nonché di ogni altro atto presupposto, consequenziale e comunque
connesso.
2. In punto di fatto, i ricorrenti deducono
che:
a) “a cavaliere del territorio dei Comuni di Olgiate Olona (VA)
e Castellanza (VA) sorge un imponente
compendio immobiliare comunemente denominato
Polo Chimico “ex Montedison” della
superficie di mq 260.390, di cui mq 151.353
ricompresi nel perimetro del territorio del
Comune di Ogliate Olona e mq 109.037 in
Comune di Castellanza”;
b) l’attività industriale nel settore della chimica all’interno del
Polo “ex Montedison” è ormai quasi
totalmente dismessa e, per tale motivo, i
P.G.T. dei comuni di Olgiate Olona e
Castellanza prevedono, per le parti di
rispettiva competenza, destinazione
sostanzialmente produttiva e terziaria delle
aree, soggetta a piano attuativo
disciplinato dalle Norme di Attuazione del
Piano delle Regole;
c) lo strumento urbanistico del comune di Olgiate Olona colloca
l’area “ex Montedison” nell’ambito
D2, regolato dall’articolo 19 delle Norme di
Attuazione del Piano delle Regole a mente
del quale è consentito l’intervento “attraverso
piano esecutivo convenzionato con
possibilità di Unità Minime di Intervento
secondo quanto previsto dal precedente art.
5, con esclusione degli interventi
manutentivi” (e comprensivi quindi di
frazionamenti di edifici o di proprietà
esistenti con o senza opere edilizie,
ristrutturazione edilizia, ampliamento e
sopralzo, demolizione con ricostruzione,
nuova costruzione);
d) l’articolo 5 delle N.d.A. stabilisce che, “al fine di
favorire l’attuazione del Piano di Governo
del Territorio gli strumenti di
pianificazione attuativa relativi agli
ambiti D2, possono essere attuati, su parere
favorevole dell’Amministrazione Comunale,
anche per Unità Minime di Intervento (UMI)”,
rappresentate da aree, inserite all’interno
dei perimetri come sopra definiti, facenti
capo ad un’unica proprietà;
e) la previsione impone, inoltre, la presentazione del Piano
attuativo da parte della maggioranza
assoluta dei proprietari, “corredato da
un progetto planivolumetrico di massima
riferito all’intera area perimetrata nelle
tavole di P.G.T., definito nelle sue
componenti tipologiche e di destinazione
d’uso, con indicazione delle sagome di
ingombro e coperture dei singoli edifici”;
inoltre, si impone al progetto di
individuare la viabilità interna, le aree di
uso pubblico, le aree da cedere in proprietà
al Comune nonché le opere di sistemazione
delle aree libere;
f) con deliberazione del Consiglio comunale n. 37 del 25.09.2014, il
comune di Olgiate Olona approva un
protocollo di intesa con il comune di
Castellanza per il coordinamento delle
iniziative urbanistiche riguardanti l’area
del Polo Chimico “ex
Montedison”,
finalizzato a dotare l’area in questione di
un “piano di riqualificazione urbanistica
unitario, non parcellizzato, giusta le
rilevanti problematiche di interesse per
entrambi i Comuni contermini”;
g) la porzione di area sita nel comune di Olgiate Olona (pari mq
151.353) è suddivisa in quattro distinte
proprietà di cui mq. 98.318 di titolarità di
Ch.It. s.r.l., mq 26.641 di Pe. s.p.a., mq
24.083 di Ce. s.r.l., e mq 118 di Yu.Im.
S.r.l.;
h) la sola Ch.It. si attiva per attuare il P.A. previsto dal P.d.R.
del P.G.T. proponendo all’Amministrazione
comunale di Olgiate Olona due diverse
istanze di adozione che vengono, tuttavia,
rigettate;
i) con successiva deliberazione di Giunta comunale n. 93 del
26.05.2017 l’Amministrazione adotta il piano
attuativo “Ch.It.” e contestualmente
ne dispone il deposito presso gli Uffici
comunali per consentire la proposizione di
osservazioni ed opposizioni;
l) presentano osservazioni il Comitato ricorrente ed alcuni
cittadini;
m) l’Amministrazione comunale delibera di approvare definitivamente
il piano adottato sulla scorta della
relazione di controdeduzioni redatta dal
Responsabile del Settore Territorio.
3. I ricorrenti, premessa la loro
legittimazione processuale, articolano
nove motivi di ricorso.
...
3.3. Con il terzo motivo i ricorrenti
lamentano la violazione del combinato
disposto degli articoli 6, comma 7, del
d.lgs. 152/2006 e del relativo allegato IV
che impone la verifica di V.I.A. per i “progetti
di riassetto o sviluppo di aree urbane
all’interno di aree urbane esistenti che
interessano superfici superiori a 10 ettari”.
Osservano che il Piano attuativo impegni
147.394,31 mq di terreno, ridisegnando
completamente la fisionomia del Polo Chimico
“ex Montedison” nella porzione in cui
ricade nel comune di Olgiate Olona. Inoltre,
osservano coma la normativa in materia di
V.I.A. risulta violata anche in relazione ai
parcheggi atteso che l’allegato B della L.r.
5 del 2010 impone, al punto 7.b5),
l’assoggettamento a V.I.A. dei progetti che
prevedono la realizzazione di parcheggi ad
uso pubblico con capacità superiore a 550
posti auto.
Nel caso in esame, lo stato di progetto del
piano attuativo prevede la realizzazione di
1.451 posti auto ed ulteriori 668 posti auto
compresi nelle aree a standard di progetto.
3.4. Con il quarto motivo i
ricorrenti lamentano la mancata verifica
dell’incidenza paesistica del piano,
necessaria in considerazione della portata
ed estensione dello stesso.
...
3.7. Con il settimo motivo i
ricorrenti lamentano la violazione
dell’articolo 2 del d.lgs. 30.04.1992, n.
258 e del D.M. 05.11.2001, n. 6792 (recante
“Norme funzionali e geometriche per la
costruzione delle strade”) in relazione
all’intervento di risistemazione della via
Morelli, ritenuto non conforme alla regole
indicate.
...
12. Affermata la legittimazione
dell’associazione ricorrente, può procedersi
ad esaminare il merito del ricorso.
12.1. Ritiene il Collegio di incentrare la
disamina sulla prima parte del
terzo motivo con il quale il Comitato
lamenta la violazione del combinato disposto
degli articoli 6, comma 7, del d.lgs.
152/2006 e del relativo allegato IV che
impone la verifica di V.I.A. per i “progetti
di riassetto o sviluppo di aree urbane
all’interno di aree urbane esistenti che
interessano superfici superiori a 10 ettari”.
Osserva che il Piano attuativo impegna
147.394,31 mq di terreno, ridisegnando
completamente la fisionomia del Polo Chimico
“ex Montedison” nella porzione in cui
ricade nel comune di Olgiate Olona.
12.2. Il motivo è fondato.
12.3. L’allegato
IV (punto 7.b) al d.lgs. 152 del 2006
(richiamato dalla previsione di cui
all’articolo 6, comma 7, del medesimo
articolato normativo) impone di
assoggettare a V.I.A. i “progetti di
riassetto o sviluppo di aree urbane
all’interno di aree urbane esistenti che
interessano superfici superiori a 10 ettari”.
In tale ipotesi la competenza spetta alla
Regione, come conferma la previsione di cui
all’allegato
C (punto 7.b.1.) della L.r. 5 del 2010.
12.4. Nelle memorie conclusive il comune di
Olgiate Olona e la controinteressata
deducono la non operatività delle previsione
affermando che “il soggetto attuatore è
Ch.It. e le aree di proprietà che compongono
il Piano Attuativo sono pari a mq. 93.977,61”,
rinviando, sul punto alle tavole 4 e 8
allegate al Piano e notando come la
circostanza risulti comprovata dalla
previsioni di cui all’articolo 1 del Piano.
La sommatoria delle aree indicate di
proprietà Ch.It. è, infatti, pari alla cifra
indicata con conseguente non applicazione
delle previsioni richiamate.
12.5. Osserva il Collegio che nella tavola 1
si inserisce il rilievo aerofotogrammetrico
del Piano che consente di apprezzarne
l’estensione. La successiva tavola 2 indica
il perimetro di piano che è riportato anche
nella tavola 3 con indicazione
dell’estensione della varie proprietà
interessate.
In particolare, si legge in tale documento
che l’area di Ch.It. s.r.l. inserita nel
perimetro di piano è pari a 93.318 mq;
tuttavia, si indicano come interne al Piano
le aree di Pe. s.p.a. (per un’estensione
pari a 26.641 mq), nonché di Ce. s.r.l. (per
un’estensione pari a 24.083 mq), e di Yu.Im.
s.r.l. (per un’estensione pari a 118 mq).
La sommatoria delle aree interne al Piano è
indicata in mq 149.160. Del pari la tavola 4
a cui rinviano il Comune e la
controinteressata disegna il perimetro di
piano (indicata mediante tratto discontinuo)
all’interno del quale compaiono tutte le
aree sopra indicate. La ricomprensione di
tale aree emerge anche dalla successiva
tavola 5 ove si indicano gli edifici da
mantenere e da demolizione, tra cui alcuni
collocati su aree di proprietà di Ce. s.r.l.
e Pe. s.p.a..
Ancora, la verifica della superficie coperta
e della s.l.p. è eseguita su tutte le aree
esaminate (cfr., tavola 8.2 ove si indica
che la superficie fondiaria totale è pari a
147.394,31). E ancora le tavole 10.2. e
11.2. effettuano, rispettivamente, una
verifica dei posti auto e delle aree a
standard su tutte le proprietà indicate.
12.6. In tale contesto fattuale, non rileva
la circostanza che il soggetto attuatore sia
Ch.It. s.r.l. Ciò che va
verificato è,
infatti, la superficie del
Piano che, nel caso di specie, supera il
dato normativo previsto. Lo conferma la
giurisprudenza della Corte di Giustizia
dell’Unione europea che impone di far
riferimento alla superficie, che, come
spiegato, supera il limite normativo e,
quindi, impone l’assoggettamento a V.I.A.
dell’area
(cfr.
C.G.U.E., sez. III, 21.12.2016, in C-444/15).
Né risulta fondato sostenere che
l’estensione del piano debba essere
circoscritta alla sola proprietà Ch.It.
s.r.l. in ragione della previsione sulle
U.M.I di cui all’articolo 5 delle N.d.A. del
P.G.T..
Prevede tale disposizione che, “al fine
di favorire l’attuazione del Piano di
Governo del Territorio gli strumenti di
pianificazione attuativa relativi agli
ambiti D2, possono essere attuati, su parere
favorevole dell’Amministrazione Comunale,
anche per Unità Minime di Intervento”,
rappresentate da “da aree, inserite
all’interno dei perimetri come sopra
definiti, facenti capo ad un’unica proprietà”.
In tale ipotesi, il P.A. deve essere
presentato da almeno la “maggioranza
assoluta dei proprietari, assumendo valore
di pianificazione attuativa limitatamente
all’UMI individuata in sede di presentazione”.
A tale scopo “il Piano, oltre agli
elaborati di legge sopra descritti riferiti
alla UMI, dovrà essere corredato da un
progetto planivolumetrico di massima
riferito all’intera area perimetrata nelle
tavole di P.G.T., definito nelle sue
componenti tipologiche e di destinazione
d’uso, con indicazione delle sagome di
ingombro e coperture dei singoli edifici; il
progetto dovrà altresì individuare la
viabilità interna, le aree di uso pubblico,
le aree da cedere in proprietà al Comune
nonché le opere di sistemazione delle aree
libere”.
Sostiene il comune di Olgiate Olona che le
tavole allegate dai numeri 5 a 11
assumerebbero un mero valore indicativo.
Tuttavia, una simile prospettazione risulta
contradditoria rispetto a quanto argomentato
dal Comune nella memoria difensiva del
22.11.2017 ove si afferma “che quanto ad
obblighi previsti in convenzione [gli altri
proprietari] dovranno adeguarsi per una
visione unitaria dell'intervento”.
In tal modo, si riconosce, invero, agli
obblighi imposti la valenza di
pianificazione. In ogni caso,
la possibilità di prevedere unità
minime di intervento non risulta, in alcun
modo, idonea a deflettere dal generale
principio affermato dalla giurisprudenza
interna ed eurounitaria che afferma la
valenza sostanziale della V.I.A. che, come
tale, implica “la complessiva e
approfondita analisi comparativa di tutti
gli elementi incidenti sull'ambiente del
progetto unitariamente considerato, al fine
di valutare in concreto -alla luce delle
alternative possibili e dei riflessi della
stessa c.d. "opzione zero"- il sacrificio
imposto all'ambiente rispetto all'utilità
socioeconomica perseguita”
(cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.02.2018, n. 1230).
Ne consegue che la
possibilità di sviluppo del P.A. mediante
singole unità non può, ovviamente,
comportare la non applicazione della
normativa V.I.A. in ragione dell’intero
perimetro del Piano.
Tanto più che, nel caso di specie gli
interventi indicati contemplano (seppur in
parte; cfr., tavola 5 delle demolizioni) le
altre aree e, pertanto, non può ritenersi
che le tavole abbiano mera valenza
indicativa.
12.7. In definitiva, la prima parte del
terzo motivo di ricorso deve essere
accolto con annullamento degli atti
impugnati. L’accoglimento di tale motivo
consente al Collegio di assorbire gli
ulteriori motivi di ricorso stante
l’integrale realizzazione dell’interesse
fatto valere dall’Associazione Comitato “ValleOlonaRespira”
e la portata integralmente demolitoria
dell’annullamento disposto.
13. In definitiva:
a) deve dichiararsi estinto per rituale rinuncia ex articolo 35,
comma 2, lettera c), il giudizio tra i
signori Da.Ra. e Gi.Ga. e la
controinteressata Ch.It. s.r.l.;
b) deve dichiararsi improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse ex articolo 35, comma 1, lettera
c), il ricorso dei signori Da.Ra. e Gi.Ga.
contro il comune di Olgiate Olona;
c) deve dichiararsi improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse ex articolo 35, comma 1, lettera
c), la domanda riconvenzionale della Ch.It.
s.r.l. nei confronti dei signori Da.Ra. e
Gi.Ga. e dell’Associazione Comitato “ValleOlonarespira”;
d) deve accogliersi il ricorso dell’Associazione Comitato “ValleOlonarespira”
nei sensi e nei limiti indicati in
motivazione. |
URBANISTICA: Via,
Vas e Aia - Vas - Progetti di sviluppo di aree urbane - Piano di
lottizzazione (residenziale) superiore a 10 ettari, ma non riguardante il
riassetto o lo sviluppo di aree urbane esistenti - Assoggettabilità a VAS -
Esclusione - Attivazione cautelare della verifica di assoggettabilità -
Legittimità.
L'allegato 4 alla parte II del Dlgs 152/2006 individua
tra le opere sottoposte alla verifica di assoggettabilità a VAS (punto 7-b)
i "progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione,
interessanti superfici superiori ai 40 ettari" nonché i "progetti di
riassetto o sviluppo di aree urbane all'interno di aree urbane esistenti che
interessano superfici superiori a 10 ettari".
Il piano di lottizzazione (residenziale) che interessa una superficie pari a
114.822,74 mq, ma non riguarda il riassetto o lo sviluppo di aree urbane
esistenti, non solo non è direttamente soggetto a VAS ma non ricade in
nessuna delle due ipotesi di verifica di assoggettabilità.
Cautelativamente, tuttavia, in forza del principio secondo cui
l'amministrazione deve comunque accertare se le opere, anche di piccole
dimensioni, producano impatti significativi sull'ambiente (v. articolo 6,
comma 3, del Dlgs 152/2006), l'attivazione della verifica di
assoggettabilità appare corretta.
---------------
... per l'annullamento:
- della deliberazione consiliare n. 77 del 21.12.2010, con la quale
è stato approvato il piano di lottizzazione residenziale n. 12;
- della deliberazione consiliare n. 61 dell’08.09.2010, con la
quale il predetto piano di lottizzazione è stato adottato;
...
1. Le ricorrenti Ca.Co.Po.Pa. e Co.Ab. il Te. sono cooperative sociali
che hanno come scopo statutario l’assegnazione ai soci di abitazioni in
proprietà, locazione, o godimento con altre forme contrattuali.
2. Per quanto riguarda l’interesse a promuovere il presente ricorso, le
ricorrenti sono promissarie acquirenti di terreni situati nel Comune di
Montichiari e inseriti nel piano di lottizzazione n. 12.
Più in dettaglio, Ca.Co.Po.Pa. ha sottoscritto in data 22.12.2006 un
preliminare di acquisto relativo ai mappali n. 76 e 77 con i proprietari
Ez.Be. e Ma.Pa.. In seguito, con accordo del 03.05.2007, la predetta
cooperativa ha ceduto il 50% dei diritti sull’area alla cooperativa Ma.Un..
Quest’ultima è stata incorporata in Co.Ab. il Te. in data 28.03.2009 (v.
visura camerale).
3. In data 27.03.2009 i controinteressati, tra cui i danti causa delle
ricorrenti, hanno presentato al Comune il progetto del piano di
lottizzazione n. 12, che prevede un’importante edificazione residenziale a
sud dell’azienda agricola di Gi.Ca.Pi. e Al.Pi., dove è presente un
allevamento di bovini con circa 300 capi.
Il comparto, che si trova in zona C2 (residenziale di espansione) ha una
superficie pari a 114.822,74 mq e un volume edificabile pari a 120.010 mc.
Rispetto alle strutture dell’allevamento i nuovi edifici si posizionano, nel
punto più vicino, a una distanza di circa 100 metri.
4. La ASL di Brescia Distretto di Montichiari con nota del 31.12.2009 ha
espresso parere negativo sul progetto, in quanto la distanza
dall’allevamento, seppure conforme alle previsioni del regolamento locale di
igiene del Comune, è inferiore alla misura di 500 metri stabilita dal
regolamento di igiene tipo approvato con deliberazione del direttore
generale n. 797 del 17.11.2003.
5. Nonostante il parere negativo della ASL, il Comune con deliberazioni
consiliari n. 61 dell’08.09.2010 e n. 77 del 21.12.2010 ha rispettivamente
adottato e approvato il piano di lottizzazione.
...
Sulla procedura di VAS
27. L’allegato
4 alla parte II del Dlgs. 152/2006 individua tra le opere
sottoposte alla verifica di assoggettabilità a VAS (punto 7-b) i “progetti
di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici
superiori ai 40 ettari” nonché i “progetti di riassetto o
sviluppo di aree urbane all'interno di aree urbane esistenti che interessano
superfici superiori a 10 ettari”.
Il piano di lottizzazione in questione interessa una superficie pari a
114.822,74 mq, ma non riguarda il riassetto o lo sviluppo di aree urbane
esistenti. Pertanto, non solo non è direttamente soggetto a VAS ma non
ricade in nessuna delle due ipotesi di verifica di assoggettabilità.
28. Cautelativamente, in forza del principio secondo cui l’amministrazione
deve comunque accertare se le opere, anche di piccole dimensioni, producano
impatti significativi sull'ambiente (v. art. 6, comma 3, del Dlgs.
152/2006), l’attivazione della verifica di assoggettabilità appare corretta.
In concreto, l’esame delle criticità della lottizzazione è stato effettuato
dalla conferenza di servizi del 15.06.2010, che si è soffermata anche sul
problema della distanza minima dall’allevamento.
29. Per quanto riguarda la distinzione tra autorità competente e autorità
procedente (v. art. 5 e 12 del Dlgs. 152/2006), si rinvia
all’interpretazione giurisprudenziale che considera normale la collocazione
delle stesse all’interno del medesimo ente, trattandosi di funzioni non in
rapporto di contrapposizione o controllo, ma chiamate a collaborare allo
scopo di consentire una decisione finale basata sul necessario
approfondimento tecnico (v. CdS Sez. IV 12.01.2011 n. 133; TAR Brescia Sez.
II 02.05.2013 n. 400) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 29.04.2014 n. 997 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA –
LAVORI PUBBLICI:
VIA - Per insediamenti abitativi - Normativa regionale –
Fattispecie.
Non essendo applicabile al caso di specie la normativa
regionale in materia di grandi insediamenti commerciali
(tale non essendo un insediamento residenziale con albergo),
per decidere dell'assoggettabilità di un intervento edilizio
a VIA occorre guardare alle altre previsioni normative
regionali e non a considerazioni ulteriori sul generico
pregio dell'area interessata, che nella specie
assoggettano a verifica di VIA gli interventi tra i 10 e i
40 ettari che sia all'interno di aree urbane esistenti,
ciò che nella specie, ad un accertamento di fatto dei
luoghi, ricorre, con conseguente legittimità dei successivi
dinieghi di costruire.
---------------
VIA - Mancata verifica di sottoposizione
dell'intervento a VIA - Inidoneità dei documenti presentati
alla valutazione - Richiesta di integrazione documentale
prima di procedere alla VIA - Necessità.
I principi di partecipazione al procedimento
e di leale cooperazione fra P.A. ed amministrati, nonché
quello di economicità, vanno interpretati nel senso che
l'amministrazione, ove nutra dubbi sulla possibilità di
accogliere l'istanza del privato, debba prioritariamente
chiedere a quest'ultimo i chiarimenti che consentirebbero di
evitare un esito negativo, o comunque un esito al quale il
privato non è indifferente (come nel caso in cui gli si
imponga l'obbligo di procedere a VIA).
Se, dunque, non è in questione il merito
della vicenda, ma solo l'idoneità dei documenti presentati a
valutarlo, l'amministrazione dovrà richiedere ulteriore
documentazione prima di valutare se l'incertezza non sia
superabile se non con la compiuta procedura di VIA.
---------------
… per l'annullamento, previa sospensione
dell'efficacia, AVVERSO ORD. DIR. 04.11.2005 n. 187:
SOSPENSIONE LAVORI DI ESECUZIONE OPERE DI URBANIZZAZIONE;
PROVV. DIR. 31.07.2006 n. 21843: DENEGATO PROVVEDIMENTO
AUTORIZZATIVO UNICO ED ATTI CONNESSI.
…
La “La.Im. S.r.l.” [d’ora in avanti, soltanto
“La.”] è proprietaria in Mantova di un appezzamento di
terreno di 334.727 mq, distinto al Catasto di detto Comune
al foglio 40, mappali 22, 38, 40, 42, 43, 44, 112, 114, 124,
135 e 166, sito in prossimità della sponda est del Lago
Inferiore e classificato dal vigente P.R.G. come parte del “Comparto
Strada Cipata 1”, zona C soggetta a piano attuativo
obbligatorio; del comparto in questione fa parte anche altro
terreno contermine, di 23.460 mq, distinto al Catasto
comunale allo stesso foglio 40, mappali 39, 58 e 59 e di
proprietà di un terzo soggetto, certa Co.Im. S.a.s. di
Co.Gi. (per tutti i dati citati, peraltro non controversi in
causa, v. comunque il doc. 13 ricorrente, copia convenzione
urbanistica, ove anche gli esatti estremi dei terreni di cui
consta il comparto).
In particolare, una variante al P.R.G. di
Mantova approvata da ultimo con delibera consiliare
07.09.2004 n. 82 (doc. 7 ricorrente, copia di essa; v. anche
il doc. 4 depositato dal Comune in ossequio all’ordinanza
istruttoria 1-17.01.2007 n. 101 di questo Tribunale, ove un
estratto della cartografia di piano e copia delle N.T.A.
nelle quali è compreso il comparto di cui si tratta; il dato
comunque è sempre non controverso) ha dapprima impresso la
suddetta classificazione al terreno in parola; in attuazione
di tale variante, è stato poi adottato e approvato, con
delibere consiliari 02.12.2004 n. 112 e 10.02.2005 n. 14 (doc.ti
10 e 11 ricorrente, copia di esse), il piano attuativo
previsto dallo strumento generale, integrato il 28.02.2005
dalla relativa convenzione urbanistica conclusa fra il
Comune, la La. e la ricordata Co. S.a.s. (doc. 13 ricorrente
cit., copia convenzione).
A norma del piano attuativo e della
convenzione citati, la La. programma allora un intervento di
superficie complessiva di 308.187 mq, ripartiti in 142.811
mq a destinazione residenziale e terziaria, 109.719 a parco
pubblico, 20.977 a parcheggio pubblico, 28.629 a strade ed
il residuo a rispetto stradale; sulla superficie a ciò
destinata programma poi 184.899 mc di edificazione-
corrispondenti ad una superficie lorda di pavimento di
61.633 mq destinati a residenza e, in piccola parte, ad
albergo- per 1233 abitanti teorici insediabili (per tutto
ciò, v. § 2 della convenzione urbanistica, doc. 13
ricorrente citato).
Per l’intervento descritto, la La. presenta
al Comune la richiesta di provvedimento autorizzativo unico
necessaria a realizzare le opere di urbanizzazione privata
di cui al piano attuativo, richiesta comprensiva di istanza
di autorizzazione paesistica e di denuncia inizio attività (cfr.
nel doc. 16 ricorrente, copia contratto di appalto,
l’allegato C, che comprende le copie delle relative
richieste); a fronte di ciò ottiene il 01.06.2005 la
sostanziale approvazione dell’Ente Parco del Mincio, nel cui
perimetro si trova il terreno interessato e che si limita ad
una breve serie di prescrizioni relative all’illuminazione
stradale (doc. 14 ricorrente, copia parere Ente citato: si
nota che essa occupa una sola facciata di foglio); e
contestualmente il rilascio della autorizzazione paesistica
02.04.2005 n. 74 (doc. 15 ricorrente, copia di essa);
procede allora ad appaltare le opere in questione (doc. 16
ricorrente, cit.).
Peraltro, il 14.11.2005, la La. riceve
notifica dell’ordinanza comunale 187/2005, la quale in
sintesi premette da un lato che l’area oggetto
dell’intervento è soggetta a “vincolo apposto con D.M.
26.05.1970 ‘dichiarazione di notevole interesse pubblico
degli spondali del Lago di Mezzo ed Inferiore’”, a “vincolo
automatico ai sensi dell’art. 142, lettere b) e f), del
d.lgs. 22.01.2004 n. 42” ed è inoltre “compresa all’interno
della perimetrazione del Piano territoriale di coordinamento
del Parco regionale del Mincio”; dall’altro che
l’intervento in corso di realizzazione deve essere
sottoposto in ragione delle sue caratteristiche a verifica
di sottoponibilità a valutazione di impatto ambientale e a
studio di incidenza delle possibili sue conseguenze sul
vicino sito naturalistico di interesse comunitario
denominato “Vallazza”; ciò premesso ordina la “sospensione
dei…lavori in corso presso l’area del Piano di lottizzazione
Strada Cipata n. 1 dalla data di notifica della presente
ordinanza sino all’esito dell’istruttoria…” (doc. 1
ricorrente, copia ordinanza citata).
Consultando gli atti richiamati nella
predetta ordinanza di sospensione, la La. apprende allora in
primo luogo che ad avviso della competente struttura
regionale l’intervento in questione, di superficie superiore
a 10 ha, va ritenuto ai sensi del punto 7.7 della delibera
18.12.2003 n. VII/15701 come “ambito urbano”,
soggetto quindi a verifica di assoggettabilità a v.i.a. “in
quanto il relativo perimetro risulta contiguo, per oltre il
50% della sua estensione, ad aree azzonate dal vigente
P.R.G. come A, B,C, D e servizi a valenza comunale” (cfr.
doc. 2 ricorrente, copia nota 27.10.2005 prot. n. 32149 del
Dirigente della struttura valutazione impatto ambientale
della Regione Lombardia); apprende poi che ad avviso
dell’Ente Parco del Mincio “per l’espressione dei pareri
di competenza è necessario che la documentazione di progetto
venga integrata da uno studio di incidenza…sul sito di
importanza comunitaria Vallazza” (doc. 4 ricorrente,
copia nota 19.10.2005 del Direttore del parco del Mincio).
Avverso tali atti, meglio indicati in
epigrafe, la La. ha proposto il ricorso principale,
articolato in tre censure, riportabili secondo logica ai
seguenti quattro motivi:
…
- con il terzo motivo (pp. 16-27 del
ricorso principale), si deduce la violazione delle norme
concernenti l’assoggettabilità a v.i.a., in particolare del
D.P.R. 12.04.1996, art. 1, comma 6, in relazione
dell’allegato B punto 7.
In proposito, si evidenzia ancora quanto
sopra esposto, ovvero che a monte dell’impugnata sospensione
lavori vi è la nota 27.10.2005 prot. n. 32149 del Dirigente
della struttura valutazione impatto ambientale della Regione
Lombardia (doc. 2 ricorrente cit., copia di essa), secondo
la quale l’intervento in parola è soggetto a verifica di
assoggettabilità a v.i.a. perché “con riferimento
all’allegato B al D.P.R. 12.04.1996, punto 7, lettera b,
l’ambito di intervento di estensione superiore a 10 ha può
essere classificato (ai sensi del punto 7.7 dell’allegato A
alla deliberazione della Giunta regionale della Lombardia
18.12.2003 n. 7/15701 in calce alla presente) come ‘ambito
urbano’ in quanto il relativo perimetro risulta
contiguo, per oltre il 50% della sua estensione, ad aree
azzonate dal vigente P.R.G. come A, B, C, D e servizi a
valenza comunale” (cfr. sempre doc. 2 ricorrente cit.).
Ciò posto, si evidenzia altresì che la citata
delibera della Giunta regionale 18.12.2003 n. 7/15701 (doc.
3 ricorrente, copia di essa) riguarda in realtà i progetti
di centri commerciali e di grandi strutture di vendita, non
quindi gli insediamenti residenziali come quello per cui è
causa.
In tali termini, si deduce l’illegittimità
della nota regionale, e in via derivata dell’ordinanza di
sospensione che la recepisce, sotto due distinti profili. In
primo luogo, si afferma che sarebbe illogico volere
applicare ad un intervento residenziale un criterio dettato
in origine, come si è visto, per il settore commerciale.
In tal senso, si osserva che il concetto di “ambito
urbano” di cui alla delibera 18.12.2003 n. 7/15701
non potrebbe in ogni caso assumere valenza generale,
riferita agli interventi di ogni specie, perché definito in
rapporto alla classificazione dei vari comuni operata dal
Programma per lo sviluppo del settore commerciale, e quindi
all’evidenza valido solo per tali fini, e che comunque la
delibera in parola, ove fosse ritenuta applicabile puramente
e semplicemente anche a fattispecie diverse da quelle
contemplate in modo espresso, sarebbe da ritenere
illegittima per illogicità.
In secondo luogo, si afferma che comunque
nemmeno applicando in via diretta la normativa del D.P.R.
12.04.1996 si potrebbe argomentare la necessità di
assoggettare l’intervento in parola a verifica di
sottoponibilità a v.i.a.
Si osserva infatti in tal senso che a norma
dell’allegato B punto 7 del decreto in parola, un intervento
di costruzione di superficie superiore a 10 ettari, ma
inferiore a 40 ettari come il presente, è soggetto alle
norme sulla v.i.a. solo qualora si configuri come “progetto
di sviluppo urbano all’interno di aree urbane esistenti”.
Tale non sarebbe l’intervento in esame, il
quale si collocherebbe all’esterno dell’area urbana,
configurerebbe un progetto di sviluppo di “aree urbane
nuove o in estensione”, e quindi sarebbe soggetto
alle norme sulla v.i.a. solo ove superasse i 40 ha di
estensione, il che nella specie pacificamente non avviene;
…
10. La questione della necessità o no di
sottoporre l’intervento per il quale è processo a verifica
di assoggettabilità a v.i.a. va allora decisa in base alle
norme, pure richiamate dalla nota regionale 27.10.2005
prot. n. 32149, del D.P.R. 12.04.1996,
che contrariamente a quanto sostenuto in sede
di discussione dal patrocinio del Comune resistente hanno
valore non meramente esemplificativo. In altri termini, un
dato intervento è soggetto o no alla procedura in esame se
rientra o no in una delle previsioni della norma, e non può
invece esservi assoggettato in base a considerazioni
ulteriori sul generico pregio dell’area interessata.
11. Ciò posto, le norme rilevanti per gli
interventi di costruzione come quello in questione sono,
come ricordato in narrativa, quelle dell’allegato B punto 7
del decreto citato, valide per i casi come il presente, in
cui, come ricordato in narrativa, è interessata una zona al
momento non costituita in area protetta.
Le norme in questione distinguono allora fra
progetto di sviluppo situato “all’interno di aree
urbane esistenti”, soggetto a verifica di v.i.a.
sol che superi i 10 ettari di estensione, e progetto di
sviluppo relativo ad “aree urbane nuove o in
estensione”, soggetto invece a verifica di
v.i.a. nel solo caso in cui superi i 40 ettari.
Poiché il progetto
della La., come è incontestato,
supera i 10 ettari, ma è inferiore ai 40, la sua soggezione
alla procedura in parola dipende dalla sua appartenenza alla
prima o alla seconda categoria, che quindi vanno previamente
definite.
12. Occorre partire in proposito dal
concetto di area urbana, che, come correttamente
ricordato dalla difesa della ricorrente (cfr. in part. il
doc. 51 cit. a p. 6), appartiene alla scienza
urbanistica, come tale è dato per presupposto dalla
normativa, e si identifica, per vero anche alla luce del
senso comune, con un’area edificata in modo compatto e
continuo, delimitata da zone agricole, prive di
edificazione, ovvero da interruzioni fisiche naturali od
artificiali: in tal senso si condivide la definizione
generale riportata dall’esperto di parte ricorrente arch.
Pi., nel documento appena citato, che argomenta in modo
coerente e corretto da opere generalmente apprezzate nel
settore, e non è stato contestato sul punto specifico.
13. Accettato il concetto generale di cui
sopra, il Collegio ritiene però di dissentire dalle
conclusioni che lo stesso esperto di parte ritiene di trarne
quanto al caso concreto.
Osservando la tavola 1 a pag. 8 del doc. 51
di parte ricorrente, la quale riproduce la conurbazione di
Mantova, si possono per quanto interessa individuare due
insediamenti: l’uno, contraddistinto con il numero “1” nella
tavola in parola, corrisponde al centro storico di Mantova;
l’altro, entro il quale dovrebbe situarsi il complesso La.,
è contraddistinto con il numero “3” e comprende gli abitati
di Frassino, Lunetta e Virgiliana e il complesso industriale
del petrolchimico.
Secondo l’architetto Pi., gli insediamenti 1
e 3 citati costituirebbero aree urbane distinte, in quanto
fra le due vi sarebbe l’interruzione rappresentata dal corso
del Mincio, che in quel punto forma i laghi Superiore, di
Mezzo ed Inferiore. Ne seguirebbe allora che l’intervento
della La., situato fra il margine dell’insediamento 3 e la
riva dei laghi, dovrebbe integrare un progetto di sviluppo
in espansione di area esistente, appunto l’area urbana 3,
che si andrebbe a sviluppare verso il Mincio (doc. 51
ricorrente, pp. 12 e 13).
14. Il ragionamento appena riferito,
peraltro, sta e cade con la premessa per cui gli
insediamenti 1 e 3 costituirebbero, appunto, aree urbane
distinte, in altre parole con l’effettiva idoneità del corso
del Mincio a fungere da “interruzione” fra le due,
nel senso proprio della definizione proposta.
E’ tale premessa che il Collegio non ritiene
di condividere, osservando come, in base alla stessa tavola
1 citata, oltre che per fatto notorio, gli insediamenti 1 e
3 siano uniti fra loro da due ponti sul Mincio, che fungono
da collegamento agevolmente praticabile, sì che di
interruzione vera e propria fra le due aree non si può
parlare, dato che i cittadini dal corso d’acqua nella loro
quotidiana esperienza possono in sostanza prescindere nei
loro spostamenti di vita sociale e di lavoro.
Ciò corrisponde anche al dato, sempre di
comune esperienza, per cui il centro storico e i quartieri
circostanti di Mantova –ma lo stesso si potrebbe dire per
molte altre città non solo italiane- costituiscono ormai un
tutto unitario, che come tale deve essere apprezzato in
tutti i casi di pianificazione ampiamente intesa.
Ne segue la necessità di considerare
l’intervento della La. come progetto di sviluppo
all’interno di area urbana, soggetto quindi a verifica
di v.i.a. per le ragioni già esposte. Ne segue, secondo
logica, la legittimità dei successivi dinieghi di permesso
di costruire pronunciati dal Comune, in quanto fondati sul
presupposto della necessità di sottoporre l’intervento alla
verifica stessa (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 06.11.2007 n. 1161 - link a
giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale, la cui
legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale,
in
forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due
terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo
in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva
risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di
edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione
della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni,
delle quali le principali, rilevanti nella vicenda esaminata, sono
costituite:
a) dall'essere i terreni in questione, se non precisamente
contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità
urbanistica, avere, cioè, tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di
fabbricabilità originano, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni,
attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto
legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi,
confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
A titolo di esempio,
si potrebbe verificare,
laddove si ritenesse legittima la "cessione di cubature" fra terreni
fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di "affollamento
edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi
cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con
evidente pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di
programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio
ancora più manifesto ove fosse consentita la "cessione di cubatura"
fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di
edificabilità; essendo, infatti, evidente che ove fosse consentito
l'asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più
vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una
diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano
presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di
edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione,
rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte.
---------------
In merito alla cessione di cubatura da un lotto all'altro, va
richiamata l'attenzione sul significativo dato fattuale, più
volte correttamente valorizzato dai giudici del merito, dell'assenza del
necessario requisito della "contiguità" dei fondi, intesa nel senso
che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le
particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre
essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza.
---------------
Nel valutare il motivo di impugnazione
avente ad oggetto la corretta applicabilità alla fattispecie della cessione di cubatura, la sentenza
richiamata ha ricordato che essa è un istituto di fonte negoziale, la cui
legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale (per
tutte si richiama Consiglio di Stato, Sezione V, 28.06.2000, n. 3636), in
forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due
terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo
in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva
risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di
edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Specifica però la sentenza che tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione
della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni,
delle quali le principali, rilevanti nella vicenda esaminata, sono
costituite:
a) dall'essere i terreni in questione, se non precisamente
contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità
urbanistica, avere, cioè, tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di
fabbricabilità originano, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni,
attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto
legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi,
confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
A titolo di esempio, la sentenza ricorda come si potrebbe verificare,
laddove si ritenesse legittima la "cessione di cubature" fra terreni
fra loro distanti, la realizzazione, per un verso, di una situazione di "affollamento
edilizio" in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi
cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con
evidente pregiudizio per l'attuazione dei complessivi criteri di
programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio
ancora più manifesto ove fosse consentita la "cessione di cubatura"
fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di
edificabilità; essendo, infatti, evidente che ove fosse consentito
l'asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più
vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una
diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano
presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di
edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione,
rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte.
Venendo poi all'esame del caso di specie, la sentenza 8635/2015 rileva come
terreni utilizzati in quell'occasione non fossero tra loro adiacenti e,
sebbene tutti tipizzati come agricoli, presentassero indici di
fabbricabilità fra loro difformi, per essere quelli cedenti classificati
nello strumento urbanistico locale come E2 e forniti di un indice di
fabbricabilità 0,03 mc/mq, mentre quelli cessionari erano, invece,
classificati come E3 e caratterizzati dal minore indice 0,01 mc/mq, con la
conseguenza che attraverso l'asservimento dei primi ai secondi si era
ottenuto l'effetto di violare il rapporto di edificabilità proprio di questi
ultimi, con palese compromissione delle finalità urbanistiche che siffatta
previsione perseguiva.
Il Collegio rilevava quindi la illegittimità della cessione di cubatura fra
terreni caratterizzati da indici di fabbricabilità fra loro diversi e
l'abusività dell'utilizzo di tale strumento negoziale, in quanto
grossolanamente volto alla elusione dei principi e delle regole in materia
di pianificazione edilizia, abusività ritenuta poi ridondante in senso
negativo sia sulla legittimità dei permessi a costruire in tal modo
rilasciati dal Comune di Morciano di Leuca che sulla efficacia delle
autorizzazioni paesaggistiche richiamate nell'articolato capo di
imputazione.
Tali argomentazioni sono state ribadite, negli stessi termini, in una
successiva pronuncia (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Nespoli ed altri, non
massimata), riguardante terreni che, sebbene tutti classificati come
agricoli, presentavano indici di fabbricabilità fra loro difformi, essendo
stati quelli cedenti, in quanto tipizzati nello strumento urbanistico
locale come E2, forniti di un indice di fabbricabilità 0,03 mc./mq. e quelli
cessionari, tipizzati come E3, caratterizzati, invece, dal minore indice
0,01 mc./mq. (si vedano anche, sullo stesso tema e relativamente a vicende
analoghe, Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambone, non massimata; Sez. 3,
n. 30025 del 04/12/2017 (dep. 2018), Scrudato, non massimata; Sez. 3, n.
2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano e altri, Rv. 271770; Sez. 3, n.
56085 del 18/10/2017, Melcarne, non massimata; Sez. 3, n. 52605 del
04/10/2017, Renna, non massimata; Sez. 3, n. 26714 del 14/01/2015, Tedoldi ,
non massimata).
La sentenza 35166/2017, nel ribadire l'orientamento espresso con la sentenza
8635/2014, ha anche evidenziato che a ciò non osta una precedente pronuncia
di questa Sezione (Sez. 3, n. 28225 del 03/05/2011, Panada, Rv. 262512, non
massimata sul punto), la quale ha, in realtà, unicamente escluso la
rilevanza degli strumenti urbanistici comunali che, nella sentenza
impugnata, la Corte di appello richiama nel sostenere la tesi della vigenza
dell'art. 51 legge regionale 56/1980.
Anche in ipotesi di aree entrambe tipizzate come zona agricola E2 ed avente
il medesimo indice di fabbricabilità non può essere esclusa la illegalità
dell'operazione effettuata.
Va infatti richiamata l'attenzione sul significativo dato fattuale, più
volte correttamente valorizzato dai giudici del merito, dell'assenza del
necessario requisito della "contiguità" dei fondi, intesa nel senso
che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le
particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre
essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza (così Cons.
Stato Sez. V n. 6734, 30.10.2003; Sez. V n. 400, 01.04.1998 e, più
recentemente, TAR Campania (Salerno) Sez. H n. 1675 del 19/07/2016).
Tali principi sono stati richiamati anche da questa Corte (Sez. 3; n. 33884
del 12/07/2006, Ferrara, Rv. 235054; Sez. 3, n. 10122 del 22/01/2013,
Scrudato, non massimata; Sez. 3, n. 26714 del 14/01/2015, Tedoldi, non
massimata) anche con specifico riferimento alla vicenda in esame (Sez. 3, n.
9881 del 08/02/2018, Costantini ed altri, non massimata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
16.11.2018 n. 51833). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
condiviso indirizzo interpretativo la legittimità della cessione di cubatura
richiede non solo l’omogeneità d’area territoriale, ma anche la contiguità
dei fondi.
Se la giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti riferiti ad
aree anche se non contigue sul piano fisico, purché vicine in modo
significativo, in concreto essa ha chiarito che deve ritenersi significativa
già una distanza tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e,
in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento.
---------------
Il diniego del permesso di costruire in sanatoria è stato giustificato col
contrasto dell’intervento con le norme tecniche di attuazione del vigente
piano regolatore generale, per le seguenti motivazioni: «al P.d.C.
vengono accorpati al fine di raggiungere la cubatura necessari[a] lotti non
contigui ma distanti qualche chilometro, pertanto neanche ragionevolmente
vicini al fondo oggetto di edificazione. Inoltre la variante non sana in
alcun modo il cambio di destinazione d’uso rilevata. Pertanto permangono e
aumenti considerevoli di volumetria e superficie in contrasto con l’art. 32,
comma 1, lett. b e c, del DPR 380/2001 smi, essendo stati gli immobili
alienati come civile abitazione in contrasto con la zona omogenea G3, in
contrasto con la lett. a, comma 1, dell’art. 32 citato».
...
Il ricorso non merita accoglimento.
La società ricorrente non contesta la circostanza di fatto che i fondi
asserviti distano tra loro qualche chilometro, ma ne sostiene l’irrilevanza
opinando sufficiente che tra gli stessi vi sia omogeneità di destinazione
urbanistica.
In senso contrario, però, va osservato che per condiviso indirizzo
interpretativo la legittimità della cessione di cubatura richiede non solo
l’omogeneità d’area territoriale, ma anche la contiguità dei fondi, e che,
se la giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti riferiti ad
aree anche se non contigue sul piano fisico, purché vicine in modo
significativo, in concreto essa ha chiarito che deve ritenersi significativa
già una distanza tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e,
in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento (cfr. C.d.S., sez.
VI, 14.04.2016, n. 1515).
Applicando tali principi al caso in esame, dunque, è dirimente che i fondi
asserviti, pur situati nello stesso contesto territoriale, sono distanti tra
loro qualche chilometro e, pertanto, privi del requisito della contiguità.
Tanto basta al rigetto del ricorso, poiché quando una determinazione
amministrativa si fonda su una pluralità di ragioni ciascuna delle quali di
per sé idonea a supportarla in modo autonomo, come avviene nel caso in
esame, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse
in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso sfugga
all'annullamento (ex multis, cfr. C.d.S., Sez. V, 06.03.2013, n.
1373; sez. VI, 27.02.2012, n. 1081 sez. VI, 29.03.2011, n. 1897).
Ciò, infatti, comporta la carenza d’interesse della parte ricorrente
all'esame delle ulteriori doglianze, posto che, se anche si rivelassero
fondate, il loro accoglimento non sarebbe, comunque, idoneo a soddisfare il
suo interesse ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. II, 05.05.2017, n. 2421).
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 02.10.2018 n. 5737 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Il
protocollo d’intesa con cui il Comune assume impegni con un privato ha
natura contrattuale.
Il protocollo d’intesa tra Comune e privato anche se
origina dal perseguimento di una finalità pubblica non esclude il carattere
iure privatorum degli impegni assunti tra le parti. E non si può lamentare
alcuna illegittimità dell’intesa se firmata dal capo staff del sindaco e non
dal dirigente competente.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 21.06.2018 n. 16327 ha, infatti, cassato la decisione di
merito che aveva ritenuto mero atto politico d’indirizzo il protocollo e
privo di stringenti impegni contrattuali, che possano, in particolare
determinare l’inadempimento della Pa con le normali conseguenze risarcitorie.
Il Comune di Roma aveva concluso un protocollo d’intesa con la Siae per lo
sgombero di un immobile su cui la società intendeva svolgere operazioni
redditizie ma che invece ne era impedita in quanto lo stabile era occupato
in parte da famiglie e in parte da realtà associative. Il Comune aveva
assunto la custodia del bene e soprattutto, ciò che qui rileva, l’impegno a
riconsegnare entro tre mesi l’immobile «liberato» dagli occupanti
senza titolo.
L’emergenza abitativa aveva posto il Comune in una posizione di tolleranza
per provvedere allo sgombero delle parti dell’immobile fruite come residenze
familiari solo successivamente all’aver individuato altri alloggi idonei.
Impegno rispettato a metà dall’ente locale che, sebbene, fosse riuscito a
sgomberare le famiglie non aveva invece restituito il pieno diritto di
godimento al proprietario per quanto riguardava la realtà associativa
presente al piano terra e seminterrato. Per tale inadempimento la Siae
chiedeva al giudice civile il risarcimento del danno patito per non aver
potuto ancora procedere a effettuare operazioni redditizie come l’affitto o
la vendita sul bene.
Il giudice di secondo grado aveva negato alla Siae -che richiedeva il
risarcimento dei danni al Comune- che il protocollo su cui si fondava la sua
domanda fosse un negozio giuridico perfetto di diritto privato. Prima di
tutto sostenevano i giudici che un protocollo d’intesa non potesse mai
essere uno di quei contratti di natura privata che conclude la pubblica
amministrazione, poiché per sua natura è un atto di indirizzo politico e non
può determinare obbligazioni a carico della parte pubblica. E che inoltre
l’atto non sarebbe perfezionato in quanto non reca la firma dell’organo
gestionale, e non rappresentativo, competente per materia del Comune. La
sentenza con una lunga disamina contraddice entrambe le censure della Corte
di merito che aveva respinto -ribaltando il giudizio di primo grado- la
domanda risarcitoria della Siae.
Prima di tutto la Cassazione affronta il tema del perfezionamento
dell’impegno contrattuale del Comune verso la società e chiarisce che nei
negozi giuridici di diritto privato conclusi dalla Pa va comunque apposta la
firma di chi riveste il ruolo apicale di governo non bastando l’impegno
sottoscritto dal solo dirigente amministrativo di settore. Non si poteva
quindi negare la natura di impegno contrattuale alla determinazione presa
dal Comune col Protocollo d’intesa, firmata dal capo staff del sindaco, ad
assumersi la responsabilità di custode del bene al fine di provvedere allo
sgombero e senza prevedere alcun compenso per la proprietà.
Il ruolo pubblico e politico del Comune nel farsi carico della vicenda nasce
da una di quelle vicende che sono oggetto dell’azione di governo di un ente
locale, cioè l’emergenza abitativa, cui non sapeva come far fronte se non
dandosi un termine congruo per provvedervi. E qui sta la vera precisazione
della Cassazione che fa notare che la natura puramente contrattuale di un
rapporto giuridico in cui la pubblica amministrazione sia in una posizione
di fondamentale parità col privato discenda dal fatto che il contratto non
mira allo svolgimento di un’azione pubblica o al raggiungimento di un fine
pubblico, come esempio nelle convenzioni o concessioni.
Che all’origine della scelta del Comune di farsi custode e carico di un
impegno verso la Siae ci fosse la finalità pubblica di fronteggiare
l’emergenza abitativa tenendo ferma l’occupazione per almeno altri 90 giorni
dalla firma dell’intesa, nulla toglie alla natura contrattuale di quanto
promesso dalla Pa. Quindi nei rapporti tra società e Comune ciò che rileva è
l’adempimento o meno delle obbligazioni previste
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.06.2018).
---------------
MASSIMA
2. Con il secondo motivo di impugnazione si deduce la violazione
e/o falsa applicazione dell'articolo 4 D.lgs. n. 165 del 2001 ex articolo
360, numero 3, cod. proc. civ..
Ritiene la parte ricorrente che il protocollo in questione non debba essere
inquadrato nella categoria dell'atto politico o di indirizzo politico
poiché, per definizione, tale attività è svolta dagli organi costituzionali
dello Stato e consiste nella formulazione di scelte con le quali si
individuano i fini che lo Stato intende perseguire in un determinato momento
storico attraverso l'attività amministrativa; inoltre, secondo la dottrina
prevalente, l'attività di indirizzo politico non costituisce una quarta
funzione dello Stato rispetto alle tre tradizionali (normativa,
giurisdizionale, amministrativa); in più detta attività, sotto il profilo
formale, si esprime attraverso una ben determinata tipologia di atti come
leggi oppure risoluzioni, direttive, mozioni interrogazioni e interpellanze.
2.1.
La norma di riferimento è l'art. 4 del D.lgs. n. 165 del 2001
-contenente le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche-,
la quale, nel qualificare le attività di
indirizzo politico-amministrativo, e in particolare le funzioni e
responsabilità al suo interno
(ex art. 3 del d.lgs. n. 29 del 1993, come
sostituito prima dall'art. 2 del d.lgs n. 470 del 1993 poi dall'art. 3 del
d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 1 del d.lgs. n.
387 del 1998)
indica che gli organi di governo esercitano le funzioni di
indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da
attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali
funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività
amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano,
in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l'adozione dei
relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e
direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed
economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro
ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili
finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a
carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da
specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti
ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Nel secondo comma si stabilisce che «ai dirigenti spetta l'adozione degli
atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e
amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle
risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via
esclusiva dell'attività amministrativa , della gestione e dei relativi
risultati».
Al terzo comma indica inoltre che «le attribuzioni dei dirigenti indicate
dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di
specifiche disposizioni legislative», mentre al quarto comma sancisce
che «le amministrazioni pubbliche i cui organi di vertice non siano
direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica,
adeguano i propri ordinamenti al principio della distinzione tra indirizzo e
controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall'altro».
Alla luce di questa norma,
la Corte di merito ha desunto che il protocollo d'intesa in esame,
qualificandosi come atto di contenuto politico, non potesse generare un
impegno negoziale nei confronti dell'ente proprietario del bene occupato
preso in custodia, sull'assunto che l'atto è stato emesso dall'organo di
vertice che era in grado di esprimere un'azione di indirizzo e controllo, e
non di attuare e gestire i relativi risultati, mancando l'assenso
dell'organo interno preposto.
2.2. La norma in esame non può valere per affermare che l'atto in questione
non costituisca una valida fonte di obbligazione a carico del Comune solo
perché non è stato seguito dal perfezionamento di un negozio sottoscritto
dal dirigente provvisto delle necessarie competenze e funzioni:
è principio generale del diritto amministrativo
(di cui si rinviene conferma nell'art. 4 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165)
che, nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, le cui strutture
siano connotate da organizzazione gerarchica, la delegabilità delle
funzioni, da parte dell'organo posto al vertice, ai collaboratori dotati di
adeguate qualifiche e cognizioni, costituisce la regola, salvo che la legge
non disponga diversamente, prevedendo una competenza funzionale ed
inderogabile dell'organo apicale
(v. Cass. n. 10202/2010), evenienza, questa, non riscontrabile nella specie
(v. anche Cass. 9441/2001).
Gli enti territoriali sono certamente organismi strutturati
gerarchicamente al loro interno, ma non devono ritenersi sottratti alla
regola di cui all'art. 4 D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 che dopo avere, al comma
1, riservato agli organi di Governo, le «funzioni di indirizzo
politico-amministrativo», successivamente elencando una serie di atti di
tal genere, al successivo comma 2 attribuisce una competenza generale
residuale ai "dirigenti" per l'adozione degli «atti e
provvedimenti amministrativi», comprensiva, segnatamente, di quelli che
impegnano l'«amministrazione verso l'esterno», precisando poi, al
comma 3, che le attribuzioni dei dirigenti possono essere «derogate
soltanto espressamente ed opera di specifiche disposizioni legislative».
Pertanto, la norma in esame non può certamente intendersi
nel senso di escludere, pur in presenza di un potere di delega interna di
funzioni, la sussistenza del relativo potere in capo agli organi apicali
della pubblica amministrazione, essendo tale norma intesa a sancire il
principio di ripartizione di competenze e di «normale delegabilità e
attribuzione delle funzioni non politiche» alla base della piramide
gerarchica, salvo diversa disposizione di legge.
2.3. Posta questa premessa in linea di diritto, si rileva
come il documento sottoscritto,
innanzitutto, non possa sussumersi nella categoria di puro
atto programmatico o politico solo perché denominato come Protocollo
d'intesa e proveniente dall'organo di vertice designato ad attuare
l'attività di indirizzo e controllo politico sul territorio del Comune
di Roma in una situazione di emergenza abitativa.
Il documento in esame,
oltre all'intento di trovare una soluzione politica e amministrativa alla
situazione di tensione abitativa correlata all'occupazione abusiva da parte
di terzi della proprietà immobiliare della società ricorrente,
contiene una chiara e inequivocabile assunzione di puntuali e
specifici impegni nei confronti della società ricorrente da parte del Comune
che ha regolarmente sottoscritto l'atto;
e, quanto al contenuto, è dato leggere che il Comune si è reso garante,
assumendone la custodia con ogni relativa responsabilità, della liberazione
dell'immobile, facendosi carico delle spese di gestione e impegnandosi entro
90 giorni a individuare spazi alternativi per le predette associazioni e a
effettuare la riconsegna dei locali alla SIAE.
2.4. Sulla nozione di atto politico si deve fare
riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale «alla
nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno
soggettivo e l'altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di
atto-provvedimento emanato dal governo, e cioè dall'autorità amministrativa
cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo
livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto
provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anziché
nell'esercizio di attività meramente amministrativa
(Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2012, n. 2588),
ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il
funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro
coordinata applicazione»
(v. Consiglio di Stato, sez. IV, 18.11.2011 n. 6083; Consiglio di Stato,
sez. IV, 12.03.2001 n. 1397; Consiglio di Stato, 08.07.2013 n. 3609).
2.5. Alla luce di quanto sopra, il Protocollo di intesa in oggetto,
sottoscritto dalla società proprietaria del bene, per la parte che inerisce
agli obblighi assunti dalla PA verso quest'ultima, non si pone certamente
nell'alveo dell'atto di indirizzo politico, di mero contenuto programmatico,
non avendo esso alcuna attinenza con la costituzione, la salvaguardia e il
funzionamento dei pubblici poteri.
All'opposto, detto documento contiene un impegno preciso dell'ente
territoriale nei confronti del proprietario dei beni occupati a fronte della
necessità del Comune, questa sì di rilievo pubblico, di risolvere
un'emergenza abitativa che gli compete.
I due diversi piani di vincolo giuridico assunto nei confronti del
proprietario del bene, da un lato, e di motivo «politico»
dall'altro alla propria autodeterminazione, tuttavia, non possono
confondersi, trovandosi in tale documento un contenuto inequivocabilmente
negoziale e generatore di obblighi nei confronti di un soggetto privato, con
specifica previsione, da parte della PA, di assumere la custodia del bene e
di garantire la restituzione del bene a fronte di una rinunzia temporanea,
da parte del proprietario del bene, a esercitare i propri diritti di
autotutela, all'epoca già avviati mediante denunce penali e richieste
d'intervento da parte della forza pubblica.
2.6. Quanto sopra considerato
permette di rilevare come sia del tutto
riduttivo qualificare l'atto in questione come atto politico di contenuto
programmatico solo in virtù della posizione apicale dell'organo della
Pubblica Amministrazione che lo ha sottoscritto, senza tenere conto del
contenuto, in esso racchiuso, di impegno formale nei confronti del soggetto
proprietario del bene che, confidando nell'adempimento delle obbligazioni
ivi portate, ha rinunziato ad esercitare i propri diritti, in tal modo
venendo incontro all'esigenza del Comune di risolvere in via
politico-amministrativa l'emergenza abitativa da cui originava l'occupazione
del bene da parte di terzi.
Il Comune, invero, si è reso garante del rilascio al legittimo proprietario
del bene immobile entro un determinato termine, assumendone la custodia, i
relativi oneri e la responsabilità nei confronti proprietario. A p. 29 del
negozio in questione si parla di impegno negoziale e, quindi, considerando
la causa sottostante e gli interessi in gioco, le circostanze del caso e la
natura degli obblighi assunti depongono a favore dell' inquadramento del
rapporto nell'alveo del negozio costituente fonte di obbligazioni iure
privatorum.
2.7. Peraltro, la presenza di obbligazioni di matrice
contrattuale mette in rilievo anche la sussistenza della giurisdizione
dell'AGO, considerato che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e
amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il
cosiddetto «petitum» sostanziale che ne è l'oggetto
(cfr. Cass. S.U., sentenza n. 8227 del 03.04.2007).
Difatti, la domanda proposta concerne in via diretta e immediata non tanto
l'esercizio del potere dell'autorità amministrativa di provvedere alla
organizzazione e alla modalità di prestazione di un servizio pubblico, bensì
la mancata osservanza entro i tempi previsti degli specifici obblighi
assunti nei confronti del privato, fonte di danno per il privato.
Nell'ambito di un negozio concluso dalla pubblica
amministrazione iure privatorum, con indicazione delle modalità e dei
termini di adempimento tipiche di una negoziazione tra privati, non è
difatti configurabile un potere discrezionale dell'amministrazione in
termini di scelta sul se, come e quando adempiere l'obbligazione assunta, il
cui comportamento va, quindi, valutato alla stregua di un qualsiasi privato
contraente, senza alcuna limitazione, per il giudice ordinario, nella
indagine diretta ad accettarne l'eventuale responsabilità per inadempimento
(v. Cass., SS.UU., Sentenza n. 2618 del 22/07/1968).
2.8. Il negozio in questione, per come è strutturato, non rientra
neanche nella speciale categoria delle convenzioni tra pubblica
amministrazione e privati, che ricomprende i «contratti ad oggetto
pubblico» e i contratti «ad evidenza pubblica», ove in
quest'ultima ipotesi non è presente una regolazione degli aspetti
patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo
procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto
contraente con la pubblica amministrazione. In questi casi, una volta
scelto il contraente, il negozio stipulato successivamente alla fase di
evidenza pubblica non rifluisce immediatamente nella più generale
disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che
eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente
instaurato tra privati.
Così infatti dispone l'art. 11 della l. n. 241/1990
che prevede un regime di tipo amministrativo per tali convenzioni. Il
Consiglio di Stato, difatti, ha già avuto modo di osservare (Sez. IV, 03.12.2015 n. 5510), con considerazioni riconfermate
successivamente (Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016), che il
rapporto amministrazione/concessionario, fondato sulle (usualmente
definite) «concessioni/contratto», proprio in ragione delle sue
peculiarità originate dall'inerenza all'esercizio di pubblici poteri, non
ricade in modo immediato, e tanto meno integrale, nell'ambito di
applicazione delle disposizioni del codice civile, le quali, se possono
certamente trovare applicazione in quanto compatibili ovvero se
espressamente richiamate, tuttavia non costituiscono la disciplina
ordinaria di tali convenzioni, né ciò è indicato dalla l. n. 241/1990, ed
in particolare dall'art. 11.
Nell'ambito dell'art. 11, sotto la comune
dizione di accordi, coesistono sia contratti propriamente detti, sia
accordi procedimentali, e l'applicazione dei principi in tema
di obbligazioni e contratti agli accordi dell'amministrazione
(riconducibili o meno alla generale figura del contratto) trova in ogni
caso un limite, e dunque una conseguente necessità di adattamento,
nella immanente presenza dell'esercizio di potestà pubbliche, e nelle
finalità di pubblico interesse cui le stesse sono teleologicamente
orientate.
Come la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
osservare (Cons. Stato, sez. V, 05.12.2013 n. 5786; 14.10.2013 n. 5000), fermi i casi di contratti integralmente di diritto privato
(per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice
civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico
l'amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di
supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del
diritto privato, ma meramente dai principi del codice civile in materia
di obbligazioni e contratti, sempre in quanto compatibili con essi e
salvo che non sia diversamente previsto.
Ciò, ovviamente, non esclude
-sussistendone i presupposti sopra delineati- che il giudice possa fare
applicazione anche della disciplina dell'inadempimento del contratto,
allorché una parte del rapporto contesti un inadempimento degli
obblighi di fare (Cons. Stato, sez. IV, 24.04.2012 n. 2433).
2.9. Nel caso delle convenzioni che accedono all'esercizio di potestà
amministrativa concessoria -dove è chiara la natura latamente
contrattuale dell'atto bilaterale, stante la regolazione di aspetti
patrimoniali- ben possono trovare applicazione le disposizioni in tema (di obbligazioni e contratti, nei limiti sopra descritti.
Difatti, tale applicazione non può esservi, se non considerando la
persistenza (ed immanenza) del potere pubblico, dato che l'atto fondativo
del rapporto
tra amministrazione e concessionario non è la convenzione, bensì il
provvedimento concessorio, rispetto al quale la prima rappresenta solo
uno strumento ausiliario, idoneo alla regolazione (subalterna al
provvedimento) di aspetti patrimoniali del rapporto. Le considerazioni
espresse con riferimento particolare ai cd. «contratti ad oggetto
pubblico», ben possono essere ribadite, sia pure con i necessari
adattamenti di specie, alle ipotesi di contratti cd. «ad evidenza
pubblica», laddove non è presente una regolazione degli aspetti
patrimoniali dell'esercizio della potestà, ma sono presenti solo
procedimenti antecedenti al contratto, volti a individuare il soggetto
contraente con la pubblica amministrazione.
Tuttavia, anche in questi
casi, una volta scelto il contraente, il contratto stipulato
successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce
immediatamente nella più generale disciplina del codice civile e delle
ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale
consensualmente instaurato tra privati. Ciò è a tutta
evidenza negato dalla stessa presenza di una (copiosa) disciplina
speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello
funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in
ragione della particolare natura dello stesso.
Anche in tale caso, tale
particolare natura non è costituita dall'essere la pubblica
amministrazione quale soggetto contraente, bensì dall'essere la causa
e l'oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle
finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto, e dunque con
l'adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive
prestazioni (a seconda dei casi, l'opus o il servizio). In primo luogo,
dunque, vi è una disciplina speciale, che giustifica la propria
ragionevolezza sulla altrettanto speciale natura del contratto; in
secondo luogo, vi è una possibile applicazione delle norme del codice
civile in tema di obbligazioni e contratti, che "sconta" la differente
natura della causa e dell'oggetto dei medesimi contratti pubblici
(Consiglio di Stato, sez. IV, 19/08/2016).
2.10. Tutto quanto sopra osservato risulta utile per tracciare la
distinzione tra contratto pubblico e negozio privato alla luce dei
variegati rapporti che la Pubblica Amministrazione può oggi
intrattenere con i privati. La definizione del contratto quale
«contratto pubblico», difatti, non indica esclusivamente (e
semplicisticamente) la presenza di un soggetto pubblico quale parte
contraente, bensì una oggettiva finalità di pubblico interesse
perseguita per il tramite del contratto e del suo adempimento.
Tale
finalità non costituisce (né lo potrebbe) una «immanenza» esterna
al contratto, ma essa conforma il contratto medesimo, ed in
particolare -proprio in ragione delle definizioni che il diritto privato ne
offre- gli elementi essenziali della causa e dell'oggetto. Per un verso,
infatti, la finalità di pubblico interesse entra nella definizione di causa,
sia ove intesa quale funzione obiettiva economico- sociale del negozio, sia
ove intesa quale funzione obiettiva giuridico-individuale dell'atto; per
altro verso, essa conforma l'oggetto del contratto, ossia il contenuto
del medesimo. Ciò comporta che, laddove l'interprete debba giudicare
della illiceità o meno della causa di un contratto pubblico, ovvero della
impossibilità (materiale o giuridica) o della illiceità dell'oggetto di tale
contratto, non può non ricordare che tali elementi essenziali sono
diversamente conformati, e dunque richiedono una verifica che tenga
conto di tale loro specificità.
Allo stesso modo, quanto sin qui descritto
si riflette anche sul rapporto contrattuale, sull'adempimento del
contratto e sulle ipotesi di risoluzione del medesimo, così come
contemplate dal codice civile. D'altra parte, è sempre la particolarità
del contratto pubblico a giustificare una tutela anche penale dei
contratti della Pubblica Amministrazione (art. 355, inadempimento di
contratti di pubbliche forniture; art. 356, frode nelle pubbliche
forniture), dove l'interesse pubblico -che, come si è detto, conforma
causa ed oggetto del contratto- acquista rango di bene giuridico
tutelato dalla norma penale (Cass. pen., sez. VI, 27.02.2013 n.
23819; 05.12.2007 n. 16428; 11.11.2004 n. 47194).
2.11. In definitiva,
è solo in ragione di una analisi dettagliata e
specifica, che tenga conto delle considerazioni sin qui espresse, che può
concludersi per la applicabilità o meno di norme ed istituti del codice
civile ai contratti della pubblica amministrazione, ridenti soprattutto a
quelle particolari ipotesi (contratti ad oggetto pubblico, contratti ad
evidenza pubblica), in cui il contratto, dotato di «tipicità» propria
conferita da norme di diritto pubblico, non risulta, fin dal suo momento
genetico, regolato dal diritto privato.
2.12. Ragionando alla luce di quanto sopra detto, si rileva che il
contenuto dell' atto stipulato, in quanto regolatore di un diritto di
godimento di un bene privato, non presenta il contenuto di negozio ad
evidenza pubblica o ad oggetto pubblico. Sotto il profilo del rapporto tra
contenuto e forma, l'atto presenta la firma in calce del capo "staff" del
sindaco. In aggiunta a ciò, all'atto della consegna al proprietario
dell'immobile di parte dei locali sgomberati, avvenuta in data 23.02.2009, il contenuto degli impegni verso il proprietario è stato
confermato sempre dallo stesso Comune in persona del dottor Cl.Co.
(documento 12, pagina 2, riga 6), ove si legge che il Comune,
nel riconfermare l'impegno assunto il 26.01.2009 alla restituzione
del bene immobile occupato da terzi al proprietario entro 90 giorni al
massimo, assume la custodia dei suddetti locali e le parti concordano
con le associazioni che ne manterranno la disponibilità sino al termine
pattuito scadente il 09.05.2009, sotto la responsabilità del Comune.
E' altrettanto indiscusso che il Comune ha volontariamente e
tempestivamente dato esecuzione alla prima parte dell'impegno
assunto, relativa al trasferimento dei nuclei familiari occupanti abusivi,
provvedendo allo sgombero di gran parte dell'immobile e alla riconsegna
dello stesso al ricorrente, fatta eccezione per i locali per cui è
controversia, posti al piano terra e al piano interrato. Con la condotta di
parziale adempimento degli obblighi assunti, gli organi gestionali del
Comune hanno manifestato la volontà di tener fede agli impegni assunti
«in forma di protocollo di intesa» nei confronti del privato. Il tenore
del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto dalla
parte pubblica contraente, pertanto, sono tutti elementi incompatibili
con un'attività di mero indirizzo politico o con un'attività partecipativa
del privato alla realizzazione di un interesse pubblico nei termini sopra
meglio specificati.
2.13. Quanto alla forma dell'atto stipulato dal privato con la pubblica
amministrazione, deve osservarsi che vale il principio in base al quale
«in tema di contratti degli enti pubblici territoriali e con particolare
riferimento al conferimento di incarichi professionali, la regola generale
secondo la quale gli eventuali vizi della deliberazione di autorizzazione a
contrarre hanno rilievo esclusivamente nell'ambito interno
all'organizzazione dell'ente, ma non incidono sulla validità ed efficacia
del contratto privatistico di prestazione d'opera professionale, non
esclude che il legislatore possa dettare, anche in questo campo, norme
imperative, le quali trovano applicazione nei rapporti intersoggettivi, e
condizionano pertanto la stessa validità dei contratti di diritto privato
stipulati dalla Pubblica Amministrazione.
Tale è il caso dell'art. 23 del
d.l.
24.04.1989, n. 66, convertito in legge 03.02.1989, n. 144, il
quale, subordinando l'effettuazione di qualsiasi spesa ad una
deliberazione autorizzativa adottata nelle forme di legge e divenuta o
dichiarata esecutiva, nonché all'impegno contabile registrato sul
competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi
interessati, detta una disposizione che incide anche sui rapporti tra
l'Amministrazione ed i terzi» (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del
08/02/2006).
Nell'ipotesi in esame, tuttavia, il Comune non si è
impegnato al versamento di alcun corrispettivo a favore dell'ente
proprietario, essendosi limitato ad assumere la custodia e la gestione del
bene del proprietario occupato da terzi e a garantirne il rilascio entro un
determinato tempo, impegnandosi a individuare entro 90 giorni spazi
alternativi per le associazioni occupanti e per effettuare la riconsegna dei
locali al proprietario del bene, previo espletamento delle eventuali
formalità connesse al sequestro.
Si tratta, da una parte, di una
dichiarazione di pubblici intenti della pubblica amministrazione,
nell'ambito dell'attività di gestione di un'emergenza che coinvolgeva le
associazioni occupanti, rientrante nella competenza politico-amministrativa
del territorio che gli è propria (non in grado di rilevare
per il contraente, costituendo semmai un motivo interno al negozio) e,
dall'altra, di una corrispondente obbligazione di presa in custodia e
gestione in autonomia del bene privato, senza previsione di impegni di
spesa a favore del proprietario che si è limitato ad accettare la proposta
del Comune e a rinunciare alla disponibilità del bene a fronte
dell'impegno assunto dal Comune.
2.14. Quanto alla necessità della sottoscrizione dell'atto da parte
funzionario titolare si rammenta il precedente di questa Corte, Sez. 1,
Sentenza n. 5642 del 24/06/1997, in cui è stato affermato che «per il
perfezionamento dei contratti stipulati dalle amministrazioni comunali è
necessaria una manifestazione documentale della volontà negoziale da parte
del sindaco, organo rappresentativo abilitato a concludere, in
nome e per conto dell'ente territoriale, negozi giuridici, mentre devono
ritenersi, all'uopo, inidonee le deliberazioni adottate dalla giunta o dal
consiglio municipale, attesane la caratteristica di atti interni, di natura
meramente preparatoria della successiva manifestazione esterna di
volontà negoziale. Ne consegue che un contratto non potrà dirsi
legittimamente perfezionato ove la volontà di addivenire alla sua stipula
non sia, nei confronti della controparte, esternata, in nome e per conto
dell'ente pubblico, da quell'unico organo autorizzato a
rappresentarlo».
Nel caso di specie l'impegno assunto il 26.01.2009 nei confronti del proprietario proviene dal «capo staff del
Sindaco» ed è stato riconfermato successivamente da un funzionario
qualificatosi quale incaricato del Comune di Roma.
Pertanto, anche sotto
il profilo funzionale, l'atto è riconducibile all'organo che rappresenta
l'ente territoriale, sicché alla controparte privata non potrebbe
legittimamente opporsi il mancato perfezionamento di un procedimento
interno e amministrativo ai fini della sua efficacia, posto che -per i
motivi anzidetti- la circostanza che il Protocollo d'intesa in questione
non sia stato convalidato da un organo interno a ciò preposto non può
influire sulla natura ed efficacia dell'atto, ove sussista un requisito di
neutralità in termini di oneri di bilancio per l'amministrazione, come nel
caso in questione.
2.15. In definitiva,
l'ipotesi de qua si configura in termini di una
negoziazione e disposizione di diritti soggettivi attinenti alla proprietà
di un bene con relativa assunzione di obblighi di gestione e custodia da
parte del consegnatario del bene (pubblica amministrazione), e con
corrispondente rinuncia del proprietario titolare all'esercizio dei diritti
entro un termine pattiziamente convenuto; sul piano negoziale, e nel
rispetto delle forme previste nel negozio sottoscritto, vi è dunque la
stipula da parte dell'ente territoriale di un vero e proprio impegno nei
confronti del proprietario, sottoscritto da soggetti formalmente abilitati a
impegnare il Comune; se l'intesa convenuta appare atto programmatico e
politico, lo è solo con riguardo all'organo e alle finalità pubbliche
perseguite dall'ente territoriale nel volere assumere la gestione del bene
privato per risolvere una questione di rilievo sociale; tuttavia tale ultimo
aspetto, attinente al motivo sottostante al negozio, non vale certamente a
mutare la natura degli obblighi specificamente assunti nei confronti del
privato, a fronte del sacrificio imposto sui suoi diritti inerenti alla
proprietà.
Il tenore del documento sottoscritto e il comportamento successivo tenuto
dalla parte pubblica contraente sono tutti elementi incompatibili con un'attività
di mero indirizzo politico, la quale per sua natura ha contenuti meramente
programmatici, volti ad indicare le scelte da adottare e le finalità da
perseguire in relazione a questioni di carattere generale, o comunque
destinate ad intere categorie o settori di interesse, rimettendo ad atti
successivi la concreta attuazione in relazione alle singole fattispecie.
2.16. Tutto quanto sopra osservato conduce a ritenere che
la Corte d'appello
ha erroneamente qualificato l'atto in questione come atto politico e
programmatico, anziché come negozio giuridico regolato dalla disciplina
generale del negozio giuridico di diritto privato (iure privatorum)
con assunzioni di obblighi da parte della Pubblica Amministrazione.
Né la convenzione stipulata, come sopra visto, può rientrare nella
particolare categoria dei negozi ad evidenza pubblica o ad oggetto pubblico.
Ne consegue che, stante la natura contrattuale del negozio in questione,
deve dichiararsi la nullità della sentenza che ha escluso l'applicazione e
l'interpretazione della disciplina del contratto, in accoglimento del
secondo motivo. |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA
PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, luglio 2019).
---------------
Per quanto riguarda la guida “Ristrutturazioni edilizie:
le agevolazioni fiscali”, come si ricorderà, dal 30.06.2019
(data di entrata in vigore della legge di conversione del
decreto legge n. 34/2019) i contribuenti che beneficiano
della detrazione spettante per gli interventi effettuati per
il conseguimento di risparmi energetici (cioè quelli
indicati nell’articolo 16-bis, comma 1, lettera h, del Testo
unico delle imposte sui redditi) possono scegliere di cedere
il corrispondente credito in favore del fornitore dei beni e
servizi necessari alla loro realizzazione.
A sua volta, il fornitore ha facoltà di cedere il credito
d’imposta ricevuto ai suoi fornitori di beni e servizi, con
esclusione della possibilità di ulteriori cessioni da parte
di questi ultimi. Non è prevista, in ogni caso, la cessione
a istituti di credito e a intermediari finanziari.
Con il
provvedimento 31.07.2019 n.
660057/2019 di prot.
l’Agenzia delle entrate ha stabilito che la cessione dei
crediti va comunicata, a pena d’inefficacia, entro il 28
febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle
spese che danno diritto alle detrazioni e con le stesse
modalità specificate dal provvedimento del 18.04.2019 (punto
4). I crediti ceduti sono utilizzabili dal cessionario,
esclusivamente in compensazione, in 10 quote annuali di pari
importo.
Per gli interventi effettuati sulle parti comuni degli
edifici sarà l’amministratore del condominio a dover
comunicare la cessione sempre entro il 28 febbraio dell’anno
successivo a quello di sostenimento delle spese, ma con le
modalità individuate dal provvedimento del 28.08.2017 (punto
4.2). |
EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA
PRIVATA: SISMA BONUS: LE DETRAZIONI PER GLI INTERVENTI
ANTISISMICI (Agenzia delle Entrate, luglio
2019).
---------------
La guida recepisce le disposizioni contenute nel
provvedimento 31.07.2019 n. 660057/2019 di prot.
del direttore dell’Agenzia delle entrate in materia di
cessione del credito corrispondente alle detrazioni per
interventi di riduzione del rischio sismico ed è stata
aggiornata per recepire le modalità attuative di un’altra
importante novità contenuta nel decreto legge n. 34/2019.
Come ha previsto l’articolo 10, comma 2, il contribuente che
ha diritto alla detrazione per aver realizzato interventi di
adozione di misure antisismiche, ha ora la possibilità di
scegliere, invece che la detrazione, un contributo di pari
ammontare, sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto al
fornitore che ha eseguito gli stessi lavori. Il fornitore è
rimborsato mediante un credito d’imposta, da utilizzare
esclusivamente in compensazione in 5 quote annuali di pari
importo, oppure può cedere il credito ricevuto ai suoi
fornitori di beni e servizi.
Al riguardo, il provvedimento del direttore dell’Agenzia
delle entrate ha indicato come e quando esercitare l’opzione
per avere il contributo e ha stabilito le regole per il
recupero del credito da parte del fornitore. La scelta di
usufruire del contributo deve essere comunicata all’Agenzia
delle entrate, a pena d’inefficacia, entro il 28 febbraio
dell’anno successivo a quello di sostenimento delle spese
che danno diritto alle detrazioni.
Trovano spazio nella guida, infine, le indicazioni sulle
modalità attuative della cessione del credito corrispondente
alla detrazione spettante per l’acquisto di case
antisismiche (art. 46-quater del decreto legge n. 50/2017)
che si trovano in zone classificate a rischio sismico 1, 2 e
3. In particolare, la cessione dei crediti va comunicata
all’Agenzia delle entrate, a pena d’inefficacia, entro il 28
febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle
spese. Solo per quelle sostenute fino al 31.12.2018 la
comunicazione va effettuata dal 16.10.2019 al 30.11.2019 e
il credito ceduto è reso disponibile al cessionario a
decorrere dal 10.12.2019. |
EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA
PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, luglio 2019). |
EDILIZIA PRIVATA: EDILIZIA
PRIVATA: SISMA BONUS: LE DETRAZIONI PER GLI INTERVENTI
ANTISISMICI (Agenzia delle Entrate, luglio
2019). |
APPALTI: CALCOLO
DELLA SOGLIA DI ANOMALIA - Modelli esemplificativi di
esclusione automatica delle offerte ai sensi dell’art. 97
del D.lgs. 50/2016, Codice dei contratti pubblici, a seguito
delle modifiche introdotte dal dl. 32/2019, convertito con
modificazioni della l. 55/2019 (ANCE, luglio
2019). |
APPALTI: Istruzioni
di carattere generale relative all’applicazione del Codice
dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 50/2016) (MIUR,
quaderno n. 1 - 27.06.2019). |
VARI:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI SULLE SPESE SANITARIE
(Agenzia delle Entrate, giugno 2019). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto:
Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato
(c.d. FOIA) (in corso di registrazione presso la Corte
dei conti -
circolare 01.07.2019 n. 1/2019). |
ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Chiarimenti applicativi in materia di pausa obbligatoria
(art. 23 del CCNL Comparto Funzioni Centrali sottoscritto il
12.02.2018)
(nota
10.05.2019 n. 3446 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO: Le
regole del nuovo contratto «tagliano» la retribuzione di posizione dei
dipendenti in convenzione.
La modalità per calcolare la retribuzione di posizione dei dipendenti in
convenzione introdotta con il contratto 21.05.2018, ha lasciato l'amaro
in bocca ai responsabili degli enti locali prevedendo importi che rischiano
di essere molto più bassi rispetto a quelli calcolati con le vecchie regole.
Per questo motivo, un ente, si è rivolto all'Aran per avere qualche
chiarimento in più.
Nel
parere
19.06.2018 n. 12615 di prot. l'Agenzia riassume con
chiarezza la situazione, lasciando importanti spiragli di azione.
Criteri di calcolo
Gli enti locali in base all'articolo 30 del Dlgs 267/2000 possono stipulare
convenzioni per svolgere in forma associata alcune funzioni. Allo stesso
tempo, è anche possibile condividere i propri dipendenti su più enti
(articolo 14 del contratto 22.01.2004). Gli istituti sono diversi ma si
incrociano per quanto riguarda la corresponsione della retribuzione di
posizione e di risultato ai dipendenti incaricati di posizione
organizzativa.
Nello specifico va ricordato che secondo l'articolo 14 era possibile che la
retribuzione di posizione salisse fino a un massimo di 16.000 euro, importo
che poi i Comuni aderenti allo scavalco condiviso avrebbero dovuto dividersi
sia dal punto di vista finanziario sia per la verifica dei propri limiti di
spesa di personale e di trattamento accessorio. L'azione però era veramente
semplice: dall'evidente maggiore responsabilità per la gestione di due o più
enti, veniva riconosciuto a seguito di nuova pesatura l'incremento della
retribuzione fino ai 16.000 euro previsti dalla norma.
Nuove regole
Con il contratto 21.05.2018 le cose, però, cambiano. L'articolo 17,
comma 6, prevede che ciascun ente debba corrispondere la retribuzione di
posizione rapportando il valore della pesatura dell'area del singolo ente in
base alle ore di servizio che il dipendente svolge. Solo l'ente utilizzatore
può integrare l'importo di una somma massima del 30% della retribuzione
attribuita. Di fatto, se da una parte si semplificano le modalità di calcolo
e di imputazione delle somme tra le varie amministrazioni, dall'altra non è
semplice giungere all'importo complessivo di 16.000 come in passato,
rendendo l'istituto poco appetibile ai responsabili.
L'Aran, nel parere in esame, ricorda però che la nuova disposizione non si
applica al caso delle convenzioni disciplinate dall'articolo 30 del Dlgs
267/2000 laddove gli enti costituiscano uffici unici. In questo caso,
infatti, l'ente capofila a cui sono demandate le funzioni e i rispettivi
dipendenti, provvederà a pesare autonomamente l'area per giungere,
eventualmente, anche ai 16.000 euro. Si potrebbe, quindi, in questo modo
by-passare le criticità evidenziate dall'applicazione dell'articolo 17,
comma 6, del contratto 21.05.2018
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.05.2019). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
G. Gagliardini,
L’accesso civico
generalizzato alle procedure di affidamento dei contratti
pubblici
(16.08.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La divisione della giurisprudenza
amministrativa sull’ammissibilità dell’accesso civico
generalizzato agli atti delle procedura di affidamento dei
contratti pubblici; 1.1. L’orientamento dell’esclusione;
1.2. La tesi dell’applicazione; 2. Le ragioni (ulteriori)
dell’applicazione dell’acceso universale nelle gare
d’appalto; 3. Le esclusioni e i limiti all’accesso
generalizzato alle procedure di gara; 3.1. I divieti
temporanei di accesso; 3.2. I divieti assoluti di accesso;
3.3. L’inaccessibilità dei dati personali dei dipendenti
dell’operatore economico; 3.4. L’inaccessibilità del
know-how delle imprese; 4. Considerazione finale: il
deferimento all’Adunanza Plenaria dell’applicabilità
dell’accesso civico generalizzato agli atti delle procedure
di gara. |
URBANISTICA:
C. Guarisco,
Piani di lottizzazione: efficacia superiore a 10 anni per le
pattuizioni tra privati (01.08.2019 - link
a http://studiospallino.blogspot.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: F.
Lombardi,
La problematica definizione dell’ambito soggettivo di
applicazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di dati, informazioni e documenti previsti dal
d.lgs. 33/2013
(31.07.2019 - tratto da www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. Premessa. 2. Gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di dati, informazioni e
documenti nel d.lgs. 33/2013. 3. I destinatari del d.l.gs.
33/2013. 3.1. Le pp.aa. 3.2. Gli enti pubblici economici.
3.3. Gli altri soggetti di diritto privato. 4. Osservazioni
conclusive. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
S. Cicala,
RISORSE PER IL FINANZIAMENTO DEL SALARIO ACCESSORIO: IL
PARERE DELLA RGS - Commento al parere della Dipartimento
della Ragioneria Generale dello Stato protocollo n. 257831
del 18.12.2018 (PublikaDaily n. 15 -
31.07.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
R. Sacchi,
NUOVA PIATTAFORMA ANAC PER TRASMISSIONE PIANO ANTICORRUZIONE
E RELAZIONE DEL RESPONSABILE ANTICORRUZIONE: INDICAZIONI
OPERATIVE (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019). |
LAVORI PUBBLICI:
M. Terzi,
LAVORI DI SOMMA URGENZA: LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE DI
BILANCIO 2019 ED IL RECENTE ORIENTAMENTO DELLA CORTE DEI
CONTI (PublikaDaily n. 15 - 31.07.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: R.
Bertuzzi,
La normativa ambientale in materia di sfalci e potature e
abbruciamento di rifiuti vegetali e agricoli alla luce della
L. 37/2019
(23.07.2019 - link a www.tuttoambiente.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Straordinario
nel caso di trasferta del dipendente. Non condivisibili tesi
dell'Aran (22.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tetto
di spesa unico per le assunzioni negli enti locali. Fondi
differenziati per la contrattazione decentrata (22.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Conflitto di interessi negli appalti e nelle pratiche
amministrative: tracciamento e dichiarazioni (18.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
C. Guarisco,
Recinzione del fondo: è possibile vietarne la costruzione
solo in presenza di preminenti interessi pubblici
(18.07.2019 - link a http://studiospallino.blogspot.com). |
APPALTI:
S. Usai, LE NOVITÀ
INTRODOTTE DALLA LEGGE 55/2019 - II PARTE (LE PROCEDURE D
’ACQUISTO NEL SOTTO SOGLIA COMUNITARIO) (PublikaDaily
n. 14 - 17.07.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
CODICE DI COMPORTAMENTO: GLI OBBLIGHI DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE E LE COMUNICAZIONI DEI DI PENDENTI
(PublikaDaily n. 14 - 17.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Tudor,
Edificazione e distanze dai corsi d’acqua
(08.07.2019 - link a www.amministrativistiveneti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Falso
materiale ed ideologico una mera irregolarità formale?
Assurdo semplicemente pensarlo
(06.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Distanze tra edifici: i nuovi scenari aperti
dall'interpretazione autentica dello ^Sblocca Cantieri^
(05.07.2019 - link a www.dirittopa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
dirigenti a contratto debbono avere requisiti ben superiori
alla semplice esperienza professionale
(05.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
peso della pesatura delle PO
(04.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI:
S. Usai,
LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE 55/2019: LE SOSPENSIONI E
LE NORME SPERIMENTALI (PublikaDaily n. 13 -
03.07.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Sacchi,
L’APPLICAZIONE DEL D.LGS. 39/2013 NEGLI ENTI LOCALI
(PublikaDaily n. 13 - 03.07.2019). |
APPALTI: Differenze
tra indagini di mercato, trattativa diretta previa
acquisizione di preventivi e Rdo
(02.07.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Distanze tra edifici: qualcosa può cambiare (02.07.2019
- link a http://studiospallino.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni Organizzative: nessun obbligo di modificare la
pesatura a seguito del Ccnl 21.05.2018
(28.06.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
APPALTI: E.
Leonetti,
Sblocca-cantieri: le principali novità sui contratti
pubblici dopo la conversione
(IFEL, 20.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Neo
sindaci: niente spoil system su dirigenti e posizioni
organizzative di ruolo
(31.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L. Oliveri, Eliminare
l’abuso d’ufficio? No, grazie (26.05.2019 - link
a https://phastidio.net). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni
orizzontali limitate al massimo al 50%? Non condivisibili le
conclusioni del Mef
(22.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
termine del 20.05.2019 entro il quale incaricare le posizioni
organizzative non è vincolante
(15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
NOTE, COMUNICATI E
CIRCOLARI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: CATASTO DELLE TORRI DI RAFFREDDAMENTO (Regione
Lombardia,
nota 05.08.2019 n. 28244 di prot.).
---------------
ALLEGATI:
file 1 -
file 2 -
file 3 -
file 4 |
APPALTI: Oggetto:
Legge di conversione del decreto “sblocca cantieri”, n. 55
del 14.06.2019. Aggiornamento sui nuovi termini di pagamento
(ANCE di Bergamo,
circolare 05.08.2019 n. 197). |
EDILIZIA PRIVATA: Modalità
attuative delle disposizioni di cui all’articolo 10, commi 1
e 2, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
Cessione del credito corrispondente alla detrazione
spettante all’acquirente delle unità immobiliari, di cui
all’articolo 16, comma 1-septies, del decreto-legge 04.06.2013, n. 63 (c.d. SISMABONUS ACQUISTI).
Cessione del credito corrispondente alla detrazione
spettante per gli interventi di cui all'articolo 16-bis,
comma 1, lettera h), del testo unico delle imposte sui
redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica
22.12.1986, n. 917
(Agenzia delle Entrate,
provvedimento
31.07.2019 n. 660057 di prot.).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Sconto in fattura ecobonus e sismabonus: dalle Entrate il
provvedimento attuativo. L’opzione va comunicata
all’Agenzia delle Entrate, a pena d’inefficacia, nell’area
riservata del sito internet dell’Agenzia, entro il 28
febbraio dell’anno successivo a quello di sostenimento delle
spese che danno diritto alle detrazioni. Unicmi: lo sconto
in fattura è applicabile solo con il consenso del
costruttore di serramenti (01.08.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
URBANISTICA:
Oggetto: Adeguamento del Piano Territoriale Regionale, ai
sensi dell’art. 22, comma 1-bis, della l.r. 11.03.2005 n. 12
(Regione Lombardia,
nota 26.07.2019 n. 32483 di prot.). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Bollo
su documenti informatici: applicazione e modalità per
pagarlo.
Con due distinte risposte, l’Agenzia fa chiarezza su alcuni
aspetti pratici del tributo in caso di atti prodotti
digitalmente. Tra l’altro, spiega come si realizza il
presupposto impositivo dell’imposta.
Per i contratti pubblici formati
all’interno del Mercato elettronico della pa (Mepa) e i
relativi documenti redatti e firmati in formato elettronico,
il Bollo va assolto con il contrassegno telematico o in
modalità virtuale.
Per il rilascio, invece, dei duplicati informatici di atti
amministrativi informatici, l’imposta non sempre si applica.
In sintesi, le risposte nn. 321 e 323 del 25.07.2019 fornite
dall’Agenzia delle entrate a due istanze di interpello.
I due quesiti
Il primo dubbio (risposta
25.07.2019 n. 321)
è formulato da un ente che opera tramite Mepa per
l’affidamento di contratti pubblici aventi ad oggetto
lavori, servizi e forniture, con la conseguente produzione
di documenti in formato elettronico e firmati digitalmente.
L’istante chiede in che modo deve assolvere il Bollo su
questi atti prodotti digitalmente, prospettando, al contempo
tre differenti procedure: virtualmente (presentando una
domanda ad hoc all’ufficio delle Entrate competente), con
contrassegno telematico e tramite modello F24.
Il secondo quesito (risposta
25.07.2019 n. 323),
proposto da una Regione, è in sostanza una domanda puntuale:
se i duplicati informatici di documenti amministrativi
anch’essi informatici, prodotti in conformità alle
disposizioni del Codice dell’amministrazione digitale (Cad),
debbano essere assoggettati all’imposta di bollo.
Le due risposte
Le conclusioni dell’Agenzia naturalmente non possono
prescindere dalle norme di riferimento, quindi, in relazione
alla prima domanda i tecnici del Fisco “rispolverano”
gli articoli 3 e 15, del Dpr n. 642/1972, i quali
rispettivamente dispongono che l’imposta di bollo su
documenti informatici si versa ”…mediante pagamento … ad
intermediario convenzionato con l’Agenzia delle Entrate, il
quale rilascia, con modalità telematiche, apposito
contrassegno;… in modo virtuale, mediante pagamento
dell’imposta all’ufficio dell’Agenzia dell’entrate o ad
altri uffici autorizzati o mediante versamento in conto
corrente postale” (articolo 3) – in caso di pagamento
con modalità virtuale “… l’interessato deve presentare
apposita domanda –di autorizzazione– corredata da una
dichiarazione (…) contenente l’indicazione del numero
presuntivo degli atti e documenti che potranno essere emessi
e ricevuti durante l’anno” (articolo 15).
E queste sono le uniche due strade percorribili dall’istante
per assolvere l’imposta di bollo: in modo virtuale,
presentando agli uffici dell’Agenzia territorialmente
competenti apposita richiesta di autorizzazione o mediante
versamento ad un intermediario convenzionato con le Entrate,
che rilascia l’apposito contrassegno. Mentre è esclusa
l’ultima via proposta, vale a dire il pagamento tramite
modello F24, che si utilizza solo in caso di “documenti
informatici fiscalmente rilevanti”, vale a dire libri,
registri e altri documenti rilevanti ai fini tributari
(articolo 6, Dm 17.06.2014).
Per quanto riguarda la seconda domanda, l’Amministrazione
richiama la disciplina contenuta negli articoli n. 1, comma
1, della tariffa, parte prima, allegata al Dpr n. 642/1972,
e n. 5, comma 1, lettera b), dello stesso Dpr, in base ai
quali, nell’ordine, “per le copie dichiarate conformi,
l’imposta, salva specifica disposizione, è dovuta
indipendentemente dal trattamento previsto per l’originale”
e “per copia si intende la riproduzione, parziale o
totale, di atti, documenti e registri dichiarata conforme
all’originale da colui che l’ha rilasciata”.
Pertanto, il presupposto per l’applicazione del Bollo si
realizza quando sulle copie è presente la dichiarazione di
conformità all’originale, per le quali l’imposta dovuta è
nella misura di 16 euro.
Spostando poi l’attenzione sui documenti informatici,
l’Agenzia osserva che il Cad (Dlgs n. 82/2005) dispone che “i
duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad
ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono
tratti, se prodotti in conformità alle linee giuda”
(comma 1, dell’articolo 23-bis), cioè attraverso “processi
e strumenti che assicurino che il documento informatico
ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione, o su un
sistema diverso, contenga la stessa sequenza di bit del
documento informatico di origine”. Quindi, sostiene
l’amministrazione, così ottenuto, dal punto di vista tecnico
il duplicato è identico e indistinguibile dall’originale.
Pertanto, il presupposto impositivo dell’imposta di bollo si
realizza solo per le copie informatiche di documenti
informatici munite di dichiarazione di conformità
all’originale attestata da un pubblico ufficiale a ciò
autorizzato.
Tanto premesso, considerato che, come dichiarato dalla
Regione istante, sulle copie digitali dei documenti
amministrativi dematerializzati (decreti del presidente
della giunta regionale, del segretario generale, dei
direttori generali, dei vicedirettori generali e dei
dirigenti) non vi è alcuna dichiarazione di conformità
all’originale, per il loro rilascio non è prevista
l’applicazione dell’imposta di bollo
(25.07.2019 - tratto da e link a www.fiscooggi.it).
----------------
● OGGETTO: Articolo 11,
comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212. Applicazione
dell’imposta di bollo sul duplicato informatico di un
documento amministrativo informatico prodotto in conformità
alle disposizioni del Codice dell’Amministrazione Digitale.
Articolo 1, comma 1, della tariffa, parte prima, allegata al
d.P.R. 26.10.1972, n. 642 (Agenzia delle Entrate,
risposta 25.07.2019 n. 323).
● OGGETTO: Articolo 11,
comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212. Modalità di
assolvimento dell’imposta di bollo per i contratti pubblici
formati all’interno del MEPA, e gli allegati documenti
redatti in formato elettronico firmati digitalmente.
Articolo 3 del d.P.R. 26.10.1972 n. 642 (Agenzia delle
Entrate,
risposta 25.07.2019 n. 321). |
EDILIZIA PRIVATA: Istanze
di denuncia opere edilizie: trattamento fiscale ai fini del
bollo.
Imposta nella misura di 16 euro per
foglio sulle domande presentate alla pa per eseguire lavori
strutturali in cemento armato. Gli allegati tecnici, invece,
scontano il tributo solo in caso d’uso
(25.07.2019 - link a www.fiscooggi.it).
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OGGETTO: Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000,
n. 212. Applicazione dell’imposta di bollo alle attestazioni
di deposito dei documenti allegati alla denuncia di opere
edilizie in cemento armato. Articoli 2, 3, 4 della tariffa,
parte prima, allegata al d.P.R. 26.10.1972 (Agenzia
delle Entrate,
risposta 25.07.2019 n. 319).
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QUESITO
Il Comune di XXX –Area Sportello Unico per l’Edilizia- fa
presente che ai sensi dell’articolo 3, comma 1 del d.P.R. n.
642 del 1972, tutte le istanze presentate ad una pubblica
amministrazione scontano l’imposta di bollo.
Al riguardo, l’ente istante precisa che relativamente alla
denuncia di opere edilizie in cemento armato, richiede
l’assolvimento dell’imposta di bollo nella misura di 16.00
euro per i seguenti documenti:
a) deposito della documentazione strutturale;
b) deposito per gli interventi di sopraelevazioni (per i quali è
obbligatorio il parere tecnico);
c) deposito delle varianti;
d) deposito della dichiarazione di fine lavori e collaudo.
Premesso quanto sopra, il Comune interpellante chiede,
quindi, di conoscere se sia corretto richiedere
l’assolvimento dell’imposta di bollo per i predetti
documenti.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Con riferimento al quesito di cui al punto sub a),
concernente l’applicazione dell’imposta di bollo al deposito
della documentazione strutturale, si fa presente che il
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante “Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
edilizia”, all’articolo 65, comma 1, dispone che “Le
opere di conglomerato cementizio armato, normale e
precompresso ed a struttura metallica, prima del loro
inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo
sportello unico, che provvede a trasmettere tale denuncia al
competente ufficio tecnico regionale”.
I successivi commi 3 e 4 del predetto articolo 65,
prevedono, altresì, che alla denuncia devono essere allegati
il progetto dell’opera in triplice copia, firmato dal
progettista, una relazione illustrativa in triplice copia
firmata dal progettista e dal direttore dei lavori, e che al
costruttore, all’atto stesso della presentazione, sia
restituita una copia del progetto e della relazione con
l’attestazione di avvenuto deposito.
Da quanto sopra rappresentato, occorre distinguere il
trattamento tributario da applicare, ai fini dell’imposta di
bollo alle attestazioni di avvenuto deposito di opere in
cemento armato rilasciate dallo “sportello unico” ed
agli allegati tecnici relativi alla denuncia dei lavori.
A tal proposito, si osserva che le attestazioni di avvenuto
deposito rilasciate ai sensi dell’articolo 65, comma 4, del
testo unico sono soggette all’imposta di bollo, fin
dall’origine, nella misura di euro 16,00 per ogni foglio ai
sensi dell’articolo 4, comma 1, della tariffa, parte prima,
allegata al d.P.R. 26.10.1972, n. 642, che contempla, gli “Atti
e provvedimenti degli organi dell’amministrazione dello
Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, (…)
rilasciati (…) a coloro che ne abbiano fatto richiesta.”
In tal senso, l’amministrazione finanziaria si è espressa
con la risoluzione del 27.03.1984 n. 302570, in cui ha si
afferma che la copia della denuncia delle opere in
conglomerato cementizio, munita dell’attestazione di
avvenuto deposito, rilasciata dal competente ufficio al
denunciante è soggetta a bollo fin dall’origine ai sensi
dell’articolo 6 (ora articolo 4) della tariffa, parte prima,
allegata al d.P.R. n. 642 del 1972.
Con riferimento agli allegati tecnici relativi alla denuncia
dei lavori, inoltre, con la medesima risoluzione è stato
precisato, che gli elaborati tecnici presentati ai
competenti uffici a corredo delle predette denunce, ai sensi
del combinato disposto dell’articolo 2, secondo comma, del
predetto d.P.R. n. 642 del 1972 e dell’articolo 46 (ora
articolo 28) dell’allegata tariffa, parte seconda, sono
soggetti all’imposta di bollo solo in caso d’uso, cioè
qualora ne sia richiesta la registrazione.
In merito al quesito di cui al punto sub b) concernente
l’applicazione dell’imposta di bollo al deposito di
sopraelevazioni, si rileva che la legge regionale della XXX
12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in materia di opere o di
costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche),
all’articolo 8, commi 1-bis ed 2, stabilisce che la
realizzazione degli interventi di sopraelevazione degli
edifici è subordinata al rilascio da parte dell’autorità
competente, del provvedimento di autorizzazione o di diniego
entro sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza.
La Delib. G.R. 30.03.2016, n. 10/5001 prevede, inoltre, che
l’istanza per il rilascio dell’autorizzazione di cui
all’articolo 8, comma 2, della legge regionale n. 33 del
2015 è presentata prima dell’avvio dei lavori.
Relativamente al trattamento tributario ai fini dell’imposta
di bollo delle istanze, si osserva che l’articolo 3, comma
1, della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 642 del
1972, dispone che è dovuta l’imposta di bollo, fin
dall’origine, nella misura di euro 16,00, per ogni foglio,
per le “…Istanze, petizioni, ricorsi (…) diretti agli
uffici e agli organi, anche collegiali dell’Amministrazione
dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni, (…),
tendenti ad ottenere l’emanazione di un provvedimento
amministrativo o il rilascio di certificati, estratti, copie
e simili”.
A parere della scrivente nell’ambito applicativo del
richiamato articolo 3 della tariffa, parte prima, devono
essere ricondotte anche le istanze dirette allo sportello
unico dell’edilizia al fine di ottenere l’autorizzazione a
realizzare interventi di sopraelevazione degli edifici e,
pertanto, scontano l’imposta di bollo, fin dall’origine,
nella misura di euro 16,00 per ogni foglio.
Per completezza si precisa che anche il provvedimento di
autorizzazione o di diniego alla sopraelevazione deve essere
assoggettato all’imposta di bollo, nella misura di euro
16,00 per ogni foglio, ai sensi del sopra richiamato
articolo 4, comma 1, della tariffa, parte prima allegata al
d.P.R. n. 642 del 1972.
Per quanto concerne, invece, il deposito delle varianti di
cui al punto sub c) si osserva che l’articolo 65, comma 5,
del citato d.P.R. n. 380 del 2001, dispone “Anche le
varianti che nel corso dei lavori si intendono introdurre
alle opere di cui al comma 1, previste nel progetto
originario, devono essere denunciate, prima di dare inizio
alla loro esecuzione, allo sportello unico …”.
Relativamente al trattamento ai fini dell’imposta di bollo
del deposito delle varianti, si rileva che, se a seguito
della presentazione delle stesse lo sportello unico non
avvia alcun procedimento amministrativo finalizzato
all’emanazione di alcun provvedimento finale, ma si limita
esclusivamente ad acquisire detta documentazione agli atti,
non possono essere ricondotte nella nozione di istanze e
pertanto, non assoggettate all’imposta di bollo fin
dall’origine ai sensi dell’articolo 3 della tariffa allegata
al richiamato d.P.R. n 642 del 1972 Con riferimento, poi ai
certificati di fine lavori e collaudo di cui al punto sub d)
si osserva che il citato d.P.R. n. 380 del 2001,
all’articolo 65, comma 6, stabilisce che “A strutture
ultimate, entro il termine di sessanta giorni, il direttore
dei lavori deposita presso lo sportello unico una relazione,
redatta in triplice copia, sull’adempimento degli obblighi
di cui ai commi 1, 2 e 3 …”.
Il successivo articolo 67, comma 7, prevede che: “Il
collaudatore redige, sotto la propria responsabilità, il
certificato di collaudo in tre copie che invia al competente
ufficio tecnico regionale e al committente, dandone
contestualmente comunicazione allo sportello unico”.
Con riferimento al trattamento da riservare ai fini
dell’imposta di bollo, alla relazione da effettuare a
struttura ultimata, questa amministrazione ha già avuto modo
di chiarire, con la risoluzione del 29.05.2009 n. 139/E, che
la stessa debba qualificarsi come scrittura privata,
contenente una dichiarazione unilaterale e, pertanto,
soggetta all’imposta di bollo, ai sensi dell’articolo 2
della tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 1972, nella
misura di euro 16,00, per ogni foglio.
Il predetto articolo dispone, infatti, l’applicazione
dell’imposta di bollo per le “Scritture private
contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali con
le quali si creano, si modificano, si estinguono, si
accertano o si documentano rapporti giuridici di ogni
specie, descrizioni, constatazioni e inventari destinati a
far prova tra le parti che li hanno sottoscritti”.
Ad analoghe conclusioni questa amministrazione è giunta con
riferimento al certificato di collaudo (cfr. risoluzione del
27/03/2002 n. 97/E).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Opere edilizie in cemento armato: il trattamento fiscale
delle istanze di denuncia ai fini del bollo (29.07.2019
- www.casaeclima.com). |
INCARICHI PROGETTUALI: OGGETTO:
CHIARIMENTI SUL DECRETO DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
17.06.2016 AVENTE AD OGGETTO “APPROVAZIONE DELLE TABELLE
DEI CORRISPETTIVI COMMISURATI AL LIVELLO QUALITATIVO DELLE
PRESTAZIONI DI PROGETTAZIONE ADOTTATO AI SENSI DELL'ART. 24,
COMMA 8, DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 50 DEL 2016”
(Consiglio Nazionale dei Geologi,
circolare 22.07.2019 n. 435). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Irpef:
le somme corrisposte da una P.A. a dipendenti di altre P.A.
per funzioni di collaudo tecnico rientrano tra i redditi di
lavoro dipendente.
...
OGGETTO:
Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212.
Somme e valori corrisposti da una amministrazione pubblica
diversa da quella cui appartiene il dipendente pubblico.
Articolo 49, comma 1, del TUIR
(Agenzia delle Entrate,
risposta
22.07.2019 n. 289).
---------------
QUESITO
L’Istante, ente pubblico non economico, riferisce di avere
conferito un
incarico, con proprio decreto del Presidente, per
l’espletamento di funzioni di
collaudo tecnico-amministrativo, ad un dipendente di altra
Pubblica
Amministrazione, autorizzato dall’ente di appartenenza ai
sensi dell’articolo 53
del d.lgs. 30.03.2001, n. 165. Tale norma non consente –in assenza di
preventiva autorizzazione dell’amministrazione di
appartenenza- al dipendente
pubblico lo svolgimento di incarichi retribuiti, anche
occasionali, non compresi
nei compiti e doveri di ufficio.
L’Istante premette che le infrastrutture in corso devono
essere collaudate
da apposite Commissioni in conformità all’articolo 102 del
d.lgs. n. 50 del 2016
e che l’incarico di componente di Commissione è conferito a
soggetti
appartenenti a varie categorie professionali (quali
architetti, ingegneri, esperti
contabili, giudici ecc..) per la verifica dell’avanzamento
dei lavori sotto il profilo
tecnico, giuridico e contabile.
Detto incarico si protrae per più periodi d’imposta, con
diverse sedute di
Commissione, ed il relativo compenso è erogato, ai sensi
dell’articolo 61, comma
9, della legge 06.08.2008, n. 133.
L’Ente istante precisa, altresì, che come previsto dal
citato articolo 61,
comma 9, “Il 50 per cento del compenso spettante al
dipendente pubblico per
l’attività di componente o di segretario del collegio
arbitrale è versato
direttamente ad apposito capitolo del bilancio dello Stato;
(…); la medesima
disposizione si applica al compenso spettante al dipendente
pubblico per i
collaudi svolti in relazione a contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture”.
L’Istante evidenzia che in sede di rilascio
dell’autorizzazione allo
svolgimento dell’incarico esterno, l’Amministrazione di
appartenenza ha
comunicato al proprio dipendente, che l’incarico deve essere
caratterizzato da
occasionalità e non deve presentare profili, anche
potenziali, di conflitto di
interesse rispetto all’attività istituzionale.
Ciò posto, l’Istante chiede di conoscere se tali emolumenti
debbano
considerarsi redditi assimilati al lavoro dipendente, ai
sensi dell’articolo 50,
comma 1, lett. c-bis), del TUIR (in quanto somme relative
alla partecipazione a
collegi e commissioni) o redditi per prestazioni
occasionali, tenuto conto, tra
l’altro, delle precisazioni fornite dall’Amministrazione di
appartenenza, in base
alle quali “si tratta di incarico saltuario ed occasionale
senza vincoli di
subordinazione col soggetto conferente e compatibile con lo
status di pubblico
dipendente” (cfr. all. 1).
SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE
L’Istante ritiene corretto poter ricondurre i compensi in
esame tra i redditi
assimilati al lavoro dipendente, ai sensi dell’articolo 50,
comma 1, lett. c-bis), del
TUIR, trattandosi di somme percepite “a qualunque titolo
(...) nel periodo di
imposta (…) in relazione alla partecipazione a collegi e
commissioni”.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
L'articolo 50 del d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (TUIR) ricomprende tra
i redditi assimilati al lavoro dipendente:
- "le indennità e i compensi percepiti a carico di terzi dai
prestatori di
lavoro dipendente per incarichi svolti in relazione a tale
qualità, ad esclusione di
quelli che per clausola contrattuale devono essere riversati
al datore di lavoro e
di quelli che per legge debbono essere riversati allo Stato"
(lettera b);
- “le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel
periodo
d’imposta, (…) in relazione (…) alla partecipazione a
collegi e commissioni (…)
sempre che gli uffici o le collaborazioni non rientrino nei
compiti istituzionali
compresi nell’attività di lavoro dipendente (…)” (lettera
c-bis).
Con riferimento alla citata lettera b) dell’articolo 50 del
TUIR, la circolare
n. 326 del 23.12.1997 (par. 5.3) ha chiarito, tra
l’altro, che detti compensi
–che il prestatore di lavoro percepisce da soggetti diversi
dal proprio datore di
lavoro, e a carico di terzi– hanno natura di reddito
assimilato a quello di lavoro
dipendente ove derivanti da “incarichi svolti in relazione
alle funzioni della
propria qualifica e in dipendenza del proprio rapporto di
lavoro”.
Rientrano in tale categoria, ad esempio, i compensi per la
partecipazione a
taluni comitati tecnici, organi collegiali, commissioni di
esami, organi consultivi
di enti privati o pubblici, ivi compresi quelli percepiti da
dipendenti dello Stato e
degli altri enti pubblici per prestazioni comunque rese in
connessione con la
carica o in rappresentanza degli enti di appartenenza.
La citata circolare n. 326 del 1997 ha chiarito, altresì,
che la relazione tra
l’espletamento dell’incarico e la qualifica di lavoratore
dipendente sussiste anche
“nel caso in cui risulti, per legge, regolamento, altro atto
amministrativo, statuto
o capitolato, che l’incarico debba essere affidato ad un
componente della
categoria alla quale il contribuente appartiene”.
Il medesimo documento di prassi ha chiarito, infine, che, in
ogni caso,
laddove eventuali somme e valori siano corrisposti da una
amministrazione
pubblica diversa da quella cui appartiene il dipendente
pubblico, essi
costituiscono redditi di lavoro dipendente.
Nel caso di specie, l’incarico di membro della Commissione
di collaudo al
dipendente di ALFA, che è un’amministrazione pubblica, è
stato conferito con
decreto del Presidente dell’ente pubblico non economico.
A tal riguardo, l’Istante ha precisato che “le
infrastrutture in corso devono
essere collaudate da apposite commissioni, ai sensi
dell’articolo 102 del DLGS
n. 50 del 2016” (Codice dei contratti pubblici).
In particolare, il comma 6 della citata norma prevede che
“Per effettuare
le attività di collaudo sull’esecuzione dei contratti di cui
al comma 2, le stazioni
appaltanti nominano tra i propri dipendenti o dipendenti di
altre
amministrazioni pubbliche, da uno a tre componenti con
qualificazione
rapportata alla tipologia e caratteristica del contratto, in
possesso dei requisiti
di moralità, competenza e professionalità”.
Tenuto conto della normativa e della prassi consolidata
richiamata, si
ritiene che i predetti compensi percepiti dall’ingegnere
incaricato, in quanto
erogati da una amministrazione pubblica (ovvero l’Autorità
istante) differente da
quella, parimenti pubblica, di appartenenza, costituiscano
redditi di lavoro
dipendente, ai sensi dell’articolo 49 del TUIR.
Sono redditi di lavoro dipendente, infatti, ai sensi
dell’art. 51, comma 1,
del TUIR, tutte le somme e i valori che il dipendente
percepisce nel periodo
d’imposta, a qualunque titolo, anche sotto forma di
erogazioni liberali, in
relazione al rapporto di lavoro, e quindi tutti quelli che
siano in qualunque modo
riconducibili al rapporto di lavoro medesimo, anche se non
provenienti
direttamente dal datore di lavoro (principio di
onnicomprensività del reddito di
lavoro dipendente e totale imponibilità di tutto ciò che il
dipendente riceve).
Con riferimento, infine, alla soluzione prospettata
dall’istante, secondo cui
gli emolumenti in questione sarebbero riconducibili ai
redditi assimilati a quelli
di lavoro dipendente di cui alla lettera c-bis)
dell’articolo 50 del TUIR
(collaborazioni coordinate e continuative), si osserva che,
nel caso di specie, la
prestazione richiesta è collegata ai compiti istituzionali
compresi nell’attività di
lavoro del dipendente. A tale proposito, la circolare 06.07.2001, n. 67/E ha chiarito che le prestazioni che
rientrano nei compiti istituzionali del lavoratore
dipendente non possono ricondursi ai rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa, rimanendo attratte
nel reddito di lavoro dipendente.
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Se l’incarico è attribuito da un’altra Pa i redditi sono da
lavoro dipendente (16.08.2019 - link a
www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: LE NOVITÀ DEL “DECRETO CRESCITA” (D.L. 34/2019)
DOPO LA CONVERSIONE IN LEGGE (ANCE di Bergamo,
circolare 12.07.2019 n. 177). |
ENTI LOCALI:
Atto di indirizzo ex art. 154, comma 2, del testo unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato
con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, sulla
precisazione della definizione di "società a controllo
pubblico" ai sensi e per gli effetti di cui al testo unico
in materia di società a partecipazione pubblica approvato
con decreto legislativo 19.08.2016, n. 175 (Ministero
dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e
Territoriali, Osservatorio sulla finanza e la contabilità
degli enti locali,
atto di indirizzo
12.07.2019). |
INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto:
Aggiornamento Linee Guida Anac n. 1 sugli affidamenti S.I.A.
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 09.07.2019 n. 406). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Decreto Legge 30.04.2019, n. 34 convertito, con
modificazioni, nella legge 28.06.2019, n. 58 (“Decreto
Legge Crescita”) - Misure fiscali d’interesse
(ANCE, 01.07.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Contributi regionali per la rimozione dell’amianto:
approvazione Bando
(ANCE di Bergamo,
circolare 28.06.2019 n. 164). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Entra in vigore la legge Sblocca cantieri: come cambiano per
i comuni per le procedure sismiche
(ANCI Lombardia,
circolare 27.06.2019 n. 190/2019). |
ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Decreto-legge
30.04.2019, n. 34, recante “Misure urgenti di crescita
economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di
crisi” convertito nella legge 28.06.2019, n. 58 - Nota di
lettura delle norme di interesse per i Comuni (ANCI-IFEL,
27.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Oggetto:
Rinnovo Amministrazioni Comunali. Nomina del Segretario
comunale
(Prefettura di Milano,
nota 18.06.2019 n. 128832 di prot.). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Atto
di indirizzo ex art. 154, comma 2, del testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 sull’interpretazione
ed applicazione dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge
06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla
legge 07.08.2012, n. 135, circa l’ambito di operatività del
divieto imposto di conferire incarichi, cariche e
collaborazioni, esclusivamente a titolo gratuito, a soggetti
già collocati in quiescenza
(Ministero dell'Interno,
chiarimento 24.05.2019). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 12.08.2019, "Quinto
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 06.08.2019 n. 11796). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 32 del 09.08.2019 "Assestamento
al bilancio 2019-2021 con modifiche di leggi regionali"
(L.R.
06.08.2019 n. 15).
---------------
Di interesse si leggano:
● Art. 13 - (Modifica
alla l.r. 19/2008)
● Art. 19 - (Modifiche all’art.
45 della l.r. 70/1983)
● Art. 20 - (Modifiche all’art.
25 della l.r. 12/2005) |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 02.08.2019, "Ricorso
della Presidenza del Consiglio dei ministri n. 56 del
07.05.2019 – Pubblicazione disposta dal Presidente della
Corte costituzionale a norma dell’art. 20 delle Norme
integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale"
(P.C.M.,
Atto di Promovimento 07.05.2019 n. 56).
---------------
RICORSO
per la Presidenza del Consiglio dei ministri (codice fiscale
n. 97163520584), in persona del Presidente p.t., ex lege
rappresentata
e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato (codice
fiscale n. 80224030587) presso i cui uffici domicilia ex lege in
Roma, via dei Portoghesi n. 12, fax 06-96514000, pec ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it
NEI CONFRONTI
dalla Regione Lombardia (codice fiscale n. 80050050154), con
sede in Milano, piazza Città di Lombardia n. 1, in persona
del
Presidente pro tempore, per la dichiarazione di
illegittimità costituzionale
della
legge regionale
04.03.2019 n. 4, recante «Modifiche
e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33
(Testo
unico delle leggi regionali in materia di sanità):
abrogazione
del Capo III «Norme in materia di attività e servizi
necroscopici,
funebri e cimiteriali» del Titolo VI e introduzione del
Titolo VI-bis
«Norme in materia di medicina legale, polizia mortuaria,
attività
funebre», pubblicata sul BUR n. 10 dell’08.03.2019.
Si impugna, come da delibera del Consiglio dei ministri in
data
23.04.2019, la legge della Regione Lombardia n. 4 del
2019,
recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di
sanità): abrogazione del Capo III «Norme in materia di
attività e
servizi necroscopici, funebri e cimiteriali» del Titolo VI e
introduzione
del Titolo VI-bis «Norme in materia di medicina legale,
polizia
mortuaria, attività funebre», giacché presenta i seguenti
profili
d’illegittimità costituzionale.
L’art. 1 della legge in esame, nell’introdurre il Titolo VI-bis
nell’ambito della legge regionale 30.12.2009, n. 33,
aggiunge
a quest’ultima legge numerose norme in materia di polizia
mortuaria e di attività funebre.
Varie disposizioni, tra quelle aggiunte, sono tuttavia
incostituzionali
sotto diversi aspetti: alcune norme si pongono infatti in
contrasto con i principi fondamentali in materia di «tutela
della
salute», in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
altre invadono
la competenza statale in materia di ordinamento civile,
violando l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., altre
infine
invadono la competenza esclusiva statale in materia di stato
civile
e anagrafi di cui all’art. 117, secondo comma, lettera i),
della
Costituzione.
In particolare:
1) L’art. 1 della legge regionale in esame, nell’aggiungere
l’art.
69 e l’art. 73 alla legge regionale n. 33 del 2009, invade
la competenza
esclusiva statale in materia di Stato civile e anagrafi di
cui all’art. 117, secondo comma, lettera i), della
Costituzione.
Infatti l’art. 69, comma 3, che prevede la richiesta
dell’ufficiale di
stato civile per l’accertamento di morte da parte del
medico, e
l’art. 73, che prevede autorizzazioni dell’ufficiale di
stato civile in
materia di cremazione e di dispersioni delle ceneri,
attribuiscono
agli ufficiali di stato civile compiti ulteriori e diversi
rispetto a
quelli indicati negli articoli 71, 72 e 74 del decreto del
Presidente
della Repubblica n. 396/2000, recante il «Regolamento per la
revisione
e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile»;
2)
L’art. 1 della legge regionale in esame, nell’aggiungere
l’art.
71 alla legge regionale n. 33 del 2009, invade la competenza
esclusiva statale in materia di ordinamento civile, in
violazione
dell’art. 117, secondo comma lettera l), della Costituzione.
Il precitato
art. 71, commi 2, 3 e 4 prevede che «2. Nel caso in cui
la persona deceduta ha disposto l’utilizzo del proprio
cadavere
per finalità di studio, ricerca e insegnamento, i congiunti
o conviventi
ne danno comunicazione al comune che autorizza il trasporto,
previo assenso e a spese dell’istituto ricevente.
3. A seguito di interventi chirurgici in strutture
ospedaliere del
territorio comunale il cittadino decide se donare eventuali
parti
anatomiche riconoscibili per finalità di studio, ricerca o
insegnamento
o se richiederne la sepoltura.
4. Presso ciascun comune del territorio regionale è
istituito un
registro degli enti autorizzati che abbiano fatta richiesta
di utilizzare
cadaveri o parti anatomiche riconoscibili per finalità di
studio, ricerca o insegnamento. Il regolamento di cui
all’art. 76
disciplina le modalità di attuazione del presente comma».
Tale articolo, nel prevedere, tra l’altro, che -a seguito
di interventi
chirurgici in strutture ospedaliere del territorio comunale- il cittadino
possa decidere se donare eventuali parti anatomiche
riconoscibili per finalità di studio, ricerca o insegnamento
o se
richiederne la sepoltura, incide sulle prerogative dello
Stato in
materia di «ordinamento civile» ai sensi dell’art. 117,
secondo
comma, lettera l), Cost.
Da una ricostruzione del quadro normativo della materia,
emerge
infatti che la disciplina degli aspetti in parola è
demandata
allo Stato, che ha emanato vari provvedimenti in merito e ne
sta
perfezionando la regolamentazione.
In particolare:
- il decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1990,
n. 285, recante Regolamento della polizia mortuaria
(pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 239 del 12.10.1990),
all’art. 40,
stabilisce che è lecito l’utilizzo di cadaveri ai fini
dell’insegnamento
e delle indagini scientifiche sia pure nei limiti previsti
dagli
articoli 8, 9 e 10.
Nello specifico l’art. 40 prevede che:
«1. La consegna alle sale anatomiche universitarie dei
cadaveri
destinati, a norma dell’art. 32 del testo unico delle leggi
sulla
istruzione superiore, approvato con regio decreto 31.08.1933, n. 1592, all’insegnamento ed alle indagini
scientifiche deve
avvenire dopo trascorso il periodo di osservazione
prescritto
dagli articoli 8, 9 e 10.
2. Ai cadaveri di cui al presente articolo deve essere
sempre assicurata
una targhetta che rechi annotate generalità». Secondo il disposto dell’art. 41, comma 2, del citato
decreto del
Presidente della Repubblica n. 285 «il prelevamento e la
conservazione
di cadaveri e di pezzi anatomici, ivi compresi i prodotti
fetali, devono essere di volta in volta autorizzati
dall’autorità sanitaria
locale sempre che nulla osti da parte degli aventi titolo».
In ogni caso ai sensi dell’art. 42 del predetto decreto del
Presidente
della Repubblica n. 285, dopo le indagini e gli studi, «i
cadaveri
di cui all’art. 40, ricomposti per quanto possibile, devono
essere consegnati all’incaricato del trasporto al cimitero».
- Con legge 01.04.1999, n. 91 (Disposizioni in materia
di prelievi
e di trapianti di organi e di tessuti), art. 3 è stato
disciplinato il
«Prelievo di organi e di tessuti», disponendo quanto segue:
«Il prelievo
di organi e di tessuti è consentito secondo le modalità
previste
dalla presente legge ed è effettuato previo accertamento
della morte ai sensi della legge 29.12.1993, n. 578, e
del
decreto del Ministro della sanità 22.08.1994, n. 582».
Fermo restando il divieto di prelievo delle gonadi e
dell’encefalo
(art. 3, comma 3) e, altresì, il divieto della manipolazione
genetica
degli embrioni ai fini del trapianto di organo (art. 3,
comma
4) e il rispetto delle prescrizioni di dichiarazioni di
volontà in ordine
alla donazione, i prelievi di organi e di tessuti
disciplinati dalla
legge n. 91 -come disposto dall’art. 6- «sono effettuati
esclusivamente
a scopo di trapianto terapeutico».
- Con precedente legge 02.04.1968, n. 519 recante
«Modifiche
alla legge 03.04.1957, n. 235, relativa ai prelievi di
cadaveri a
scopo di trapianto terapeutico», si prevedeva il prelievo
«su tutti
i deceduti sottoposti a riscontro diagnostico a norma
dell’art. 1
della legge 01.02.1961, n. 83, a meno che l’estinto
non abbia
disposto contrariamente invita, in maniera non equivoca e
per iscritto».
A titolo esaustivo si ricorda infine che è all’esame del
Parlamento
l’Atto Senato n. 733 «Norme in materia di disposizioni del
proprio
corpo e dei tessuti post mortem ai fini di studi, formazione
e
di ricerca scientifica», prossimo alla discussione in aula.
3)
Numerose norme, introdotte dall’art. 1 della legge in
esame
a modifica della citata legge regionale Lombardia n.
33/2009,
non sono in linea con i principi fondamentali in materia di
«tutela
della salute» contenuti nella normativa statale di
riferimento,
e segnatamente nel decreto del Presidente della Repubblica
n. 285/1990, recante l’«Approvazione del regolamento di
polizia
mortuaria», in violazione dell’art. 117, terzo comma, della
Costituzione.
In particolare:
a) varie norme profilano fattispecie non previste dal
decreto
del Presidente della Repubblica n. 285/1990 e contrastano
principalmente con le disposizioni del Capo IX del
menzionato
decreto del Presidente della Repubblica, recante
«Disposizioni
generali sul servizio dei cimiteri». In particolare:
- l’art. 70-bis, che istituisce le «Case funerarie».
Tale
articolo
introduce, di fatto, una fattispecie attualmente non
prevista
dalla normativa statale in materia, e in particolare dalle
disposizioni del menzionato Capo IX del decreto del
Presidente della
Repubblica n. 285/1990, recanti le «Disposizioni generali
sul
servizio dei cimiteri del decreto del Presidente della
Repubblica
n. 285/1990»;
- l’art. 74, rubricato «Attività funebre», laddove, al comma
1,
lettera e), annovera tra le prestazioni che l’attività
funebre può
assicurare, i trattamenti di tanatocosmesi, contempla
prestazioni
non previste dalle norme statali;
- l’art. 74-bis, rubricato «Centri servizi», laddove
qualifica il centro
servizi come «una impresa che svolge attività funebre ai
sensi
dell’art. 74», disciplina una fattispecie, della quale
peraltro non è
chiara la differenza rispetto all’impresa funebre, che non è
prevista
a livello nazionale;
- l’art. 75, comma 8, lettera a), che prevede che il comune
possa autorizzare «la costruzione e l’uso di aree e spazi
per la
sepoltura di animali d’affezione», non è in linea con la
normativa
statale e in particolare con il Capo IX, «Disposizioni
generali sul
servizio dei cimiteri», del menzionato decreto del
Presidente della
Repubblica, che non prevede tale facoltà;
- l’art. 76, comma 1, lettera e), rubricato «Regolamento di
attuazione», che prevede la tumulazione nei «loculi areati»
contrasta
con la normativa statale vigente in materia. Attualmente,
infatti, le sepolture areate, nonostante i consistenti
vantaggi che
offrono, anche in termini igienico-sanitari (quali, ad
esempio,
l’eliminazione dei fenomeni percolativi, il drastico
abbattimento
dell’incidenza su esumazioni ed estumulazioni, etc.) non
sono
previste dalla normativa statale;
b) l’art. 72, comma 1, che prevede che «Al fine di
consentire
lo svolgimento dei riti funebri, il trasferimento deve
comunque
essere effettuato entro ventiquattro ore dal rilascio della
certificazione
attestante il termine delle operazioni di prelievo di organi
o di riscontro diagnostico, ovvero dal rilascio del nulla
osta
al seppellimento o alla cremazione da parte dell’autorità
giudiziaria» contrasta con le previsioni contenute nell’art. 8 e
nell’art.
10, nonché nel «Capo IV - Trasporto dei cadaveri», del
menzionato
decreto del Presidente della Repubblica, secondo le quali il
trasporto di salma può avvenire solo se siano ancora
trascorse
ventiquattro ore dal decesso.
Inoltre la formulazione poco
chiara
dell’art. 72 si presta ad interpretazioni ambigue, dalle
quali
potrebbe discendere anche l’elusione della necessaria
autorizzazione
comunale al trasporto delle salme prevista dall’art. 23
del decreto del Presidente della Repubblica n. 285/1990;
c) l’art. 75, laddove, al comma 4, consente di devolvere in toto
la gestione e la manutenzione dei cimiteri a soggetti
privati, contrasta
con l’art. 51 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 285/1990, che assegna i compiti di manutenzione, ordine e
vigilanza dei cimiteri al comune, in ragione dei rilevanti
interessi
igienico-sanitari sottesi a tali attività;
d) l’art. 75, comma 8, lettera c), laddove consente al
Comune
di autorizzare «la costruzione di cappelle private fuori dal
cimitero, purché contornate da un’area di rispetto» -in combinato
disposto con l’art. 76, comma 1, lettera g), che rinvia al
regolamento
attuativo l’ampiezza minima e massima di dette aree-
diverge dall’art. 104, decreto del Presidente della
Repubblica
n. 285/1990 cit. che impone specifiche regole e distanze in
ordine
all’area di rispetto che circonda le cappelle private.
Detta
norma statale prevede infatti la «costruzione ed il loro uso
...
soltanto quando siano attorniate per un raggio di metri 200
da
fondi di proprietà delle famiglie che ne chiedano la
concessione
e sui quali gli stessi assumano il vincolo di inalienabilità
e di
inedificabilità»;
e) l’art. 75, comma 11, laddove prevede che «il comune
autorizza
la costruzione di nuovi cimiteri, l’ampliamento o la
ristrutturazione
di quelli esistenti, previo parere vincolante dell’ATS e
dell’ARPA, secondo le rispettive competenze. La soppressione
di
cimiteri è autorizzata dall’ATS», non risulta in linea con
quanto
previsto sul punto dall’art. 96 del decreto del Presidente
della
Repubblica n. 285/1990, secondo il quale nessun cimitero può
essere soppresso se non per ragioni di dimostrata necessità,
e la
soppressione viene deliberata dal consiglio comunale,
sentito il
coordinatore sanitario della unità sanitaria locale
competente
per territorio;
f) l’art. 75, comma 13, prevede che «Gli animali di
affezione,
per volontà del defunto o su richiesta degli eredi, possono
essere
tumulati in teca separata, previa cremazione, nello stesso
loculo
del defunto o nella tomba di famiglia, secondo le
disposizioni
contenute nel regolamenta di cui all’art. 76 e nel
regolamento
comunale».
Tale norma, consentendo di deporre nel loculo del
defunto o nella tomba di famiglia, sia pur in teca separata
e previa
cremazione, i resti degli animali di affezione, introduce
una
facoltà assolutamente estranea alla normativa statale in
materia
e contrasta in particolare con l’art. 50 del citato decreto
del
Presidente della Repubblica, secondo il quale nei cimiteri
sono
ricevuti, quando non venga richiesta altra destinazione, i
cadaveri
delle sole persone.
Tanto rappresentato, considerato che, per gli aspetti
tecnici, la
materia in oggetto ricade in ambito sanitario, le
disposizioni regionali
indicate sub 3) contrastano con i principi fondamentali
in materia di «tutela della salute», in violazione dell’art.
117, terzo
comma, della Costituzione.
Si conclude pertanto affinché sia dichiarata l’illegittimità
costituzionale
nei sensi testé esposti dell’art. 1, nelle parti sopra
specificate,
della
legge della Regione Lombardia n. 4 del 2019, recante
«Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di
sanità):
abrogazione del Capo III «Norme in materia di attività e
servizi
necroscopici, funebri e cimiteriali» del Titolo VI e
introduzione del
Titolo VI-bis «Norme in materia di medicina legale, polizia
mortuaria,
attività funebre», per violazione: dell’art. 117, terzo
comma,
Cost.; dell’art. 117, secondo comma lett. l), Cost.;
dell’art.
117, secondo comma, lettera i), della Cost.. |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 dell'01.08.2019, "Profili
applicativi in materia di opere o di costruzioni e relativa
vigilanza in zone sismiche, di cui alla l.r. 33/2015, a
seguito dell’entrata in vigore della l. 55/2019" (circolare
regionale 29.07.2019 n. 9). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 31 del 30.07.2019, "Ulteriori
determinazioni in ordine alla gestione del servizio
sanitario e sociosanitario regionale per l’esercizio 2019 –
secondo provvedimento 2019" (deliberazione
G.R. 23.07.2019 n. 1986).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
● 2.3. CATASTO DELLE
TORRI DI RAFFREDDAMENTO - CONDENSATORI EVAPORATIVI
● 6.1. PARERI OBBLIGATORI PER
L’APPROVAZIONE DI PROGETTI DI EDILIZIA SANITARIA |
APPALTI: G.U.
29.07.2019 n. 176 "Disposizioni urgenti per il rilancio
del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione
degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e
di ricostruzione a seguito di eventi sismici" (Ministero
dell'Interno,
decreto 15.07.2019). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 15.07.2019 "Adeguamento
del Piano Territoriale Regionale, ai sensi dell’art. 22,
comma 1-bis, della l.r. 11.03.2005 n. 12" (deliberazione
G.R. 09.07.2019 n. 1882). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
12.07.2019 n. 162 "Modifiche al decreto 28.02.2014 in
materia di regola tecnica di prevenzione incendi per la
progettazione, la costruzione e l’esercizio delle strutture
turistico-ricettive in aria aperta (campeggi, villaggi
turistici, ecc.) con capacità ricettiva superiore a 400
persone" (Ministero dell'Interno,
decreto 02.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO
IMPIEGO - TRIBUTI: G.U.
11.07.2019 n. 161 "Ripubblicazione
del testo del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, coordinato
con la legge di conversione 28.06.2019, n. 58,
recante: «Misure urgenti di crescita economica e per la
risoluzione di specifiche situazioni di crisi»". |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 09.07.2019, "Determinazione
per l’anno 2019 della percentuale di maggiorazione del
contributo base ex art. 6, c. 1, lett. i) e c. 10 del r.r.
27.07.2009, n. 2 e s.m.i., attuativo della l.r. 27.06.2008,
n. 19 al fine dell’erogazione del contributo ordinario per
il medesimo anno alle unioni di comuni lombarde per la
gestione associata di funzioni e servizi comunali"
(decreto
D.S. 05.07.2019 n. 9933). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 dell'08.07.2019, "Quarto
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei
all'esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 27.06.2019 n. 9458). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO - PUBBLICO
IMPIEGO - TRIBUTI: G.U.
29.06.2019 n. 151, suppl. ord. n. 26/L, "Testo
del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, coordinato con la legge
di conversione 28.06.2019, n. 58, recante:
«Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione
di specifiche situazioni di crisi»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 23 del 07.06.2019, "Legge di
revisione normativa e di semplificazione 2019" (L.R.
06.06.2019 n. 9).
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Di interesse si leggano:
● Art. 14 - (Modifiche
all’art. 10.2 della l.r. 31/2008)
● Art. 15 -
(Modifiche agli artt. 24 e 34 della l.r. 31/2008)
● Art. 16 - (Inserimento del Capo VII-ter nella l.r. 31/2008)
● Art. 17 - (Modifiche agli artt. 42, 47 e 50 della l.r. 31/2008)
● Art. 29 - (Modifica all’art. 6 della l.r. 11/2014)
● Art. 35 - (Inserimento dell’art. 23-bis nella l.r. 33/2009 e
abrogazione dell’art. 20 della l.r. 48/1988)
● Art. 36 - (Inserimento dell’art. 60-bis1 nella l.r. 33/2009) --->
(Istituzione presso i comuni del catasto
delle torri evaporative di raffreddamento a umido e dei
condensatori evaporativi)
● Art. 42 - (Modifiche agli artt. 82, 91-bis, 91-quater e
91-quinquies e abrogazione degli artt. 78-bis e 79-bis della
l.r. 31/2008)
● Art. 45 - (Modifiche agli artt. 15 e 59 della l.r. 12/2005)
● Art. 47 - (Modifiche all’art. 42 della l.r. 6/2012 e conseguente
modifica all’art. 3-bis della l.r. 9/2001)
● Art. 52 - (Modifica all’art. 22-ter della l.r. 86/1983) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Contenuti della relazione quinquennale sullo stato
acustico del Comune ai sensi dell’articolo 7, comma 5, della
legge quadro sull’inquinamento acustico n. 447/1995, come
modificato dall’articolo 11, comma 1, lettera a) del decreto
legislativo n. 42/2017, e in attuazione dell’articolo 27,
comma 2, del medesimo decreto legislativo (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 15.04.2019 n. 105). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Niente
incentivi tecnici se l'Ente fa ricorso al partenariato pubblico-privato.
L'incentivo previsto dall'articolo 113 del Dl 50/2016 non spetta se l'ente
realizza le opere con strumenti di partenariato pubblico privato.
Con il
parere 18.07.2019 n. 309 e
parere 18.07.2019 n. 311 la Sezione regionale di controllo
della Corte dei conti per la Lombardia torna sulla questione di massima già
enunciata dalla Sezione Autonomie (deliberazione 25.06.2019 n. 15
sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 28 giugno) per ribadire che
gli incentivi in questione vanno al personale dipendente dell'ente
esclusivamente nei casi di contratti di appalto e non anche in quelli di
concessione.
Questi compensi costituiscono un «di cui» delle spese per contratti
di appalto e non c'è alcun elemento che possa estendere le disposizioni in
esame anche alle concessioni, non essendo normativamente previsto uno
specifico stanziamento non riconducibile ai capitoli dei singoli lavori,
servizi e forniture.
La Sezione delle autonomie aveva, peraltro, rimarcato la difficile
conciliabilità del compenso incentivante con le diverse caratteristiche
strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto essenzialmente,
quelli di appalto comportano spese e quelli di concessioni entrate. Inoltre,
è stato rilevato, nel caso di operazioni di notevole entità, che prevedere
di pagare incentivi a fronte di flussi di entrata che potrebbero essere
incerti esporrebbe l'ente al rischio di insostenibilità. Né si può far
affidamento su clausole contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali
in quanto non previste per legge, che prevedano la remunerazione
dell'incentivo al concessionario.
Con il
parere 18.07.2019 n. 310, la Corte
lombarda, nel richiamare un precedente parere della Sezione di controllo per
la Basilicata, ha rammentato poi che la disciplina degli incentivi tecnici
deve necessariamente essere in linea con quella che presiede alla
realizzazione di opere e lavori pubblici e, dunque, con le regole che
disciplinano la programmazione e l'esecuzione delle opere e dei lavori
pubblici, il reperimento delle risorse finanziarie, la predisposizione degli
strumenti di bilancio e i principi contabili che presiedono alla sua
gestione.
Il ricorso alla prestazione incentivante deve dunque risultare
necessariamente coerente con gli strumenti di programmazione
economico-finanziaria dell'ente, in particolare con il programma biennale
degli acquisti di beni e servizi e con la programmazione dei lavori pubblici
disciplinato dall'articolo 21 del Dlgs 50/2016, non essendo possibile
procedere alla remunerazione degli incentivi per funzioni tecniche in
assenza della necessaria fase della programmazione di acquisti e lavori
pubblici e di una procedura comparativa.
Infine, nel riconoscere l'incentivabilità delle funzioni tecniche negli
appalti di manutenzione straordinaria e ordinaria, la Corte ha rimarcato che
l'attività deve risultare caratterizzata da problematiche realizzative di
particolare complessità, tali da giustificare un supplemento di attività da
parte del personale interno all'amministrazione affinché il procedimento che
regola il corretto avanzamento delle fasi contrattuali si svolga nel pieno
rispetto dei documenti posti a base di gara.
In questo contesto normativo e giurisprudenziale compete all'ente
interessato la valutazione della sussistenza, in concreto, di attività
effettivamente incentivabili e la misura del compenso premiante da
riconoscere nel rispetto dei limiti fissati dalla legge
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.07.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
richiesta di parere formulata dal comune su come calcolare
l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 per il leasing in costruendo presuppone a
monte una valutazione sull’applicabilità della disciplina di
cui all’art. 113 citato ad istituti giuridici diversi dai
contratti di appalto, quali la concessione o il leasing in
costruendo.
Sul punto la sez. Autonomie si è espressa
negando un’interpretazione estensiva ed analogica dell’art.
113 che “è calibrato sui contratti di appalto (ai quali
espressamente si riferisce)”.
La risposta negativa alla
suddetta questione pregiudiziale comporta che resti
conseguentemente assorbita ogni ulteriore valutazione sul
quesito posta dal comune istante.
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Il Sindaco del Comune di San Vittore Olona
(MI) ha formulato una richiesta di parere riguardante
l’applicazione dell’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 in
relazione all’istituto giuridico del Partenariato
Pubblico-Privato (P.P.P.) che si realizza mediante proposta
di locazione finanziaria di opera pubblica ai sensi
dell’art. 187 del su indicato decreto legislativo, avente ad
oggetto la progettazione, il finanziamento, la
realizzazione, la manutenzione e gestione di opera pubblica.
Tanto premesso, il Sindaco ha formulato il seguente quesito:
“…se il fondo per le funzioni tecniche di cui al comma 2
del succitato art. 113 viene calcolato sull’importo dei
lavori o sul valore complessivo dell’appalto che è pari alla
sommatoria dei canoni di leasing…”.
In via preliminare, si rammenta che questa Sezione di
controllo aveva, con
deliberazione 14.03.2019 n. 96 cui si fa rinvio, ritenuto opportuno
deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente
questione interpretativa di massima di carattere generale: “se
l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del
d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via
regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in
siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il
flusso economico derivante dalla concessione resti
sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore
economico aggiudicatario, debba essere determinato sul
valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare
del canone concessorio”.
La su indicata questione riguarda, all’evidenza, una
valutazione, a monte, sull’applicabilità stessa dell’art.
113 cit., in caso di istituti giuridici diversi dai
contratti di appalto (come nella situazione specifica della
concessione, che ha portato al deferimento de quo), ma che,
a ben guardare, non può non coinvolgere anche altre
tipologie di contratti, disciplinati dal D.Lgs n. 50/2016,
così come, per l’appunto, il leasing in costruendo,
oggetto della richiesta di parere da parte del Comune di San
Vittore Olona.
Sulla base delle suesposte considerazioni, questa Sezione,
nella camera di consiglio del 22.05.2019, ha sospeso la
decisione sul su indicato parere, in attesa della pronuncia
sulla questione di massima da parte della Sezione delle
autonomie.
...
Con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15,
la Sezione delle autonomie, investita della questione di
massima dal Presidente della Corte dei conti con ordinanza
n. 10 del 02.05.2019 ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto-legge n. 174/2012, ha enunciato il seguente
principio di diritto: “Alla luce
dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono
destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente
nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di
contratti di concessione”.
Per la soluzione delle questioni sopra elencate, la Sezione
delle autonomie ha ritenuto imprescindibile risolvere la
prima parte del primo quesito posto da questa
Sezione, e cioè “se l’incentivo per funzioni tecniche di
cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere
riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di
concessioni” in quanto dirimente ai fini del riscontro
anche dei successivi.
Condividendo le perplessità interpretative ed applicative
segnalate da questa Sezione remittente, legate alla
riconoscibilità dell’incentivo per funzioni tecniche di cui
all’art. 113 del codice dei contratti pubblici anche in caso
di concessioni, la Sezione delle autonomie ha osservato come
“una piana lettura di quest’ultima disposizione non può
indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia
applicabile ai contratti di concessione”, dovendosi
piuttosto osservare che “il citato art. 113 è calibrato
inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto”;
ciò in particolare alla luce dell’attuale disposto del comma
5-bis della stessa norma, da cui si desume univocamente che
i compensi incentivanti “per chiara affermazione del
legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per
contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che
possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo
in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente
previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai
capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.
È stato ulteriormente osservato, al riguardo, che la
specialità della fattispecie dei compensi incentivanti di
cui trattasi “ha richiesto una disciplina espressa e
compiuta, che è declinata nell’art. 113, con indicazione
degli ambiti, delle modalità di finanziamento e delle
relative procedure di quantificazione e individuazione delle
destinazioni, nonché della natura degli emolumenti accessori
(e per quest’ultimo profilo è stato necessario un ulteriore
intervento legislativo). Non sembra praticabile, quindi,
un’interpretazione estensiva ed analogica”.
In conclusione, la Sezione delle autonomie ha ritenuto che “per
ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli
incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche si
dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed
analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è
calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente
si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali
differenze che caratterizzano i contratti di concessione”.
In considerazione di quanto suesposto, e nel convincimento
che il principio di diritto enunciato dalla Sezione romana,
trovi completa e totale applicazione non solo nell’ipotesi
di concessione, ma anche nel caso in cui la questione
attenga ad altre forme contrattuali come, per l’appunto, nel
caso di forme di “Partenariato Pubblico Privato”, il
Collegio, nell’aderire all’interpretazione seguita dalla
Sezione delle autonomie, ritiene che vada adottata
un’interpretazione estensiva della su indicata
prospettazione esegetica anche nei confronti dei contratti
di leasing in construendo, oggetto della richiesta di
parere che ne occupa. In disparte, l’espresso rinvio, tra
l’altro, dell’art. 179, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016 (Partenariato
pubblico-privato) al precedente art. 164, comma 2, dettato
in tema di concessioni, ai fini dell’individuazione delle
norme da applicare.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale,
legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi
per funzioni tecniche in caso di contratti di partenariato
P.P., comporta che resti conseguentemente assorbita ogni
ulteriore valutazione sul quesito posta dal comune istante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 18.07.2019 n. 311). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Non
è possibile procedere alla remunerazione degli incentivi per
funzioni tecniche in assenza della necessaria fase della
programmazione di acquisti e lavori pubblici e di una
procedura comparativa.
I compensi incentivanti in parola
sono erogabili, in caso di appalti di servizi o forniture,
solo laddove sia stato nominato il direttore
dell’esecuzione, nomina richiesta secondo le Linee guida ANAC
n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di forniture e
servizi di importo superiore a 500.000 euro ovvero di
particolare complessità.
Compete all’ente interessato la
valutazione circa la sussistenza, in concreto, di attività
effettivamente incentivabili nel quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento.
---------------
Il Presidente della Provincia di Bergamo
ha inviato la richiesta di parere sopra indicata in materia
di incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 e s.m.i.
In particolare, il Presidente dell’Ente sopra richiamato,
premessi alcuni riferimenti alla giurisprudenza contabile in
materia, con particolare riguardo ai principi di diritto
enucleati dalla Sezione delle Autonomie nella
deliberazione 09.01.2019 n. 2, chiede, per quanto possibile evincere
dall’istanza:
1. se “è possibile riconoscere l’incentivo anche per le attività
connesse all’esecuzione di lavori che per il loro importo
non richiedono l’inserimento nel programma di lavori
pubblici”;
2. se, con riguardo agli appalti relativi a servizi e forniture, «è
corretto ritenere che l’incentivo possa essere previsto nel
solo caso in cui “deve essere nominato” il direttore
dell’esecuzione» e “quindi nel solo caso di servizi
di importo superiore a 500.000”;
3. se è possibile “ritenere che la previsione dell’incentivo
negli stanziamenti di spesa previsti per i singoli appalti
sia una previsione non obbligatoria ma anzi consentita nel
solo caso di procedure di particolare complessità”;
...
In ossequio alla costante giurisprudenza delle Sezioni di
controllo le questioni poste nella richiesta di parere in
esame possono essere analizzate in chiave generale e
astratta, non essendo scrutinabili nel merito istanze
concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici,
in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una
consulenza generale della Corte dei conti, incompatibile con
le funzioni alla stessa attribuite dal vigente ordinamento e
con la sua fondamentale posizione di indipendenza e
neutralità.
Conseguentemente, il Collegio prenderà in esame i quesiti
formulati dall’Amministrazione comunale offrendo una lettura
interpretativa generale del quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento, non potendo costituire, di
contro, oggetto di valutazione da parte della Sezione i
profili inerenti alla legittimità delle singole
corresponsioni dei predetti incentivi al personale
dell’Ente.
Posto quanto sopra, i quesiti formulati dall’Ente saranno
esaminati nei loro aspetti generali ed astratti, dovendosi,
altresì, rimarcare, avuto riguardo a quanto osservato
nell’istanza in esame, che questa Sezione ritiene di non
avere competenze né in ordine al chiarimento dei principi
espressi in materia dalla Sezione delle Autonomie, né, in
generale, in merito all’interpretazione di decisioni di
altre Sezioni della Corte dei conti.
La risposta nel merito ai quesiti posti presuppone una
sintetica disamina del quadro normativo di riferimento e dei
principali orientamenti espressi dalla giurisprudenza
contabile in materia.
L’art. 113 del menzionato d.lgs. n. 50/2016 fissa la
possibilità di erogare emolumenti economici accessori a
favore del personale interno alle Amministrazioni pubbliche
espletante specifiche attività all’interno delle procedure
di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o
verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o
forniture.
Nello specifico, la norma in discorso prevede che, a valere
sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni
aggiudicatrici possano destinare ad un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2% modulate
sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse ivi espressamente indicate (programmazione della
spesa per investimenti, valutazione preventiva dei progetti,
predisposizione e controllo delle procedure di gara e di
esecuzione dei contratti pubblici, funzioni di RUP,
direzione dei lavori o direzione dell’esecuzione e collaudo
tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti).
La costituzione del fondo non è prevista da parte di quelle
amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per
la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri
dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una
centrale di committenza possono destinare il fondo o parte
di esso ai dipendenti di tale centrale.
Rispetto alla normativa previgente (art. 93, comma 7-bis e ss., del d.lgs. 12.04.2006, n. 163) la disposizione in esame
trova espressa applicazione non solo per gli appalti di
lavori, ma anche per quelli relativi a servizi o forniture
nel caso in cui (secondo le integrazioni apportate all’art.
113 dall’art. 76, comma 1, lett. b), del d.lgs. 19.04.2017,
n. 56) sia stato nominato il direttore dell’esecuzione.
Il tenore letterale della norma, che fa espresso riferimento
all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di
gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni
tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo
svolgimento di una procedura comparativa (cfr., ex multis,
di questa Sezione
parere 09.06.2017 n. 190; Sez. controllo Puglia
deliberazione 09.02.2018 n. 9 e
parere 22.05.2019 n. 52; Sez. controllo
Marche
parere 08.06.2018 n. 28; Sez.
controllo Liguria
parere 21.12.2018 n. 136;
Sez. controllo Piemonte
parere 09.10.2017 n. 177).
Il ricorso al predetto meccanismo premiale è subordinato
alla preventiva approvazione, da parte dell’Amministrazione,
di un regolamento interno e alla conclusione di un accordo
di contrattazione decentrata in cui vanno regolati i criteri
di ripartizione fra i dipendenti interessati.
Nel succitato regolamento -la cui adozione è considerata,
nella giurisprudenza contabile (cfr., ex multis, Sez.
controllo Veneto
parere 07.09.2016 n. 353;
Sez. controllo Regione autonoma Friuli Venezia Giulia
parere 02.02.2018 n. 6) condizione
essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi
diritto delle risorse accantonate sul fondo- vanno
individuate le modalità ed i criteri della ripartizione dei
compensi incentivanti, oltre alla percentuale, che,
comunque, non può superare i limiti quantitativi posti dalla
medesima norma.
In particolare il comma 3 dell’art. 113
prevede che “l’ottanta per cento delle risorse finanziarie
del fondo costituito ai sensi del comma 2” possa essere
ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, con le
modalità sopra indicate, “tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”. Il
restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto
dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e
tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di
modellazione per l’edilizia e le infrastrutture; attivazione
di tirocini formativi e di orientamento; svolgimento di
dottorati di ricerca, etc.).
La norma fissa, inoltre, un limite individuale alla
corresponsione degli incentivi in parola, stabilendo che,
complessivamente, nel corso dell’anno, un singolo dipendente
non possa percepire emolumenti di importo superiore al 50%
del proprio trattamento economico annuo lordo. Il comma 3
precisa, inoltre, che gli importi indicati devono essere “comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione”.
L’art. 1, comma 526, della legge 27.12.2017, n. 205 (legge
di bilancio 2018) ha introdotto il comma 5-bis all’art. 113
del d.lgs. n. 50/2016 il quale prevede testualmente che «Gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture».
Il nuovo intervento normativo ha definitivamente chiarito
che gli incentivi per le funzioni tecniche non fanno carico
ai capitoli della spesa del personale, ma devono essere
ricompresi nel quadro economico del singolo contratto: com’è
noto, sulla base dello ius superveniens, la Sezione delle
Autonomie (intervenendo nuovamente sulla questione alla luce
del mutato contesto normativo di seguito alle
deliberazione 06.04.2017 n. 7
e
deliberazione 10.10.2017 n. 24) ha
affermato che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse
finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi
capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori,
servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017” (Corte Conti, Sezione delle autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Ancora, il prevalente orientamento della giurisprudenza
consultiva (in termini Sez. controllo Toscana
parere 10.10.2018 n. 63; Sez. controllo Liguria
parere 21.12.2018 n. 136; Sez.
controllo Puglia
parere 12.12.2018 n. 162) rimarca come l’articolo
113 del d.lgs. n. 50/2016, allo scopo di erogare
l’incentivo, richieda l’effettivo svolgimento di una delle
attività tassativamente elencate dalla norma di riferimento.
Difatti (cfr. Sez. controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57) gli
incentivi devono essere correlati allo svolgimento delle
prestazioni tecniche realmente svolte, in modo da remunerare
il concreto carico di responsabilità e di lavoro assunto dai
dipendenti; sotto questo profilo la norma, al comma 3,
prevede che la corresponsione dell’incentivo sia disposta
dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento delle specifiche
attività svolte dai dipendenti.
Tanto premesso, è possibile passare all’esame nel merito
della richiesta di parere avanzata dalla Provincia di
Bergamo.
Con il primo quesito l’Ente chiede se sia possibile
riconoscere l’incentivo anche per le attività connesse
all’esecuzione di lavori che per il loro importo non
richiedono l’inserimento nel programma di lavori pubblici.
Sul punto la Sezione, nel rammentare le condizioni sopra
indicate ai fini della legittima corresponsione dei compensi
in discorso, richiama all’attenzione dell’istante le
osservazioni, formulate dalla giurisprudenza di questa Corte
già nel previgente quadro normativo in tema di incentivi
tecnici, secondo cui (cfr. Sez. controllo Basilicata,
parere 12.02.2015 n. 3) la disciplina degli stessi deve necessariamente
essere in linea “con quella che presiede alla realizzazione
di opere e lavori pubblici”, segnatamente con le regole che
“disciplinano la programmazione e l’esecuzione delle opere e
dei lavori pubblici, il reperimento delle relative risorse
finanziarie, la predisposizione degli strumenti di bilancio
e i principi contabili che presiedono alla sua gestione”,
dovendosi, in particolare, notare che mentre il programma
triennale costituisce momento di “identificazione e
quantificazione dei bisogni e delle priorità dell’Ente”, “è
con l’inserimento del lavoro o dell’opera nell’elenco
annuale che si passa alla fase della verifica della
sostenibilità finanziaria della stessa in relazione alle
risorse dell’Ente”.
Del resto, già nella citata
deliberazione 14.03.2019 n. 96,
la Sezione ha avuto modo di rilevare che il ricorso alla
prestazione incentivante deve risultare necessariamente
coerente con gli strumenti di programmazione
economico-finanziaria dell’ente, con particolare riguardo al
programma biennale degli acquisti di beni e servizi e alla
programmazione dei lavori pubblici di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016, in linea, peraltro, con la centralità
della fase della programmazione evidenziata dalla
giurisprudenza amministrativa (cfr. il
parere 13.02.2017 n. 351 del Consiglio
di Stato n. 351/2017, approvato nell’Adunanza della
Commissione speciale del 09.01.2017, sullo schema di
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di
concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze
recante “Procedure e schemi-tipo redazione e pubblicazione
programma triennale lavori pubblici, programma biennale
acquisizione di forniture e servizi relativi elenchi e
aggiornamenti annuali, art. 21, comma 8, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50”).
Più di recente, la Sezione regionale di controllo per il
Piemonte nel
parere 19.03.2019 n. 25, ha espresso
l’avviso -da cui questa Sezione non rinviene ragioni per
discostarsi- per cui, avuto riguardo al principio del buon
andamento dell’azione amministrativa fissato dall’art. 97 Cost.,
non sia possibile procedere alla remunerazione degli
incentivi per funzioni tecniche in assenza della descritta e
necessaria fase della programmazione di acquisti e lavori
pubblici (declinata all’art. 21 del d.lgs. n. 50/2016) e di
una procedura comparativa.
Va, peraltro, precisato che l’art. 21, comma 3, del codice
dei contratti pubblici dispone che il programma triennale
dei lavori pubblici e i relativi aggiornamenti annuali
contengano i lavori di importo stimato pari o superiore a
100.000 euro, lasciando impregiudicata, per le
amministrazioni aggiudicatrici, la facoltà di includere nei
programmi anche interventi di importo inferiore a detta
soglia.
Con il secondo quesito l’Ente chiede se, relativamente agli
appalti di servizi e forniture, sia corretto ritenere che il
compenso premiante possa essere riconosciuto nel solo caso
in cui risulti obbligatoria la nomina del direttore
dell’esecuzione e, quindi, nel solo caso di servizi di
importo superiore a 500.000.
In proposito la Sezione richiama quanto già osservato nella
propria precedente
deliberazione 14.03.2019 n. 96.
Nella circostanza è stato osservato come, per effetto delle
modifiche apportate all’art. 113 dall’art. 76, comma 1,
lett. b), del d.lgs. n. 56 del 2017, i compensi incentivanti
in parola siano erogabili, in caso di servizi o forniture,
solo laddove sia stato nominato il direttore
dell’esecuzione, nomina richiesta -come osservato dalla
Sezione delle Autonomie nella precitata
deliberazione 09.01.2019 n. 2- “secondo le Linee guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto
negli appalti di forniture e servizi di importo superiore a
500.000 euro ovvero di particolare complessità”.
L’art. 111, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 prevede che, di
norma, il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi
o di forniture coincida il responsabile unico del
procedimento, ma la disciplina di attuazione contenuta nelle
Linee guida A.N.AC. n. 3 – par. 10.2 sopra richiamate
individua espressamente i casi in cui il direttore
dell’esecuzione del contratto non può coincidere con il
responsabile del procedimento (tra cui proprio quelli di
prestazioni di importo superiore a 500.000 euro e interventi
particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico).
Dal disposto normativo sopra richiamato risulta, dunque,
che, nei suddetti casi, anche ai fini dell’erogazione dei
predetti compensi incentivanti nell’ambito di servizi e
forniture, la figura del direttore dell’esecuzione del
contratto deve essere diversa da quella del responsabile
unico del procedimento: diversamente opinando, in siffatte
ipotesi, “nessun dipendente svolgente le funzioni enumerate
dal comma 2 dell’articolo 113 può percepire compensi
incentivanti” (in questi termini cfr. Sez. controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57).
Sulla questione si è recentemente espressa anche la Sezione
regionale di controllo per il Veneto nel
parere 21.05.2019 n. 107 che ha escluso la possibilità di inserire, nel
regolamento comunale approvato ai sensi dell’art. 113, comma
3, del d.lgs. n. 50/2016, disposizioni derogatorie del
predetto precetto normativo che riconoscano detto compenso
anche per appalti aventi ad oggetto prestazioni di valore
inferiore a € 500.000 o per i quali non sussista l’obbligo
di nominare come direttore dell’esecuzione un soggetto
diverso dal RUP.
Con il terzo quesito si chiede se, alla luce dell’inciso
contenuto al comma 2, dell’art. 113 sopra richiamato -che
collega la remunerazione delle funzioni tecniche ivi
indicate alla necessità di “consentire l’esecuzione del
contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti”- sia d’uopo
“ritenere che la previsione dell’incentivo negli
stanziamenti di spesa previsti per i singoli appalti sia una
previsione non obbligatoria ma anzi consentita nel solo caso
di procedure di particolare complessità”.
Sul punto la Sezione non può che richiamare il rispetto
delle rigorose condizioni sostanziali e procedurali che
legittimano l’erogazione dell’incentivo di cui trattasi, la
cui finalità, come recentemente osservato è “anzitutto
quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle
professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento
all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero
comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con
aggravio della spesa complessiva” (così Sez. controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57, cit.); ciò nel quadro di un accrescimento di
“efficienza ed efficacia di attività tipiche
dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente
rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini
di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso
d’opera” (Sez. controllo Toscana
parere 14.12.2017 n. 186).
In tale quadro si colloca l’avviso espresso dalla Sezione
delle autonomie nella
deliberazione 09.01.2019 n. 2
che, nel riconoscere, sempre nel rispetto delle suddette
condizioni previste dalla norma, l’incentivabilità delle
funzioni tecniche negli appalti di manutenzione
straordinaria e ordinaria “di particolare complessità”, ha
rimarcato che “l’attività deve risultare caratterizzata da
problematiche realizzative di particolare complessità, tali
da giustificare un supplemento di attività da parte del
personale interno all’amministrazione affinché il
procedimento che regola il corretto avanzamento delle fasi
contrattuali si svolga nel pieno rispetto dei documenti
posti a base di gara, del progetto”.
Nel predetto contesto normativo e giurisprudenziale compete
all’ente interessato la valutazione circa la sussistenza, in
concreto, di attività effettivamente incentivabili (in
questi termini, da ultimo, Sezione regionale di controllo
per il Veneto
parere 09.04.2019 n. 72) e la misura del compenso
premiante da riconoscere nel rispetto dei limiti fissati
dalla legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 18.07.2019 n. 310). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Alla luce
dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 s.m.i., gli incentivi per funzioni
tecniche ivi disciplinati sono destinabili al personale
dipendente dell’ente esclusivamente nei casi di contratti di
appalto e non anche nei casi di contratti di concessione.
La
risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale,
legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi
per funzioni tecniche in caso di contratti di concessione,
importa che restino conseguentemente assorbiti gli ulteriori
quesiti posti dal Comune di Voghera.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Voghera
(PV), in vista dell’affidamento in concessione, mediante
procedura ad evidenza pubblica, della gestione della
segnaletica direzionale, di impianti pubblicitari di
servizio, di impianti pubblicitari e di cartellonistica
stradale sul suolo pubblico, ha investito questa Sezione dei
seguenti quesiti:
1. «se anche nel caso in cui il flusso economico derivante dalla
concessione resti sostanzialmente nella esclusiva
disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario,
l’incentivo per funzioni tecniche debba essere determinato
sul valore posto a base di gara e quindi sul fatturato
presunto»;
2. «in caso affermativo, considerato che il canone è versato in
quote annuali nella misura di € 20.500 e che l’incentivo,
pari a € 62.500, deve invece essere riconosciuto in
correlazione all’esigibilità della prestazione
effettivamente svolta, se è corretto che l’Ente anticipi, a
valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da
erogare al personale dipendente»;
3. «considerato che l’art. 113, comma 5-bis, d.lgs. 50/2016
prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno
capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavoro, servizi e forniture” quale condizione per poter
considerare detti importi esclusi dal limite di cui all’art.
23, comma 2, d.lgs. 75/2017 (Corte Conti Sezione delle
Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6),
e che in questo caso non vi è un capitolo di spesa in quanto
non sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla
gestione della concessione, in questo caso come occorre
contabilizzare l’importo per incentivi per soddisfare la
condizione necessaria all’esclusione dal limite previsto per
il salario accessorio»;
4. se «stante il combinato disposto degli articoli 31, comma 5 e
113, comma 2, ult. Cpv. del D.Lgs. 50/2016 e viste le Linee
guida ANAC n. 3, approvate con deliberazione n. 1007
dell’11/10/2017, con cui al punto 10.2 è stato definito
l’importo massimo e la tipologia dei servizi e forniture per
le quali il RUP può coincidere con il direttore
dell’esecuzione del contratto, è legittimo, nel caso
prospettato, riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche
nel caso in cui, con provvedimento dirigenziale, sia
nominato direttore dell’esecuzione il RUP. In caso
affermativo se è corretto corrispondere al medesimo
dipendente l’incentivo sia per le funzioni di RUP che di
direttore dell’esecuzione del contratto».
...
Con la
deliberazione 14.03.2019 n. 96
cui si fa rinvio, questa Sezione, dopo aver dichiarato
inammissibile l’ultimo quesito posto dall’Ente in
quanto afferente ad una questione di ordine meramente
gestionale e, come tale rimessa, alla discrezionalità e
responsabilità dell’istante, ha ritenuto opportuno, a monte,
deferire al Presidente della Corte dei conti la seguente
questione interpretativa di massima di carattere generale: “se
l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del
d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via
regolamentare, anche in caso di concessioni e se, in
siffatta ipotesi, il compenso premiale, anche laddove il
flusso economico derivante dalla concessione resti
sostanzialmente nella esclusiva disponibilità dell’operatore
economico aggiudicatario, debba essere determinato sul
valore posto a base di gara e non con riguardo all’ammontare
del canone concessorio”.
Nell’ipotesi in cui la questione di massima sopra illustrata
fosse stata definita nel senso dell’ammissibilità degli
incentivi per funzioni tecniche in ipotesi di concessioni,
la Sezione ha ritenuto che le problematiche poste dal
Comune, in particolare con il terzo e il quarto
quesito, potessero dare luogo alle ulteriori seguenti
questioni di massima da porre all’attenzione della sede
nomofilattica, dirimenti ai fini della necessità di
orientare in termini generali l’autonomia regolamentare dei
soggetti interessati:
- “quali siano le corrette modalità di contabilizzazione degli
incentivi per funzioni tecniche in caso di erogazione in
relazione ad una procedura di aggiudicazione di un contratto
di concessione”;
e, sempre in via subordinata:
- “se gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del
2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale,
che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono
essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e
individuali, che devono essere osservati nell’erogazione
possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza
pubblica, posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma
2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non
già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o
fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs.
50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno
specifico stanziamento previsto nel bilancio
dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1
dello stesso art. 113”.
Le questioni sopra enunciate sono state, così, rimesse al
Presidente della Corte dei conti per la valutazione
sull’opportunità di deferimento delle stesse alla Sezione
delle autonomie o alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art.
6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012 n. 174 (convertito,
con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213).
Con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15,
la Sezione delle autonomie, investita della questione di
massima dal Presidente della Corte dei conti con ordinanza
n. 10 del 02.05.2019 ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto-legge n. 174/2012, ha enunciato il seguente
principio di diritto: “Alla luce
dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono
destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente
nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di
contratti di concessione”.
Per la soluzione delle questioni sopra elencate, la Sezione
delle autonomie ha ritenuto imprescindibile risolvere la
prima parte del primo quesito posto da questa Sezione, e
cioè “se l’incentivo per funzioni tecniche di cui
all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere
riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di
concessioni” in quanto dirimente ai fini del riscontro
anche dei successivi.
Condividendo le perplessità interpretative ed applicative
segnalate da questa Sezione remittente, legate alla
riconoscibilità dell’incentivo per funzioni tecniche di cui
all’art. 113 del codice dei contratti pubblici anche in caso
di concessioni, la Sezione delle autonomie ha osservato come
“una piana lettura di quest’ultima disposizione non può
indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia
applicabile ai contratti di concessione”, dovendosi
piuttosto osservare che “il citato art. 113 è calibrato
inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto”;
ciò in particolare alla luce dell’attuale disposto del comma
5-bis della stessa norma, da cui si desume univocamente che
i compensi incentivanti “per chiara affermazione del
legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per
contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che
possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo
in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente
previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai
capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture”.
È stato ulteriormente osservato, al riguardo, che la
specialità della fattispecie dei compensi incentivanti di
cui trattasi “ha richiesto una disciplina espressa e
compiuta, che è declinata nell’art. 113, con indicazione
degli ambiti, delle modalità di finanziamento e delle
relative procedure di quantificazione e individuazione delle
destinazioni, nonché della natura degli emolumenti accessori
(e per quest’ultimo profilo è stato necessario un ulteriore
intervento legislativo). Non sembra praticabile, quindi,
un’interpretazione estensiva ed analogica”.
In tale prospettiva la Sezione delle autonomie ha condiviso
talune criticità applicative prospettate da questa Sezione
remittente, rimarcando la difficile conciliabilità del
compenso in esame con le “diverse caratteristiche
strutturali delle due tipologie di contratti, in quanto
essenzialmente, quelli di appalto comportano spese e quelli
di concessioni entrate”; inoltre, è stato rilevato, “nel
caso di operazioni di notevole entità, prevedere di pagare
incentivi a fronte di flussi di entrata che potrebbero
essere incerti esporrebbe l’ente al rischio di
insostenibilità. Né si può far affidamento su clausole
contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali in
quanto non previste per legge, che prevedano la
remunerazione dell’incentivo in capo al concessionario”.
In conclusione, la Sezione delle autonomie ha ritenuto che “per
ritenere applicabile anche ai contratti di concessione gli
incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche si
dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico estensivo ed
analogico tale da riscrivere, di fatto, il contenuto
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si è visto, è
calibrato sui contratti di appalto (ai quali espressamente
si riferisce) e non tiene conto di quelle sostanziali
differenze che caratterizzano i contratti di concessione”.
Questa Sezione regionale,
pertanto, in applicazione del sopra richiamato principio di
diritto, aderisce all’interpretazione
seguita dalla Sezione delle autonomie in forza della quale,
alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono
destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente
nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di
contratti di concessione.
La risposta negativa alla suddetta questione pregiudiziale,
legata alla stessa possibilità di riconoscere gli incentivi
per funzioni tecniche in caso di contratti di concessione,
importa che resti conseguentemente assorbita ogni ulteriore
valutazione sugli altri quesiti posti dal Comune di Voghera (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 18.07.2019 n. 309). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici solo per i contratti d'appalto. Non per le concessioni.
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere destinati al personale
dipendente degli enti locali esclusivamente nei casi di contratti di appalto
e non anche nei casi di contratti di concessione.
Con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15
la sezione autonomie
della Corte conti ha fornito l'esatta portata applicativa dell'art. 113 del
Codice appalti (dlgs n. 50/2016), ponendo un freno ai tentativi
interpretativi di alcune sezioni regionali (Veneto e Lombardia) che invece
avevano optato per letture estensive.
La sezione autonomie ha osservato che il Codice ha compiutamente
disciplinato i contratti di concessione distinguendoli da quelli di appalto.
E quando invece ha voluto riferirsi ad entrambe le tipologie ha usato
l'espressione più generica «contratti pubblici». Non solo. L'art.
113, ha chiarito la Corte, «è inequivocabilmente calibrato sui contratti
di appalto» come dimostra la lettura dei commi 1, 2, 3 e 5 ma
soprattutto il disposto del comma 5-bis, aggiunto dalla legge di bilancio
2018, che così recita: «gli incentivi di cui al presente articolo fanno
capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture».
Secondo la Corte è proprio quest'ultima disposizione a risultare decisiva
per risolvere la questione, dal momento che i compensi incentivanti
costituiscono un «di più» delle spese per i contratti d'appalto e non
vi è «alcun elemento ermeneutico che possa far ritenere estensibile le
disposizioni dell'articolo anche alle concessioni, non essendo
normativamente previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai
capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture».
Non solo. Le remunerazioni per funzioni tecniche sono escluse dal tetto di
spesa per le retribuzioni previsto dai vincoli di finanza pubblica, in
quanto partecipano della stessa natura dei contratti cui accedono
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2019). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Concessioni
di lavori o servizi definitivamente fuori dagli incentivi tecnici.
All'apertura sulla possibile remunerazione degli incentivi tecnici anche
allo operazioni di partenariato pubblico privato, dove trovano posto anche
le concessioni di lavori o servizi, si era pronunciata la Corte dei conti
del Veneto (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del
04.07.2018), successivamente stoppata dalla sezione Lombardia (deliberazione 14.03.2019 n. 96), a seguito di rilevanti dubbi sulla percorribilità di questa
apertura, rimettendo la questione di massima alla Sezione delle Autonomie.
Quest'ultima, con la
deliberazione 25.06.2019 n. 15, evitando interpretazione
analogiche o estensive, ha negato la possibilità di remunerare le
concessioni di lavori o di servizi (e in generale tutte le operazioni di partenariato pubblico privato) per la piana lettura dell'articolo 113 del
Dlgs n. 50/2016, che al comma 1 stabilisce in modo inequivocabile che «fanno
carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti», escludendo in via diretta le concessioni di lavori o di
servizi.
La ricostruzione della sezione Veneto
Pur evidenziando difficoltà nell'interpretazione che estenda anche alle
concessioni di lavori o di servizi la remunerazione degli incentivi tecnici,
i giudici contabili veneti (parere
21.06.2018 n. 198
e
parere 27.11.2018 n. 455) ne hanno
consentito la rimuneratività, sia in considerazione della unitarietà della
nozione di contratti pubblici, sia in riferimento ad altri articoli del
codice dei contratti che prevedono le stesse figure professionali previste
per gli appalti pubblici (Responsabile unico del procedimento; collaudatore
della esecuzione dei contratti).
I dubbi della sezione Lombardia
I giudici contabili lombardi (deliberazione 14.03.2019 n. 96) pur condividendo le
indicazioni dei colleghi veneti, tuttavia se ne dissociano a fronte di
alcuni problemi operativi di difficile soluzione. Anzi ne fiutano i
pericoli, spostando l'attenzione sulla possibile ricaduta, in termini di
programmazione e impatto sul bilancio degli enti locali, del riconoscimento
di questi ulteriori incentivi, che dovrebbero coerentemente inserirsi nel
programma biennale degli acquisti di beni e servizi, nonché nella
programmazione dei lavori pubblici.
A differenza dei contratti di appalto, infatti, i cui oneri finanziari
gravano sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture, per i contratti di concessione non c'è un capitolo di
spesa dedicato, in quanto non sono previsti nel bilancio comunale costi
correlati alla gestione del contratto.
Il rischio, pertanto, sarebbe quello
che, per l'ente concedente, potrebbero derivare oneri non sostenibili,
soprattutto ove si tratti di concessioni relative a lavori o servizi con
elevato volume d'affari e in fase di programmazione non sia stato
adeguatamente ponderato e parametrato, anche a tali fini, il canone dovuto
dal concessionario, quale unica entrata destinata al finanziamento della
premialità.
Proprio in considerazione di tali rilevanti dubbi, il collegio contabile ha
chiesto uno specifico intervento della sezione delle Autonomie.
Le indicazione della sezione Autonomie
Per i giudici della nomofilachia contabile, anche a fronte dei rischi
paventati di dover fare ricorso a uno stanziamento di spesa specifico non
previsto per legge e, quindi, di dubbia legittimità, senza contare che la
copertura finanziaria, essendo legata alla riscossione dei canoni
concessori, resta gravata da un margine di aleatorietà, dispone della non
estensibilità ai contratti di concessione di lavori e servizi degli
incentivi, sulla base della sola lettura dell'articolo 113 del codice dei
contratti.
Quest'ultimo articolo, infatti, al comma 1, prevede che «fanno carico agli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture
negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti» escludendo in tal modo eventuali incentivi per concessione di
lavori o di servizi.
Pertanto, lanciando un monito alle sezione regionali,
non è possibile con operazioni ermeneutiche estensive dichiarare cose
diverse da quanto stabilito dalla legge, in quanto tale operazione di
lettura travalica la competenza di chi è chiamato a interpretare e applicare
le norme
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.06.2019). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Alla
luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d.lgs.
18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono
destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente
nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di
contratti di concessione.
---------------
- Vista la
deliberazione 14.03.2019 n. 96,
con la quale la Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, in riferimento alla richiesta di parere
presentata dal Sindaco del Comune di Voghera, ha rimesso al
Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 17,
comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito
con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, e
dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174,
convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213,
una questione di massima in merito alla riconoscibilità
degli incentivi per funzioni tecniche, nel caso di
concessione di servizi con procedura ad evidenza pubblica,
nonché, in via subordinata, alle corrette modalità di
contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in
caso di erogazione in relazione ad una procedura di
aggiudicazione di un contratto di concessione e alla
possibilità di esclusione di detti incentivi dal vincolo
generale di finanza pubblica, posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di
cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017;
...
PREMESSO
1. Il Comune di Voghera (PV), in vista dell’affidamento in
concessione, mediante procedura ad evidenza pubblica, della
gestione della segnaletica direzionale, di impianti
pubblicitari di servizio, di impianti pubblicitari e di
cartellonistica stradale sul suolo pubblico, ha investito la
Sezione regionale di controllo per la Lombardia dei seguenti
quesiti:
1. «se anche nel caso in cui il flusso economico derivante dalla
concessione resti sostanzialmente nella esclusiva
disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario,
l’incentivo per funzioni tecniche debba essere determinato
sul valore posto a base di gara e quindi sul fatturato
presunto»;
2. «in caso affermativo, considerato che il canone è versato in
quote annuali nella misura di € 20.500 e che l’incentivo,
pari a € 62.500, deve invece essere riconosciuto in
correlazione all’esigibilità della prestazione
effettivamente svolta, se è corretto che l’Ente anticipi, a
valere sulle risorse correnti di bilancio, l’importo da
erogare al personale dipendente»;
3. «considerato che l’art. 113, comma 5-bis, d.lgs. 50/2016
prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno
capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavoro, servizi e forniture” quale condizione per poter
considerare detti importi esclusi dal limite di cui all’art.
23, comma 2, d.lgs. 75/2017 (Corte Conti Sezione delle
Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6, e che in questo
caso non vi è un capitolo di spesa in quanto non sono
previsti nel bilancio comunale costi correlati alla gestione
della concessione, in questo caso come occorre
contabilizzare l’importo per incentivi per soddisfare la
condizione necessaria all’esclusione dal limite previsto per
il salario accessorio»;
4. se «stante il combinato disposto degli articoli 31, comma 5 e
113, comma 2, ult. Cpv. del D.Lgs. 50/2016 e viste le Linee
guida ANAC n. 3, approvate con deliberazione n. 1007
dell’11/10/2017, con cui al punto 10.2 è stato definito
l’importo massimo e la tipologia dei servizi e forniture per
le quali il RUP può coincidere con il direttore
dell’esecuzione del contratto, è legittimo, nel caso
prospettato, riconoscere l’incentivo per funzioni tecniche
nel caso in cui, con provvedimento dirigenziale, sia
nominato direttore dell’esecuzione il RUP. In caso
affermativo se è corretto corrispondere al medesimo
dipendente l’incentivo sia per le funzioni di RUP che di
direttore dell’esecuzione del contratto».
La Sezione remittente ha dichiarato inammissibile l’ultimo
quesito (se sia legittimo riconoscere l’incentivo per
funzioni tecniche al RUP nominato, con provvedimento
dirigenziale, direttore dell’esecuzione del contratto e se
sia possibile riconoscere al medesimo dipendente l’incentivo
tanto per le funzioni di RUP che per quelle di direttore
dell’esecuzione), ritenendolo relativo ad una questione di
ordine meramente gestionale e, come tale rimessa, alla
discrezionalità e responsabilità dell’ente istante.
In via meramente collaborativa la Sezione ha comunque
osservato che «i
compensi incentivanti in parola siano erogabili, in caso di
servizi o forniture, solo laddove sia stato nominato il
direttore dell’esecuzione, nomina richiesta -come
recentemente osservato dalla Sezione delle autonomie nella
precitata
deliberazione 09.01.2019 n. 2-
secondo le Linee
guida ANAC n. 3 – par. 10.2, soltanto negli appalti di
forniture e servizi di importo superiore a 500.000 euro
ovvero di particolare complessità».
2. Per quanto riguarda il primo quesito posto dalla Sezione
remittente («se l’incentivo per funzioni tecniche di cui
all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere
riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di
concessioni e se, in siffatta ipotesi, il compenso premiale,
anche laddove il flusso economico derivante dalla
concessione resti sostanzialmente nella esclusiva
disponibilità dell’operatore economico aggiudicatario, debba
essere determinato sul valore posto a base di gara e non con
riguardo all’ammontare del canone concessorio») va
subito precisato che, in realtà, esso deve essere scomposto
in due parti: la prima relativa alla questione della
riconoscibilità degli incentivi tecnici anche nel caso di
contratti di “concessione” e non di “appalto”;
la seconda, eventuale e solo in caso di risposta affermativa
alla prima, relativa al parametro da utilizzare per la
determinazione del compenso in questa specifica fattispecie.
Con riferimento alla riconoscibilità dell’incentivo in caso
di contratti di concessione, sono richiamate, in proposito,
due deliberazioni della Sezione regionale di controllo per
il Veneto (parere
21.06.2018 n. 198
e
parere 27.11.2018 n. 455) secondo le quali
gli incentivi sarebbero da riconoscere anche nel caso di
contratti di concessione.
La predetta Sezione, pur partendo dalle difficoltà
ermeneutiche dovute alla sedes materiae (in quanto
l’art. 113, che disciplina gli incentivi è collocato nel
titolo II della seconda parte del codice, dedicata ai
contratti di appalto), nonché alla individuazione della
portata del rinvio alle disposizioni codicistiche in tema di
appalto contenuto all’art. 164, comma 2 (in particolare se
detto «rinvio vada inteso esclusivamente con riferimento
agli aspetti prettamente procedurali dell’esecuzione del
contratto o, in senso più ampio, a tutte le norme, con
l’unico limite della “compatibilità”, che disciplinano la
fase dell’esecuzione, ivi compresa la disposizione sull’incentivabilità
delle funzioni tecniche»), è giunta tale conclusione
sulla base delle argomentazioni di seguito sinteticamente
riportate.
a) La tesi estensiva sarebbe suffragata da ampiezza di argomenti
testuali e logico-sistematici da cui si evince che «quando
il legislatore abbia inteso non incentivabili attività
annoverabili tra le funzioni tecniche svolte nell’ambito di
certi contratti pubblici lo ha fatto esplicitamente».
b) L’incentivabilità delle funzioni tecniche sarebbe prevista in
altre disposizioni del codice espressamente applicabili
anche alle concessioni o indistintamente riferite a tutti i
contratti pubblici: tali situazioni sono ritenute
rinvenibili nell’art. 31, comma 12, in riferimento al ruolo
e funzioni del responsabile del procedimento negli appalti e
nelle concessioni, nonché nell’art. 102, comma 6, il quale
prevede che il compenso spettante per l’attività di collaudo
sull’esecuzione dei contratti pubblici (senza alcuna
distinzione) è ricompreso, per i dipendenti della stazione
appaltante, nell’ambito dell’incentivo di cui all’art. 113.
c) Rileverebbe, ai fini dell’applicazione della disciplina in tema
di incentivi per funzioni tecniche, una nozione unitaria di
contratti pubblici imposta dal diritto positivo (cfr. art.
3, comma 1, lett. dd), del Codice) e comprensiva sia dei
contratti di appalto che di concessione, con la fondamentale
differenza del c.d. rischio operativo insito nella
concessione che giustifica la diversa forma di remunerazione
accordata, in tale caso, all’operatore economico.
d) L’ipotesi estensiva sarebbe confortata anche dalla ratio sottesa
al riconoscimento del meccanismo premiale, che sarebbe «anzitutto
quella di stimolare e premiare l’ottimale utilizzo delle
professionalità interne, rispetto al ricorso all’affidamento
all’esterno di incarichi professionali, che sarebbero
comunque forieri di oneri aggiuntivi per l’Ente, con
aggravio della spesa complessiva» (SRC Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).
La Sezione remittente richiama, in proposito, anche le
deliberazioni della Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 10.10.2018 n. 63; della Sezione Puglia
parere 12.12.2018 n. 162; della Sezione
delle autonomie
deliberazione 09.01.2019 n. 2.
Si precisa che si tratta di pronunce, comunque, che non
hanno affrontato casi di contratti di concessione.
Conclusivamente, la Sezione rimettente, pur ritenendo
condivisibile la posizione assunta dalla Sezione Veneto, ha
ritenuto di dover chiedere una pronuncia di orientamento
generale in ordine all’incentivabilità delle funzioni
tecniche in materia di concessioni, in assenza di un dato
positivo univoco, nonché in considerazione della specialità
che contraddistingue la disciplina degli incentivi per le
funzioni tecniche rispetto al principio generale della
onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti
pubblici.
La Sezione sottolinea, altresì, l’attenzione alla possibile
ricaduta, in termini di programmazione e impatto sul
bilancio degli enti locali, del riconoscimento di questi
ulteriori incentivi, che dovrebbero coerentemente inserirsi
nel programma biennale degli acquisti di beni e servizi,
nonché alla programmazione dei lavori pubblici di cui
all’art. 21 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Sulla base di dette argomentazione viene formulata la
prima parte del primo quesito posto alla Sezione delle
autonomie e cioè «se l’incentivo per funzioni tecniche di
cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016 possa essere
riconosciuto, per via regolamentare, anche in caso di
concessioni…».
3. Con la seconda parte del primo quesito si chiede «se
(…) il compenso premiale, anche laddove il flusso economico
derivante dalla concessione resti sostanzialmente nella
esclusiva disponibilità dell’operatore economico
aggiudicatario, debba essere determinato sul valore posto a
base di gara e non con riguardo all’ammontare del canone
concessorio».
Nei contratti di appalto, infatti, gli oneri finanziari per
siffatti compensi gravano sul medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture:
pertanto, già nell’ambito delle risorse destinate al
contratto pubblico, una parte viene accantonata per detta
finalità.
Come rilevato dal rappresentante dell’Ente istante, per il
contratto di concessione che ha dato luogo alla richiesta di
parere, non vi è un capitolo di spesa dedicato in quanto non
sono previsti nel bilancio comunale costi correlati alla
gestione del contratto.
La Sezione Lombardia, in adesione ad un precedente
orientamento già espresso dalla Sezione Veneto (parere
27.11.2018 n. 455, anche alla luce del consolidato
orientamento della giurisprudenza amministrativa), è
dell’avviso che l’incentivo per funzioni tecniche in caso di
concessioni, dovrebbe essere determinato non già con
riferimento al canone dovuto dal concessionario, ma solo con
riguardo al valore posto a base di gara.
Si ipotizza, inoltre, che nell’ambito della libertà
contrattuale dell’Amministrazione potrebbe essere prevista,
in sede di corrispettivo, una modalità di finanziamento
degli oneri connessi, con soluzioni negoziali che pongano di
fatto a carico del concessionario la quota di compenso
incentivante da riconoscere al personale dell’Ente (SRC
Veneto
parere 21.06.2018 n. 198).
Peraltro, la Sezione remittente rileva che per l’ente
concedente potrebbero derivare oneri non sostenibili,
soprattutto ove si tratti di concessioni relative a lavori o
servizi con elevato volume d’affari e in fase di
programmazione non sia stata adeguatamente ponderato e
parametrato, anche a tali fini, il canone dovuto dal
concessionario, quale unica entrata destinata al
finanziamento della premialità.
4. Con il secondo quesito si chiede in via
subordinata «quali siano le corrette modalità di
contabilizzazione degli incentivi per funzioni tecniche in
caso di erogazione in relazione ad una procedura di
aggiudicazione di un contratto di concessione».
Ai sensi dell’art. l’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs. n.
50/2016, gli incentivi in discorso gravano sul medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture.
L’Ente chiede se sia corretto che anticipi, a valere sulle
risorse correnti di bilancio, l’importo da erogare al
personale dipendente per le prestazioni incentivate sopra
richiamate. In proposito la Sezione richiama in primo luogo
il costante orientamento della giurisprudenza contabile (cfr.
Sezione regionale di controllo Toscana,
parere 10.10.2018 n. 63;
Sezione regionale di controllo Liguria,
parere 21.12.2018 n. 136)
che rimarca come l’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016, allo
scopo di erogare l’incentivo, richieda l’effettivo
svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di
riferimento.
Inoltre, osserva che, in caso di concessione (ove se ne
ammettesse la praticabilità), per la previsione di apposito
stanziamento destinato ad alimentare il fondo di cui
all’art. 113, comma 2, appare necessaria un’attenta
valutazione in ordine alle risorse a tale scopo devolvibili
e in merito all’opportunità di adottare specifiche misure
prudenziali rispetto al rischio di mancata riscossione del
canone da parte del concessionario.
5. Con il terzo quesito si chiede «se gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016,
aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che
individua le autonome risorse finanziarie a cui devono
essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi e
individuali, che devono essere osservati nell’erogazione
possano essere esclusi dal vincolo generale di finanza
pubblica, posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti pubblici di cui all’art. 23, comma
2, del d.lgs. n. 75 del 2017 anche laddove alimentati non
già dalle risorse facenti capo al singolo lavoro, servizio o
fornitura di cui all’art. 113, comma 5-bis, del d.lgs.
50/2016 e s.m.i. ma, come in caso di concessione, da uno
specifico stanziamento previsto nel bilancio
dell’Amministrazione aggiudicatrice ai sensi del comma 1
dello stesso art. 113».
La remittente richiama quanto affermato dalla Sezione delle
autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6),
in ordine al fatto che con l’inserimento del predetto comma
5-bis all’interno dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, il
legislatore ha inteso compiere «un intervento volto a
tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli
incentivi per le funzioni tecniche» e che «l’avere
correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni
singola opera con riferimento all’importo a base di gara
commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello
predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al
di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale».
I profili problematici individuati dalla Sezione remittente
sono dati dalla circostanza che:
a) gli oneri in questione devono trovare copertura negli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o,
comunque, “nei bilanci delle stazioni appaltanti”;
b) come chiarito dalla Sezione delle autonomie (cfr.
deliberazione 26.04.2018 n. 6 e
deliberazione 09.01.2019 n. 2) gli
emolumenti sono erogabili, con carattere di generalità,
anche per gli appalti di servizi e forniture, e ciò «comporta
che gli stessi si configurino, non più solo come spesa
finalizzata ad investimenti, ma anche come spesa di
funzionamento e, dunque, come spesa corrente», con la
conseguenza che l’impegno di spesa va assunto, a seconda
della natura (corrente o in c/capitale), nel Titolo I o nel
Titolo II dello stato di previsione del bilancio.
La Sezione remittente, infatti, ritiene necessario chiarire
in via nomofilattica se l’inclusione dell’incentivo nel
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture si ponga sempre come condicio sine
qua non ai fini dell’esclusione dal limite normativo
previsto per il salario accessorio dall’art. 23, comma 2,
d.lgs. n. 75/2017, atteso che per quanto riguarda i
contratti di concessione si dovrebbe far riferimento ad uno
stanziamento ad hoc, al di fuori di quanto espressamente
previsto per i contratti di lavori servizi e forniture.
CONSIDERATO
1. Per la soluzione delle questioni sottoposte all’esame
della Sezione delle autonomie, come sopra riepilogate,
appare imprescindibile risolvere la prima parte del
primo
quesito posto dalla Sezione istante, e cioè “se
l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del
d.lgs. 50 del 2016 possa essere riconosciuto, per via
regolamentare, anche in caso di concessioni”.
La risposta a questo quesito, evidentemente, condiziona i
successivi. Anche se, come si riferirà, in definitiva
l’esame delle richieste subordinate contribuisce a far
chiarezza sulla principale.
2. Ritiene innanzi tutto il Collegio che l’interpretazione
estensiva propugnata dalla Sezione regionale di controllo
per il Veneto, dalla quale prende le mosse la Sezione
lombarda, suscita perplessità. La stessa Sezione remittente,
peraltro, pur affermando una sostanziale adesione
all’orientamento citato non può esimersi dal rilevare una
serie di criticità interpretative ed applicative, sulla
scorta delle quali ha ritenuto, infatti, di portare la
problematica all’attenzione della sede nomofilattica. Le
perplessità involgono sia il profilo sistematico, sia quello
testuale, e, non da ultimo, gli aspetti relativi alle
concrete modalità attuative, nell’ipotesi in cui si
addivenisse ad una soluzione affermativa.
3. Sotto il profilo sistematico, si rileva che il codice dei
contratti ha compiutamente disciplinato i contratti di
concessioni chiarendone le differenze con quelli di appalto. Tant’è che le due tipologie sono trattate in parti diverse
dell’apparato normativo: nella seconda i contratti di
appalto, in cui sono disciplinati anche gli incentivi per
funzioni tecniche, nella terza le concessioni.
4. E la circostanza non è irrilevante, in quanto il
legislatore, quando ha voluto, ha specificatamente
richiamato insieme le due tipologie (v., ad es., art. 5, 6,
7, 17, 23, 30, 31), oppure ha genericamente fatto
riferimento a “contratti pubblici”, come categoria
omnicomprensiva (v., ad es. art. 4, principi relativi
all’affidamento di contratti pubblici esclusi). In questo
senso conforta anche l’art. 3 (definizioni) del codice dei
contratti, che al comma 1, lett. dd), definisce «”contratti”
o “contratti pubblici”, i contratti di appalto o di
concessione aventi per oggetto l'acquisizione di servizi o
di forniture, ovvero l'esecuzione di opere o lavori, posti
in essere dalle stazioni appaltanti».
Viene precisato, quindi, cosa si intenda quando
nell’articolato si usano i termini “contratti” e “contratti
pubblici”, nelle occasioni in cui si tratta del più
ampio genus comprendente sia i contratti di appalto,
sia i contratti di concessione, ma non imponendo una lettura
sempre e comunque unitaria, di talché si possa usare
indifferentemente una tipologia specifica piuttosto che
l’altra.
L’art. 164, che apre la parte terza del codice, dedicata
alle concessioni, al comma 2 (Oggetto e ambito di
applicazione), indica puntualmente (e con il limite della
compatibilità) gli ambiti per i quali si deve fare rinvio
alle disposizioni contenute nelle parti prima e seconda: «2.
Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione
di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto
compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella
parte II, del presente codice, relativamente ai principi
generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di
affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei
bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai
motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle
modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai
requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai
termini di ricezione delle domande di partecipazione alla
concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione».
Una piana lettura di quest’ultima disposizione non può
indurre invero a ritenere che anche l’art. 113 sia
applicabile ai contratti di concessione.
Il fatto che l’art.
31 disciplini congiuntamente, sia per gli appalti che per le
concessioni, la figura del Responsabile Unico del
Procedimento non è di per sé dirimente circa l’ammissibilità
del compenso per entrambe le situazioni. Né appare decisivo
il richiamo all’art. 102, il quale al secondo periodo del
comma 6 prevede che «Il compenso spettante per l'attività
di collaudo è contenuto, per i dipendenti della stazione
appaltante, nell'ambito dell'incentivo di cui all'articolo
113, (…)». L’art. 102 in discorso, infatti, pur
riferendosi ai contratti pubblici in generale, pone
attenzione a profili che caratterizzano i contratti per
lavori e per forniture di beni e servizi e il rinvio
all’art. 113 va letto in questa prospettiva.
5. D’altro canto, il citato art. 113 è calibrato
inequivocabilmente sulla tipologia dei contratti di appalto.
Ed invero:
- nel comma 1 si stabilisce che gli oneri per gli incentivi in
questione “fanno carico agli stanziamenti previsti per i
singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti”;
- nel comma 2 si istituisce un fondo “a valere sugli
stanziamenti di cui al comma 1”, e le risorse
finanziarie che lo alimentano (nella misura non superiore al
2%) sono “modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara”;
- nei commi 3 e 5 si fa riferimento all’acquisizione di lavori
servizi e forniture;
- il comma 5-bis, infine, sancisce che “Gli incentivi di cui al
presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa
previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Quest’ultima disposizione (aggiunta dall'art. 1, comma 526,
l. 27.12.2017, n. 205, a decorrere dal 01.01.2018) appare
inequivocabilmente dirimente della questione sollevata. I
compensi incentivanti, infatti, per chiara affermazione del
legislatore costituiscono un “di cui” delle spese per
contratti appalto e non vi è alcun elemento ermeneutico che
possa far ritenere estensibile le disposizioni dell’articolo
in esame anche alle concessioni, non essendo normativamente
previsto uno specifico stanziamento non riconducibile ai
capitoli dei singoli lavori, servizi e forniture.
6. Giova esaminare, ai fini della fondatezza della
prospettiva indicata, l’ultimo quesito posto, relativo
all’esclusione o meno dei compensi di cui si tratta dal
vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo
trattamento economico accessorio dei dipendenti pubblici di
cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
Si rammenta che l’orientamento della Corte, a partire dal
2009 (cfr.
deliberazione 13.11.2009 n. 16;
deliberazione 04.10.2011 n. 51) era stato
nei sensi di escludere gli incentivi tecnici (in origine
limitati alla progettazione) dal computo della dinamica
retributiva assoggettata a vincoli di finanza pubblica.
Tanto sulla base della considerazione, in buona sostanza,
che si trattasse di una spesa ancorata agli investimenti,
non riconducibile, quindi, alla spesa corrente di cui il
personale costituisce una cospicua parte.
Con l’adozione del nuovo codice dei contratti (d.lgs. n.
50/2016) poiché l’art. 113, nella sua formulazione
originaria, prevedeva l’erogazione dei compensi per funzioni
tecniche sia nel caso di opere pubbliche, sia nel caso di
acquisto di beni e servizi, la “confusione” delle due
ipotesi aveva fatto ritenere che detta spesa fosse da
riferirsi a quella corrente e quindi concorresse alla
determinazione del trattamento retributivo massimo previsto
dalla legislazione vincolistica in materia (cfr.
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
confermata da
deliberazione 10.10.2017 n. 24).
Con l’introduzione nell’art. 113 del sopra richiamato comma
5-bis, la Sezione è nuovamente tornata sul tema,
pronunciandosi, questa volta, per l’esclusione delle forme
incentivanti dal tetto retributivo. In sostanza si è
ritenuto che il legislatore con l’integrazione della norma
abbia inteso mutare la natura di questa specifica voce di
spesa, attribuendola, a seconda della tipologia dei
contratti, ai lavori o a beni e servizi. Con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6 la Sezione delle
autonomie ha infatti chiarito che «l’allocazione in
bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore
ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura
giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare
globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o
forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche
le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici».
Da quanto precede si può dedurre che:
- le remunerazioni per funzioni tecniche sono escluse dal tetto di
spesa per le retribuzioni previsto dai vincoli di finanza
pubblica, in quanto partecipano della stessa natura dei
contratti cui accedono;
- gli incentivi sono stati individuati espressamente e in forma
tipica dal legislatore. Non può essere diversamente
interpretato il tenore del comma 5-bis, in quanto si
riferisce ai capitoli di spesa per contratti di appalto.
Conseguentemente, non può essere ipotizzata un’altra forma
di incentivazione ex art. 113 che sia riconoscibile ma
assoggettabile al regime vincolistico.
Pertanto, al Collegio non appare condivisibile
l’affermazione secondo la quale “quando il legislatore
abbia inteso non incentivabili attività annoverabili tra le
funzioni tecniche svolte nell’ambito di certi contratti
pubblici lo ha fatto esplicitamente”. La specialità
della fattispecie, in realtà, ha richiesto una disciplina
espressa e compiuta, che è declinata nell’art. 113, con
indicazione degli ambiti, delle modalità di finanziamento e
delle relative procedure di quantificazione e individuazione
delle destinazioni, nonché della natura degli emolumenti
accessori (e per quest’ultimo profilo è stato necessario un
ulteriore intervento legislativo). Non sembra praticabile,
quindi, un’interpretazione estensiva ed analogica.
7. La Sezione remittente, pur dichiarando un’adesione, in
linea generale, all’indirizzo delineato dalla Sezione
controllo Veneto, opportunamente individua una serie di
criticità, assorbite dalla riposta negativa alla questione
principale, ma la cui emersione, in verità, supporta la
correttezza della soluzione sopra proposta.
Un primo problema nasce dal fatto che le diverse
caratteristiche strutturali delle due tipologie di
contratti, in quanto essenzialmente, quelli di appalto
comportano spese e quelli di concessioni entrate, ha portato
a dubitare se, in ipotesi, il parametro per la
determinazione del fondo per i compensi incentivanti sia da
individuarsi nell’importo a base di gara o con riferimento
al canone dovuto dal concessionario. La soluzione proposta
dell’importo a base di gara non sarebbe scontata, in quanto
i flussi finanziari derivanti da questa tipologia son ben
diversi da quelli di appalto. Inoltre, l’opzione non è
scevra di implicazioni critiche.
Infatti, ben rappresenta la Sezione istante che, soprattutto
nel caso di operazioni di notevole entità, prevedere di
pagare incentivi a fronte di flussi di entrata che
potrebbero essere incerti esporrebbe l’ente al rischio di
insostenibilità. Né si può far affidamento su clausole
contrattuali, non obbligatorie e del tutto eventuali in
quanto non previste per legge, che prevedano la
remunerazione dell’incentivo in capo al concessionario. In
realtà, si dovrebbe far ricorso ad uno stanziamento di spesa
specifico, che, come si è detto, non è previsto per legge e
che appare, quindi, di dubbia legittimità. Senza contare che
la copertura, essendo legata alla riscossione dei canoni
concessori, resta gravata da un margine di aleatorietà.
8. In conclusione, per ritenere applicabile anche ai
contratti di concessione gli incentivi per lo svolgimento di
funzioni tecniche si dovrebbe operare uno sforzo ermeneutico
estensivo ed analogico tale da riscrivere, di fatto, il
contenuto dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, che, come si
è visto, è calibrato sui contratti di appalto (ai quali
espressamente si riferisce) e non tiene conto di quelle
sostanziali differenze che caratterizzano i contratti di
concessione. Operazione, questa, che appare travalicare la
competenza di chi è chiamato ad interpretare ed applicare le
norme.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la
deliberazione 14.03.2019 n. 96,
enuncia i seguenti principi di diritto: «Alla
luce dell’attuale formulazione dell’art. 113 del d. lgs.
18.04.2016, n. 50, gli incentivi ivi disciplinati sono
destinabili al personale dipendente dell’ente esclusivamente
nei casi di contratti di appalto e non anche nei casi di
contratti di concessione»
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 25.06.2019 n. 15). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale alla commissione di concorso che forma una graduatoria errata.
Alla commissione di concorso è richiesto uno standard
minimo professionale nella valutazione dei titoli dei candidati al momento
della formazione della graduatoria, specialmente quando una sua errata
valutazione possa comportare un ribaltamento della posizione utile del
candidato che aspira alla copertura del posto a vantaggio del secondo
classificato.
In caso di annullamento della graduatoria disposto dal
tribunale amministrativo, pertanto, le spese inutilmente sopportate
dall'ente pubblico devono essere poste a carico della commissione che abbia
operato al di sotto della ordinaria esigibilità.
Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei conti della Toscana (sentenza
20.06.2019 n. 262).
La vicenda
Il bando di concorso per la nomina a tempo determinato di un addetto stampa
prevedeva il possesso dell'iscrizione all'albo dei pubblicisti o dei
giornalisti, mentre per la formazione della graduatoria la commissione
avrebbe dovuto valutare i candidati secondo questi punteggi: «Titoli di
studio: diploma di laurea o laurea specialistica in materie attinenti fino a
20 punti; Titoli culturali o professionali, fino ad un massimo di 30 punti;
3. Curriculum fino ad un massimo di 40 punti; colloquio fino ad un massimo
di 10 punti».
Avverso la scelta del candidato vincitore, il secondo idoneo in graduatoria
chiedeva alla commissione di modificare la medesima, in considerazione del
fatto che al vincitore erano stati attribuiti dei punteggi sul titolo di
studio della laurea che non possedeva. A seguito di questa richiesta, la
commissione di concorso confermava il vincitore modificando tuttavia i
punteggi complessivi dei titoli, avendo proceduto da un alto alla
eliminazione del punteggio erroneamente attribuito al vincitore nel titolo
di studio, ma dall'altro lato modificava anche il punteggio dei titoli
culturali e professionali in modo tale da far restare immutata la
graduatoria.
Il Tar cui era ricorso il candidato estromesso annullava la graduatoria e
condannava l'ente pubblico alle spese di giudizio, che la procura contabile
riteneva inutilmente sborsate dall'ente pubblico e quindi configuranti danno
erariale da porre a carico della commissione di concorso, che era
interamente rinviata a giudizio.
La conferma del danno erariale
Il collegio contabile toscano ha preliminarmente evidenziato come la
medesima commissione abbia inizialmente corretto il proprio errore per aver
attribuito un punteggio su un titolo di studio non posseduto dal candidato
risultato vincitore, ammettendo i propri sbagli. La sussistenza della colpa
grave è dovuta sicuramente alla imperizia con la quale la commissione di
concorso ha proceduto all'attribuzione di un punteggio inesistente al
vincitore della selezione, imperizia questa che giustifica da sola il danno
erariale che è pari al valore del rimborso delle spese di giudizio
sopportate dall'ente pubblico.
Per i giudici contabili, infatti, la colpa grave è caratterizzata dal
comportamento il cui grado di diligenza, perizia, prudenza, correttezza e
razionalità sono da ritenersi inferiori allo standard minimo professionale
esigibile e tale da rendere prevedibile o probabile il concreto verificarsi
dell'evento dannoso (tra le tante: Corte conti, Sezione II Appello, sentenza
n. 611/2011 e Sezione I Appello n. 357/2018).
Secondo la Corte dei conti, pertanto, l'errore commesso dalla commissione di
concorso è da classificarsi al di sotto della ordinaria esigibilità, con la
conseguenza del danno erariale subito dall'ente pubblico pari alle spese di
giudizio sopportate inutilmente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 00.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale, prescrizione e responsabilità solidale tra dirigente e
responsabile del procedimento.
La
sentenza
17.06.2019 n. 117 della
Corte di Conti, Sez. III Giur.le Centrale d’Appello, merita particolare
attenzione poiché affronta due temi frequenti nei giudizi contabili,
offrendo utili chiarimenti.
L’uno riguarda la condivisione della responsabilità per il danno
erariale tra il dirigente e il responsabile del procedimento; l’altro
il termine di prescrizione e, nella specie, il momento della sua decorrenza
in materia di indebite erogazioni quando soggetto erogante e soggetto
concedente non coincidano.
Solidarietà tra dirigente e responsabile del procedimento
In linea generale e di principio il dirigente è responsabile del danno
erariale prodotto dall’atto amministrativo (illegittimo) di cui è
firmatario.
Tale responsabilità può essere condivisa, in ragione dell’apporto causale,
con il responsabile del procedimento.
Ai sensi dell’art. 5 e ss, Legge 241/1990 quest’ultimo è tenuto a curare
l’istruttoria e tutti quegli adempimenti previsti dalla legge e/o delegati
dal dirigente, necessari alla formazione della volontà amministrativa. Il
dirigente può accogliere i risultati dell’istruttoria e, dunque, provvedere
di conseguenza oppure può respingerli, sollecitando ulteriori attività di
accertamento, ovvero rinunciare all’adozione dell’atto.
Recentemente è stata apprezzata una certa tendenza di alcuni dirigenti a
ridurre e/o esimersi dalla propria responsabilità amministrativa
riversandola sul responsabile del procedimento. Taluni, addirittura, per
fortuna molto pochi, usano dell’istituto allo scopo di precostitursi un
coobbligato solidale, una sorta di assicurazione gratuita per la
responsabilità professionale.
Il giudice contabile, con la sentenza in nota, ha precisato che la
responsabilità per danno erariale derivante dall’emissione di una
illegittima e dannosa determina dirigenziale vada attribuita al solo
dirigente quando “manchi del tutto l’evidenza della partecipazione alla fase
istruttoria del responsabile del procedimento”, evidenza da individuarsi
almeno nella presentazione per la firma della bozza del provvedimento
finale.
La formale attribuzione della responsabilità del procedimento, infatti, “non
è elemento sufficiente, di per sé, a fondare una sua responsabilità per
l’emissione di atti a conclusione di procedimenti nei quali non sia
concretamente intervenuto”.
Lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui –pur essendo intervenuto– non abbia
firmato (con il dirigente) l’atto amministrativo incriminato.
La prescrizione del danno
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice contabile (SS.RR.,
15.01.2003, n. 2/QM) “l’art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, nel costituire
declinazione della regola generale sulla prescrizione dei diritti espressa
nell’art. 2935 c.c., deve essere interpretato nel senso che la prescrizione
non può decorrere prima che il “fatto” (cioè “l'evento” dannoso, costituito
da condotta e depauperamento patrimoniale) sia conosciuto, o conoscibile
secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’ente danneggiato.”
Nel caso all’esame della Corte -indebite erogazioni- deve escludersi che
il dies a quo della prescrizione possa identificarsi con l’erogazione del
beneficio, poiché nel particolare procedimento mancava, al momento
dell’erogazione, una “conoscibilità oggettiva” dell’illecito da parte
dell’ente erogatore il quale non era né il soggetto concedente né
l’intestatario di poteri di controllo.
Sono atti interruttivi del decorso del termine prescrizionale, tra gli
altri, la notifica dell’invito a dedurre e la notificazione dell’atto di
citazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019). |
APPALTI SERVIZI - ENTI LOCALI: Il
servizio di trasporto scolastico comunale è un "servizio
pubblico" e, come tale, deve comportare l'integrale
copertura dei costi secondo quanto stabilito dall'articolo
117 del Tuel.
Il servizio di trasporto scolastico è un
servizio pubblico di trasporto escluso dalla disciplina
normativa dei servizi pubblici a domanda individuale.
L'ente è tenuto, in sede di copertura, alla stretta osservanza
delle disposizioni dell'art. 117 TUEL, vale a dire, che per
il principio dell'equilibrio ex ante tra costi e risorse a
copertura, l'erogazione del servizio pubblico deve avvenire
in equilibrio ai sensi dell'art. 117 TUEL, circostanza che
presuppone un'efficace rappresentazione dei costi ed una
copertura nel rispetto dei criteri generali di cui alla
norma del Testo unico degli enti locali.
In tal modo
l'erogazione del servizio non solo non può essere gratuita
per gli utenti ma la sua copertura deve avvenire mediante i
corrispettivi versati dai richiedenti il servizio. Ciò anche
alla luce della nuova connotazione conferita dall'articolo
5, comma 2, del D.lgs. 63/2017, a mente del quale gli enti
locali assicurano il trasporto delle alunne e degli alunni
delle scuole primarie statali per consentire loro il
raggiungimento della più vicina sede di erogazione del
servizio scolastico.
Il servizio è assicurato su istanza di
parte e dietro pagamento di una quota di partecipazione
diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti
territoriali interessati.
Il D.lgs. 63/2017 non ha inciso
nell'ambito delineato in via generale dalle menzionate
disposizioni del TUEL ed anzi ha introdotto una disciplina
specifica, che si innesta nell'ampio perimetro disciplinato
dall'articolo 112 del Tuel, il quale attribuisce agli enti
la gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la
produzione di beni e delle attività rivolte a realizzare
fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile
delle comunità locali.
Ma soprattutto il richiamato articolo
5 del D.lgs. 63/2017 prevede una espressa clausola di
invarianza finanziaria, richiedendo che il servizio di
trasporto vada realizzato "senza determinare nuovi e
maggiori oneri per gli enti territoriali" e dietro pagamento
di una quota di partecipazione diretta da parte dell'utenza
quale corrispettivo della prestazione ricevuta.
---------------
Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Biandrate
(NO) ha, preliminarmente, riferito
che l’Amministrazione comunale, dopo aver completato i
lavori di costruzione del nuovo
complesso scolastico nel quale è stata trasferita l’attività
didattica della scuola dell’infanzia,
della scuola primaria e di quella secondaria, per agevolare
l’utenza al fine di raggiungere la
nuova struttura, sita nel medesimo territorio comunale, ha
ritenuto di attivare, “in via del tutto
sperimentale”, un servizio di trasporto scolastico
comprendente il percorso tra la piazza attigua
dell’edificio scolastico precedente e l’ingresso del nuovo
plesso.
Conseguentemente, l’Ente,
nell’eventualità che il detto servizio di trasporto
scolastico venga in prosieguo portato a
regime, formula a questa Sezione la seguente richiesta di
parere: “se le quote di
partecipazione finanziaria correlate al servizio che
verranno erogate dall’utenza dovranno
completamente concorrere alla copertura integrale della
spesa del medesimo; e ciò anche per
assicurare il conseguente equilibrio economico-finanziario
in funzione del principio di invarianza
finanziaria di cui all’art. 5, comma 2, del D.lgs. n.
63/2017, secondo cui il servizio di trasporto
va realizzato senza determinare nuovi e maggiori oneri per
gli Enti territoriali ed in base al
quale le quote di partecipazione diretta nella loro
interezza debbono coprire integralmente la
spesa complessiva del servizio”.
...
Venendo al merito, posto che il quesito concerne
l’interpretazione della normativa sulla copertura della
spesa del servizio di trasporto scolastico in relazione
all’entità delle quote di partecipazione finanziaria a
carico dell’utenza, ritiene la Sezione, preliminarmente, di
confermare che la giurisprudenza contabile, conformemente
all’avviso espresso nella stessa richiesta di parere,
appare, allo stato, consolidata nel senso di ritenere che il
servizio di trasporto scolastico sia pleno iure un
servizio pubblico di trasporto, e, come tale, escluso dalla
disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda
individuale (v., Sezione Controllo Campania,
parere 21.06.2017 n. 222; id., Sezione Controllo Sicilia,
parere 10.10.2018 n. 178).
Come noto, i servizi a domanda individuale trovano
classificazione nel
dm 31.12.1983, emanato in attuazione del
dl 28.02.1983 n. 55, come convertito dalla legge 26.04.1983
n. 131.
Detto decreto, che elenca la tipologia dei servizi suddetti,
esclude espressamente, dalla categoria dei servizi a domanda
individuale, quelle attività che “siano state dichiarate
gratuite per legge nazionale o regionale”, provvedendo
all’individuazione e, quindi, alla declaratoria specifica
delle singole tipologie di attività qualificabili come
servizi a domanda individuale.
Per quanto di interesse nella presente sede, l’elenco in
esame non ricomprende espressamente il servizio di trasporto
scolastico, mentre, in materia di istruzione, prevede i
servizi di asilo nido e corsi extrascolastici che non siano
previsti come obbligatori dalla legge (nn. 3 e 6). Più in
particolare, la magistratura contabile (v., deliberazioni
citate) ha evidenziato come né il
Dl 55/1983, convertito
dalla richiamata legge 131/1983, né il
decreto 31.12.1983
del Ministero dell'Interno ricomprendano tra i servizi
pubblici locali a domanda individuale quello di trasporto
scolastico.
Non ritenendo di dissentire dal richiamato indirizzo
interpretativo, del quale, anzi, se ne condividono le
argomentazioni a sostegno, la Sezione, in occasione dello
scrutinio del presente quesito, ritiene di ribadire il
principio secondo cui
il trasporto scolastico è un servizio
pubblico, ma non potendo essere classificato tra quelli a
domanda individuale, non possono allo stesso reputarsi
applicabili i conseguenti vincoli normativi e finanziari che
caratterizzano i servizi pubblici a domanda individuale,
espressamente individuati dal menzionato D.M. n. 131/1983.
La natura di servizio pubblico, in quanto oggettivamente
rivolto a soddisfare esigenze della collettività, comporta,
pertanto, che per il trasporto scolastico siano definite
dall’Ente adeguate tariffe a copertura dei costi, secondo
quanto stabilito dall'articolo 117 del Tuel.
In effetti, per tutti i servizi pubblici, anche non
definibili “a domanda individuale”, come nella
specie, l’art. 117 TUEL stabilisce che:
"1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi pubblici
in misura tale da assicurare l'equilibrio
economico-finanziario dell'investimento e della connessa
gestione. I criteri per il calcolo della tariffa relativa ai
servizi stessi sono i seguenti:
a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da
assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi
gli oneri di ammortamento tecnico-finanziario;
b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti
raccolti ed il capitale investito;
c) l'entità dei costi di gestione delle opere,
tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del
servizio;
d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale
investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
2. La tariffa costituisce il corrispettivo dei servizi pubblici;
essa è determinata e adeguata ogni anno dai soggetti
proprietari, attraverso contratti di programma di durata
poliennale, nel rispetto del disciplinare e dello statuto
conseguenti ai modelli organizzativi prescelti.
3. Qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall'ente
pubblico per effetto di particolari convenzioni e
concessioni dell'ente o per effetto del modello
organizzativo di società mista, la tariffa è riscossa dal
soggetto che gestisce i servizi pubblici".
Pertanto,
fermo restando che l’erogazione del servizio
pubblico debba avvenire in equilibrio ai sensi dell’art. 117 TUEL –circostanza che ovviamente presuppone una efficace
rappresentazione dei costi ed una copertura nel rispetto dei
criteri generali di cui alla norma del Testo unico degli
enti locali- l’erogazione dello stesso non solo non può
essere gratuita per gli utenti ma la sua copertura deve
avvenire mediante i corrispettivi versati dai richiedenti il
servizio (cfr. SRC Sicilia
parere 25.02.2015 n. 115, SRC Molise
parere 14.09.2011 n.
80, SRC Campania
parere 25.02.2010 n. 7),
di modo che le quote
di partecipazione finanziaria, correlate al servizio e poste
a carico dell’utenza, dovranno completamente concorrere alla
copertura integrale della spesa del medesimo.
Detto orientamento trova assoluto ed inequivoco riscontro
nella stessa giurisprudenza amministrativa, ad avviso della
quale, in occasione dell’erogazione di un servizio pubblico,
gli Enti “…saranno tenuti, in sede di copertura, alla
stretta osservanza delle disposizioni dell’art. 117 TUEL, in
particolare, del principio dell’equilibrio ex ante tra costi
e risorse a copertura, principio che riguarda
indistintamente tutti i servizi pubblici erogati dall’ente
locale, a prescindere dalla forma contrattuale di
affidamento del servizio" (v., ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.05.2012 n. 2537).
Simile interpretazione riceve pieno ed incontrovertibile
conforto da ulteriori recenti arresti giurisprudenziali
contabili (v., Sezione regionale di controllo della Sicilia,
parere 10.10.2018 n. 178), che, analizzando la natura del
servizio di trasporto degli alunni organizzato dai Comuni
nell'ambito del diritto allo studio, hanno reso
un’interpretazione conforme all’indirizzo sopra enunciato
alla luce della nuova connotazione conferita dall'articolo
5, comma 2, del Dlgs 63/2017.
A mente del citato disposto dell’art. 5, comma 2, del
decreto legislativo 63/2017, infatti,
gli enti locali “assicurano
il trasporto delle alunne e degli alunni delle scuole
primarie statali per consentire loro il raggiungimento della
più vicina sede di erogazione del servizio scolastico. Il
servizio è assicurato su istanza di parte e dietro pagamento
di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o
maggiori oneri per gli enti territoriali interessati”.
Il D.lgs. 63/2017, secondo l’indirizzo giurisprudenziale
richiamato, non solo non ha inciso nell’ambito delineato in
via generale dalle menzionate disposizioni del TUEL, bensì
ha introdotto una disciplina specifica, che si innesta
nell'ampio perimetro disciplinato dall'articolo 112 del Tuel,
il quale attribuisce agli enti la gestione dei servizi
pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e
delle attività rivolte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità
locali.
Ma soprattutto
il richiamato
articolo 5 del D.lgs. 63/2017
prevede una espressa clausola di invarianza finanziaria,
richiedendo che il servizio di trasporto vada realizzato “senza
determinare nuovi e maggiori oneri per gli enti territoriali”
e dietro pagamento di una quota di partecipazione diretta da
parte dell’utenza quale corrispettivo della prestazione
ricevuta.
Deve, quindi, concludersi nel senso che,
ferme restando le scelte gestionali e l'individuazione dei
criteri di finanziamento demandate alla competenza dell'ente
locale, il quadro normativo sopra delineato
non consenta l'erogazione gratuita del servizio di trasporto
pubblico scolastico, servizio che deve avere a fondamento
una adeguata copertura finanziaria necessariamente
riconducibile nei limiti fissati dai parametri normativi del
Tuel, alla luce della espressa previsione normativa della
corresponsione della quota di partecipazione diretta da
parte degli utenti, quota la quale, nel rispetto del
rapporto di corrispondenza tra costi e ricavi, non può non
essere finalizzata ad assicurare l’integrale copertura dei
costi del servizio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 06.06.2019 n. 46). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nessun
margine per nuove posizioni organizzative dal riallineamento retributivo
negli Enti senza dirigenti.
Il decreto Semplificazioni (Dl 135/2018) ha previsto la possibilità di poter
incrementare le retribuzioni di posizione dei titolari di posizione
organizzativa, nei soli enti privi di dirigenti, in base ai maggiori valori
previsti dal nuovo contratto delle Funzioni locali, ma condizionando questa
maggiore spesa a una equivalente riduzione della spesa per assunzioni a
tempo indeterminato.
I maggiori importi ottenuti, considerati dal legislatore fuori dai tetti del
salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), non potranno
essere distratti per il pagamento di nuove posizioni organizzative ma solo
di quelle esistenti. La equivalente riduzione delle assunzioni a tempo
indeterminato richieste dalla normativa non potrà che riferirsi alla
capacità assunzionale disponibile e non alle assunzioni attivate mediante la
mobilità volontaria neutra, stante la loro soggezione ai soli limiti della
spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013.
Sono questi i chiarimenti della Corte dei conti della Lombardia nel
parere 23.05.2019 n. 210.
Le disposizioni del decreto Crescita
L'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018 ha previsto che, per i soli
Comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23,
comma 2, del Dlgs 75/2017 (salario accessorio non superiore a quello
sostenuto nell'anno 2016), non si applica al trattamento accessorio dei
titolari di posizione organizzativa del comparto Funzioni locali «limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario».
I dubbi di un Comune
La disposizione legislativa ha generato alcuni dubbi in merito
all'utilizzazione del differenziale ottenuto da un possibile riallineamento
al nuovo contratto per i titolari di posizione organizzativa, il cui importo
massimo è passato da 12.911,42 a 16.000,00 euro, da finanziare mediante una
correlata riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
Il primo dubbio riguarda la possibilità di poter destinare, questo maggior
valore, complessivamente ottenuto su tutte le posizioni organizzative
presenti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto delle funzioni
locali (21.05.2018), per finanziare l'acquisizione di una nuova posizione
organizzativa. Il secondo dubbio riguarda il termine di assunzione di
personale a tempo indeterminato, ossia se il riferimento debba essere fatto
alla spesa del personale per assunzioni a tempo indeterminato ivi inclusa la
mobilità volontaria.
Le indicazioni del collegio contabile
In merito al differenziale indicato nel decreto Semplificazioni, per il
giudici contabili lombardi l'importo non potrà che essere riferito ai soli
titolari di posizione organizzativa presenti alla data della stipula del
nuovo contratto, finanziando il maggior importo ottenuto con una equivalente
riduzione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, nel rispetto
del limite della spesa del personale (media spesa sostenuta nel triennio
2011-2013).
Di conseguenza è escluso che questo maggior valore acquisito a seguito del
riallineamento ai valori più alti previsti dal nuovo contratto, possa essere
separato per poter remunerare una nuova posizione organizzativa, essendo la
sua destinazione unicamente vincolata ad aumentare l'importo delle posizioni
organizzative presenti alla data del contratto.
Avuto riguardo, invece, alla riduzione della spesa del personale, questa non
potrà che riferirsi a una riduzione del valore finanziario del turn-over
(ossia alla capacità assunzionale disponibile) mentre la mobilità
volontaria, qualora realizzata da due amministrazioni soggette ai vincoli
del turn-over (e quindi neutra), incontrerà il solo limite della spesa
sostenuta che non potrà in ogni caso superare il valore medio del triennio
2011-2013
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, aumento della retribuzione solo per incarichi già esistenti.
Negli enti privi di dirigenza, l'esclusione dal computo del tetto del
salario accessorio 2016 degli incrementi del costo per la retribuzione di
posizione e di risultato dei titolari di posizione organizzativa può
avvenire solo per gli incarichi già in essere alla data del 21.05.2018.
Il
maggior importo che deriva da questi incrementi può essere compensato solo
utilizzando la capacità assunzionale a tempo indeterminato e non anche i
risparmi derivanti dalla mancata assunzione mediante l'istituto della
«mobilità neutra».
Possono così essere sintetizzate le conclusioni cui giunge la Corte dei
conti Lombardia con il
parere 23.05.2019 n. 210,
in risposta a un ente locale che ha posto alcuni dubbi applicativi sulla
corretta applicazione dell'articolo 11-bis, comma 2, del decreto
Semplificazioni.
L'esclusione dal tetto del salario accessorio
In primo luogo, l'ente locale ha chiesto se la disposizione di maggior
favore introdotta dal Dl 135/2018, a favore degli enti privi di dirigenza,
debba essere riferita alla singola posizione organizzativa o all'importo
complessivo delle posizioni organizzative dell'ente, con possibilità, ad
esempio, di istituirne una nuova. Per i giudici contabili non ci sono dubbi:
la disposizione consente una deroga al tetto del salario accessorio 2016
solo per la parte relativa alla differenza tra gli importi già riconosciuti
alla data di entrata in vigore del nuovo contratto (21.05.2018) e
l'eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già
esistenti.
Pertanto, solo questo differenziale potrà essere escluso dal computo del
limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dl 75/2017. In ogni modo,
viene puntualizzato che l'incremento potrà avvenire solo se viene rispettato
il limite di spesa di personale che per i Comuni oltre mille abitanti è dato
dalla media delle corrispondenti somme del triennio 2011/2013, mentre per i
Comuni fino a mille abitanti dal tetto dell'anno 2008.
Il finanziamento
Altro aspetto posto all'attenzione della Corte riguarda la corretta
interpretazione nell'inciso utilizzato dalla norma in esame nella parte in
cui si stabilisce che i maggiori costi derivanti da questi incrementi sono «a
valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che
possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato
che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore».
La disposizione, viene precisato nella deliberazione, deve essere letta nel
senso che la quota destinata alla maggiorazione dell'indennità di posizione
e di risultato delle posizioni organizzative ha quale effetto quello di
limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato a
valere sulle capacità assunzionali, come le assunzioni con concorso o con
scorrimento di graduatorie, e non anche quelle derivanti da assunzioni di
personale mediante l'istituto della mobilità volontaria proveniente da enti
soggetti a vincoli assunzionali (mobilità neutra)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).
---------------
PARERE
Il Sindaco del comune di San Vittore Olona (MI) con la nota sopra
indicata ha formulato i seguenti quesiti: “in merito all'applicazione del
comma 2 dell'art. 11-bis del decreto legge 14.12.2018 n. 135 convertito con
legge 11.02.2019, n. 12 per un Comune privo di dirigenza.
In particolare, si chiede:
- se il possibile aumento dell'indennità di posizione riguarda
la singola posizione organizzativa o l'importo complessivo delle posizioni
organizzative dell'ente anche ad esempio costituendone una ulteriore;
- se il "medesimo risparmio sulle assunzioni a tempo
indeterminato" riguarda la capacità assunzionale (assunzioni a mezzo di
concorsi) o anche le mobilità ex art. 30 d.lgs. 165/2001”.
...
I quesiti formulati chiedono di interpretare l’art. 11-bis, comma 2, del
d.l. 135/2018 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019 che
recita ”Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di
posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento
accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e
seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al
personale del comparto funzioni locali - Triennio 2016-2018, limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario”.
Come è noto, l’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 dispone
l’invarianza della spesa al 2016 relativa al trattamento accessorio del
personale, comprensiva anche dell’indennità di posizione e di risultato
delle posizioni organizzative.
L’art 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 consente una deroga alla
disposizione appena ricordata, per i comuni privi di dirigenza, disponendo
che l’invarianza della spesa non si applica alle indennità
dei titolari di posizioni organizzative, di cui agli artt. 13 e ss. del CCNL
relativo al comparto funzioni locali, limitatamente alla differenza tra gli
importi già attribuiti alla data di entrata in vigore del contratto
(21.05.2018) e l’eventuale maggior valore attribuito successivamente alle
posizioni già esistenti, ai sensi dell’art. 15 del CCNL in parola.
Il differenziale da escludere dal computo di cui all’art.
23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 è soltanto la maggiorazione
delle indennità attribuite alle posizioni organizzative già in servizio al
momento dell’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale. Tale
maggiorazione deve, in ogni caso, essere contenuta nei limiti di spesa per
il personale, prevista dai commi 557-quater e 562 dell’art. 1 della legge n.
296/2006.
Per quanto riguarda il secondo quesito, questa Sezione ritiene che la
spesa del personale derivante dall’istituto della mobilità abbia come limite
il rispetto dell’art. 1, comma 557-quater ovvero del comma 562 della legge
n. 296/2006, stante la neutralità della stessa, sempre che l’ente cedente
sia sottoposto a vincoli assunzionali.
Da ultimo, si evidenzia che, una volta che l’ente decida di avvalersi della
possibilità prevista dalla normativa in parola la quota destinata alla
maggiorazione dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni
organizzative negli enti privi di dirigenti ha come effetto di limitare le
risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato (assunzioni che
non siano quelle attuate con l’istituto della mobilità che incontrano
soltanto il limite sopra richiamato).
Infatti, le suddette risorse ”sono contestualmente ridotte del
corrispondente valore finanziario”, ossia del valore finanziario
corrispondente al valore della maggiorazione in esame, così come disposto
dal predetto art. 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018. |
LAVORI PUBBLICI: Legittimo
il contributo a fondo perduto per un'opera pubblica d'interesse
sovracomunale.
Al Comune è consentito erogare un finanziamento a fondo perduto a favore di
un altro ente, per la realizzazione di un'opera pubblica concertata in
ambito metropolitano e funzionale al conseguimento di un interesse pubblico
per la comunità locale.
Questo il principio affermato dalla Corte dei Conti,
Sezione di controllo per il Veneto, con il
parere 23.05.2019 n. 135, che
chiarisce entro quali limiti il potere decisionale del Comune possa disporre
l'impiego di risorse a favore del territorio, nel delicato frangente in cui
un contributo sia destinato al sostegno di un'iniziativa che dovrebbe andare
a beneficio non esclusivo della collettività di riferimento.
Il caso
Nel caso di specie, si trattava di un'opera finalizzata alla viabilità
stradale d'interesse sovracomunale, da realizzarsi in seguito a un accordo
tra enti assunto in sede di una conferenza metropolitana.
La conferenza si configura quale organo della città metropolitana –ente
territoriale entrato in vigore il 01.01.2015, per effetto della legge
56/2014– e si colloca nel solco delle convenzioni disciplinate
dall'articolo 30 del Tuel, dando luogo a una forma di partenariato di «tipo
debole», ossia non destinato a costituire un soggetto con veste giuridica
autonoma rispetto a quella dei soggetti contraenti.
In questo contesto, un Comune ha interpellato la Sezione di controllo per
sapere se l'ente possa erogare un contributo finalizzato a un intervento
sulla rete stradale che insiste sul territorio di più enti, senza che
l'attribuzione di risorse possa equivalere a un depauperamento del
patrimonio comunale, in ragione del fatto che il contributo dovrebbe andare
a beneficio non esclusivo della collettività di riferimento, ma anche di
quella insediata presso un differente territorio.
La decisione
La Sezione ha osservato preliminarmente che, secondo l'articolo 13 del Tuel,
il Comune esercita tutte le funzioni amministrative che riguardano la
popolazione e il territorio comunale, in particolare nei settori organici
dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto e utilizzazione del
territorio e dello sviluppo economico.
I giudici hanno rilevato che, sotto il profilo specifico inerente alla
gestione della rete stradale (articolo 14 del Dlgs 285/1992 - codice della
strada) il Comune è chiamato, quale ente proprietario delle strade, a
provvedere alla loro manutenzione e gestione, al fine di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione sul territorio.
Accertata la
competenza dell'ente locale in materia di interventi a sostegno della
viabilità stradale, il collegio ha affermato, in linea di principio, che «se
l'azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività
rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, l'erogazione di un
finanziamento non può equivalere a un depauperamento del patrimonio
comunale, in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico,
effettuato dal soggetto che riceve il contributo».
La Sezione si è spinta ad asserire che la natura pubblica o privata del
soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, se il
criterio di orientamento è quello della necessità che l'attribuzione
persegua i fini dell'ente pubblico, fermo restando che nel caso di ricorso a
soggetti privati l'amministrazione dovrà aver cura di individuare il
beneficiario secondo i principi di parità di trattamento e non
discriminazione che devono caratterizzare l'azione amministrativa, evitando
l'attribuzione di vantaggi ingiustificati a soggetti terzi.
Per quanto riguarda il tema dell'erogazione di risorse a beneficio non
esclusivo del territorio locale, i giudici hanno delimitato il potere
decisionale dell'ente affermando che una scelta può ritenersi legittima «se
e nella misura in cui l'impegno finanziario del Comune contributore sia
proporzionato al beneficio che ne trae la propria collettività di
riferimento».
La questione viene pertanto rimessa alle valutazioni discrezionali del
Comune, quale ente esponenziale della collettività insediata sul territorio,
ma con l'importante precisazione che non è preclusa, in linea di principio,
l'erogazione di risorse nel quadro sopra descritto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.07.2019).
---------------
In merito alla possibilità di erogare ad un altro Comune, in base ad una
convenzione che disciplini i reciproci rapporti, un contributo a fondo
perduto finalizzato alla realizzazione di un'opera pubblica, rilevante per
il conseguimento, da parte del Comune richiedente, di un interesse pubblico
per la comunità.
La giurisprudenza contabile ha avuto modo di elaborare
da tempo il principio generale per il quale, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, l’erogazione
di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio
comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico,
effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
In particolare, è stato evidenziato che: “all’interno dell’ordinamento
generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste
alcuna norma che ponga uno specifico divieto. Infatti, se l’azione è
intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti
nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se
apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la
collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse
pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”
.
Dunque, sotto tale profilo “il baricentro dell’attenzione circa il
corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai attestato in
correlazione con l’effettiva realizzazione di un interesse pubblico
(riferibile all’ente interessato) a prescindere dal formale soggetto
destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale”
.
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo
comunale, o comunque del beneficiario dell’intervento del Comune, la
giurisprudenza consultiva della Corte dei conti ha precisato che
la natura
pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è
indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che
l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico;
chiarendo peraltro che ogniqualvolta l’Amministrazione ricorra a soggetti
privati per raggiungere i propri fini (e, conseguentemente, riconosca loro
benefici di natura patrimoniale) le cautele debbono essere maggiori,
rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici, anche al fine di
garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa.
Va infatti considerato, inoltre, che qualunque genere di intervento economico
dell’amministrazione comunale, per potersi qualificare in termini di
legittimità della sottostante azione, deve necessariamente sottendere alla
realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata
sul territorio, posto che il Comune è l'ente locale che rappresenta e cura
gli interessi della propria comunità.
---------------
Il Sindaco del Comune di Albignasego (PD), premettendo che il Comune intende
dare attuazione alle previsioni contenute nel Piano di assetto del
territorio intercomunale (PATI), che prevedono la realizzazione di una
viabilità d’interesse sovracomunale, ha richiesto a questa Sezione un parere
in merito alla possibilità di erogare ad un altro Comune, in base ad una
convenzione che disciplini i reciproci rapporti, un contributo a fondo
perduto finalizzato alla realizzazione di un'opera pubblica, rilevante per
il conseguimento, da parte del Comune richiedente, di un interesse pubblico
per la comunità.
...
II. Il quesito formulato attiene sotto un aspetto generale alla tematica
della possibile destinazione di fondi comunali ad interventi relativi a beni
di proprietà di un soggetto giuridico diverso.
Occorre tuttavia affrontare alcune questioni preliminari al fine di
inquadrare la fattispecie specifica, relativa ad un intervento su rete
stradale all’interno degli enti della cosiddetta “comunità metropolitana
di Padova”.
Va innanzitutto premesso che il Comune, secondo l’art. 13 del TUEL, esercita
tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il
territorio comunale, in particolare nei settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e
dello sviluppo economico.
Sotto il profilo inerente alla gestione della rete stradale, ai sensi
dell’art. 14 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (Codice della
strada) il Comune è chiamato, quale ente proprietario delle strade, a
provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro
pertinenze e arredo, nonché attrezzature, impianti e servizi al fine di
garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione.
La suddetta regola
del resto è altresì contenuta nell’art. 39 della legge 20.03.1865 n. 2248
(Legge sulle opere pubbliche) – allegato F, che pone infatti a carico dei
comuni gli oneri di “costruzione, sistemazione e mantenimento” delle strade
comunali così come specularmente l’art. 37 pone a carico delle province i
medesimi oneri relativi alle strade provinciali.
Richiamata per sommi capi la normativa, necessario all’analisi del caso
concreto risulta l’inquadramento della cornice giuridica entro cui il Comune
intende realizzare lo spostamento patrimoniale di cui trattasi.
Va dunque necessariamente premesso che il 31.05.2003, in seguito all’accordo
tra fra la Provincia di Padova e i Comuni di Abano Terme, Cadoneghe,
Casalserugo, Limena, Maserà di Padova, Noventa Padovana, Padova, Ponte San
Nicolò, Rubano, Saonara, Selvazzano Dentro, Vigodarzere, Vigonza,
Villafranca Padovana, si è costituita la Conferenza metropolitana di Padova
(deliberazione n. 37 del 25.03.2003 del Consiglio comunale di Padova), con
la volontà di sviluppare iniziative concertate in ambito metropolitano nelle
varie sfere di attribuzione degli Enti locali al fine di coordinare azioni
ed interventi ed ottimizzare le risorse. Il Comune Albignasego ha aderito
alla Conferenza il 18.03.2005, come risulta dall’integrazione per adesione
all’accordo di costituzione della Conferenza pubblicato sul portale internet
della Conferenza.
In tale contesto, il PATI rappresenta lo strumento di pianificazione
strutturale del territorio della “comunità metropolitana di Padova”
(che comprende gli enti aderenti alla Conferenza metropolitana di cui sopra)
redatto alla luce delle disposizioni normative contenute nella nuova legge
urbanistica regionale n. 11 del 23.04.2004. Il relativo Documento
preliminare è stato approvato dalle Giunte comunali della comunità
metropolitana e dalla Giunta provinciale, e l'Accordo di pianificazione
sottoscritto in data 23.01.2006, poi integrato in data 21.07.2008 con
l'adesione del Comune di Abano Terme.
Il Comune di Albignasego asserisce di voler stipulare, nell’ambito definito
dal PATI, una convenzione con il Comune capoluogo.
Appare qui implicito il richiamo alle convenzioni di cui all’art. 30 del
TUEL, che costituiscono un’ipotesi speciale di accordi tra Pubbliche
amministrazioni, istituto di carattere generale contemplato dall’art. 15
legge 07.08.1990, n. 241. Esse realizzano una forma di partenariato
cosiddetta di tipo debole che, diversamente dal partenariato di tipo forte,
non si concretizza nella costituzione di un soggetto fornito di una veste
giuridicamente autonoma rispetto a quella dei soggetti contraenti.
Le convenzioni ex art. 30 TUEL sono pertanto
riconducibili a contratti di
diritto pubblico, che istituiscono una forma di cooperazione tra gli enti
locali per l’esercizio di funzioni amministrative comuni. Lo strumento, già
di per sé pienamente legittimo per regolare i rapporti reciproci tra enti
locali in ordine ad azioni di interesse comune, si inserisce peraltro in una
cornice precostituita, rappresentata dal PATI, che dovrebbe garantire
possibilità di ponderazione di costi e benefici nell’interno di un quadro di
interventi coordinato e concordato nell’ambito dello stesso territorio.
Peraltro, afferendo all’esercizio di funzioni amministrative fondamentali
degli Enti Locali, le convenzioni ex art. 30 TUEL non rientrano nell’ambito
di applicazione del diritto dell’Unione in materia di contratti pubblici, in
quanto non lesive del principio di concorrenza (Corte Giustizia U.E., Grande
Sezione, 19.12.2012, in C-159/11 Azienda Sanitaria di Lecce, dove si afferma
che “le norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici non
sono applicabili ai contratti che istituiscono una cooperazione tra enti
pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio
pubblico comune a condizione che tali contratti siano stipulati
esclusivamente tra enti pubblici, senza la partecipazione di una parte
privata, che nessun prestatore privato sia posto in una situazione
privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, e che la cooperazione da essi
istituita sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al
perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico” e che “il diritto
dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale
che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante
il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel
caso in cui […] tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento
di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia
retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di
obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore
privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti”).
In relazione a tale profilo si deve quindi rimarcare l’opportunità di
valorizzazione dello strumento convenzionale, per definire con precisione le
reciproche obbligazioni, al fine di evitare il rischio che l’ente si ritrovi
esposto a situazioni non programmate.
III. Inquadrata così la fattispecie, si tratta di stabilire se sia possibile
lo spostamento patrimoniale da un ente all’altro per finalità d’interesse
della collettività dei cui interessi l’ente contributore è rappresentativo,
ma per interventi da realizzarsi entro l’ambito di competenza dell’ente
sovvenzionato.
La giurisprudenza contabile,
nell’esercizio della propria funzione consultiva, ha avuto
modo di elaborare da tempo il principio generale per il quale, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, l’erogazione
di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio
comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico,
effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 31.05.2012 n. 262,
parere 17.10.2014 n. 262 e
parere 11.09.2015 n. 279, Sezione regionale di controllo per il Piemonte
parere 24.03.2016 n. 29).
In particolare, è stato evidenziato che: “all’interno dell’ordinamento
generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste
alcuna norma che ponga uno specifico divieto. Infatti, se l’azione è
intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti
nelle finalità perseguite dal Comune l’attribuzione di beni, anche se
apparentemente a “fondo perso”, non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la
collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse
pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo”
(parere
31.05.2012 n. 262 cit.).
Dunque, sotto tale profilo “il baricentro dell’attenzione circa il
corretto impiego delle risorse pubbliche si è ormai attestato in
correlazione con l’effettiva realizzazione di un interesse pubblico
(riferibile all’ente interessato) a prescindere dal formale soggetto
destinatario in via diretta dell’attribuzione patrimoniale” (parere
24.03.2016 n. 29 cit.).
In ordine alla qualificazione soggettiva del percettore del contributo
comunale, o comunque del beneficiario dell’intervento del Comune, la
giurisprudenza consultiva della Corte dei conti ha precisato che
la natura
pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è
indifferente, se il criterio di orientamento è quello della necessità che
l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico;
chiarendo peraltro che ogniqualvolta l’Amministrazione ricorra a soggetti
privati per raggiungere i propri fini (e, conseguentemente, riconosca loro
benefici di natura patrimoniale) le cautele debbono essere maggiori,
rispetto ai casi in cui vengano in rilievo enti pubblici, anche al fine di
garantire l’applicazione dei principi di parità di trattamento e di non
discriminazione che debbono caratterizzare l’attività amministrativa (parere
11.09.2015 n. 279 cit.).
La peculiarità della fattispecie conduce ad analizzare un ulteriore profilo.
Va infatti considerato che qualunque genere di intervento economico
dell’amministrazione comunale, per potersi qualificare in termini di
legittimità della sottostante azione, deve necessariamente sottendere alla
realizzazione di un significativo interesse proprio della comunità stanziata
sul territorio, posto che il Comune è l'ente locale che rappresenta e cura
gli interessi della propria comunità (parere
24.03.2016 n. 29 cit.).
Nel caso specifico, infatti, il contributo dovrebbe andare a beneficio non
esclusivo della collettività di riferimento dell’ente erogatore, ma anche di
quella insediata presso un differente territorio. In sostanza, una parte
delle risorse a disposizione dell’ente andrebbe a beneficio di una
collettività i cui interessi non sono rappresentati dall’ente. Ciò è
legittimo se e nella misura in cui l’impegno finanziario del Comune
contributore sia proporzionato al beneficio che ne trae la propria
collettività di riferimento.
Se è corretta la valutazione fatta propria dall’Amministrazione richiedente
il parere, riportata in fatto (vale a dire che a godere dei maggiori
benefici dell’intervento sarebbe il Comune di Albignasego) la vicenda
realizza da un punto di vista economico una negoziazione di esternalità
positive, poiché l’ente che dovrebbe investire nella viabilità genererebbe
così facendo un vantaggio per l’ente limitrofo e dunque convenientemente
quest’ultimo, tramite lo strumento convenzionale, provvede allora ad
accollarsi il relativo onere, cosa che consente la realizzazione
dell’intervento ritenuto altrimenti non sufficientemente vantaggioso dal
Comune proprietario del tratto.
Spetterà al Comune valutare che l’esposizione finanziaria aggiuntiva sia
proporzionata all’effettivo beneficio della collettività del cui interesse
esso è esponenziale, affinché l’operazione non si concretizzi in un
depauperamento del patrimonio dell’ente, che sarà da ritenersi tale solo in
quanto non bilanciato dal relativo beneficio atteso (parere
11.09.2015 n. 279 cit.
afferma l’esistenza di un “principio generale per cui l’attribuzione
patrimoniale è da considerarsi lecita solo se finalizzata allo svolgimento
di servizi pubblici o, comunque, di interesse per la collettività insediata
sul territorio sul quale insiste il Comune” chiarendo che “in ogni
caso, l’eventuale attribuzione dovrà essere conforme al principio di
congruità della spesa mediante una valutazione comparativa degli interessi
complessivi dell’ente locale”).
Entro il sopra delineato quadro complessivo l’Amministrazione comunale dovrà
pertanto procedere ad effettuare le valutazioni discrezionali di propria
spettanza quale ente esponenziale della collettività insediata sul
territorio. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Danno
erariale per la consulenza esterna che prova a superare il parere negativo
dei revisori.
L'ente non è abilitato a superare il parere negativo dell'organo di
revisione contabile ricorrendo a una consulenza esterna, sia per
l'autosufficienza della struttura interna a risolvere le problematiche
sollevate, sia in quanto non è possibile duplicare le attività di esclusiva
competenza dei revisori dei conti.
Queste le conclusioni cui giunge la Corte dei conti della Lombardia con la
sentenza 31.10.2018 n. 214.
L'impasse dell'ente a causa del parere negativo dei revisori
Dovendosi approvare il bilancio consuntivo, il collegio dei revisori dei
conti rilevava una non corretta contabilizzazione di alcune poste riferite,
in particolare, a una discordanza tra valori inseriti in bilancio e nella
delibera dei lavori commissionati, oltre a un’errata contabilizzazione di
interventi di manutenzioni interamente spesati nell'esercizio pur avendo
natura pluriennale. Il parere negativo sul consuntivo si ripercuoteva anche
sul bilancio di previsione, con il particolare rischio di non permettere
all'ente di rispettare le scadenze previste per la loro approvazione.
Le motivazioni per l'affidamento dell'incarico esterno
Per sbloccare l'iter di approvazione del bilancio consuntivo e del
preventivo, il responsabile della spesa oggetto di contestazione, unitamente
al responsabile finanziario e al direttore generale, anche a fronte
dell'imminente scadenza dei termini previsti dalla legge, affidavano in via
diretta un incarico a una società di revisione esterna. Ciò sia per
controllare la correttezza dei rilievi avanzati dall'organo di revisione,
sia per porre un eventuale rimedio contabile nell'ipotesi di veridicità
delle annotazioni negative sull'operato dell'ente.
Il direttore generale, inoltre, riteneva legittimo affidare a un terzo
indipendente la valutazione delle poste di bilancio in contestazione, in
quanto tale tipologia di verifica rappresenta, a suo dire, la modalità
normalmente utilizzata anche nel settore delle imprese laddove si manifesti
un contrasto tra amministratori e organi di controllo.
I rilievi dell'organo di revisione contabile -tra i cui compiti rientra
anche quello di garantire la legittimità e la correttezza dell'azione
amministrativa e contabile- sull'inutile spesa sopportata dall'ente,
mediante duplicazione delle attività riservate in via esclusiva al controllo
interno, causavano il rinvio a giudizio per danno erariale dei soggetti che
a vario titolo avevano operato illegittimamente.
Le conclusioni
Secondo la Corte dei conti Lombardia non può non essere rilevato come nel
nostro ordinamento giuridico le amministrazioni pubbliche debbano
prioritariamente provvedere ai propri compiti e funzioni con la propria
organizzazione e con proprio personale, salvo il ricorso a consulenti
esterni nelle limitate ipotesi previste dalla legge, stante il loro
carattere eccezionale e riguardante situazioni di assoluta mancanza di
professionalità interne.
Nel caso specifico, la controversia riguarda i rilievi dell'organo di
revisione contabile, questioni di non elevata complessità e, dunque, prive di
quelle peculiari connotazioni che avrebbero potuto consentire di poter
percorrere la strada alternativa del ricorso all'ausilio di terzi a titolo
oneroso.
In presenza di divergenze, tra organo di amministrazione attiva e organo di
controllo interno, che rappresenta una situazione di normale conflittualità,
la soluzione avrebbe dovuto obbligatoriamente essere ricercata tra l'ente e
l'organo di revisione, non certo ricorrendo a prestazioni esterne di tipo
oneroso.
In conclusione, per la Corte dei conti le spese sostenute per l'affidamento
dell'incarico esterno vanno considerate quale danno erariale, in
considerazione della deviazione ai principi di sana gestione amministrativa.
Il danno va addebitato ai soggetti che tale inutile spesa deciso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.11.2018).
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DIRITTO
Non essendoci questioni in rito da affrontare si può passare alla disamina
del merito del giudizio.
Il Collegio evidenzia al riguardo che, in condivisione delle considerazioni
svolte dalla Procura, opera un principio basilare nel nostro ordinamento
giuridico, da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, in virtù
del quale le Amministrazioni pubbliche debbono prioritariamente provvedere
ai propri compiti ed alle proprie funzioni con la propria organizzazione e
con proprio personale, riservando ad ipotesi eccezionali e puntualmente
disciplinate dal legislatore ogni eventuale deroga al principio stesso.
Si tratta di un principio che trova il proprio fondamento nei principi, con
copertura costituzionale, del buon andamento e dell’imparzialità della
pubblica amministrazione, corroborati dalle esigenze di contenimento della
spesa pubblica.
In altri termini, la facoltà di ricorrere a consulenti esterni non può
considerarsi una prerogativa arbitraria di chi amministra, ma va collocata
nell’ambito di precisi contesti normativi predisposti dal legislatore, il
quale la consente solo in termini assolutamente residuali, con rigorose
garanzie procedimentali, e per periodi limitati.
Al riguardo, in condivisione dei richiami giurisprudenziali di cui all’atto
di citazione (in particolare, pag. 15), deve farsi pregnante riferimento a
quanto già affermato da questa Corte, con le ampie ed articolate motivazioni
di cui alla
sentenza
18.04.2017 n. 112 della I Sezione centrale d’Appello (cfr. anche la richiamata sentenza
18.04.2012 n. 303 della III Sezione centrale d’Appello), cui può sostanzialmente rinviarsi, anche ai
sensi dell’art. 17 delle norme di attuazione del codice della giustizia
contabile.
Sul piano fattuale non può che rilevarsi che la fattispecie controversa (rectius:
i rilievi dei revisori) si riferisce ad una problematica circoscritta e di
non particolare complessità, e, dunque, priva di quelle peculiari
connotazioni che avrebbero potuto consentire percorrere la strada
alternativa del ricorso all’ausilio di terzi a titolo oneroso. Di fatto,
nella fattispecie, si trattava di dover esaminare le valutazioni, mirate su
questioni specifiche, divergenti da quelle dell’Amministrazione attiva,
dell’organo di controllo interno, e quindi risolvere nella maniera più
appropriata le questioni emerse in sede di interlocuzione interna tra organi
aventi funzione diversa, già compensati con esborso a carico del pubblico
bilancio.
L’ Amministrazione avrebbe dovuto, poiché non si ignorano comunque le
problematiche nascenti da rapporti conflittuali che possono insorgere tra
organi di amministrazione attiva e organo di controllo interno, ricercare
una soluzione proporzionata e adeguata, senza ricorrere onerosamente ad un
soggetto esterno, a titolo oneroso, e ciò al di là del nomen utilizzato per
qualificare la prestazione di c.d. limited review richiesta all’esterno,
che, peraltro, risultando affidata ad un organo di esclusiva scelta
dell’Amministrazione attiva, nemmeno garantiva, ex ante, la rivendicata
imparzialità di un (pur comunque non ammissibile) parere di tipo “arbitrale”
diretto a regolare e ad eventualmente conciliare le opposte posizioni che si
confrontavano nella fattispecie.
Per l’effetto, si ravvisano, allo stato, in capo agli odierni convenuti
pienamente sussistenti gli elementi costitutivi della responsabilità per il
danno erariale arrecato all’Azienda Ospedaliera:
1) il rapporto d’impiego e/o di servizio in ragione del quale si è
verificato il comportamento pregiudizievole foriero di danno;
2) il danno erariale cagionato all’Amministrazione di appartenenza;
3) il nesso di causalità tra l’evento lesivo e il comportamento posto in
essere;
4) l’elemento soggettivo della colpa grave.
Nel dettaglio, come già nell’invito a dedurre e poi nell’atto introduttivo,
l’attrice Procura ha rappresentato con riferimento alle singole
responsabilità, l’importo che ciascun convenuto è tenuto a risarcire alla
stregua del ruolo e della funzione svolta nella vicenda in esame.
Il dott. PE., nella sua qualità di responsabile della U.O.C.
Approvvigionamenti Logistica e Servizi Alberghieri della A.O. Bolognini di
Seriate (BG), ha adottato la determinazione n. 7 del 07.02.2012, avente ad
oggetto l’illegittima acquisizione in affidamento diretto del servizio di
attività di limited review per l’U.O.C. Ragioneria allo Studio KPMG S.p.A.
L’incidenza causale di siffatta condotta, costituita dall’emanazione
dell’atto illecito, è stata quantificata in misura pari al 40% dell’esborso,
ossia per Euro 3.630,00, oltre accessori.
Il dott. DO., nella sua qualità di responsabile della U.O.C. Ragioneria
della A.O. Bolognini di Seriate (BG), ha richiesto l’affidamento del
servizio di limited review ad una società esterna, come richiamato nella
stessa determinazione in contestazione e come emerge dall’e-mail del
01.02.2012 con cui il medesimo inviava al dott. Pe. e al dott. Ve.
l’elenco delle aziende da invitare, corredato da un capitolato del servizio
di limited review da commissionare. L’incidenza causale di questa condotta,
costituita dalla proposta dell’atto illecito, tenendo conto che si trattava
di supportare proprio la U.O.C. di cui il Do. era direttore, è stata
quantificata in misura pari al 40% dell’esborso, ossia per Euro 3.630,00,
oltre accessori.
Il dott. VE., nella sua qualità di Direttore Amministrativo dell’A.O.
Bolognini, ha avallato la proposta di affidare l’incarico in contestazione.
si richiama l’e-mail del 01.02.2012 inviata alla Regione Lombardia con cui
l’Amministrazione regionale veniva informata delle intenzioni della A.O. di
affidare l’attività ad una società esterna nei seguenti termini: “in
considerazione del permanere della valutazione negativa da parte del
Collegio Sindacale si informa che l’Azienda intende attivare una limited
review affidata ad una società di revisione indipendente, a cui verrà
chiesto di esprimere una valutazione (limitata ai punti in contestazione del
bilancio consuntivo 2010)..”. L’incidenza causale di siffatta condotta è
stata quantificata in misura pari al 15% dell’esborso, ossia per Euro
1.361,25, oltre accessori.
Il dott. AM., nella sua qualità apicale di Direttore Generale dell’A.O.
Bolognini, a conoscenza dell’intera vicenda, è stato destinatario della
segnalazione da parte del Presidente del Collegio Sindacale
dell’illegittimità dell’incarico in contestazione. La Procura ha richiamato
in proposito la nota n. 6970 del 29.02.2012 indirizzata al Presidente del
Collegio Sindacale, ove il D.G. sosteneva la legittimità dell’incarico
esterno, facendo proprie le motivazioni alla base della limited review,
consistita nell’“affidare a un terzo indipendente la valutazione delle
poste di bilancio in contestazione. Tale tipologia di verifica rappresenta
la modalità normalmente utilizzata anche nel settore delle imprese laddove
si manifesti un contrasto tra amministratori e organi di controllo…Per tutto
quanto sopra esposto, non si ravvedono profili di “illegittimità” o di
“anomalia” nella determinazione n. 7 del 07.02.2012".
L’incidenza causale di siffatta duplice condotta omissiva è stata
quantificata in misura pari al 5% dell’esborso, ossia per Euro 453,75, oltre
accessori.
Tuttavia, quanto alla sussistenza e all’entità del danno (elemento
oggettivo), sussistente nella fattispecie, la Sezione reputa che –valutate
le singole responsabilità- possa trovare applicazione l’istituto della
riduzione dell’addebito, attesa la peculiarità del contesto, evidenziata
dettagliatamente dai difensori dei convenuti, nel quale è maturata la
vicenda all’esame della Sezione, con particolare riferimento all’impellenza
di giungere all’approvazione del bilancio consuntivo 2010 evitando le
conseguenze negative che la mancata approvazione avrebbe avuto a cascata
anche sul bilancio consuntivo 2011.
Non si è dunque trattato di una sprezzante violazione delle regole
contabilistiche formali e sostanziali che disciplinano la spesa pubblica,
bensì della ricerca di una soluzione prospetticamente rivolta alla
composizione di contrasti, la quale, se pur illegittima e dannosa, va
valutata con proporzionalità e congruità.
Ritiene pertanto il Collegio che, anche in considerazione dell’attività
comunque svolta in favore dell’Ente e dei risultati realizzati, nonché
tenuto conto del comportamento non collaborativo dei revisori, i convenuti
vadano condannati a risarcire all’ Azienda Ospedaliera Bolognini un importo
ridotto del 50% (€ 4.537,50) rispetto a quello indicato dalla Procura
attrice, già rivalutato, oltre agli interessi legali dal deposito della
presente sentenza al saldo, da imputarsi in via parziaria e nelle stesse
percentuali di ripartizione indicate dalla Procura stessa.
P.Q.M
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale Lombardia
CONDANNA
I convenuti al pagamento della somma complessiva pari ad € 4.537,50 a favore
dell’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate così suddivisa:
FE.PE. € 1.815,00 (pari al 40%);
AL.DO. € 1.815,00 (pari al 40%);
GI.VE. € 680,62 (pari al 15%);
AM.AM. € 226,87 (pari al 5%), già rivalutata, oltre ad interessi
legali dal deposito della presente sentenza fino al soddisfo.
Le spese di giustizia seguono la soccombenza e si liquidano nelle stesse
percentuali a carico dei convenuti in € 380,54 (trecentottanta/54) (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 31.10.2018 n. 214). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Il
segretario comunale non può invadere la sfera di competenza del responsabile
di ragioneria.
Il Segretario comunale non può emettere e reiterare un ordine di servizio
per ottenere dal responsabile dei servizi finanziari l’emissione dei mandati
di pagamento dei rimborsi forfettari a favore della collaboratrice a titolo
gratuito.
È quanto afferma la Corte dei conti, Sez. giurisdiz. per la
Lombardia, con la
sentenza 31.10.2018 n. 213.
Il fatto
La sezione regionale di controllo per la Lombardia ha condannato per danno
erariale il Segretario generale di un comune lombardo, il quale ha ordinato
al Responsabile dei servizi finanziari di emettere mandati di pagamento a
titolo di rimborso spese forfettario nei confronti di una collaboratrice,
senza la dovuta giustificazione contabile.
La Giunta comunale conferiva un incarico a titolo gratuito a una ex
dipendente dell’Ente in quiescenza, a prosecuzione dello svolgimento delle
funzioni e delle mansioni svolte in precedenza per tutta la durata della sua
carriera lavorativa come dipendente dello stesso Comune.
L’incarico prevedeva un rimborso spese mensile, previa rendicontazione delle
spese da parte della stessa.
Il Segretario comunale, nella qualità di responsabile degli affari generali,
poneva in essere gli atti liquidazione che venivano contestati dall’ufficio
di ragioneria, in quanto carenti di documentazione giustificativa.
Per superare l’impasse, il Segretario generale emetteva e reiterava un
ordine di servizio per ottenere dal predetto responsabile l’emissione dei
mandati di pagamento dei rimborsi forfettari.
La decisione
La sentenza di condanna evidenzia che il Segretario generale ha posto in
essere un comportamento inequivocabilmente in contrasto con quei criteri di
efficienza, efficacia e rispetto delle norme di buona gestione, cui ogni
Pubblica amministrazione deve improntare la propria azione.
Per il collegio giudicante, il rimborso spese deliberato in favore della ex
dipendente dell’Ente era stato espressamente subordinato
dall’Amministrazione alla produzione di idonea documentazione giustificativa
che è imposta dai generali principi cui devono uniformarsi le procedure di
erogazione delle spese poste a carico dei bilanci pubblici.
Negli stessi termini dispone la specifica normativa che, nel sancire il
divieto per la Pa di attribuire incarichi di studio e di consulenza a
soggetti già dipendenti pubblici collocati in quiescenza, fa salvi gli
incarichi a titolo gratuito e subordina a rendiconto gli eventuali rimborsi.
Conclusioni
Il principio enunciato è chiaro, nel senso che è contrario al precetto
costituzionale del buon andamento il comportamento del Segretario comunale,
il quale, in quanto massima autorità burocratica dell’Amministrazione
locale, avrebbe dovuto, prima di ognuno, accertarsi la corrispondenza della
richiesta di rimborso rispetto al disciplinare dì incarico.
Un appunto vale anche per il responsabile di ragioneria, il quale non
avrebbe dovuto dissentire dall’ordine di servizio, in ragione del proprio
ufficio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018).
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MOTIVI della DECISIONE
Non essendoci questioni preliminari di rito da valutare si passa ad
esaminare il merito della causa.
La fattispecie per cui è causa concerne una ipotesi di responsabilità
amministrativa, in relazione alla quale il convenuto è chiamato a
rispondere, a titolo di colpa grave, di un danno che la Procura attrice
assume essere stato subito dal Comune di Bienno.
Tanto considerato, il Collegio procede quindi a valutare la sussistenza
degli elementi richiesti dalla legge per il configurarsi della
responsabilità amministrativa contestata con l’atto introduttivo: l’elemento
oggettivo, cioè l’effettivo prodursi di un danno pubblico, la cui entità va
valutata alla luce delle risultanze probatorie prodotte in causa; l’elemento
soggettivo, vale a dire un comportamento gravemente colposo (o doloso), ed
il nesso di causalità tra il comportamento e l’evento.
Osserva il Collegio che nessun dubbio sussiste in ordine alla sussistenza,
nella specie, dell’elemento oggettivo dell’illecito erariale, della condotta
gravemente colposa imputabile al convenuto e del nesso di causalità.
L’indagine istruttoria esperita dal Pubblico Ministero contabile, con
l’acquisizione dei pertinenti atti, ha accertato che è stato posto in essere
un comportamento inequivocabilmente in contrasto con quei criteri di
efficienza, efficacia e rispetto delle norme di buona gestione, cui ogni
pubblica Amministrazione deve improntare la propria azione.
I fatti di causa, nella loro materiale sussistenza, sono quelli riportati
nell’atto di citazione ed in tutti gli altri documenti di causa
In piena adesione alla tesi argomentativa attrice, il Collegio osserva che
il “rimborso spese” deliberato in favore della ex dipendente dell’Ente era
stato espressamente subordinato dall’amministrazione alla produzione di
idonea documentazione giustificativa che, oltre ad essere prevista dalla lex
specialis applicabile al procedimento de quo, è imposta dai generali
principi cui devono uniformarsi le procedure di erogazione delle spese poste
a carico dei bilanci pubblici.
Negli stessi termini dispone la specifica normativa che, nel sancire il
divieto per la P.A. di attribuire incarichi di studio e di consulenza a
soggetti già dipendenti pubblici collocati in quiescenza, fa salvi gli
incarichi a titolo gratuito e subordina a rendiconto gli eventuali rimborsi
(art. 5, comma 9, D.L. 95/2012 convertito nella legge n. 135/2012).
In questa prospettiva, la condotta tenuta dal convenuto St. appare
tanto più grave, poiché ha disposto i pagamenti citati nonostante i ripetuti
rilievi di criticità sollevati dal responsabile del servizio finanziario, e
ciò pur rivestendo una funzione apicale e dunque essendo in possesso di un
bagaglio di conoscenze professionali tali da poter imprimere all’azione
amministrativa un crisma di legalità e correttezza.
Come rappresentato da parte attrice, il ricorso all’incarico a titolo
gratuito, con la corresponsione di un rimborso forfettario, ha dissimulato
l’esecuzione di un vero e proprio rapporto di lavoro a termine.
Depongono in tal senso, come chiaramente esposto in citazione dalla Procura,
<<la concreta articolazione del rapporto de quo, instaurato all’indomani
del pensionamento della collaboratrice con la presenza in servizio della
stessa in giorni ed orari definiti (rilevata con cartellino a tempo), la
corresponsione di un rimborso forfettario svincolata da ogni giustificazione
circa le spese sostenute dalla stessa ed infine le stesse ammissioni
formulate da Stanzione in sede di controdeduzioni con il riconoscimento
delle circostanze che il rapporto ha avuto ad oggetto, per un periodo
limitato, le stesse mansioni esercitate dalla collaboratrice prima del
collocamento a riposo e che è stato utilizzato come modalità per far fronte
all’ ordinaria funzionalità dell’ uffici anagrafe e stato civile>>.
Ne consegue la constatazione di una chiara violazione della disposizione
legislativa richiamata, la cui ratio è quella di evitare che il conferimento
di incarichi sia utilizzato dalla P.A. per continuare ad avvalersi di
dipendenti collocati in quiescenza, e per attribuire ai medesimi
responsabilità rilevanti, aggirando l’istituto del pensionamento e le
disposizioni sul reclutamento del personale, ispirate al contenimento della
spesa pubblica.
Conclusivamente quindi
il Collegio, alla stregua delle considerazioni
sopraesposte, ritiene ravvisarsi in capo al predetto soggetto tutti i
necessari elementi costitutivi della responsabilità per il danno erariale
arrecato al patrimonio del Comune:
1) il rapporto di servizio in ragione del quale si è verificato il
comportamento pregiudizievole;
2) il nesso di causalità tra il comportamento posto in essere dal
convenuto e l’evento contestato;
3) l’elemento soggettivo della colpa grave.
Quanto alla sussistenza e all’entità del danno (elemento oggettivo),
sussistente nella fattispecie, la Sezione reputa tuttavia che possa trovare
applicazione l’istituto della riduzione dell’addebito, attesa la peculiarità
del contesto, evidenziata dal difensore del convenuto, nel quale è maturata
la vicenda all’esame della Sezione, con particolare riferimento
all’impellenza delle esigenze lavorative conseguenti all’accorpamento di
Enti e alla scarsità di risorse umane disponibili nell’immediatezza.
Ritiene pertanto il Collegio che, anche in considerazione dell’attività
comunque svolta in favore dell’Ente e dei risultati realizzati, nonché
tenuto conto della responsabilità condivisa dei membri della Giunta
comunale, il convenuto vada condannato a risarcire al Comune di Bienno un
importo pari ad € 7.000,00, già rivalutato, oltre agli interessi legali dal
deposito della presente sentenza al saldo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia,
disattesa ogni contraria eccezione, deduzione e richiesta,
CONDANNA
il convenuto Gi.ST. al pagamento, in favore del Comune di Bienno,
della somma di € 7.000,00 (settemila/00), già rivalutata, oltre agli
interessi legali, a decorrere dal deposito della presente sentenza sino al
saldo (Corte dei conti, Sez. giurisdiz.
Lombardia,
sentenza 31.10.2018 n. 213). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Banditi
i commenti lesivi per la p.a.. No a provvedimenti
asfittici.
Con
sentenza 15.10.2018 n. 241, la Corte conti
Toscana ha condannato i membri della Commissione disciplinare di un comune
per aver irrogato una sanzione a un dipendente, rivelatasi illegittima in
sede giurisdizionale di lavoro.
I componenti della Commissione avevano adottato un provvedimento
sanzionatorio nei confronti del dipendente, per avere quest'ultimo postato
sul proprio profilo Facebook un'informazione riguardante l'amministrazione,
non astenendosi dall'esprimere un commento personale ritenuto lesivo per
l'immagine dell'ente.
A seguito di ricorso del dipendente, la sezione lavoro del Tribunale
competente ha annullato il provvedimento, ritenendo legittimo il
comportamento del ricorrente, contestualmente condannando l'ente a spese e
accessori. La grave negligenza è stata rinvenuta nelle valutazioni espresse
nella sentenza di accoglimento del ricorso di lavoro, la quale definisce in
termini eloquenti, «asfittico», il provvedimento disciplinare
adottato nei confronti del dipendente.
L'art. 10 del codice di comportamento dei dipendenti pubblici adottato con
dpr 62/2013 dispone che il dipendente, nei rapporti privati, non può
assumere alcun comportamento che possa essere nocivo all'immagine
dell'amministrazione.
In sostanza, non è in discussione la sussistenza o meno del potere
sanzionatorio in sede disciplinare di un'amministrazione nei confronti di un
proprio dipendente, asseritamente per violazione del citato art. 10 del
codice di comportamento, bensì la sua concreta applicazione nel caso
effettivo: rileva non il «se», bensì il «come» dell'esercizio
del potere sanzionatorio.
Nondimeno in tali casistiche, la carenza provvedimentale è da ritenersi di
grave entità, in considerazione della consolidata giurisprudenza di merito,
ordinaria e amministrativa (articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).
---------------
FATTO
Con atto di citazione depositato il 04.08.2017 il Procuratore regionale ha
citato in giudizio Za.An., Pe.Gi. e Ve.Ma., dipendenti del Comune di
Capalbio, a titolo di colpa grave, in quanto ritenuti responsabili di un
danno arrecato all’ente quantificato in € 6.980,10.
I fatti causativi del pregiudizio asserito possono essere così riassunti.
I convenuti odierni, nella loro qualità di componenti di Commissione
disciplinare del comune di Capalbio, avevano adottato un provvedimento
sanzionatorio, emesso in data 25.11.2015, nei confronti di un’altra
dipendente, tale Bl.An., consistente in un “richiamo scritto”, avendo
la stessa “postato sul proprio profilo Facebook un’informazione
riguardante l’Amministrazione ed il Servizio affari generali” non
astenendosi dall’esprimere un commento personale ritenuto lesivo per
l’immagine dell’ente.
A seguito di ricorso coltivato dall’interessata, il Tribunale di Grosseto –
Sezione Lavoro, con sentenza n. 78/2016 ha annullato il provvedimento
sanzionatorio, ritenendo legittimo il comportamento della ricorrente Bl., e
condannando l’ente alla rifusione delle spese di lite per € 2.501,00 oltre
accessori, cui si sono aggiunti € 2.918,24 quali spese per l’assistenza
legale fornita dall’avv. An. in favore dell’ente.
A seguito del deposito dell’atto introduttivo, il Presidente della Sezione,
ritenendo di poter procedere al procedimento per ingiunzione di cui all’art.
131 del D.Lgs n. 174/2016, ha adottato il decreto n. 27/2017 del 21.09.2017,
stabilendo, per ognuno dei convenuti, a ristoro del danno contestato, il
pagamento di € 1.300,00 comprensivi di interessi, oltre spese di giudizio.
Il provvedimento, ritualmente notificato, è stato accettato dal sig. Za. in
data 23.11.2017 e dal sig. Pe. in data 12 dicembre.
Nel corso dell’odierna udienza, non costituitasi la convenuta, il P.M. ha
chiesto la condanna della Verdone al pagamento di un terzo della somma
inizialmente contestata, pari ad € 2.326,00.
La causa è quindi passata in decisione.
Considerato in
DIRITTO
Preliminarmente occorre dichiarare la contumacia della convenuta ai sensi
dell’art. 93 del Codice.
Nel merito la domanda è fondata.
La grave negligenza contestata alla convenuta è
stigmatizzata lucidamente dalle valutazioni espresse nella sentenza di
accoglimento del ricorso presentato dalla Bl. innanzi al giudice del lavoro
di Grosseto, territorialmente competente, il quale nella sua sintetica
disamina definisce asfittico il provvedimento disciplinare adottato nei
confronti della stessa Bl..
In buona sostanza, in questa sede non è in discussione la
sussistenza o meno del potere sanzionatorio, in sede disciplinare,
dell’Amministrazione di Capalbio nei confronti di una sua dipendente,
asseritamente per violazione dell’art. 10 del regolamento che disciplina il
comportamento dei dipendenti pubblici, recepite nell’art. 8, c. 1, del
codice di comportamento dei dipendenti del comune di Capalbio, adottato con
delibera commissariale n. 16 del 12.03.2014, bensì la sua
concreta applicazione nel caso che ci occupa.
Quindi non l’an bensì il quomodo di tale
esercizio, che evidentemente non ha colto nel segno di evidenziare le
difettosità, lesive per il prestigio dell’Amministrazione di appartenenza,
non evidenziate dalla convenuta (unitamente agli altri due componenti) nella
produzione dell’annullato provvedimento.
La carenza provvedimentale messa in atto è da ritenersi, peraltro, di
elevata gravità, anche in considerazione della ormai copiosa giurisprudenza
formatasi in sede di giurisdizione di merito, sia in sede di A.G.O., sia in
sede di giurisdizione amministrativa.
Sussistono, comunque, ragionevoli motivazioni per una riduzione
dell’addebito contestato, quantificabile, pertanto, in € 1.500,00 oltre
interessi legali dal deposito al soddisfo.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Toscana, definitivamente
pronunciando nel giudizio n. 60852, respinta ogni contraria istanza ed
eccezione
DICHIARA
VE.Ma. contumace nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 60852 del
registro di Segreteria;
CONDANNA
VE.Ma. al pagamento, in favore del comune di Capalbio (GR), della somma di €
1.500,00 aumentata degli interessi legali dal deposito al soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 15.10.2018 n. 241). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Timbratura
del cartellino, danno all'immagine sproporzionato se la violazione è di
poche ore.
La lotta ai furbetti del cartellino ha portato il legislatore delegato
all'adozione dei misure sanzionatorie particolarmente incisive (procedura
acceleratoria del licenziamento, sospensione cautelare del dipendente) ma
con eccesso di delega non avendo previsto che, in caso di tenuità del fatto,
il danno all'immagine, la cui quantificazione spetta in via equitativa al
giudice contabile, prevede un importo minimo non proporzionato non lasciando
alcun margine al giudice adito.
L’eccezione è stata sollevata davanti alla
Corte costituzionale dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per
l'Umbria, con l'ordinanza
09.10.2018 n. 76.
La vicenda
Una dipendente comunale, addetta all'ufficio del turismo, ha certificato, in
quattro giorni diversi e non continuativi, il proprio orario di uscita
un’ora dopo quello reale (alle 17.00 invece che alle 18.00 come falsamente
attestato). Il Procuratore ha, pertanto, quantificato il danno erariale pari
a 64,81 euro, mentre per il danno all'immagine ha dovuto quantificare la
misura minima prevista dal l’articolo 55-quater, comma 3-quater, del Dlgs
165/2001 secondo cui «L'ammontare del danno risarcibile è rimesso alla
valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del
fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può
essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre
interessi e spese di giustizia».
La dipendente si è difesa sostenendo oltre l'irrilevanza e la tenuità dei
fatti, l'illegittimità costituzionale della sanzione afflittiva per danno
all'immagine, per avere la norma indicato un valore minimo della sanzione da
comminare senza alcuno spazio decisivo del giudice contabile, con la
conseguenza che, a fronte di 64,81 euro di danno da mancata prestazione
lavorativa, la quantificazione del danno all'immagine risultava pari a
20.000 euro.
L'ordinanza dei giudici contabili
Secondo il collegio contabile non ci sono dubbi circa una condotta di falsa
attestazione della presenza in servizio della dipendente che ha alterato i
sistemi di rilevamento della presenza con modalità fraudolente. Il danno
erariale è stato, pertanto, quantificato in complessive 4 ore certificate
nel periodo osservato di falsa presenza in servizio. I dipendenti pubblici,
infatti, sono tenuti al rispetto di un orario di lavoro e sono obbligati a
prestarlo secondo le modalità, le forme e i tempi stabiliti dal datore di
lavoro pubblico.
Pertanto, la dipendente, in violazione delle regole di
condotta e degli obblighi di presenza in servizio, ha modificato il proprio
orario di uscita, anticipandolo di un'ora rispetto a quello da lei
dichiarato e attestato, disvelando una predeterminazione intenzionale. Il
numero di ore certificato dalla dipendente, ma non effettivamente svolto, va
considerato danno erariale e come tale va addebitato alla convenuta.
Sul danno all'immagine
Per i l Collegio contabile non c’è alcun dubbio circa la corresponsione del
danno all'immagine, quale posta risarcitoria corrispondente alle ore
remunerate ma non svolte dalla dipendente ma il giudice contabile non può
infliggere una sanzione minore del minimo obbligatorio di sei mensilità
previsto dal legislatore. Nel caso di specie, il Collegio contabile precisa
come, le stesse disposizioni legislative, prevedono un danno all'immagine
che «comunque … non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo
stipendio in godimento», privando in tal modo lo stesso giudice contabile di
una autonoma determinazione e quantificazione dell'effettivo danno subito
dall'ente.
In altri termini, il legislatore delegato non avrebbe dovuto introdurre
norme di diritto sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione del
danno all'immagine da falsa attestazione della presenza in servizio fissando
una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo che potrebbe essere in
concreto sproporzionata come nel caso di specie.
Essendo la previsione
irragionevole, atteso che obbliga il giudice contabile a irrogare una
condanna sanzionatoria senza tener conto dell'offensività in concreto della
condotta posta in essere, anche in presenza di una tenuità del fatto
accertato nel caso concreto, gli atti devono essere trasmessi alla Consulta
per la verifica di costituzionalità della norma
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.10.2018). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, per i tetti di spesa vale il bilancio.
Gli enti locali senza la dirigenza hanno un problema: come conteggiare il
valore di competenza delle posizioni organizzative ai fini della verifica
dei limiti al trattamento accessorio complessivo. Finalmente, arriva il
chiarimento da tanto atteso.
La Corte dei conti della Sicilia, con il
parere
03.10.2018 n. 172 ha concluso che il parametro da utilizzare è la somma
stanziata a bilancio.
L'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 prevede che l'ammontare complessivo
del trattamento accessorio non possa superare ciascun anno quello dell'anno
2016. La norma sostituisce le precedenti disposizioni, ovvero l'articolo 9,
comma 2-bis, del Dl 78/2010 e l'articolo 1, comma 236, della legge 208/2015.
Come ormai più volte ribadito, nelle limitazioni non si può considerare solo
l'importo corrispondente al fondo delle risorse decentrate, ma va incluso
anche l'aggregato riconosciuto ai dipendenti di titolari di posizione
organizzativa, corrispondente alla retribuzione di posizione e di risultato.
Nella base di calcolo dell'anno 2016, quindi, anche questo valore andrà
indicato, come poi andrà verificato di anno in anno per rispettare il
“tetto”.
Per gli enti con la dirigenza, la problematica dell'anno 2016 non esiste, in
quanto, gli incarichi di posizione organizzativa erano finanziati
all'interno del fondo. Quindi, basta prendere questo valore che il limite è
determinato.
Gli enti senza la dirigenza
Per gli enti senza la dirigenza, invece, le posizioni organizzative erano
imputate a bilancio e quindi è più difficile capire a quali importi fare
riferimento. Infatti, nella richiesta di parere contenuta nella delibera in
esame è stato chiesto alla Corte dei conti se si debba fare riferimento:
• alla ipotetica struttura organizzativa esistente nell'ente
nell'anno 2016 e quindi all'ipotetica spesa per il trattamento accessorio
per le posizioni organizzative che l'ente avrebbe potuto sostenere, nei
limiti di spesa del personale all'epoca vigenti, sulla base della pesatura
esistente nell'anno 2016;
• al valore impegnato sul bilancio 2016 complessivo sia a titolo di
indennità di posizione che a titolo indennità di risultato (senza tenere
pertanto in considerazione le eventuali minori somme corrisposte per
decurtazioni assenza per malattia o per mancato raggiungimento degli
obiettivi);
• oppure se l'ente deve fare riferimento a quelle effettivamente
erogate e riferite all'esercizio 2016.
Conclusioni
Domande più che mai opportune che hanno avuto una risposta chiara: il limite
non può essere quello quantificato tenendo conto della ipotetica struttura
organizzativa né quello relativo alle somme effettivamente erogate e
riferite all'esercizio 2016, piuttosto deve essere quello rappresentato
dall'ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel medesimo esercizio
finanziario.
E così si chiude un cerchio. Infatti, anche il contratto 21.05.2018 usa un
termine molto simile a quello utilizzato dai magistrati contabili facendo
riferimento al valore delle posizioni organizzative “finalizzato” a
retribuzione di posizione e risultato. Poiché le posizioni organizzative
sono appunto finanziate a bilancio (e non in un fondo!) il parametro di
riferimento non può che essere quello dell'importo stanziato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al lordo degli oneri al dipendente che svolge attività extra non
autorizzata.
Un dipendente pubblico non può svolgere lavoro subordinato a favore di terzi
senza la preventiva autorizzazione dell'ente di appartenenza.
Lo ha ribadito
la Corte dei conti del Lazio con la
sentenza
26.09.2018 n. 492, condannando un
impiegato dell'Inps alla restituzione dei compensi lordi illegittimamente
percepiti dal settembre 2004 al dicembre 2006, per un importo di poco
superiore a 50 mila euro.
Secondo le circostanze emerse, in tale periodo il dipendente aveva svolto
attività lavorativa retribuita come cameriere senza essere autorizzato dal
proprio ente, in violazione del dovere di imparzialità ed esclusività del
rapporto di servizio con l'amministrazione.
Le regole
Questa materia è stata disciplinata dal legislatore con l'articolo 53, comma
7, del Dlgs 165/2001, in base al quale «i dipendenti pubblici non possono
svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza».
La previa autorizzazione della Pa non riveste carattere meramente formale,
in quanto è compito dell'amministrazione espletare un'istruttoria in ordine
all'istanza del dipendente, per verificare in primis l'insussistenza di
situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.
Lo stesso comma precisa che in caso di violazione del principio di
esclusività del rapporto di pubblico impiego «il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante
o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio
dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti».
Il successivo comma 7-bis dell'articolo sopra richiamato stabilisce inoltre
che «l'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente
pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale
soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti». In linea con tale
disposto, la Corte dei conti del Lazio interviene e condanna il dipendente
convenuto in giudizio in base a un'istruttoria che dopo l'esame delle
eccezioni preliminari accerta la sussistenza di un danno erariale causato
dalla violazione dei doveri di imparzialità ed esclusività del rapporto di
servizio con l'amministrazione, mediante lo svolgimento di attività
lavorativa privata remunerata.
Il conteggio del rimborso
Un aspetto rilevante della pronuncia è rappresentato dal fatto che i giudici
respingono l'istanza della difesa che, per quanto riguarda la remunerazione
dell'imputato, contesta la parametrazione al lordo dei compensi ricevuti.
Il collegio afferma sul punto che «dal dato normativo si evince come il
danno erariale sia costituto dall'ammontare del compenso da corrispondere,
non già dalla somma di cui il dipendente ha mantenuto la disponibilità dopo
aver adempiuto ai propri obblighi fiscali e contributivi».
Sotto questo profilo, si osserva che il criterio per la quantificazione del
danno erariale è stato più volte oggetto di esame della magistratura
contabile, che si è espressa da ultimo con la pronuncia della prima sezione
centrale d'Appello n. 218/2018. L’orientamento maggioritario va nel senso
che ai fini del danno erariale il calcolo va effettuato al lordo degli oneri
riflessi e fiscali (tra le tante: sentenze III sezione d'appello n.
189/2013; II sezione n. 116/2010; sezione d'Appello per la Sicilia n.
379/2011 e n. 22/2012; Sezione Lombardia n. 89/2013; Sezione Toscana n.
188/2013).
L’assunto trova la sua ragion d'essere nel fatto che le differenze
retributive costituite dalle imposte e dai contributi previdenziali si
configurano come una voce di spesa che viene a gravare ingiustificatamente
sul bilancio della Pa, per effetto del comportamento illecito tenuto dal
dipendente responsabile.
In definitiva, anche se il dipendente pubblico ha tratto dalle prestazioni
illegittime un importo di minore entità, egli si rende comunque responsabile
per ogni ulteriore onere che, con l'agire contra legem, ha
indirettamente arrecato in pregiudizio al patrimonio della Pa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.10.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco per la revoca anticipata della posizione organizzativa.
La revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa di un
dipendente, al di fuori delle regole legislative e contrattuali, la cui
illegittimità sia stata accertata dal Tribunale del lavoro, comporta la
responsabilità in capo al sindaco che l’ha adottata, con conseguente danno
erariale pari alla retribuzione di posizione e di risultato riconosciuta dal
giudice al dipendente estromesso.
Queste le indicazioni della
sentenza 24.09.2018 n.
59 della Corte dei conti, Sez. giurisdiz. regionale per il
Molise.
Il caso
Il sindaco di un Comune ha estromesso il responsabile dell'ufficio tecnico
per una serie di inadempimenti. Data la mancanza di altri professionisti,
prima che si svolgesse il concorso per la categoria giuridica D3 non
posseduta dal dipendente, gli incarichi apicali erano stati conferiti per
diversi anni a professionisti esterni mediante specifica convenzione.
Il
giudice del lavoro adito dal dipendente ha riconosciuto l'illegittimità
della revoca anticipata, effettuata in violazione di legge e del contratto
collettivo nazionale che scandiscono procedure tipizzate, come in caso di
intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico
accertamento di risultati negativi soggetti a valutazione annuale in base a
criteri e procedure predeterminati dall'ente. Il primo cittadino è stato,
pertanto, rinviato a giudizio dalla Procura per il danno erariale causato
dall'illegittima estromissione del dipendente al di fuori delle procedure
tipizzate previste dalla normativa.
Il sindaco si è difeso sostenendo di aver correttamente agito per il
superiore pubblico interesse al fine di una gestione efficiente che avrebbe
potuto essere assicurata dall'apporto di professionisti esterni
convenzionati e, successivamente, mediante assunzione di uno specialista
attraverso un concorso pubblico. Il sindaco ha precisato, inoltre, che lo
stesso Tar ha dato ragione al Comune sull'indizione del concorso per la
categoria giuridica D3, dove era richiesta la laurea non posseduta dal
dipendente, e rigettato l'impugnazione da parte del dipendente che non ha
potuto partecipare per mancanza del titolo di studio richiesto.
Le conclusioni del collegio contabile
Secondo i giudici contabili molisani non può non essere evidenziata la colpa
grave da parte del sindaco che non ha seguito le indicazioni contrattuali,
in merito alla revoca anticipata della posizione organizzativa, tanto da
essere l'amministrazione condannata dal giudice del lavoro al pagamento
della retribuzione di posizione e di risultato per un periodo di circa tre
anni, ossia fino alla conclusione della nomina del vincitore del concorso
pubblico. L'illegittimità discende, inoltre, dalla non corretta applicazione
della normativa del testo unico che prevede la possibilità di conferire
incarichi all'esterno solo in mancanza di professionalità interne che, nel
caso di specie, vi erano.
Pertanto, conclude il collegio contabile, ferma rimanendo la contrarietà
alla legge della revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa,
anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall'ente risulta in
contrasto con le disposizioni normative. Il danno erariale causato all'ente
corrisponde alla condotta contra legem da parte del sindaco, infatti ove
queste condotte non fossero state poste in essere (procedimento di
cosiddetta eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe avuta una
sentenza di condanna del Comune e dunque gli esborsi inutili non si
sarebbero realizzati.
Rispetto a questi inutili esborsi il collegio
contabile riconosce, tuttavia, una riduzione essendo la decisione stata
presa pur sempre in ambito collegiale dalla giunta comunale pur essendo il
solo sindaco l'effettivo proponente e colui che ne ha dato attuazione con i
successivi provvedimenti monocratici
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018).
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DIRITTO
[1] In via pregiudiziale, occorre innanzitutto esaminare l'eccezione di
difetto di giurisdizione di questa Corte (ex art. 1, comma 1, della legge n.
20/1994), rilevabile d'ufficio sebbene tardivamente avanzata dal convenuto
avuto riguardo in particolare alla rivendicata natura discrezionale della
determinazione di revoca dell'incarico in danno del geom. To..
In proposito, giova innanzitutto premettere che nella specie l'Organo
requirente contesta l'illecito esercizio del potere di revoca di incarico
dirigenziale e successivo conferimento ad esterni, per il quale appare
probabilmente più corretta una qualificazione in termini di manifestazione
negoziale (determinazione datoriale) di autonomia privata ex art. 1322 c.c.
(pur con gli adattamenti dogmatici conseguenti alla natura pubblica
dell'Ente conferente), piuttosto che quale manifestazione di discrezionalità
amministrativa, insindacabile nel merito ai sensi dell'art. 1, comma 1,
della legge n. 20/1994 .
Ad ogni modo, con riguardo a quest'ultimo principio normativo, il Collegio
non può che richiamare l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui "la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può
e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini
pubblici dell'ente pubblico. Infatti, se da un lato, in base all'art. 1,
comma 1, della legge n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere
discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una
sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato
della Corte dei Conti, dall'altro lato, l'art. 1, comma 1, della legge n.
241 del 1990, stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve
ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono
specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., e
assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità)
dell'azione amministrativa. Pertanto, la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del
rapporto tra gli obbiettivi conseguiti e i costi sostenuti. Inoltre l'insindacabilità
nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla
giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali
scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge
dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire
in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini
imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore. Più in
generale è stato altresì precisato che il comportamento contra legem del
pubblico amministratore non è mai al riparo dal sindacato giurisdizionale
non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile”
(Cass. SS.UU. sent. n. 1979 del 2012; cfr: Cass. SS.UU., sent. n.
4283/2013).
Il Collegio ritiene dunque di dover dichiarare la sussistenza della
giurisdizione di questa Corte in ordine al sindacato sulla illiceità delle
menzionate determinazioni datoriali, in ordine alle quali, peraltro,
l'Organo requirente ha contestato, come meglio si dirà nel prosieguo,
specifiche violazioni della vigente normativa.
[2] In via preliminare, occorre esaminare l'eccezione di nullità dell'atto
di citazione per ritenuta violazione dell'art. 17, comma 30-ter, del D.L. n.
78 del 2009, avanzata dal convenuto in quanto non vi sarebbe stata, in tesi,
una previa specifica e concreta notizia di danno erariale.
In proposito, il Collegio rileva l'inammissibilità dell'eccezione ex art.
90, comma 3, del d.lgs. n. 174/2016 (codice di giustizia contabile), in
quanto proposta soltanto nella memoria di costituzione tardivamente
depositata.
Ad ogni modo, pare utile rammentare che le SS.RR. (sent n. 12/QM/2011) di
questa Corte hanno chiarito che ““Il significato da attribuire
all’espressione “specifica e concreta notizia di danno”, recata dall’art.
17, comma 30-ter, in esame, è così precisato: il termine notizia, comunque
non equiparabile a quello di denunzia, è da intendersi, secondo la comune
accezione, come dato cognitivo derivante da apposita comunicazione, oppure
percepibile da strumenti di informazione di pubblico dominio; l’aggettivo
specifica è da intendersi come informazione che abbia una sua peculiarità e
individualità e che non sia riferibile ad una pluralità indifferenziata di
fatti, tale da non apparire generica, bensì ragionevolmente circostanziata;
l’aggettivo concreta è da intendersi come obiettivamente attinente alla
realtà e non a mere ipotesi o supposizioni. L’espressione nel suo complesso
deve, pertanto, intendersi riferita non già ad una pluralità indifferenziata
di fatti, ma ad uno o più fatti, ragionevolmente individuati nei loro tratti
essenziali e non meramente ipotetici, con verosimile pregiudizio per gli
interessi finanziari pubblici, onde evitare che l’indagine del PM contabile
sia assolutamente libera nel suo oggetto, assurgendo ad un non consentito
controllo generalizzato””.
Inoltre, le SS.RR. hanno specificato che “per “fattispecie direttamente
sanzionate dalla legge” devono intendersi quelle in cui non soltanto è
prevista una sanzione pecuniaria come conseguenza dell’accertamento di
responsabilità amministrativa, ma in cui la norma definisce altresì
l’automatica determinazione del danno, mentre va escluso che possano
rientrarvi le ipotesi in cui la legge si limiti a prevedere che una certa
fattispecie “determina responsabilità erariale”, o espressioni simili. In
ipotesi di fattispecie direttamente sanzionate dalla legge, di cui sopra,
pur escludendosi la sanzione di nullità ex art. 17, cit., in quanto
l’attività istruttoria è legittimata direttamente dalla legge, restano fermi
i principi fissati dalla Corte costituzionale.
Ulteriore corollario di tale criterio interpretativo è che nell’ipotesi in
cui è la legge stessa a imporre un obbligo di comunicazione al PM contabile,
quest’ultimo resta abilitato a compiere accertamenti istruttori, tale
essendo la ratio di simili prescrizioni legislative, non superate dall’art.
17 medesimo””.
Orbene, con riguardo al caso di specie, la notitia damni è consistita nella
trasmissione alla Procura contabile, da parte della Sezione regionale di
Controllo per il Molise (destinataria per errore di comunicazione
proveniente dal Comune), della delibera consiliare n. 19 del 28/11/2013, con
la quale l'Ente ha riconosciuto un debito fuori bilancio a vantaggio del
suddetto dipendente, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 167/2000.
Peraltro, il Comune ha trasmesso detta delibera di riconoscimento di debito
fuori bilancio in adempimento dell'obbligo previsto dall'art. 23, comma 5,
della legge n. 289/2002, ai sensi del quale "I provvedimenti di
riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente Procura della
Corte dei conti" (e non già alla Sezione regionale di Controllo, n.d.r.).
Pertanto, trattandosi di ipotesi di adempimento di obbligo di comunicazione
specificamente previsto dalla legge, la Procura contabile deve ritenersi
legittimata, tanto più alla luce del menzionato orientamento del giudice
della nomofilachia contabile, a compiere accertamenti istruttori e quindi ad
esercitare, ove ne ricorrano i presupposti, l'azione di responsabilità
amministrativa per danno all'erario.
[3] Nel merito, ai fini della ricostruzione dell’elemento oggettivo
dell’illecito amministrativo-contabile contestato, occorre preliminarmente
riepilogare la successione dei fatti maggiormente rilevanti ai fini del
giudizio.
Innanzitutto, occorre evidenziare che il sig. Ma.To., assunto con
concorso pubblico come geometra part-time dall'01/01/1991 nella VI qualifica
funzionale, è stato individuato come responsabile del servizio “area tecnica
e gestione R.S.U. e tosap” già con delibera di Giunta comunale n. 129 del
30/10/1997.
Con successiva delibera di Giunta Comunale n. 79 del 24.09.1998, il geom.
To.Ma. è stato poi inquadrato, ai sensi di legge, nel VII livello
(oggi cat. D), con successivo riconoscimento della progressione cat. D3
dall'01/01/2001.
Dopo aver approvato il regolamento di organizzazione e funzionamento degli
Uffici e dei Servizi (Delibera di G.M. n. 12 del 02.02.1999), il Comune, con
delibera consiliare n. 23 del 18.07.1999, ha approvato uno schema di
convenzione per l'eventuale conferimento a personale esterno dell'incarico,
di durata annuale, di Responsabile dell'Ufficio Tecnico comunale, motivata
con la asserita situazione deficitaria dell'Ufficio (ritardi nei tempi di
risposta, anche in ragione del rapporto a tempo parziale del responsabile).
Quanto al ruolo svolto dal Sindaco A.P., nella delibera si legge
innanzitutto che questi “ha predisposto con l’esecutivo uno schema […]” di
deliberazione.
Inoltre, nell’ambito del dibattito consiliare, il consigliere Ro. faceva
“rilevare che il contenuto della convenzione è illegittimo perché privo dei
requisiti di legge che consentono l'eventuale attuazione della convenzione.
Si precisa inoltre che le motivazioni previste in detta convenzione sono
inadeguate ed insufficienti. Il servizio riguardante l'ufficio tecnico
comunale è svolto da un dipendente che ha i requisiti per svolgere in
maniera adeguata i compiti dell'ufficio stesso, avendone capacità
professionale e l'inquadramento del relativo livello.
Non risulta agli atti presenti in questo Consiglio Comunale, che ci sia
stata una adeguata ed efficace indagine da far apparire conveniente
l'attribuzione dell'incarico a persone esterne, né risulta agli atti
l'esserci stato un contatto con l'attuale responsabile dell'ufficio tecnico
finalizzato a risolvere eventualmente quello che si intende risolvere con
l'affidamento di che trattasi.
Precisa che a suo parere che le motivazioni addotte dal presidente non
giustificano l'irragionevole esborso di risorse per attuare la convenzione
medesima.
Preannuncia ed invita anche la minoranza a prendere tale posizione ad un
eventuale ricorso alle vie legali e presso gli organi tutori per far sì
l'eventuale provvedimento positivo non abbia seguito.
Fa rilevare che trattandosi di problemi che interessano il personale
proporrà in prima istanza opposizione al CO.RE.CO. Sez. di Isernia per poi
adire eventualmente anche gli uffici della Corte dei Conti”.
La delibera riporta altresì che, a fronte di dette perplessità (e di quelle
di un ulteriore consigliere comunale), il Sindaco ha preso la parola
sostenendo l’insussistenza di aggravi di spesa e la necessità di migliorare
l’andamento dell’ufficio tecnico.
A seguito di detta delibera consiliare, il CORECO di Isernia, con ordinanza
n. 648 adottata nella seduta del 26/08/1999, ha invitato il Consiglio
comunale di Pettoranello a procedere ad un riesame del deliberato ex art.
17, comma 39, della legge n. 127/1997, avendo rilevato i seguenti vizi di
legittimità:
- “manca il parere tecnico di cui all’art. 53 della legge n. 142/1990;
- la funzione che si intende affidare al tecnico esterno, come rilevasi
dallo schema di convenzione approvato, rientra tra i compiti istituzionali
del tecnico comunale il cui posto è presente e coperto in pianta organica”.
Tuttavia, il Consiglio comunale, con delibera n. 34 del 28/09/1999, ha
riapprovato la delibera n. 23/1999, senza apportare alcuna modifica.
Ancora una volta, dal testo della delibera si evince il ruolo dominante
assunto dal Sindaco A.P. (si parla di delibera assunta su “sua proposta”),
che, dinanzi all'assemblea e pur a fronte di un intervento di un consigliere
che evidenziava la mancata eliminazione dei vizi di legittimità evidenziati
dal Co.re.co, ha giustificato la mancanza del parere del responsabile
tecnico e ha ribadito la ritenuta assenza di aggravi economici per l’ente
(non sarebbe stato necessario, in tesi, neppure il parere di regolarità
contabile, essendo un mero atto di indirizzo).
Ad ogni modo, questa vicenda dell’adozione dello schema di delibera di
approvazione di convenzione di affidamento di incarico esterno, pur essendo
significativa al fine di ricostruire l’elemento soggettivo dell’illecito
contestato, non risulta aver avuto seguito concreto nell’immediato (sarà
solo successivamente presa a riferimento per gli incarichi esterni), in
quanto parecchi mesi dopo, a seguito della delibera di Giunta n. 25 del
31/03/2000 di individuazione delle aree e dei servizi, il Sindaco A. P. ha
adottato il decreto n. 930 del 03.04.2000, di nomina del geom. To.Ma. a responsabile dell'area tecnico-manutentiva.
Detto provvedimento sindacale di nomina, con efficacia “per tutta la durata
del mandato amministrativo, salvo revoca”, ha espressamente provveduto ad
assegnare al geom. To.Ma., quale dipendente di categoria D, la
responsabilità dell’area tecnica Tosap, opere pubbliche, urbanistica,
gestione del territorio, servizi tecnico-manutentivi del patrimonio e degli
impianti di pubblica illuminazione, rete idrica, fognante-depurazione, P.r.g. e strumenti attuativi, protezione civile, rifiuti urbani
(limitatamente al servizio di raccolta, smaltimento e predisposizione dei
ruoli) e responsabile unico dei LL.PP., assegnandogli le conseguenti risorse
umane, e riconoscendogli altresì la correlata retribuzione di posizione e di
risultato.
Tuttavia, a soli circa due mesi e mezzo dal conferimento, il Sindaco A.P.,
dopo aver contestato per iscritto in data 10/06/2000 al geom. To. ritenute
carenze dell'ufficio tecnico invitandolo a fornire risposta scritta in
merito entro giorni 15 (dette contestazioni sono state puntualmente e documentatamente confutate dall'interessato con comunicazione prot. n. 1825
del 27/06/2000), ha adottato (addirittura prima della scadenza dei 15 giorni
assegnati per la difesa dalle contestazioni) un ulteriore decreto sindacale
ma di revoca, il n. 1792 del 23.06.2000, in quanto il nominato "non
svolge con puntualità gli incarichi che la Giunta comunale e lo scrivente
gli conferiscono".
In proposito, pare appena il caso di evidenziare la patente contrarietà alla
normativa pro tempore vigente del menzionato provvedimento di revoca, come
peraltro già incidentalmente accertato dalla menzionata sentenza del
Tribunale di Isernia.
In particolare, l’art. 51 comma 6, della legge n. 142/1990, espressamente
delimitava il potere sindacale di revoca nei seguenti termini: gli incarichi
“sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del Sindaco o del
Presidente della Provincia, della Giunta o dell'assessore di riferimento, o
in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario
degli obiettivi loro assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto
dall'articolo 11 del decreto legislativo 25.02.1995, n. 77, e
successive modificazioni, o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dall'articolo 20 del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29, e dai contratti collettivi di lavoro”.
Ancora più puntualmente, il CCNL pro tempore vigente, all’articolo 9, commi
3 e seguenti, delimitava il potere di revoca degli incarichi nei seguenti
termini: “3. Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con
atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi
o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi. 4. I
risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti
gli incarichi di cui al presente articolo sono soggetti a valutazione
annuale in base a criteri e procedure predeterminati dall’ente. La
valutazione positiva dà anche titolo alla corresponsione della retribuzione
di risultato di cui all’art. 10, comma 3. Gli enti, prima di procedere alla
definitiva formalizzazione di una valutazione non positiva, acquisiscono in
contraddittorio, le valutazioni del dipendente interessato anche assistito
dalla organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da
persona di sua fiducia; la stessa procedura di contraddittorio vale anche
per la revoca anticipata dell’incarico di cui al comma 3”.
Peraltro, successivamente a detta revoca, evidentemente adottata in difetto
degli stringenti presupposti previsti dalla disciplina pro tempore vigente,
la Giunta comunale ha provveduto, pur avendo l’Ente a disposizione le
competenze del geom. Ma.To., a conferire i seguenti incarichi
esterni per la copertura del posto di responsabile dell’area tecnica
(dapprima affidato per breve tempo al Segretario comunale, fatto estraneo
alle contestazioni attoree):
1) Ing. Ma. De Vi.: d.g.m. n. 64 del 30.06.2000 per il periodo 01.07.2000-30.6.2001 e n. 90 del 29.06.2001 per il periodo
01.07.2001-30.6.2002,
per un compenso complessivo erogato pari a € 10.006,82;
2) Ing. Ar.Mi.: d.g.m. n. 20 del 15.02.2002 per il periodo
15.02.2002-15.05.2002, d.g.m. n. 72 del 10.05.2002 per il periodo
16.05.2002-15.06.2002, d.g.m. n. 97 del 21.06.2002 per il periodo
16.06.2002-30.08.2002, d.g.m. n. 125 del 27.08.2002 per il periodo 01.09.2002-31.10.2002, d.g.m. n. 168 del 31.10.2002 per il periodo
01.11.2002-31.12.2002, d.g.m. n. 195 del 21.12.2002 per il periodo
01.01.2003-30.06.2003, d.g.m. n. 85 del 17.06.2003 per il periodo
01.07.2003-31.12.2003 per un
compenso complessivo erogato pari a € 8.330,32;
3) Arch. Mi.D'Am.: d.g.m. n. 112 del 31.07.2003 per il periodo
01.08.2003-30.11.2003 per un compenso complessivo erogato pari a € 2.633,93;
4) Ing. Fr.La.: d.g.m. n. 163 dell'11.11.2003 per il periodo
13.11.2003-13.02.2004, d.g.m. n. 67 del 29.04.2004 per il periodo
13.03.2004-13.05.2004 per un compenso complessivo erogato pari a € 8.901,46.
In particolare, si osserva che nella prima delibera giuntale di conferimento
di incarico esterno, poi reiterata, si motiva l’adozione del provvedimento
con l’urgenza determinatasi “a causa della revoca” disposta dal Sindaco, non
si riscontra il parere di regolarità tecnica (viene riportato esclusivamente
il parere di regolarità contabile) e si prende a modello di conferimento lo
schema di convenzione già approvato con delibera consiliare n. 23/1999.
Come evidenziato dalla menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, il
Testo Unico per gli Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000; per il primo incarichi
si veda l’art. 51 della legge n. 142/1990 nel testo pro tempore vigente, poi
confluito nel T.U.) consente l’affidamento all’esterno di incarichi
dirigenziali (art. 110, comma 1), solo previa previsione statutaria, ed
inoltre condiziona in ogni caso l’affidamento di incarichi di responsabilità
fuori dotazione organica alla “assenza di professionalità analoghe presenti
nell’ente”.
Peraltro, detto limite della “assenza di professionalità analoghe presenti
all’interno dell’Ente” è stato ribadito dall’art. 39 dello Statuto dell’ente
approvato con deliberazione C.C. n. 16 del 05/04/2001 ed anche successivamente
dall’art. 35 del regolamento uffici e servizi (senza distinzione tra
incarichi ricompresi e non ricompresi nella dotazione organica) approvato
con delibera di Giunta n. 138/2012, provvedimento che ha altresì determinato
la nuova dotazione organica prevedendo, accanto ad un posto di istruttore
direttivo D/1, un posto di responsabile del servizio D/3 (qualifica peraltro
posseduta anche dal geom. To. a decorrere dal 01.01.2001; sulla
unitarietà/inscindibilità, economica e giuridica, delle diverse posizioni
nell’ambito della categoria D, si veda, ex pluribus, Cass. sent. n.
24356/2017).
Pertanto, ferma rimanendo la contrarietà a legge della suddetta revoca di
incarico, anche la sequenza di incarichi esterni affidati dall’ente risulta
in contrasto con le riferite disposizioni normative.
A seguito delle suddette condotte contra ius, il Tribunale di Isernia, con
la richiamata sentenza n. 285/2012, in parziale accoglimento della domanda
del geom. To., ha condannato il Comune di Pettoranello del Molise a
corrispondere al dipendente l’indennità di retribuzione e l’indennità di
risultato nella misura indicata nel decreto del Sindaco n. 930 del 03/04/2000,
dalla data dell’01/02/2001 all’01/06/2004, oltre interessi legali.
L’importo è stato poi rideterminato a seguito di transazione stipulata tra
le parti in data 20/11/2013 (conclusa nonostante il Comune avesse già
proposto appello, in contrasto con la valutazione del suo stesso difensore,
avverso detta sentenza del Tribunale di Isernia), concordando l'importo da
riconoscere al sig. To. in euro 35.350,00 omnicomprensivi, da rateizzare in
tre esercizi finanziari.
In particolare, la Procura ha documentato l’effettivo pagamento di detto
importo, costituente danno erariale, secondo le modalità di seguito
riportate e per un totale di euro 34.624,13:
- per la annualità 2013 a € 11.333,15, pagati il 19.12.2013 su mandati n. 829
(€ 7.030,00), n. 830 (€ 1.865,60), n. 831 (€ 597,55) e n. 832 (€ 1.840,00) del
12.12.2013;
- per la annualità 2014 a € 11.490,98, pagati su mandati n. 703 (€ 1.673,03
pagato il 22.12.2014), n. 705 (€ 597,51 pagato il 22.12.2014), n. 706
(€ 2.190,88 pagato il 17.12.2014 del 2.12.2014, n. 787 del 17.12.2014 (€
7.029,56 pagato il 18.12.2014);
- per la annualità 2015 a € 11.800,00 (acconto di € 8.939,70, come da cedolino di febbraio 2016).
A detto ammontare corrisposto dal Comune al sig. To., la Procura ha
ritenuto di dover assommare, ai fini della quantificazione del danno
erariale, l’importo di euro 3.000,00 liquidato dal Comune con determina del
responsabile del settore finanziario (mandati del 15/02/2013 n. 96 di
€ 2.000,00 e n. 97 € 1.000,00) a vantaggio dell’avv. Co. per la difesa
dinanzi al Tribunale di Isernia, nonché l’importo di euro 345,50 a titolo di
contributo unificato per il deposito del ricorso di appello avverso la più
volte menzionata sentenza del Tribunale di Isernia, per un importo totale
del danno contestato di euro 37.969,63 (euro 34.624,13 + euro 3.000,00 +
euro 345,50).
In proposito, sul terreno della ricostruzione del nesso di causalità, non
può che osservarsi, innanzitutto, che il richiamato danno all'erario risulta
causalmente collegato alla riferita condotta contra ius posta in essere dal
convenuto; infatti ove dette condotte non fossero state poste in essere
(procedimento di c.d. eliminazione mentale) evidentemente non si sarebbe
avuta una sentenza di condanna del Comune (e la transazione, pure posta in
essere successivamente alla scadenza del mandato sindacale del convenuto) e
dunque gli esborsi in questione (in assenza delle specifiche prestazioni
direttive del geom. To.) non si sarebbero realizzati.
Nel contempo, richiamando nozioni generali relative all'illecito colposo,
non può che convenirsi che l'evento dannoso si presenta ictu oculi come
conseguenza prevedibile della lesione del bene giuridico tutelato dalla
norma violata, essendo ovviamente preventivabile l'instaurazione di un
contenzioso (e la probabile condanna dell'Ente) a seguito di provvedimento
illegittimo di revoca di assegnazione di funzioni di responsabile di un
servizio.
Né tanto meno può fondatamente sostenersi che l'intervenuta successiva
transazione (o anche la delibera di riconoscimento di debito fuori
bilancio), in quando adottate da soggetti diversi dal convenuto, abbiano
prodotto l'interruzione del nesso di causalità, tenuto conto che dette
condotte non costituiscono affatto comportamento da solo sufficiente a
determinare l'evento (cfr. art. 41 c.p.) ed anzi non hanno neppure
comportato un mero incremento del danno all'erario conseguente alla condotta
contra ius dell'Ente (e alla correlata condanna patita dal Comune dinanzi al
G.O.).
Tuttavia, ritiene il Collegio che non possa esser ascritto alla condotta del
convenuto l’esborso relativo al contributo unificato per il ricorso in
appello, considerato (non tanto che la decisione di esperire il gravame è
stata assunta da soggetti diversi dal convenuto, ma) che questa è stata
presa nonostante parere contrario del legale incaricato, il quale, con
comunicazione datata 18.03.2013, ha fatto presente all’amministrazione pro tempore in carica che “stante l'accoglimento parziale della domanda attorea, adeguatamente motivata in sentenza, allo stato è opportuno valutare
la ipotesi di non proporre appello principale avverso la predetta Sentenza”.
Pertanto, il danno eziologicamente riconducibile alla condotta del
convenuto, ammonta, ad avviso del Collegio, ad euro 37.624,13.
[4] Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, dall’esame degli atti
emerge, ictu oculi, la gravità della colpa ascrivibile al convenuto.
Invero, l’evidenza del dato normativo relativo al conferimento e alla revoca
di incarichi dirigenziali, insieme con la descritta successione di atti,
evidenzia la grave colpa del Sindaco innanzitutto nell’adozione del decreto
di revoca n. 1792 del 23/06/2000, assunto in carenza dei presupposti di
legge, dopo soli due mesi e mezzo dal provvedimento di conferimento delle
medesime funzioni, adottato dallo stesso Sindaco, nonché addirittura prima
della scadenza del termine assegnato dallo stesso primo cittadino al geom.
To. per la difesa dalle suddette contestazioni.
Peraltro, la gravità del comportamento colposo del convenuto riceve conferma
e rafforzamento anche alla luce della coordinata vicenda relativa
all’intervento del CORECO, e, comunque, al ruolo svolto dal Sindaco nei
consigli comunali in questione, vicenda che evidenzia la piena
consapevolezza (c.d. colpa cosciente) del sig. A.P. in ordine alla
illegittimità dell’affidamento all’esterno degli incarichi in questione,
avendo l’ente a disposizione la professionalità del geom. To..
[5] Quanto alla richiesta applicazione del potere riduttivo, ritiene il
Collegio di potere addivenire ad una sostanziale decurtazione dell'importo
di condanna ex art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994 (e già ex art. 52
del T.U. approvato con R.D. n. 1214/1934, art. 83 del R.D. n. 2440/1923 e
art. 19 del D.P.R. n. 3/1957), tenuto conto della circostanza che, ferma
rimanendo la centralità eziologica della determinazione di revoca, la
convenzione tipo per l'attribuzione dei futuri possibili incarichi esterni è
stata adottata dal consiglio comunale (pur con il ruolo dominante del
Sindaco A.P.) e che gli incarichi esterni sono stati attribuiti dalla
Giunta comunale (pur presieduta dal Sindaco A.P.).
Pertanto, alla luce del complesso delle riferite argomentazioni
giuridico-fattuali, il Collegio, seppure in parziale difformità rispetto al
quantum del danno risarcendo richiesto dall'Organo requirente, ritiene di
dover accogliere la domanda attorea con conseguente condanna del convenuto a
risarcire, a beneficio del Comune di Pettoranello di Molise (IS), il danno
all'erario prodotto nella misura complessiva di euro 25.000,00 (comprensiva
di rivalutazione monetaria sino alla data del deposito della presente
sentenza), oltre interessi come per legge.
[6] Il regime giuridico delle spese di giudizio resta influenzato dal
principio della soccombenza (art. 31 c.g.c.). Esse vengono liquidate, in
favore dello Stato, con nota a margine del funzionario di segreteria.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Molise, disattesa ogni
contraria istanza, deduzione od eccezione, definitivamente pronunciando,
accoglie parzialmente la domanda attorea e per l'effetto condanna il sig.
Pa.An. al risarcimento, a vantaggio del Comune di Pettoranello di Molise,
del danno di euro 25.000,00 comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre
interessi dalla data di deposito della sentenza e sino all'effettivo
pagamento (Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. Molise,
sentenza 24.09.2018 n.
59). |
SEGRETARI COMUNALI: Danno
erariale al segretario che si è liquidato indennità non dovute.
La retribuzione di direttore generale in Comuni con meno di 100mila
abitanti, le indennità di risultato senza che siano stati fissati
precedentemente gli obbiettivi e la retribuzione individuale di anzianità
non dovuta sono le poste di danno attribuite in via diretta al beneficiario
che in qualità di segretario comunale rivestiva una posizione che
costituisce la massima espressione amministrativa di un ente locale.
Queste sono le indicazioni della Corte dei conti della Toscana con la
sentenza
07.09.2018 n. 217.
I fatti contestati
La procura erariale ha contestato al sindaco e al segretario comunale
l'erogazione di compensi non dovuti e in particolare, un'indennità di
direttore generale fuori dai presupposti previsti dalle norme, l'erogazione
della retribuzione di risultato massima nonostante la mancata assegnazione
di obiettivi ex ante e, infine, l'erogazione di una retribuzione individuale
di anzianità interamente recuperabile in quanto avvenuta con occultamento
doloso e quindi non prescritta.
A seguito delle deduzioni del sindaco che aveva anche richiesto un parere a
un avvocato esterno in merito alle indennità corrisposte, la Procura ne ha
escluso la responsabilità concentrando la propria attenzione sul solo
segretario comunale anche in considerazione della sua peculiare posizione di
massima espressione amministrativa di un ente locale.
Il segretario ha
impostato la sua difesa sul maggior danno erariale della Ria evidenziando
l'archiviazione del fatto doloso da parte della procura penale. La Corte dei
conti, ha ribadito l'indipendenza del giudizio contabile su quello penale, e
ha condiviso le proposte di danno erariale così come formulate dalla
procura.
Sulla retribuzione di direttore generale
In merito alla retribuzione aggiuntiva di direttore generale, il collegio
contabile ha rilevato come la figura del direttore generale, che
precedentemente poteva anche essere attribuita al segretario comunale con
specifica indennità, è stata eliminata dalla legge 191/2009 per i comuni con
meno di 100mila abitanti. Pertanto le retribuzioni corrisposte e non dovute,
per gli anni non prescritti, sono state considerate danno erariale da
addebitare alla convenuta.
Sulla retribuzione di risultato
L'altra posta di danno è l'erogazione della retribuzione di risultato che le
disposizioni contrattuali (articolo 42 del Ccnl del 16.05.2001)
correlano al grado di raggiungimento degli obiettivi assegnati con
valutazione dei risultati conseguiti e verifica e definizione di meccanismi
e strumenti di monitoraggio dei costi, dei rendimenti e dei risultati. La
norma richiede la preventiva assegnazione di obiettivi specifici, il
successivo accertamento dei risultati raggiunti e infine la fissazione di
parametri per la corretta misurazione degli stessi risultati.
Alla richiesta della procura di fornire documentazione in merito, il
segretario non ha chiarito in alcun modo i criteri e gli indicatori
utilizzati per la valutazione, in difformità da quanto stabilito sia in sede
amministrativa che giudiziaria (parere Aran n. Seg-026; parere del ministero
dell'Interno 30.11.2012; delibera Corte dei conti Lombardia n. 63/2008
e sentenza Corte dei conti Lazio n. 71/2018).
Sull'importo della Ria
L'ultima posta di danno erariale accertata si riferisce alla maggior quota
di Ria percepita, che sulla base di una certificazione della convenuta era
stata fissata in 167 euro mensili anziché annuali come sarebbe dovuta
essere. La presenza dell'autocertificazione rende dolosa l'attribuzione
della maggiore retribuzione e conseguentemente annulla l'effetto della
prescrizione permettendo quindi di effettuare i conteggi del danno
sull'intero periodo.
In particolare, gli addebiti mossi alla convenuta
partono dall'occultamento doloso e dalla dichiarazione resa all'ente. Il
dolo è configurato non solo nel fatto che il segretario comunale non ha
ottemperato all'obbligo giuridico di informare, ma anche perché ha adottato
comportamenti volti a perpetrare l'inganno comunicando fatti non
corrispondenti al vero e creando un illecito affidamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Chi
altera la timbratura del cartellino risponde anche di danno all'immagine
della PA.
Con la
sentenza
04.09.2018 n. 523, la Sez. II giurisdizionale d’appello
della Corte dei conti fa chiarezza su due questione importanti, relative
alla responsabilità contabile dei cosiddetti «furbetti del cartellino». In
particolare, la Corte ha chiarito tanto la decorrenza della prescrizione del
danno erariale dalla mancata presenza in servizio, quanto i limiti di
imputabilità del danno all’immagine subito dalla Pa, presso la quale
svolgono servizio i dipendenti assenteisti.
L’approfondimento
La Corte dei conti spiega come, nel caso dell’assenteismo, l’occultamento
doloso è attività che, da chiunque commessa, va considerata nel suo
significato oggettivo in ordine alla decorrenza della prescrizione per tutti
i soggetti partecipi del danno erariale, seppure in termini di colpa grave.
Ciò in quanto quella attività si pone come impedimento di ordine giuridico
all’esercizio del diritto. L’articolo 1, comma 2, della legge n. 20/1994,
infatti, non fa alcun riferimento ad un’attività di occultamento effettuata
dal debitore, diversamente dall’articolo 2941, comma 1, n. 8, c.c. («La
prescrizione rimane sospesa: (…) tra il debitore che ha dolosamente
occultato l’esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia
scoperto»), per cui il «doloso occultamento» è una fattispecie rilevante non
tanto soggettivamente (in relazione ad una condotta occultatrice posta in
essere dal debitore), ma obiettivamente (in relazione all’impossibilità
dell’Amministrazione di conoscere il danno e, quindi, di azionarlo in
giudizio ex articolo 2935 c.c.).
Nel caso di occultamento doloso, il termine
di decorrenza della prescrizione non può che agganciarsi alla data della
scoperta del fatto, poiché, quando ricorre una fattispecie di fatto
delittuoso in cui si deve ritenere in re ipsa la sussistenza di un doloso
occultamento del danno, ciò «comporta un obiettivo impedimento ad agire di
carattere giuridico e non di mero fatto».
L’azione contabile, peraltro, può essere iniziata non allorché il fatto
viene meramente scoperto, ma solo da quando esso assume una sua concreta
qualificazione giuridica, atta ad identificarlo come presupposto di una
fattispecie dannosa. I fatti materiali dannosi aventi rilevanza penale, ad
esempio, assumono una concreta qualificazione giuridica –normalmente– al
momento dell’emissione del rinvio a giudizio in sede penale (per cui scatta
l’obbligo di informativa ai sensi dell’articolo 129, comma 3, disp. att.
c.p.p.), non rilevando neppure un’eventuale e mera notizia del fatto.
Il danno all’immagine della Pa
In relazione al danno all’immagine, prodotto a carico della Pa per
l’assenteismo dei propri infedeli dipendenti, questo si verifica qualora i
comportamenti contestati non consistano in assenze dissimulate per intere
giornate, ma in un esiguo monte di ore, evidentemente corrispondenti ad
allontanamenti dall’ufficio o ritardi in ingresso, ed in relazione ai quali
non soccorre, tuttavia, un supporto indiziario strutturato, adeguato ed
idoneo ad assurgere a prova del fatto che le differenze tra i files day del
sistema informatizzato e le autodichiarazioni richieste siano il risultato
di un comportamento finalizzato alla frode ed al profitto, piuttosto che il
margine accettabile ed inevitabile di non concordanza tra un sistema
automatizzato di registrazione delle presenze e le autodichiarazioni ex post
richieste a soggetti sollecitati ad uno sforzo di memoria, perciò solo
fallibile, in merito alle presenze in ufficio nei mesi precedenti.
Nello specifico del danno all’immagine emerge una interpretazione non
corretta dell’articolo 55-quinquies del Dlgs n. 165/2001 (introdotto
dall’articolo 69, del Dlgs n. 150/2009) per il quale è tenuto al
risarcimento del danno all’immagine subito dall’amministrazione il
«lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta
falsamente la propria presenza in servizio mediante alterazione dei sistemi
di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente».
Per cui, ogni qualvolta non vi sarebbe stata alcuna alterazione dei sistemi
di rilevamento, non conseguirebbe responsabilità per danno all’immagine. La
giurisprudenza della Corte (Sezione III, n. 64/2018, 542/2016, 440/2015 e
Sezione I, n. 262/2016 e 476/2015), invece, è orientata nel senso di
ritenere integrata la fattispecie nella falsa attestazione della presenza
che avvenga tanto con l’alterazione dei sistemi di rilevamento della
presenza o con altre modalità fraudolente, ma anche con altri comportamenti
quali quello di giustificare l’assenza dal servizio mediante falsa
certificazione medica o falsa attestazione di uno stato di malattia, che non
implicano una manomissione della strumentazione di rilevazione delle
presenze, che rappresenta un elemento rafforzativo dell’atteggiamento
soggettivo dell’agente nell’assumere la condotta.
Nel caso, peraltro, in cui il comportamento illecito è stato solo disvelato
attraverso le autodichiarazioni, ma le false attestazioni della presenza
sono frutto di una precedente non corretta marcatura dell’apposito
cartellino segnatempo valutata in termini dolosi, è, quindi, tale da potersi
applicare la normativa particolare prevista dall’articolo 55-quinquies del
Dlgs n. 165/2001
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Fondo rotativo per le demolizioni abusive è indebitamento.
La Corte dei conti, sezione controllo per Campania, con il
parere 01.08.2018 n.
100, ha affrontato la questione della qualificazione e del trattamento
contabile del fondo rotativo previsto dell'articolo 32, comma 12, del
decreto legge 269/2003, per dare copertura alle spese per demolizioni
giudiziali e amministrative di opere abusive.
Caso e quadro normativo
La norma prevede l'istituzione del «Fondo per le demolizioni delle opere
abusive», finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza interessi,
per finanziare i costi degli interventi di demolizione delle opere abusive.
Stabilisce, inoltre, che le anticipazioni siano restituite al fondo al
massimo in cinque anni, grazie alle somme riscosse dagli esecutori degli
abusi.
In caso di mancato rimborso, il Comune procede alla riscossione
mediante ruolo. Qualora le somme anticipate non siano restituite, il
ministro dell'Interno provvede al rimborso alla Cassa depositi e prestiti,
trattenendo le somme dai trasferimenti erariali in favore dei Comuni.
Un sindaco campano ha chiesto chiarimenti circa le modalità di
contabilizzazione del fondo rotativo e, in particolare, se questo possa
qualificarsi come «partita di giro», dunque non tra le forme d'indebitamento
e neutro ai fini equilibri di bilancio.
La decisione
La Corte ricorda che la Cassa depositi e prestiti ha disciplinato il
funzionamento del fondo, prevedendo, fra le altre cose, l'obbligo del
rilascio da parte del Comune richiedente della delegazione di pagamento
irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre
titoli del bilancio annuale, come previsto dall'articolo 206 del Tuel,
relativo all'esercizio nel quale è stato previsto il ricorso
all'anticipazione.
La Corte non ha condiviso la tesi del Comune che ritiene che l'istituto in
esame sia soltanto una partita di giro, ma, secondo l'interpretazione
unanime della magistratura contabile, lo qualifica come una forma
d'indebitamento sottoposta a tutti i limiti di legge, inclusi quelli che ne
vietano l'utilizzo agli enti in dissesto.
La Corte, infatti, ha già chiarito in passato che il Fondo ha natura di
strumento di finanziamento per le Pa locali, che sono tenute alla
restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e prestiti
indipendentemente dal recupero o meno le somme necessarie per la demolizione
dell'opera abusiva. Qualora non provvedano direttamente, il ministero
dell'Interno deve eseguire il versamento alla Cassa depositi e prestiti e,
in seguito, trattenere l'importo, comprensivo delle spese, da ogni
trasferimento di competenza degli enti locali inadempienti.
I precedenti
Già il
parere 11.04.2013 n. 76 della Sezione controllo del Piemonte ha
precisato che la natura di anticipazione e l'obbligo di restituzione, sia
pure senza interessi, implicano che le somme del «Fondo per le demolizioni
delle opere abusive» rientrino fra le forme d'indebitamento ai sensi
dell'articolo 202 del Tuel. La stessa Cassa depositi e prestiti prevede il
rilascio da parte degli enti locali della delegazione di pagamento prevista
dall'articolo 206 del Tuel, quale garanzia del pagamento delle rate di
ammortamento dei mutui e dei prestiti.
Le risorse del fondo rotativo, dunque, non possono essere considerate alla
stregua di «trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico»,
poiché si tratta di un finanziamento con specifica destinazione e con
obbligo di restituzione. Le risorse provenienti dal fondo devono essere
allocate, quindi al Titolo V dell'entrata e, riguardo al loro utilizzo, si
applicano tutte le disposizioni in materia d'indebitamento e di pareggio di
bilancio.
Sulla stessa scia si pongono le Sezioni riunite per la Regione Sicilia in
sede consultiva (parere
08.03.2013 n. 14), per le quali il fondo costituisce
una vera e propria forma d'indebitamento ai sensi dell'articolo 3, comma 17,
della legge 350/2003. Ne deriva il divieto di utilizzo in caso di ricorso
alla procedura di riequilibrio disciplinata dall'articolo 243-bis del Tuel.
Le conseguenze
La Sezione Campania, pertanto, anche tenuto conto della delegazione di
pagamento, conferma che la natura di anticipazione e l'obbligo di
restituzione, sia pure in assenza d'interessi, implica che le somme del
fondo rientrino fra le forme d'indebitamento disciplinate dall'articolo 202
del Tuel.
Di conseguenza, il Comune dissestato non può, sino al ritorno in bonis, attivare il fondo rotativo, trattandosi di operazione comportante
risorse aggiuntive e spese per le quali non è prevista alcuna copertura
certa in bilancio. Quest'operazione, pertanto, non può qualificarsi come
partita di giro. Nelle partite di giro e nei servizi in conto terzi,
difatti, l'entrata o l'uscita finanziaria è obbligatoriamente correlata a
equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
Da ciò deriva, tanto nei vecchi come nei nuovi principi contabili, la
sostanziale neutralità dell'operazione, nel senso che entrate e spese si
equivalgono, le prime coprendo esattamente le seconde. Nel caso del fondo
rotativo, invece, se chi ha commesso l'illecito edilizio non ottempera al
pagamento dei costi per la demolizione forzata, il Comune è obbligato a
pagare le spese, mentre le somme versate dalla Cassa depositi e prestiti
costituiscono una semplice “anticipazione” per far fronte a una momentanea
carenza di liquidità, con ciò escludendosi la possibile qualificazione
dell'istituto come partita di giro.
L'attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura alle demolizioni
giudiziali rappresenta, a fronte di un recupero solo aleatorio, dunque un
vero e proprio indebitamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2018).
---------------
MASSIMA
La Sezione non condivide la prospettazione del
comune rogante per la quale l'istituto del fondo rotativo presso la cassa
depositi e Prestiti di cui all'art.
32, co. 12, d.l. n. 269/2003, conv. da l. n. 326/2003 al fine di
garantire copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) sia solo
una partita di giro che non incide sugli equilibri presenti e futuri di
bilancio.
Aderisce all'interpretazione unanime della Corte dei conti che lo colloca
all'interno della categoria dell'indebitamento, sottoposta a tutti i limiti
di legge, inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto.
La Sezione ribadisce dunque che la natura di anticipazione e l'obbligo di
restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica che le somme del
"Fondo per le demolizioni delle opere abusive" erogate dalla CDP s.p.a.
rientrano fra le forme di indebitamento ex art. 202 del Tuel.
Al comune, laddove dichiarato dissestato, è preclusa, sino al ritorno in
bonis, l'attivazione del fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o
amministrative, trattandosi di operazione comportante risorse aggiuntive e
spese per le quali non è prevista alcuna copertura certa in bilancio.
---------------
Il Sindaco del Comune di Lacco Ameno (NA) chiede lumi in merito alla
interpretazione dell’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003, convertito
dalla legge n. 326/2003 e, in particolare, se l’attivazione del “fondo
rotativo presso la cassa depositi e Prestiti di cui all’art. 32, comma 12,
del d.l. n. 269/2003, convertito dalla l. n. 326/2003 al fine di garantire
copertura e spesa alle demolizioni giudiziali (R.E.S.A.) e amministrative
(in numero rilevante), può qualificarsi come “partita di giro”, non
rientrante, in quanto tale, tra le forme di indebitamento previste, con
conseguente sua irrilevanza sugli equilibri finanziari ed economici presenti
e futuri di un comune, quale il comune di Lacco Ameno, con un cospicuo
numero di procedimenti demolitori da evadere e già soggetto alla procedura
di dissesto finanziario”.
Il Sindaco reputa che “le risorse che provengono dal “Fondo per le
demolizioni delle opere abusive" non possano essere considerate alla stregua
di 'trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico", poiché le
stesse danno luogo a un finanziamento avente una specifica destinazione, con
obbligo irrevocabile di restituzione, la cui copertura non è garantita
(essendo il recupero delle somme dal condannato-esecutato incerto ed
occasionale, condizionalo dalla sua concreta solvibilità)” ed evidenzia
che:
“a) la stessa Cassa depositi e prestiti, nella della disciplina
contrattuale alla quale subordina l'accesso al fondo, prevede espressamente
il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento
irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre
titoli del bilancio annuale, prevista dall'art, 206 del citato T.U. quale
garanzia del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti;
b) ad analoghe conclusioni sulla natura del trasferimento in
questione perviene la Commissione ARCONET (Armonizzazione contabile degli
Enti territoriali) nel suo parere del 13.04.2016 reso ai sensi dell’art.
3-bis del decreto legislativo n. 118 del 2011 corretto e integrato dal
decreto legislativo n. 126 del 2014”.
...
C. Venendo all’esame del merito della questione proposta, la disposizione
recata dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269/2003 citato in epigrafe, ha
introdotto nell'ordinamento nuove «misure per la riqualificazione
urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività
di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli
illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali».
Nell'ambito di tali misure, il comma 12 ha autorizzato la Cassa depositi e
prestiti S.p.A. a costituire un Fondo di rotazione dell’importo massimo di
50 milioni di euro, denominato “Fondo per le demolizioni delle opere
abusive”, finalizzato a concedere ai Comuni anticipazioni, senza
interessi, per finanziare i costi relativi agli interventi di demolizione
delle opere abusive: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del
presente decreto la Cassa depositi e prestiti è autorizzata a mettere a
disposizione l'importo massimo di 50 milioni di euro per la costituzione,
presso la Cassa stessa, di un Fondo di rotazione denominato Fondo per le
demolizioni delle opere abusive per la concessione ai Comuni e ai soggetti
titolari dei poteri di cui all'articolo 27, comma 2, del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, anche avvalendosi delle modalità di cui all’articolo 2, comma 55,
della legge 23.12.1996, n. 662, e all’articolo 41, comma 4, del decreto
legislativo 06.06.2001, n. 380, di anticipazioni, senza interessi, sui costi
relativi agli interventi di demolizione delle opere abusive anche disposti
dall'Autorità giudiziaria e per le spese giudiziarie, tecniche e
amministrative connesse. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente
quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in
un periodo massimo di cinque anni, secondo modalità e condizioni stabilite
con decreto del ministro dell'Economia e delle finanze, di concerto con il
ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, utilizzando le somme riscosse
a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo
del credito l'amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante
ruolo ai sensi del decreto legislativo 26.02.1999, n. 46. Qualora le somme
anticipate non siano rimborsate nei tempi e nelle modalità stabilite, il
ministro dell'Interno provvede al reintegro alla Cassa depositi e prestiti,
trattenendone le relative somme dai fondi del bilancio dello Stato da
trasferire a qualsiasi titolo ai comuni.".
Questa Sezione non condivide la prospettazione del comune
rogante che reputa che l’istituto in esame sia soltanto una partita di giro
che non incide sugli equilibri presenti e futuri di bilancio e aderisce
all’interpretazione unanime della Corte dei conti
-di seguito richiamata- che lo colloca all’interno della
categoria dell’indebitamento, sottoposta a tutti i relativi limiti di legge,
inclusi quelli preclusivi per gli enti in dissesto
come Lacco Ameno.
La Corte dei conti ha già chiarito in passato la natura del
Fondo quale strumento di finanziamento per le Amministrazioni locali che
sono tenute alla restituzione di quanto ricevuto dalla Cassa depositi e
prestiti S.p.A. indipendentemente dalla circostanza che abbiano recuperato o
meno le somme necessarie per la demolizione dell’opera abusiva. Qualora non
provvedano direttamente, il Ministero dell’Interno deve effettuare il
versamento alla Cassa depositi e prestiti S.p.A. e, successivamente,
trattenere l’importo, comprensivo delle spese, da ogni trasferimento di
pertinenza degli Enti locali inadempienti
(cfr.
parere 11.04.2013 n. 76 Sezione controllo per il Piemonte).
“La natura di anticipazione e l’obbligo di restituzione, sia pure in
assenza di interessi, implica che le somme del “Fondo per le demolizioni
delle opere abusive” erogate dalla Cassa depositi e prestiti S.p.A.
rientrino fra le forme di indebitamento alle quali possono ricorrere gli
Enti locali ai sensi dell’art. 202 del TUEL. A questa conclusione, peraltro,
è giunta anche la Cassa depositi e prestiti S.p.A. che nell’ambito della
disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al fondo prevede il
rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di Pagamento
irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate afferenti ai primi tre
titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206 del TUEL, quale garanzia
del pagamento delle rate di ammortamento dei mutui e dei prestiti.
Conseguentemente, le risorse che provengono dal “Fondo per le demolizioni
delle opere abusive” non possono essere considerate alla stregua di
“trasferimenti di capitale da altri enti del settore pubblico” poiché si
tratta di un finanziamento avente una specifica destinazione, con obbligo
irrevocabile di restituzione. Le risorse provenienti dal “Fondo per le
demolizioni delle opere abusive” devono essere allocate, quindi al Titolo V
dell’entrata e in relazione al loro utilizzo si applicano tutte le
disposizioni in materia di indebitamento e di Patto di stabilità interno
attualmente previste” (cfr.
parere 11.04.2013 n. 76 cit.).
Anche le Sezioni riunite per la regione siciliana in sede consultiva (cfr.
parere 08.03.2013 n. 14) hanno trattato dell’istituto in esame
evidenziando come “l’accesso al Fondo di rotazione che
qui ci occupa, realizza, come di tutta evidenza, un’operazione che comporta
l’acquisizione di risorse aggiuntive, per effettuare spese per le quali non
é già prevista idonea copertura di bilancio” e che “Tale operazione,
esente da corresponsione di interessi passivi ma gravata di una quota delle
spese di gestione del Fondo, fa sorgere un’obbligazione debitoria a carico
del Comune, suscettibile di esecuzione per compensazione da parte del
Ministero dell’Interno, a carico di qualsiasi altro trasferimento a favore
degli enti locali previsto dalla legge, che prescinde dall’effettivo
recupero di tali somme, da parte dell’ente locale, in danno dei soggetti
obbligati alla demolizione”.
In base della considerazione per cui l’eventuale ricorso al Fondo di cui
all’art. 32, comma 12, del D.L. n. 269/2003, convertito dalla legge n.
326/2003, come una vera e propria forma di indebitamento, per come sopra
specificato, la predetta sezione della Corte riteneva che esso deve
ritenersi precluso in presenza dell’avvenuta attivazione della procedura di
riequilibrio di cui all’art. 243-bis, del T.U. n. 267/2000 (cfr. Sezioni
riunite per la regione siciliana in sede consultiva,
parere 08.03.2013 n. 14).
Va ribadita pertanto che la natura di anticipazione e
l’obbligo di restituzione, sia pure in assenza di interessi, implica,
comunque, che le somme del “Fondo per le demolizioni delle opere abusive”
erogate dalla Cassa depositi e prestiti s.p.a. rientrino fra le forme di
indebitamento di cui all’art. 202 del T.U. n. 267 del 2000.
Del medesimo avviso è, peraltro, anche la Cassa depositi e prestiti che,
nell’ambito della disciplina contrattuale alla quale subordina l’accesso al
fondo, prevede il rilascio da parte degli Enti locali della Delegazione di
Pagamento irrevocabile e pro solvendo a valere sulle entrate
afferenti ai primi tre titoli del bilancio annuale, prevista dall’art. 206
del citato.
Ciò premesso è evidente che al comune, laddove dichiarato
dissestato, è preclusa, sino al ritorno in bonis, l’attivazione del
fondo rotativo per le demolizioni giudiziali o amministrative, trattandosi
di operazione comportante risorse aggiuntive e spese per le quali non è
prevista alcuna copertura certa in bilancio.
La predetta operazione non può qualificarsi come “partita
di giro”, locuzione che contraddistingue, nella contabilità finanziaria
di un ente pubblico, l’entrata o l’uscita finanziaria correlata a
equivalente e connessa uscita o entrata finanziaria.
E’ da precisare che nelle partite di giro così come nelle partite per conto
terzi vi è una sostanziale neutralità dell’operazione, nel senso che entrate
e spese si equivalgono ovvero le prime coprono esattamente le seconde; tanto
si ricava anche dai nuovi principi contabili che sanciscono quanto segue: ”La
necessità di garantire e verificare l’equivalenza tra gli accertamenti e gli
impegni riguardanti le partite di giro o le operazioni per conto terzi,
attraverso l’accertamento di entrate cui deve corrispondere,
necessariamente, l’impegno di spese correlate (e viceversa) richiede che, in
deroga al principio generale n. 16 della competenza finanziaria, le
obbligazioni giuridicamente perfezionate attive e passive che danno luogo a
entrate e spese riguardanti le partite di giro e le operazioni per conto
terzi, siano registrate ed imputate all’esercizio in cui l’obbligazione è
perfezionata e non all’esercizio in cui l’obbligazione è esigibile”
(Allegato A/2, n. 4/2, al D.Lgs. 118/2011 PRINCIPIO CONTABILE APPLICATO
CONCERNENTE LA CONTABILITA’ FINANZIARIA, 7.2).
Nella fattispecie oggetto del parere se chi ha commesso
l’illecito edilizio non ottempera al pagamento delle spese di demolizione
forzata (caso frequente), è onere del Comune pagare le predette spese mentre
le somme versate dalla cassa depositi e Prestiti costituiscono una semplice
“anticipazione” per far fronte a momentanea carenza di liquidità.
Anche da questo punto di vista, è da escludere che tale anticipazione possa
considerarsi una partita di giro.
L’attivazione del fondo rotativo al fine di dare copertura
alle demolizioni giudiziali equivale, pertanto, a fronte di un recupero solo
aleatorio, un vero e proprio indebitamento suscettibile di alimentare, in
futuro, le condizioni di una nuova crisi finanziaria che il comune stesso,
mediante la procedura di risanamento, è obbligato ad evitare
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 01.08.2018 n.
100).
|
INCARICHI PROFESSIONALI: La
giurisprudenza contabile, nel tempo, ha elaborato una serie di principi e
criteri direttivi in materia di affidamento di incarichi di studio e
consulenza a soggetti esterni all'amministrazione e cioè:
a) il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che
richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto non implicante
svolgimento di attività continuativa, ma, anzi, la soluzione di specifiche
problematiche già individuate al momento del conferimento dell'incarico del
quale debbono costituire l'oggetto;
c) l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità
e della temporaneità;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare
fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente; e) il
compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta
e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
g) l'incarico non deve essere generico od indeterminato;
h) i criteri di conferimento non debbono essere generici; ne
consegue l'illegittimità e la sussistenza di un danno erariale a fronte di
un incarico assolutamente generico e non motivato.
---------------
1. Nel merito, con motivi sostanzialmente riproduttivi delle difese svolte
in primo grado, e del medesimo tenore (tranne che per un aspetto riguardante
l'appellante Bi.Lo., per quanto appresso si dirà) gli appellanti sostengono
la legittimità e l'opportunità degli incarichi di consulenza affidati
all'avv. Mi., alla luce da un lato del licenziamento per giusta causa del
dirigente dott. Lu.Mu. e, dall'altro, della rispondenza degli incarichi
conferiti e delle relative determine ai criteri stabiliti dall'art. 7, comma
6, del d.lgs. n. 165 del 2001.
I motivi, come sottolineato dalla Corte di primo grado, sono infondati.
In un breve ma doveroso excursus della normativa in
materia di incarichi esterni conferiti dalle Pubbliche Amministrazioni, la
legislazione di riferimento si è evoluta da ipotesi residuali e frammentarie
(art. 380 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3 - T.U. sugli impiegati civili dello
Stato, in materia di incarichi conferiti da ministri a professori
universitari ed esperti; art. 1 del D.P.R. 28.05.1981, n. 247; l'art. 1 del
d.l. 26.11.1981, n. 678, conv. con legge 26.01.1982, n. 12, sul blocco degli
organici delle USL; infine, l'art. 14, comma 8, della legge 20.05.1985, n.
207, recante la disciplina transitoria per l'inquadramento del personale non
di ruolo delle (ex) USL) a ipotesi generalizzate a tutto il
settore pubblico, disciplinando regole e princìpi che peraltro già da
diversi anni avevano trovato ampia considerazione nella giurisprudenza
contabile.
Nel riportarsi all'ampia descrizione della materia contenuta nella sentenza
di primo grado (e prima ancora nella decisione di questa Sezione centrale di
Appello n. 611 del 2012), merita in questa sede ricordare che
negli ultimi anni il legislatore è intervenuto più volte in sede di
legge finanziaria -artt. 34 della
legge 27.12.2002, n. 289 e 3 della legge 24.12.2003, n. 350-
con disposizioni restrittive ai fini del contenimento della spesa;
sempre al medesimo scopo di contenere le relative spese, l’articolo 1, commi
9 e 11, del d.l. 12.07.2004, n. 168, convertito con legge 30.07.2004, n.
191, poneva un limite alla spesa per gli incarichi per le regioni, le
province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, prevedendo
altresì che l’affidamento d’incarichi, in assenza dei presupposti stabiliti
dall’articolo 1, comma 9, “… costituisce illecito disciplinare e
determina responsabilità erariale”.
In ordine a tale normativa è intervenuta la
circolare 15.07.2004 n. 4 della Funzione pubblica, nella quale si
afferma (in piena sintonia con la
giurisprudenza della Corte dei conti nella materia, puntualmente richiamata)
la possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione solo per
prestazioni di elevata professionalità, contraddistinte da una elevata
autonomia nel loro svolgimento, tale da caratterizzarle quali prestazioni di
lavoro autonomo; l’affidamento dell’incarico a terzi può, dunque, avvenire
solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non sia in grado di far fronte ad
una particolare e temporanea esigenza con le risorse professionali presenti
in quel momento al suo interno.
Le disposizioni dei commi 9 e 11 dell’articolo 1 della legge n. 191/2004
sono state sostituite, a decorrere dal 01.01.2005, dall’articolo 1, commi 11
e 42, della legge 30.12.2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), il cui
contenuto è stato peraltro illustrato dalle SS.RR. della Corte dei conti,
con deliberazione n. 6/2005, “Linee di indirizzo e criteri interpretativi
sulle disposizioni della legge 30.12.2004, n. 311 (finanziaria 2005) in
materia di affidamento d’incarichi di studio o di ricerca ovvero di
consulenza (art. 1, commi 11 e 42)”.
Più in particolare, il comma 11, che si applica alle pubbliche
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, dispone
che il conferimento dell’incarico deve essere adeguatamente
motivato ed “… è possibile soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero
nelle ipotesi di eventi straordinari”.
Le amministrazioni statali, gli enti pubblici nazionali non economici e le
regioni possono, quindi, conferire incarichi esterni solo nei casi previsti
dalla legge nazionale o dalle leggi regionali, salvi gli eventi
straordinari. La norma ha poi confermato il limite della spesa per il
conferimento degli incarichi esterni, determinandolo nell’importo erogato
per lo stesso oggetto nel 2004.
Più di recente, l'esigenza di contenimento della spesa pubblica ha originato
numerosi interventi legislativi (D.L. n. 223/2006, convertito con L. n.
248/2006), il decreto sullo sviluppo economico (D.L. 112/2008, conv. in
legge n. 133/2008), il decreto legislativo c.d. Brunetta, n. 150/2009, il
D.L. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010.
I principi recati da tali ultime normative –che sostanzialmente confermano,
seppure con ulteriori vincoli e limitazioni, quelli già in vigore– sono
stati oggetto anch’essi di apposita
deliberazione 24.04.2008 n. 6 della Corte dei conti, Sezione
delle autonomie, che ha precisato i criteri interpretativi delle nuove
norme.
La giurisprudenza contabile, nel tempo, ha elaborato una
serie di principi e criteri direttivi in materia di affidamento di incarichi
di studio e consulenza a soggetti esterni all'amministrazione:
a) il conferimento dell'incarico deve essere legato a problemi che
richiedono conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze;
b) l'incarico deve caratterizzarsi in quanto non implicante
svolgimento di attività continuativa, ma, anzi, la soluzione di specifiche
problematiche già individuate al momento del conferimento dell'incarico del
quale debbono costituire l'oggetto;
c) l'incarico deve presentare le caratteristiche della specificità
e della temporaneità;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare
fittiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente; e) il
compenso connesso all'incarico deve essere proporzionale all'attività svolta
e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata;
g) l'incarico non deve essere generico od indeterminato;
h) i criteri di conferimento non debbono essere generici; ne
consegue l'illegittimità e la sussistenza di un danno erariale a fronte di
un incarico assolutamente generico e non motivato
(Corte dei conti, Sez. I app., 02.09.2008, n. 393, 17.09.2007, n. 248 e
31.05.2005, n. 187; Sez. II, 11.06.2001, n. 208; Sez. III, 06.02.2006, n. 74
e 13.04.2005 n. 183; Sez. sic. appello, 02.04.2002, n. 46 e 01.08.2000, n.
100; SS.RR., 12.06.1998, n. 27).
Anche la Sezione controllo enti di questa Corte, già nella deliberazione
22.07.1994, n. 33, aveva rappresentato la necessità di evitare che
l’affidamento di incarichi a terzi si traducesse in forme atipiche di
assunzione, con la conseguente elusione delle disposizioni sul reclutamento
e delle norme in materia di contenimento della spesa.
Alla luce della rassegna normativa e giurisprudenziale sopra richiamata, le
determine di conferimento e gli incarichi che ne sono oggetto non rispondono
ai criteri sopra indicati.
Infatti, come posto in evidenza nella decisione impugnata, essi
riguardavano, sostanzialmente, un'attività amministrativa, ossia di studio
delle possibili vertenze che potevano scaturire dai rapporti contrattuali
facenti capo al Consiglio regionale, nonché –per come si desume dalle
dichiarazioni dell'avv. Mi. e dal contratto– una serie di attività di
supporto, alquanto generiche, all'attività contrattuale o all'esecuzione di
sentenze della Giustizia amministrativa o di precedenti rapporti
contrattuali, oltre a varie attività di assistenza legale e di supporto
tecnico al datore di lavoro, anche per l'affidamento di contratti.
A tale proposito non si fa alcun riferimento, né nelle delibere di
conferimento, né nelle dichiarazioni del Mi., alla necessità di riordinare
il settore precedentemente diretto dal dott. Mu., licenziato senza
preavviso, necessità a cui si sarebbe dovuto porre rimedio con un'idonea
copertura di organico ovvero con la riorganizzazione del settore
dirigenziale, come, poi, è avvenuto.
Mancano, quindi, tutti gli elementi che permetterebbero di connotare come di
alta specificità ovvero straordinarietà il conferimento al consulente di
tali compiti, come, pure, la limitazione a periodi ristretti, poiché
l'incarico di fatto è continuato per oltre un anno, e senza rilevare quello,
non oggetto del giudizio, protrattosi nel corso del 2007, apparendo, quindi,
un modo surrettizio per comare il vuoto di organico determinatosi.
D'altro canto, non risponde neppure a verità che l'Avvocatura regionale
avesse l'obbligo di rendere pareri e consulenze esclusivamente nei confronti
della Giunta, con esclusione di altri organi ed enti regionali. Se è vero,
infatti, che la L.R. n. 11 del 1991 disciplina l'ordinamento amministrativo
della Giunta regionale e individua l'Avvocatura come servizio di quest'ultima,
è anche vero che l'Avvocatura poteva rendere pareri legali, a richiesta
degli organi, aree e settori dell'ente, in ordine a problemi giuridici
derivanti dall'applicazione di leggi e di regolamenti, attività legali con
rilevanza interna ed esterna, e similari.
Sarebbe, infatti, paradossale escludere il possibile intervento
dell'Avvocatura “Regionale” dall'attività di ausilio del Consiglio
regionale e ammettere, per converso, la legittimità di contratti a tempo
determinato con consulenti esterni, in contrasto con le finalità di
contenimento della spesa come sopra ricordate e di autosufficienza delle
pubbliche amministrazioni.
L'assenza in organico di figure idonee per l'espletamento dell'incarico,
assunta dagli appellanti, non è rilevante in questa sede, perché, pur
prendendo atto dell'esiguità del personale addetto al Consiglio, va
sottolineato che si trattava di personale che non avrebbe mai potuto
trattare le questioni oggetto della consulenza, che presupponevano un
adeguato titolo di studio e dovevano, quindi, essere appannaggio di una
figura dirigenziale ovvero dell'Avvocatura.
Gli appellanti non avrebbero dovuto limitarsi, come peraltro hanno fatto
solo ex post, a lamentare genericamente l'esiguità dell'organico del
personale, ma avrebbero dovuto indicare –come ben esposto nell'atto di
citazione– i motivi per i quali le attività consulenziali non potevano
essere svolti dal Servizio Programmi e contratti, retto, tra l'altro, dalla
dott.ssa Bi., ovvero dall'Avvocatura regionale, che non è stata neppure
richiesta di fornire assistenza in merito.
L'appellante Bi. lamenta, tra l’altro, anche l’assenza del nesso eziologico
tra la sua condotta e il supposto danno, sostenendo l’estraneità agli atti “genetici”
di conferimento dell’incarico (determina n. 91/VIII del 21.02.2008 e
relativa e coeva convenzione), mentre la successiva determina n. 283/VIII
del 10.07.2008 sarebbe una mera conseguenza di quella emessa dal Dirigente
del settore amministrazione n. 249 del 20.06.2008.
Tale conclusione non può essere condivisa, poiché tramite la determina da
lei firmata, assieme al dott. Si., è stata resa esecutiva la precedente
attività e quindi la condotta della Bianco si inserisce nella sequenza
causale con apporto fattivo e decisivo.
In ordine all’elemento soggettivo, la sentenza impugnata non merita le
censure descritte negli atti di appello.
Mette conto sottolineare la particolare competenza degli appellanti,
dirigente di Settore il primo e dell’Ufficio contratti la seconda, con
conseguente doverosa conoscenza delle norme di legge e di regolamento e
della disciplina degli incarichi esterni.
Trattasi, a tutta evidenza, di attività contra legem, per giunta
reiterata nel tempo e addirittura con un conferimento di incarico
antecedente rispetto alla determina di affidamento, per come si legge nella
determina n. 91 del 21.02.2008, che sottolineava che, con decorrenza
01.01.2008, il consulente aveva già cominciato a prestare la propria opera
professionale.
Quindi, sono del tutto pretestuosi i motivi di entrambi gli appellanti,
volti a censurare l’asserita carenza motivazionale della sentenza di primo
grado al riguardo
(Corte dei Conti, Sez. I centrale
d'appello,
sentenza
18.04.2017 n. 112). |
EDILIZIA PRIVATA -
PATRIMONIO - URBANISTICA: Nel
rispetto della disciplina vincolistica di settore anche di
livello regionale, nel corso dell’esercizio 2017, i proventi
connessi agli oneri di urbanizzazione e alla monetizzazione
degli standard qualitativi aggiuntivi possono essere
utilizzati per finanziare una spesa in conto capitale.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge
regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua
declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge
regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una
prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime
richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o
da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali
dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da
parte del comune, che “tale soluzione sia la più
funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma
dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in
cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
Ne consegue che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei
predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica
–da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse
pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi e destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano.
---------------
Il Sindaco del Comune di Novedrate (CO) -dopo aver
rappresentato che tra gli obiettivi strategici dell’azione
amministrativa rientra l’acquisizione al patrimonio comunale
del fabbricato storico denominato “Villa Casana”,
della Cappella Gentilizia e del parco circostante
attualmente di proprietà privata da conseguire mediante la
permuta di un’area comunale posta all’interno dell’area di
trasformazione afferente all’obiettivo strategico in cui la
complessiva operazione si inscrive e dopo aver, altresì,
ricordato che il Comune risulta tenuto al versamento anche
di una somma pari alla differenza di valore fra i beni
immobili oggetto di permuta– ha rivolto alla Sezione il
seguente quesito:
“se è possibile far fronte alla suddetta differenza di
valore utilizzando all’uopo lo standard qualitativo
aggiuntivo pari ad euro 300.000,00, il fondo per il Centro
storico nella misura del 3% ed i proventi da permessi di
costruire (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione)
che il privato dovrà versare nelle casse dell’Ente per la
realizzazione dell’intervento edilizio programmato. Si
precisa, nel contempo, che è intenzione delle parti
sottoscrivere il contratto di permuta entro il corrente anno
stante l’utilizzo per fini tipici degli oneri di
urbanizzazione previsto a decorrere dall'esercizio 2018
dalla Legge n. 232/2016, articolo 1, commi 460-461”.
...
2. Giova preliminarmente evidenziare come la materia oggetto del
quesito in esame è stata, di recente, oggetto, nei suoi
principi generali, di analisi da parte di questa Sezione
nella deliberazione n. 81/2017/PAR. Facendo applicazione dei
principi affermati in tale pronuncia, deve preliminarmente
ricordarsi, sul piano generale, che, nei principi contabili
generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118
(allegato 1) si esplicita che:
- “è il complesso unitario delle entrate che finanzia
l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la
totalità delle sue spese durante la gestione”;
- “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al
finanziamento di spese di investimento”.
Nei predetti principi, dunque, viene ribadito il divieto di
finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che
trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il
mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali
espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
2.1. Ciò premesso, essendo l’operazione di permuta sopra
richiamata finalizzata all’acquisizione al patrimonio
comunale di un fabbricato storico e di alcune pertinenze,
che sarebbero complessivamente destinate allo svolgimento di
alcune funzioni pubbliche, essa si sostanzierebbe, come
noto, in una spesa in conto capitale. Alla stessa può,
dunque, farsi ancora fronte, nel corrente esercizio, con
l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione (per il successivo
esercizio 2018, cfr. commi 460-461 dell’art. 1 della Legge
n. 232/2016, che non contemplano, tra le operazioni
finanziabili con in predetti oneri, l’acquisizione di
immobili).
2.2. Facendo nuovamente applicazione dei principi generali
fissati nella richiamata deliberazione n. 81/2017/PAR, può
passarsi ad affrontare il profilo attinente all’utilizzo dei
proventi relativi allo standard qualitativo aggiuntivo,
tenuto conto del combinato disposto dell’art. 90 e dell’art.
46, comma 1, della legge regionale lombarda 11.03.2005, n.
12. Tali disposizioni prevedono, infatti, che:
Art. 90 - Aree per attrezzature pubbliche e di
interesse pubblico o generale.
1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a
supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di
aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza
che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle
attrezzature esistenti nel territorio comunale, in coerenza
con quanto sancito dall’articolo 9, comma 4.
2. In caso di accertata insufficienza o inadeguatezza di
tali attrezzature ed aree, i programmi integrati di
intervento ne individuano le modalità di adeguamento,
quantificandone i costi e assumendone il relativo
fabbisogno, anche con applicazione di quanto previsto
dall’articolo 9, commi 10, 11 e 12.
3. Qualora le attrezzature e le aree risultino idonee a
supportare le funzioni previste, può essere proposta la
realizzazione di nuove attrezzature indicate nel piano dei
servizi di cui all’articolo 9, se vigente, ovvero la
cessione di aree, anche esterne al perimetro del singolo
programma, purché ne sia garantita la loro accessibilità e
fruibilità.
4. È consentita la monetizzazione della dotazione di cui al
comma 1 soltanto nel caso in cui il comune dimostri
specificamente che tale soluzione sia la più funzionale per
l’interesse pubblico. In ogni caso la dotazione di parcheggi
pubblici e di interesse pubblico ritenuta necessaria dal
comune deve essere assicurata in aree interne al perimetro
del programma o comunque prossime a quest’ultimo,
obbligatoriamente laddove siano previste funzioni
commerciali o attività terziarie aperte al pubblico.
5. Nel caso in cui il programma integrato di intervento
preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la
convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno
del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per
l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente
individuati nel piano dei servizi e destinati alla
realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per
la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo
piano.
Art. 46 - Convenzione dei piani attuativi.
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il
rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione
delle denunce di inizio attività relativamente agli
interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto
stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge
06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché
la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e
di interesse pubblico o generale previste dal piano dei
servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle
monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica;
b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere devono essere
esattamente definite; ove la realizzazione delle opere
comporti oneri inferiori a quelli previsti per la
urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente
legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni
caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione
diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata
al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al
piano attuativo, nonché all’entità ed alle caratteristiche
dell’insediamento e comunque non inferiore agli oneri
previsti dalla relativa deliberazione comunale;
c) altri accordi convenuti tra i contraenti secondo i criteri
approvati dai comuni per l’attuazione degli interventi.
2.
La convenzione di cui al comma 1 può stabilire i tempi di
realizzazione degli interventi contemplati dal piano attuativo, comunque non superiori a dieci anni.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge
regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua
declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge
regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una
prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime
richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o
da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali
dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da
parte del comune, che “tale soluzione sia la più
funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma
dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in
cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
2.3. Ne consegue, per quanto qui maggiormente interessa, che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei
predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica
–da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse
pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi e destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano (cfr.
parere 15.11.2012 n. 487 di questa Sezione).
2.4. A non diverse conclusioni può pervenirsi in riferimento
all’utilizzo del “fondo per il Centro storico”, sulla cui
natura e funzione non è fornito alcun dettaglio nella
richiesta di parere in esame, ove lo stesso sia costituito
con contributi qualificabili come standard qualitativi
aggiuntivi.
2.5. Resta, comunque, fermo che, come del resto affermato
dallo stesso Ente nella richiesta di parere, la delineata
operazione deve essere posta in essere nel pieno rispetto
del disposto del comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n.
98/2011, non trattandosi di permuta “pura” (cfr.
deliberazione di questa Sezione n. 97/2014/PAR) (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.04.2017 n. 100). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: Per
espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, TUEL) l'avanzo di
amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente
derivante dall'estinzione anticipata dei mutui, per la parte dell'avanzo non
vincolata a finalità specifiche.
Il comune può, in termini di programmazione, reperire le risorse per
l'estinzione anticipata del mutuo tra i proventi derivanti da standard
qualitativi urbanistici.
---------------
Il sindaco del Comune di Carate Brianza (MB) ha formulato alla Sezione
una richiesta di parere concernente la possibilità di finanziare
l’estinzione anticipata di un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp)
ricorrendo, rispettivamente, ai proventi derivanti da uno standard
qualitativo urbanistico per la parte capitale, all’avanzo di
amministrazione accertato e disponibile per la parte concernente la penale
per l’estinzione anticipata.
In subordine, ove non fosse possibile utilizzare a tal fine i proventi dello
standard urbanistico, si chiede se sia possibile provvedervi per intero, per
la quota capitale e per la penale, tramite il solo avanzo di
amministrazione, comunque accertato e disponibile.
...
1. Appare opportuno analizzare, primariamente, la questione della
destinabilità delle somme ricavate da proventi per standard qualitativi
urbanistici per lo specifico scopo della estinzione di un mutuo.
In proposito, occorre ricordare che ai sensi dell’art. 162, anche per il
bilancio degli enti locali, vigono i principi di unicità, universalità e
integrità del bilancio (art. 162, comma 1, T.U.E.L.). Infatti:
· tutte le entrate dell’ente locale vanno a costituire, a
prescindere dalla loro origine, un’unica fonte, finalizzata alla copertura
di tutte le spese pubbliche, con l’eccezione, appunto delle entrate a
specifica destinazione ex art. 195 T.U.E.L e la gestione conto terzi, per
cui sussiste una correlazione precisa tra entrata e spesa (unità);
· non sono ammesse gestioni “fuori bilancio”, cioè fuori
dall’ordinario controllo autorizzatorio esercitato col bilancio di
previsione, se non nei casi espressamente autorizzati dalla legge
(universalità del bilancio). A dimostrazione di ciò, sono tassative sia le
ipotesi di riconoscimento di debiti fuori bilancio (art. 194 T.U.E.L.) che
le gestioni conto terzi (art. 168 T.U.E.L.);
· infine, ogni voce deve essere inserita al “lordo”, senza
compensazioni tra voci in entrata e voci in uscita, anche quando, come nel
caso di specie, per effetto di rimborsi o conguagli, la spesa non sia
integralmente imputabile all’ente, ma solo parzialmente (integrità e
principio di chiarezza del bilancio).
Questa preliminare considerazione porta a ritenere di per sé improprio ogni
ragionamento sulla diretta correlazione tra una voce delle entrate e delle
uscite, nel caso di specie tra singole fonte di finanziamento del bilancio (proventi
da standard urbanistici, allocati al Titolo IV delle entrate) e una voce
specifica delle uscite (spese per rimborso prestiti, Titolo III).
Il principio di unità riceve una specifica deroga, come si diceva, nel caso
di entrate a specifica destinazione (art. 195 T.U.E.L.), peraltro, avendo
riguardo alla gestione per cassa.
La specifica destinazione, tra l’altro, sulla base dei dati forniti dal
comune, non caratterizzerebbe il provento dello standard urbanistico, la cui
finalizzazione, se prevista, è il risultato di una determinazione
amministrativa e non di una disposizione di legge.
Infatti, come evidenziato nella delibera Lombardia n. 282/2012/PRSE la
destinazione rilevante ai fini dell’art. 195 non può essere generica, ma
deve essere, come risulta dalla lettera della norma, “specifica”
nonché derivante da apposite disposizioni di legge o regolamentari che
consentono di derivarne, a fini contabili, una simile qualificazione.
La specifica destinazione, infatti, è la risultante di due elementi: a) la
etero destinazione; b) il collegamento diretto tra fonte e spesa da
effettuare.
Quanto al primo elemento, ci si riferisce alla circostanza che la
destinazione deve avere fondamento in disposizioni normative di legge o
regolamentari.
Quanto al secondo, il vincolo rilevante ai fini della gestione di
cassa e dei limiti stabiliti dall’art. 195, deve essere tale da tradursi in
un legame specifico tra la fonte di finanziamento e le specifiche opere o
finalità, tant’è che la mancata realizzazione della spesa nei termini
previsti può comportare, per l’ente locale, un dovere di restituzione.
Diverso discorso va fatto, invece, per le entrate in conto capitale in
generale: esse sono piuttosto gravate da un vincolo di destinazione non
specifico, ma generico, rilevante ai fini della sana gestione di competenza:
l’esistenza di una simile destinazione generica si ricava, indirettamente,
dall’art. 162, comma 6, T.U.E.L., secondo cui la spesa corrente deve essere
finanziata con entrate ordinarie della medesima specie, salvo eccezioni di
legge; la spesa in conto capitale, peraltro, può essere finanziata tanto con
il surplus di entrate correnti (c.d. avanzo di bilancio, ai sensi dell’art.
199 T.U.E.L., lett. b), con l’avanzo di amministrazione nei caso in cui ciò
sia funzionale all’estinzione anticipata di mutui (art. 199 T.U.E.L. lett.
d), nonché, ovviamente, con entrate in conto capitale tassativamente
elencate (art. 199 T.U.E.L., nelle lettere non precedentemente elencate). Si
tratta, quindi, di un vincolo rilevante in termini di equilibri di bilancio.
Peraltro, quando il vicolo di destinazione assume il carattere della
specificità, esso si espleta non più genericamente e al solo a livello di
competenza, ma anche a livello di cassa (art. 195 T.U.E.L)..
1.1. Tanto premesso, appare chiaro che nulla osta a che l’amministrazione,
nell’ambito delle operazioni in conto capitale, ritenga di individuare
l’indiretta fonte del finanziamento dell’estinzione in un provento
specifico, specie in sede di bilancio di previsione, fermo restando che in
sede gestionale non ci sarà alcun vincolo diretto tra l’una fonte e l’altra
spesa né in termini di competenza, né tanto meno di cassa, rilevando
soltanto l’equilibrio complessivo della gestione corrente e,
correlativamente, quella in conto capitale ai sensi del combinato disposto
degli artt. 162 e 199 T.U.E.L..
In altre parole, l’equilibrio tra fonti di finanziamento e investimenti
rileva in una duplice ottica: in quella della programmazione puntuale degli
investimenti (che consente di individuare un collegamento singolare e
indiretto tra entrata e spesa) nonché in quella della valutazione
complessiva degli equilibri di bilancio (in sede preventiva e di
rendiconto). In questi termini va letto l’art. 199 T.U.E.L. che, secondo una
concezione di tipo aziendalistico, individua le fonti finanziamento secondo
una precipua elencazione riconducibile alla dicotomica classificazione fonti
interne (lettere a-e) e fonti esterne (lettere f-g).
Nel caso prospettato si tratta non tanto di finanziarie un investimento
ex novo, quanto di re-internalizzarne la fonte, da esterna ad interna,
attraverso l’estinzione anticipata di un mutuo, con la diminuzione degli
oneri correnti del debito contratto, ovvero la spesa per interessi passivi.
2. I quesiti qui proposti, in definitiva, mirano ad ottenere delucidazioni
circa le possibili forme di finanziamento di tale re-internalizzazione. Per
comodità espositiva si ritiene di invertire l’ordine dei quesiti,
scandagliando preliminarmente la possibilità di finanziare tale estinzione
prima con il solo avanzo di amministrazione, poi con un provento specifico
di Titolo IV (proventi da standard qualitativo urbanistico).
2.1. Per espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, T.U.E.L.) l’avanzo
di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente
derivante dall’estinzione anticipata dei mutui. Tale possibilità era stata
evidenziata in via giurisprudenziale da questa Sezione (delibere nn. 36 e
40/2007/PAR) già prima delle novelle di cui agli art. 11 del D.L. n.
159/2007, conv. L. n. 222/2007 e, di presso, dell’art. 2, comma 13, della L.
n. 244/2007, che ha modificato in parte qua l’art. 187, comma 2, del
T.U.E.L., prevedendo la prefata possibilità di utilizzazione.
La Sezione, inoltre, partendo dalla considerazione che la penale è un
corrispettivo per il recesso anticipato dal mutuo, sul versante della spesa
ha ritenuto di fare le seguenti valutazioni: poiché la penale può essere
virtualmente considerata un’operazione di attualizzazione di una spesa
corrente riflessa su esercizi futuri, ferma restando l’utilizzabilità
dell’avanzo come unitaria fonte di finanziamento dell’estinzione (cfr.
delibera 546/2010/PAR nonché 317/2011/PAR e infine 288/2012/PAR), si è
ritenuto che la sede appropriata per l’allocazione della correlativa spesa
fosse il Titolo I, mentre per la parte in conto capitale il Titolo III
(Spese per rimborso di prestiti).
Peraltro, l’utilizzabilità unitaria dell’avanzo a fini di finanziamento
dell’estinzione anticipata, per la stesse considerazioni preliminari, trova
un limite in quella parte dell’avanzo che è vincolata a finalità specifiche.
Infatti, il corrispettivo per la penale potrà essere finanziato solo con la
parte non vincolata per la spesa in conto capitale o di altro genere.
2.2. Per quanto concerne invece la destinazione di proventi specifici del
titolo IV all’estinzione di mutui (segnatamente i proventi derivanti da
standard qualitativi urbanistici), richiamato il principio di unità del
bilancio, non può che rammentarsi che (in termini di equilibri complessivi) la spesa in conto capitale deve tendenzialmente essere finanziata con
entrate in conto capitale. Pertanto, ben può il Comune, in termini di
programmazione, reperire le risorse per l’estinzione anticipata del mutuo
tra quelle che rivengono dai prefati proventi urbanistici.
Il vincolo di gestione, per competenza, su tali risorse si tradurrà, a fine
esercizio, in un vincolo sull’avanzo di amministrazione, il quale potrà
essere utilizzato per l’estinzione negli esercizi successivi, nei termini
sopra specificati, solo per la parte capitale del debito, potendo invece il
Comune utilizzare per il pagamento della penale solo la parte libera
dell’avanzo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.11.2012 n. 487). |
A.N.AC. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
comandante della polizia locale può fare anche il responsabile
anticorruzione e trasparenza in Comune.
Sull'opportunità di attribuire le funzioni di responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza al comandante della polizia locale
esprime orientamento favorevole l'Anac con la
delibera
20.06.2019 n. 333.
L'Autorità giunge a questa conclusione facendo riferimento alla legge quadro
65/1986 sull'ordinamento della polizia locale, al comma 221, articolo 1,
della legge 208/2015 (legge di stabilità 2016) e alla pronuncia del
Consiglio di Stato n. 2174/2019.
Il quadro normativo
In base alla legge quadro, il personale che svolge servizio di polizia
locale, compreso il comandante, può esercitare funzioni di polizia locale,
giudiziaria, stradale e ausiliarie di pubblica sicurezza.
Con il comma 221, articolo 1, della legge di stabilità 2016 è stato sancito
il superamento del principio di specialità delle funzioni di polizia
municipale, in ragione del contenimento della spesa per il personale delle
pubbliche amministrazioni locali e regionali, attraverso strumenti di
flessibilità nella ripartizione delle funzioni e dei compiti interni
all'ente, che seppur previsto per i comuni di consistenza organica tali da
prevedere al vertice dei settori posti di rilievo dirigenziale, è comunque
estendibile anche ai comuni di minori dimensioni, stante il fatto che anche
in questi ultimi si pongono esigenze di riordino delle competenze introdotte
dalla legge di stabilità.
Infatti, il comma 221 stabilisce che «Le regioni e gli enti locali
provvedono alla ricognizione delle proprie dotazioni organiche dirigenziali
secondo i rispettivi ordinamenti, nonché al riordino delle competenze degli
uffici dirigenziali, eliminando eventuali duplicazioni. Allo scopo di
garantire la maggior flessibilità della figura dirigenziale nonché il
corretto funzionamento degli uffici, il conferimento degli incarichi
dirigenziali può essere attribuito senza alcun vincolo di esclusività anche
ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale.».
La norma
ha quindi reso possibile il conferimento di incarichi dirigenziali senza
alcun vincolo di esclusività anche ai dirigenti dell'avvocatura civica e
della polizia municipale.
Il Consiglio di Stato
Con la pronuncia n. 2174/2019, il Consiglio di Stato ha stabilito che
l'attribuzione al settore della polizia locale di compiti ulteriori rispetto
a quelli in origine svolti, anche se di carattere gestionale e di
amministrazione attiva correlati alle tipiche funzioni di polizia
amministrativa e giudiziaria e di pubblica sicurezza previste dalla legge
quadro n. 65/1986 è coerente con il disegno di razionalizzazione e di
accorpamento delle strutture perseguito dalla legge di stabilità per il
2016.
Pertanto, l'Anac ritiene che, seppur la valutazione sul requisito di
esclusività della funzione di dirigente comandante del corpo di Polizia
locale non le spetti, alla stessa, invece, compete di potersi esprimere
sull'opportunità di attribuire a tale soggetto anche l'incarico e le
funzioni di responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza.
Preliminarmente Anac precisa che nell'ordinamento non sussiste alcuna
incompatibilità tra lo svolgimento del ruolo di Rpct e quello di comandante
del corpo di Polizia locale. La questione, dunque, per Anac può essere
affrontata in termini di opportunità o meno dello svolgimento contemporaneo
delle due funzioni.
La giurisprudenza ha sempre imposto cautela circa l'affidamento di incarichi
gestionali al comandante della polizia locale per via delle situazioni di
conflitto, anche potenziale, di interessi che potrebbero crearsi. In questo
contesto si è inserita la legge di stabilità 2016 che ha ritenuto legittimi
negli enti locali assetti organizzativi in cui si affidano ai comandanti
della Polizia locale compiti ulteriori, seppur collegati alle tipiche
funzioni previste dalla legge quadro 65/1986.
Conclusioni
Secondo l'Anac, quindi, in coerenza l'obiettivo perseguito dalla legge di
stabilità per il 2016 e considerata la pronuncia del Consiglio di Stato n.
2174/2019, può essere attribuito al comandante della Polizia anche
l'incarico di responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza.
In tal caso l'organo di indirizzo dell'amministrazione cui spetta il compito
di nominarlo avrà l'onere di valutare se l'eventuale commistione e cumulo
tra le funzioni di vigilanza e di controllo tipiche della polizia locale e
le funzioni amministrative e gestionali proprie di altri incarichi
dirigenziali in capo alla figura dirigenziale del comandante capo della
polizia locale possano essere confliggenti con le funzioni tipiche del Rpct,
evitando che si configurino situazioni, anche potenziali, di conflitto
d'interessi tra le diverse attività svolte
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.06.2019). |
LAVORI PUBBLICI:
Concessione lavori, gestione da privilegiare. Delibera Anac su affidamento con l’offerta più vantaggiosa.
In
una concessione di lavori pubblici è inopportuno assegnare più di dieci
punti a valutazioni agli elementi soggettivi; da privilegiare i profili
gestionali.
Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con
il
Parere di Precontenzioso 29.05.2019 n. 452 reso pubblico nei giorni scorsi e
relativa ad una bando per procedura aperta per l'affidamento in concessione
mediante project financing, ai sensi dell'art. 183, comma 15, del codice dei
contratti pubblici, con diritto di prelazione da parte del promotore, della
concessione per la progettazione ed esecuzione degli interventi di recupero
funzionale e riqualificazione e gestione del mercato coperto sito a Ferrara.
Il focus da parte dell'Anac su questo bando nasce dall'esercizio della
vigilanza che l'Autorità svolge sull'andamento del mercato e che presta
attenzione soprattutto alla fattispecie più complesse e innovative. Il caso
esaminato è quello del bando, pubblicato il 17.04.2019, con termine di
presentazione delle offerte 19.06.2019 per un valore totale della
concessione pari a 6,4 milioni di cui 2,7 per le opere da eseguire, con
spesa a totale carico del concessionario, e con criterio di aggiudicazione è
quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, come prescritto
dall'art. 183 del codice appalti.
L'Anac, esaminati gli atti di gara, ha rilevato alcune criticità in
relazione all'attribuzione dei punteggi concernenti i diversi elementi e
sub-elementi di valutazione dell'offerta tecnica. A tale proposito la norma
di riferimento è il citato articolo 183 che al comma 5 prevede, oltre a
quanto previsto dall'articolo 95 del codice, che debba essere assicurato che
l'esame delle proposte risulti esteso agli aspetti relativi alla qualità del
progetto definitivo presentato, al valore economico e finanziario del piano
e al contenuto della bozza di convenzione.
L'obiettivo della disposizione,
ha detto l'Anac è assicurare che la valutazione compiuta dalla stazione
appaltante sia indirizzata «non solo alla fase progettuale e di
realizzazione delle opere, ma anche a quella successiva relativa alla
gestione delle stesse; infatti, la qualità, la coerenza e la solidità del
progetto gestionale costituiscono garanzia di affidabilità del livello
qualitativo previsto nell'ambito del progetto definitivo delle opere,
soprattutto nei casi, come quello in esame, in cui queste ultime devono
essere eseguite esclusivamente con risorse a carico del soggetto
proponente».
I criteri di valutazione adottati dalla stazione appaltante non paiono,
però, all'Anac «rispondenti alla disposizione normativa e alla finalità a
essa sottesa» e vengono citati, a titolo esemplificativo, l'assegnazione di
soli 7 punti complessivi nell'ambito della valutazione dell'elemento
economico dell'offerta; per l'Anac si tratta di un «punteggio irrilevante,
in quanto addirittura inferiore rispetto a quello conseguibile in caso di
possesso di una certificazione di gestione ambientale (8 punti)».
Negativo
anche attribuire 15 punti all'organigramma aziendale e 8 al possesso di un
certificato di gestione ambientale, criteri soggettivi che dovrebbero
attenere alla precedente fase di qualificazione, ma che possono essere
considerati, secondo l'Anac a condizione che «incidano in maniera diretta
sulla qualità della prestazione» e che complessivamente non superino 10
punti
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2019). |
LAVORI PUBBLICI: Concessioni
in pf, gestione da raffrontare nell’offerta. Deliberazione Anac su
aggiudicazione con il project finance.
Per valutare una offerta di project finance occorre procedere a una
comparazione delle offerte ricevute riferita non solo alla fase progettuale
e di realizzazione delle opere, ma anche a quella successiva relativa alla
gestione delle stesse.
È quanto ha sottolineato l'Autorità anticorruzione (Anac) con il
Parere di Precontenzioso 29.05.2019 n. 452
nel quale sono stati affrontati alcuni elementi connessi all'interpretazione
dell'articolo 183 del codice appalti.
L'Anac ha precisato che ai fini dell'aggiudicazione di una concessione
mediante finanza di progetto, l'art. 183, comma 5, del codice prescrive che,
oltre a quanto previsto dall'articolo 95 del decreto 50, in tema di criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, deve essere assicurato che
l'esame delle proposte risulti esteso agli aspetti relativi alla qualità del
progetto definitivo presentato, al valore economico e finanziario del piano
e al contenuto della bozza di convenzione. La previsione del codice, ha
detto l'Authority, è funzionale a valorizzare la finalità dell'istituto
attraverso un comportamento virtuoso delle stazioni appaltanti che intendano
ricorrere al project finance.
Per l'Anac le amministrazioni devono svolgere la procedura di aggiudicazione
con una complessiva comparazione delle offerte ricevute, assicurandosi che
la stessa sia riferita, non solo alla fase progettuale e di realizzazione
delle opere, ma anche a quella successiva relativa alla gestione delle
stessa. Infatti, la qualità, la coerenza e la solidità del progetto
gestionale costituiscono garanzia di affidabilità del livello qualitativo
previsto nell'ambito del progetto definitivo delle opere, soprattutto nei
casi in cui devono essere eseguite esclusivamente con risorse a carico del
soggetto proponente.
Nel caso esaminato, l'Anac ha rilevato che i criteri di valutazione indicati
dalla stazione appaltante per la procedura di aggiudicazione non risultavano
rispondenti alle finalità della disposizione del codice: i criteri devono
essere infatti non solo proporzionati, ma anche attinenti all'oggetto del
contratto, che nel caso in esame concerne oltre all'esecuzione dei lavori,
anche la gestione dell'opera.
L'Anac si è occupata anche dell'offerta relativa al tempo di realizzazione
dell'intervento precisando che «la riduzione del tempo di redazione del
progetto deve essere inclusa nell'offerta economica». La precisazione è
funzionale a chiarire, nel caso sottoposto all'esame dell'Autorità, che «la
conoscenza di elementi economico-temporali da parte della commissione, nella
fase della valutazione dell'offerta tecnica, appare di per sé idonea a
determinare anche solo in astratto un condizionamento dell'operato della
commissione medesima, alterando o perlomeno rischiando potenzialmente di
alterare la serenità e l'imparzialità dell'attività valutativa della
commissione».
Per questa ragione, ha detto l'Anac, è corretto stabilire che nessun
elemento economico, ma nemmeno temporale, debba essere reso noto alla
commissione medesima prima che questa abbia effettuato le proprie
valutazioni sull' offerta tecnica
(articolo ItaliaOggi del 21.06.2019). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettisti
tutelati. Niente prestazioni senza compenso. Il chiarimento nelle linee
guida aggiornate dell’Anac.
Illegittimo chiedere al progettista, senza un incremento del compenso,
prestazioni ulteriori rispetto a quelle oggetto dell'affidamento.
È
questo il chiarimento principale fornito dall'Autorità nazionale
anticorruzione con la
delibera 15.05.2019 n. 417 che aggiorna le Linee guida n. 1 (facoltative) in tema di
affidamento di servizi di ingegneria e architettura, già approvate con una
prima delibera n. 973 del 14/09/2016 e successivamente aggiornate con
delibera del Consiglio dell'Autorità n. 138 del 21/2/2018.
La nuova delibera prima di entrare in vigore dovrà essere pubblicata sulla
gazzetta ufficiale.
Tre i chiarimenti forniti dall'Anac.
Il primo attiene
alla necessità di dare piena attuazione al principio dell'equo compenso, in
considerazione della sempre più frequente richiesta, da parte delle stazioni
appaltanti, di prestazioni ulteriori rispetto a quelle oggetto
dell'affidamento, a celle della stipula del contratto. Per fare fronte a
questa anomalia nella delibera viene chiarito che «al fine di garantire il
principio dell'equo compenso, al professionista non possono essere richieste
prestazioni ulteriori rispetto a quelle a base di gara, che non sono state
considerate ai fini della determinazione dell'importo a base di gara».
Quindi quel che conta è l'oggetto delle prestazioni indicate negli atti di
gara, la cui quantificazione come onorario deve risultare dal calcolo
allegato al disciplinare, e ogni attività ulteriore non può essere
ricondotta nel compenso iniziale ma deve essere oggetto di un atto
aggiuntivo e di pattuizione separata rispetto al compenso iniziale.
Un
secondo chiarimento riguarda i requisiti del soggetto mandatario di un
raggruppamento temporaneo che «indipendentemente dal fatturato
complessivo/speciale posseduto, dai servizi precedentemente svolti e dal
personale tecnico di tutti i partecipanti al raggruppamento, dimostra il
possesso dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara in misura
percentuale superiore rispetto a ciascuna mandante».
Infine una importante
indicazione viene data rispetto all'attribuzione dei punteggi in fase di
valutazione delle offerte laddove l'Anac ritiene «preferibile» l'utilizzo
della formula c.d. «bilineare» che ha l'effetto di limitare gli effetti
delle offerte di maggiore ribasso, «attribuire un punteggio elevato al punto
di flesso al fine di disincentivare offerte contenenti ribassi elevati non
in linea con la previsione sull'equo compenso di cui dell'art. 13-bis della
legge 31/12/2012, n. 247».
L'indicazione, unitamente a quella già fornita
sull'apertura delle offerte di prezzo dei concorrenti che hanno superato un
determinato punteggio tecnico, dovrebbe consentire di limitare ribassi che
oggi sono, in media, del 40% (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente
incarico direttivo a chi ha condanne non definitive per reati tentati.
Il regime dell'inconferibilità degli incarichi in caso di condanna per reati
contro la pubblica amministrazione va esteso anche alle ipotesi di condanna
non definitiva rimaste allo stadio del tentativo poiché anche in questi casi
è compromessa l'imparzialità e la credibilità dell'azione pubblica. Scopo
delle norme vigenti è evitare che l'esercizio della funzione amministrativa
avvenga per mano di soggetti che abbiano dimostrato la propria inidoneità
alla spendita di poteri pubblici in conformità ai principi di imparzialità e
buon andamento. Il delitto tentato è a tutti gli effetti un delitto
«perfetto» e non una sorta di sottofattispecie del delitto consumato,
essendo in esso presenti tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, di
qualsivoglia ipotesi di reato.
Con la
delibera
17.04.2019 n. 447, l'Anac ribalta il
proprio precedente orientamento.
Il precedente orientamento Anac
In passato l'Anac si è già espressa sulla questione tuttavia affermando che
il regime dell'inconferibilità non può estendersi anche alle ipotesi dei
reati commessi nella forma del tentativo. In sintesi rientra nella
discrezionalità del legislatore identificare le ipotesi relative ai reati
consumati, comportanti quale conseguenza della violazione degli obblighi di
fedeltà del pubblico dipendente, l'impossibilità di conferire allo stesso un
incarico dirigenziale, ovvero lo svolgimento di una funzione dirigenziale.
La nuova lettura
Nella Delibera l'Anac spiega che il periodo di inconferibilità individuato
dalla normativa non si configura come una misura sanzionatoria di natura
penale o amministrativa, ma come strumento di prevenzione della corruzione e
di garanzia dell'imparzialità dell'amministrazione.
A ben vedere la nuova
linea interpretativa dell'Anac si basa sulla considerazione che il regime
dell'inconferibilità, in quanto preposto al soddisfacimento di particolari
esigenze proprie della funzione amministrativa e dell'ente presso cui il
soggetto condannato è incardinato, non è un effetto penale della condanna,
ma un effetto del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per
l'accesso alle cariche pubbliche e per il loro mantenimento.
Requisito che
deve tutelare l'immagine dell'amministrazione pubblica e che quindi decade
anche in caso di delitti solo tentati.
Delitto consumato e delitto tentato
Se si pone attenzione al sistema normativo nel suo insieme, si può notare
che se è vero che il codice penale quando considera una fattispecie di
reato, la intende nella sua forma consumata, essendo sempre necessario nel
caso di condotta che si sia arrestata allo stadio del tentativo richiamare
la normativa penalistica in ordine all'idoneità degli atti con riferimento a
un criterio non semplicemente probabilistico di realizzazione dell'intento
delittuoso, bensì in relazione alla autentica possibilità che alla condotta
consegua lo scopo che l'agente si propone, è altrettanto vero che le
disposizioni sull'inconferibilità degli incarichi non catalogano i singoli
reati la cui commissione può essere causa di inconferibilità, ma si limitano
a indicare in astratto un genere di reati, precisamente quelli contro la
pubblica amministrazione, così ricomprendendo tutte le fattispecie che
rientrano in questa categoria.
In altre parole per quanto riguarda il bene
giuridico tutelato, non si può in alcun modo distinguere le fattispecie
consumate da quelle tentate, essendo esso in entrambe le ipotesi
individuabile nell'imparzialità e nel buon andamento dell'azione
amministrativa così come declinati nella Carta costituzionale.
A ben vedere
dunque se non si applicasse il regime dell'inconferibilità anche alle
fattispecie di delitto solo tentato si verificherebbe un'illogica,
irrazionale contraddizione strutturale nell'ordinamento e, quindi sul piano
concreto, un vero e proprio vuoto di tutela dell'imparzialità dell'azione
della pubblica amministrazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.06.2019). |
APPALTI: Firma digitale sull’offerta
equivale a quella su carta. Lo ha stabilito una deliberazione dell’autorità
anticorruzione.
La
firma digitale su un'offerta è del tutto equivalente a quella apposta su un
documento cartaceo; è illegittimo richiedere la sottoscrizione per esteso di
ogni pagina dell'offerta e quindi è illegittima l'esclusione dalla gara del
concorrente che abbia siglato digitalmente.
Lo ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione nel
Parere di Precontenzioso 03.04.2019 n. 276 - rif. PREC 23/19/L in
risposta all'istanza di precontenzioso del 09.01.2019 con la quale una
società che aveva partecipato ad una gara d'appalto aveva rappresentato di
essere stata illegittimamente esclusa dalla procedura, all'esito delle
integrazioni documentali presentate in sede di soccorso istruttorio, per
aver trasmesso la copia del protocollo di integrità di Roma Capitale senza
rispettare le disposizioni del disciplinare di gara. Quest'ultimo prevedeva
che il documento fosse debitamente sottoscritto e timbrato su ogni pagina
dal titolare, o dal legale rappresentante o di altra persona e munita di
specifici poteri di firma dal titolare.
Diversamente, il concorrente aveva inviato il documento in forma di file in
formato «pdf» sottoscritto digitalmente, nel presupposto che fosse
equivalente alla firma autografa. La gara veniva bandita con procedura
negoziata in base all'articolo 36, comma 2, lett. c), del codice appalti per
l'affidamento dell'appalto biennale di manutenzione ordinaria e pronto
intervento di edifici scolastici (asili nido, scuole dell'infanzia, scuole
primarie, scuole secondarie di primo grado di competenza del Municipio XI di
Roma), e veniva svolta sulla piattaforma telematica Mepa di Consip.
Dopo avere accertato che la sottoscrizione sul documento, in funzione di
dichiarazione di accettazione, era stata apposta da un procuratore speciale
della società munito dei poteri di firma degli atti di gara, l'Anac ha
affermato che la firma digitale equivale alla firma autografa apposta su un
documento cartaceo e che la sottoscrizione del relativo file «.p7m»,
regolarmente effettuata secondo lo standard CAdES, è da ritenersi pienamente
idonea ad assolvere alla funzione di attestare la provenienza dell'atto in
capo al suo autore.
Dal momento che la procedura era stata svolta sulla piattaforma telematica
Mepa di Consip, ha detto l'Anac, va anche ricordato che ai sensi dell'art.
24, comma 2, del dlgs 82/2005 (Codice dell'amministrazione digitale)
l'apposizione della firma digitale integra e sostituisce l'apposizione di
sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere ad ogni
fine previsto dalla normativa vigente.
Alla luce di questa precisazione e della necessità di rispettare il
principio della tassatività delle cause di esclusione, oggi previsto
dall'art. 83, comma 8, del codice dei contratti pubblici, nonché i principi
della massima partecipazione, di non aggravamento del procedimento e di
proporzionalità, non è quindi legittima la richiesta della lex specialis di
gara che preveda, pena l'esclusione, la sottoscrizione per esteso di ogni
pagina dell'offerta. Nell'ottica del superamento dell'imposizione di
adempimenti meramente formali, l'Anac ha ritenuto che fosse del tutto
sufficiente la singola sottoscrizione digitale del protocollo di integrità,
da ritenersi equivalente rispetto alle clausole del disciplinare
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: La notizia di reato fa ruotare i dirigenti.
È in
pubblicazione on-line la deliberazione dell'Anac sull'attuazione della
misura della rotazione straordinaria di cui all'art. 16, comma 1, lettera
l-quater, del dlgs n. 165/2001 alla quale devono adeguarsi tutte le
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 , ai sensi dell'art. 27 dello
stesso decreto.
La rotazione straordinaria ricorre «nei casi di avvio di procedimenti
penali», senza che la disposizione precisi né il momento né le fattispecie.
Di qui l'intervento chiarificatore dell'Anac che, rivedendo l'orientamento
espresso nell'aggiornamento 2018 al Pna (in cui l'applicazione della misura
straordinaria coincideva «con la conoscenza della richiesta di rinvio a
giudizio formulata dal pubblico ministero al termine delle indagini
preliminari, ovvero di atto equipollente») ora reputa ricondursi il momento
dell'applicazione alla fase dell'iscrizione nel registro delle notizie di
reato di cui all'art. 335 c.p.p..
Quanto alle fattispecie rilevanti, l'Autorità ha ritenuto di riferirsi
all'elencazione dei reati «per fatti di corruzione» contenuta nell'art. 7
della legge 69 del 2015 (artt. 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater,
320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis c.p.) ossia concussione,
corruzione, peculato, traffico di influenze illecite, turbativa d'asta.
La rotazione straordinaria si applica anche nel caso di determinati
procedimenti disciplinari, ritenendosi rilevanti, ad avviso dell'Anac,
quelli avviati dall'amministrazione per comportamenti che possono integrare
fattispecie di natura corruttiva considerate nei reati predetti. La misura
della rotazione straordinaria, di natura preventiva e non disciplinare,
consiste in un provvedimento avente natura di atto amministrativo,
adeguatamente motivato e assunto in contraddittorio con l'interessato,
impugnabile davanti al giudice amministrativo territorialmente competente,
con il quale viene stabilito che la condotta corruttiva imputata può
pregiudicare l'immagine di imparzialità dell'amministrazione e si individua
il diverso ufficio al quale il dipendente viene trasferito (in diversa sede
o con attribuzione di diverso incarico nella stessa sede
dell'amministrazione).
In analogia con quanto previsto dalla legge n. 97/2001, in caso di obiettiva
impossibilità (ad es. incarico di vertice), il dipendente è posto in
aspettativa o in disponibilità con conservazione del trattamento economico
in godimento.
La rotazione in esame, comportando il trasferimento a diverso ufficio,
consiste nell'anticipata revoca dell'incarico dirigenziale, con assegnazione
ad altro incarico ovvero, in caso di impossibilità, con assegnazione a
funzioni «ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi
specificamente previsti dall'ordinamento» (art. 19, comma 10, dlgs n.
165/2001).
Con riferimento alla durata della misura, l'Anac ritiene che, dovendo il
provvedimento coprire la fase che va dall'avvio del procedimento
all'eventuale decreto di rinvio a giudizio, il termine entro il quale esso
perde efficacia dovrebbe esser più breve dei cinque anni previsti dalla
legge n. 97/2001.
Consapevole delle lacune del quadro normativo in materia, l'Autorità
suggerisce che potrebbero essere colmate dalle amministrazioni, in sede di
regolamento sull'organizzazione degli uffici o di regolamento del personale
(articolo ItaliaOggi dell'08.03.2019). |
APPALTI: Beni
e servizi fuori dal Mepa fino a 5mila euro, Anac dice «no» al frazionamento
degli appalti.
Entro i 5.000 euro le amministrazioni non hanno l'obbligo di utilizzare le
piattaforme telematiche per l'acquisto di beni e servizi, ma devono fare
particolare attenzione per evitare frazionamenti di appalti di maggior
valore.
Il
documento posto in consultazione dall'Autorità nazionale anticorruzione
per l'adeguamento delle linee guida sugli affidamenti sottosoglia pone
l'attenzione sulla modifica apportata all'articolo 1, comma 450, della legge
296/2006 dall'articolo 1, comma 130, della legge 145/2018, con l'innalzamento
della soglia di franchigia, nell'ambito della quale le amministrazioni
pubbliche possono fare a meno di utilizzare il Mepa o le piattaforme
telematiche messe a disposizione dai soggetti aggregatori regionali.
Nelle linee guida n. 4 l'Anac aveva individuato il valore determinato dal
comma 450 dal 2016 (1.000 euro) come dato dimensionale di riferimento per
gli acquisti di modesto importo, in ordine al quale era possibile non
applicare il principio di rotazione. Nella relazione accompagnatoria alle
modifiche delle linee guida, l'Autorità evidenzia come, in base alla
modifica della disposizione con il nuovo valore apportata dalla legge di
bilancio 2019, debba essere valutata l'opportunità di innalzare a 5.000 euro
anche la soglia introdotta nelle linee guida n. 4 con riferimento
all'obbligo di rotazione, chiarendo che la modifica comporterebbe
sicuramente una semplificazione, ma al tempo stesso, avrebbe un impatto
significativo su un numero estremamente elevato di affidamenti di piccolo
importo: l'Anac individua in circa quattro milioni il numero medio annuo di
affidamenti di importo inferiore a 5.000 euro.
La nuova soglia contenuta nel comma 450 dell'articolo 1 della legge 296/2006
ha anche un'implicazione operativa molto rilevante dato che innalza il
valore di riferimento entro il quale le amministrazioni non sono tenute a
utilizzare il Mepa o comunque le piattaforme telematiche messe a
disposizione dai soggetti aggregatori regionali o altri mercati elettronici.
La particolare franchigia non è toccata nemmeno dall'obbligo generale di
utilizzo di strumenti informatici per le comunicazioni e lo scambio di
informazioni previsto dal 18.10.2018 dall'articolo 40, comma 2, del Dlgs
50/2016 per tutte le procedure disciplinate dal codice dei contratti
pubblici (quindi anche per quelle sottosoglia).
L'Anac, con il comunicato del presidente del 30.10.2018, aveva chiarito
come l'obbligo dettato dall'articolo 40 non incidesse sulle procedure
effettuate per acquisti entro i 1.000 euro che potevano quindi essere
gestite dalle amministrazioni con soluzioni diverse dalle piattaforme.
L'innalzamento della soglia con la modifica apportata dalla legge di
bilancio 2019 amplia lo spazio nell'ambito del quale le amministrazioni
possono operare per l'acquisto di beni e servizi con strumenti più
flessibili (ad esempio, gestendo con la posta elettronica certificata le
richieste di preventivi e la formazione dei contratti con il metodo dello
scambio delle lettere secondo gli usi del commercio).
Il ministero delle Infrastrutture, rispondendo a un quesito posto da una
stazione appaltante, in una Faq del 20 gennaio di quest'anno conferma sia
l'interpretazione resa dall'Anac sia l'obbligo di utilizzo del Mepa o di
altre piattaforme telematiche oltre i 5.000 euro, quindi anche nella fascia
dell'affidamento diretto sino ai 40.000 euro
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Anac,
arriva l’elenco delle accuse che obbligano alla rotazione di dirigenti e
dipendenti.
Anac ha posto
in consultazione on-line la bozza di delibera in materia di
applicazione della misura della rotazione straordinaria prevista
dall'articolo 16, comma 1, lettera l-quater, del Dlgs 165/2001. I contributi
possono essere trasmessi fino all'8 marzo.
La norma prevede che i dirigenti «provvedono al monitoraggio delle attività
nell'ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell'ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva».
Considerata la genericità della norma su molteplici aspetti, tra cui la
mancata elencazione dei reati presupposto (la disposizione fa riferimento a
«condotte di natura corruttiva») che fanno scattare la misura, l'Autorità ha
ritenuto con questa delibera di doverne precisare il contenuto e, se
necessario, riconsiderare anche alcuni propri precedenti orientamenti
espressi in occasione dei piani nazionali anticorruzione adottati.
Destinatari e natura della misura
Preliminarmente l'Anac chiarisce la platea dei soggetti destinatari della
norma, il provvedimento motivato con il quale l'Amministrazione valuta se
ricorrere alla misura della rotazione straordinaria è obbligatorio per le
amministrazioni pubbliche indicate all'articolo 1, comma 2, della legge
165/2001, mentre è facoltativo per gli enti pubblici economici e per gli
enti di diritto privato in controllo pubblico.
Quanto alla natura della misura, questa è da intendersi di tipo preventivo
e, quindi, a tutela dell'immagine dell'amministrazione e non come misura
sanzionatoria, si tratta in sostanza di valutare se allontanare dall'ufficio
un dipendente che con la sua presenza può pregiudicare l'immagine di
imparzialità dell'Amministrazione. Il provvedimento potrebbe anche non
disporre la rotazione, ratio della norma è quello di indurre
l'Amministrazione ad una valutazione improntata alla trasparenza e tesa alla
tutela della propria immagine, per questo l'Autorità considera la
motivazione l'elemento qualificante del provvedimento.
Destinatario della misura è tutto il personale, dirigente e non, compreso
quello a tempo determinato; Anac si sofferma poi sugli incarichi
amministrativi di vertice (come definiti dal decreto legislativo 39/2013)
con specifico riferimento ai segretari generali e capi dipartimento, quali
affidatari di incarichi fiduciari.
In questo caso l'Amministrazione valuterà
se applicare la misura della rotazione straordinaria o mantenere l'incarico,
in ogni caso, ad avviso dell'Autorità, l'Amministrazione è comunque tenuta
ad adottare un provvedimento che disponga l'applicazione della misura o la
conferma dell'incarico e, quindi, della fiducia in attesa degli esiti del
procedimento penale.
Qualora disponga la misura, trattandosi di incarico di
vertice, di fatto sarà impossibile applicare la rotazione in quanto non
modificabile in un diverso incarico all'interno dell'amministrazione, e
questo si tradurrà in un collocamento in aspettativa se dipendente
dell'amministrazione o in una revoca senza conservazione del contratto se
non è dipendente.
I reati
Quanto ai reati presupposto che fanno scattare la misura della rotazione
straordinaria, considerata l'espressione generica usata dal legislatore che,
invece di elencare specifici reati, rinvia genericamente a «condotte di
natura corruttiva», Anac ritiene che per l'individuazione di queste condotte
si possa fare riferimento all'elencazione dei reati contenuti nell'articolo
7 della legge 69/2015 (in relazione ai quali è prevista l'informativa del
Pubblico ministero nei confronti dell'Autorità anticorruzione), vale a dire
i delitti indicati dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale. In sintesi, si tratta di corruzione, concussione, peculato, traffico
di influenze e turbativa d'asta.
La tempistica
Altro passaggio generico della disposizione -chiarito nella bozza della
delibera- è l'individuazione del momento in cui il provvedimento di
rotazione straordinaria debba essere assunto. L'articolo 16, comma 1,
lettera l-quater si riferisce all'«avvio di procedimenti penali», momento
che non coincide con una fase specifica del rito penale.
Anac ritiene che il momento debba coincidere con l'iscrizione del soggetto
nel registro delle notizie di reato, in quanto con tale atto prende avvio il
procedimento penale. Tuttavia, considerata la possibilità di accedere al
registro esclusivamente per la persona alla quale il reato è attribuito,
alla persona offesa e ai rispettivi difensori, l'Autorità raccomanda alle
amministrazioni di inserire nei propri codici di comportamento il dovere in
capo ai dipendenti coinvolti in procedimenti penali di comunicare
immediatamente l'avvio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.02.2019). |
APPALTI: Per
lavori fino a 150mila euro affidamenti con 3 preventivi.
L’Anac chiarisce le modalità di applicazione della deroga introdotta dalla
manovra.
L’affidamento diretto degli appalti di lavori tra i 40mila e i 150mila euro,
consentito dalla manovra 2019, deve essere preceduto dalla richiesta di tre
preventivi.
Il
documento posto in consultazione dall’Anac per l’adeguamento delle
linee-guida n. 4 sugli affidamenti sottosoglia (osservazioni entro il 21
febbraio) chiarisce l’applicazione della deroga introdotta dal comma 912
della legge 145/2018.
L’Anac evidenzia le novità che coinvolgono il solo settore dei lavori
pubblici consentendo per il 2019, l’affidamento diretto, previa
consultazione di tre operatori, tra 40mila e 150mila euro (invece della
procedura negoziata con 10 invitati), e l’affidamento con procedura
negoziata previa consultazione di almeno 10 operatori economici tra 150mila
e 350mila euro (invece della procedura negoziata con 15 invitati).
L’Autorità specifica che per il 2019, per gli affidamenti di lavori, valgono
le soglie introdotte dalla legge 145/2018, ma soprattutto fornisce
un’interpretazione finalizzata a chiarire il significato da attribuire alla
locuzione «affidamento diretto previa consultazione di tre operatori»,
contenuta nella disposizione della legge di bilancio 2019. In quella
espressione, infatti, sono accostati termini che connotano due procedure
diverse: l’affidamento diretto e la procedura negoziata.
L’Anac rileva come la procedura introdotta in via transitoria dalla norma
della legge n. 145/2018 possa essere interpretata nel senso che, per gli
affidamenti tra 40mila e 150mila euro, per il 2019 è possibile ricorrere
all’affidamento diretto previa richiesta di tre preventivi.
In ordine alle modalità di acquisizione dei preventivi, le stazioni
appaltanti dovrebbero adottare soluzioni (anche differenziate) rapportate
alla tipologia e all’importo dell’affidamento, nel rispetto dei principi di
adeguatezza e proporzionalità, e del principio di rotazione, ad esempio
ricorrendo alla costituzione di elenchi di operatori economici da cui
selezionare gli operatori a cui richiedere la presentazione del preventivo,
oppure a indagini di mercato.
L’Anac, quindi, evidenzia che la disciplina per gli affidamenti di lavori
introdotta per la fascia 40mila-150mila euro non comporta un confronto
competitivo (quindi una gara ad invito, come invece previsto dall’articolo
36, comma 2, lettera b), del Dlgs 50/2016), ma una semplice acquisizione di
preventivi, valutata dalla giurisprudenza come percorso nel quale si
sviluppano trattative parallele con i differenti operatori economici.
Questo
percorso dovrà essere modulato dalle stazioni appaltanti in termini più
semplificati per i valori più limitati (ad esempio con preventivi nei quali
i profili esecutivi dell’appalto siano schematizzati e sintetizzati) e con
maggiori accorgimenti (ad esempio elevando il livello di specificazione
delle condizioni di esecuzione dell’appalto, con l’allegazione al preventivo
di un capitolato più dettagliato)
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2019). |
APPALTI:
Per il parere di precontenzioso all’Anac bisogna informare tutti gli
interessati.
La stazione appaltante o l'operatore economico che richiede un parere di
precontenzioso all'Anac è obbligato a dare comunicazione della presentazione
dell'istanza a tutti i soggetti interessati alla questione.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha approvato il nuovo regolamento (delibera
09.01.2019 n. 10) in
materia di pareri richiesti in relazione alla soluzione di controversie
emerse nelle procedure di gara, nell'ambito del quale ha introdotto alcune
soluzioni semplificative.
Obbligo comunicativo
Una delle più significative è proprio l'introduzione dell'obbligo
comunicativo sulla presentazione dell'istanza da parte del soggetto che
richiede il parere nei confronti di tutti gli altri interessati: qualora la
comunicazione non sia effettuata, la richiesta è improcedibile.
L'Anac, che in base all'articolo 211 del codice dei contratti deve rendere
il parere entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta, chiarisce che
sono inammissibili le istanze dirette a far valere l'illegittimità di un
atto della procedura di gara autonomamente impugnabile, rispetto al quale
siano già decorsi i termini di impugnazione in sede giurisdizionale.
In aderenza all'articolo 211 del codice, le nuove disposizioni attuative
specificano in dettaglio le modalità di presentazione dell'istanza sia da
parte di un singolo soggetto (la stazione appaltante o un operatore
economico concorrente alla gara), sia in forma congiunta.
Procedure semplificate
Il regolamento propone anche alcune disposizioni volte a ottimizzare la resa
dei pareri per le gare di minore complessità, introducendo una procedura
semplificata e una motivazione sintetica nei casi in cui la questione
oggetto dell'istanza riguardi una gara il cui valore sia di importo
inferiore alla soglia comunitaria per servizi e forniture e inferiore a
1.000.000 euro per i lavori, nonché qualora appaia di pacifica risoluzione
tenuto conto, in particolare, di precedenti pronunce sull'argomento.
Il parere può essere rilasciato dall'Anac, in forma semplificata, anche con
mero rinvio a precedenti pareri già adottati, nel caso di pareri non
vincolanti, in appalti sopra soglia, o in caso di pareri vincolanti, ove gli
stessi siano di pacifica risoluzione (articolo 11, comma 5).
Le nuove regole saranno applicate anche alle richieste di parere per le
quali, presentate prima dell'entrata in vigore del regolamento (10
febbraio), non sia stato ancora avviato il procedimento, sempre che ne
ricorrano i requisiti in base ai nuovi presupposti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.02.2019). |
APPALTI: Offerta
economica più vantaggiosa, non può incidere più del 30%.
Limite inderogabile nella valutazione dell'Oepv secondo l'Anac.
Se si aggiudica un appalto con l'offerta economicamente più
vantaggiosa il limite massimo del 30% non è mai derogabile, anche se la
prestazione ha carattere di omogeneità.
È
quanto ha stabilito l'Anac con il
Parere di Precontenzioso 09.01.2019 n. 7 - rif. PREC 183/18/F concernente una
procedura aperta per la fornitura, per due anni, di materiale di
osteosintesi che, per un importo base d'asta di oltre 2 milioni di euro,
doveva essere aggiudicato con il criterio della offerta economicamente più
vantaggiosa.
Una società aveva eccepito la violazione dell'art. 95, comma 10-bis, del
codice dei contratti pubblici dal momento che la stazione appaltante aveva
quantificato nel 40% il peso del punteggio da attribuire alla componente
«prezzo» dell'offerta, invece di rispettare il limite massimo del 30%.
L'articolo 95, comma 10-bis, introdotto dal decreto correttivo del 2017
prevede che «la stazione appaltante, al fine di assicurare l'effettiva
individuazione del miglior rapporto qualità-prezzo, valorizza gli elementi
qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da garantire un confronto
concorrenziale effettivo sui profili tecnici. A tal fine la stazione
appaltante stabilisce un tetto massimo per il punteggio economico entro il
limite del 30%».
La stazione appaltante aveva difeso la scelta sostenendo che, alla luce
delle indicazioni contenute nelle linee guida Anac n. 2 sull'offerta
economicamente più vantaggiosa, «la scelta di prevedere una soglia massima
del 30%, per l'attribuzione del punteggio economico, non ha trovato
fondamento negli orientamenti dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac),
apparendo eccessivamente limitante per la valorizzazione dell'offerta
economica, in particolare in quei mercati dove le forniture possono
presentare un elevato grado di omogeneità».
Da ciò la stazione appaltante
aveva fatto discendere che «in un contesto di omogeneità dei prodotti sul
mercato, di dare maggiore peso all'offerta economica, nell'intendimento di
assicurare maggiore risparmio di spesa, a tutto vantaggio del bilancio
aziendale».
L' Anac ha bocciato questa tesi ritenendola «del tutto infondata» ribadendo
che nelle linee guida si afferma il principio generale che si deve
attribuire al prezzo un punteggio limitato (al di sotto del 30%) se si vuole
apprezzare la parte qualitativa dell'offerta o scoraggiare ribassi eccessivi
ritenuti difficilmente perseguibili dagli operatori economici.
L'Anac ha chiarito, però, che l'avere affermato che «si deve attribuire un
peso maggiore alla componente prezzo quando le condizioni di mercato sono
tali che la qualità dei prodotti offerti dalle imprese è sostanzialmente
analoga» significa che il peso del prezzo può essere maggiore degli altri
casi, ma sempre calibrato nel limite di legge del 30%.
Quindi una percentuale del 40% per l'offerta economica prevista dal bando di
gara viene ritenuta illegittima. In ogni caso, quando le prestazioni
contrattuali presentano un elevato grado di omogeneità (qualitativa) è
sempre possibile utilizzare anche esclusivamente il criterio del minor
prezzo, ma deve trattarsi, appunto, di «forniture con caratteristiche
standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato» ai sensi
dell'art. 95, comma 4, lett. b)
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Conflitto
d'interessi fra segretario generale e candidato al concorso, serve un
«legame professionale».
Vi è conflitto d'interessi fra segretario generale, valutatore e candidato a
un concorso presso l'ente, qualora la collaborazione professionale tra gli
stessi presupponga una comunione di interessi economici o di vita di
particolare intensità, presentando sistematicità, stabilità, continuità tali
da configurare un legame professionale. Inoltre l'esistenza di contenziosi
promossi nei confronti del segretario generale non comporta l'automatico
obbligo di astensione di quest'ultimo ma la necessità di una valutazione del
caso concreto. Infine, il codice di comportamento dell'ente deve prevedere
distinti obblighi di astensione per evitare situazioni di conflitto di
interessi (anche solo potenziale), da parte dello stesso responsabile
anticorruzione.
Con la
delibera
19.12.2018 n. 1186, l'Anac ha dunque affrontato lo
spinoso campo dei conflitti d'interesse del segretario generale che riveste
anche il ruolo di responsabile anticorruzione.
Le segnalazioni pervenute all'Anac
È stata segnalata all'Anac la presunta violazione da parte di un segretario
generale/responsabile anticorruzione, della normativa sul conflitto di
interessi, con violazione dell'obbligo di astensione dalla valutazione dei
candidati a incarichi di direzione. In particolare, viene evidenziato nelle
segnalazioni che il procedimento di valutazione dei candidati sarebbe stato
inficiato dalla mancata astensione del segretario generale, in
considerazione dei rapporti fiduciari tra lo stesso e alcuni candidati a
causa di precedenti incarichi ricoperti da questi ultimi nell'ente.
Sono stati segnalati anche ulteriori casi di presunto conflitto di
interessi, riconducibili a contenziosi in corso con il segretario generale.
Infine il codice di comportamento dell'ente, pur disciplinando le ipotesi di
conflitto di interessi, non contempla l'ipotesi di coincidenza fra la figura
dirigenziale apicale e responsabile anticorruzione, per cui la fattispecie
in esame, in cui il conflitto di interessi risiederebbe proprio in capo al
responsabile anticorruzione, è priva di regolamentazione.
Conflitto di interessi a seguito di precedenti rapporti
professionali e...
L'Anac ha affermato che i principi in materia di astensione e ricusazione
del giudice trovano applicazione anche nello svolgimento delle procedure
concorsuali, in quanto connessi al corretto esercizio delle funzioni
pubbliche. Qualora un componente della commissione sia in situazione di
incompatibilità, ha il dovere di astenersi. La Pa, valutata l'esistenza dei
presupposti, ha l'obbligo di disporre la sostituzione del componente.
L'Autorità osserva che alla luce della giurisprudenza in tema di concorsi,
la collaborazione professionale tra candidato e valutatore, per assurgere a
causa di incompatibilità, deve presupporre una comunione di interessi
economici o di vita di speciale intensità. Deve essere costante, solida,
persistente. Nel caso di specie, il segretario generale ha intrattenuto
rapporti professionali con alcuni candidati a cui ha attribuito negli anni
incarichi dirigenziali.
...a seguito di contenziosi in corso
L'Anac precisa che l'esistenza di contenziosi nei confronti della Pa non
comporta l'automatico obbligo di astensione. Necessita valutazione della
fattispecie concreta al fine di vagliare, anche per opportunità, la
necessità dell'astensione. In particolare l'Autorità ritiene che qualora il
funzionario interessato sia indotto, per decisione autonoma o della Pa, ad
astenersi dal procedimento, l’astensione debba investire tutti gli atti del
procedimento.
Infine, l'Anac sollecita l'introduzione nel codice di comportamento
dell'ente, di specifici obblighi di astensione del responsabile
anticorruzione, finalizzati a evitare conflitti d'interesse reale (o
potenziale) da applicarsi al responsabile anticorruzione, qualunque ruolo
ricopra
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.01.2019). |
APPALTI:
Dall’Anac i nuovi contributi di gara.
L'Anac ha definito per il 2019 (delibera
19.12.2018 n. 1174) gli
importi e le modalità di versamento del contributo che devono corrispondere
all'Autorità le stazioni appaltanti e gli operatori economici per gli
affidamenti di lavori, servizi e forniture, nonché le società organismo di
attestazione previste dall'articolo 84 del Dlgs 50/2016.
Si tratta dei contributi che servono per coprire i costi di funzionamento
dell'Autorità, per la parte non finanziata dal bilancio dello Stato, nel
rispetto comunque del limite massimo dello 0,4% del valore complessivo del
mercato di competenza così come previsto dall'articolo 1, comma 67, della
legge 23.12.2005 n. 266.
Esenzioni
Sono esenti solo le procedure svolte nell'ambito della ricostruzione,
pubblica e privata, a seguito degli eventi sismici del 2016 e 2017, in base
alle delibere Anac n. 359/2017 e 1078/2018; nonché gli affidamenti oggetto
del decreto Affari esteri e della cooperazione internazionale del 02.11.2017 n. 192.
Per queste eccezioni il responsabile del procedimento deve inviare
esclusivamente a protocollo@pec.anticorruzione.it, entro i 15 giorni solari
successivi alla pubblicazione della procedura, la richiesta di esonero
mediante specifici moduli.
Importi
Sono confermati quelli validi per il 2018. La tassa gara va pagata in
relazione agli importi a base di gara. A partire da 40mila e fino a 150mila
euro le stazioni appalti dovranno versare 30 euro, importo massimo 500 euro
per valori da 20 milioni i poi.
Le stazioni appaltanti devono effettuare il pagamento entro il termine di
scadenza del bollettino MAV (pagamento Mediante Avviso), emesso da Anac ogni
quadrimestre, per un importo complessivo pari alla somma delle contribuzioni
dovute per tutte le procedure attivate nel periodo.
Il pagamento della tassa gara da parte dei concorrenti è condizione di
ammissibilità alle procedure di affidamento. La mancata dimostrazione
dell'avvenuto versamento è causa di esclusione in base all'articolo 1, comma
67, della legge 266/2005. Per le procedure suddivise in lotti l'importo
dovuto dalle stazioni appaltanti va calcolato applicando la contribuzione
corrispondente al valore complessivo posto a base di gara. Gli operatori
economici che partecipano a procedure, articolate in più lotti, devono
versare il contributo, nella misura corrispondente al valore di ogni singolo
lotto per il quale presentano offerta.
ll mancato pagamento della contribuzione da parte di stazioni appaltanti e
Soa determina l'avvio della procedura di riscossione coattiva, mediante
ruolo, delle somme non versate sulle quali saranno dovute, oltre agli
interessi legali, le maggiori somme ai sensi della normativa vigent, mentre
in caso di versamento di contribuzioni non dovute ovvero di versamenti
effettuati in misura superiore a quella dovuta, si può inoltrare all'Anac
un'istanza motivata di rimborso, con allegata idonea documentazione
giustificativa.
Omesso versamento
Il Tar Milano, con la sentenza 25/2019, ha chiarito che non è ammesso il
soccorso istruttorio per sanare il pagamento della tassa gara, così anche la
sentenza del Tar Lazio 11263/ 2018.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza 1572/2018, ha evidenziato come, a
prescindere da una specifica previsione nella lex di gara, l'omesso
pagamento del contributo non può essere sanato dopo la scadenza del termine
perentorio di presentazione delle offerte poiché il mancato pagamento del
contributo previsto per tutti gli appalti pubblici costituisce una
condizione di ammissibilità dell'offerta e la sanzione dell'esclusione dalla
gara deriva direttamente dall'articolo 1, comma 67, della legge 266/2005.
FAQ
Come indicato dalle Faq, disponibili sul sito di Anac, la base di gara è un
valore stimato, valutato dalla stazione appaltante al momento dell'invio del
bando di gara o al momento in cui la stazione appaltante avvia la procedura
di affidamento del contratto. Il calcolo del valore è basato sull'importo
totale pagabile al netto dell'Iva, comprensivo degli oneri della sicurezza e
di qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto.
L'operatore economico, anche non italiano, è tenuto al pagamento del
contributo, ove previsto, anche se nel bando di gara o nella lettera di
invito non sia indicato l'obbligo. In caso di annullamento della gara,
inoltre, non è ammesso il rimborso per la stazione appaltante: il contributo
deve essere versato indipendentemente dal buon esito della procedura – anche
in caso di gara deserta. Per l'operatore economico il rimborso è ammesso
solo se la procedura non è stata avviata ovvero non sono state aperte anche
solo le buste amministrative.
La Soa è tenuta al pagamento della contribuzione dovuta entro novanta giorni
dall'approvazione del proprio bilancio. Può chiedere la rateizzazione del
contributo dovuto, incrementato degli interessi legali da calcolare a
decorrere dal 91° giorno successivo all'approvazione del proprio bilancio
alla data di effettivo pagamento. Il contributo dovrà, comunque, essere
completamente corrisposto non oltre il 31 dicembre dell'anno di competenza
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
INCARICHI PROGETTUALI: Servizi di punta, divieto di frazionamento soft.
Il requisito non va posseduto da tutte le imprese del gruppo.
In un appalto di servizi tecnici, il divieto di frazionamento dei
«servizi di punta», in caso di raggruppamenti di concorrenti, non è
legittimo che sia inteso nel senso che ciascun partecipante al
raggruppamento debba possedere il requisito per intero.
È
quanto ha chiarito l'Anac con il
Parere di Precontenzioso 28.11.2018 n. 1101 - rif. PREC 216/18/S nell'ambito di una procedura di affidamento di
servizi di ingegneria e architettura.
La delibera interviene su una richiesta di parere relativa a una previsione
del disciplinare di gara dalla quale sembrava desumersi che ciascun
partecipante al Raggruppamento temporaneo di imprese (Rtp) dovesse possedere
il requisito dei due servizi cosiddetti di punta maturati negli ultimi dieci
anni per ogni singola categoria e per l'intero importo, mentre in realtà,
secondo una interpretazione pro concorrenziale, sarebbe stato sufficiente
che il possesso integrale fosse dimostrato da almeno uno dei componenti del
raggruppamento stesso.
L'Autorità precisa che già nelle linee guida 1/2016 si prevede che in caso
di raggruppamento temporaneo di progettisti il requisito dei due servizi «di
punta» non sia frazionabile.
Ciò premesso, la delibera specifica però che la non frazionabilità deve
essere intesa nel senso che «i cosiddetti servizi di punta, a differenza
degli altri requisiti, devono essere posseduti integralmente da almeno uno
dei soggetti presenti nel raggruppamento, in conformità con l'orientamento
giurisprudenziale consolidato». Invece non è corretto interpretare la non
frazionabilità del requisito dei servizi di punta non «nel senso che ciascun
componente del raggruppamento debba possedere il requisito per intero»
perché così facendo ci si porrebbe in contrasto con la logica del
raggruppamento stesso, diretta a garantire la massima partecipazione alla
gara.
È sufficiente, invece, che tale requisito sia posseduto per intero da un
singolo componente del raggruppamento, in quanto il principio della non
frazionabilità dei due servizi di punta in capo a un solo soggetto del
raggruppamento temporaneo risponde all'interesse che vi sia un livello
minimo di capacità per la partecipazione alle gare d'appalto, ovvero
all'interesse a non polverizzare eccessivamente i requisiti di
partecipazione.
In tale senso l'Anac si era espressa anche con il Bando-tipo n. 3 (in realtà
un vero e proprio disciplinare di gara-tipo) che al punto 7.4 specifica che,
in caso di raggruppamento temporaneo di progettisti di tipo «orizzontale»,
il possesso dei due servizi di punta relativi alla singola categoria e ID
deve essere dimostrato da un solo soggetto del raggruppamento o, in
alternativa, può essere dimostrato da due componenti diversi del medesimo
raggruppamento.
È infatti chiaro per Anac che il divieto di frazionamento riguarda il
singolo servizio di ogni «coppia» di servizi, così come si chiarisce al
punto n. 7 della nota illustrativa al Bando tipo n. 3 e al recente
chiarimento relativo al divieto di frazionamento dei due servizi di punta
pubblicato sul sito dell'Autorità il 19.11.2018. Invece, in caso di
raggruppamento temporaneo di progettisti di tipo «verticale», ciascun
componente deve possedere il requisito dei due servizi di punta in relazione
alle prestazioni che intende eseguire, fermo restando che il mandatario deve
possedere i due servizi attinenti alla prestazione principale
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2018). |
APPALTI: Nuove regole per chiedere pareri consultivi all'Anac. Da
oggi in vigore il regolamento pubblicato in G.U. il 20/12/2018.
In
vigore da oggi il nuovo regolamento Anac per le richieste di pareri non
vincolanti in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza,
nonché in materia di contratti pubblici; per gli appalti potranno formulare
richieste di parere le stazioni appaltanti e i soggetti portatori di
interesse (le associazioni e i comitati); il parere dovrà essere emesso
entro 120 giorni.
Sono queste le novità del nuovo regolamento Anac (che
sostituisce il precedente del 20.07.2016) emesso con la
delibera 21.11.2018 n. 1102, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 25 del 20.12.2018, che entra in vigore oggi.
Nel nuovo regolamento viene preliminarmente precisato che è in capo
all'Autorità l'attività consultiva, con riferimento a fattispecie concrete,
in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza, con particolare
riguardo alle problematiche interpretative e applicative della legge 06.11.2012, n. 190 e dei suoi decreti attuativi e, in materia di contratti
pubblici, con particolare riguardo alle problematiche interpretative e
attuative del Codice, fatta eccezione per i pareri di precontenzioso di cui
all'art. 211, comma 1.
L'attività consultiva è esercitata, oltre che nei casi previsti dalla legge
Severino (art. 1, comma 2, lettere d ed e), nonché dall'art. 16, comma 3
della legge 39/2013, «quando la questione sottoposta all'attenzione
dell'Autorità presenta una particolare rilevanza sotto il profilo della
novità, dell'impatto socio-economico o della significatività dei profili
problematici posti in relazione alla corretta applicazione delle norme
indicate nel comma 1 del provvedimento».
L'Autorità chiarisce che l'adozione di pareri non vincolanti in materia di
contratti pubblici, nonché in tema di prevenzione della corruzione,
richiesti con riferimento a casi concreti in ordine alla corretta
interpretazione e applicazione della disciplina di settore, fatta eccezione
per i pareri di precontenzioso di cui all'art. 211 del dlgs n. 50/2016,
costituisce una funzione strettamente connessa con le funzioni di
regolazione e di vigilanza dell'Autorità, in quanto volta a fornire
indicazioni ex ante e a orientare l'attività alle amministrazioni, nel pieno
rispetto della discrezionalità che le caratterizza.
L'Autorità potrà essere interessata da una richiesta di parere da una
pluralità di soggetti, in relazione alle diverse materie per le quali è
prevista la funzione consultiva: ad esempio per i pareri previsti all'art.
1, comma 2, lettera d), della legge n. 190 del 2012, dal ministro per la
pubblica amministrazione; per i pareri previsti all'art. 1, comma 2, lettera
e), della legge n. 190 del 2012, dalle amministrazioni dello Stato e gli enti
pubblici nazionali.
Il parere Anac sarà richiesto in merito all'applicazione della disciplina
per la prevenzione della corruzione e trasparenza, con particolare riguardo
alla legge n. 190/2012 e ai relativi decreti attuativi.
Infine, per quanto riguarda il codice dei contratti pubblici, potranno
rivolgersi all'Anac «le stazioni appaltanti, come definite all'art. 3, comma
1, lettera o), del codice nonché i soggetti portatori di interessi
collettivi costituiti in associazioni o comitati». In ogni caso il parere
dovrà essere reso entro 120 giorni
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
LAVORI
PUBBLICI: Anticipazione prezzi pure per lavori sotto soglia Ue.
La stazione appaltante deve pagarla sempre all'appaltatore.
L'anticipazione
prezzi per gli appalti di lavori non può essere limitata ai soli appalti
sopra la soglia Ue di 5,5 milioni; non è vero che l'obbligo di
corresponsione dell'anticipazione da parte della stazione appaltante
all'appaltatore non si applica alle procedure di importo inferiore alla
soglia Ue.
Lo
ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con il
Parere di Precontenzioso 14.11.2018 n. 1050 - rif. PREC. 201/18/L.
Il committente aveva sostenuto che il divieto di anticipazione del prezzo
inserito nel capitolato speciale d'appalto relativo ad una gara di importo
di circa un milione di euro sarebbe pienamente valido alla luce di
un'interpretazione sistematica del testo di legge. Infatti, sempre secondo
la stazione appaltante, l'art. 35 che prevede al comma 18 l'obbligo di
corresponsione dell'anticipazione da parte della stazione appaltante
all'appaltatore riguarda le procedure sopra soglia comunitaria e sembrerebbe
non applicarsi alla procedura di cui all'oggetto che invece è di importo
inferiore a tale soglia e quindi disciplinata dal successivo art. 36 in cui
dell'anticipazione del prezzo non si fa menzione.
L'Autorità ha affermato invece che l'anticipazione spetta in ogni caso,
«indipendentemente dalla richiesta dell'impresa, entro sei mesi dalla data
dell'offerta». L'Anac innanzitutto ricostruisce la natura dell'istituto
evidenziandone la finalità di consentire all'appaltatore di affrontare le
spese iniziali necessarie all'esecuzione del contratto è stato oggetto di
numerose modifiche normative.
L'anticipazione, dopo che nel 2013, per favorire gli investimenti e dare
impulso all'imprenditoria, in una fase di stagnazione economica e di crisi
del mercato, è stata ripristinata sia pure temporaneamente nell'importo del
10%, poi del 20%. Con l'entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti di
cui al dlgs n. 50/2016, al comma 18, dell'articolo 35 viene
istituzionalizzata l'anticipazione del 20% calcolata non più sull'importo
contrattuale, come nella corrispondente previsione del vecchio Regolamento
all'art. 140, dpr 207/2010, ma sul «valore stimato dell'appalto».
È precisato, per altro, che tale anticipazione deve essere corrisposta
all'appaltatore entro quindici giorni dall'effettivo inizio dei lavori ed è
subordinata alla costituzione di garanzia fideiussoria bancaria o
assicurativa di importo pari all'anticipazione maggiorato del tasso di
interesse. La norma di cui all'articolo 35 ha quindi valenza generale e «la
ratio che sorregge il principio di anticipazione delle somme erogate
dall'amministrazione è di dare impulso all'iniziativa imprenditoriale,
assicurando la disponibilità delle stesse nella delicata fase di avvio dei
lavori e di perseguire il pubblico interesse alla corretta e tempestiva
esecuzione del contratto».
A nulla vale quindi invocare il divieto di cui alla «tacitamente abrogata»
legge nel decreto legge n. 79/1997, peraltro «non avrebbe senso», ha
proseguito l'Anac, «precludere tale facoltà di accesso all'anticipazione per
affidamenti di importo inferiore che spesso vedono protagoniste imprese di
dimensioni medio piccole e più tutelate dal legislatore»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2018). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI: Il
subappalto dopo la conversione del decreto cd Sblocca
Cantieri.
Domanda
Come è cambiato l’istituto del subappalto con la conversione
del decreto c.d. “Sblocca Cantieri”?
Risposta
La legge n. 55/2019 di conversione del decreto-legge 32 del
18.04.2019 c.d. sblocca cantieri, ha modificato in modo
significativo il contenuto originale dello stesso,
comportando non pochi problemi in capo agli operatori del
settore che si trovano a dover applicare differenti
disposizioni a seconda della data di pubblicazione del bando
o lettera d’invito, oltre a queste continue operazioni di
adeguamento della documentazione di gara.
Tra gli istituti maggiormente attenzionati non solo a
livello comunitario ma anche in ambito più prettamente
locale, quello del subappalto, che con la legge di
conversione passa dalla soglia del 50% al 40% del valore
complessivo dell’appalto [1], salvo diversa (inferiore)
percentuale scelta dalle stazioni appaltanti, ed in quanto
ovviamente la prestazione presenti delle caratteristiche
tali da rendere assolutamente rilevante l’esecuzione
prevalente da parte del soggetto aggiudicatario in luogo a
quella del subappaltatore. Per le opere di cui all’art. 89, co. 11, del codice, ovvero le SIOS, rimane il limite del 30%
dell’importo delle stesse, da non computarsi ai fini del
raggiungimento della soglia generale di cui all’art. 105,
co. 2 (art. 1, co. 2, del D.M. 10.11.2016 n. 248).
Questo almeno fino al 31.12.2020 avendo il legislatore per
alcune disposizioni relative all’istituto del subappalto,
analogamente ad altre norme del codice, optato per la
sospensione sperimentale.
Purtroppo non abrogata, anzi ritornata in vigore e poi
sospesa la norma che prevede per le gare sopra-soglia o per
quelle particolarmente esposte al rischio di infiltrazione
mafiosa, come individuate al comma 53 dell’art. 1 della l.
190/2012 l’obbligo di indicare la terna dei sub-appaltatori.
Disposizione che ha portato a notevoli problemi
interpretativi e applicativi in sede di gara, per la
difficoltà di disciplinare l’istituto del soccorso
istruttorio con l’eventuale omessa o incompleta
dichiarazione della terna, oltre all’esclusione del
concorrente per mancanza dei requisiti in capo ai
subappaltatori. Conseguentemente fino alla stessa data non
c’è l’onere di verificare l’assenza in capo ai
subappaltatori dei motivi di esclusione specifici di cui
all’art. 80 del codice.
Anche l’art. 174, co. 2, ultimo periodo, che prevede
l’obbligo di indicare la terna nel caso di subappalto nella
concessione di servizi o lavori, viene sospeso dalla legge
di conversione. Sul punto si ritiene utile precisare come
dalla lettura dell’articolo emerga che l’eventuale
subappalto, sia esso necessario, ovvero ai fini della
qualificazione, o meramente facoltativo non preveda limiti
quantitativi e neppure la richiesta di una specifica
autorizzazione da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice,
prevedendo il comma 2 il solo l’obbligo di indicare in sede
di offerta le parte del contratto di concessione che si
intende subappaltate a terzi.
In sede di conversione, inoltre, viene poi reintrodotto il
divieto, in precedenza soppresso, di affidare il subappalto
ad altro soggetto partecipante alla medesima gara, e si
ritorna al pagamento diretto dei subappaltatori nei casi
previsti ante decreto legge.
---------------
[1] Ai sensi dell’art. 1, comma 18, primo periodo, della
legge n. 55 del 2019, nelle more di una complessiva
revisione del codice dei contratti, fino al 31 dicembre
2020, in deroga all’art. 105, co. 2, del codice, fatto salvo
quanto previsto da comma 5 del medesimo articolo, il
subappalto è indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di
gara e non può superare la quota del 40 per cento
dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o
forniture.
Fino alla medesima data di cui al periodo
precedente, sono altresì sospese l’applicazione del comma 6
dell’art. 105 e del terzo periodo del comma 2 dell’art. 174,
nonché le verifiche in sede di gara di cui all’art. 80 del
medesimo codice, riferite al subappaltatore (31.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi
di trasparenza per gli incaricati di posizione organizzativa.
Domanda
Nel nostro ente (con dirigenza) sono state nominate, di
recente, delle posizioni organizzative, ex art. 13 e
seguenti del CCNL Funzioni locali. Su dieci P.O., cinque
hanno anche delle deleghe dirigenziali. I restanti cinque
non l’hanno.
Come si deve comportare l’ente per ciò che concerne gli
obblighi di pubblicità e trasparenza delle P.O.?
Risposta
Per effetto dell’articolo 14, commi 1 e 1-quinquies, del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo inserito
dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, gli obblighi di pubblicazione e
trasparenza per le posizioni organizzative sono notevolmente
differenziati a seconda delle seguenti casistiche:
• Posizione organizzativa in ente con dirigenza, senza delega
dirigenziale;
• posizione organizzativa in ente senza dirigenza o con delega
dirigenziale.
Per gli incaricati di posizione organizzativa, negli enti
CON dirigenza e SENZA delega dirigenziale, l’obbligo è
ristretto alla pubblicazione del curriculum, redatto in
conformità al vigente modello europeo.
Il documento va pubblicato nella sezione Amministrazione
trasparente > Personale > Posizioni organizzative.
Il termine per provvedere alla pubblicazione è previsto
entro tre mesi dal conferimento e l’obbligo decade dopo tre
anni dalla cessazione dall’incarico. L’aggiornamento del
curriculum, deve avvenire in modo “tempestivo” (art. 8, d.lgs. 33/2013), se si verificano delle variazioni
significative rispetto a quelle pubblicate.
Per gli incaricati di posizione organizzativa negli enti
senza dirigenza e in quelli con dirigenti e delega
dirigenziale, gli obblighi restano quelli riportati nel
comma 1, del citato art. 14 e sono i seguenti:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui
agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata
dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge
non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli
stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al
mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente
lettera concernenti soggetti diversi dal titolare
dell’organo di indirizzo politico non si applicano le
disposizioni di cui all’articolo 7.
Per gli obblighi della lettera f) –situazione reddituale e
patrimoniale– è intervenuta la sentenza della Corte
costituzionale n. 20/2019, che ha escluso l’obbligo per i
dirigenti e le P.O., con la sola eccezione dei titolari
degli incarichi dirigenziali, previsti dall’art. 19, commi 3
e 4, del d.lgs. 165/2001.
Per la seconda tipologia di incarichi, gli obblighi vengono
assolti –entro tre mesi dal conferimento dell’incarico–
con pubblicazione dei dati e delle informazioni su
Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di
incarichi dirigenziali (dirigenti non generali). I dati
dovranno essere pubblicati in tabelle che distinguano le
seguenti situazioni:
• dirigenti;
• dirigenti individuati discrezionalmente;
• titolari di posizione organizzativa con funzione dirigenziali.
Anche in questo caso, l’aggiornamento dei dati deve essere
tempestivo e l’obbligo cessa, dopo tre anni dal termine
dell’incarico di P.O. (art. 14, comma 2, d.lgs. 33/2013) (30.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: La
verifica dell'interesse culturale dei beni.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 42/2004, introduce all'art. 12 il procedimento
per la verifica dell’interesse culturale dei beni mobili ed
immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli enti
pubblici ed alle persone giuridiche private senza fine di
lucro.
L’art. 12 prevede che tutti i beni che siano opera di autore
non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre
cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se
immobili, siano sottoposti all'accertamento dell’interesse
culturale attraverso una procedura che prevede l’invio dei
dati identificativi e descrittivi delle cose immobili e
mobili ai fini della valutazione di merito da parte dei
competenti uffici del Ministero.
Un Comune riceve da un soggetto privato la proposta di
cessione, a titolo oneroso, del diritto di utilizzo della
propria banca dati, formata da documenti di testo e
fotografici pubblici e privati, riguardanti la storia del
Comune, dalle origini fino alla sua costituzione formale,
avvenuta oltre 60 anni fa.
Tale banca dati costituisce un vero e proprio archivio
storico, dal 1857 al 1960, comprendente foto del paese,
mappe del litorale dell’IGM di F., mappe catasto terreni,
etc.
Le fonti archivistiche consultate e dalle quali è stata
tratta la documentazione che si vorrebbe cedere, a titolo
oneroso, al Comune proviene da Archivi di Stato, di Comuni e
Province, Archivi parrocchiali, universitari e dell’Agenzia
delle Entrate.
Si chiede di conoscere se, a vostro parere:
- tale proposta rientri nella particolare attività di vendita o
commercio di archivi o singoli documenti o beni librari,
particolarmente delicata poiché potrebbe coinvolgere anche
beni culturali sottoposti a tutela, ai sensi del citato
decreto legislativo;
- alla luce della normativa vigente, sia onere del Comune eventuale
cessionario dei beni, sottoporre la proposta del soggetto
privato alla previa vigilanza della competente
soprintendenza archivistica e bibliografica per
l’autorizzazione o dichiarazione di interesse culturale,
ovvero avvalersi della collaborazione del Comando
Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
O se, al contrario, spetti al cedente la verifica de quo,
prima di intraprendere ogni azione di vendita/donazione
della banca dati in oggetto.
RISPOSTA:
Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio è stato già
oggetto di modifiche introdotte con i due decreti
legislativi nn. 156 e 157 del 24.03.2006 ed è in attesa di
ulteriore revisione per impulso del Ministero dei Beni
Culturali.
Sul piano squisitamente operativo uno degli aspetti,
maggiormente problematici è rappresentato proprio dal
procedimento di verifica di interesse culturale di cui
all’art. 12 di cui al quesito.
Così come confezionata la disposizione legislativa ha
comportato difficoltà interpretative -riguardanti
specialmente le limitazioni soggettive da applicare al
procedimento di che trattasi- tra i fruitori della norma e
gli stessi soggetti chiamati ad applicarla.
Il procedimento amministrativo per dettato normativo
stabilisce con chiarezza che può essere avviato d’ufficio o
su richiesta dei singoli soggetti cui i beni appartengono,
ma non esprime una altrettanto chiara individuazione dei
diversi termini iniziali del procedimento nelle due ipotesi.
Con tutta probabilità nella mente del legislatore il fulcro
sta nella ricezione della documentazione relativa al bene da
sottoporre a verifica da parte dell’Agenzia del Demanio,
indipendentemente dal suo avvio nelle distinte ipotesi.
In buona sostanza la durata del procedimento è fissata in
gg. 60, di cui 30 per il completamento della istruttoria
(Soprintendenza). Ferma ogni fondata perplessità sul
rispetto dei termini fissati nonostante la dichiarazione di
perentorietà, ci sembra interessante il fatto che il
risultato della verifica, connesso all’inserimento in un
archivio informatico per finalità di monitoraggio del
patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi,
estende le disposizioni procedimentali "...omissis...” anche
agli immobili appartenenti alle regioni, gli altri enti
pubblici territoriali nonché alla proprietà degli altri enti
ed istituti pubblici (comma 12).
Ciò che a noi precipuamente interessa è di individuare
l’ambito soggettivo di applicazione per eventualmente
escludere dal regime normativo il caso descritto dal
quesito.
In proposito va detto che ciascun provvedimento individua i
soggetti destinatari del provvedimento finale riferito al
c.d. procedimento di verifica dell’interesse.
In rapida sintesi facendo riferimento anche alle
disposizioni che li nominano, i soggetti sono:
a) le Amministrazioni dello Stato (D.L. n. 269/2003, d.lgs. n.
42/2004 e D.M. 28.02.2005);
b) le Regioni, le Province, le Città metropolitane ed i Comuni
(norme c/s);
c) enti ed istituti pubblici (norme c/s);
d) persone giuridiche private senza fine di lucro (D.M.
25.01.2005);
e) istituti ed enti religiosi (Accordo 08.03.2005).
Si può agevolmente notare che trattasi di soggetti pubblici
o ad essi equiparati. Esiste poi un regime differenziato di
tutela per le cose di interesse storico artistico in
relazione alla natura giuridica dei soggetti cui le cose
appartengono –privati o “pubblici”- (già dalla legge
n. 1089/1939).
Tra i due regimi differenziati l’elemento discriminante è
rappresentato dal modo di individuazione dei beni oggetto di
tutela.
Per i privati, infatti, occorre un provvedimento ad hoc
dell’Amministrazione –debitamente notificato- che assoggetti
il bene al regime di vincolo, mentre per quei soggetti
definibili “pubblici” l’assoggettamento alla tutela
avviene ex lege, ovverosia attraverso disposizioni
ad hoc.
Tra i privati si devono far rientrare tutti quei soggetti
che dotati di personalità giuridica non perseguano un fine
di lucro, come ad esempio gli enti ecclesiastici legalmente
riconosciuti, associazioni, le fondazioni e le altre
istituzioni private che abbiano acquistato la personalità
giuridica mediante un formale riconoscimento, ma senza fini
di lucro.
Un ulteriore criterio da tenere come parametro di
riferimento è costituito dal diverso livello dell'interesse
che il bene deve avere per assumere la qualità di bene
culturale.
I soggetti interessati da tale procedimento sono anche i
privati e le persone giuridiche private con scopo di lucro,
con la conseguenza che “trattandosi in definitiva di
competizione di diversi interessi entrambi di rango
costituzionale, quale quello alla tutela del patrimonio
artistico da un lato, e quello della proprietà privata
dall'altro” (Cons. Stato, sez. VI, 27.08.2001, n. 4508,
in Riv. giur. ed., 2001, I, p. 1167) è stato previsto un
procedimento particolarmente rigoroso e tuzioristico.
Stando al citato principio, per i beni pubblici (ed
assimilati) l'interesse di riferimento è solo quello "semplice"
(art. 10 comma primo) e cioè senza altra aggettivazione,
mentre per i beni dei privati l'interesse deve essere
«particolarmente importante» [art. 10, comma 3, lettera a)]
e addirittura "eccezionale" per i beni indicati nel
citato dispositivo (lettera e)
Per i beni di appartenenza privata, quindi, il regime di
tutela viene rinviato al momento della relativa
dichiarazione o, per meglio dire, al momento dell'inizio
della fase procedimentale, individuato dalla norma nella
comunicazione dell'avvio del procedimento (articolo 14 comma
1).
Sembra anche opportuno segnalare in proposito che
l’obiettivo è quello di tutelare in maniera preventiva tutti
quei beni che, per la loro natura e per la loro
appartenenza, rivestono un potenziale interesse culturale,
dall'altro la necessità di un procedimento che consenta la
liberalizzazione della circolazione (esigenza quest'ultima
particolarmente avvertita allorché si è attuata una politica
di alienazione di parte del patrimonio pubblico).
In ordine alla efficacia, è prevalente l'opinione che il
provvedimento ha natura meramente dichiarativa in quanto
concernente una qualità oggettiva del bene, “in esso
intrinsecamente presente”. Quest'ultima tesi -che in
passato la Corte costituzionale ha fatto propria respingendo
ogni dubbio di incostituzionalità della L. n. 1089/1939 ed
ogni tentativo di pretendere la corresponsione di un
indennizzo a ristoro del pregiudizio derivante
dall'imposizione del vincolo- appare preferibile, ove si
consideri che l'interesse culturale di un bene non viene
creato dal provvedimento amministrativo, che si limita a
riconoscerlo, rivelarlo e dichiararlo pubblicamente, ma
esiste sin dall'origine.
La giurisprudenza amministrativa regionale ci è d’ausilio
nel ricordarci che, come ogni provvedimento amministrativo
la dichiarazione deve essere supportata da una valida
motivazione con particolare riguardo “all'esistenza degli
elementi fattuali e di giudizio giustificativi
dell'interesse artistico o storico atto a determinare
l'imposizione del vincolo, così da rendere possibile la
ricostruzione dell'iter logico seguito dall'amministrazione”
(Tar Veneto, sez. II, 29.10.1996, n. 1801, in Giur. mer.,
1997, p. 603), nonché “deve accertare il collegamento dei
beni e della loro utilizzazione con gli accadimenti della
storia e della cultura, individuando l'interesse
particolarmente importante del bene, che può dipendere o
dalla qualità dell'accadimento che col bene appare collegato
o dalla particolare rilevanza che il bene stesso ha
rivestito per la storia politica, militare, della
letteratura, dell'arte e della cultura” (C.d.S., Sez.
VI, 24.03.2003, n. 1496).
CONCLUSIONI
Quale che sia il procedimento di verifica, esso spetta al
MIBAC (Ministero per i beni e le attività culturali), in
ordine alla esistenza o meno dell'interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico (categoria questa
ultima entro la quale potrebbe astrattamente rientrare il
caso esposto dal quesito).
Si ricorda anche che l'attivazione su richiesta della parte
si fonda sulla possibilità che, attraverso tale procedura,
si ottenga la liberalizzazione del bene da ogni vincolo in
ordine alla tutela ed alla circolazione.
L'esito della verifica, che viene proposta d'ufficio o su
richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono
(comma 2 articolo 12), può risultare negativo ovvero
positivo.
Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato
riscontrato l'interesse sopra evidenziato, le cose medesime
sono escluse dal regime di tutela (comma 4, articolo 12).
Si ricorda per completezza di trattazione che avverso la
dichiarazione di cui all'articolo 13 è ammesso ricorso al
Ministero, per motivi di legittimità e di merito, entro
trenta giorni dalla notifica della dichiarazione (articolo
16).
Fermo restando quanto sopra chiarito e salva la possibilità
da parte del privato interessato di avviare il procedimento
di verifica - diretto non di certo all’ente locale coinvolto
- chi scrive ritiene che, salvo smentita da parte
dell’Organo Ministeriale valutatore, dei beni immateriali in
questione, per come descritti dal quesito e consistenti in
una mera, se pure finalizzata e tematica raccolta
documentativa e di quant'altro concernente la storia
culturale e sociale del Comune, non sarà positivamente
riscontrato, accertato e dichiarato l’interesse culturale ex
art. 12 del Codice.
In ogni caso, soltanto successivamente ad un eventuale
riscontro positivo, l’amministrazione locale potrà valutare
l’ipotesi di acquisizione del bene al proprio patrimonio, a
titolo grazioso o oneroso rispettando ogni disposizione
legislativa (Tuel) e regolamentare (Regolamento di
Contabilità) al fine di adottare dei legittimi e regolari
provvedimenti comunali acquisitivi
(tratto da e link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasformazione part-time.
Domanda
Può essere negata la richiesta da parte di un lavoratore di
avere il proprio rapporto di lavoro trasformato da tempo
pieno a tempo parziale?
Risposta
Con l’art. 73 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito,
in legge n. 133 del 2008, è stato modificato il regime
giuridico relativo alla trasformazione del rapporto da tempo
pieno a part-time, con una novella all’art. 1, comma 58,
della legge n. 662 del 1996. Inoltre, sempre con il medesimo
provvedimento, è stato modificato il comma 59 del citato
articolo, incidendo sulla destinazione finanziaria dei
risparmi derivanti dalla trasformazione dei rapporti.
In sintesi, le novità apportate con il decreto-legge n. 112
del 2008 riguardano i seguenti aspetti:
• è stato eliminato ogni automatismo nella trasformazione del
rapporto, che attualmente è subordinato alla valutazione
discrezionale dell’amministrazione interessata;
• stata soppressa la mera possibilità per l’amministrazione
di differire la trasformazione del rapporto sino al termine
dei sei mesi nel caso di grave pregiudizio alla funzionalità
dell’amministrazione stessa;
• è stata contestualmente introdotta la possibilità di
rigettare l’istanza di trasformazione del rapporto
presentata dal dipendente nel caso di sussistenza di un
pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione;
• è stata innovata la destinazione dei risparmi derivanti
dalle trasformazioni, prevedendo che una quota sino al 70%
degli stessi possa essere destinata interamente
all’incentivazione della mobilità, secondo le modalità ed i
criteri stabiliti in contrattazione collettiva, per le
amministrazioni che dimostrino di aver proceduto ad attivare
piani di mobilità e di riallocazione di personale da una
sede all’altra.
Non vi è quindi nessun automatismo, ma la trasformazione
deve sempre essere concessa (25.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: Acquisto
complesso immobiliare da destinare a nuova sede protezione
civile.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011,
introdotto dall’art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo
modificato dall’art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017,
stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all’acquisto
di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a
comprovarne l’indispensabilità e l’indilazionabilità,
nell’ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori
rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
L’art. 1, c. 905, lett. d), L. n. 145/2018, stabilisce che,
a decorrere dall’esercizio 2019, il suddetto comma 1-ter non
si applica ai comuni e alle loro forme associative che
approvano il bilancio consuntivo entro il 30 aprile e il
bilancio preventivo dell’esercizio di riferimento entro il
31 dicembre.
L’art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall’art.
11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui
all’art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall’art. 1,
c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali
del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Il Comune riferisce di avere individuato un capannone nella
zona industriale ove vorrebbe trasferire la nuova sede della
protezione civile ed espone che per detto capannone e per il
terreno su cui insiste è stato emesso avviso d’asta
giudiziaria per l’unico complesso immobiliare, cui il Comune
vorrebbe partecipare quale offerente, autorizzato da
delibera consiliare ai sensi dell’art. 42 del D.Lgs. n.
267/2000 (TUEL), e motivando l’iniziativa con il
perseguimento della cura di uno specifico interesse
pubblico.
Sulla legittimità di detta operazione, il Comune
chiede un parere, avuto riguardo al divieto di acquisto per
gli amministratori dei beni affidati alla loro cura, di cui
all’art. 1471 c.c.
L’art. 1471 c.c., stabilisce che “non possono essere
compratori nemmeno all’asta pubblica, né direttamente, né
per interposta persona”, tra gli altri, “gli amministratori
dei beni dello Stato, dei comuni, delle province o degli
altri enti pubblici, rispetto ai beni affidati alla loro
cura”.
Il divieto in commento è sancito a pena di nullità (art.
1471, ultimo comma, c.c.) ed è volto a garantire che chi
amministra beni pubblici abbia a tutelare effettivamente gli
interessi affidati alle sue cure e non contrapponga o
sovrapponga ad essi il proprio personale interesse
[1]. Si
tratta dunque di una norma che mira a scongiurare situazioni
di conflitto di interessi in cui possono incorrere gli
amministratori comunali, rispetto ai beni del comune
[2],
cioè ai beni dell’ente amministrato
[3].
Nel caso di specie, è il Comune che intende acquistare il
complesso immobiliare di cui si tratta per destinarlo alla
nuova sede della protezione civile, per cui non viene in
considerazione il divieto di acquisto di cui all’art. 1471
c.c., riferito al divieto per gli amministratori, nella loro
persona, di acquistare beni di proprietà comunale.
Peraltro, per quanto concerne gli acquisti di immobili da
parte degli enti locali, vengono in considerazione vincoli
finanziari in tema di contenimento della spesa pubblica, in
relazione ai quali, sentito il Servizio finanza locale di
questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L’art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato
dall’art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere
dall’01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di
stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento.
Le disposizioni
di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali
che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a
valere su risorse stanziate con apposita delibera del
Comitato interministeriale per la programmazione economica o cofinanziate dall’Unione europea ovvero dallo Stato o dalle
regioni e finalizzate all’acquisto degli immobili stessi. La
congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio
previo rimborso delle spese.
L’art. 1, comma 905, lett. d), L. n. 145/2018
[4]
, ha
previsto che a decorrere dall’esercizio 2019, ai comuni e
alle loro forme associative che approvano il bilancio
consuntivo entro il 30 aprile e il bilancio preventivo
dell’esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell’anno
precedente non trovano applicazione, tra l’altro, le
disposizioni di cui all’art. 12, comma 1-ter, D.L. n.
98/2011.
Sul piano dell’ordinamento regionale, l’art. 11, c. 11, L.R.
n. 5/2013, come novellato dall’art. 11, c. 5, L.R. n.
6/2013, prevede che le disposizioni di cui all’art. 12, D.L.
n. 98/2011, come modificato dall’articolo 1, comma 138,
della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali
della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Alla luce del quadro normativo delineato, compete all’Ente
verificare nel caso concreto la possibilità di procedere
all’acquisto del complesso immobiliare di cui si tratta,
accertando la ricorrenza dei presupposti legittimanti
richiesti dalla normativa statale, oppure la possibilità di
applicare la norma regionale citata. A quest’ultimo
riguardo, si precisa che la stessa postula che nei decreti
di assegnazione dei fondi regionali di finanziamento vi sia
la specifica previsione delle somme a disposizione per
l’acquisto degli immobili di interesse.
---------------
[1] Cfr. Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi,
Dizionario giuridico del notariato: nella casistica pratica,
Giuffrè, 1006, p. 396.
[2] Cfr. Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari
interni e territoriali, pareri del 6 aprile 2009 e 22.11.2004. Il Ministero dà un’interpretazione ampia
della locuzione “amministratori” destinatari del divieto,
comprensiva del Sindaco, degli assessori, dei consiglieri,
in considerazione della valenza generale che riveste
l’individuazione delle categorie degli amministratori
effettuata dal comma 2 dell’art. 77 del TUEL.
Nel senso di un’accezione ampia della nozione di
amministratori di cui all’art. 1471, anche la giurisprudenza
di merito: Appello Milano, 28.04.1961, GI, 1961, I, 2,
538, richiamata da Consiglio nazionale del notariato.
Ufficio Studi, op. cit., p. 397.
Sulla scia di detto orientamento, questo Servizio ha
affermato l’applicazione del divieto ex art. 1471, c. 1, n.
1, c.c., agli organi di governo dell’ente locale, e dunque
sindaco, assessori, consiglieri: v. nota n. 8965 del 31.05.2007 e nota n. 7440/2017.
[3] Cfr. Francesco Caringella, Giuseppe De Marzo, Manuale di
diritto civile, Volume 3, Giuffrè Editore, 2008, p.1068.
[4] Recante: “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2009 e bilancio pluriennale per il triennio
2019-2021” (24.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI: E'
confermata la possibilità di "uscire dalla CUC" per i Comuni
non capoluogo di Provincia?
La conversione in legge del cosiddetto "Decreto Sblocca
cantieri" (L. 14.06.2019, n. 55, art. 1 ha previsto la
seguente disposizione "Al fine di rilanciare gli
investimenti pubblici e di facilitare l'apertura dei
cantieri per la realizzazione delle opere pubbliche, per le
procedure per le quali i bandi o gli avvisi con cui si
indice la procedura di scelta del contraente siano
pubblicati successivamente alla data di entrata in vigore
del presente decreto, nonché, in caso di contratti senza
pubblicazione di bandi o di avvisi, per le procedure in
relazione alle quali, alla data di entrata in vigore del
presente decreto, non siano ancora stati inviati gli inviti
a presentare le offerte, nelle more della riforma
complessiva del settore e comunque nel rispetto dei princìpi
e delle norme sancite dall'Unione europea, in particolare
delle direttive n. 2014/23/UE, n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, fino
al 31.12.2020, non trovano applicazione, a titolo
sperimentale, le seguenti norme del codice dei contratti
pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50:
a) articolo 37, comma 4, per i comuni non capoluogo di
provincia, quanto all'obbligo di avvalersi delle modalità
ivi indicate".
Tale norma prevede quindi un regime temporaneo (31.12.2020)
di disapplicazione della disciplina sulle centrali uniche di
committenza dell'art. 37 del Codice degli Appalti
consentendo agli enti locali di non ricorrere a centrali
uniche di committenza o stazioni uniche appaltanti.
Trattandosi di una facoltà occorre precisare che:
- gli enti locali che già aderiscono ad una CUC dovranno concordare
eventuali modalità di "uscita dalla CUC" ovvero
attendere l'eventuale scadenza della gestione in forma
associata;
- gli enti potranno decidere di mantenere alla Centrale Unica di
Committenza alcune funzioni o servizi;
- gli enti potranno aderire ad altra forma di gestione associata
dei servizi e delle funzioni;
- gli enti potranno mantenere la Centrale Unica di Committenza e
tutte le funzioni già assegnate anche in relazione alla
temporaneità della norma derogatoria.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 37
D.L. 18.04.2019, n. 32
L. 14.06.2019, n. 55, art. 1 (24.07.2019 - tratto
da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Nomina
e costituzione delle commissioni di gara dopo la legge di
conversione n. 55/2019 del decreto Sblocca Cantieri.
Domanda
Alla luce delle nuove disposizioni contenute nella legge
55/2019 ed in particolare della sospensione dell’obbligo di
nominare i commissari di gara attingendoli dall’albo dell’ANAC
(peraltro non ancora avviato) si chiede di comprendere in
che modo la stazione appaltante, ora, può procedere con
l’individuazione dei commissari da far partecipare alla
commissione di gara.
Ad esempio, la commissione di gara può
essere composta interamente da commissari interni e,
soprattutto, nel caso di un Comune, la presidenza può essere
ricoperta dal responsabile del servizio (che poi dovrà
gestire il contratto)?
Risposta
La legge di conversione del DL 32/2019, n. 55/2019 ha
sospeso –fino al 31/12/2020- la procedura di avvio dell’albo
disponendo che le commissioni di gara vengono nominate dalla
stazione appaltante interessata con previe regole di
competenza e trasparenza.
Nel periodo indicato, quindi, è il RUP della stazione
appaltante che verifica e propone i potenziali commissari di
gara (e ne proporrà la nomina al proprio
dirigente/responsabile del servizio).
Secondo l’articolo 216, comma 12, del codice dei contratti –come in altre circostanze rilevato– la stazione appaltante
dovrebbe “veicolare” tale attività istruttoria/propositiva
del RUP dotandosi di proprie regole interne (un proprio
regolamento e/o atto di indirizzo generale).
In giurisprudenza si è a lungo discusso sulla necessità o
meno di una previa regolamentazione interna.
In tempi recentissimi, però, si è giunti ad un momento di
sintesi –di estremo rilievo– espresso dal Consiglio di
Stato, sez. III, con la sentenza del 10.07.2019 n. 4865
che, semplificando, disconosce questa esigenza.
Nel confermare la sentenza di primo grado (TAR Friuli
Venezia Giulia, sez. I, n. 5/2019), nel caso di specie, il
ricorrente, tra le altre censurava il provvedimento della
nomina della commissione di gara avvenuto senza la previa
definizione delle regole di trasparenza e competenza.
Il giudice rammenta che “sebbene sia preferibile la previa
incorporazione delle regole di procedure in un atto fonte
della stazione appaltante, l’operato non diventa illegittimo
per il sol fatto della mancata previa formalizzazione di
dette regole”. E’ sempre necessario, prosegue la sentenza,
dimostrare in concreto, la mancanza/carenza delle condizioni
di trasparenza e competenza. Circostanza che nel caso di
specie non si è verificata, con conseguente condivisione di
quanto affermato dal TAR Veneto, ossia, che “la nomina della
commissione giudicatrice” è apparsa “sufficientemente
sostenuta dalla produzione dei curricula dei singoli
componenti e dalla formulazione, da parte di ciascuno di
essi, delle dichiarazioni sostitutive attestanti
l’insussistenza di eventuali cause di incompatibilità
rispetto all’incarico ricevuto”.
In definitiva, la mancata adozione di criteri interni non
determina per ciò stesso illegittimità della nomina, ciò che
diventa importante è che il procedimento del RUP sia
oggettivo e trasparente (con nomina di soggetti competenti).
In questo senso, a titolo esemplificativo, potrebbe essere
sufficiente una verifica interna sui soggetti competenti
(attraverso la valutazione dei curricula) e/o applicare i
principi desumibili dal pregresso articolo 84 del decreto
legislativo 163/2006. Ad esempio, nel caso in cui si intenda
nominare soggetti iscritti in albi è bene richiedere la
presentazione di una rosa di nomi da cui attingere anche
attraverso il sorteggio o previa valutazione dei curricula.
Il RUP potrebbe anche decidere di pubblicare un avviso
pubblico.
Fondamentale è la circostanza che la determina di nomina
della commissione di gara contenga un chiaro apparato
motivazionale su come siano stati individuati i commissari
(e si giustifichi l’esperienza/la competenza). Altro obbligo
è una adeguata applicazione della rotazione.
Circa la presidenza, è bene annotare che il responsabile di
servizio (per gli enti locali, ai sensi dell’articolo 107
del decreto legislativo 267/2000) dovrebbe presiedere le
proprie commissioni soprattutto se è soggetto diverso dal
RUP ed in ogni caso si sia limitato ad approvare gli atti
tecnici (capitolato e criteri di valutazione) predisposti da
altri soggetti. La giurisprudenza ha infatti sostenuto che
la pretesa incompatibilità deve trovare una adeguata prova
da parte di chi solleva le censure.
In ogni caso, attraverso previe regole interne –in questo
caso necessarie– è possibile che la presidenza venga
assegnata ad un diverso responsabile di servizio (24.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nomina
di un RPCT diverso dal vicesegretario.
Domanda
Nel nostro comune è vacante il posto di segretario comunale
da molti mesi. Per sopperire a tale vacanza è stato nominato
un vicesegretario che lo sostituisce. Nel frattempo il
Sindaco ha nominato Responsabile Anticorruzione e
Trasparenza un altro funzionario del comune e non il
vicesegretario.
La nomina è legittima ?
Risposta
L’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che negli enti locali, il Responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza sia
individuato (dal sindaco, nei comuni) –di norma– nel
segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata
determinazione.
Come si può notare, la nomina del segretario comunale, in
qualità di RPCT, rappresenta la situazione di “normalità”,
ma non è l’unica ed esclusiva prevista dalle disposizioni in
materia di prevenzione della corruzione nella pubblica
amministrazione.
Per ciò che concerne l’incarico di vicesegretario occorre
rifarsi, invece, all’articolo 97, comma 5, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce che
il ROUS (Regolamento di organizzazione uffici e servizi),
può prevedere un vicesegretario, con il compito di
coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di assenza o
impedimento.
Nel caso specifico segnalato nel quesito, non si ritiene che
le funzioni svolte dal vicesegretario comunale debbano, per
forza o in automatico, riguardare anche l’incarico di RPCT.
La diversa valutazione compiuta dal sindaco, che ha
individuato un altro responsabile, è certamente legittima e
dovrà essere debitamente sostenuta dalle motivazioni
inserite nell’atto di nomina (23.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ufficio
di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL)
attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del
sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in
pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del
sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è
necessario che la materia venga preventivamente disciplinata
nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei
Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo
attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria
in un ente locale– può essere costituito da dipendenti
dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per
dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o
strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con
contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono
dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in
aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a
tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni
locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella
collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle
funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse
tutte le attività gestionali che restano in capo ai
dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del
comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative
negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo
90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese
le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90,
possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di
staff:
• non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di
prove selettive;
• non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
• non richiede specifica esperienza professionale;
• non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o
professionale;
• non richiede che vi sia una verifica preventiva
dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
• prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
• non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i
destinatari degli incarichi, i cui contratti possono,
pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla
dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni
locali;
• non pone alcun limite alla retribuzione;
• non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta
del destinatario;
• è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media
della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci
si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è
possibile scrivere quanto segue:
a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90,
del TUEL, non è possibile nominare un componente
dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore
esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro
subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei
dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali
deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il
trattamento economico accessorio;
b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un
collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a
titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo
attualmente in vigore: "Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione
politica
1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, del presidente della
provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite
dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero,
salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente
deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza
assegni.
2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato
a tempo determinato si applica il contratto collettivo
nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di
cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto
dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico
emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro
straordinario, per la produttività collettiva e per la
qualità della prestazione individuale.
3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale
di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal
possesso del titolo di studio, è parametrato a quello
dirigenziale" (18.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI: Richiesta
del DURC ai fini dei pagamenti tra enti locali.
Il rapporto convenzionale tra l’UTI
(Unione Territoriale Intercomunale), che agisce quale
centrale di committenza, e i Comuni che fruiscono del
servizio erogato dalla controparte contrattuale dell’UTI
medesima non si ritiene annoverabile tra le tipologie di
accordo tra pubbliche amministrazioni che ricadono
nell’ambito oggettivo di applicazione del DURC.
L’Unione Territoriale Intercomunale rappresenta che, su
delega di 21 Comuni, provvede a gestire il servizio di
raccolta rifiuti, che è stato affidato in appalto ed è
regolato da apposito contratto.
I rapporti tra l’Unione e i Comuni sono disciplinati da
specifica convenzione, ai sensi della quale l’Unione
medesima provvede mensilmente a liquidare le fatture emesse
dall’appaltatore, richiedendo poi ai Comuni il pagamento
della quota di loro spettanza.
Poiché un Comune ha recentemente sospeso i pagamenti, in
quanto il documento unico di regolarità contributiva (DURC)
dell’UTI risulterebbe irregolare, quest’ultima chiede di
conoscere se nei rapporti economici tra enti locali debba
essere obbligatoriamente richiesto il DURC.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza si
formulano le seguenti considerazioni.
Occorre, preliminarmente, rilevare che la disciplina del
DURC si rinviene in una pluralità di norme, contenute in
contesti legislativi diversi.
Ai fini di cui si discute, la principale disposizione di
riferimento è costituita dall’art. 2, commi 1 e 1-bis, del
decreto-legge 25.09.2002, n. 210
[1], i quali
dispongono, rispettivamente, che «Le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare
alla stazione appaltante la certificazione relativa alla
regolarità contributiva
[2] a pena di revoca
dell’affidamento» e che la medesima certificazione «deve
essere presentata anche dalle imprese che gestiscono servizi
e attività in convenzione o concessione con l’ente pubblico,
pena la decadenza della convenzione o la revoca della
concessione stessa».
Per quanto attiene all’ambito dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture occorre anche richiamare, in
particolare, l’art. 31 del decreto-legge 21.06.2013, n.
69
[3], il cui comma 4 dispone che il DURC deve essere
acquisito da amministrazioni aggiudicatrici, organismi di
diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti
aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti
in determinate fasi della procedura di gara e del rapporto
contrattuale, inclusa quella del “pagamento degli stati di
avanzamento dei lavori o delle prestazioni relative a
servizi e forniture”.
Ne deriva, pertanto, che l’UTI (controparte contrattuale del
fornitore del servizio) deve necessariamente acquisire il
DURC dell’appaltatore per poter procedere ai pagamenti in
suo favore.
[4]
Per quanto attiene, invece, alle convenzioni, si osserva che
l’art. 2, comma 1-bis, del D.L. 210/2002 fa riferimento
unicamente alle “imprese” che gestiscono, attraverso tale
forma contrattuale, servizi e attività pubblici. Ciò
potrebbe far ritenere che l’adempimento in esame non si
estenda alla diversa fattispecie di convenzionamento tra
soggetti pubblici, ma così non è.
Va, infatti, segnalato che l’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture –sulla
scorta dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza
comunitaria– ha ritenuto che anche gli accordi tra
pubbliche amministrazioni, ove non ricorrano determinate
condizioni, devono ritenersi assoggettabili alla normativa
sui contratti pubblici
[5].
L’Autorità, dopo aver rilevato che la Corte di Giustizia ha
più volte affermato «il principio secondo cui
un’amministrazione pubblica può adempiere ai compiti ad essa
attribuiti attraverso moduli organizzativi che non prevedono
il ricorso al mercato esterno per procurarsi le prestazioni
di cui necessita, avendo piena discrezionalità nel decidere
di far fronte alle proprie esigenze attraverso lo strumento
della collaborazione con le altre autorità pubbliche»
[6]
chiarisce, nel contempo, che la medesima Corte «ha
dichiarato non conforme al diritto comunitario escludere a
priori dall’applicazione delle norme sugli appalti i
rapporti stabiliti tra amministrazioni pubbliche,
indipendentemente dalla loro natura».
Viene, in particolare, evidenziato che la Corte di Giustizia
afferma che «la normativa comunitaria in materia di appalti
pubblici è applicabile agli accordi a titolo oneroso
conclusi tra un’amministrazione aggiudicatrice ed un’altra
amministrazione aggiudicatrice, intendendo con tale
espressione un ente che soddisfa una funzione di interesse
generale, avente carattere non industriale o commerciale e
che, quindi, non esercita a titolo principale un’attività
lucrativa sul mercato»
[7].
Con riferimento all’ordinamento interno, poi, l’Autorità
afferma la piena legittimità dell’impiego dello strumento
convenzionale di cui all’art. 15, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241 –ai sensi del quale «Anche al di fuori
delle ipotesi previste dall’articolo 14
[8], le
amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro
accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di
attività di interesse comune.»– precisando quali caratteri
esso deve possedere, affinché non si configuri un’ipotesi di elusione della normativa sugli appalti pubblici
[9].
Relativamente al significato da attribuire all’espressione
“per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di
attività di interesse comune”, contenuta del predetto comma
1, l’Autorità rileva che la sua formulazione sembra
circoscrivere la possibilità di stipulare accordi alle
ipotesi in cui sia necessario disciplinare un’attività che
risponde non solo all’interesse di entrambe le parti, ma che
è anche comune.
Poiché l’art. 15 della L. 241/1990 «prefigura un modello
convenzionale attraverso il quale le pubbliche
amministrazioni coordinano l’esercizio di funzioni proprie
in vista del conseguimento di un risultato comune in modo
complementare e sinergico, ossia in forma di “reciproca
collaborazione” e nell’obiettivo comune di fornire servizi
“indistintamente a favore della collettività e
gratuitamente” (cfr. Cass. civ., 13.07.2006, n. 15893)»
l’Autorità afferma che si comprende, allora, perché la norma
non contrasta con la normativa a tutela della concorrenza:
le amministrazioni decidono di provvedere direttamente con
propri mezzi allo svolgimento dell’attività ripartendosi i
compiti, il che vale a dire, trattandosi di una
collaborazione, che entrambi i soggetti forniscono un
proprio contributo.
Qualora, invece, un ente si procuri il bene di cui necessita
per il conseguimento degli obiettivi assegnati a fronte del
pagamento del rispettivo prezzo il discorso è diverso: in
siffatta situazione, sia che ci si rivolga ad un privato,
sia che ci si rivolga ad un soggetto pubblico, è difficile
sostenere l’applicabilità dello schema della collaborazione,
atteso che si è di fronte ad uno scambio tra prestazioni
corrispettive che risponde alla logica del contratto e che
perciò richiede, in assenza di altre circostanze esimenti,
l’espletamento di una gara pubblica
[10].
In considerazione di quanto fin qui illustrato, si ritiene
che il rapporto convenzionale tra l’UTI, che agisce quale
centrale di committenza, e i Comuni che fruiscono del
servizio erogato dalla controparte contrattuale dell’UTI
medesima non risulti annoverabile tra le tipologie di
accordo tra pubbliche amministrazioni che ricadono
nell’ambito oggettivo di applicazione del DURC.
---------------
[1] Convertito, con modificazioni, dalla legge 22.11.2002, n. 266.
[2] L’art. 16-bis, comma 10, del decreto-legge 29.11.2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.01.2009, n. 2, dispone che «le stazioni appaltanti
pubbliche acquisiscono d’ufficio, anche attraverso strumenti
informatici, il documento unico di regolarità contributiva (DURC)
dagli istituti o dagli enti abilitati al rilascio in tutti i
casi in cui è richiesto dalla legge».
[3] Convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
[4] Si veda anche il comma 7 del medesimo art. 31, ai sensi
del quale «Nei contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, ai fini della verifica amministrativo-contabile,
i titoli di pagamento devono essere corredati dal documento
unico di regolarità contributiva (DURC) anche in formato
elettronico.».
[5] V. par. 2 della determinazione 21.10.2010, n. 7.
[6] Al riguardo l’Autorità sostiene che «A ben vedere,
quella esposta è la stessa ratio che è alla base
dell’esenzione dall’espletamento della gara nell’ipotesi di
utilizzo dell’in house providing: anche in questo caso
l’amministrazione opta per una scelta contraria al processo
di outsourcing, stabilendo di affidare l’attività a cui è
interessata ad un altro ente che solo formalmente è distinto
dalla propria organizzazione, ma su cui sostanzialmente essa
esercita un controllo analogo a quello che espleterebbe nei
confronti di un proprio servizio e che realizza con essa la
parte più importante della sua attività.».
[7] L’Autorità richiama anche la risoluzione del Parlamento
Europeo del 18.05.2010, che ha ribadito la legittimità
di forme di collaborazione pubblico-pubblico che «non
rientrino nel campo d’applicazione delle direttive sugli
appalti pubblici, a condizione che siano soddisfatti tutti i
seguenti criteri:
• lo scopo del partenariato è l’esecuzione di un compito di
servizio pubblico spettante a tutte le autorità locali in
questione,
• il compito è svolto esclusivamente dalle autorità
pubbliche in questione, cioè senza la partecipazione di
privati o imprese private,
• l’attività in questione è espletata essenzialmente per le
autorità pubbliche coinvolte.».
[8] L’articolo regolamenta la conferenza di servizi.
[9] A tal fine, risulta chiarito che:
«1. l’accordo deve regolare la realizzazione di un interesse
pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le
parti hanno l’obbligo di perseguire come compito principale,
da valutarsi alla luce delle finalità istituzionali degli
enti coinvolti;
2. alla base dell’accordo deve esserci una reale divisione
di compiti e responsabilità;
3. i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono
l’accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese
sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio
corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno;
4. il ricorso all’accordo non può interferire con il
perseguimento dell’obiettivo principale delle norme
comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera
circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non
falsata negli Stati membri. […]».
[10] L’Autorità ricorda che il giudice amministrativo (cfr.
TAR Puglia–Lecce, sez. I, 21.07.2010, n. 1791) ha
svolto le medesime considerazioni, affermando che «difetta
l’interesse comune nell’accordo interamministrativo quando
un’amministrazione ha inteso acquisire da un’altra
amministrazione un servizio di proprio esclusivo interesse
verso corrispettivo. […] La presenza di un corrispettivo è
dunque da considerarsi quale elemento sintomatico della
qualificazione dell’accordo alla stregua di appalto
pubblico, da assoggettare alla relativa disciplina secondo
le prescrizioni del codice degli appalti.» (18.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI
LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA: A
seguito dell'approvazione della cosiddetta “legge sulla
concretezza” gli Enti pubblici dovranno approvare un nuovo
piano triennale e costituire il Nucleo previsto dalla legge
o sono adempimenti centralizzati?
La L. 19.06.2019, n. 56 "Interventi per la concretezza
delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la
prevenzione dell'assenteismo" ha previsto all'art. 1 due
nuovi strumenti per realizzare interventi di miglioramento
dell'attività della Pubblica Amministrazione:
- l'istituzione del "Nucleo della Concretezza";
- l'approvazione del "Piano triennale delle azioni concrete per
l'efficienza delle pubbliche amministrazioni".
Il Nucleo è una struttura unica, realizzata a livello
centrale presso il Dipartimento della funzione pubblica
della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Anche il "Piano triennale delle azioni concrete per
l'efficienza delle pubbliche amministrazioni" è unico e
centralizzato ed è predisposto annualmente dal Dipartimento
della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei
ministri e viene approvato con decreto del Ministro per la
pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro
dell'interno, previa intesa in sede di Conferenza unificata
(per la parte relativa alle azioni da effettuare nelle
regioni, negli enti strumentali regionali, negli enti del
Servizio sanitario regionale e negli enti locali).
I singoli Enti non hanno dunque competenze o oneri specifici
se non quelli relativi a:
- dare attuazione alle misure contenute nel piano;
- fornire supporto alle attività del Nucleo, se richiesti;
- rispondere ad eventuali osservazioni contenuti nei verbali di
sopralluogo del Nucleo entro 3 giorni;
- comunicazione al nucleo, entro 15 giorni, delle misure attuative.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165
L. 19.06.2019, n. 56, art. 1 (17.07.2019
- tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI: Criteri
di aggiudicazione nel nuovo Decreto cd Sblocca Cantieri.
Domanda
Secondo alcuni autori il termine “verifica della
documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione
di cui all’art. 80” deve intendersi nel senso di controllo
in sede di gara della veridicità di quanto dichiarato
dall’operatore, mediante richiesta, anche tramite AVCPass,
della documentazione a comprova dei requisiti riportati nel
DGUE.
È necessario procedere a queste operazioni? Inoltre è
corretto che la stazione appaltante personalizzi il DGUE?
Risposta
La funzione del DGUE è quella di creare a livello
comunitario un modello, appunto unico, in ordine alle
dichiarazioni del possesso dei requisiti generali e
speciali, di estremo vantaggio per gli operatori economici
che non si vedono costretti alla lettura e compilazione di
diversi fac simili proposti dalle Amministrazioni, ma che
possono riutilizzare un documento già in loro possesso e
precompilato, rispetto al quale dovranno eventualmente
inserire i dati relativi alla gara di riferimento, nonché
eventuali aggiornamenti.
La personalizzazione da parte della Stazione Appaltante del
DGUE vanifica la funzione stessa del modello, rendendo in
qualche modo inutile il co. 4 dell’art. 85, del codice, che
appunto prevede la possibilità per gli operatori economici
di “riutilizzare il DGUE utilizzato in una procedura
d’appalto precedente purché si confermino che le
informazioni ivi contenute siano ancora valide”.
Proprio in ragione del principio di semplificazione, che le
Amministrazioni per quanto difficile devono cercare di
realizzare nell’interesse del mercato, si ritiene corretto
richiedere in sede di gara il possesso dei requisiti
mediante la presentazione del Documento di gara unico
europeo (DGUE) redatto in conformità al modello di
formulario approvato con Regolamento di esecuzione UE 2016/7
della Commissione del 05.01.2016 e secondo lo schema di cui
al DM del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti del 18.07.2016 o s.m., allegando, per quanto non previsto nel
predetto schema ministeriale, a seguito delle modifiche al
codice dei contratti, un proprio modello di dichiarazione
integrativa (art. 80, comma 5, lett. c-bis, c-ter, c-quater,
f-bis e f-ter del Codice).
Con riferimento inoltre alla necessità di verificare tutti
gli operatori in sede di gara, si ritiene di non aderire
alla posizione evidenziata nel quesito, almeno fino a quando
non sarà completamente operativa la BDNCP, in linea con
quanto evidenziato dallo stesso Consiglio di Stato nella
recente sentenza n. 4364 del 25.06.2019, che rispetto alla
censura di parte ricorrente di omessa verifica dei requisiti
in sede di gara, ha evidenziato come sia sufficiente
osservare che l’art. 32, co. 7, d.lgs. 50/2016 rimanda la
verifica del possesso dei requisiti alla fase successiva
all’aggiudicazione, quale condizione integrativa
dell’efficacia di quest’ultima, con la conseguenza che
quanto dichiarato dagli operatori economici concorrenti
nella domanda di partecipazione e nel DGUE costituisce prova
documentale sufficiente del possesso dei requisiti
dichiarati, dovendo essere basata su tali dichiarazioni la
relativa valutazione ai fini dell’ammissione e della
partecipazione alla gara.
Inoltre, fatte salve diverse
previsioni della “lex specialis” e fatto comunque salvo
l’esercizio delle facoltà riconosciute alla stazione
appaltante dall’art. 85, co. 5, d.lgs. 50/20169, soltanto
all’esito della gara, dopo l’approvazione della proposta di
aggiudicazione ed il provvedimento di aggiudicazione, si
procede alla verifica del possesso dei prescritti requisiti
(17.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Pubblicazione
atti per micro-acquisti.
Domanda
Abbiamo letto, da qualche parte, che le pubblicazioni su
Amministrazione trasparente > Bandi di gara e contratti,
valgono solamente per le forniture di beni e servizi sopra a
1.000 euro.
Dal momento che dal 01.01.2019, i micro-acquisti si possono
effettuare sino a 5.000 euro, si chiede se le pubblicazioni
degli atti per l’affidamento di beni e servizi sino a tale
soglia siano sottratte dall’obbligo della trasparenza.
Risposta
Prima di rispondere al quesito, è conveniente fornire un
consiglio, che è il seguente: è conveniente non “leggere
da qualche parte” qualcosa, di cui non si ha cognizione,
senza nemmeno fare riferimento ad uno straccio di norma di
legge. Il rischio grosso che si corre è quello di sbagliare
bersaglio: come in questo caso.
Finito il suggerimento, si affronta la questione posta.
Per gli obblighi di pubblicità e trasparenza per l’acquisto
di beni, servizi e lavori, occorre fare riferimento
all’articolo 37, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33
che, al comma 1, recita: "1. Fermo restando quanto
previsto dall’articolo 9-bis e fermi restando gli obblighi
di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni e le
stazioni appaltanti pubblicano:
a) i dati previsti dall’art. 1, comma 32 della
legge 06.11.2012, n. 190;
b) gli atti e le informazioni oggetto di
pubblicazione ai sensi del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.".
In base all’articolo 1, comma 32, della legge 190/2012, le
stazioni appaltanti, devono pubblicare “in ogni caso”:
• il CIG
• la struttura proponente;
• l’oggetto del bando;
• l’elenco degli operatori invitati a
presentare offerte;
• l’aggiudicatario;
• l’importo di aggiudicazione;
• i tempi di completamento dell’opera, servizio
o fornitura;
• l’importo delle somme liquidate.
Le pubblicazioni di cui sopra (quelle riferite al comma 32),
limitatamente alla parte dei lavori, si intendono assolte
attraverso l’invio dei dati all’ex AVCP, ora ANAC.
Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali informazioni,
relativamente all’anno precedente, sono pubblicate (anche)
in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un
formato digitale standard aperto che consenta di analizzare
e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici.
Sull’argomento, per ulteriore approfondimento, si rinvia
alla Delibera ANAC n. 39 del 20.01.2016 [1].
Per ciò che concerne, invece, gli obblighi di trasparenza
fissati dal Codice dei contratti (d.lgs. 50/2016 e
successive modificazioni ed integrazioni), va fatto
riferimento all’articolo 29, rubricato “Principi in
materia di trasparenza”, dove, al comma 1, si specifica
che devono essere pubblicati, tra le altre informazioni,
Tutti gli atti relativi alle procedure per l’affidamento di
appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere.
Combinando, quindi, le due disposizioni, sopra meglio
citate, gli obblighi di pubblicità e trasparenza della
sezione Bandi di gara e contratti –la sezione più popolosa
del sito, si immagina– devono essere assolti per tutti gli
atti, di qualsiasi importo, senza esclusione alcuna.
Venendo alla questione delle soglie, va ricordato che
l’articolo 1, comma 450, della legge 296/2006, prevedeva
l’obbligo di fare ricorso al mercato elettronico della
pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici
istituiti (per esempio: le centrali di acquisto regionali),
per affidamenti di bene e servizi superiori a 1.000 euro.
Con il comma 130, articolo 1, della legge 145/2018 (legge di
stabilità 2019), dal 01.01.2019, la soglia di esenzione
–dall’obbligo di ricorrere al mercato elettronico– è stata
elevata da 1.000 a 5.000 euro. Restano invariati, pertanto,
tutti gli obblighi di trasparenza, anche per forniture di
importi inferiori.
-----------------
[1] Delibera numero 39 del 20.01.2016, recante
“Indicazioni alle Amministrazioni pubbliche di cui all’art.
1, comma 2, decreto legislativo 30.03.2001 n. 165
sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione e di
trasmissione delle informazioni all’Autorità Nazionale
Anticorruzione, ai sensi dell’art. 1, comma 32 della legge
n. 190/2012, come aggiornato dall’art. 8, comma 2, della
legge n. 69/2015” (16.07.2019 - tratto da e link
a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Verifica dello stato legittimo degli immobili
risalenti nel tempo
(Regione Emilia Romagna,
nota 11.07.2019 n. 592534 di prot.). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
PO e superamento limiti.
Domanda
Il Sindaco ha firmato dei decreti di nomina dei Responsabili
dei Servizi corrispondendo importi di retribuzione di
posizione che non rispettano il tetto del 2016. Cosa ci
suggerite?
Risposta
In risposta al vostro quesito, innanzitutto suggeriamo di
verificare se il calcolo dei valori delle posizioni
organizzative sono stati effettuati tenendo in
considerazione il concetto di “destinato” o meglio
dire “finalizzato” all’istituto così come riassunto
dalla Corte dei conti della Sicilia nella Deliberazione n.
172/2018: “il limite massimo di spesa di riferimento,
pertanto, non può essere quello quantificato tenendo conto
della ipotetica struttura organizzativa né quello relativo
alle somme effettivamente erogate e riferite all’esercizio
2016, piuttosto deve essere quello rappresentato
dall’ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel
medesimo esercizio finanziario, nel rispetto del contratto
di lavoro e dei vincoli di finanza pubblica”.
Di fatto, nel 2017 non potevano essere stanziate somme in
misura incompatibili con l’art. 23, comma 2, del d.lgs.
75/2017 che prevede di non superare il trattamento
accessorio del 2016, tetto che va rispettato come unico
aggregato tra fondo e posizioni organizzative.
Pertanto, già in fase di attribuzione delle somme per
retribuzione di posizione e di risultato, l’ente avrebbe
dovuto preoccuparsi di verificare il rispetto della norma.
Purtroppo, però, dal momento in cui viene identificato
l’importo in un decreto del Sindaco, tale somme diventa a
nostro parere esigibile da parte del lavoratore, il quale,
se non corrisposta potrebbe rivolgersi al giudice del
lavoro.
Va però altresì precisato che, in ogni caso, il Sindaco non
ha un’autonoma e illimitata discrezionalità nell’aumentare
gli importi delle posizioni organizzative, in quanto il
sistema ha sempre previsto la necessità di avere nell’ente
criteri per la graduazione delle aree. Quindi, in assenza di
questi, c’è da chiedersi se i decreti di nomina del Sindaco
siano legittimi o non possano essere anche rivisti in
autotutela.
In ogni caso, tornando alla questione, se dalla somma
aritmetica dei valori come sopra determinati risulta che un
ente non ha rispettato il tetto dell’anno di riferimento,
non vi è alcun dubbio che ha creato un superamento del
vincolo finanziario che dovrà essere recuperato negli anni
successivi.
Ora, se diamo per assodato che i valori delle p.o. siano “giusti”
e quindi quelli stanziati, l’ente non avrebbe potuto
stanziare quelle somme di parte variabile nel fondo negli
anni di riferimento perché quei valori portano al
superamento del limite che, appunto, ora dovrà essere
recuperato sui fondi degli anni successivi.
Se invece l’ente ritiene che l’errore sia nella
quantificazione del valore delle p.o. dovrà agire in
autotutela con la revisione dei decreti di nomina (11.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: L’affidamento
dei lavori nell’ambito di importi compresi tra i 40mila ed i
150mila euro.
Domanda
La legge 55/2019 ha modificato l’articolo 36 del decreto
legislativo 50/2016 ed ha previsto una nuova possibilità di
affidamento diretto per lavori compresi tra i 40mila euro ed
i 150mila. La disposizione prevede che l’affidamento diretto
possa avvenire solo “previa valutazione di tre preventivi”.
Si chiede se può essere chiarita la dinamica concreta del
procedimento di affidamento.
In particolare, per reperire i tre preventivi è necessario
utilizzare un avviso pubblico per le manifestazioni di
interesse – nell’ambito delle quali scegliere (magari ad
estrazione) o è possibile agire anche con altre modalità?
Risposta
La recente legge di conversione (con modifiche) del DL
32/2019 c.d Sblocca Cantieri, approdata in G.U. con il
numero 55/2019 ed entrata in vigore il 18 giugno, tende
–sulla carta– a semplificare il procedimento di affidamento
di lavori (e non solo nell’ambito degli importi riportati
nel quesito).
In merito, l’articolo 36, comma 2, lett. a), limitando il
discorso ai lavori pubblici, prevede che per gli appalti “di
importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000
euro per i lavori” si può procedere “mediante affidamento
diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti”
e che “l’avviso sui risultati della procedura di
affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti
invitati”.
La norma contiene anche un riferimento alla rotazione degli
inviti che –pur apparendo diretta ai servizi ed alle
forniture– deve comunque ritenersi applicabile anche nel
caso di specie non foss’altro per il richiamo espresso nel
comma 1 dell’articolo 36.
Come si è rilevato in altre circostanze, la norma replica
una disposizione oramai abrogata contenuta nel comma 942,
art. 1, della legge di bilancio 145/2018. Questa norma
invece del verbo “valutare” conteneva il riferimento
alla consultazione (dei tre operatori economici).
Attualmente, in mancanza di indicazioni operative specifiche
(salvo alcune indicazioni contenute nel nuovo schema di
linee guida n. 4 dell’ANAC riferite però alla disposizione
pregressa contenute nella legge di bilancio), gran parte dei
commenti hanno rilevato che la nuova previsione avrebbe
ampliato la discrezionalità del RUP nella scelta degli
operatori economici a cui far presentare il preventivo da
valutare.
Sotto il profilo pratico operativo, a parere di chi scrive,
la norma sembra avere inciso soprattutto sulla procedura
(propedeutica) di reperimento/individuazione degli operatori
economici.
Nel senso che, se ante modifica apportata dal decreto
legislativo 55/2019 il RUP doveva –in relazione agli importi
pari o superiori ai 40mila euro– necessariamente avvalersi
dell’avviso pubblico per ottenere la manifestazione di
interesse (o, se presente dell’albo dei prestatori), alla
luce dell’attuale norma l’indagine di mercato può essere
svolta in modo informale purchè oggettiva e trasparente.
Ad esempio, il RUP potrebbe utilizzare, per avere almeno i
tre preventivi, dati già in suo possesso, oppure in possesso
di altre stazioni appaltanti (che abbiano appaltato lavori
simili) o anche consultare la realtà locale se adeguata ai
lavori da espletare.
Individuati i soggetti economici può con questi (almeno tre)
avviare le trattative per ottenere i preventivi di spesa da
“confrontare”.
Ovviamente tale percorso istruttorio dovrà trovare adeguata
illustrazione nella determinazione di affidamento ed in ogni
caso l’attività svolta deve essere trasparente ed oggettiva.
In alternativa, il RUP potrebbe avviare la classica indagine
con avviso pubblico, magari a contenuto semplificato
fornendo termini adeguati per presentare il preventivo.
Da rammentare che rimane ferma la prerogativa di avviare un
procedimento ordinario (10.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI: I
Comuni di questa Unione lamentano che molti titolari di
esercizi non sono in regola con i pagamenti di tasse e
tributi locali e vorrebbero condizionare l'efficacia delle
autorizzazioni alla regolarizzazione, analogamente a quanto
effettuato per il DURC in altri settori.
E' possibile e legittima una delibera di questo genere?
Una risposta positiva è stata data a tale quesito, che
rappresenta una problematica diffusissima a livello
nazionale, con la L. 28.06.2019, n. 58 "Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 30.04.2019, n.
34, recante misure urgenti di crescita economica e per la
risoluzione di specifiche situazioni di crisi"
(cosiddetto Decreto Crescita).
La norma introdotta dispone "Gli enti locali competenti
al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei
relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate
di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti
attività commerciali o produttive possono disporre, con
norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la
permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica
della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte
dei soggetti richiedenti".
L'art. 15-ter in questione, inserito durante l'esame presso
la Camera dei deputati, consente agli enti locali di
subordinare alla verifica della regolarità del pagamento dei
tributi locali da parte dei soggetti richiedenti il rilascio
di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi
rinnovi, inerenti attività commerciali o produttive.
Tale previsione, per essere applicabile, deve passare da una
approvazione mediante delibera consiliare nella forma del
regolamento comunale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34
L. 28.06.2019, n. 58, art. 1
(10.07.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI: Trasmissione
dei Piani Anticorruzione.
Domanda
A quale autorità va trasmesso il Piano Anticorruzione
adottato nel comune, ogni anno, entro il 31 gennaio? Al
Dipartimento della Funzione pubblica o all’ANAC?
Risposta
In base alla prima versione della legge Severino (legge
06.11.2012, n. 190), tutte le amministrazioni, compresi i
comuni, dovevano trasmettere il Piano Triennale per la
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) al
Dipartimento della Funzione pubblica. Lo prevedeva
l’articolo 1, comma 8, della legge 190/2012 e il Piano
Nazionale Anticorruzione (P.N.A.) approvato dalla CIVIT con
deliberazione n. 72 datata 11.09.2013.
Successivamente, con l’avvento dell’ANAC, in tutte le
comunicazioni pubblicate dall’Autorità Nazionale (delibere e
Piano Nazionale) veniva stabilito che il Piano non dovesse
essere spedito, ma solamente pubblicato –come previsto
all’art. 10, comma 8, del d.lgs. 33/2013– nel sito web
dell’ente, nelle sezioni:
• Amministrazione trasparente > Disposizioni generali > Piano
triennale prevenzione della corruzione e trasparenza;
• Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della
corruzione [1].
Con le modifiche apportate dall’articolo 41, comma 1,
lettera g), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, alla legge
190/2012, l’indicazione inserita prevedeva l’invio del
Piano, da parte della Giunta –che lo approva– all’ANAC,
anche se non erano mai state definitive le modalità di
trasmissione.
La questione dell’invio dei Piani Anticorruzione all’ANAC,
pare essere stata affrontata, ora, in via definitiva,
mediante predisposizione di una piattaforma on-line.
La lieta novella è stata partecipata mediante pubblicazione
nel sito dell’ANAC, del Comunicato del Presidente Raffaele
Cantone del 12.06.2019 [2].
Nel Comunicato, infatti, si prevede che:
• a partire dal 13.06.2019 è possibile effettuare la registrazione
dei RPCT presso il sistema di autenticazione dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione;
• la piattaforma per l’acquisizione dei Piani triennali e delle
relazioni annuali sarà on-line dal 01.07.2019;
• i responsabili della prevenzione della corruzione e trasparenza
delle pubbliche amministrazioni, degli enti pubblici
economici e non economici, degli ordini professionali e
delle società in controllo pubblico dovranno procedere alla
registrazione e all’accreditamento disponibile sulla pagina
di registrazione e profilazione utenti della sezione Servizi
del sito internet dell’ANAC;
• una volta registrati, i Responsabili potranno usufruire dei
seguenti servizi ad accesso riservato:
a) l’accesso alla piattaforma per le rilevazioni
delle informazioni relative ai Piani;
b) l’accesso alla piattaforma per la redazione
della relazione annuale;
c) l’accesso al forum dei Responsabili
anticorruzione e trasparenza, che sarà successivamente reso
disponibile.
Anche se nel Comunicato non se ne fa cenno, si ritiene che
l’invio dei Piani Anticorruzione valga dal prossimo PTPCT
che dovrà essere approvato entro il 31.01.2020.
---------------
[1] Tra le altre si veda: Comunicato del Presidente ANAC
del 15.02.2015, consultabile
cliccando qui
[2]
pagina web linkata (09.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Presidente non revocabile. Decide la
maggioranza, non il capogruppo. Sulla disciplina
delle commissioni lo statuto rinvia al regolamento dell’ente
Può essere revocato il presidente di una delle commissioni permanenti in
virtù di una mera comunicazione effettuata dal proprio capogruppo al
presidente del consiglio comunale?
L'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda allo
statuto l'istituzione facoltativa delle commissioni consiliari, con il solo
vincolo del rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione. I
poteri, l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori sono demandati
al regolamento.
Lo statuto di un ente dispone che i presidenti delle commissioni consiliari
permanenti sono eletti fra i componenti di ciascuna commissione con il voto
della maggioranza dei suoi componenti e cessano dalla carica per dimissioni
o perché lo richiede almeno la maggioranza dei consiglieri componenti,
rinviando al regolamento la disciplina del numero delle commissioni, la loro
composizione, i poteri, l'organizzazione e tutto ciò che attiene al loro
funzionamento.
Il regolamento comunale prevede che le commissioni sono composte mediante
designazione da parte dei gruppi consiliari con proposta scritta di ciascun
presidente del gruppo al presidente del consiglio.
Con una espressione difforme dalla previsione statutaria, viene stabilito
che «il presidente del consiglio, preso atto della costituzione delle
commissioni procede alla elezione dei presidenti delle commissioni mediante
votazione palese scegliendoli, per ciascuna commissione tra i componenti
della stessa».
Il decreto legislativo n. 267/2000 non prevede espressamente la possibilità
di revocare il presidente del consiglio. Per quanto concerne la tematica
della ammissibilità della revoca del presidente del consiglio o del
presidente della commissione consiliare, entrambe figure di garanzia, in
carenza di una specifica previsione statutaria, si registrano posizioni
contrastanti in giurisprudenza. In alcune pronunce si tende ad affermarne
l'illegittimità, mentre, in altre, l'assenza nelle norme statutarie di una
specifica disciplina della revoca «non ne inibisce di per sé la
possibilità di ricorrervi» (Tar Lazio n. 8881/2008).
Lo statuto comunale, oltre a disciplinare le modalità di elezione dei
presidenti, fornisce anche chiare indicazioni in ordine alla loro cessazione
dalla carica, è a queste che, occorre attenersi.
Pertanto, fatte salve le dimissioni volontarie dell'interessato, solo la
maggioranza della commissione può deliberarne la sostituzione con altro
componente della medesima commissione, essendo invero limitata l'attività
dei capigruppo consiliari alla mera indicazione dei componenti delle
commissioni su designazione dei gruppi di appartenenza, i quali, tuttavia,
ai sensi del regolamento possono, comunque, sostituire i propri
rappresentanti all'interno delle commissioni
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Allattamento genitore lavoratore autonomo.
Domanda
Un papà chiede le 2 ore di allattamento giornaliere per suo
figlio. La madre è lavoratrice autonoma e gode
dell’indennità di maternità riconosciuta dall’INPS. La
domanda del padre può essere accolta?
Risposta
I riposi giornalieri del padre, meglio noti come le 2 ore di
allattamento, sono disciplinati all’art. 40 del d.lgs.
151/2001.
La norma di legge prevede che al padre siano riconosciuti 2
periodi di riposo della durata di 1 ora ciascuno (se
l’orario di lavoro è di almeno 6 ore) solo nelle seguenti
ipotesi:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne
avvalga
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
L’alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da
parte del padre è prevista solo in relazione alla madre
«lavoratrice dipendente» che non se ne avvalga.
Quindi, solo se la madre è lavoratrice subordinata, è
prevista la regola dell’alternatività, ovvero il padre può
godere dei riposi giornalieri solo se la madre non se ne
avvale. Vale a dire che se la madre subordinata è in congedo
di maternità, il padre non può godere dei riposi
giornalieri.
Al contrario, nel caso di madre “lavoratrice autonoma”
non vi è alcun divieto normativo di cumulo tra godimento
dell’indennità di maternità e la fruizione dei riposi
giornalieri.
Le ragioni della diversa disciplina nascono dalla diversa
condizione lavorativa delle madri, meno tutelata dal punto
di vista economico per la lavoratrice autonoma rispetto alle
garanzie che la legge offre alla lavoratrice dipendente.
La cumulabilità del congedo di maternità della lavoratrice
autonoma con i riposi giornalieri del padre è confermata
dalla Cassazione con sentenza n. 22177 del 12.09.2018 (04.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: Estinzione
concessione cimiteriale a seguito di estumulazione.
In caso di concessione rilasciata per la
tumulazione in loculo comunale di salma individuata nel
contratto, in dottrina e in giurisprudenza si ritiene che l’estumulazione
del feretro determini l’estinzione della concessione per
esaurimento della funzione.
Il Comune riferisce di una concessione cimiteriale, della
durata di novantanove anni, con la quale è stato attribuito
al concessionario ed eredi l’uso di un loculo
[1] per
l’“inumazione” (rectius tumulazione)
individuale della salma (del figlio del concessionario)
indicata nel contratto. Gli eredi del concessionario,
successivamente deceduto, hanno fatto istanza al Comune di
estumulare dal loculo detta salma, al fine di ridurla in
cassetta ossario e ritumularla nello stesso loculo, ove
hanno manifestato la volontà di riporre in futuro anche la
salma della madre [2].
Il Comune ritiene di poter accogliere la domanda di
estumulazione, mentre è dell’avviso di non consentire la
tumulazione nel loculo di cui si tratta di un feretro
diverso da quello del soggetto nominalmente individuato
nella concessione, in quanto osserva che il loculo è stato
concesso per un determinato scopo e di conseguenza l’estumulazione
determina l’estinzione della concessione per esaurimento
della finalità per cui la stessa è stata fatta. Sulla
correttezza o meno di siffatta impostazione il Comune chiede
parere.
Sentita l’Area promozione salute e prevenzione della
Direzione centrale salute, politiche sociali e disabilità,
si esprime quanto segue.
Si premette che l’attività di questo Servizio consta nel
fornire un supporto giuridico generale sulle questioni poste
dagli enti, che possa essere di aiuto per la soluzione dei
casi concreti che li riguardano, in relazione alle loro
peculiarità.
Si precisa altresì che questo Servizio non è deputato ad
esprimere considerazioni sugli atti negoziali stipulati
dall’Ente, la cui interpretazione compete solo alle parti da
cui provengono e, in ultima istanza, al giudice competente
eventualmente adito.
Un tanto premesso, in via collaborativa si esprimono le
seguenti considerazioni.
Dalla lettura del contratto di concessione, emerge che il
Comune dà e concede e il privato contraente “accetta, si
obbliga e stipula per sé ed eredi l’uso del loculo …per
inumazione della salma” della persona ivi identificata.
In particolare, per quanto concerne gli eredi, nel contratto
si specifica che alla morte del concessionario “il
diritto di uso, relativo al loculo concesso, passerà alla
morte del concessionario agli eredi”, con l’espressa
riserva che il “Comune non riconoscerà mai, per i
relativi diritti ed obblighi, che uno solo degli eredi”,
da designarsi nei modi ivi stabiliti.
Il diritto di uso concesso non potrà in nessun modo e per
nessun titolo essere ceduto ad altri, eccettuato quanto
previsto per gli eredi.
Dalle espressioni sopra richiamate, sembrerebbe che il
contratto attribuisca al concessionario e agli eredi il
diritto di tumulare nel loculo il feretro del soggetto ivi
espressamente e nominativamente indicato.
A voler assumere, muovendo dal tenore letterale del
contratto, che il Comune abbia concesso e il concessionario
abbia accettato (per sé e i suoi eredi) l’uso del loculo per
la tumulazione di una salma specifica, questo porterebbe a
ritenere che l’estumulazione di quel feretro determini
l’estinzione della concessione per esaurimento della
finalità per cui questa era stata chiesta ed ottenuta.
E così, con specifico riferimento all’ipotesi del posto a
tumulazione individuale (colombario, loculo, a seconda delle
denominazioni localmente usate, che possono essere
variamente diversificate) concesso “esclusivamente”
per il feretro di defunto determinato o comunque per il
quale l’atto di concessione specifichi che la concessione è
stata fatta per accogliervi quel determinato feretro, la
dottrina ha osservato che qualora venga richiesta l’estumulazione
del feretro di destinazione, si ha l’effetto che viene ad
esaurirsi il fine originario per cui era sorta la
concessione e, conseguentemente, si ha l’estinzione della
concessione [3].
Peraltro, si ribadisce che, trattandosi di atto negoziale,
la relativa interpretazione compete unicamente alle parti,
con la conseguenza che il Comune potrebbe anche aderire ad
un’interpretazione del contratto di concessione diversa da
quella che appare corrispondente al tenore letterale dello
stesso.
Al riguardo, risulta ad ogni modo utile suggerire al Comune
di regolamentare espressamente l’istituto della concessione
di loculi di proprietà comunale, per uso esclusivamente di
salma determinata oppure per uso del concessionario e dei
suoi familiari, anche per quanto concerne la fattispecie
dell’estinzione.
---------------
[1] Trattasi di loculo di proprietà del Comune.
[2] Della persona la cui salma è ivi tumulata.
[3] Sereno Scolaro, Le concessioni cimiteriali, Maggioli,
2008, pagg. 220-222. Lo stesso autore osserva inoltre che,
nel caso in cui invece, a fronte di una concessione d’uso
stipulata per una determinata salma, il loculo venisse
utilizzato per altra persona, si avrebbe la fattispecie
della decadenza della concessione per inadempimento
contrattuale, consistente nel fatto del mancato uso del
loculo per la destinazione impressa nell’atto di concessione
(cfr. Sereno Scolaro, La polizia mortuaria, op. cit, p.
280). Si veda anche TAR Parma 12.06.2006, n. 290, che
evidenzia come la concessione cimiteriale sia strettamente
connessa e subordinata alla permanenza in loco della salma e
si estingua quando questa sia estumulata. Cfr. nota n. 1956
del 13.02.2018 di questo Servizio
(04.07.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: rispetto delle distanze tra fabbricati siti nel
medesimo lotto ed appartenenti ad unico proprietario –
fabbricato parzialmente interrato a destinazione accessoria-
fabbricati privi di finestre e/o vedute - parere (Legali
Associati per Celva,
nota 04.07.2019 - tratto da www.celva.it). |
APPALTI: Appalti
pubblici.
Con il decreto "sblocca cantieri" era stata inserita
l'inversione nell'apertura delle buste mediante la modifica
dell'art. 36, comma 5. Gli uffici di questo Ministero,
chiedono se tale possibilità sussista anche se non risulta
confermata nella conversione in legge.
Il decreto "sblocca cantieri" (D.L. 18.04.2019, n.
32) aveva modificato l'art. 36, comma 5, del Codice degli
appalti disponendo "Le stazioni appaltanti possono
decidere che le offerte siano esaminate prima della verifica
della documentazione relativa al possesso dei requisiti di
carattere generale e di quelli di idoneità e di capacità
degli offerenti. Tale facoltà può essere esercitata se
specificamente prevista nel bando di gara o nell'avviso con
cui si indice la procedura. Se si avvalgono di tale facoltà,
le stazioni appaltanti verificano in maniera imparziale e
trasparente che nei confronti del miglior offerente non
ricorrano motivi di esclusione e che sussistano i requisiti
e le capacità di cui all'articolo 83 stabiliti dalla
stazione appaltante; tale controllo è esteso, a campione,
anche sugli altri partecipanti, secondo le modalità indicate
nei documenti di gara. Sulla base dell'esito di detta
verifica, si procede eventualmente a ricalcolare la soglia
di anomalia di cui all'articolo 97. Resta salva, dopo
l'aggiudicazione, la verifica sul possesso dei requisiti
richiesti ai fini della stipula del contratto".
Tale disciplina non è stata in effetti confermata e la L.
14.06.2019, n. 55 ha anzi abrogato il comma in questione.
Tuttavia l'art. 1, comma 3, della legge di conversione ha
disposto "Fino al 31.12.2020 si applica anche ai settori
ordinari la norma prevista dall'articolo 133, comma 8, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, per i settori
speciali", introducendo pertanto una disciplina
transitoria ma del tutto analoga a quella precedentemente
contenuta nel citato comma.
Infatti l'art. 133, comma 8, dispone "Nelle procedure
aperte, gli enti aggiudicatori possono decidere che le
offerte saranno esaminate prima della verifica dell'idoneità
degli offerenti. Tale facoltà può essere esercitata se
specificamente prevista nel bando di gara o nell'avviso con
cui si indice la gara. Se si avvalgono di tale possibilità,
le amministrazioni aggiudicatrici garantiscono che la
verifica dell'assenza di motivi di esclusione e del rispetto
dei criteri di selezione sia effettuata in maniera
imparziale e trasparente, in modo che nessun appalto sia
aggiudicato a un offerente che avrebbe dovuto essere escluso
a norma dell'articolo 136 o che non soddisfa i criteri di
selezione stabiliti dall'amministrazione aggiudicatrice".
Ciò detto è confermata l'inversione procedimentale,
applicabile ai settori ordinari, sopra e sotto la soglia
comunitaria.
Si segnala che tale procedura, potenzialmente utile in caso
di un elevato numero di partecipanti, comporta una serie di
criticità pratiche dovute all'eventuale ricalcolo delle
soglie di anomalia in caso di esito negativo delle verifiche
successive della idoneità con potenziale aumento del
contenzioso.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, art. 133
D.L. 18.04.2019, n. 32
L. 14.06.2019, n. 55, art. 1
(03.07.2019 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
APPALTI:
Le modifiche dei criteri di aggiudicazione tra DL 32/2019 e
provvedimento di conversione.
Domanda
Vorremmo, se possibile, avere un dettaglio delle modifiche
apportate dal DL 32/2019 in tema di criteri di
aggiudicazione e se i RUP sono obbligati ad utilizzare
–nelle acquisizioni sotto la soglia comunitaria– il solo
criterio del minor prezzo.
Risposta
Il D.L. 32/2019 (c.d. Sblocca Cantieri) ha modificato
profondamente la dinamica di acquisizione delle commesse in
ambito sotto soglia comunitario (come definita nell’articolo
35 del codice dei contratti) ma, ancor di più, lo stesso
provvedimento di conversione (Legge 14/06/2019 n. 55,
pubblicata in G.U. del 17/06/2019) soprattutto in materia di
acquisizione di lavori pubblici.
Le modifiche, come emerge dal quesito, hanno riguardato
anche i criteri di aggiudicazione ed anche in questo caso
occorre segnalare un ritorno “al passato” con il
provvedimento di conversione del DL citato.
Mentre il DL 32/2019 imponeva (ed impone fino all’entrata in
vigore del provvedimento di conversione) – in ambito sotto
la soglia comunitaria l’utilizzo del criterio del minor
prezzo (salve le eccezioni dell’articolo 95 di cui si dirà
più avanti) il provvedimento di conversione ristabilisce l’equiordinazione
tra criteri anche nel sotto soglia comunitario. Pertanto, a
differenza dell’attuale regime l’utilizzo del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa (al netto delle
ipotesi in cui questo risulti obbligatorio ai sensi
dell’articolo 95, comma 3, del codice dei contratti) non
dovrà più essere motivato dal RUP.
Sotto si riportano le disposizioni a confronto per meglio
intendere le modifiche apportate:
Art. 36, comma 9-bis in vigore dal 19
aprile (come modificato dal DL 32/2019)
9-bis. Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le
stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei
contratti di cui al presente articolo sulla base del
criterio del minor prezzo ovvero, previa motivazione, sulla
base del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa.
Emendamento apportato con il provvedimento di
conversione (legge 14/06/2019 n. 55 pubblicata in G.U. del
17/06/2019, in vigore dal 18.06.2019)
9-bis. Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le
stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei
contratti di cui al presente articolo sulla base del
criterio del minor prezzo ovvero sulla base del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Anche l’articolo 95, per ciò che in questa sede interessa ha
subito delle modifiche dalla recente decretazione.
Il comma 3 dell’articolo 95 dispone sui casi in cui il
criterio del minor prezzo non può essere utilizzato (insiste
un vero e proprio obbligo di utilizzo esclusivo del criterio
in argomento).
In primo luogo i “contratti relativi ai servizi sociali e
di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica,
nonché ai servizi ad alta intensità di manodopera”
sempre fatta salva la possibilità degli affidamenti diretti
e quindi entro i 40mila euro (in cui è possibile utilizzare
il criterio del minor prezzo).
L’obbligo del multicriterio insiste per aggiudicare i “i
contratti relativi all’affidamento dei servizi di ingegneria
e architettura e degli altri servizi di natura tecnica e
intellettuale di importo pari o superiore a 40.000 euro”
e – secondo la nuova ipotesi introdotta dal DL confermata la
legge di conversione “i contratti di servizi e le
forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro
caratterizzati da notevole contenuto tecnologico o che hanno
un carattere innovativo”.
Le modifiche hanno riguardato anche il comma 4 dell’articolo
95. Con il DL l’unica ipotesi residua era quella
dell’aggiudicazione di servizi e forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni risultano
definite dal mercato (quindi a prescindere dalla soglia di
affidamento). Per effetto del recente intervento in Adunanza
Plenaria, l’utilizzo del minor prezzo sarà solo possibile
nel caso in cui i servizi non siano ad alta intensità di
manodopera (precisazione introdotta con la legge di
conversione per effetto del pronunciamento itntervenuto in
sede di A.P. n. 8/2019) (03.07.2019 - tratto da e
link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La pubblicazione della relazione di fine mandato.
Domanda
Siamo un ente di circa 10mila abitanti e, in prossimità
della scadenza del mandato, desideriamo conoscere
anticipatamente cosa prevede la legge in merito alla
redazione e pubblicazione della Relazione di fine mandato.
Potreste cortesemente sintetizzarci le disposizioni in
materia, comprese le eventuali sanzioni relative?
Risposta
La relazione di fine mandato è sottoposta a precisi vincoli
procedurali, previsti dall’articolo 4 del decreto
legislativo n. 149/2011. I soggetti interessati sono:
a) il responsabile del servizio finanziario, che si occupa del la
redazione o il segretario comunale in sua vece
b) il sindaco, che la deve sottoscrivere;
c) l’organo di revisione che la certifica.
Il termine per l’adempimento è fissato al sessantesimo
giorno antecedente la data di scadenza del mandato.
Entro e non oltre quindici giorni dalla sottoscrizione, la
relazione deve essere certificata dall’organo di revisione
dell’ente locale, che ha il compito di attestare la
veridicità dei contenuti e la loro corrispondenza con i
documenti contabili e di programmazione finanziaria
dell’ente.
Entro i tre giorni successivi, il sindaco, deve trasmettere
la relazione e la certificazione dell’organo di controllo,
alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti.
Entro i sette giorni successivi alla certificazione,
l’ultimo obbligo riguarda la pubblicazione sul sito
istituzionale –queste le precise indicazioni della norma–
con evidenza della data di trasmissione alla sezione
regionale di controllo della Corte dei Conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere
pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33/2013, in materia di
obblighi di trasparenza e pubblicazione.
Nel silenzio della norma, si ritiene opportuno che la
relazione venga pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione
trasparente’ del sito web istituzionale > sotto sezione
‘Organizzazione’ > ‘Organi di indirizzo
politico-amministrativo’.
È, inoltre, consigliabile prevedere la pubblicazione della
relazione di fine mandato anche all’interno della home page
del sito, con la finalità di garantire maggiormente
l’esercizio effettivo del controllo democratico del
cittadino, secondo le indicazioni dei giudici contabili.
La tempistica delle scadenze è rimarcato anche dalle
conseguenze sanzionatorie di carattere pecuniario, che
accompagnano il mancato rispetto dell’obbligo di redazione e
di pubblicazione nel sito dell’ente della relazione di fine
mandato.
Le sanzioni previste consistono nel dimezzamento, per i tre
mesi successivi, delle indennità del sindaco. La
decurtazione si estende, nel solo caso di mancata
predisposizione della relazione, al responsabile finanziario
o al segretario comunale, che non l’hanno predisposta.
La norma richiede, inoltre, che il sindaco dia notizia della
mancata pubblicazione della relazione, motivandone le
ragioni, nella pagina principale del sito istituzionale
dell’ente.
Sull’argomento può essere opportuno, consultare la
deliberazione n. 15/2019/VSG del 23.01.2019 (Corte dei Conti
– sezione regionale di controllo per la Campania), con la
quale sono stati trasmessi alla Procura contabile
competente, gli atti inerenti al mancato invio della
relazione di fine mandato, da parte di un ente coinvolto nel
rinnovo del consiglio comunale.
In particolare, si evidenzia che la Corte dei Conti, nel
disporre l’irrogazione delle conseguenti sanzioni, precisa
che esse sono, in ogni caso, di esclusiva spettanza
dell’ente locale, dovendo essere attuate dagli uffici
appositamente preposti alla liquidazione delle competenze (02.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI:
La salvaguardia degli equilibri di bilancio e la modifica
delle tariffe ed aliquote dei tributi comunali.
Domanda
In vista dell’ormai prossima salvaguardia degli equilibri di
bilancio (art. 193 del TUEL) entro il mese di luglio, è
possibile deliberare una riduzione delle aliquote dei
tributi comunali?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento al comma 3 dell’art.
193 del TUEL. Esso prevede che ai fini della salvaguardia
degli equilibri di bilancio, fermo restando quanto stabilito
dal successivo art. 194, comma 2, in materia di
rateizzazione dei debiti fuori bilancio riconosciuti come
legittimi, per l’anno in corso e per i due successivi
possono essere utilizzate le seguenti risorse:
a) le possibili economie di spesa;
b) tutte le entrate, ad eccezione di quelle provenienti
dall’assunzione di prestiti e di quelle con specifico
vincolo di destinazione;
c) i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali
disponibili e da altre entrate in c/capitale con riferimento
a squilibri di parte capitale.
Solo in ultima battuta, qualora non vi si possa provvedere
con le modalità sopra elencate è possibile impiegare la
quota libera del risultato di amministrazione.
Per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga
all’art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006, n. 296,
l’ente può infine modificare le tariffe e le aliquote
relative ai tributi di propria competenza entro la data
ultima del 31 luglio di ogni anno, contestualmente
all’adozione del provvedimento consiliare di salvaguardia
degli equilibri di bilancio. Il suddetto comma 169 della L.
296/2006 prevede che le tariffe e le aliquote relative ai
tributi siano deliberate entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione.
Se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio,
purché entro il suddetto termine, esse hanno comunque
effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento. In caso di
mancata approvazione entro detto termine, si intendono
prorogate di anno in anno le tariffe e le aliquote già
vigenti. La leva fiscale è pertanto uno degli strumenti che
il Legislatore ha messo a disposizione degli enti locali per
fronteggiare situazioni di squilibrio del proprio bilancio
che dovessero emergere in sede di salvaguardia.
In merito alla possibilità di ridurre le tariffe e le
aliquote relative ai propri tributi la risposta al quesito
del lettore è negativa. In tale senso si è infatti espresso
il Mef con risoluzione n. 1/DF del 29/05/2017, nella quale
si afferma che: “(…) la variazione delle aliquote e delle
tariffe contemplata da tale ultima disposizione –in quanto
costituisce una delle misure preordinate al ripristino del
pareggio di bilancio, da esperire laddove “i dati della
gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo”– deve
necessariamente consistere in un aumento delle aliquote o
tariffe medesime, non potendosi invocare l’esigenza di
salvaguardare gli equilibri di bilancio al fine di procedere
ad una modifica in diminuzione oltre il termine del bilancio
di previsione. (…)”.
Lo stesso orientamento era già stato formulato dalla Corte
dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Calabria,
nella deliberazione n. 5 del 30.01.2014, nella quale si
precisava come, in virtù dell’art. 193, comma 3, del TUEL, “(…)
nel solo caso in cui risulti necessario per il ripristino
degli equilibri di bilancio, l’ente locale può modificare
(evidentemente in aumento) le tariffe e le aliquote relative
ai tributi di propria competenza” entro il termine
previsto dalla norma stessa.
Quindi, concludendo: un eventuale manovra sulle tariffe e
aliquote tributarie può essere, in sede di salvaguardia,
solo in aumento. Fino allo scorso anno ciò poteva essere
fatto solo per i tributi esclusi dal blocco disposto
dall’art. 1, comma 26 della L. 208/2015 (ovvero: TARI e
contributo di sbarco).
In tal senso si era espressa la Corte dei Conti, Sezione
regionale di controllo per la Lombardia, con parere n. 133
del 27.04.2016. Da quest’anno l’aumento può invece avvenire
su tutti i tributi locali, essendo venuto meno il suddetto
blocco a partire dal 01/01/2019 (01.07.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
per le richieste di agibilità pendenti deve essere
presentata la S.C.I.A. di cui all'art. 24 del T.U. edilizia.
DOMANDA:
Un Comune riferisce che, in data 25/06/2008, una società
presentava richiesta di agibilità per un immobile ai sensi
dell'art. 25 del DPR 380/2001 in allora vigente.
Tuttavia, stante l'incompletezza della pratica, l’ufficio
richiedeva in data 14/07/2008 la documentazione integrativa
mancante, rappresentando –in coerenza con quanto previsto
dal c. 5 dell'art. 25 sopra citato– che venivano così
interrotti i termini per il rilascio dell’atto
amministrativo e che gli stessi sarebbero decorsi nuovamente
dalla data di integrazione.
Dopo circa un decennio di inattività la ditta ha prodotto la
documentazione mancante (tutta risalente agli anni
2008-2009) chiedendo il rilascio del certificato di
agibilità come previsto ex art. 25 DPR 380/2001.
Nel frattempo, però, il D.Lgs. n. 222/2016 ha abrogato
l’articolo 25 e sostituito l’art. 24 prevedendo
l’attestazione dell’agibilità mediante segnalazione
certificata.
Così stando le cose il Comune chiede se, a completamento
della pratica, sia necessaria la presentazione di apposita
segnalazione certificata ai sensi del vigente art. 24 con
decorrenza dalla presentazione della Scia stante
l’abrogazione del procedimento previsto dall’art. 25, ovvero
se sia ancora possibile il rilascio ad oggi del richiesto
certificato ( o ipotizzare la formazione di un silenzio
assenso)
RISPOSTA:
I problemi di diritto prospettati possono essere risolti
facendo ricorso ad una corretta applicazione, in relazione
al procedimento amministrativo in generale, del principio
tempus regit actum.
Il richiamato principio comporta infatti che la Pubblica
amministrazione deve considerare anche le modifiche
normative intervenute durante il procedimento, non potendo
considerare l'assetto normativo cristallizzato in via
definitiva alla data dell'atto che vi ha dato avvio, con la
conseguenza che la legittimità del provvedimento adottato al
termine di un procedimento avviato ad istanza di parte deve
essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al
tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale, e non
al tempo della presentazione della domanda da parte del
privato, dovendo ogni atto del procedimento amministrativo
essere regolato dalla legge del tempo in cui è emanato in
dipendenza della circostanza che lo jus superveniens
reca sempre una diversa valutazione (Consiglio di Stato sez.
IV, 13/04/2016, n. 1450).
Così risolta alla radice la questione si tenga comunque
presente, per mera completezza, come nel caso di specie la
normativa sopravvenuta preveda di ottenere l'agibilità solo
ed esclusivamente mediante attestazione-SCIA: è
conseguentemente venuta meno, con l'abrogazione dell'art.
25, ogni previsione che legittimava l'adozione di uno
specifico provvedimento di certificazione di agibilità.
Tutto ciò premesso e considerato nel caso di specie dovrà
essere richiesta la presentazione di apposita SCIA per come
attualmente previsto dall'art. 24 del d.P.R. 380/2001
(01.07.2019 - link a www.conord.eu). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il presidente non fa cambi.
Si può prevedere una norma regolamentare che conferisca al presidente del
consiglio comunale il potere di sostituire i consiglieri nell'ambito delle
commissioni consiliari?
La proposta di modifica di un comune del regolamento sulle commissioni
consiliari prevede che ogni consigliere dovrebbe essere rappresentato in
almeno due commissioni. Ove tale obiettivo non si realizzi, si prevede che
sia il presidente del consiglio comunale, sentita la conferenza dei
capigruppo e il gruppo interessato, ad effettuare le sostituzioni
rispettando il criterio della rappresentanza proporzionale tra minoranza e
maggioranza, privilegiando le sostituzioni nell'ambito del medesimo gruppo
o, in caso di impossibilità, operando le relative sostituzioni nell'ambito
dello stesso schieramento.
Al riguardo, si osserva che, come noto, le
commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa
previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con
l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio
proporzionale nella composizione.
Ciò significa che le forze politiche
presenti in consiglio debbano essere il più possibile rispecchiate anche
nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro
peso numerico e di voto. Quanto al rispetto del criterio proporzionale
previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo
stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono
demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori,
dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Con
riferimento allo specifico caso, non si rinvengono criticità circa la
previsione concernente la partecipazione di ogni consigliere in almeno due
commissioni, mentre desta perplessità la parte della proposta di modifica
regolamentare che conferisce al presidente il potere di nominare i
commissari effettuando le relative sostituzioni. Tale modifica, infatti, non
sembra coerente con il principio elettivo che regola le commissioni
consiliari.
In virtù di tale modifica la stessa commissione potrebbe essere
partecipata da commissari eletti dal consiglio comunale e da commissari
designati quali sostituti in virtù di un atto adottato da un organo monocratico
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore comunale presidente di
un’associazione che riceve dal Comune un contributo sulla
base di una convenzione stipulata per la gestione di servizi
scolastici.
Sussiste la causa di incompatibilità di
cui all’art. 63, comma 1, punto 2), prima parte, del D. Lgs.
267/2000 per un consigliere comunale che riveste la carica
di presidente di una associazione di solidarietà familiare
che organizza servizi didattico/educativi nell’ambito di un
progetto al quale compartecipa finanziariamente il Comune
stesso.
Il Comune chiede di valutare se sussista la causa di
incompatibilità disciplinata dall’art. 63, comma 1, punto
2), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 per un
consigliere comunale che riveste la carica di presidente di
una associazione di solidarietà familiare costituita per
favorire l’organizzazione di servizi a sostegno dei compiti
familiari educativi e di cura.
Tra il Comune e l’associazione esiste una convenzione che
disciplina lo svolgimento di attività integrative di
sostegno scolastico/educativo da parte di quest’ultima e
l’uso dei locali di proprietà comunale; il Comune
compartecipa finanziariamente al progetto
didattico-educativo presentato dall’associazione, a titolo
di rimborso spese e tenuto conto delle disponibilità di
bilancio dell’Ente, previa rendicontazione delle spese
sostenute. Il progetto viene gestito attraverso un accordo
di partenariato fra il Comune e l’associazione ed è inserito
nell’ambito degli interventi previsti dalla deliberazione
della Giunta regionale n. 2386 del 14.12.2018, la cui
attuazione è stata delegata all’Azienda per l’Assistenza
Sanitaria del territorio.
Per l’esame della fattispecie segnalata vengono in rilievo
sia l’ipotesi di incompatibilità statuita dall’art. 63,
comma 1, n. 1), seconda parte, sia quella di cui al
successivo n. 2), prima parte, del d.lgs. 267/2000.
La prima norma citata prevede che non possa ricoprire la
carica di consigliere comunale l’amministratore di ente,
istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell’anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell’ente.
Per quanto concerne il requisito soggettivo, affinché venga
in rilievo la causa di incompatibilità, il consigliere
comunale deve rivestire all’interno dell’associazione il
ruolo di amministratore, ovvero di persona che possiede
poteri di gestione e/o decisione all’interno dell’ente; nel
caso di specie, la qualità di amministratore del presidente
è indubbia, poiché lo stesso Statuto dell’associazione
prevede all’art. 21 che “Il Presidente agisce in nome e
per conto dell’Associazione e ha la firma sociale”. Per
quanto concerne poi il termine “ente”, esso va inteso
in senso lato e comprende anche gli organismi, come
l’associazione in argomento, privi di personalità giuridica.
[1]
Per quanto concerne il concetto di “sovvenzione”,
questa deve consistere in un’erogazione continuativa a
titolo gratuito, volta a consentire all’ente sovvenzionato
di raggiungere, con l’integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituito. La legge
richiede che la sovvenzione debba possedere complessivamente
tre caratteri: la continuità, nel senso che la sua
erogazione non deve essere una tantum o occasionale, la
notevole consistenza, ovvero il suo apporto deve essere
superiore al dieci per cento delle entrate annuali dell’ente
e la facoltatività (in tutto o in parte), nel senso che non
deve derivare da un obbligo di legge o convenzionale.
[2]
Infine, la dottrina ha sottolineato come il concetto di
sovvenzione si diversifica dal concetto di “corrispettivo”,
per cui non si ha sovvenzione nel caso in cui la somma
corrisposta avvenga in relazione a prestazioni svolte in
favore dell’ente. [3]
Nel caso di specie, tenuto conto del fatto che le
sovvenzioni che l’associazione riceve dal Comune sono dovute
in forza della convenzione e dell’accordo di partenariato
sottoscritti fra i due soggetti nei termini indicati in
premessa e che le stesse sono frutto di un corrispettivo che
il Comune riconosce all’associazione per lo svolgimento di
una serie di attività di carattere didattico, educativo e di
aggregazione sociale, si ritiene che non sussistano gli
elementi richiesti per il concretizzarsi della fattispecie
di incompatibilità di cui all’art. 63, comma 1, n. 1),
seconda parte, del TUEL.
Come anticipato, potrebbe venire in rilievo anche la causa
di incompatibilità disciplinata dal successivo n. 2), prima
parte, del medesimo comma 1 dell’art. 63 del TUEL.
Ai sensi della citata norma, non può rivestire la carica di
consigliere comunale colui che, come amministratore, ha
parte, direttamente o indirettamente, in servizi,
somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune. Sulla
presenza del requisito soggettivo nella fattispecie in esame
si è già detto in relazione alla precedente causa esaminata;
per completezza, si segnala ora che l’assenza di finalità di
lucro nell’associazione non è sufficiente ad escludere la
sussistenza dell’ipotesi di incompatibilità, atteso che il
comma 2 dell’art. 63 del TUEL ha escluso l’applicazione
della suddetta ipotesi solo per coloro che hanno parte in
cooperative o consorzi di cooperative iscritte regolarmente
nei pubblici registri. [4]
Nel merito, si rappresenta che la ratio della causa
di incompatibilità in esame (annoverabile tra le cosiddette
“incompatibilità di interessi”) consiste
nell'impedire che possano concorrere all'esercizio delle
funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di
interessi confliggenti con quelli del comune o i quali
comunque si trovino in condizioni che ne possano
compromettere l'imparzialità. [5]
La formulazione assai ampia della disposizione in esame ("servizi
nell'interesse del comune") è giustificata proprio dalla
menzionata ratio: il legislatore, infatti, intende
comprendere in essa, nel modo più ampio possibile, tutte le
ipotesi, in cui la "partecipazione" in servizi
imputabili al comune e, per ciò stesso, di interesse
generale, possa dar luogo, nell'esercizio della carica del "partecipante",
eletto amministratore locale, ad un conflitto tra interesse
particolare di questo soggetto e quello generale dell'ente
locale. [6]
Ne discende che la nozione di partecipazione deve assumere
un significato il più possibile esteso e flessibile, al fine
di potervi ricomprendere forme di partecipazione eterogenee
e che è irrilevante la natura, pubblicistica o privatistica,
dello strumento prescelto dall’ente locale per la
realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
[7]
Dalla lettura della convenzione e dell’accordo di
partenariato, si evince che le attività poste in essere
dall’associazione si concretizzano nell’organizzazione di
diversi servizi nell’ambito didattico ed educativo, quali
quello di doposcuola per gli alunni della scuola primaria e
secondaria di primo grado, la creazione e gestione della “sezione
primavera” della scuola dell’infanzia, la
predisposizione del servizio mensa per tutti gli alunni, dei
servizi di accompagnamento degli alunni sullo scuolabus e
dell’accoglienza/postaccoglienza scolastica, nonché
l’organizzazione e la gestione di centri estivi in favore di
bambini e ragazzi.
Occorre pertanto valutare in concreto se l’associazione,
attraverso le attività educative e ricreative sopra
elencate, svolga un servizio nell’interesse
dell’Amministrazione comunale, atteso che dottrina e
giurisprudenza concordano nel ritenere che qualsiasi
attività che venga svolta a favore dell’ente nell’ambito
delle competenze istituzionali attribuite a quest’ultimo e
mediante l’esercizio dei poteri normativi ed amministrativi
conferitigli, appare idonea a concretizzare
l’incompatibilità. [8]
A parere dello scrivente, non vi è dubbio che i servizi
educativi e ricreativi gestiti dall’associazione rientrino
tra i fini istituzionali del Comune e siano svolti
nell’interesse dello stesso; un tanto è anche sancito nella
convenzione quale presupposto per la partecipazione
finanziaria dell’Ente al progetto dell’associazione, laddove
si riconosce l’importanza e l’utilità sociale delle attività
erogate in favore della comunità ed in particolar modo dei
minori (art. 14 della convenzione).
Per i motivi sopraesposti, si ritiene che la posizione
dell’amministratore possa essere riconducibile alla causa di
incompatibilità di cui alla prima parte del punto 2) del
comma 1 dell’art. 63 del D.Lgs. 267/2000.
A tale proposito, si ricorda che la valutazione della
concreta sussistenza dell'incompatibilità è rimessa al
consiglio comunale, in conformità al generale principio per
cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla
regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti,
mediante l’attivazione della procedura prevista dall'art. 69
del TUEL, che garantisce il contraddittorio tra organo ed
amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del
diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un
congruo termine la causa di incompatibilità contestata.
[9]
---------------
[1] In tal senso si sono espresse sia la dottrina (cfr.,
tra gli altri, Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell’ente locale, Giuffrè, 2000) che la
giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 2068
del 22.06.1972).
[2] Si sottolinea che il carattere della facoltatività viene
interpretato dal Ministero dell’interno in modo più
restrittivo, per cui, a giudizio del dicastero, la
sovvenzione è facoltativa nel senso e nei limiti in cui non
trovi origine in un obbligo stabilito dalla legge. Per una
trattazione completa ed esaustiva del concetto di
sovvenzione ed, in generale, della causa di incompatibilità
in esame, si vedano i pareri dello scrivente Servizio prot.
n. 11420 del 27.07.2015 e n. 33168 del 31.12.2014.
[3] Cfr. Pinto – D’Alfonso, Incandidabilità, ineleggibilità,
incompatibilità e status degli amministratori locali,
Maggioli, 2003, pagg. 195 e seguenti.
[4] Cfr. parere Ministero dell’interno 11.01.2011,
consultabile
cliccando qui.
[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenze n. 44 del 1997, n.
450 del 2000 e n. 220 del 2003.
[6] Cfr. Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n. 550 del
16.01.2004.
[7] Cfr. pareri Ministero dell’interno 11.11.2014 e
12.03.2010.
[8] Cfr. Pinto – D’Alfonso, opera citata nella nota 3 e
Cassazione civile, n. 550/2004.
[9] Cfr. Corte di Cassazione Civile, Sez. I, sentenza n.
12529 del 12.11.1999 e n. 12809 del 10.07.2004 (27.06.2019
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ENTI LOCALI:
Acquisto quote società che svolge attività analoghe –
dismissione quote società partecipata ex art. 24, D.Lgs. n.
175/2016.
(1) L’acquisto di
partecipazioni societarie da parte delle pp.aa. sottostà
agli stringenti oneri motivazionali stabiliti dall’art. 5,
D.Lgs. n. 175/2016, rimessi alla discrezionalità (e
responsabilità) dell’ente, chiamato, tra l’altro, a dar
conto della convenienza economica dell’operazione
finanziaria e della sua compatibilità con i principi di
efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione
amministrativa. In particolare, ove si tratti di quote di
società che svolgono attività analoghe a quelle svolte da
altre società partecipate, qualora il processo di acquisto
dovesse riuscire a realizzarsi, nel rispetto della rigorosa
procedura dell’art. 5 richiamato, al momento della revisione
periodica annuale delle partecipazioni, ai sensi dell’art.
20, D.Lgs. n. 175/2016, dovrebbe ancora essere motivata la
partecipazione al capitale di società che svolgono attività
analoghe.
(2) Per quanto concerne la dismissione di partecipazioni in sede di
revisione straordinaria, ex art. 24, D.Lgs. n. 175/2016,
finalizzata ad eliminare quelle non strettamente necessarie
al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, la
giurisprudenza ha affermato che “Una volta che l’ente
pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia
qualificato come non più strategica la presenza nel capitale
di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una
situazione equivalente al divieto di conservare
partecipazioni azionarie”.
Il Comune riferisce di aver deliberato, nel settembre 2017,
a seguito della revisione straordinaria delle
partecipazioni, ai sensi dell’art. 24, D.Lgs. n. 175/2016, “Testo
unico in materia di società a partecipazione pubblica”
(di seguito Testo unico) [1],
la dismissione delle quote di una società a partecipazione
pubblica (di seguito, Società X) che opera nel campo dei
servizi di igiene ambientale e che in particolare si occupa
della gestione dei rifiuti urbani e assimilati, motivando
che detta società “non gestisce alcun servizio di
interesse generale a beneficio della comunità” di
riferimento.
In particolare l’Ente –considerato l’art. 4, c. 1, Testo
unico, che in generale vieta le “partecipazioni non
strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie
finalità istituzionali”, avuto riguardo al successivo
comma 2 del medesimo art. 4, che consente le partecipazioni
in società esclusivamente nelle ipotesi ivi indicate, tra
cui, la “produzione di un servizio di interesse generale”
(lett. a), e visto l’art. 24 del Testo unico che impone la
revisione straordinaria, tra l’altro, nelle ipotesi di cui
all’art. 4– ha verificato per l’alienazione delle quote
della Società X la sussistenza della motivazione che detta
Società “non gestisce alcun servizio di interesse
generale a beneficio della comunità” di riferimento.
Il Comune ha dunque esperito la gara per la vendita delle
quote di cui si tratta e, poiché questa è andata deserta,
chiede se sia possibile acquistare quote in un’altra società
di proprietà pubblica (di seguito, Società Y), pur non
avendo trovato alcun ente disposto a subentrare nelle quote
della Società X, e spiega che “pur avendo le due società
finalità analoghe [2]”
la nuova partecipata “offre una peculiare gestione dei
servizi più confacente alle esigenze dell’Ente”.
Un tanto premesso, si esprimono sulla questione posta delle
considerazioni in generale, in tema di acquisto delle
partecipazioni societarie e di alienazione delle
partecipazioni detenute, a seguito di revisione
straordinaria ex art. 24 del Testo unico, che l’Ente potrà
valutare per i provvedimenti più opportuni da prendere nel
caso concreto. E ciò lungi da qualsiasi valutazione circa le
motivazioni verificate dall’Ente per l’alienazione delle
quote, ai sensi dell’art. 24 in argomento.
Ed invero, come ha osservato la Corte dei conti, le norme in
tema di razionalizzazione delle partecipazioni societarie
detenute dalle pp.aa. disciplinano limiti generali di
finanza pubblica alla detenzione di quote di società
partecipate, e la decisione circa l’applicazione in concreto
delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di
esclusiva competenza dell’ente locale, rientrando nella
discrezionalità e responsabilità dell’amministrazione
[3].
Per quanto concerne l’acquisto di partecipazioni societarie,
è necessario muovere dall’art. 4 del Testo unico che
affronta il tema relativo alle finalità perseguibili
attraverso le società a partecipazione pubblica e stabilisce
come principio generale che “le amministrazioni pubbliche
non possono, direttamente o indirettamente, costituire
società aventi per oggetto attività di produzione di beni e
servizi non strettamente necessarie per il perseguimento
delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o
mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali
società” (comma 1).
Tale principio generale viene meglio declinato al comma 2,
ove si prevede che è ammessa la partecipazione pubblica
all’interno di società esclusivamente per lo svolgimento
delle attività specificamente indicate, tra cui “la
produzione di un servizio di interesse generale […]” (c.
2, lett. a).
Un tanto precisato, il Testo unico impone stringenti oneri
motivazionali a supporto della decisione dell’ente pubblico
di procedere all’acquisizione di una partecipazione
societaria.
In particolare, in forza dell’art. 5 (Oneri di motivazione
analitica) del Testo unico –con l’eccezione dei casi in cui
la costituzione di una società o l’acquisto di una
partecipazione, anche attraverso aumento di capitale,
avvenga in conformità a espresse previsioni legislative–
l’atto deliberativo di acquisto deve essere analiticamente
motivato sia rispetto alla necessità della società per il
perseguimento delle finalità istituzionali di cui al
succitato art. 4 del decreto, sia rispetto alle ragioni e
finalità che giustificano la scelta.
La motivazione deve essere fornita anche sul piano della
convenienza economica e in ordine alla possibilità di
destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate
nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio
tramite affidamento a operatori privati. La giustificazione,
inoltre, deve dare conto della compatibilità della scelta
con i principi di efficienza, di efficacia e di economicità
dell’azione amministrativa.
Inoltre, attesa la necessità di tutelare il principio
comunitario di libera concorrenza, l’atto deliberativo dovrà
dare conto anche della compatibilità dell’intervento
finanziario rispetto alla disciplina europea in materia di
aiuti di Stato alle imprese [4].
L’atto deliberativo di acquisizione della partecipazione
deve essere inviato, prima [5]
dell’acquisizione, alla competente sezione regionale di
controllo della Corte dei conti a “fini conoscitivi”
e all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che
può esercitare i propri poteri di legge.
Avuto riguardo al caso concreto, l’Ente dovrà specificare
nell’atto di acquisto la situazione di criticità derivante
dal fatto di svolgere la Società Y “funzioni analoghe”
a quelle della Società X e motivare la sua scelta con
riferimento a tutte le peculiarità che connotano il caso
concreto e avuto riguardo alla convenienza economica e a
tutti i rigorosi parametri motivazionali fissati dall’art. 5
del Testo unico richiamato.
In particolare sotto il profilo delle “funzioni analoghe”,
l’art. 20, comma 2, del Testo unico, rubricato “Razionalizzazione
periodica delle partecipazioni pubbliche”, prevede che
le pp.aa., in sede di revisione periodica annuale delle
partecipazioni, predispongano – ove ricorrano determinati
presupposti, tra cui “partecipazioni in società che
svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da
altre società partecipate o da enti pubblici strumentali”
(lett. c) – “un piano di riassetto per la loro
razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante
messa in liquidazione o cessione”.
E dunque, nell’ipotesi in cui l’Ente dovesse eventualmente
riuscire a realizzare il processo di acquisizione delle
quote della Società Y, nel rispetto dell’art. 5 richiamato,
in sede di revisione periodica delle partecipazioni, ai
sensi dell’art. 20, D.Lgs. n. 175/2016, dovrà motivare il
perdurare di quelle stesse condizioni sussistenti al momento
dell’acquisto delle quote nella Società Y, qualora a quel
tempo il Comune fosse ancora in possesso delle
partecipazioni della Società X.
Ed invero –afferma la Sezione delle Autonomie della Corte
dei conti– il processo di razionalizzazione –nella sua
formulazione straordinaria e periodica– rappresenta il punto
di sintesi di una valutazione complessiva, discrezionale
dell’ente territoriale, della convenienza a mantenere in
essere partecipazioni societarie rispetto ad altre
soluzioni. Tutto ciò nell’ottica di una maggiore
responsabilizzazione degli enti soci i quali sono tenuti a
procedimentalizzare ogni decisione in materia, non soltanto
in fase di acquisizione delle partecipazioni ma anche in
sede di revisione, per verificare la permanenza delle
ragioni del loro mantenimento [6].
Nel senso della necessità della razionalizzazione, da
valutare da parte dell’ente, nell’esercizio della
discrezionalità amministrativa, in base alla concreta
convenienza economica, si è espressa ancora la Corte dei
conti Lombardia, con riferimento ad un caso di
partecipazioni detenute da un ente locale in due società
affidatarie di servizi differenti, entrambi previsti
nell’oggetto sociale delle società stesse
[7].
Ebbene, la Corte, nell’osservare che in quel caso un
potenziale elemento di razionalizzazione appare la gestione
dei due distinti servizi pubblici in un’unica società,
riconduce la questione alla necessità che l’ente,
esercitando la discrezionalità amministrativa, motivi
espressamente sulla scelta effettuata che può consistere sia
in una misura di riassetto
(alienazione/razionalizzazione/fusione) sia nel mantenimento
della partecipazione senza interventi [8].
E d’altra parte –non manca di rimarcare la Sezione– la
scelta dell’ente sarà vagliata dalla Corte in sede di
controllo successivo: il Testo unico attribuisce, infatti,
alla Corte dei conti specifica potestà di controllo
successivo sia sul processo di razionalizzazione periodica
(art. 20, commi 3 e 4), che su quello di revisione
straordinaria (art. 24, comma 3). Ed è in quel momento che
verrà effettuata ogni valutazione circa l’aderenza del piano
di razionalizzazione alla normativa in materia
[9].
L’Ente dovrà dunque motivare in sede di razionalizzazione
periodica la situazione di criticità di cui all’art. 20, c.
2, lett. c), fintantoché permarrà la partecipazione al
capitale di società che svolgono attività analoghe.
A questo proposito, si esprimono ulteriori considerazioni
sull’interruzione del rapporto societario tra l’ente e la
Società X, nelle ipotesi di cui all’art. 24, Testo unico,
alla luce dell’orientamento giurisprudenziale in materia.
Come visto sopra, l’art. 24 ha imposto una revisione
straordinaria di tutte le quote societarie detenute dalle
pp.aa. finalizzata alla loro razionalizzazione nei casi
previsti dall’art. 20, che, tra l’altro, include le ipotesi
di cui all’art. 4, secondo cui sono vietate le
partecipazioni non strettamente necessarie per il
perseguimento delle finalità istituzionali dell’Ente (comma
1) e sono ammesse, tra le altre, quelle per la “produzione
di un servizio di interesse generale” (comma 2, lett.
a). Alla luce di tale impianto normativo, l’Ente ha motivato
la dismissione, ai sensi dell’art. 24 del Testo unico,
adducendo che la Società X “non gestisce alcun servizio
di interesse generale a beneficio della comunità di
riferimento”.
La Società interessata ha rilevato, a sua volta, che la
dismissione non è obbligatoria ex lege, per il fatto
di svolgere –la Società medesima– attività di produzione di
un servizio di interesse generale ai sensi dell’art. 4,
comma 2, lett. a), sebbene non affidatole dal Comune, e di
non ricadere in alcuna delle ipotesi di cui all’art. 20, c.
2, D.Lgs. n. 175/2016. Un tanto ferma restando la libera
determinazione del Comune in ordine alla cessione delle
quote, il quale dovrà attenersi alle disposizioni
dell’Assemblea dei soci.
Lungi dall’entrare nei rapporti tra il Comune e la Società
X, rispetto ai quali competenti ad esprimersi sono solo le
parti interessate e, in ultima analisi, il Giudice
competente eventualmente adito, si richiama l’orientamento
espresso dalla giurisprudenza con riferimento alla normativa
previgente in tema di società a partecipazione pubblica, ma
che appare attuale alla luce del vigente Testo unico, che ha
proseguito nell’obiettivo della razionalizzazione delle
partecipazioni societarie, eliminando quelle non
strettamente necessarie al perseguimento delle finalità
istituzionali.
La Corte dei conti Friuli Venezia Giulia, sez. reg. contr.,
deliberazione 23.12.2015, n. 158, ha affermato che “una
volta che l’ente pubblico, esercitando la propria
discrezionalità, abbia qualificato come non più strettamente
indispensabile la presenza nel capitale di società estranee
alle proprie finalità istituzionali, nell’ambito delle
previsioni dell’art. 3, commi 27-29, della legge 244/2007,
come integrato dall’art. 1 comma 569, della legge 147/2013,
qualora per qualsiasi causa non sia riuscito a dismettere la
propria partecipazione, potrà farsi liquidare dalla società
partecipata il valore del suo investimento in base ai
criteri fissati dall’art. 2347-ter, secondo comma, del
codice civile. In base al rinvio a tale norma codicistica,
quindi, il socio ha diritto alla liquidazione delle azioni
per le quali intende procedere alla dismissione” secondo
i parametri ivi indicati.
Ed ancora la Corte dei conti Friuli Venezia Giulia n.
158/2015 ha affermato che sia che la decisione di
dismissione delle quote sia stata presa “sulla base di
una decisione privatistica, oppure in conseguenza degli
obblighi di legge … gli effetti saranno sostanzialmente
convergenti, conducendo in ogni caso … in assenza di
compratori interessati a subentrare, all’applicazione dei
criteri di liquidazione della quota, sulla base dell’art.
2437-ter cod. civ.”.
E questo orientamento si pone in linea con quello già
espresso dal Giudice amministrativo, secondo cui “Una
volta che l’ente pubblico, esercitando la propria
discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica
la presenza nel capitale di società affidatarie di servizi
pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto
di conservare partecipazioni azionarie estranee alle
finalità istituzionali. Di qui l’applicabilità dell’art. 3
comma 29, L. n. 244/2007 […]” [10].
E queste tesi sembrerebbero ragionevolmente potersi
sostenere anche oggi, alla luce della disciplina del D.Lgs.
n. 175/2016, che ha abrogato le disposizioni sopra
richiamate della L. n. 244/2007 e ha introdotto, per
l’ipotesi di dismissione delle quote in sede di revisione
straordinaria, ex art. 24 del Testo unico, il meccanismo
della liquidazione delle quote non alienate, secondo l’art.
2437-quater codice civile espressamente richiamato
[11].
E l’art. 2437-quater cod. civ. –osserva la Corte dei conti–
configura il normale procedimento del recesso, con il suo
ordine graduale, che prevede l’offerta della partecipazione
in prelazione agli altri soci; in subordine a terzi e, solo
in assenza di interessati, alla società stessa, attingendo
da riserve disponibili e capitale sociale, sicché sussiste
la partecipazione fino al completamento del processo di
liquidazione [12].
In particolare, la Corte dei conti sottolinea la previsione
del quarto comma dell’art. 2437-quater del codice civile,
secondo cui in caso di mancato collocamento (presso altri
soci o terzi) “le azioni del recedente vengono rimborsate
mediante acquisto da parte della società utilizzando riserve
disponibili anche in deroga a quanto previsto dal terzo
comma dell’art. 2357” [13].
Si osserva infine che il Testo unico ha abrogato (e non
riproposto) l’art. 1, c. 569-bis, L. n. 244/2007, che
attribuiva alla competenza dell’assemblea dei soci
l’approvazione del provvedimento di cessazione della
partecipazione societaria. Peraltro, anche nella vigenza di
detta norma, l’assemblea –come chiarito dalla
giurisprudenza– doveva comunque tener conto delle
conclusioni riportate nel piano di razionalizzazione
[14].
---------------
[1] L’art. 24 del Testo unico (Revisione straordinaria
delle partecipazioni) ha posto a carico delle
amministrazioni pubbliche, l’obbligo di effettuare entro il
30.09.2017, una ricognizione di tutte le partecipazioni
possedute, direttamente e indirettamente alla data di
entrata in vigore del decreto (23.09.2016), al ricorrere di
determinate condizioni, finalizzata ad una loro
razionalizzazione nei casi previsti dall’art. 20.
Nello specifico, la razionalizzazione riguarda: società che
non rientrano in alcune delle categorie di cui all’art. 4;
società che non soddisfano i requisiti di cui all’art. 5 del
Testo unico in relazione alla procedura di costituzione
delle società a partecipazione pubblica o all’acquisto di
partecipazioni in società già costituite; società che
versano in una delle situazioni di criticità di cui all’art.
20, c. 2: società con limiti di fatturato o scarso numero di
dipendenti; società che svolgono attività analoghe a quella
di altre società; società che hanno riportato perdite
reiterate nel quinquennio, che necessitano di azioni di
contenimento costi o di iniziative di aggregazione.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 24 del Testo unico, la
revisione straordinaria costituisce, per gli enti
territoriali, aggiornamento del piano operativo di
razionalizzazione già adottato a norma della legge di
stabilità 2015 (art. 1, c. 612, L. n. 190/2014).
[2] In particolare, gli statuti di entrambe le società
contemplano il servizio che l’Ente vorrebbe affidare alla
Società Y.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia,
deliberazione 22.11.2017, n. 335.
[4] Roberto De Luca, Il nuovo testo unico sulle società
partecipate: obblighi di modifiche statutarie e nuovi
aspetti operativi, Roma, 15.01.2017, p. 14.
[5] Cfr. Ufficio studi CODAU, Il nuovo testo unico in
materia di società a partecipazione pubblica (D.Lgs.
19.08.2016, n. 175); Roberto De Luca, documento cit., p. 14.
[6] Cfr. Corte dei conti, Sezione delle Autonomie,
deliberazione 21.07.2017, n. 19, recante: “Linee di
indirizzo per la revisione straordinaria delle
partecipazioni di cui all’art. 24, D.Lgs. n. 175/2016”.
[7] Fattispecie diversa da quella in esame –ove l’Ente
vorrebbe affidare alla Società Y un servizio che anche la
Società X contempla nel proprio statuto, ma che non le è
stato affidato dall’Ente– ma a questa accomunata sotto il
profilo dell’inclusione del servizio da affidare negli
oggetti sociali di entrambe le società.
[8] Le conclusioni della Corte dei conti lombarda appaiono
in linea con le sue premesse sulla competenza dell’ente,
nella sua discrezionalità e responsabilità, circa
l’applicazione in concreto delle disposizioni in materia di
contabilità pubblica (v. sopra, nota 2).
[9] Cfr. Corte dei conti Lombardia n. 335/2017 cit.
[10] Tar Brescia, sez. I, 13.10.2015, n. 1305.
[11] Detto meccanismo si applica anche alla
razionalizzazione periodica delle quote (art. 20, c. 7,
Testo unico).
[12] Corte dei conti, sez. reg. contr. per la Regione
Lombardia, deliberazione 09.03.2018, n. 79. La Corte dei
conti lombarda osserva come l’unica deroga alla disciplina
codicistica del recesso attenga ai casi del sesto e settimo
comma dell’art. 2347-quater: in altre parole, in assenza di
utili e riserve disponibili (o nel caso di società
unipersonale) non sarebbe consentita la riduzione del
capitale sociale per evitare lo scioglimento.
[13] Corte dei conti Lombardia n. 79/2018 cit.
[14] In questo senso esplicitava, infatti, la Corte dei
conti n. 158/2015, cit., che “La decisione di dismissione di
partecipazioni adottata dall’ente pubblico partecipante al
capitale di una certa società, pertanto, dovrà trovare un
recepimento dagli altri soci, chiamati ad adottare misure
volte alla cessazione della qualità di socio.
Qualora, invece, l’assemblea adottasse delle decisioni non
rispondenti al contenuto del piano di razionalizzazione, si
avrebbe l’impossibilità per l’organo amministrativo di darvi
attuazione, per effetto dell’espressa previsione contenuta
nell’ultima parte del comma 569-bis, recentemente introdotto
dal DL 78/2015 (“qualunque delibera degli organi
amministrativi e di controllo interni alle società oggetto
di partecipazione che si ponga in contrasto con le
determinazioni assunte e contenute nel piano operativo di
razionalizzazione è nulla ed inefficacie”)”.
L’orientamento della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia
viene richiamato dalla Corte dei conti, Sez. reg. contr. per
la Puglia, decisione 12.07.2016, n. 134, di parificazione
del rendiconto generale per l’esercizio finanziario 2015. La
Corte pugliese afferma che il ruolo dell’assemblea previsto
dall’art. 1, comma 569-bis, L. n. 147/2013, si incentra
esclusivamente sulle modalità attuative della dismissione
della partecipazione confermata dall’ente in sede di piano
di razionalizzazione e sulla conseguente liquidazione del
valore della quota e non può certo concretarsi in una
decisione contraria alla volontà dell’ente pubblico
partecipante di recedere dalla compagine societaria poiché,
in tal caso, le valutazioni dell’ente territoriale circa la
dismissione di partecipazioni non indispensabili alle
proprie finalità istituzionali (art. 1, comma 611, lett. a),
L. n. 190/2014) risulterebbero condizionate alla volontà di
un soggetto terzo (l’assemblea) in palese contraddizione con
la stessa ratio normativa in materia di organismi
partecipati volta ad assicurare il contenimento della spesa,
il buon andamento dell’azione amministrativa e la tutela
della concorrenza (25.06.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Convocazioni, atti dovuti. Insindacabili
dal presidente del consiglio. Spetta all’assemblea decidere
sull’ammissibilità degli argomenti.
Può il presidente del consiglio negare la
convocazione dell'assemblea richiesta da un quinto dei consiglieri ai sensi
dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 perché
l'argomento oggetto della richiesta era stato già esaminato in altra seduta
consiliare?
L'articolo 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede
l'obbligo di convocazione del consiglio, con inserimento nell'ordine del
giorno delle questioni proposte, quando venga richiesto, tra gli altri, da
un quinto dei consiglieri.
La giurisprudenza prevalente in materia si è da tempo espressa affermando
che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un
quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero
di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta
allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso
potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (si veda, in particolare,
Tar Piemonte, sez. Il, 24.04.1996, n. 268).
Nel caso specifico, ai sensi dell'art. 39, comma 1, del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale è previsto che l'assemblea possa
pronunciarsi sull'eventuale richiesta di ritiro di un argomento all'ordine
del giorno (c.d. «questione pregiudiziale»).
Ciò posto, il presidente del consiglio è tenuto ad attenersi alla vigente
disciplina regolamentare, spettando al potere sovrano dell'assemblea
decidere, in via pregiudiziale, sull'ammissibilità della discussione degli
argomenti inseriti nell'ordine del giorno (articolo ItaliaOggi del 21.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Comune di Villeneuve - rete fognaria pubblica -
interferenza con lavori di nuova costruzione - richiesta di
spostamento delle condotte - parere (Legali Associati
per Celva,
nota 21.06.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: realizzazione di opere in difformità dal titolo
edilizio – sanatoria parziale – configurabilità – parere
(Legali Associati per Celva,
nota 11.06.2019 - tratto da www.celva.it). |
APPALTI:
OGGETTO: requisiti generali di cui all’art. 80 del d.lgs.
50/2016 – permanenza in fase esecutiva – condanna non
definitiva per il reato di corruzione – rilevanza ai sensi
dell’art. 80, comma 5, lett. c) – parere (Legali
Associati per Celva,
nota 13.05.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Acquisto
di fondi per la realizzazione di aree pubbliche.
DOMANDA:
Un Comune rappresenta che, dopo aver accantonato una quota
di avanzo vincolato derivante da monetizzazioni aree di
standard urbanistiche, vorrebbe impegnarlo per
l'acquisizione di un terreno adiacente ad un campo da calcio
che era stato concesso in comodato al Comune e che il
proprietario vuole vendere o, altrimenti, vedersi
restituito.
RISPOSTA:
In relazione al supposto impiego di dette risorse per
l'acquisto del sedime adiacente all'impianto sportivo
comunale si osserva quanto segue.
L'art. 46 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005 prevede
testualmente, per quanto qui più interessa, che: “La
convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio
dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle
denunce di inizio attività relativamente agli interventi
contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai
numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n.
765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150) , deve prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché
la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e
di interesse pubblico o generale previste dal piano dei
servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle
monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica;”.
A sua volta, poi, tale previsione va letta in combinato
disposto con il successivo art. 90 avente ad oggetto le aree
per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale ove, tra le altre condizioni, viene precisato che “Nel
caso in cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
Orbene, date per legittime le monetizzazioni degli standard
già svolte, l’utilizzo delle risorse derivanti è subordinata
alla verifica a valle, da parte del Comune, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi sia destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano (cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia,
del. 100/2017)
(31.03.2019 - link a www.conord.eu). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Realizzazione di nuova strada da parte di
privati con spese ed oneri a loro carico – successiva
cessione delle aree stradali al Comune – parere (Legali
Associati per Celva,
nota 26.03.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Comune di Châtillon – necessità titolo
abilitativo opere precedenti legge n. 765/1967 – Regolamento
comunale del 1938 disciplinante fattispecie autorizzatorie –
applicabilità – parere (Legali Associati per Celva,
nota 26.03.2019 - tratto da www.celva.it). |
PATRIMONIO:
OGGETTO: Ampliamento del cimitero comunale su aree
private – acquisizione al patrimonio comunale ed
accatastamento del sedime - parere legale (Legali
Associati per Celva,
nota 22.02.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Strada consortile – fattispecie caratterizzata
da rischio per incolumità di persone e cose - obblighi di
legge in capo all’Amministrazione comunale - parere
(Legali Associati per Celva,
nota 01.02.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Comune di Gressan – permesso di costruire –
sottozona Eg49 – ristrutturazione, cambio di destinazione
d’uso, ampliamento e potenziamento di azienda agricola –
interpretazione NTA – parere (Legali Associati per Celva,
nota 08.01.2019 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Conferenza di servizi semplificata e asincrona
ex art. 14-bis della legge n. 241/1990 – Assenso implicito –
Sportello unico – Potere di autotutela – Parere (Legali
Associati per Celva,
nota 04.12.2018 - tratto da www.celva.it).
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Allegati alla richiesta di parere:
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allegato 1 -
allegato 2 -
allegato 3 |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
nel Pubblico Impiego prima dei Concorsi: non è più
obbligatoria.
Con il Decreto Concretezza ci sono novità sulla mobilità nel
Pubblico Impiego prima dei Concorsi: non sarà più necessario
espletare le Mobilità in maniera propedeutica rispetto ai
concorsi.
La legge 56/2019 (cd. Legge concretezza) porta una ventata
di aria nuova per le pubbliche amministrazioni. Soprattutto
per quanto riguarda assunzioni e procedure concorsuali.
L’art. 3 introduce misure per accelerare le assunzioni ed il
ricambio generazionale, nel solco già previsto dalla legge
di bilancio, dal D.L. 4/2019 e dal decreto crescita. In
attesa dei provvedimenti attuativi le Pa possono procedere,
fin da subito ad assunzioni di personale a tempo
indeterminato. Nel limite corrispondente ad una spesa pari
al 100 per cento di quella relativa al personale di ruolo
cessato nell’anno precedente.
E’ inoltre consentito il cumulo delle risorse,
corrispondenti a economie da cessazione del personale già
maturate, destinate alle assunzioni per un arco temporale di
cinque anni.
Mobilità nel Pubblico Impiego prima dei
Concorsi
Fino ad ora l’istituto della mobilità era disciplinato all’art.
30 del d.lgs. 165 del 2001.
Il quale, nel prevedere la possibilità per le
amministrazioni di ricoprire posti vacanti mediante il
passaggio diretto di dipendenti che abbiano già ricoperto il
posto (es. distacco o comando) o che abbiano comunque già
conseguito la stessa qualifica presso altra amministrazione,
obbligava le medesime ad attivare le procedure di mobilità
prima di espletare un concorso pubblico.
La disposizione chiariva, inoltre, che le amministrazioni
dovevano, in via preliminare, provvedere all’immissione in
ruolo di quei dipendenti che, prestando servizio in
posizione di comando o di fuori ruolo, avessero fatto
domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in
cui si trovano effettivamente a svolgere la propria attività
lavorativa
Come recita l’art.
3 al comma 8: “Misure per accelerare le
assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica
amministrazione”:
Fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 1, comma 399,
della legge 30.12.2018, n. 145, al fine di ridurre i tempi
di accesso al pubblico impiego, nel triennio 2019-2021, le
procedure concorsuali bandite dalle pubbliche
amministrazioni di cui all’articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165,
e le conseguenti assunzioni possono essere effettuate senza
il previo svolgimento delle procedure previste dall’articolo
30 del medesimo decreto legislativo n. 165 del 2001.
Quindi la vecchia normativa adesso è sostituita dalla nuova
(22.07.2019 - tratto da e link a
www.lentepubblica.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Stretta
su terre e rocce da scavo. Obiettivo: protezione del territorio
dall’inquinamento. Da Ispra e Minambiente regole su gestione dei residui e
bonifi ca delle aree agricole.
Stretta sulla gestione fuori dalle severe regole sui
rifiuti delle terre e rocce escavate nel corso di attività di costruzione e
bonifiche ad hoc per le aree agricole contaminate da inquinanti. Seppur a
diverso titolo, mirano entrambi alla tutela del territorio gli ultimi atti
adottati rispettivamente dal sistema nazionale per la protezione
dell'ambiente («Snpa», costituito da Ispra e agenzie regionali/provinciali)
e dal ministero dell'ambiente.
A recare quelle che si tradurranno in nuovi oneri per gli operatori
interessati sono le
Linee guida Snpa
09.05.2019 n. 54 sulla corretta
applicazione della disciplina per l'utilizzo dei materiali da scavo e il neo
decreto del ministero dell'ambiente del 01.03.2019 n. 46 recante
specifiche e inedite regole per bonifica, ripristino ambientale e messa in
sicurezza di aree destinate a produzione agricola e allevamento oggetto di
inquinamento.
Terre e rocce da scavo.
Le neo linee guida del Sistema di
protezione dell'ambiente ruotano intorno al dpr 120/2017, il regolamento che
detta le specifiche norme per la gestione delle terre e rocce escavate nel
corso di attività di realizzazione di opere, compresa la loro eventuale
componente antropica (quali i residui di produzione/consumo accumulatisi nel
tempo, noti come «materiali di riporto»).
I chiarimenti Snpa vertono sulle
tre categorie di terre e rocce da scavo che il dpr 120/2017 disciplina
declinando le regole generali di tutela ambientale previste dal dlgs
152/2006 (Codice ambientale), in base alle quali (articolo 185): sono a
monte esclusi dalla disciplina sui rifiuti (comma 1, lettera b) il terreno
compreso il suolo non escavato, anche se contaminato (fermi restando gli
obblighi di bonifica) e (lettera c) il suolo non contaminato e altro
materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione
riutilizzato pedissequamente in situ; può invece essere (comma 4) rifiuto,
sottoprodotto (ossia o materiale «end of waste» (in base alla fattispecie
ricorrente) il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato
naturale utilizzati fuori sito di provenienza; sono rifiuti le terre
escavate e contaminate.
Tra i chiarimenti delle
Linee guida Ispra 54/2019 assumono primaria
rilevanza le indicazioni sulle condizioni da osservare per gestire
legittimamente fuori dal campo di applicazione della disciplina sui rifiuti,
in particolare, «il suolo non contaminato e altro materiale allo stato
naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che
esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello
stesso sito in cui è stato escavato».
L'Ispra chiarisce sul punto che il requisito del «riutilizzo allo stato
naturale» è soddisfatto solo ove le terre siano impiegate nella loro
condizione originaria di pre-scavo come al momento della rimozione.
Sotto tale profilo, dunque, nessuna manipolazione, lavorazione, operazione,
trattamento è ammissibile sulle terre in parola al fine di gestirle fuori
dal regime dei rifiuti, neanche il trattamento rientrante nella c.d.
«normale pratica industriale»; attività, quest'ultima, rilevante unicamente
ai fini dell'assoggettabilità di alcune terre escavate al diverso regime di
favore riservato ai «sottoprodotti» (ossia ad alcuni scarti con vocazione di
riutilizzo senza radicali trasformazioni e impatto su uomo e ambiente).
Ed è proprio in relazione alle condizioni che permettono di ricondurre i
materiali escavati (non escludibili a monte dalla disciplina sui rifiuti ex
art. 185 Codice ambientale) sotto l'articolata disciplina dei sottoprodotti
che vertono gli ulteriori chiarimenti dell'Ispra.
Le Linee 54/2019 fanno luce
sulle plurime e peculiari condizioni da rispettare per gestire in deroga al
regime dei rifiuti le terre e rocce da scavo non contaminate e destinate ad
essere trasportate extra sito, ossia: l'essere dette terre originate da un
processo produttivo di cui costituiscono parte integrante ma il cui scopo
non è la loro generazione; l'esistenza della certezza che saranno
riutilizzate nel corso dello stesso o di altro processo di produzione o
utilizzazione; il fatto che il riutilizzo sarà diretto e senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla «normale pratica industriale»; la
condizione che tale ulteriore utilizzo sarà legale (nel senso che i
materiali risponderanno qualitativamente a standard di prodotto e non
provocheranno impatti negativi su ambiente e salute).
L'Ispra si sofferma in particolare sul delicato tema dei trattamenti che
possono essere applicati (senza farle cadere nella disciplina sui rifiuti)
alle terre escavate e destinate al diretto riutilizzo, ossia sui trattamenti
qualificati come «normale pratica industriale».
In estrema sintesi, le Linee guida chiariscono che alla luce della normativa
applicabile e della giurisprudenza di riferimento costituiscono «normale
pratica industriale» unicamente i trattamenti aventi le seguenti
caratteristiche: hanno ad oggetto materiali da scavo che soddisfano i
requisiti di qualità ambientale (più sopra ricordati); sono effettuati
esclusivamente al fine di migliorare le caratteristiche meccaniche dei
materiali per renderne l'utilizzo più efficace e/o allo scopo di migliorarne
le caratteristiche merceologiche per renderne l'utilizzo maggiormente
produttivo; non richiedono l'installazione di specifiche infrastrutture
operative che generano impatti negativi complessivi ambientali e sulla
salute.
La bonifica di aree agricole.
L'altra novità in tema di tutela del territorio, come accennato, è
costituita dal decreto 01.03.2019 n. 46 (G.U. del 07.06.019 n. 46),
regolamento mediante il quale il ministero dell'ambiente ha, in attuazione
del Codice ambientale, dettato specifiche regole per la bonifica, il
ripristino ambientale e la messa di sicurezza delle aree destinate alla
produzione agricola e all'allevamento.
Il neo decreto introduce un regime ad hoc per i particolari terreni, una
disciplina speciale che prevale dunque (pur ricalcandone l'architettura)
sulle generali regole dettate dal dlgs 152/2006 per la bonifica dei siti
inquinati.
A distingue le speciali norme da quelle previste dal Codice ambientale è in
primo luogo la previsione di peculiari valori limite di sostanze chimiche il
cui superamento fa scattare gli obblighi di approfondimento del tenore
dell'inquinamento e (ove necessario) di adozione delle conseguenti misure di
tutela ambientale.
La destinazione dei terreni giustifica altresì gli specifici obblighi di
analitica verifica di eventuali contaminazioni dovute alla vicinanza sia
attuale che pregressa di impianti industriali o di gestione rifiuti. I
controlli sulla presenza di inquinanti dovranno altresì interessare
particolari matrici ambientali, tra cui gli stessi prodotti agroalimentari
destinati al consumo.
Peculiari anche i tipi di intervento da effettuare sui terreni contaminati,
i quali dovranno privilegiare azioni di fito/bio-risanamento in situ invece
di scavo, rimozione e trasporto fuori sito delle matrici contaminate.
In base al regime transitorio previsto dal dm 46/2019 i procedimenti di
bonifica che al 22.06.2019 (data di entrata in vigore delle nuove
regole) risultano essere già stati avviati sub generali regole ex dlgs
152/2006 ma ancora non conclusi (con l'emanazione da parte delle Autorità
competenti del relativo decreto di approvazione degli interventi) restano
disciplinati dal regime generale ex Codice ambientale; con la facoltà per i
proponenti degli interventi di chiedere però a stretto giro (entro il 19
dicembre 2019) l'applicazione delle nuove peculiari norme (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2019). |
APPALTI:
Portale per gli obblighi della p.a.. Informativa semplificata per
le stazioni appaltanti. Attiva dal 1° luglio la
piattaforma on-line del Servizio contratti pubblici (Scp) del Mit.
È attivo, da lunedì 1° luglio, il portale unico on-line del ministero
delle infrastrutture e trasporti con tutti i contratti pubblici di lavori,
forniture e servizi; servirà a semplificare gli obblighi informativi delle
stazioni appaltanti, a rendere più agevole l'accesso ai bandi di gara e la
programmazione, ma anche ad analizzare con maggiore efficacia gli effetti
delle politiche infrastrutturali.
Si tratta della piattaforma informatica del Servizio contratti pubblici (Scp)
del Mit che ha visto coinvolti il dicastero di Porta Pia e gli osservatori
regionali dei contratti pubblici, mediante la realizzazione della
cooperazione applicativa tra la piattaforma nazionale e i sistemi
informatizzati regionali. A loro volta le regioni e le province autonome
hanno adattato i propri sistemi informativi alle specifiche tecniche
condivise e indicate dal ministero delle infrastrutture realizzando quindi
una piattaforma unica della trasparenza e pubblicità delle procedure di gara
e della programmazione.
Il sistema permetterà di semplificare l'attività delle stazioni appaltanti
con riferimento agli obblighi informativi previsti dal codice dei contratti
pubblici, ma anche di migliorare l'accesso ai dati relativi ai bandi, avvisi
ed esiti di gara, nonché alla programmazione di lavori, beni e servizi delle
amministrazioni, assicurandone la massima trasparenza. Inoltre, attraverso
la piattaforma verranno resi più efficaci gli strumenti di analisi e di
valutazione delle politiche pubbliche sugli investimenti.
A decorrere dallo scorso 1° luglio, le pubbliche amministrazioni e i
soggetti tenuti agli obblighi di pubblicità di cui al comma 2 dell'articolo
29 ed al comma 7 dell'articolo 21 del codice dei contratti pubblici li
assolveranno utilizzando le nuove modalità rese disponibili dal Sistema a
rete Mit (Scp)-regioni e province autonome. L'articolo 29, comma 2, impone
infatti la pubblicazione di tutti gli atti relativi alla programmazione e
alle procedure di affidamento (compresi quelli sulle composizioni delle
commissioni giudicatrici e i curriculum dei commissari), nonché degli esiti
di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Il comma 7 dell'articolo 21 attiene invece alla fase di programmazione e in
particolare al programma biennale degli acquisiti di beni e servizi e al
programma triennale dei lavori pubblici con i conseguenti aggiornamenti
annuali, in attuazione del decreto del ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze,
16.01.2018, n. 14. Anche questa documentazione finirà sulla piattaforma Scp
del Mit.
Dal 1° luglio, quindi, le stazioni appaltanti statali e di livello centrale
e le stazioni appaltanti di ambito locale con sede nelle regioni-province
autonome che non hanno ancora attivato un proprio sistema informativo sono
quindi tenuti ad adempiere agli obblighi informativi, accedendo
all'indirizzo
https://www.serviziocontrattipubblici.it. Le stazioni appaltanti di
ambito locale con sede nelle regioni e province autonome che hanno attivato
un proprio sistema informativo dovranno pubblicare su questi sistemi, i
bandi, gli avvisi e gli esiti di gara, i programmi di lavori, beni e
servizi, secondo le indicazioni fornite dagli osservatori regionali o da
strutture equivalenti. In caso di utilizzo della piattaforma Scp quest'ultima
reindirizzerà le stazioni appaltanti direttamente sui sistemi informativi
regionali attivi.
Infine, il Servizio contratti pubblici continuerà a garantire il servizio di
supporto tecnico giuridico a tutte le stazioni appaltanti di ambito
nazionale e territoriale sulla corretta applicazione della disciplina dei
contratti pubblici, per assicurare uniformità di indirizzi ed evitare
molteplicità di soluzioni operative
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2019). |
LAVORI PUBBLICI:
Opere programmabili senza entrate accertate.
Per programmare le opere pubbliche non è obbligatorio aver accertato
preventivamente le entrate necessarie al loro finanziamento.
È uno dei chiarimenti forniti dall'Ifel nel recente focus dedicato alle
novità introdotte dal decimo correttivo ai principi contabili degli enti
territoriali (dm 01.03.2019), i cui effetti operativi si spiegheranno anche
sul prossimo Documento unico di programmazione (Dup) 2020-2022, da
presentare entro il prossimo 31 luglio.
Molte sono le domande che gli addetti ai lavori si stanno ponendo in questi
giorni concitati e colmi di scadenze. In particolare, i dubbi riguardano il
raccordo fra la progettazione dell'opera e il suo inserimento nella
programmazione. In base alle nuove regole, la spesa riguardante il livello
minimo di progettazione richiesto ai fini dell'inserimento di un intervento
nel programma triennale dei lavori pubblici, è registrata nel bilancio di
previsione prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione
si riferisce.
Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere
contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di
programmazione dell'ente, che definiscono gli indirizzi generali riguardanti
gli investimenti e la realizzazione delle opere pubbliche (ossia il Dup),
individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione
è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme di finanziamento.
Quindi: i) il Dup contiene in sé il programma triennale; ii) per poter
inserire un'opera in programmazione occorre disporre di un livello minimo di
progettazione; iii) la spesa per la progettazione minima precede lo
stanziamento dell'opera; iv) la spesa per la progettazione minima è spesa
d'investimento, a condizione che il Dup preveda l'opera e ne indichi le
fonti di finanziamento.
Ma a questo punto sembra deliberarsi un corto circuito: se non ho la
progettazione minima l'opera non posso inserirla nel programma triennale, e
quindi nel Dup. L'Ifel chiarisce che ai fini dell'inserimento della spesa di
progettazione di primo livello nel titolo II, l'ente deve già essersi
determinato a realizzare l'opera, anche se formalmente non inserita nel
programma triennale, e avere individuato le necessarie fonti di
finanziamento.
Per cui, le opere, anche se non inserite nel triennale, dovranno comunque
essere programmate nel Dup. Nella fase previsionale le entrate non devono
essere state accertate per avviare il percorso che porterà all'ottenimento
della progettazione di primo livello e all'inserimento dell'opera nel
programma triennale e nel bilancio di previsione
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Demolizione
e ricostruzione, va conservata l'area di sedime.
Nella demolizione e ricostruzione di un fabbricato, intervento che rientra
nella ristrutturazione edilizia da realizzare con semplice Scia (articolo 22
del Dpr 380/2001) va rispettato non più solo il volume ma anche l'area di
sedime del fabbricato originario, e cioè la sua impronta a terra.
La rilevante novità arriva dal decreto Sblocca-cantieri, il Dl 32/2019
convertito dalla legge 55/2019 che, oltre a riformare il codice dei
contratti pubblici, contiene disposizioni in materia di rigenerazione
urbana, la cui ratio, è bene evidenziarlo per capirne il senso, è
quella di garantire una drastica riduzione del consumo di suolo.
La nuova disposizione è l'ultima in ordine di tempo nell'ambito della
nozione di demolizione e ricostruzione, più volte modificata dal
legislatore. Prima, intesa come fedele ricostruzione del fabbricato,
compresa sagoma, volumetria, area di sedime, materiali; poi, più
semplicemente intesa come ricostruzione con la stessa volumetria e non anche
sagoma (se non per gli immobili sottoposti a vincoli in base al Dlgs
42/2014).
Con la legge 98/2013, infatti, il legislatore aveva trasferito dalla nozione
di «nuova costruzione» (per cui è necessario il permesso di
costruire) a quella di "ristrutturazione" (per cui è sufficiente la
Scia) l'intervento di demolizione e ricostruzione senza il rispetto della
sagoma, quest'ultima poi definita dal regolamento edilizio tipo varato dalla
Conferenza unificata nell'Intesa del 20.10.2016 come la conformazione
plano-volumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro
considerato in senso orizzontale verticale.
Adesso, invece, il decreto Sblocca-cantieri fa segnare un ritorno al passato
riproponendo l'obbligo di rispettare anche l'area di sedime nella
demolizione e ricostruzione. La norma, tuttavia, non incide sulla
formulazione dell'articolo 3, comma 1, lettera d), del Dpr 380/2001 (testo
unico dell'edilizia), che definisce il concetto di demolizione e
ricostruzione all'interno della nozione di ristrutturazione edilizia, ma
invece aggiunge un nuovo comma all'articolo 2-bis dello stesso Dpr n. 380 in
tema di deroghe ai limiti di distanza tra fabbricati.
Si è quindi ingenerato un difettoso coordinamento normativo fra le due
disposizioni del testo unico dell'edilizia e cioè l'articolo 3, comma 1,
lettera d), che non impone nell'ambito della ristrutturazione l'obbligo di
mantenimento della sagoma e dunque dell'area di sedime dell'edificio
ricostruito rispetto a quello demolito e il comma 1-ter aggiunto
all'articolo 2-bis che invece proprio per questi intereventi edilizi impone
il mantenimento dell'area di sedime e dunque della sagoma.
Sarà, dunque, compito della giurisprudenza amministrativa dare una risposta
ai molti dubbi che già sono sorti fra gli addetti lavori
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.07.2019). |
APPALTI: Affidamento
diretto fino a 150mila euro, anche dopo lo Sblocca-cantieri si applica il
principio di rotazione.
I preventivi non possono essere richiesti sempre agli
stessi soggetti, ma nelle procedure negoziate si può invitare il contraente
uscente con una forte motivazione L'affidamento dei contratti sottosoglia è
soggetto, tra l'altro, al principio di rotazione. Quest'ultimo è infatti
richiamato in primo luogo dal comma 1 dell'articolo 36 del D.lgs. 50/2016,
che lo prevede ai fini degli inviti e degli affidamenti, anche al fine di
assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione alle gare delle micro,
piccole e medie imprese. In secondo luogo, l'applicazione del principio di
rotazione viene ribadita ai commi successivi con specifico riferimento agli
inviti da effettuare nell'ambito delle procedure negoziate.
Le modalità di applicazione del principio di
rotazione sono state oggetto di una copiosa giurisprudenza, che si è in
particolare pronunciata in relazione all'invito del contraente uscente,
assumendo in via prevalente una posizione negativa. Anche
recentemente il Consiglio di Stato è intervenuto con due pronunce che si
sono espresse in termini negativi, aderendo a un'interpretazione rigida del
suddetto principio. Nel contempo sono intervenute le novità dettate dal
Decreto sblocca cantieri, rispetto alle quali va verificato se e in che
misura continui ad operare il principio di rotazione nei termini delineati
dalla giurisprudenza prevalente.
Le nuove norme del Decreto sblocca
cantieri Come è noto il Decreto sblocca cantieri ha in parte ridisegnato le
regole per l'affidamento dei contratti sottosoglia. Ha infatti previsto per
gli
affidamenti ricompresi tra 40.000 euro e 150.000 euro per i lavori ovvero
la soglia comunitaria per i servizi e le forniture l'affidamento diretto.
Quest'ultimo tuttavia deve essere preceduto dalla valutazione di tre
preventivi per i lavori, mentre per i servizi e le forniture è necessario
procedere al confronto tra almeno cinque operatori economici scelti tramite
indagine di mercato o elenchi
precostituiti, nel rispetto del criterio di rotazione degli inviti.
Limitatamente ai lavori sono previste due ulteriori fasce di
importo, tra 150.000 e 350.000 euro e tra 350.000 euro e un milione di euro.
Per entrambe è previsto l'affidamento
previo svolgimento in di una procedura negoziata previa consultazione di
operatori economici selezionati tramite
indagine di mercato o elenchi precostituiti, sempre nel rispetto del
criterio di rotazione degli inviti.
Ciò che cambia è
solo il numero dei soggetti da invitare, che è di dieci per la prima fascia
e di quindici per la seconda. Come si vede, il
principio di rotazione viene esplicitamente ribadito nel caso degli inviti
alle procedure negoziate. Nulla viene detto
invece per gli affidamenti ricompresi tra 40.000 e 150.000 euro relativi a
lavori, per i quali viene unicamente
richiamata la previa valutazione di tre preventivi. Si deve tuttavia
ritenere che anche in quest'ultimo caso sia
applicabile il principio di rotazione, nel senso che i preventivi non
possono essere richiesti sempre ai medesimi
soggetti.
Depone in questo senso innanzi tutto il richiamo al principio di rotazione
contenuto nel comma 1, che quindi
si estende a tutti gli affidamenti dei contratti sottosoglia, qualunque sia
la modalità di affidamento. Inoltre, valgono
considerazioni di carattere sistematico, relative alla coerenza complessiva
delle regole dettate. Sarebbe cioè
incoerente che il principio di rotazione, applicabile per tutte le altre
fasce di importo, non trovasse spazio solo per la
fascia ricompresa tra 40.000 e 150.000 euro. L'invito del contraente uscente
Uno degli aspetti focali su cui si è
concentrata l'attenzione della giurisprudenza è quello relativo alla
posizione del contraente uscente rispetto
all'applicazione del principio di rotazione.
La giurisprudenza prevalente si è espressa nel senso della rigorosa
applicazione del principio di rotazione, in base al quale l'ente appaltante,
come regola generale, non deve procedere
all'invito di colui che risulta titolare del contratto immediatamente
precedente a quello oggetto di affidamento.
Secondo questo orientamento la regola generale può subire eccezioni solo in
presenza di circostanze particolari, e
cioè in considerazione del numero ridotto di operatori presenti sul mercato,
del grado di soddisfazione maturato nel precedente rapporto contrattuale o
ancora dell'oggetto e delle
caratteristiche del mercato di riferimento. In ogni caso, l'eventuale invito
del contraente uscente deve essere sorretto
da una attenta motivazione, sussistendo al riguardo un onere di motivazione
rafforzato.
Alla base di questa posizione
che tende ad escludere l'invito del contraente uscente la giurisprudenza ha
esplicitato due ordini di ragioni. Da un lato
vi sarebbe la necessità di evitare il consolidamento di rendite di posizione
contrarie all'apertura al mercato, specie in
danno delle piccole e medie imprese. Dall'altro opererebbe l'esigenza di evitare la posizione di vantaggio di cui
godrebbe il contraente uscente, in virtù del maggior bagaglio informativo di
cui lo stesso sarebbe titolare in virtù del
rapporto contrattuale pregresso.
Recentemente il Consiglio di Stato ha
sottolineato -eliminando ogni dubbio al
riguardo- che il divieto di invitare il contraente uscente vige anche
nell'ipotesi in cui l'ente appaltante abbia espletato
un'indagine di mercato per l'individuazione dei soggetti da invitare. Il
giudice amministrativo ha evidenziato come il
principio di rotazione riguardi la fase degli inviti, e quindi trovi spazio
anche nell'ipotesi in cui gli inviti siano diramati a
seguito di un'indagine di mercato (Cons. Stato, Sez. V, 06.06.2019, n.
3831).
Nella pronuncia il giudice
amministrativo respinge anche ogni dubbio di costituzionalità sulla norma
che impone il principio di rotazione negli
inviti e sull'interpretazione della stessa nei termini indicati. Non vi
sarebbe infatti contrasto con l'articolo 41 della
Costituzione che tutela l'iniziativa economica privata in quanto, a fronte
di una norma pro competitiva che tende ad
aprire il mercato ad altri operatori, vi sarebbe una compressione degli
interessi del contraente uscente ma nei limiti
della proporzionalità. Quest'ultimo, infatti, dovrebbe "saltare" solo il
primo affidamento successivo a quello del
rapporto contrattuale di cui risulta titolare.
D'altro canto non si potrebbe invocare neanche un contrasto con l'articolo
97 relativo al buon andamento dell'amministrazione in quanto il principio di
rotazione aumenterebbe le possibilità di
partecipazione di altri operatori, favorendo l'efficienza e l'economicità
delle prestazioni da rendere a favore della
pubblica amministrazione. In realtà queste considerazioni così radicali
lasciano aperta qualche perplessità.
L'eliminazione di ogni possibilità di competere per il contraente uscente,
che non può essere chiamato neanche a
partecipare a una procedura di gara, appare effettivamente come una
compressione della libertà di iniziativa
economica privata, che non sembra agevole considerare proporzionata per il
solo fatto che riguarda solo il primo
affidamento successivo al rapporto contrattuale di cui lo stesso è titolare.
Anche sotto il profilo del possibile
contrasto con l'articolo 97 andrebbe forse considerato che l'ente appaltante
deve comunque rinunciare salvo fornire
una dettagliata motivazione della scelta contraria ad invitare un operatore
che per ipotesi ha fornito prestazioni
ottimali nel corso del rapporto precedente. Con un evidente riflesso
potenzialmente negativo sul buon andamento
dell'azione amministrativa. Nella stessa logica di applicazione rigida del
principio di rotazione nei confronti del
contraente uscente si colloca un'altra recente pronuncia del Consiglio di
Stato, Sez. V, 12.06.2019, n. 3943, che
ha ritenuto che tale principio sia applicabile anche se il precedente
affidamento sia avvenuto a seguito di una
procedura aperta o ristretta.
Rispetto alle finalità cui tale principio è preordinato non rileva infatti
che la scelta
originaria del contraente uscente sia avvenuta tramite una procedura ad
evidenza pubblica, quanto piuttosto la
posizione "privilegiata" che quest'ultimo assume e che prescinde dalle
modalità attraverso le quali tale posizione si è
formata. La rotazione negli affidamenti diretti e negli inviti. Pur
riconoscendo che le motivazioni addotte dalla
giurisprudenza in merito alla rigida applicazione del principio di rotazione
hanno una loro validità, appare opportuna
una distinzione a seconda che l'ente appaltante proceda per mezzo di
affidamento diretto ovvero con una procedura
negoziata a inviti (o a un affidamento previa consultazione di tre
preventivi).
L'affidamento diretto in senso proprio è
consentito per la conclusione di contratti fino a 40.000 euro. In questo
caso il principio di rotazione si risolve nel
divieto di rinnovare fiduciariamente un contratto senza che vi sia alcuna
apertura alla concorrenza. Assume quindi
massimo valore l'esigenza di evitare il consolidarsi di rendite di
posizione, che avverrebbe al di fuori e a prescindere
da qualunque confronto con il mercato. La situazione si presenta in termini
diversi nell'ipotesi in cui l'ente appaltante
proceda allo svolgimento di una procedura negoziata a inviti (e, in misura
più attenuata, al confronto di tre preventivi).
In questo caso il divieto di invitare il contraente uscente appare meno
convincente.
Quest'ultimo infatti non è
destinatario di un affidamento diretto, ma viene messo in competizione con
altri concorrenti, e può per ipotesi risultare aggiudicatario del nuovo
contratto solo se la sua offerta risulta più conveniente rispetto a
quella degli altri invitati. Né sembra sufficiente a giustificare il divieto
di invito la situazione di asimmetria informativa
di cui il contraente uscente beneficerebbe, posto che la stessa può assumere
un ruolo molto diverso a seconda della
tipologia di prestazione oggetto di affidamento.
Si deve allora ritenere che nel caso di procedura negoziata a inviti
possa essere particolarmente valorizzata, ai fini di consentire l'invito del
contraente uscente, la particolare
soddisfazione che l'ente appaltante abbia conseguito nello svolgimento del
precedente rapporto contrattuale. Non si
vede infatti ragione per la quale, di fronte a un'ottima prestazione svolta,
l'ente appaltante debba aprioristicamente
privarsi della possibilità di invitare il contraente uscente, che comunque
viene messo in competizione con altri
concorrenti.
D'altronde anche parte della giurisprudenza, anche se minoritaria, ha
affermato che il principio di
rotazione deve considerarsi servente e strumentale al principio di
concorrenza e non può risolversi in un ostacolo ad
esso. Pertanto il contraente uscente che abbia ben operato può partecipare
alla gara, se ciò rappresenta
un'estensione della platea degli offerenti (Tar Lazio, Sez. I-ter,
18.06.2018, n. 6838)
(articolo Quotidiano del Sole 24 Ore Edilizia e Territorio del 05.07.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
civico senza più paletti. I costi del personale non devono gravare sui
richiedenti. Circolare del ministro Bongiorno sul
Foia. Arriva una procedura guidata per i cittadini.
Accesso civico senza paletti. Le pubbliche amministrazioni non avranno più
scuse: dovranno consentire a tutti i cittadini, che abbiano interesse ad
accedere a dati e documenti detenuti dalle p.a., di esercitare tale diritto
senza, per esempio, costringerli a sobbarcarsi i costi per il personale
impiegato nella trattazione delle richieste di accesso. Un costo che «grava
sulla collettività che intenda dotarsi di un'amministrazione moderna e
trasparente» e per questo non può essere scaricato sui cittadini. I costi a
carico di chi presenta istanza di accesso devono essere chiari e determinati
in anticipo mediante un tariffario da prospettare al richiedente prima della
riproduzione dei documenti.
Dopo la circolare del 2017, il dipartimento della Funzione pubblica torna a
dettare i chiarimenti sull'accesso civico generalizzato (cosiddetto Foia,
acronimo di Freedom of information act) che, seppur in vigore dal 23.12.2016, ha richiesto la necessità di un nuovo intervento.
Ieri (circolare
01.07.2019 n. 1/2019), il
ministro per la pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, ha firmato una
nuova circolare sul Foia per precisare alcuni dubbi applicativi rimasti
insoluti in questo primo biennio di applicazione. «L'obiettivo è promuovere
un'attuazione del Foia sempre più rigorosa e uniforme», ha dichiarato il
numero uno di palazzo Vidoni. «La circolare intende dare risposta alle
numerose esigenze emerse nel corso degli ultimi due anni», fornendo
«indirizzi e chiarimenti a tutte le amministrazioni in merito agli aspetti
organizzativi, procedimentali e tecnologici connessi a un'efficiente
gestione del Foia».
L'utilizzo delle nuove tecnologie
E proprio l'utilizzo delle tecnologie informatiche sarà cruciale per ridurre
gli ostacoli e promuovere un sempre più ampio utilizzo dell'istituto. Gli
interventi che la Funzione pubblica metterà in campo andranno in una duplice
direzione: supportare i cittadini nella presentazione delle richieste di
accesso e le p.a. nella gestione delle domande. Per i cittadini è in arrivo
sul sito www.foia.gov.it una procedura guidata che faciliterà i richiedenti
nella corretta individuazione della tipologia di accesso e della p.a.
destinataria della richiesta. Mentre le amministrazioni vengono invitate a
mettere a disposizione degli utenti un modulo on-line che consenta di
specificare l'ambito di riferimento dei dati e i documenti richiesti,
facilitando così l'individuazione della p.a. competente.
Le nuove tecnologie dovranno anche aiutare le p.a. a trattare celermente le
richieste. «Una volta che l'istanza di accesso sia stata acquisita
dall'amministrazione è necessario che la stessa venga tempestivamente
inoltrata all'ufficio che detiene i dati o i documenti richiesti», ammonisce
la circolare del ministro Bongiorno. Di qui l'invito alle pubbliche
amministrazioni a utilizzare sistemi di protocollo informatico e gestione
documentale più evoluti.
Spetterà al Responsabile per la transizione al
digitale, a cui il Codice dell'amministrazione digitale affida il compito di
promuovere la diffusione nella p.a. dei sistemi di protocollo informatico,
«adottare gli interventi di evoluzione e configurazione dei sistemi già in
uso che si rendano necessari» per facilitare la diffusione del Foia. E
proprio in quest'ottica, la Funzione pubblica ha predisposto un
documento
con le specifiche tecniche per l'implementazione del registro degli accessi Foia, disponibile sul sito
www.foia.gov.it.
Regolamenti interni
La circolare si sofferma anche sui confini del diritto di accesso civico e
sulla possibilità per gli enti pubblici di sottrarre all'accesso alcune
materie. La nota ribadisce che le p.a. «non possono individuare con
regolamento alcune categorie di atti sottratte all'accesso generalizzato»,
chance invece prevista dalla legge n. 241/1990 in materia di accesso
procedimentale. La conseguenza è che «un generale riferimento a regolamenti
che prevedano categorie di documenti sottratte all'accesso potrebbe non
essere sufficiente a respingere un'istanza di accesso generalizzato,
considerando che le categorie di documenti devono essere interpretate in
senso restrittivo».
Notifiche ai controinteressati
La nota del ministro Bongiorno detta chiarimenti anche in materia di
notifica ai controinteressati, ossia i soggetti che dall'esercizio del
diritto di accesso civico possono subire un pregiudizio concreto a interessi
privati quali la protezione dei dati personali, la libertà e la segretezza
della corrispondenza o ancora interessi economici e commerciali quali
proprietà intellettuale, diritto d'autore e segreti commerciali.
Il decreto trasparenza prevede che ai controinteressati venga inviata
comunicazione dell'accesso civico generalizzato o con raccomandata o per via
telematica. Ma cosa accade quando il numero di controinteressati è elevato?
La circolare suggerisce in primis di usare la Pec. E se i controinteressati
sono talmente tanti da rischiare di arrecare un serio pregiudizio al buon
andamento della p.a. a causa dell'onerosità dell'attività di notifica con
raccomandata, «l'amministrazione potrà consentire l'accesso parziale,
oscurando i dati personali o le parti dei documenti richiesti che possano
comportare un pregiudizio concreto agli interessi privati»
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
nei comuni e nelle regioni. Tra molti dubbi applicativi. Esclusi territori
autonomi, province, città metropolitane e unioni.
La legge di conversione del decreto crescita conferma le nuove modalità di
computo delle capacità assunzionali, con pochissime modifiche rispetto al
testo iniziale. I destinatari delle disposizioni contenute nell'articolo 33
sono solo regioni a statuto ordinario e comuni. Non, quindi, regioni a
statuto speciale, né province, città metropolitane o unioni di comuni.
Gli
enti potranno assumere a tempo indeterminato sino ad una spesa complessiva
per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico
dell'amministrazione, non superiore al valore soglia definito come
percentuale, anche differenziata per fascia demografica, della media delle
entrate correnti relative agli ultimi tre rendiconti approvati; per le
regioni occorrerà considerare questa media delle entrate correnti al netto
di quelle la cui destinazione è vincolata, ivi incluse, per le finalità di
cui al presente comma, quelle relative al servizio sanitario nazionale ed al
netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di
previsione; i comuni, invece, le considereranno al netto del fondo crediti
dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
Il meccanismo, però,
è subordinato all'approvazione dei decreti che stabiliranno i valori soglia,
al di sotto dei quali sarà possibile assumere senza limitazioni percentuali
del turnover. Gli enti che si troveranno al di sopra del valore soglia
avranno tempo fino al 2025 per mettersi in regola; nel frattempo potranno
ridurre il costo complessivo del personale anche assumendo con un tasso
inferiore al 100% del turnover. Se al 2025 saranno ancora non in regola,
potranno assumere solo entro il 30% del turnover. Non è stata introdotta
nessuna norma di diritto transitorio che chiarisca come gli enti possono
assumere fino all'adozione dei decreti citati prima.
C'è chi parla
dell'applicazione delle regole sulle assunzioni «previgenti»; una soluzione
che appare non corretta, proprio perché le regole poste adesso dalla
conversione del decreto sono altre. Appare più coerente ammettere che gli
enti interessati possano assumere, sapendo che in conseguenza della spesa
potrebbero trovarsi al di sopra del valore soglia di loro competenza: ma
avrebbero ben sei anni per rimediare. Nemmeno è stato chiarito se questo
nuovo computo delle capacità assunzionali implica l'implicita abolizione del
tetto di spesa consistente nella media della spesa di personale del triennio
2011-2013.
Tale abolizione tacita potrebbe considerarsi avvenuta a
condizione che l'aggregato «spesa di personale» rilevante ai fini del
decreto sia considerato identico all'aggregato preso in considerazione per
determinare il tetto di spesa. Né è stato reso più chiaro l'ultimo periodo
dei commi 1 e 2 dell'articolo 33, ai sensi del quale il limite al
trattamento accessorio del personale, consistente nel tetto del 2016 deve
essere adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l'invarianza del
valore medio pro-capite, riferito all'anno 2018, del fondo per la
contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi
di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il
personale in servizio al 31.12.2018.
Non si capisce se si debba computare un unico valore medio pro capite,
comprensivo anche delle risorse per le retribuzioni di posizione e risultato
delle posizioni organizzative o se per queste ultime occorra un autonomo
valore medio pro capite
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO: 40%
in più di stipendio per i dipendenti comunali equiparati in Friuli-Venezia
Giulia ai regionali.
La rivoluzione nel pubblico impiego parte del Friuli-Venezia Giulia: i
dipendenti comunali (nuovi assunti) saranno equiparati nel trattamento
economico e nei benefit a quelli regionali. È facile prevedere che anche chi
già lavora nei Comuni finirà per ottenere la parità.
Non si tratta di poca cosa: i dipendenti regionali friulani percepiscono
circa il 40% in più dei loro colleghi comunali, per i quali, quindi, il
salto è olimpico (a proposito).
Secondo l'assessore regionale alla Funzione pubblica, Sebastiano Callari, in
questo modo sarà cancellata l'aspirazione dei dipendenti comunali a farsi
trasferire in Regione e inoltre non ci saranno più rinunce a entrare in
organico presso piccoli Comuni disagiati.
Oggi in Friuli-Venezia Giulia la Regione dà lavoro a 3.700 persone, i Comuni
a 9.300. L'età media è 54 anni. Dice Callari: «Parificheremo gli emolumenti
ma intendiamo estendere anche agli enti locali i benefit che la Regione
garantisce ai suoi dipendenti e che in passato sono strati interpretati come
privilegi. Sono invece dei programmi di welfare che è giusto abbiano anche i
dipendenti in forza ai Comuni».
Sulla diligenza vogliono però salire i comunali anche delle altre parti
d'Italia. E sono già pronti con fischietti e cartelli
(articolo ItaliaOggi del 27.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Categorie
protette: dalla Funzione pubblica le istruzioni su quote, collocamento, e
sanzioni.
Soggetti beneficiari, quota d'obbligo, collocamento
obbligatorio, sanzioni.
La
direttiva 24.06.2019 n. 1/2019 del ministro per la Pubblica
amministrazione è un documento che affronta a 360 gradi tutte le regole per
la gestione delle categorie protette alla luce delle diverse disposizioni
normative che si sono succedute nel tempo.
Dal Dipartimento della Funzione Pubblica giunge, quindi, un vero e proprio
vademecum capace di riassumere sia i principi generali che le azioni
concrete ed operative in materia di disabili.
Il comitato di garanzia
Al centro delle misure di sostegno alle categorie protette il ruolo
principale di attore è svolto dal comitato unico di garanzia per le pari
opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le
discriminazioni. La mancata costituzione dell'organismo, comporta
responsabilità dei dirigenti da valutare anche per il raggiungimento degli
obiettivi.
Il documento si sposta, poi, a esaminare nel dettaglio le varie tipologie di
categorie protette. La parte del leone la fa sicuramente l'articolo 1 della
Legge 12.03.1999 numero 68 che ricomprende il cosiddetto contesto delle «invalidità».
Particolarmente interessante è la spiegazione del calcolo della quota
d'obbligo, della gestione della mobilità e della compensazione territoriale.
Si ricorda che i datori di lavoro sono tenuti ad avere alle loro dipendenze
lavoratori appartenenti alle categorie sopra richiamate in questa misura:
- sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50
dipendenti;
- due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;
- un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti.
Le modalità per assumere
Vengono, inoltre, chiariti i diversi rapporti tra l'assunzione mediante
avviamento, attraverso chiamata nominativa e il concorso con riserva. È
anche necessario un approfondimento sulle varie tipologie di convenzioni e
sullo svolgimento di tirocini formativi e di orientamento. Uno specifico
paragrafo è dedicato alle assunzioni obbligatorie con riguardo ai servizi di
polizia e di protezione civile per i quali è indicato che in tali ambiti il
collocamento dei disabili è previsto nei soli servizi amministrativi.
Sempre della legge 68/1999 viene esaminato il caso delle categorie protette
previste dall'articolo 18, comma 2. In questo caso si fa riferimento agli
orfani e ai coniugi dei superstiti deceduti per causa di lavoro o per causa
di guerra e di servizio e il documento analizza, ancora una volta, la quota
d'obbligo le eventuali sanzioni e le modalità concrete di assunzione
obbligatorio.
Vittime del terrorismo e della criminalità organizzata
La seconda sezione della direttiva prende in esame le nuove norme in favore
delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata: si fa
riferimento alle categorie protette così come identificate dall'articolo 1,
comma 2, della legge 407/1998.
Nell'ordinamento legislativo italiano sono altresì presenti altre tre
tipologie di categorie protette che vengono equiparate alle vittime del
terrorismo e della criminalità organizzata. Il ministro per la Pubblica
amministrazione, ci ricorda che stiamo parlando delle vittime del dovere,
per le quali il documento precisa che debbano intendersi i soggetti di cui
all'articolo 3 della legge 13.08.1980 n. 466, e, in genere, gli altri
dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subìto un'invalidità permanente
in attività di servizio o nell'espletamento delle funzioni di istituto per
effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi particolari.
Il documento conclude esaminando la casistica dei soggetti caduti sul lavoro
e dei testimoni di giustizia
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019). |
APPALTI: Sblocca-cantieri,
sospeso fino a fine 2020 l'obbligo di indicare almeno tre subappaltatori.
Fino al 31.12.2020 le stazioni appaltanti devono specificare negli
atti di gara la quota di lavori, servizi o forniture da subappaltare, mentre
gli operatori economici concorrenti che intendono subappaltare parti di
attività non hanno più l'obbligo di indicare la terna dei subappaltatori.
La disciplina della quota subappaltabile è modificata temporaneamente dal
comma 18, articolo 1, della legge n. 55/2019 sospendendo fino alla fine del
prossimo anno la previsione, contenuta nel comma 6, articolo 105, del codice
dei contratti pubblici, relativa alla necessaria indicazione di almeno tre
subappaltatori, in caso di volontà del concorrente di subappaltare.
Cosa prevede la norma a tempo
La disposizione prevede anzitutto che le amministrazioni aggiudicatrici
specifichino nel bando il subappalto, determinandone quindi l'indicazione
obbligatoria per tutte le tipologie di appalti (fatta eccezione per quelli
compresi nell'allegato IX, per i quali l'articolo 105 non rientra tra le
norme applicabili).
Le stazioni appaltanti hanno possibilità di individuare la quota
subappaltabile entro il limite del 40%, statuito dalla norma transitoria,
tenendo conto che tale limite amplia quello previgente (30%), ma configura
comunque un'eccezione rispetto all'ordinamento eurounitario, nel quale il
subappalto non ha vincoli quantitativi.
Le disposizioni dell'art. 105 del codice dei contratti pubblici relative
alle condizioni particolari per il subappalto e al suo procedimento
autorizzativo permangono invariate, quindi le amministrazioni, in sede di
valutazione del subappalto richiesto dall'appaltatore, devono verificare che
non sia affidato a un operatore economico che ha partecipato alla gara
(poiché in base alla legge n. 55/2019 permane il divieto specifico).
Adeguare bandi e disciplinari di gara
In relazione alla procedura di gara, sino al 31.12.2020 nelle gare non
deve essere più richiesta la terna dei subappaltatori agli operatori
economici concorrenti che dichiarino di voler subappaltare (permanendo
invece l'obbligo di indicazione delle tipologie di attività e della quota
che si intende subappaltare).
L'eliminazione dell'obbligo vale sia per le gare soprasoglia (nelle quali
era generalizzato) sia in quelle sottosoglia (nelle quali era richiesto solo
in caso di attività assoggettate all'obbligo della white list per gli
esecutori).
Le amministrazioni devono quindi adeguare i bandi e i disciplinari di gara,
eliminando la parte regolativa dell'obbligo di presentazione della terna e i
connessi obblighi di presentazione del documento di gara unico europeo
relativo ai requisiti dei subappaltatori.
Nella fase di esecuzione, le stazioni appaltanti devono tener conto che la
legge n. 55/2019 ha rimosso le novità che erano state inserite dal decreto
legge n. 32/2019 nel comma 13, quindi è ripristinato l'obbligo di pagare i
subappaltatori quando sono micro o piccole imprese.
Warning
Nella gestione dei subappalti, le amministrazioni dovranno porre particolare
attenzione sulla corretta qualificazione dei rapporti tra l'appaltatore e
gli operatori economici subaffidatari, per evitare elusioni attraverso il
ricorso ai subcontratti previsti nel comma 2 dell'art. 105
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019). |
APPALTI:
Sblocca-cantieri, fino a dicembre 2020 commissioni giudicatrici
senza pescare nell'albo Anac.
Le stazioni appaltanti fino al 31.12.2020 possono
individuare i componenti delle commissioni giudicatrici senza ricorrere
all'albo Anac, ma devono definire specifiche regole per la nomina dei
commissari.
La legge n. 55/2019 prevede all'articolo 1, comma 1, lettera c), che fino
alla fine del prossimo anno è sospesa la disposizione contenuta
nell'articolo 77, comma 3, del Dlgs n. 50/2016 in relazione all'obbligo di
scegliere (per le procedure con l'offerta economicamente più vantaggiosa)
tra gli esperti iscritti all'elenco istituito dall'Autorità nazionale
anticorruzione tutti i commissari per le gare soprasoglia e il presidente
per quelle sottosoglia.
Regole base da individuare
Le amministrazioni possono quindi individuare i componenti delle commissioni
giudicatrici tra propri dipendenti o tra soggetti esterni, ma la norma a
valenza temporanea determina l'obbligo di effettuare l'individuazione sulla
base di regole di competenza e trasparenza, preventivamente individuate da
ciascuna stazione appaltante.
La definizione di questi criteri non è una novità assoluta, in quanto era
già prevista dal comma 12, articolo 216, del codice in relazione al periodo
transitorio compreso tra l'entrata in vigore del Dlgs n. 50/2016 e
l'operatività dell'albo istituito dall'Anac.
Molte stazioni appaltanti, tuttavia, non li avevano «regolamentati», tanto
che la giurisprudenza è intervenuta giudicando (Tar Veneto, sezione I,
sentenza del 06.03.2019 n. 297) il provvedimento di nomina della
commissione illegittimo quando adottato in assenza di qualsiasi
predeterminazione dei criteri di trasparenza e competenza, risultando del
tutto privo di un proprio specifico contenuto motivazionale, con conseguente
illegittimità derivata degli ulteriori atti di gara.
Le stazioni appaltanti che non hanno strutturato tale quadro di criteri
devono pertanto definire un complesso di regole essenziali, nel quale devono
anzitutto essere specificati gli elementi in base ai quali saranno scelti i
commissari.
Parametri possibili
Il parametro-chiave è la competenza rispetto all'oggetto dell'appalto, che
deve risultare dal background professionale dei potenziali commissari.
Un secondo profilo rilevante per le norme regolamentari è la definizione
della disciplina per la rotazione dei commissari nominati, per evitare che a
breve distanza di tempo lo stesso esperto sia scelto per valutare appalti
nel medesimo settore: la tempistica per l'applicazione del principio va
determinata da ciascuna amministrazione in relazione alla propria struttura
organizzativa e alla maggiore o minore disponibilità di figure professionali
da coinvolgere nelle commissioni.
Le stazioni appaltanti devono comporre anche i criteri per l'individuazione
di esperti esterni, quando questo sia necessario in ragione delle
peculiarità o della complessità dell'appalto, oppure quando non vi siano
sufficienti esperti interni. In tale prospettiva sono molto importanti i
parametri per la valutazione della competenza (per esempio attività
professionale svolta nel settore oggetto dell'appalto) e le modalità di
selezione, che devono rispettare i principi di pubblicità e di trasparenza,
trattandosi di incarichi professionali conferibili in base all'articolo 7,
comma 6, del Dlgs n. 165/2001.
Le regole per la nomina dei commissari possono definire anche alcuni aspetti
particolari, come le modalità di individuazione del presidente, facendo
riferimento a dati ordinamentali (come per esempio l'articolo 107 del tuel,
che pone tale compito in capo ai dirigenti) e prevedendo anche soluzioni
derogatorie (come la nomina effettuata dal mini-collegio tra i suoi
componenti), qualora figure interne non possano far parte della commissione
a fronte della sussistenza di condizioni di incompatibilità funzionale in
base al comma 4, articolo 77, del codice
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., aspettativa a maglie larghe.
Chance per tutti i dipendenti. E raddoppiata (10 anni).
In G.U. la legge Concretezza: in vigore dal 7 luglio, apre ancor
di più le porte del privato.
Tutti i dipendenti pubblici potranno fare esperienza nel privato
allo scopo di valutare l'opportunità di intraprendere nuove strade o
acquisire nuove conoscenze e competenze da spendere poi rientrati in
servizio nella pubblica amministrazione.
Tra le novità della legge 56/2019, nota come legge
Concretezza, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 145 del 22.06.2019 e
in vigore dal 7 luglio prossimo, vi è la notevole estensione
dell'aspettativa come strumento disponibile per tutti i pubblici dipendenti.
L'articolo 4 della legge (si veda ItaliaOggi del 13 giugno scorso) modifica
in primo luogo l'articolo 23-bis del dlgs 165/2001, cioè la norma che aveva
introdotto la possibilità dell'aspettativa per attività lavorative nel
settore privato, limitandola però ai soli dirigenti pubblici.
La novella
consente a tutti i dipendenti delle p.a., qualunque sia la loro qualifica
professionale e ivi compresi gli appartenenti alle carriere diplomatica e
prefettizia di collocarsi in aspettativa senza assegni per svolgere attività
presso soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede
internazionale, salvo motivato diniego dell'amministrazione di appartenenza
in ordine alle proprie preminenti esigenze organizzative.
Oltre alla
notevole estensione soggettiva che potenzialmente consente a tutti i 3
milioni di dipendenti pubblici circa di provare nuove attività lavorative,
ve n'è una notevole anche di carattere temporale: l'articolo 4, comma 1,
lettera b), della legge 56/2019 è stato riscritto in modo tale che
l'aspettativa massima di 5 anni concedibile nel caso di svolgimento di
attività presso soggetti diversi dalle amministrazioni pubbliche, sia
rinnovabile. Quindi, potenzialmente l'aspettativa dovuta a lavori presso i
soggetti privati può durare fino a 10 anni.
Allo scopo di evitare conflitti
di interessi o, comunque, di attenuarne i rischi, il comma 6 dell'articolo
23-bis del dlgs 165/2001 precisa che i dipendenti che abbiano fruito della
particolare aspettativa per attività lavorativa una volta rientrato in
servizio per i successivi due anni potrà ricevere incarichi o svolgere
attività connesse all'esercizio di funzioni di vigilanza, di controllo
stipulazione di contratti o formulazione di pareri o avvisi su contratti,
nonché concessione di autorizzazioni a favore di soggetti presso i quali
abbia condotto l'attività lavorativa durante l'aspettativa.
Il comma 2 dell'articolo 4 della legge 56/2019 completa la riforma,
modificando l'articolo 18, comma 1, della legge 183/2010, il cui nuovo testo
è il seguente: «I dipendenti pubblici possono essere collocati in
aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell'anzianità di servizio,
per un periodo massimo di 12 mesi e rinnovabile per una sola volta, anche
per avviare attività professionali e imprenditoriali. L'aspettativa è
concessa dall'amministrazione, tenuto conto delle esigenze organizzative,
previo esame della documentazione prodotta dall'interessato».
Si tratta della disposizione finalizzata a consentire l'aspettativa mirata
proprio all'attività imprenditoriale. La novità introdotta dalla legge
«Concretezza» consiste nella possibilità di rinnovare per una sola volta
questa aspettativa funzionale all'attivazione di attività in proprio. Fin
qui le norme prese in considerazione dall'articolo 4 della legge concretezza
non hanno prodotto rilevanti risultati.
La norma indubbiamente mira a estendere l'utilizzo dell'aspettativa, ma il
momento storico scelto non pare il migliore: le amministrazioni sono,
infatti, interessate da una fortissima emorragia di dipendenti e
difficilmente concederanno a cuor leggero periodi di aspettativa che
finirebbero per ridurre ulteriormente i ranghi, fortemente interessati dai
pensionamenti della «quota 100» e dalla «gobba» pensionistica che
coinvolgerà circa 450 mila dipendenti pubblici nei prossimi tre anni
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Multa per chi usa dati oltre mandato.
Garante privacy sui diritti di accesso per consiglieri.
Consigliere comunale multato (4 mila euro) per avere passato a un
cittadino documenti avuti dal comune utilizzando il suo ruolo politico.
L'uso delle prerogative nell'accesso alle informazioni comunali è costata
l'irrogazione di una sanzione pecuniaria da parte del Garante della privacy:
lo sviamento dei diritti previsti a favore del componente del consiglio
comunale significa trattamento illecito dei dati.
Così ha deciso il Garante con
l'ordinanza-ingiunzione
04.04.2019 n. 100.
Nel caso specifico, un
consigliere comunale ha chiesto un documento di una pratica edilizia (una
denuncia di inizio attività o dia). Ma il consigliere lo ha fatto solo
perché un cittadino non era riuscito ad ottenerlo dagli uffici comunali e
questa persona ne aveva bisogno per metterlo agli atti di una causa pendente
contro il soggetto cui si riferiva la pratica edilizia. Insomma, il Garante
ha accertato che il consigliere ha chiesto l'atto non per esercitare il suo
mandato, ma per aiutare il cittadino nell'acquisizione del documento.
La
persona nominata nella pratica edilizia ha reagito con un ricorso al Garante
contro il consigliere. Nel corso del procedimento il consigliere ha dovuto
ammettere di avere consegnato la dia a chi l'aveva chiesta, senza fortuna,
al comune. Una volta appurati i fatti, il Garante ha avuto facilità a
considerare che il consigliere ha violato le norme sulla privacy pro tempore
vigenti e d'altra parte la risposta sarebbe la stessa anche considerando il
subentrato regolamento Ue sulla privacy (2016/679 o Gdpr).
In effetti
l'articolo 43 del Testo unico degli enti locali (dlgs 267/2000 o Tuel) dice
che i consiglieri comunali hanno il diritto di ottenere dagli uffici tutte
le notizie e le informazioni in loro possesso, ma solo se e in quanto utili
all'espletamento del proprio mandato. Questo significa che i dati personali
così acquisiti devono essere utilizzati effettivamente per le sole finalità
realmente pertinenti al mandato. Non appartiene al mandato del consigliere
rimediare a eventuali illegittimi dinieghi del comune a richieste d'accesso.
Se taluno chiede un documento al comune e il comune, in ipotesi sbagliando,
nega l'accesso, non si deve andare dal consigliere, ma bisogna fare ricorso
al Tar. Il consigliere ha tentato di difendersi dicendo che i titoli edilizi
non sono coperti da privacy e, anzi, sono atti pubblici liberamente
conoscibili. Sempre il consigliere ha evidenziato che il comune avrebbe
sbagliato a dire di no alla richiesta di accesso e che il cittadino aveva
diritto ad avere la copia della Dia.
Il Garante ha dovuto constatare che
questi argomenti non sono decisivi. Quanto alla pubblicità dei titoli
edilizi, non c'è una norma che consenta la diffusione dei titoli edilizi
nella loro integralità. Inoltre se anche il diritto di accesso fosse
fondato, questo non significa che il consigliere possa sostituirsi all'ente
inadempiente, unico titolato a rispondere ed eventualmente a essere
responsabile nel caso di dinieghi sbagliati.
Sulla base di questi
ragionamenti al consigliere è stato ingiunto di pagare una somma ridotta di
4 mila euro. Il cittadino, che per ragioni difensive aveva certamente
diritto ad avere la Dia, avrebbe potuto ottenerla sia con un ricorso al Tar,
sia chiedendone l'acquisizione d'ufficio al giudice della causa in corso. Si
è scelta la strada sbagliata, che ha messo nei guai il consigliere. Nessuna
conseguenza, invece, per il comune, alla condizione che abbia consegnato al
consigliere su richiesta di quest'ultimo, dichiarante di avere bisogno degli
atti per utilità del mandato.
Nessuna conseguenza neppure sul piano processuale per la cittadina che ha
usato la dia ricevuta dal consigliere: avere avuto gli atti per vie traverse
non ne compromette l'utilizzabilità in giudizio, materia su cui l'unico
competente è il giudice (e non il Garante della privacy)
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2019). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Per
beni e servizi affidamenti diretti con incognita. Doppia interpretazione per
le procedure semplificate sotto-soglia.
La nuova disciplina delle procedure di affidamento per l’acquisizione di
beni e servizi di valore inferiore alle soglie Ue può essere interpretata in
due modi, mettendo in difficoltà le stazioni appaltanti.
La nuova formulazione dell’articolo 36, comma 2, lettera b), del codice dei
contratti pubblici, dettata dalla legge 55/2019, estende ai lavori nella
fascia tra i 40mila e i 150mila euro l’affidamento diretto, facendolo
precedere dalla valutazione di tre preventivi. Ma il testo della norma non è
altrettanto chiaro per la definizione dei percorsi relativi all’affidamento
di appalti di forniture e di servizi, determinando rilevanti difficoltà
operative per le amministrazioni.
La nuova norma stabilisce che per affidamenti di importo pari o superiore a
40mila euro, e inferiore a 150mila euro per i lavori o alle soglie
dell’articolo 35 del Codice per le forniture e i servizi, le stazioni
appaltanti procedono mediante affidamento diretto previa valutazione di tre
preventivi, ove esistenti, per i lavori; per i servizi e le forniture, la
valutazione deve riguardare almeno cinque imprese individuate sulla base di
indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto
di un criterio di rotazione degli inviti. L’ultimo periodo della lettera b)
riformulata conserva peraltro la vecchia disposizione, per cui l’avviso sui
risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei
soggetti invitati.
La prima interpretazione (riscontrabile anche nel dossier della Camera sulla
legge di conversione del Dl 32/2019) estende l’utilizzo dell’affidamento
diretto anche agli affidamenti di beni e servizi, differenziandoli dalla
disciplina dei lavori per il maggior numero degli operatori economici da
coinvolgere (cinque) nella consultazione e per le modalità della loro
individuazione, in quanto devono essere selezionati con un’indagine di
mercato (sollecitabile con avviso pubblico) o estratti da elenchi già
formati.
A sostegno di questa tesi potrebbe porsi anche la modifica dell’articolo 32,
comma 2 del Codice, che ora stabilisce la possibilità di formalizzare
l’affidamento diretto con un atto unico (con sintesi del percorso)
esplicitando il riferimento sia alla lettera a) sia alla lettera b)
dell’articolo 36, comma 2.
Una simile interpretazione amplierebbe moltissimo lo spazio operativo in cui
le stazioni appaltanti possono concretizzare gli affidamenti senza vere e
proprie procedure di confronto competitivo, perché più volte la
giurisprudenza ha chiarito che la richiesta di preventivi comporta
l’attivazione di varie trattative parallele, ma non una comparazione
coordinata in base all’applicazione di un criterio di valutazione specifico.
Ma una seconda interpretazione della nuova norma si lega alla distinzione
tra la frase che connette l’affidamento diretto agli appalti di lavori e
quella che invece regola i percorsi per il coinvolgimento degli operatori
economici nell’acquisizione di beni e servizi, che sarebbe retta solo dalle
parole che esplicitano l’obbligo di valutazione dei cinque soggetti.
Questa ipotesi configurerebbe la valutazione come una procedura di confronto
competitivo, sostenuta dalla precisazione che all’affidamento di forniture e
servizi si applica il principio di rotazione degli inviti, richiedendo
quindi una formalizzazione della competizione degli operatori economici. A
questa mini-gara la stazione appaltante applicherebbe il criterio del minor
prezzo o dell’offerta economicamente più vantaggiosa, secondo la nuova
prefigurazione per il sottosoglia data dal comma 9-bis dell’articolo 36.
L’incertezza del nuovo quadro normativo richiede un intervento
interpretativo urgente, che consenta alle stazioni appaltanti di avere
elementi certi per sviluppare le procedure di acquisto di beni e servizi
nella fascia compresa tra i 40mila euro e le soglie Ue (221mila euro per
beni e servizi vari, 750mila euro per servizi sociali e altri servizi
compresi nell’allegato IX), e ai gestori di mercati telematici di adeguare
le piattaforme (attualmente strutturate in questa fascia come confronti
competitivi in forma di gara)
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2019). |
APPALTI: Forniture,
affidamenti limitati. Procedura negoziata sopra i 40 mila euro di valore.
Solo i lavori (fi no a 150 mila euro) possono essere affi dati previa
acquisizione dei preventivi.
Niente affidamenti diretti per forniture e servizi
di valore superiore ai 40 mila euro e fino alla soglia comunitaria.
La riscrittura dell'articolo 36, comma 2, lettera b), del codice dei
contratti operata dal decreto sblocca-cantieri genera non poca confusione e
potrebbe indurre le amministrazioni a ritenere che basti acquisire 5
preventivi per acquistare un bene o ordinare un servizio.
Il nuovo testo della norma è il seguente: «per affidamenti di importo pari o
superiore a 40 mila euro e inferiore a 150 mila euro per i lavori, o alle
soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante
affidamento diretto previa valutazione di tre preventivi, ove esistenti, per
i lavori, e, per i servizi e le forniture, di almeno cinque operatori
economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di
operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti.
I lavori possono essere eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto
salvo l'acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica comunque la
procedura di cui al periodo precedente. L'avviso sui risultati della
procedura di affidamento contiene l'indicazione anche dei soggetti
invitati».
Rispetto al precedente testo è sparito l'espresso riferimento alle procedure
negoziate e rimane solo, invece, l'inciso secondo il quale l'aggiudicatario
è individuato mediante appunto «affidamento diretto».
Tuttavia, questa espressione è espressamente riferita solo ai lavori: sono
sicuramente i lavori compresi tra 40 mila euro e i 149.999 euro a poter
essere assegnati previa acquisizione dei preventivi. Per quanto riguarda
forniture e servizi, la previsione normativa regola una «previa
valutazione», sì, ma non di «tre preventivi», bensì di «cinque operatori
economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di
operatori economici, nel rispetto del criterio di rotazione degli inviti».
Poiché la lettera b) novellata dell'articolo 36 per forniture e servizi
richiede la valutazione non di preventivi, ma di «operatori economici»,
scelti sulla base delle indagini di mercato, è chiaro che pur mancando
l'espresso riferimento alla procedura negoziata è esattamente una procedura
negoziata quella che viene attivata.
Infatti, sul punto l'articolo 63, comma 6, è chiarissimo: «le
amministrazioni aggiudicatrici individuano gli operatori economici da
consultare sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di
qualificazione economica e finanziaria e tecniche e professionali desunte
dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza,
rotazione, e selezionano almeno cinque operatori economici, se sussistono in
tale numero soggetti idonei».
Il richiamo della necessità di selezionare almeno 5 operatori economici,
presente tanto nell'articolo 36, comma 2, lettera b) per forniture e
servizi, quanto nell'articolo 63, comma 6, dimostra (pur nella laconicità
della novella legislativa) che questi ultimi sono affidati necessariamente
mediante procedura negoziata: altrimenti, non si comprenderebbe perché il
legislatore abbia richiesto esattamente la soglia di «almeno» 5 operatori
economici, per altro richiesta dalle direttive Ue per attivare le procedure
negoziate.
Semmai, si pone un problema di coordinamento tra l'affidamento diretto
mediante acquisizione di 3 preventivi per i lavori e l'ultimo periodo
dell'articolo 36, comma 2, lettera b), ove si richiede la pubblicazione
dell'avviso sui risultati della procedura di affidamento, stabilendo che
contenga «l'indicazione anche dei soggetti invitati».
Propriamente, infatti, l'invito riguarda solo appunto la procedura negoziata
per forniture e servizi, ma non i preventivi. L'affidamento diretto mediante
tre preventivi non è una gara vera e propria, da tenere con una seduta nella
quale aprire «offerte». Si tratta, invece, di una procedura del tutto
informale, nella quale i preventivi sono acquisiti senza invito ad offrire:
la stazione appaltante può negoziare distintamente con ciascun operatore
economico (articolo ItaliaOggi del 21.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Nomina
del segretario comunale, le istruzioni della Prefettura di Milano ai sindaci
neoeletti.
Con spirito di collaborazione,
la Prefettura di Milano ha inviato ai Comuni della Regione Lombardia una
nota di dettaglio (nota
18.06.2019 n. 128832 di prot.) sulla procedura di nomina dei segretari comunali venendo
in aiuto ai neoeletti alle prese con una procedura dai passaggi complessi.
La figura del segretario comunale
La nomina del segretario comunale spetta ai sindaci. La Prefettura ha
precisato che il datore di lavoro è il ministero dell'Interno cui compete la
gestione dell'albo. I segretari comunali mantengono, pertanto, un rapporto
gerarchico con il Viminale attraverso gli uffici regionali, salvo il caso
dei segretari iscritti nella fascia A (ossia per sedi con popolazione
superiore a 65.000 abitanti, capoluoghi di provincia o amministrazioni
provinciali) la cui gestione è affidata a livello nazionale.
La procedura di nomina
La procedura di nomina del segretario, la cui durata coincide con quella del
mandato del sindaco ma le cui funzioni cessano fino alla nuova nomina
disposta dal sindaco neoeletto, prevede un termine massimo non superiore a
120 giorni dalla data di proclamazione degli eletti, passati inutilmente i
quali il segretario si intende confermato. Nel caso in cui la decisione sia
invece quella di nominare un nuovo segretario, il sindaco neoeletto dovrà
inviare la richiesta agli uffici territoriali del ministero dell'Interno,
dandone contestuale comunicazione al segretario uscente.
Ricevuta la
comunicazione, gli uffici territoriali del ministero dell'Interno
procederanno alla pubblicazione dell'avviso sul proprio sito istituzionale
(www.ageziasegretari.it) per una durata di dieci giorni durante i quali i
segretari, che ambiscono a ricoprire l'incarico, faranno pervenire al
sindaco una comunicazione d'interesse alla copertura della sede allegando il
proprio curriculum vitae.
Una volta scaduto il termine di pubblicazione dell'avviso, il sindaco, con
proprio provvedimento, indicherà il segretario che intende nominare dandone
comunicazione all'ufficio (regionale o nazionale nel caso di nomina di
segretario di fascia A) per l'assegnazione. Spetterà all'ufficio che riceve
il provvedimento sindacale di individuazione, effettuare i controlli di
corrispondenza tra i requisiti richiesti e quelli posseduti dal segretario
individuato e, in caso di esito positivo, assegnare il segretario alla sede
comunale.
Dalla ricezione della comunicazione dell'assegnazione disposta dal
ministero, nell'arco temporale che inizia con il termine minimo di 60 giorni
e massimo di 120 dal suo insediamento, il sindaco dovrà adottare il
provvedimento conclusivo di nomina indicando il termine al nuovo segretario
per l'assunzione in servizio, dandone comunicazione all'Ufficio territoriale
del ministero e al segretario nominato per l'accettazione dell'incarico.
In
merito alla data indicata per l'assunzione in servizio, precisa la
Prefettura milanese, come questa potrà anche essere successiva alla scadenza
del termine massimo dei 120 giorni. Una volta individuato il segretario in
via definitiva, quest'ultimo dovrà comunicare la sua accettazione anche
indicando una data successiva di presa di servizio chiedendone eventualmente
la proroga. Infine, l'ultimo adempimento da parte del sindaco è quello di
comunicare agli uffici territoriali del ministero la data di effettiva presa
di servizio del segretario.
Ulteriori precisazioni
In ultimo la nota della Prefettura chiarisce alcuni aspetti della procedura
di nomina. In particolare nel caso di assenza del segretario titolare, ossia
in presenza del posto vacante, la procedura di nomina resta identica con la
sola eccezione del non necessario rispetto del termine minimo dei 60 giorni.
Inoltre, anche in caso di non conferma del segretario titolare, il sindaco
non potrà nominare un reggente ma sarà obbligato ad attendere la conclusione
della procedura
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendenti controllati e tutelati.
Impianti video-biometrici rispettando la proporzionalità. I limiti imposti
dalla normativa sulla privacy alla nuova legge contro i furbetti della p.a..
Controlli video-biometrici dei dipendenti pubblici con le dovute garanzie per chi non
è un furbetto.
La lotta senza quartiere agli assenteisti non deve fare vittime del fuoco
amico. E tutto ciò significa che il ddl contro l'assenteismo nelle pubbliche
amministrazioni (noto come «Interventi per la concretezza delle azioni delle
pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo», approvato
definitivamente dal senato il 12 giugno scorso) richiede, comunque, un
apparato di garanzie, da costruire con i provvedimenti attuativi e con gli
adempimenti a carico delle p.a. imposti dalla normativa sulla privacy (il
regolamento Ue 2016/679 o Gdpr e il codice della privacy).
Vediamo di illustrare tutti i passaggi.
Le amministrazioni interessate devono introdurre, nell'ambito delle risorse
umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e della
dotazione del fondo appositamente stanziato dalla legge in esame, sistemi di
verifica biometrica dell'identità e di videosorveglianza degli accessi, in
sostituzione dei diversi sistemi di rilevazione automatica, attualmente in
uso. La norma, da un punto di vista letterale, si riferisce
contemporaneamente sia ai sistemi di verifica biometrica sia agli impianti
di videosorveglianza. Peraltro questa prescrizione deve essere letta nel
contesto del rispetto del principio di proporzione. L'unica maniera per
introdurre una opzione tra la videosorveglianza e l'uso della biometria è
quella di sostenere che comunque prevale il principio di proporzionalità
(richiamato dalla stessa legge) e che, quindi, si deve ricorrere al doppio
sistema solo dove è effettivamente necessario.
Si ritiene che le compatibilità economiche (e quindi la ponderazione delle
spese a carico dell'erario: il fondo stanziato per il 2019 è di 35 milioni
di euro) sia un elemento da considerare e che porta a basare la possibilità
di una (pur antiletterale) considerazione disgiunta delle telecamere e dei
dispositivi di controllo dei dati biometrici.
L'installazione e l'uso degli impianti video-biometrici dovrà avvenire nel
rispetto dei princìpi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità sanciti
dall'articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento (Ue) 2016/679, e
del principio di proporzionalità previsto dall'articolo 52 della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea. Questa è la clausola di salvezza
che l'articolo 2 della legge in esame formula per allineare se stesso alla
prevalente normativa europea direttamente applicabile in Italia.
Il problema, qui, è che le norme del regolamento Ue sono state scritte per
indicare ai titolari di trattamento di effettuare analisi caso per caso,
sulla base delle quali capire se effettuare un certo trattamento e, in caso
positivo, come farlo.
Una delle parole chiave, a questo proposito, è «minimizzazione»: si deve
trattare solo ed esclusivamente il numero minimo dei dati necessari per
raggiungere le finalità. In teoria, allora, è incompatibile con
un'impostazione di questo tipo, caso per caso, come si è detto, una norma
che a tappeto prescrive un certo trattamento, senza considerazione dei
diversi contesti e del diverso grado di rischio.
Un altro ragionamento mette in rilievo che viene richiamata una norma di
principio (l'articolo 5), che ha generato all'interno del regolamento Ue
disposizioni di dettaglio. Allora ci si deve chiedere se devono essere
rispettate (perché il trattamento sia legittimo) anche queste norme di
dettaglio. Per esempio per i trattamenti a rischio elevato il regolamento Ue
prevede che il titolare del trattamento debba valutare se scrivere una
valutazione di impatto privacy (articolo 35) o se debba chiedere la
consultazione preventiva del Garante.
Sempre, per passare in rassegna alcuni adempimenti dettagliati, inquadrabili
nella cornice dei principi generali, l'articolo 36 del regolamento Ue dà
facoltà al legislatore nazionale di prevedere casi di trattamenti effettuati
nel pubblico interesse per i quali sia obbligatorio chiedere al Garante
della privacy un'autorizzazione preliminare: da questa disposizione si è
originato l'articolo 2-quinquiesdecies, del codice della privacy (dlgs
196/2003), ai sensi del quale il Garante prescrive misure e accorgimenti a
garanzia dell'interessato, che il titolare del trattamento è tenuto ad
adottare.
La risposta al quesito (se si devono rispettare le norme di dettaglio
scaturite dalle norme di principio del regolamento Ue) non può che essere
positiva, altrimenti avremmo una non consentita deroga al regolamento Ue
sulla protezione dei dati. Ma se è così, allora avrà decisiva importanza
capire che cosa devono fare ora le amministrazioni pubbliche.
Qui bisogna distinguere la videosorveglianza e i sistemi biometrici. Per i
sistemi biometrici l'articolo 2 della legge in esame sicuramente individua
quale atto di attuazione un decreto del presidente del consiglio dei
ministri, su proposta del ministro per la pubblica amministrazione, da
adottare, previa intesa in sede di Conferenza unificata stato-regioni, e
previo parere del Garante per la protezione dei dati personali.
Questo decreto del capo del governo deve dettagliare le modalità di
trattamento dei dati biometrici, nel rispetto dell'articolo 9 del
regolamento (Ue) 2016/679 e delle misure di garanzia definite dal predetto
Garante, ai sensi dell'articolo 2-septies del codice della privacy.
Quindi, per far partire il controllo biometrico dell'osservanza dell'orario
di lavoro, ci vuole un Dpcm e questo decreto deve rispettare l'articolo 9
del regolamento Ue e anche un provvedimento del Garante (misure di
garanzia).
Per rispettare l'articolo 9 del regolamento Ue occorre, in primo luogo, che
la legislazione nazionale specifichi «misure appropriate e specifiche» a
tutela dei diritti del singolo.
Sempre per rispettare l'articolo 9, ma stavolta il paragrafo 4, del
regolamento Ue occorre che il futuro Dpcm si uniformi alle misure di
garanzia che verranno adottate dal Garante (articolo 2-septies del Codice
della privacy).
In particolare, queste misure di garanzia individueranno le misure di
sicurezza, comprese quelle tecniche di cifratura e di pseudonomizzazione, le
misure di minimizzazione, le specifiche modalità per l'accesso selettivo ai
dati e per rendere le informazioni agli interessati, nonché le eventuali
altre misure necessarie a garantire i diritti degli interessati.
Quindi, per i dati biometrici, occorre attendere il provvedimento del
Garante sulle misure di garanzia e poi il Dpcm.
Non è, invece, chiarissima la lettera dell'articolo 2, comma 1, ultimo
periodo e, quindi, non è chiaro se ci voglia un decreto del presidente del
consiglio dei ministri anche con riferimento alla videosorveglianza: ma la
simmetria degli istituti fa propendere per la risposta affermativa.
Accantonando per un attimo la questione se l'intera legge sia compatibile
con il quadro europeo (nella parte in cui è direttamente applicabile in
Italia e prevalente sull'ordinamento interno), questione sollevata dal
Garante delle privacy, accantonando tutto ciò, va comunque rilevato che le
precauzioni delle disposizioni attuative dovranno essere in grado di elevare
uno scudo protettivo a favore di chi non è un «furbetto del cartellino».
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Il Garante: impronte solo quando servono.
I controlli sono eccessivi. Il doppio regime (registrazioni biometriche e
ripresa delle immagini) non rispetta il principio di proporzionalità. Lo ha
denunciato più volte il Garante della privacy, numeri alla mano. Agli atti è
la memoria del Garante presentata nel corso dei lavori parlamentari, in cui
si richiamano le statistiche sui procedimenti disciplinari: stando a queste
solo il 10% dei provvedimenti di licenziamento disciplinare adottati nel
2018 derivano da accertamento in flagranza di falsa attestazione della
presenza in servizio. Sono 89, metà dei quali definiti con altro tipo di
provvedimento, in alcuni casi anche per mutata contestazione.
Secondo il Garante queste cifre non giustificano le rilevazioni biometriche
in tutte le pubbliche amministrazioni.
Certo è doveroso battere l'assenteismo e la falsa attestazione della
presenza in servizio, ma il Garante si chiede se non sia altrettanto
doveroso fare prima ricorso a misure meno limitative e utilizzare i sistemi
di rilevazione biometrica, solo in presenza di fattori di rischio specifici.
Inoltre, secondo il Garante le misure attuative, di mitigazione dell'impatto
invasivo del doppio controllo, potrebbero non essere sufficienti. Anche in
caso di uso di tecnologie basate su applicazioni e software nella
disponibilità del dipendente, sarebbe comunque necessario individuare i
soggetti legittimati a trattare i dati rilevati e le puntuali condizioni di
utilizzo, nonché le garanzie idonee a evitare accessi abusivi o data breach.
Tutto ciò, conclude il Garante, dunque, è necessario, ma potrebbe non
bastare a sopperire al deficit di proporzionalità insito nella norma, che
introduce sistemi di verifica biometrica dell'identità e di
videosorveglianza degli accessi obbligatori a prescindere da qualsiasi
esigenza concreta e specifica.
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Verificabile l'osservanza degli orari di lavoro.
I trattamenti video-biometrici devono essere utilizzati per la verifica
dell'osservanza dell'orario di lavoro. La verifica dell'osservanza di
lavoro, peraltro, riguarda sia gli accessi all'inizio della giornata
lavorativa, sia le uscite e, quindi, la presenza fisica in servizio presso i
locali dove si deve svolgere la prestazione.
La finalità è limitata e ristretta. Sarà oggetto di discussione davanti a un
giudice se le riprese possano essere utilizzate per contestazioni
disciplinari diverse dall'inosservanza dell'orario di lavoro. Sono
interessati dalla nuova legge tutti i dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, eccetto il personale in regime di diritto pubblico e di lavoro
agile.
È escluso anche il personale docente ed educativo degli istituti e delle
scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative. I dirigenti dei
medesimi istituti, scuole e istituzioni sono soggetti ad accertamento
esclusivamente ai fini della verifica dell'accesso, secondo modalità che
saranno stabilite, con decreto del Ministro per la pubblica amministrazione.
Più in generale, tutti gli altri dirigenti delle amministrazioni pubbliche
sono inclusi nell'ambito di applicazione dei nuovi sistemi
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.06.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
controlli a prova di privacy. Verifica video-biometrica con valutazione
d’impatto. Gli scenari dopo l’approvazione della legge contro l’assenteismo
negli uffici pubblici.
Mole di adempimenti per far decollare il doppio
controllo video-biometrico sull'accesso al lavoro dei dipendenti pubblici.
Ci vuole, senz'altro, un decreto del presidente del consiglio dei ministri,
ma probabilmente ci vuole anche una valutazione di impatto privacy e, per i
dati biometrici ci vogliono le misure di garanzia, previste dall'articolo
2-septies codice della privacy.
Il contrasto dell'assenteismo dei dipendenti pubblici, divenuto legge a
seguito di approvazione da parte del senato il 12.06.2019, nel passare
dall'articolato generale e astratto alla esecuzione, deve fare i conti con
un quadro molto complesso (si veda ItaliaOggi di ieri). Tutto ciò per
impedire, anche, che l'impianto possa essere disapplicato da un giudice in
una singola causa per contrarietà con il regolamento Ue 2016/679 sulla
protezione dei dati.
Se la ratio della legge è, infatti, la lotta all'assenteismo, il
piano applicativo deve tenere conto di tutte le variabili ordinamentali. Le
misure approvate impongono l'installazione di sistemi di verifica biometrica
dell'identità e di videosorveglianza degli accessi per controllare
l'osservanza dell'orario di lavoro da parte dei dipendenti di tante (non
tutte) amministrazioni pubbliche. La norma pretende esplicitamente il
rispetto dei princìpi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità sanciti
dall'articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento Ue 2016/679 e del
principio di proporzionalità previsto dall'articolo 52 della Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea.
Il richiamo di tali disposizioni serve a precisare lo scopo della legge, che
non è e può essere la raccolta massiva dei dati dei dipendenti, ma, appunto,
la lotta a chi aggira i doveri di dipendente pubblico. La norma prosegue
rinviando le modalità attuative a un decreto del presidente del consiglio
dei ministri, previo parere del Garante privacy. In materia non bisogna
dimenticare, però, che il regolamento Ue, per i trattamenti a rischio
elevato, prescrive di redigere una valutazione di impatto privacy e che
l'articolo 2-quinquiesdecies del Codice della privacy, sempre per i medesimi
trattamenti connotati dal livello elevato di rischio, prevede, poi, che il
Garante adotti provvedimenti di carattere generale, contenenti misure e
accorgimenti.
Per i dati biometrici, inoltre, sulla scia dell'articolo 9, paragrafo 4, del
Regolamento Ue, l'articolo 2-septies del Codice della privacy prevede
l'adozione, da parte del Garante, di misure di garanzia, in particolare
quando i dati biometrici sono utilizzati per l'accesso fisico da parte dei
soggetti autorizzati al trattamento (tra cui i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni). Tali passaggi sono da valutare attentamente per
scongiurare il rischio di disapplicazione delle norme per contrasto con il
regolamento Ue 2016/679 (e questo potrebbe farlo anche un singolo giudice).
A questo proposito il Garante ha sottolineato che l'obbligatorio impiego
contestuale di due sistemi di verifica del rispetto dell'orario di lavoro
(raccolta di dati biometrici e videosorveglianza) rischia di eccedere i
limiti imposti dalla stretta necessità del trattamento. Inoltre, il Garante
ha giudicato sproporzionata l'introduzione sistematica, generalizzata e
indifferenziata per le p.a. di sistemi di rilevazione delle presenze tramite
identificazione biometrica, che, però, possono essere utilizzati, però, in
presenza di fattori di rischio specifici, qualora soluzioni meno invasive
debbano ragionevolmente ritenersi inidonee allo scopo.
A questo punto tocca a chi scriverà le prescrizioni attuative della legge
far collimare lo scopo della norma con un quadro di garanzie, le quali non
devono essere il nascondiglio per il trasgressore, ma l'àncora per chi
adempie ai propri doveri contrattuali. Bisognerà dimostrare, per fare un
esempio, che il principio di proporzionalità della ripresa di immagini e
impronte, riaffermato nella legge, venga, caso per caso, soddisfatto con
riferimento a diversi contesti geografici e di settore di attività
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bastone
e carota nella p.a.. Impronte digitali contro i furbetti. Assunzioni più
facili. Approvato il ddl concretezza. Bongiorno:
ricambio generazionale grazie al turnover.
Stretta sui furbetti del cartellino che verranno stanati
grazie alle impronte digitali (controlli biometrici). Ricambio generazionale
nella p.a. grazie al turnover al 100% e ad assunzioni mirate in settori
strategici (digitalizzazione, fondi strutturali, semplificazioni, contratti,
gestione finanziaria). Concorsi pubblici più veloci, visto che le procedure
potranno essere avviate anche senza preventiva autorizzazione, nel limite
massimo dell'80% delle facoltà di assunzione maturate (cosiddetta Scia delle
assunzioni). Mobilità verso il settore privato estesa a tutti i dipendenti
pubblici (e non più limitata ai soli dirigenti). E una task force
ministeriale (il cosiddetto «Nucleo per la concretezza») che andrà in loco
negli enti in difficoltà per accompagnarli nell'attuazione delle riforme e
nel miglioramento dei servizi.
Sono le novità principali introdotte
dal ddl concretezza (Atto
Senato n. 920-B) approvato ieri in via definitiva (con 135 sì,
104 no e 3 astenuti) dal senato che in terza lettura ha dato il via libera
al testo già modificato dalla camera dei deputati ad aprile (si veda
ItaliaOggi dell'11 aprile).
Il disegno di legge del ministro per la pubblica amministrazione Giulia
Bongiorno conferma la disciplina più stringente per il controllo delle
presenze nei luoghi di lavoro attraverso le rilevazioni biometriche
(impronte digitali) dei dipendenti e l'utilizzo di nuovi sistemi di
videosorveglianza. Saranno esclusi dal controllo (ed è la grande novità
introdotta nel passaggio a Montecitorio) i docenti e il personale educativo
della scuola, mentre per i dirigenti scolastici resta la verifica della
presenza negli istituti, secondo modalità che verranno stabilite da un
decreto ad hoc della Funzione pubblica di concerto con il Miur.
«Con l'approvazione in via definitiva del ddl concretezza, la p.a. avrà
nuovi e preziosi strumenti per garantire i migliori servizi per cittadini e
imprese. Ogni articolo reca un cambiamento profondo», ha osservato
Bongiorno. «Con i controlli biometrici diciamo finalmente addio ai
furbetti del cartellino, che truffano i colleghi e lo Stato. La
videosorveglianza e la rilevazione delle impronte digitali contro le false
attestazioni della presenza in ufficio rappresentano una misura davvero
rivoluzionaria. Ci saranno poi assunzioni e reclutamento mirato per dare
linfa a tutte le amministrazioni».
Turnover al 100%, assunzioni più facili e in settori mirati. In materia di
assunzioni si prevede che le amministrazioni dello stato (anche ad
ordinamento autonomo), le agenzie e gli enti pubblici non economici possano
procedere, a decorrere dal 2019, a immissioni in ruolo a tempo indeterminato
nel limite di un contingente di personale corrispondente a una spesa pari al
100% di quella relativa alle cessazioni dell'anno precedente.
Le amministrazioni dovranno predisporre piani triennali di fabbisogno di
personale, tenendo conto dell'esigenza di ricambio generazione, e potranno
essere autorizzate all'avvio dei concorsi e relative assunzioni nel triennio
2019-2021. In via prioritaria dovranno essere reclutate figure professionali
con «elevate competenze» in materia di: digitalizzazione,
razionalizzazione e semplificazione dei processi e dei procedimenti
amministrativi, qualità dei servizi pubblici, gestione dei fondi
strutturali, contrattualistica pubblica, controllo di gestione, contabilità
e gestione finanziaria.
Assumere i vincitori di concorso o procedere allo scorrimento delle
graduatorie, così come avviare nuove procedure concorsuali, sarà più facile,
visto che le procedure potranno essere avviate anche senza preventiva
autorizzazione nel limite massimo dell'80% delle facoltà di assunzione
maturate. Tutti gli statali potranno chiedere di essere collocati in
aspettativa senza stipendio per maturare esperienze lavorative in organismi
pubblici o privati. Se la mobilità è verso il privato, l'aspettativa sarà al
massimo di cinque anni e potrà essere rinnovata una volta. Per chi invece
vorrà avviare attività professionali e imprenditoriali, l'aspettativa durerà
12 mesi e sarà anch'essa rinnovabile una volta sola.
«Investiremo nell'asset più importante: i lavoratori. Daremo una chance a
quei giovani eccellenti che oggi fuggono all'estero e assumeremo in via
preferenziale profili tecnico-manageriali, di cui la p.a. è oggi priva»,
ha commentato il sottosegretario alla p.a. Mattia Fantinati (articolo ItaliaOggi del 13.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: La
Scia solo se si paga l’Imu. Comuni potranno condizionare il rilascio delle
licenze. Novità in un emendamento approvato al decreto crescita in
commissione VI della camera.
Fedeltà fiscale per avere una Scia, segnalazione
certificata di inizio attività.
Gli enti locali prima di rilasciare licenze, concessioni o relativi rinnovi
per attività commerciali o produttive possono disporre, con un regolamento
che questo rilascio o rinnovo sia dato a condizione che sia verificata la
regolarità del pagamento dei tributi locali.
La novità è contenuta in un
emendamento al decreto crescita (Atto
Camera n. 1807), approvato in commissione finanze della Camera il
10 giugno scorso. Ieri i lavori della commissione finanze, sul
provvedimento, si sono fermati per riprendere e concludersi oggi con
l'approvazione degli emendamenti dei relatori e il deposito di un ultimo
emendamento, sempre a firma dei relatori, sulle casse di previdenza e
l'inserimento nell'Inpgi, istituto di previdenza dei giornalisti dei
comunicatori.
Oltre la disposizione sul rilascio dei nulla osta all'apertura dei negozi,
condizionato al corretto versamento delle imposte locali, dunque, è stata
approvata la conferma delle agevolazioni Imu per le società agricole.
Lo scopo della norma interpretativa è conseguente al mancato riconoscimento
della agevolazione in materia di Imu.
Novità anche per le società di investimento semplice (Sis), introdotte nel
decreto crescita. In una delle modifiche proposte si apre alla possibilità
di investimento in tale veicolo anche agli investitori non professionali.
Per la relazione di accompagnamento all'emendamento si introdurrebbe
un'ulteriore semplificazione.
In tal senso, la semplificazione permetterebbe l'afflusso di ulteriori
capitali verso questo nuovo tipo di veicolo e, di conseguenza, verso
l'ecosistema italiano di startup e Pmi innovative.
Via libera, poi, a un emendamento che proroga al 30.06.2020 i termini per
l'adeguamento degli statuti delle bande musicali alle disposizioni del
Codice del Terzo settore.
Infine a firma del vice presidente della commissione finanze della camera
Alberto Gusmeroli arrivano agevolazioni per l'apertura di nuovi negozi in
comuni con abitanti al di sotto dei ventimila abitanti. Zero tasse locali al
rispetto di determinate condizioni. In particolare le agevolazioni
consistono nell'erogazione di contributi per l'anno nel quale avviene
l'apertura o l'ampliamento degli esercizi e per i tre anni successivi. La
misura del contributo è rapportata alla somma dei tributi comunali dovuti
dall'esercente e regolarmente pagati nell'anno precedente a quello nel quale
è presentata la richiesta di concessione, fino al 100% dell'importo.
Per il comodato d'uso arriva una semplificazione: va in soffitta la
dichiarazione con cui si attestano i requisiti per gli immobili concessi in
comodato d'uso. Il soggetto passivo è, dunque, esonerato dall'attestazione
del possesso del requisito mediante il modello di dichiarazione, nonché da
qualsiasi altro onere di dichiarazione o comunicazione.
Infine novità per gli enti locali, le cui deliberazioni tariffarie dal 2020
dovranno essere comunicate al Dipartimento delle finanze, esclusivamente per
via telematica, mediante inserimento del testo delle stesse nell'apposita
sezione del portale del federalismo fiscale (articolo ItaliaOggi del 13.06.2019). |
PATRIMONIO:
Slitta l'adeguamento antincendio.
Nuovo stop all'emendamento sull'adeguamento degli
edifici scolastici alla normativa antincendio. Il correttivo non è stato
recepito nel decreto sblocca cantieri, ufficialmente per un ritardo nella
relazione tecnica.
Non è la prima volta che tutto si conclude in un nulla di fatto. Già con il
decreto semplificazioni si era tentato di introdurre un correttivo per
consentire un atterraggio morbido per i molti edifici che oggi non hanno un
certificato di prevenzione incendi in regola. In quella sede, era stata
presentata una proposta per consentire di definire un piano triennale di
interventi per il periodo 2019-2021 nell'ambito della programmazione
triennale nazionale in materia di edilizia scolastica, sancendo, nell'attesa
che il piano venisse definito, l'adeguamento una proroga al 31.12.2021 per
le scuole e al 31.12.2019 per gli asili nido.
Anche stavolta, come allora, la strada è stata sbarrata, apparentemente per
ragioni puramente tecniche. Ora la materia dovrebbe essere regolata da un
disegno di legge, il cui primo firmatario, Stefano Patuanelli (M5S),
garantisce conterrà «un corposo piano triennale per fare sì che si
possano realizzare i dovuti adeguamenti in tutti i plessi scolastici dello
Stivale predisponendo naturalmente le risorse necessarie».
È auspicabile che tale provvedimento veda la luce al più presto e comunque
in tempo utile per consentire le aperture delle scuole per il prossimo anno
scolastico, visto che attualmente i termini per l'adeguamento sono già
scaduti il 31.12.2018. A regime, tutte le scuole dovranno essere dotate del
Cpi (che dal 2011 è diventato Segnalazione certificata inizio attività -
Scia antincendio) e dovranno rispettare le disposizioni delle «Norme di
prevenzione incendi per l'edilizia scolastica» (Dm 26.08.1992) o, in
alternativa, delle «Norme tecniche di prevenzione incendi per le attività
scolastiche» (Dm 07.08.2017). Per gli asili nido, valgono i requisiti
previsti dall'articolo 6, comma 1, lettera a), del dm 16.07.2014
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2019). |
VARI: Sì
al licenziamento su Whatsapp. Basta rispettare la forma scritta. Non
prevista la notifica. Il caso Mercatone Uno in giurisprudenza: mail e sms
come il vecchio telegramma per telefono.
Ebbene sì: è possibile essere licenziati via
Whatsapp, anche se non è affatto bello apprendere dalla chat di aver perso
il posto. A riaprire la questione sulle modalità del recesso aziendale è il
caso Mercatone Uno: 1.800 lavoratori vengono mandati a casa con una semplice
notifica push sullo smartphone nella notte tra il 24 e il 25 maggio. Ma il
punto è proprio che la legge non impone alle aziende una vera propria
notifica del provvedimento, mentre ritiene sufficiente la «comunicazione», a
patto che avvenga per iscritto: conta insomma la volontà del datore, non il
supporto utilizzato.
È
quanto emerge dalla giurisprudenza in materia, finora solo di merito: sul
punto non risulta ancora intervenuta la Cassazione, che comunque ha dato via
libera al benservito via mail e sms.
Volontà inequivoca.
È vero: la forma scritta del licenziamento viene richiesta a pena
d'inefficacia del provvedimento. Ma l'azienda deve ritenersi libera di
utilizzare la chat verde o l'ormai superato short message service per
annunciare la riduzione di personale perché la legge non prevede formule
sacramentali, vale a dire non impone precise modalità per la comunicazione.
È quanto emerge dalla sentenza n. 3012/2018, pubblicata dalla Sez. lavoro del
Tribunale di Roma.
Bocciata la domanda d'inefficacia del provvedimento espulsivo. La
comunicazione di recesso effettuata via sms o whatsapp dal datore soddisfa
la forma scritta in quanto assimilabile al vecchio telegramma telefonico. Ed
è la giurisprudenza di legittimità a stabilire che la forma scritta per il
licenziamento ben possa essere integrata da un telegramma in presenza di
sottoscrizione da parte del mittente dell'originale consegnato all'ufficio
postale oppure della consegna da parte del mittente (articolo 2705 cc).
Idem
vale per la chat verde: il benservito via Whatsapp risulta legittimo in
quanto la volontà di recesso risulta comunicata per iscritto al dipendente
in maniera inequivoca. E lo dimostra il fatto che il provvedimento espulsivo
viene impugnato, segno che il lavoratore imputa con certezza al datore la
provenienza del documento informatico.
Dominio e controllo.
Spesso è proprio la reazione del licenziato a risultare dirimente. In
generale i negozi giuridici sono a forma libera: non conta dunque il
supporto cui l'azienda affida «la comunicazione» al dipendente in cui
annuncia il taglio del posto. D'altronde la dichiarazione recettizia si
presume conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario.
E per stabilire se esiste un titolo in base al quale il rapporto è cessato
il giudice può utilizzare tutto il materiale probatorio agli atti,
indipendentemente dalla provenienza: si può allora escludere la sussistenza
del licenziamento orale a partire dagli stessi documenti prodotti dal
lavoratore.
È quanto emerge dalla sentenza 23.04.2018 dalla Sez. lavoro della Corte di
appello di Roma.
Rigettato il reclamo della lavoratrice, confermato il no a reintegra e
risarcimento proprio perché manca la prova del licenziamento verbale. È la
stessa dipendente a produrre in giudizio la stampata della chat su whatsapp.
Dalla conversazione online emerge che il datore mittente esprime la volontà
di non ricevere la prestazione lavorativa («ci riserviamo noi di
contattarti»).
Ed è sempre la lavoratrice ad ammettere che il messaggio
proviene dal socio amministratore della snc. Per il resto si rimanda a
pregressi colloqui, che riguardano questioni personali e non lavorative. Il
tutto va interpretato in senso complessivo e secondo buona fede: non emerge
l'allontanamento orale della lavoratrice, peraltro non riscontrata dalla
prova testimoniale in primo grado. E manca una censura ad hoc contro la
statuizione del tribunale.
Il giudice è chiamato ad accertare se l'oggettiva stasi del rapporto deriva
da una causa che risulta idonea a scioglierlo, ma a negare l'esistenza del
presunto licenziamento orale è la stessa prospettazione dei fatti di causa
operata dalla lavoratrice. Il recesso via whatsapp deve ritenersi efficace
perché rispetta la forma di legge: l'articolo 2 della legge 604/1966, infatti,
non usa il termine «notificazione», più tecnico rispetto a «comunicazione»,
come modalità procedimentalizzata di trasmissione dell'atto; basta insomma
che il destinatario sia informato dell'atto e l'applicazione di
messaggistica può essere considerata un luogo che risulta in concreto nella
sfera di dominio e controllo del lavoratore, che può conoscerne il
contenuto.
Ricorso inammissibile.
È così ad esempio che decade dall'impugnativa il dipendente licenziato su
whatsapp perché spira il termine introdotto dal collegato lavoro: valido il
provvedimento in quanto è chiara la volontà del datore e inammissibile
risulta il ricorso proposto a più di sessanta giorni dal mancato accordo di
conciliazione.
È quanto emerge dall'ordinanza 27.06.2017 pubblicata dalla sezione lavoro
del tribunale di Catania.
Il lavoratore destinatario imputa sicuramente al datore il documento
informatico, tanto da adottare una tempestiva reazione. Ma se il tentativo
di conciliazione è proposto rispettando i tempi, non può dirsi altrettanto
per il deposito del ricorso: risulta infatti inutilmente scaduto il termine
previsto dall'articolo 6, secondo comma, della legge 604/1966, come modificato
dall'articolo 32 della legge 183/2010. Inutile poi sostenere che il
provvedimento sia stato sottoscritto da un soggetto terzo come il direttore
tecnico: la società ha confermato l'intenzione di mettere fine al rapporto.
Garanzia ridotta.
Il dipendente, poi, deve stare attento a come a sua volta annuncia il
licenziamento. E ciò perché il requisito della comunicazione per iscritto
del provvedimento espulsivo deve ritenersi assolto con qualunque modalità
che comporta la trasmissione all'interessato del documento nella sua
materialità. È evidente che il lavoratore ha ricevuto la notizia se a sua
volta manda mail ai colleghi in cui li informa che il suo rapporto con
l'azienda è cessato.
A stabilirlo è stavolta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 29753/2017.
Deve rassegnarsi il lavoratore licenziato via mail per mancato superamento
della prova. Nel periodo di «sperimentazione», peraltro, in base alla legge
il datore non è tenuto a comunicare per iscritto il provvedimento espulsivo
a meno che non siano già decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto. E la
norma di cui all'articolo 10 della legge 604/1966 è stata ritenuta legittima
dalla Corte costituzionale, mentre la garanzia generale di cui al brocardo
scripta manent si applica soltanto quando l'assunzione diventa
definitiva.
Nella specie, tuttavia, il contratto di assunzione prevede che
il licenziamento durante la prova debba avvenire con «comunicazione
scritta». E la posta elettronica mandata dall'azienda soddisfa i requisiti
indicati dello strumento negoziale, mentre il datore dimostra che
l'interessato ha ricevuto la comunicazione producendo i messaggi di posta
elettronica che il lavoratore ha mandato per informare i colleghi.
Le mail
«incriminate» risultano disconosciute troppo tardi dal lavoratore, dopo la
celebrazione di due udienze. Resta confermata, dunque, la decisione secondo
cui il licenziamento è comunicato oltre che intimato prima della scadenza
della prova. L'azienda provvede anche per raccomandata: anche a ritenere
avvenuta la comunicazione del provvedimento soltanto alla data di recapito,
nel periodo fra la scadenza della prova alla consegna il lavoratore non
svolge alcuna attività e, quindi, non supera il periodo di sperimentazione.
Ricezione negata.
Attenzione, però: è nullo il licenziamento via Pec quando il datore manca di
depositare la ricevuta di consegna. Il punto è che l'azienda riesce a
dimostrare soltanto che ha inviato l'e-mail e, in via presuntiva, che in
allegato vi fosse la lettera scannerizzata che annuncia il recesso: così non
opera la presunzione di ricezione ex articolo 1335 cc e scatta invece la
reintegra del dipendente perché si ricade nella fattispecie del
licenziamento orale ex articolo 18, primo comma, dello statuto di lavoratori.
È quanto emerge dall'ordinanza 25.09.2018 pubblicata dalla Sez. lavoro del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
La società viene condannata a versare al lavoratore un'indennità di
risarcimento pari all'ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento
fino alla riammissione in servizio, al netto di quello che ha percepito
presso il successivo datore. Il punto della questione non è il valore
probatorio del messaggio Pec prodotto dal datore.
Nella specie il datore
dimostra solo di aver spedito una mail in risposta alla richiesta di ferie
del dipendente: dai documenti prodotti in giudizio si evince che c'è un
allegato in formato «p7s». L'interessato riconosce come proprio l'account di
posta elettronica, non certificato, cui l'azienda deduce di aver inviato la
mail, ma nega recisamente di aver ricevuto il messaggio. È vero, il
licenziamento come atto unilaterale recettizio si dà per noto
all'interessato quando la comunicazione entra nella sfera di conoscenza del
destinatario.
Ma la presunzione di cui all'articolo 1335 Cc non opera quando
il datore dimostra il solo invio e non anche la ricezione della posta
elettronica. Il datore, fra l'altro, neppure deposita la copia scansionata
della lettera di recesso che sarebbe stata allegata alla Pec. Non gli resta
che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 10.06.2019). |
ENTI LOCALI: Sale
da gioco a distanza dai luoghi vulnerabili. Tar Toscana: distanziometro da
ospedali, giardini, stazioni.
Le sale da gioco sono tenute a rispettare le
distanze minime dai luoghi sensibili, ma anche chi gestisce spazi
potenzialmente «vulnerabili» è obbligato a verificare lo stesso requisito.
Dal Tar Toscana, riporta Agipronews, arriva un punto di vista inedito
sull'annosa questione del «distanziometro» prevista dalla legge
regionale contro la ludopatia e i suoi sviluppi a livello locale.
In questo
caso si parte dal regolamento sui giochi approvato dal consiglio dell'Unione Valdera (un'unione di comuni della Toscana, in provincia di Pisa) a novembre
2018: il testo prevede almeno 500 metri di distanza tra sale da gioco e
luoghi sensibili, come la legge regionale, ma rispetto a questa la lista di
spazi «off limits» si è ulteriormente arricchita, includendo
sportelli postali, biblioteche, musei, giardini pubblici, stazioni
ferroviarie, terminal di autobus, ospedali, ambulatori medici e discoteche.
Il caso in questione riguarda proprio un «locale di pubblico spettacolo»:
l'autorizzazione per l'apertura di una nuova discoteca a Casciana Terme Lari
è stata negata dall'Unione Valdera per l'eccessiva vicinanza a una sala
giochi già esistente. Una decisione legittima secondo il Tar: «Il
regolamento per l'esercizio del gioco lecito -si legge nella sentenza- è
volto alla tutela della salute delle fasce deboli, la quale verrebbe lesa
dalla prossimità delle sale gioco rispetto ai luoghi maggiormente
frequentati da soggetti potenzialmente al rischio di dipendenza dal gioco
d'azzardo».
Di conseguenza, «per non eludere la finalità della disciplina, il
rispetto della distanza minima tra i predetti luoghi deve essere reciproco,
e quindi dovuto anche da parte di una nuova attività, aggregativa di
soggetti potenzialmente vulnerabili, che pretenda d'insediarsi all'interno
della fascia di rispetto».
Secondo il Tar, insomma, l'amministrazione non può imporre al gestore della
sala giochi, già titolare di un'autorizzazione, «di spostare la propria
attività per consentire l'insediamento della discoteca». Nel caso
contrario verrebbe «irragionevolmente pregiudicato» il diritto del
gestore «di svolgere liberamente la propria attività imprenditoriale già in
precedenza assentita, oltre che disconosciuti i principi di certezza del
diritto e di affidamento nella stabilità delle situazioni giuridiche».
I giudici, infine, confermano l'inclusione delle discoteche nell'elenco dei
luoghi sensibili: «È evidente che queste costituiscono un luogo di
aggregazione dei giovani, i quali peraltro vi consumano anche bevande
alcoliche, essendo poi note le correlazioni tra l'assunzione di alcol e il
minor controllo degli impulsi e quindi il maggior rischio di dipendenza dal
gioco d'azzardo»
(articolo ItaliaOggi del 06.06.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
comunali verso l’abolizione tacita del ruolo. È
L’EFFETTO COMBINATO DELL’ATTO DI INDIRIZZO ALL’ARAN E DEL DECRETO CRESCITA.
Segretari
comunali nella strettoia dello spoils system e di un'abolizione tacita del
ruolo.
La combinazione tra l'atto di indirizzo rivolto dal Comitato di
settore all'Aran e degli emendamenti al «decreto Crescita» aprono le porte
ad un'espansione senza più limiti dello spoils system già pesantissimo, ma
contestualmente apre surrettiziamente le porte all'abolizione della figura,
tentata la scorsa legislatura con la riforma della dirigenza targata Madia,
non andata mai in porto.
Revoca
L'atto di indirizzo, come evidenzia il Dipartimento segretari comunali del
sindacato Fedir, oltre a ingerirsi in violazione della legge sul tema delle
competenze dirigenziali assegnando al contratto l'inesistente ruolo di fonte
di disciplina di poteri di revoca, contiene un altro grave vulnus normativo
con riferimento alla revoca dei segretari comunali.
L'atto di indirizzo all'Aran dispone che «la disciplina contrattuale in
materia di revoca del segretario deve essere coordinata con la disciplina
contenuta nell'art. 100 del dlgs n. 267/2000». Tale ultima disposizione
stabilisce che «il segretario può essere revocato con provvedimento motivato
del sindaco o del presidente della provincia, previa deliberazione della
giunta, per violazione dei doveri d'ufficio».
Tuttavia, la contrattazione collettiva certamente non ha alcuna legittima
competenza ad intervenire sul tema della revoca. Come evidenzia il
Dipartimento segretari della Fedir, l'atto di indirizzo in questo modo «crea
un'indebita interferenza con l'inderogabile disciplina di legge fissata
nell'art. 40 del Testo unico sul pubblico impiego», norma che sottrae
totalmente alla competenza contrattuale «la materia del conferimento e della
revoca degli incarichi dirigenziali». L'atto di indirizzo, da questo punto
di vista, è affetto da un'illegittimità davvero plateale ed è parecchio
strano che il dipartimento della Funzione Pubblica lo abbia fatto passare
senza i doverosi rilievi.
L'intento di rafforzare lo spoils system, rendendo più facile la revoca,
espressamente enunciato dall'atto di indirizzo, risulta evidentissimo.
Vicesegretari al posto dei segretari
L'attacco alla categoria dei segretario comunali, che significa lesione a
una funzione di garanzia di legittimità dell'operato degli enti locali, è
completato dall'emendamento presentato alla legge di conversione del dl
34/2019 il cui scopo è rimediare all'ormai cronica e gravissima carenza di
segretari (cui consegue la scopertura di tre quarti quasi delle sedi di
segreteria di quarta e terza classe), dovuta allo stallo ormai decennale dei
concorsi.
L'emendamento, nelle more dell'immissione nell'albo dei segretari di
ulteriori vincitori del concorso pubblico consente nelle regioni ove la
carenza di segretari sia particolarmente elevata di attribuire le funzioni
del segretario comunale nei comuni di classe IV e III la cui sede è vacante
ai vicesegretari e di convenzionare le sedi di segreteria affidate ai
vicesegretari.
Si tratta di un passaggio definitivo verso l'apertura dell'albo e
l'eliminazione della figura dei segretari comunali. L'emendamento, infatti,
consente di rendere stabile la copertura delle sedi di segreteria ai
vicesegretari, funzionari che spessissimo non hanno sostenuto le complesse e
lunghe procedure selettive e formative dei segretari comunali e che, ancora
più sovente, sono scelti per via fiduciaria, in totale contrasto con le
regole generali di autonomia dello staff amministrativo e della normativa
anticorruzione.
Non sfugge certamente che l'emendamento consente ai sindaci l'opportunità di
scegliersi il controllore di fiducia: infatti, sarà facilissimo per i
reclutare i vice segretari mediante l'articolo 110, comma 1, del dlgs
267/2000 e crearsi un controllore a misura del controllato.
Inoltre, considerando che i tempi e soprattutto la quantità di segretari
reclutati tramite concorsi sono del tutto incompatibili con le esigenze dei
comuni, è molto facile aspettarsi la stabilizzazione della copertura delle
sedi di segreteria con funzionari di fiducia, esattamente come nel disegno
della riforma Madia, rendendo a quel punto del tutto destinata a progressivo
esaurimento la categoria dei segretari: le stabilizzazioni favoriranno
senz'altro anche la progressiva copertura con funzionari non segretari
comunali delle sedi di classe prima e seconda (articolo ItaliaOggi del 04.06.2019). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Incentivi
tecnici, regolamenti da rifare.
Con l'abrogazione dal decreto sblocca-cantieri della
norma che assegnava ai tecnici dipendenti pubblici gli incentivi alla
progettazione, ingegneri e architetti liberi professionisti vincono
l'ennesimo scontro. E aprono un altro giro di danza su uno dei compensi più
travagliati della storia recente.
Con il codice degli appalti del 2016, i vecchi compensi Merloni spariscono a
favore dei lavoratori a cui sono assegnate funzioni di programmazione e di
controllo della spesa per opere, servizi e forniture.
La reazione dei progettisti interni alla Pa non si è fatta attendere. Dopo
molti tentativi l' affondo è riuscito con il Dl 32/2013, che all'articolo 1,
comma 1, lettera aa), al Codice degli appalti, fra le attività incentivate,
sono state sostituite le fasi di programmazione e controllo con la
progettazione e altre attività connesse. La modifica, per espressa
previsione del comma 3, si applica alle gare i cui bandi o avvisi siano
pubblicati dopo l'entrata in vigore del decreto (19.04.2019). In assenza di
bandi o avvisi, si applica alle procedure per le quali alla stessa data non
sono ancora stati spediti gli inviti a presentare le offerte. In sede di
conversione del decreto sblocca cantieri, questa modifica viene cancellata.
Fin qui la storia. Ma cosa succede ora? Una norma contenuta in un decreto
legge, non confermata in sede di conversione, perde efficacia sin dall'
inizio. A meno che, nella stessa legge di conversione, siano fatti salvi i
provvedimenti assunti nel periodo di validità del decreto, così come,
solitamente dispone il legislatore con una clausola di stile. Un ginepraio.
Siccome il nuovo emendamento si limita a cancellare la previsione, se la
legge di conversione nulla disponesse sugli effetti del decreto, i
progettisti interni non potrebbero recriminare alcun compenso anche sulle
procedure interessate dalla novità temporanea del decreto sblocca-cantieri.
È peraltro piuttosto improbabile che in questi 60 giorni i tecnici interni
possano aver svolto attività incentivate in relazione a gare pubblicate in
quell'arco temporale. Se, al contrario, gli effetti del Dl 32/2019 fossero
conservati, si porrebbe il problema della remunerazione dei progettisti
pubblici per la loro attività collegata alle opere bandite durante la
vigenza dell'incentivo loro destinato. Attività queste che potrebbero
protrarsi anche per lungo tempo in quanto l'elemento discriminante è
rappresentato proprio dalla data di pubblicazione dell'avviso.
Questa situazione crea non pochi problemi in quanto, prima di poter
corrispondere l'incentivo, l'ente dovrà percorrere un lungo e articolato
iter per l'approvazione di un regolamento che disponga in ordine ai criteri
e alle modalità di riconoscimento dei premi. A monte del regolamento è
necessario aprire una sessione di contrattazione decentrata, con le
conseguenti relazioni tecniche e il necessario parere del revisore, fino ad
arrivare all'approvazione della Giunta.
Gli enti che, sulla base della vecchia normativa, non avessero ancora
percorso l'iter descritto, potrebbero cogliere l'occasione per disciplinare
tutta la materia in un solo provvedimento. In ogni caso, è opportuno che
l'amministrazione inserisca una disposizione volta a collocare in un tempo
ben definito gli eventuali effetti del testo originario del decreto sblocca
cantieri
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Violazioni
privacy, scelta a tre: difesa, conciliazione, entrambe.
Le valutazioni per gestire le contestazioni, dopo la fase di
prima applicazione del Gdpr.
Titolari
dei trattamenti ormai di fronte alle contestazioni privacy: difendersi,
conciliare o tutte e due.
Terminato, il 19.05.2019, il periodo di prima applicazione del Regolamento
Ue 2016/679 (Gdpr) è necessario studiare come gestire un procedimento in cui
si imputa di avere violato la privacy.
A fronte della contestazione di una
violazione di una norma del Gdpr o del codice della privacy ci sono sia
opportunità difensive sia opportunità conciliative. Con le prime, il
titolare del trattamento (impresa, professionista, pubblica amministrazione)
cerca di ribaltare l'incolpazione e di far emergere che non c'è nessuna
violazione sanzionabile. Con le opportunità conciliative, invece, i titolari
del trattamento cercano di ridurre al minimo le conseguenze negative a loro
carico, che non sono solo quelle di pagare somme a titolo di sanzione
pecuniaria. Di pari se non superiore rilievo potrebbe, infatti, essere un
provvedimento che implichi la cessazione di un'attività.
Le opportunità difensive e quelle conciliative sono descritte analiticamente
nel regolamento n. 1/2019 del Garante della protezione dei dati personali
(deliberazione n. 98 del 04.04.2019, concernente le procedure interne
aventi rilevanza esterna, finalizzate allo svolgimento dei compiti e
all'esercizio dei poteri demandati al Garante della privacy, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 106 dell'08.05.2019).
Passiamo, dunque, in rassegna gli istituti disciplinati dal regolamento.
Difesa/fase preliminare. L'interessato (soggetto cui si riferiscono i dati)
può andare dal Garante senza necessariamente rivolgersi preventivamente
all'impresa/professionista/p.a., che tratta i dati. Può, quindi, essere che
arrivi una corrispondenza da parte del Garante senza nessun avviso formale
da parte dell'interessato. Questo aspetto non va preso sottogamba: una volta
che il Garante è informato ufficialmente con un reclamo, abbiamo un treno in
corsa. Ed è un treno che può portare a sanzioni o a provvedimenti inibitori.
Le politiche (a monte) di gestione della clientela e dell'utenza è bene che
tengano conto anche di questa eventualità (a valle): trovarsi subito di
fronte al Garante.
Sta di fatto che il Garante, una volta arrivato il reclamo, deve aprire
un'istruttoria preliminare e, solo se necessario a un primo vaglio del
reclamo, coinvolgerà l'impresa/professionista/p.a.
In effetti l'articolo 10 del regolamento 1/2019 del Garante prevede che gli
uffici dell'Authority possono «curare l'acquisizione di precisazioni e
informazioni in ordine ai fatti e alle circostanze cui si riferisce il
reclamo, anche sentendo personalmente o a mezzo di procuratore il titolare o
il responsabile del trattamento, mediante richiesta di informazioni o di
esibizione di documenti oppure mediante acquisizione di informazioni, copie
di banche dati e archivi informatici.
Questo è un momento in cui si possono cominciare a svolgere le proprie
difese e non bisogna commettere errori. Per esempio non bisogna strafare
fornendo, per ingenuità o per strategia, documentazione inutilmente
sovrabbondante, inconferente o ingiustificatamente dilatoria: questo
atteggiamento potrà essere valutato negativo rispetto al dovere di
cooperazione con il Garante.
Bisogna, in ogni caso, contestualizzare la fase del procedimento: siamo
nell'istruttoria preliminare e gli uffici del Garante vogliono capire se c'è
materia per fare un'istruttoria approfondita da portare, magari,
all'attenzione del collegio del Garante (organo decisionale più elevato).
Pertanto all'impresa/professionista/p.a. non si formula ancora una
contestazione e non ci sarebbe bisogno, tecnicamente parlando di difendersi.
Non si può dimenticare che una buona strategia difensiva, in questo
procedimento amministrativo, comincia in questa fase.
Quindi non è richiesta, ma non è male consegnare documenti e informazioni
con una annotazione di breve presentazione in cui si illustra il flusso del
trattamento e/o si spiega come sono andate le cose con il tale cliente. Si
badi bene che non essendo formulata un'accusa non è possibile articolare una
congrua difesa.
Tuttavia si comprenderà benissimo il contesto in cui si muovono gli uffici
del Garante ed anche questa fase, quindi, è bene che sia seguita da un
esperto o da un consulente.
Consigliabile anche di dichiarare la propria disponibilità a essere
personalmente sentiti, così da spiegare gli eventi e i documenti:
attenzione, in questa fase, non c'è il diritto a essere sentiti, ma è bene
segnalare una disponibilità in tale senso. Non si manchi, però, di
dettagliare in che cosa possa consistere l'utilità dell'audizione personale
e deve trattarsi sempre di qualcosa che non risulti già dalla
documentazione.
In questa fase l'impresa/professionista/p.a. potrà fare stime e prognosi di
che cosa si può rischiare.
È importante che si prendano in considerazione tutti i possibili esiti, sia
quello della decisione del reclamo con l'imposizione di una prescrizione o
di un divieto/obbligo sia quello sanzionatorio.
Difesa/reclamo. Se il procedimento di reclamo va avanti,
all'impresa/professionista/p.a. arriva la comunicazione di avvio del
procedimento (articolo 12 del regolamento del Garante 1/2019) e bisogna
studiarselo attentamente, perché contiene tutti gli estremi della incolpazione. Secondo il Garante l'impresa/professionista/p.a. hanno
sbagliato a fare o a non fare qualche cosa.
Nella comunicazione, infatti, si trova scritta una sintetica descrizione dei
fatti e delle presunte violazioni e delle relative disposizioni
sanzionatorie. Ma soprattutto si ha notizia dell'ufficio competente presso
il quale può essere presa visione ed estratta copia degli atti istruttori e
scatta a decorrere il termine di trenta giorni per inviare al Garante
scritti difensivi o documenti e/o chiedere di essere sentito (il regolamento
1/2019, articolo 13, è interpretabile nel senso che qui l'audizione ha
sempre luogo, se richiesta).
La prima cosa da fare è avere copia integrale del fascicolo per capire come
e perché sia comprovata la contestazione.
La seconda cosa da fare è decidere la strategia difensiva e quindi se
mandare scritti difensivi e se chiedere di essere sentiti in audizione da
parte del Garante. Se non lo si fa non si compromettono le possibilità di
contestazione avanti al Giudice del provvedimento finale del Garante.
Se 30 giorni non sono sufficienti è possibile chiedere una motivata proroga.
La scaletta delle difese è questa: ricostruzione alternativa dei fatti,
spiegazione della non punibilità per carenza di colpa (ad esempio incertezza
delle norme), fornitura di interpretazioni giuridiche a sostegno della non
punibilità, illustrazione di circostanze da cui possa derivare la sola
applicazione dell'ammonimento oppure la riduzione della sanzione a livelli
bassi. Questa è da attentamente vagliare in relazione alle necessità del
caso concreto.
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Ultima
chance è l'oblazione.
L'ultima spiaggia per le sanzioni privacy è l'oblazione «a regime». Se il
Garante ha adottato un'ordinanza-ingiunzione, il titolare del trattamento
può sempre definire la controversia pagando la metà dell'importo.
Lo prevede l'articolo 166 del Codice della privacy (modificato dal dlgs
101/2018), dedicato interamente alle sanzioni amministrative. Se è
prevedibile che il reclamo presentato da un cliente/utente apra due vicende
(il reclamo in sé e per sé e il procedimento per l'applicazione di una
sanzione amministrativa pecuniaria), allora, è necessario che il titolare
del trattamento (impresa/professionista/Pubblica amministrazione) conosca le
possibili vie di uscita. E, nell'ottica della riduzione del danno, non
bisogna dimenticarsi delle disposizioni che consentono di diminuire l'entità
della sanzione.
Ciò potrà avvenire prima dell'adozione dell'ordinanza ingiunzione, cercando
di mettere in evidenza quei parametri oggettivi e soggettivi, elencati
dall'articolo 83 del regolamento Ue 2916/679 (Gdpr, da cui deriva un minore
carico. Ma c'è ancora una chance a ordinanza emessa.
Lo stesso effetto si potrà raggiungere, infatti, avvalendosi di una sorta di
patteggiamento della sanzione.
Per l'appunto l'articolo 166 del codice della privacy (il dlgs 196/2003)
stabilisce che entro il termine previsto per la proposizione del ricorso
contro l'ordinanza-ingiunzione del Garante (30 giorni), il trasgressore e
gli obbligati in solido possono definire la controversia adeguandosi alle
prescrizioni del Garante, se impartite, e mediante il pagamento di un
importo pari alla metà della sanzione irrogata.
Questa oblazione non è subordinata a un vaglio di ammissibilità o di
meritevolezza. Si tratta di uno sconto-premio fisso, puro e semplice, che va
a compensare la rinuncia a impugnare. Solo così si spiega il fatto che la
norma parli di «definizione della controversia»: se la controversia è
definita vuole dire che non ci può essere una controversia pendente e che,
dunque, lo sconto è il prezzo che lo Stato paga pur di non avere una
controversia.
Come si potrà notare è un maxi sconto elargito senza condizioni e
direttamente dalla legge.
Se non ci sono prescrizioni o se sono di lieve valore economico, il
dimezzamento ex lege della sanzione è molto, molto appetibile.
Certo va aggiunto che se c'è una prescrizione da eseguire, questa, invece,
potrebbe essere anch'essa molto onerosa e, quindi, la valutazione sulla
convenienza di oblazionare può variare a seconda della prescrizione.
Un problema interpretativo è il seguente: la norma sull'oblazione al 50%
prevede letteralmente che la sanzione sia pagata e che la prescrizione sia
adempiuta entro il termine di trenta giorni (e cioè il termine previsto
dall'articolo 1°, comma 3, del dlgs 150/2011); ma se per adempiere la
prescrizione ci volessero più di trenta giorni e ciò per ragioni
giustificate (non per lungaggini o inerzie), ci si può avvalere lo stesso
dell'oblazione? Solo la prassi che maturerà su questo aspetto darà la
risposta definitiva, che, però, potrebbe prevedersi come favorevole, purché
vi sia il benestare del Garante.
In materia di sanzioni privacy un problema di cui si è discusso nelle aule
giudiziarie è chi debba essere il destinatario delle ingiunzioni quando il
titolare del trattamento è una persona giuridica.
La soluzione che si legge nelle sentenze della Corte di cassazione è che nel
codice della privacy è configurata una autonoma responsabilità della persona
giuridica, che nel suo complesso è, d'altra parte, il titolare del
trattamento e come tale «perfettamente sanzionabile ai sensi della normativa
in materia di trattamento di dati personali» (Cass. 13657/2016). Tutto ciò
non esclude la rivalsa da parte della persona giuridica, direttamente
sanzionata, su suoi dipendenti, che siano gli autori materiali delle
condotte contestate.
In materia di sanzioni va ricordato (e lo fa il citato articolo 166 del
codice della privacy) che vale il termine di prescrizione di cinque anni,
previsto dall'articolo 28 della legge 689/1981.
Decorso il quinquennio, salvi gli atti interruttivi, la sanzione non può più
essere riscossa. Nel procedimento sanzionatorio privacy non ci sono, invece,
termini perentori decorrenti dalla data di commissione dell'infrazione per
inviare la contestazione con cui si apre il procedimento: l'articolo 166 del
codice della privacy, infatti, esclude l'applicazione dell'articolo 14 della
legge 689/1981 che, per altre materie, estingue l'obbligo di pagare la
sanzione se l'amministrazione procedente non notifica la contestazione entro
90 giorni dall'accertamento.
La sanzione, infine, non passa agli eredi della persona fisica sanzionata e
ciò per effetto dell'articolo 7 della legge 689/1981.
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Conciliare conviene ma non è risolutivo.
Conciliare conviene, anche se non chiude il reclamo «privacy». Il
regolamento del Garante sui reclami n. 1/2019 prevede almeno due possibilità
di aderire alle richieste degli interessati. Il ravvedimento del titolare
del trattamento non è, certo, causa di archiviazione del reclamo, in quanto
il procedimento può andare avanti in parallelo per l'applicazione di una
sanzione pecuniaria.
Però la condotta conciliativa può giocare un ruolo
decisivo perché è valutata quando il Garante deve decidere l'importo della
sanzione pecuniaria (articolo 83 Gdpr). La prima opportunità conciliativa è
prevista dall'articolo 10 del regolamento 1/2019. Siamo nella fase
preliminare all'avvio del procedimento vero e proprio e, in questo contesto,
l'ufficio del Garante può invitare il titolare o il responsabile a eseguire
spontaneamente le misure richieste con il reclamo e a comunicare
all'Ufficio, entro il termine da quest'ultimo richiesto, la propria
eventuale adesione.
Siamo in una fase anticipata del procedimento e una
conciliazione potrebbe essere determinante per la prosecuzione del
procedimento. Una seconda chance si incontra in relazione ai reclami che
hanno per oggetto l'esercizio dei diritti degli interessati, come il diritto
di accesso o di opposizione o la portabilità ecc. (articolo 15, comma 1).
A
proposito di queste ipotesi può essere che l'interessato, prima di
presentare il reclamo, abbia chiesto all'impresa/professionista/p.a.
titolare del trattamento l'esercizio dei suoi diritti: se così è stato,
entro quarantacinque giorni dalla data della ricezione, il reclamo dal
Garante è comunicato al titolare, con invito a esercitare entro 20 giorni
dal suo ricevimento la facoltà di comunicare all'istante e all'Ufficio la
propria eventuale adesione spontanea. In caso di adesione spontanea,
prosegue, l'articolo 15, comma 4, del regolamento 1/2019 il Garante
comunicherà al titolare o al responsabile del trattamento l'avvio del
procedimento per l'adozione delle sanzioni pecuniarie e delle eventuali
sanzioni correttive. Quindi si va avanti per le sanzioni, ma l'articolo 83
del Gdpr obbliga a tenere conto della condotta collaborativa tenuta
dall'impresa/professionista/p.a.
C'è, poi, una terza situazione, che
riguarda sempre i reclami relativi all'esercizio dei diritti
dell'interessato: è il caso in cui quest'ultimo si sia rivolto direttamente
al Garante senza passare dal titolare del trattamento (articolo 15, comma
3). Il Garante inviterà, entro quarantacinque giorni dalla ricezione del
reclamo, l'istante a rivolgersi al titolare del trattamento. A questo
proposito si consiglia di valutare se non sia il caso di conciliare,
sfruttando questo primo contatto
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente spoils system per i sindaci neo-eletti.
L’insediamento non fa scattare alcun potere di rivedere o vertici
dei comuni.
Niente spoils system per i sindaci
neo-eletti, al di fuori dei casi espressamente consentiti e regolati dal Tuel. L'insediamento dei nuovi primi cittadini non fa scattare alcun potere
di rivedere da zero i vertici delle strutture amministrative che compongono
gli enti: i dirigenti ove esistono le qualifiche dirigenziali, i
responsabili di servizio ove il vertice è rappresentato dai funzionari di
categoria D. I nuovi sindaci possono incaricare, sulla base del nuovo
mandato, esclusivamente alcune tipologie di dipendenti.
In primo luogo, ma solo per i comuni con popolazione superiore ai 100 mila
abitanti, i direttori generali esterni, il cui incarico, ai sensi
dell'articolo 108 del Tuel scade col mandato sindacale. Le funzioni di
direttore generale, comunque, possono essere assegnate anche al segretario
comunale.
Decadono col sindaco uscente e, quindi, possono essere oggetto di nuovi
incarichi, quelli in staff, disciplinati dall'articolo 90 del dlgs 267/2000.
In terzo luogo, i sindaci possono, ricorrendo i presupposti previsti
dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, incaricare dirigenti o
funzionari ai sensi dell'articolo 110 del Tuel, poiché la durata di questi
incarichi è connessa col mandato del sindaco. La Corte di cassazione con la
sentenza 13.01.2014, n. 478 ha indicato che gli incarichi ai sensi
dell'articolo 110 possono anche travalicare il mandato sindacale, visto che,
secondo gli Ermellini, debbono avere una durata minima di tre anni, se
conferiti dal sindaco uscente due anni o un anno prima della sua scadenza.
Tuttavia, questa sentenza appare affetta da un irrimediabile vizio, per
violazione plateale della chiara previsione contenuta nell'articolo 110 del Tuel.
Infine, il neo sindaco ha la possibilità di incaricare un nuovo segretario
comunale, ma deve esercitarla tra i 60 e i 120 giorni successivi alla
propria elezione.
Nessun'altra previsione di legge permette ai nuovi sindaci di connettere al
loro nuovo mandato gli incarichi ai dirigenti e ai responsabili di servizio
di ruolo.
La durata degli incarichi conferiti ai dirigenti di ruolo, in applicazione
dell'articolo 19 del dlgs 165/2001 è minimo di due anni. Ma, tale durata è
da computare ad anno intero, non a frazioni di anno, perché deve essere
strettamente connessa alla gestione finanziaria e degli obiettivi, che è
organizzata ad anno solare.
Lo stesso vale per i funzionari incaricati come responsabili di servizio
aventi funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Testo
unico sugli enti locali. Negli enti privi di dirigenti a detti responsabili
di servizio non si applica la previsione della durata massima triennale
degli incarichi, che il Ccnl 21.05.2018 riferisce esclusivamente ai
funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative operanti negli
enti con dirigenti. Nei comuni privi di qualifiche dirigenziali la durata
dell'incarico dei responsabili di servizio è fissata direttamente dai
provvedimenti di nomina, ai quali, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, del Ccnl 21.05.2018, si riconnette automaticamente l'incarico di posizione
organizzativa.
L'evento delle elezioni non conferisce ai sindaci il potere di riattribuire
gli incarichi di vertice. Se così fosse, allora si ammetterebbe negli enti
locali uno spoils system senza alcun controllo, che riconnetterebbe
automaticamente la decadenza degli incarichi di vertice al mandato
elettorale, in plateale contrasto con l'estesissima giurisprudenza della
Consulta che a partire dal 2007 ha accertato l'illegittimità costituzionale
delle leggi, statali e regionali, che facciano coincidere la durata degli
incarichi dirigenziali di natura gestionale con quella del mandato elettivo.
Di fatto, sono molto diffusi regolamenti comunali sull'organizzazione dei
servizi, i quali hanno in effetti riconnesso la scadenza degli incarichi a
dirigenti e responsabili di servizio al mandato elettorale, ma ovviamente,
sulla base di una doverosa interpretazione ed applicazione delle norme
costituzionalmente orientata, tali regolamenti sono da considerare in
contrasto con la Costituzione e debbono essere necessariamente disapplicati (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2019). |
APPALTI: Raggruppamenti,
limiti al cambio di compagine. Nelle procedure ristrette.
Appalti di lavori più semplici fino a un milione di euro; ripristinato il
tetto del 30% per l'offerta economica; subappalto al massimo per il 40% (dal
50%) del totale dei lavori; niente incentivi ai tecnici dell'amministrazione
per la fase di progettazione; criteri ambientali minimi solo oltre 5,5,
milioni, soglia Ue; costo della manodopera incluso nell'offerta. Sono queste
le principali novità riferite al codice appalti apportate nella discussione
in commissione lavori pubblici e trasporti riunite del senato al
decreto-legge n. 32/2019 (Sblocca cantieri) che adesso è all'esame dell'aula
e oggetto di ulteriori emendamenti, sia pure marginali, da parte dei
relatori e del governo.
Le novità sono tutte contenute all'articolo 1 che di fatto si configura, di
fatto, come un vero e proprio secondo correttivo al codice appalti del 2016.
Una prima modifica ha riguardato l'ambito di applicazione oggettivo del
«regolamento unico» del codice che dovrà sostituire l'attuale numerosa
congerie di provvedimenti di varia fonte . Nel testo del decreto si
richiamavano i diversi provvedimento che il regolamento dovrebbe sostituire,
mentre nel testo uscito dalle commissioni si fa riferimento alle materie,
fermo restando che fino all'approvazione del regolamento (180 giorni
dall'approvazione della legge di conversione, quindi, entro metà dicembre
2019) i provvedimenti che oggi disciplinano queste materie continueranno a
sopravvivere, evitando quindi ogni vuoto normativo.
In commissione è stato ripristinato il tetto all'elemento prezzo
nell'aggiudicazione con il criterio dell'Oepv (offerta economicamente più
vantaggiosa) che invece il governo, nel testo del decreto-legge 32, aveva
eliminato. Pertanto, all'offerta economica, gli atti di gara emessi dalle
stazioni appaltanti non potranno assegnare più di 30 punti su 10.
È stata «ridisegnata» la norma sugli affidamenti sotto soglia: per
affidamenti da 40 mila euro a 150mila euro per i lavori, o alle soglie Ue
per le forniture e i servizi (221 mila), si procederà mediante affidamento
diretto previa consultazione di almeno tre (lavori) o cinque operatori
economici (servizi e forniture,) previa indagine di mercato o scelta con
elenchi di operatori economici e applicazione del principio di rotazione
degli inviti.
Per i servizi tecnici rimane invece ferma la disposizione speciale di cui
all'articolo 157 che impone da 100 mila euro in su il ricorso alle procedure
ordinarie. Per lavori da 150 mila a 350 mila euro, sempre procedura
negoziata ma con invito a dieci operatori economici; da 350 mila euro a un
milione, invece, si passa a quindici operatori economici. Per lavori fra un
milione e la soglia Ue di 5,4 milioni l'affidamento avverrà con le procedure
ordinarie (quindi non soltanto con la procedura aperta).
Per quanto riguarda il subappalto si riduce dal 50% al 40% il tetto massimo
e si reintroduce il divieto per i partecipanti alla gara di essere,
successivamente subappaltatori. Viene eliminata la possibilità di applicare
l'incentivo del 2% del valore dell'opera a favore dei tecnici delle
pubbliche amministrazioni per l'attività di progettazione svolta da tecnici
delle amministrazioni. I servizi ad elevata intensità di manodopera, anche
se riguardano servizi e forniture standardizzate, devono sempre essere
affidati con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e non
con il prezzo più basso.
Non sarà possibile escludere per irregolarità fiscali che non siano state
accertate e l'utilizzo obbligatorio dei Cam (Criteri ambientali minimi) sarà
limitato ai soli casi di lavori oltre i 5,5 milioni di lavori.
Non si dovranno più indicare in offerta separatamente il costo della
manodopera e gli oneri di sicurezza aziendali: si riterranno «compresi
nell'offerta economica»
(articolo ItaliaOggi del 31.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Quotate,
l’incarico si paga. Per i pensionati non c’è obbligo di gratuità.
Lo ha chiarito l’Osservatorio sulla finanza locale del Mininterno.
Il divieto di conferire incarichi pubblici retribuiti a
pensionati è generale, ma non si applica alle società quotate.
Il
chiarimento 24.05.2019 arriva dal ministero
dell'interno, che ha pubblicato atto di indirizzo ex art. 154, comma 2, del Tuel (Osservatorio finanza locale) riguardo all'art. 11, comma 1, del dlgs
175/2016 (Tusp).
Tale disposizione ha confermato quanto disposto dall'art.
5, comma 9, del dl 95/2012, ai sensi del quale «è fatto divieto alle
pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite
nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come
individuate dall'Istituto nazionale di statistica (Istat) ai sensi
dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché alle
autorità indipendenti ivi inclusa la Consob di attribuire incarichi di
studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza.
Alle suddette amministrazioni è altresì fatto
divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi
o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo
e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti
delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli
organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis, del
decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla
legge 30.10.2013, n. 125.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni
di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per
i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la
durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile,
presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali
rimborsi spese, corrisposti nei limiti fissati dall'organo competente
dell'amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle
disposizioni del presente comma nell'ambito della propria autonomia».
Dalle due disposizioni, consegue che è fatto divieto alle amministrazioni
pubbliche di conferire cariche in organi di governo delle società da esse
controllate a «soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza», se non «a titolo gratuito». Il Viminale precisa che tale
disciplina, in quanto generalmente riferita a lavoratori in quiescenza, vale
sia per i lavoratori dipendenti che per i lavoratori autonomi.
Tuttavia,
essa non si applica alle società quotate come definite all'art. 2, comma 1,
lett. p), del Tusp, nonché alle società da esse controllate. Ciò alla luce
della peculiarità che connota le società quotate, le quali sono sottoposte a
un sistema di obblighi, di controlli e sanzioni autonomo, data l'esigenza di
contemperare, da un lato (gli interessi pubblici sottesi alla normativa
dettata in ragione della partecipazione pubblica, e, dall'altro, la tutela
degli investitori e dei mercati finanziari
(articolo ItaliaOggi del 28.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
criticità sull'impianto di valutazione delle performance.
Nella pratica traduzione dei meccanismi valutativi delle prestazioni presso
le amministrazioni pubbliche non poche sono le criticità che emergono nella
predisposizione ed attuazione dei sistemi di valutazione, frutto anche di
una scarsa sensibilità avvertita, da tutti gli attori di sistema, in
relazione ad un impianto fortemente integrato di azioni e di atti che,
ancora oggi, viene vissuto con la cultura adempimentale, piuttosto che
vocata al miglioramento continuo dell’assetto pubblico.
D’altra parte, “credere” nella valutazione delle prestazioni significa
spendere una grande fede nel funzionamento del sistema pubblico, una spendita di fiducia che oggi, dopo decenni di esperienze fallimentari, in
pochi sono disponibili a sostenere, con il risultato, generalmente
riscontrabile ovunque, di impianti formalmente ineccepibili e di esiti
sostanzialmente incerti, ad essere buonisti.
Le esperienze in atto nella pressoché generalità degli enti, pertanto, con
la consueta attenzione agli elementi formali di sistema e non al
funzionamento reale dello stesso, mettono in evidenza almeno tre profili di
criticità che, di seguito, si sintetizzano.
Il sistema di misurazione e valutazione delle performance
1) Il sistema di misurazione e valutazione delle performance costituisce
strumento metodologico la cui adozione è di competenza datoriale, vertendosi
in materia di definizione del metodo di misurazione prima e di valutazione
poi delle prestazioni. Non è più ammissibile, pertanto, che tale dispositivo
metodologico continui ad essere affidato alla competenza degli organi di
governo, alla stregua di un atto politico, di governo o, peggio,
regolamentare.
Non si tratta, infatti, ad ogni evidenza, né di un momento politico, tanto
meno di un passaggio regolamentare, atteso che il congegno metodico che
misura e valuta le performance non costituisce certamente atto di indirizzo
politico, né rappresenta un insieme di norme precettive tipico delle misure
regolative di un sistema, bensì realizza un apposito apparecchio tecnico
finalizzato a fornire una misura metrica delle prestazioni ed una
conseguente dimensione valutativa, aspetti che, evidentemente, sfuggono ad
ogni spessore politico di governo.
Quest’ultimo, peraltro, ben potrebbe
intervenire nel momento preliminare dell’indirizzo e della direttiva,
fornendo, al soggetto gestionale competente (dirigente, direttore, etc.), le
coordinate strategiche necessarie per la corretta impostazione delle
metodiche, ma difficilmente potrebbe sostituirsi a questo nell’adozione di
strumentazioni per le quali occorre possedere cognizioni tecniche e
metodologiche che sfuggono alla stretta competenza del Governo.
D’altra
parte lo stesso legislatore è emblematicamente intervenuto sulla specifica
questione, allorquando, con un intervento normativo di cesello, ha espunto,
nel contesto dell’art. 7, comma 1, del Dlgs. n. 150/2009, mediante i
correttivi recati dal Dlgs 74/2017, il riferimento ad un “apposito
provvedimento” cui affidare l’adozione del sistema in questione, lasciando
chiaramente intendere, quindi, che, l’assenza della necessaria natura provvedimentale, di carattere pubblicistico, dell’atto di assunzione del
sistema, dovesse deporre necessariamente per la diversa natura
privatistico-datoriale dell’atto stesso, rimessa, ex art. 5, comma 2, Dlgs
165/2001, attraverso la riserva di diritto comune degli atti organizzativi
ivi previsti, in capo agli organi gestionali e non a quelli di governo.
Per convincersi di tale impostazione, infine, pare sufficiente osservare
come lo stesso legislatore della riforma (cit. Dlgs 74/2017), attraverso
l’introduzione delle previsioni normative riportate nel comma 2-bis, del
richiamato art. 7, Dlgs 150/2009, abbia inteso individuare contenuti del
sistema di tipo tecnico e non di carattere politico, affermando,
espressamente, che il sistema di misurazione e valutazione della performance
debba prevedere apposite procedure di conciliazione, a garanzia dei
valutati, relative all'applicazione del sistema stesso, contenuto di
evidente tenore gestionale, nonché le modalità di raccordo ed integrazione
con i documenti di programmazione finanziaria e di bilancio, con ciò stesso
imponendo, agli organi gestionali competenti, l’obbligo, nella
configurazione dell’impianto metodologico, di armonizzare lo stesso alle
previsioni economico-finanziarie contenute nei documenti di programmazione.
Il piano delle performance
2) Un secondo profilo di criticità attiene alla corretta gestione del piano
delle performance, ancora oggi erroneamente vissuto in maniera parziale e
con approccio pressoché esclusivamente formale. La regolazione di sistema,
viceversa, struttura tale fondamentale strumento di pianificazione alla
stregua di un unico contenitore che globalizza tutti gli strumenti di
premialità volti al conseguimento di obiettivi di miglioramento erogativo.
La configurazione normativa, infatti (art. 10, comma 1, lett. a), Dlgs
150/2009), prescrive che il piano debba individuare gli indirizzi e gli
obiettivi strategici ed operativi dell’ente, definendo, con riferimento agli
obiettivi finali ed intermedi ed alle risorse, gli indicatori per la
misurazione e la valutazione della performance dell'amministrazione, nonché
gli obiettivi assegnati al personale dirigenziale ed i relativi indicatori.
Tale postulato, quindi, fonda un principio inderogabile ed, insieme, di
carattere generale, sintetizzabile nel corollario del principio di buona
amministrazione (art. 97 Cost.) per il quale l’assetto di pianificazione
disciplinato dalla legge debba, necessariamente, recare tutti gli obiettivi
strategici ed operativi, nonché i relativi indirizzi di conseguimento, cui
sia connesso il riconoscimento di un regime premiale, comunque definito e
congegnato, in un’ottica che globalizzi l’intera ed integrale strategia
premiale che, su qualsiasi piano, attua l’amministrazione.
L’applicazione di tale principio, dunque, porta con sé una rilevante
conseguenza metodologica ed operativa, sintetizzabile nell’assunto per il
quale il piano debba rappresentare qualsiasi sistema di premialità
riconoscibile al personale dipendente e dirigente e non solo quello di
carattere generale, diffusamente definito “produttività generale”, atteso
che ciò rappresenterebbe una visione del tutto riduttiva dello strumento, il
quale, infatti, pianificherebbe solamente una parte residuale del più ampio
regime di premialità applicabile, mentre allo stesso, in tale
configurazione, sfuggirebbe la maggior parte degli istituti premiali che,
oggi, costituiscono il maggior peso economico e finanziario erogato a titolo
di retribuzione accessoria incentivante.
Si pensi, a tal riguardo, alle
progressioni orizzontali, alla retribuzione di risultato delle posizioni
organizzative, agli incentivi previsti da fonti legali (funzioni tecniche,
piani di razionalizzazione, fiscalità locale, servizi a terzi pubblici e
privati etc.), erroneamente considerate, con atteggiamento generalizzato,
aree che non possano rientrare nel meccanismo di pianificazione delle
performance, in quanto collegate alla mera fornitura della prestazione
prevista per legge, cui resta estranea, pertanto, ogni valutazione circa i
profili quali-quantitativi della stessa.
Tale approccio, infatti, non appare correttamente impostato, atteso che
qualsiasi prestazione, nella logica della misurazione e valutazione della
performance resa, deve essere sottoposta ad una metrica e ad un
apprezzamento, a prescindere dalla fonte che la regola, allorquando alla
stessa sia riconnesso il riconoscimento di un valore premiale che, appunto,
quale incentivo che non schiude l’esercizio di alcun diritto innato, deve
misurare il valore medesimo dell’attività resa, senza che, per questo, abbia
rilievo alcuno l’automatica e sterile rilevazione della prestazione resa in
sé considerata.
Il ruolo dell’organismo di valutazione
3) Un terzo ed ultimo punto sul quale ricondurre l’attenzione degli
operatori tutti riguarda, nel contesto di cui sopra, il posizionamento che
il vigente ordinamento affida ad un organo qualificato e di rilevante
spessore, nell’economia organizzativa e funzionale degli enti, a prescindere
dalla definizione allo stesso accordata dalle singole amministrazioni
(organismo indipendente di valutazione, nucleo di valutazione, nucleo
indipendente di valutazione, etc.).
In tale scenario, infatti, l’organismo
valutativo viene chiamato ad assolvere un ruolo determinante, dovendo, oltre
alle altre importanti incombenze rassegnate in tema di misurazione e
valutazione delle prestazioni, assicurare la correttezza dell'utilizzo dei
premi indicati dal Titolo III del Dlgs 150/2009, in specie: progressioni
economiche orizzontali, bonus delle eccellenze (oggi differenziazione del
premio individuale, ex art. 69 del Ccnl 21.05.2018 Funzioni Locali),
affidamento di incarichi e responsabilità, premio di efficienza,
progressioni di carriera, premio per l’innovazione, percorsi di alta
formazione e di crescita professionale, secondo quanto previsto dalla legge,
dai contratti collettivi nazionali, dai contratti integrativi, dai
regolamenti interni all'amministrazione, nel rispetto del principio di
valorizzazione del merito e della professionalità.
Tale rilevante incombenza, peraltro, appare, francamente, eccessivamente
responsabilizzante per le forze stesse che gli organismi valutativi possono
mettere in campo, i quali, infatti, al fine di poter garantire la
correttezza metodologica, prima ancora che giuridica, degli istituti
premiali complessivamente considerati, dovrebbero, prima di tutto, godere di
una sorta di impermeabilità di sistema che l’attuale assetto di nomina
scarsamente è in grado di assicurare, secondariamente dovrebbero avere la
possibilità di un riconoscimento economico che risultasse in linea con
l’impegno che tali doveri impongono, soprattutto in termini temporali di
esecuzione della prestazione, atteso che il corretto assolvimento di tale
adempimento obbliga ad un’assidua presenza presso l’amministrazione e ad un
monitoraggio costante della configurazione ed applicazione degli istituti
premiali, tutte condizioni che, tuttavia, non sembrano, al momento, visibili
all’orizzonte
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.05.2019). |
TRIBUTI: Imu
e Tasi, deadline in vista. Contribuenti alla cassa per il pagamento degli
acconti. Obbligati a versare le imposte locali sono
tutti i titolari di fabbricati e aree edificabili.
Si
avvicina la scadenza per il pagamento degli acconti Imu e Tasi. Il termine
per passare alla cassa è fissato al prossimo 17 giugno. Slitta di un giorno
il termine ordinario perché il 16 giugno è domenica. Obbligati a versare le
imposte locali sono tutti i contribuenti titolari di fabbricati e aree
edificabili. Sono invece esonerati dal prelievo gli immobili adibiti a
abitazione principale, tranne quelli di lusso, ville e castelli, e i terreni
agricoli.
Allo stesso modo sono tenuti a pagare la Tasi coloro che possiedono
fabbricati e aree edificabili. Mentre non sono più tenuti al pagamento
possessori e detentori delle unità immobiliari destinate a abitazione
principale.
Gli acconti possono essere calcolati sulla base delle aliquote e delle
detrazioni deliberate dai Comuni per l'anno precedente. Quindi va versato il
50% di quanto pagato nel 2018. Naturalmente, i contribuenti possono pagare
in un'unica soluzione se conoscono le deliberazioni adottate dalle
amministrazioni comunali.
Imu. Sono
soggetti all'Imu fabbricati e aree edificabili. Non devono, invece, versare
l'imposta i titolari di immobili destinati a prima casa e equiparati, con
relative pertinenze, per i quali è prevista l'esenzione.
La nozione di prima casa per l'Imu è diversa rispetto a quella stabilita per
l'Ici dall'articolo 8 del decreto legislativo 504/1992.
In base a quanto disposto dall'articolo 13 del dl 201/2011, per abitazione
principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto
edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora
abitualmente e risiede anagraficamente.
Per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle
classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima
di un'unità pertinenziale per ciascuna delle suddette categorie catastali,
anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione.
Non fruiscono dell'esenzione i fabbricati iscritti nelle categorie catastali
A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il
trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione. Per queste
unità immobiliari è prevista l'applicazione di una aliquota ridotta del 4
per mille, che i comuni possono aumentare o diminuire di 2 punti
percentuali, e una detrazione di 200 euro.
Mentre l'aliquota di base per tutti gli altri immobili, a partire dalle
seconde case, è fissata nella misura del 7,6 per mille, che gli enti locali
possono aumentare o diminuire di 3 punti percentuali.
Va ricordato che per l'anno in corso alle amministrazioni locali non è stato
impedito, come per gli anni precedenti, di aumentare le aliquote, nel
rispetto del tetto massimo stabilito dalla legge. Essendo venuto meno il
blocco dei tributi locali, atteso che non è stata disposta la sospensione
dell'aumento di aliquote e tariffe, può darsi che in alcuni casi i
contribuenti siano tenuti a un esborso maggiore rispetto a quanto pagato in
passato.
I soggetti obbligati al pagamento devono mettere mano al portafoglio e
versare il 50% dell'imposta calcolata in base a aliquote e detrazioni
adottate nel 2018. Il resto dovrà essere pagato entro il 16 dicembre, a
conguaglio di quanto dovuto per l'intero anno, facendo riferimento a
aliquote e detrazioni deliberate per il 2019.
Dal 2016 è stata estesa l'esenzione Imu ai terreni. L'articolo 1, comma 13,
della legge di Stabilità 2016 (208/2015) stabilisce che non sono tenuti al
pagamento dell'imposta, oltre ai titolari di terreni montani o di collina
ubicati nei comuni elencati nella circolare del Ministero dell'economia e
delle finanze 9/1993, quelli posseduti e condotti da coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione,
quelli ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione
agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile. I terreni che non
rientrano nei confini dell'esenzione, sono ovviamente soggetti al pagamento
del tributo.
Tasi. Sia i
proprietari degli immobili che gli inquilini sono tenuti a versare l'imposta
sui servizi indivisibili.
In seguito alle modifiche apportate alla disciplina della Tasi, a partire
dal 2016 sono fuori dal campo di applicazione del tributo gli immobili
utilizzati come abitazione principale da possessori e detentori, vale a dire
anche dagli inquilini, a condizione che non siano classificati catastalmente
nelle categorie A1, A8 e A9. La Tasi si paga solo su fabbricati e aree
edificabili. Mentre non sono soggetti a imposizione i terreni. La base
imponibile è la stessa dell'Imu.
Agevolazioni e modalità di pagamento.
Imu e Tasi hanno in comune le stesse agevolazioni. Per esempio, per gli
immobili concessi in uso gratuito a parenti in linea retta, entro il primo
grado, e per quelli locati a canone concordato.
Per i primi l'articolo 1, comma 10, della legge di Stabilità 2016 ha abolito
il potere di assimilazione dei comuni e ha previsto una riduzione del 50%
della base imponibile. I beneficiari possono fruirne purché sussistano le
condizioni richieste dalla norma.
Nello specifico, il comodante deve avere la residenza anagrafica e la dimora
nel comune in cui è ubicato l'immobile concesso in comodato.
Oltre all'immobile concesso in comodato, può essere titolare di un altro
immobile nello stesso comune, che deve essere utilizzato come propria
abitazione principale, purché non si tratti di un fabbricato di pregio
(immobile di lusso, villa o castello). Quest'ultimo requisito è imposto
anche per l'unità immobiliare data in comodato. Il comodante può possedere
anche altri immobili, a condizione però che non siano classificati tra
quelli destinati a uso abitativo.
Hanno diritto a un trattamento agevolato anche gli immobili locati a canone
concordato. E' previsto uno sconto del 25% sia per l'Imu che per la Tasi. Il
beneficio fiscale spetta a prescindere dal fatto che i comuni abbiano
previsto per questi fabbricati un'aliquota agevolata.
Il pagamento di entrambi i tributi può essere effettuato con il modello F24
o tramite apposito bollettino di conto corrente postale. Le somme versate
dai contribuenti vengono incassate dalla «Struttura di gestione» e riversate
all'ente interessato.
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Può provvedere anche il conduttore.
Anche l'inquilino può pagare le imposte locali se è previsto nel contratto
stipulato con il locatore. Le Sezioni unite della Cassazione, con la
sentenza 6882/2019, hanno chiarito che non è nullo il contratto per
illiceità della causa. Il proprietario di un fabbricato, dunque, può
sottoscrivere un accordo con il locatario, il quale si può impegnare a
pagare legittimamente Imu e Tasi. L'accordo contrattuale che impone
all'affittuario di pagare i tributi locali, secondo le Sezioni unite, non si
pone in contrasto con il principio di capacità contributiva e non viola la
regola sul divieto di traslazione del carico fiscale a un soggetto diverso
dal titolare.
Le somme che il conduttore si impegna a pagare costituiscono
semplicemente un'integrazione del canone locativo e concorrono a
determinarne l'ammontare complessivo dovuto. Pertanto, se l'imposta viene
pagata non viene violato il divieto di traslazione del carico fiscale, in
quanto la somma serve a integrare esclusivamente il prezzo «della
prestazione negoziale». L'accordo, tra l'altro, non viola neppure le norme
che disciplinano le locazioni, anche se l'articolo 89 della legge 392/1978
non contempla le imposte locali tra gli oneri a carico dell'inquilino.
Va però sottolineato che soggetto obbligato nei confronti
dell'amministrazione comunale è sempre il locatore. Qualora il conduttore
non paghi, la violazione di omesso pagamento del tributo deve essere
contestata al proprietario, così come la relativa sanzione. Nonostante la
Cassazione faccia riferimento a Ici e Imu, la regola è applicabile anche
alla Tasi, che è dovuta dal proprietario nella misura minima del 70%.
L'accollo del debito d'imposta da parte dell'inquilino non libera
dall'obbligo di pagamento il proprietario. Il locatore ha comunque il potere
di esercitare giudizialmente il diritto di rivalsa nei confronti del
conduttore, al fine di recuperare le somme che si era impegnato
contrattualmente a versare al comune (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Scelta dei dirigenti
senza più il concorso. C’è uno schema di direttiva della Presidenza del
consiglio.
Stop
ai concorsi per la scelta dei dirigenti della presidenza del Consiglio dei
ministri.
Emerge dallo schema di direttiva (Dip 018185 P-4.4.11 del
10/04/2019) «recante criteri e modalità per il conferimento degli incarichi
dirigenziali», inviata in un'informativa alle rappresentanze sindacali. «Al
fine della continuità dell'azione amministrativa», si legge nel testo, si
intende assicurare «l'adeguata programmazione nel conferimento degli
incarichi».
Quanto agli obiettivi da raggiungere, lo schema di direttiva indica «la
rotazione degli incarichi» secondo un preciso calendario: «L'aggiornamento
dei posti dirigenziali vacanti avviene, di norma, con cadenza semestrale».
Il Dipartimento per il personale, dunque, effettuerebbe la ricognizione
periodica e l'aggiornamento dei posti dirigenziali vacanti, ne assicurerebbe
la pubblicità nella sezione «Amministrazione trasparente» del sito internet,
dopodiché si procederebbe ad una selezione da parte del capo del
dipartimento interessato o dei dirigenti delegati dal segretario generale o
dal sottosegretario competente (o, infine, al segretario generale per le
strutture non affidate a un ministro senza portafoglio o a un
sottosegretario). A questo punto seguirebbe l'interpello «rivolto
prioritariamente», ma non esclusivamente, «ai dirigenti dei ruoli della
presidenza del consiglio dei ministri».
Un'iniziativa che sembra cozzare
contro il principio fondamentale ed inderogabile dell'ordinamento giuridico,
come riflesso di un obbligo costituzionale più volte ribadito nelle sentenze
della Corte costituzionale (sentenza n. 37 /2015) e nei pareri del Consiglio
di stato (parere Comm. speciale pubblico impiego n. 514/2003). Principio,
secondo il quale, «il concorso pubblico resta il metodo migliore per la
selezione dei più capaci», come si legge nella sentenza della Corte
costituzionale. Anche nei casi «di un nuovo inquadramento di dipendenti già
in servizio».
Nella direzione di una bocciatura del testo, dunque, si stanno muovendo i
pareri pro veritate che stanno giungendo sul tavolo delle varie sigle
sindacali. Come quello di Enrica Guerriero, patrocinante in Cassazione,
esperta di strutture amministrative, interpellata da Dirstat, secondo la
quale la direttiva di palazzo Chigi: «Serve unicamente alla consolidazione
della prassi abusiva del conferimento degli incarichi, in violazione della
regola del concorso pubblico, il quale è l'unico sistema per assicurare
l'attuazione dei principi costituzionali di cui all'art. 97 della
Costituzione» (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
LAVORI PUBBLICI: Opere, niente più libri dei sogni.
Programmazione più rigorosa già nel Dup 2020-2022. In
vista del 31/7 gli enti devono considerare le novità del decimo correttivo
ai principi contabili.
Programmazione
delle opere pubbliche più rigorosa.
E' la conseguenza delle novità
introdotte dal decimo correttivo ai principi contabili degli enti
territoriali, i cui effetti operativi si dispiegheranno anche sul prossimo
Documento unico di programmazione (Dup) 2020-2022, che deve essere
presentato entro il prossimo 31 luglio ma che le amministrazioni metteranno
in cantiere già nelle prossime settimane.
Il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 71 del 25
marzo scorso (dm 01.03.2019), appena in tempo per consentire di applicare
già in sede di riaccertamento e di rendiconto 2018 la flessibilizzazione del
fondo pluriennale vincolato e l'allungamento dei termini per la
riprogrammazione dei ribassi d'asta.
Il Fpv può ora essere attivato in mancanza di impegno di spesa, oltre che
nei casi già finora consentiti, anche solo in presenza solo di una
progettazione che abbia raggiunto uno dei livelli successivi al minimo e
purché siano stato formalmente avviate le relative procedure di affidamento.
Ciò consentirà di dare maggiore continuità agli interventi già finanziati ma
ancora in fase progettuale, in quanto le risorse prenotate, anziché
confluire in avanzo, come sarebbe accaduto in vigenza delle precedenti
regole, possono finanziare direttamente la spesa reimputata
Molte, però, anche le modifiche che riguardano la fase della programmazione
e del bilancio: il dm infatti modifica la sequenza giuscontabile delle
spese di investimento nel seguente modo: i) per le opere di importo pari o
superiore a 100 mila euro occorrerà provvedere innanzitutto a finanziare la
progettazione, poiché solo dopo aver validato il primo livello sarà
possibile inserirle nel programma triennale e quindi metterle a bilancio; ii)
per le opere di importo inferiore lo stanziamento delle spese di
realizzazione potrà essere contestuale a quello della progettazione.
L'obiettivo è quello di rendere la programmazione più rigorosa, almeno per
le opere di taglio maggiore, disincentivando l'elaborazione dei c.d. libri
dei sogni, che spesso si traducono in un nulla di fatto e fanno sprecare
tempo e risorse agli enti. In tali casi, il decreto disciplina anche la
registrazione del livello minimo di progettazione richiesto per
l'inserimento di un intervento nel programma triennale: in tali casi, le
spese devono essere registrate a bilancio prima dello stanziamento
riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce.
Per tale ragione,
affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli
investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente (e
segnatamente il Dup) individuino in modo specifico l'investimento a cui la
spesa di progettazione è destinata, prevedendone altresì le necessarie forme
di finanziamento.
Per cui, le opere, anche se non inserite nel triennale, dovranno comunque
essere programmate, operando una distinzione più netta fra la programmazione
strategica e quella operativa (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Programmazione personale, arriva la spada di Damocle.
Spada di Damocle sulla programmazione del personale. Il decreto legge
«Crescita» (n. 34/2019) prospetta un nuovo cambio di regole, che però
arriveranno a ridosso della scadenza per il Dup 2020-2022.
L'art. 33 del dl 34/2019 ha introdotto una modifica significativa del
sistema di calcolo della capacità assunzionale delle amministrazioni
regionali e comunali, attraverso il superamento delle regole del turn-over e
l'introduzione di un sistema basato sulla sostenibilità finanziaria della
spesa di personale.
In particolare si dispone che, a decorrere dalla data che verrà stabilita, i
predetti enti possano effettuare assunzioni di personale a tempo
indeterminato, nel limite di una spesa complessiva non superiore al valore
soglia, definito come percentuale, anche differenziata per fascia
demografica, delle entrate relative ai primi tre titoli risultanti dal
rendiconto dell'anno precedente a quello in cui viene prevista l'assunzione,
considerate al netto di quelle la cui destinazione è vincolata ed al netto
del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
I valori soglia saranno definiti con provvedimento ministeriale, previa
intesa in Conferenza Stato, Città ed autonomie locali.
La norma impone di adeguare, in aumento o in diminuzione, le risorse del
fondo per la contrattazione decentrata e quelle destinate a remunerare gli
incarichi di posizione organizzativa, al fine di garantirne l'invarianza del
valore medio procapite.
Fino alla data che sarà definita in sede di decreto attuativo, comunque,
mantengono vigore le attuali regole sulla quantificazione della capacità
assunzionale, già profondamente modificate dal recente decreto legge 4/2019.
Poiché per l'emanazione del decreto attuativo è previsto un lasso di tempo
di sessanta giorni, il rischio è che il dm arrivi o a ridosso della scadenza
del 31 luglio o addirittura dopo, costringendo gli enti ad un doppio lavoro.
Inoltre, non è del tutto chiara la sorte delle procedura assunzionali
avviate prima dell'entrata in vigore delle nuove regole, anche se l'art. 34
fa propendere per una soluzione conservativa: si prevede, infatti, che gli
enti fuori soglia debbano adottare un percorso di graduale di rientro che
traguarda al 2025, per cui non dovrebbero esservi impatti di breve periodo
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Caos assunzioni negli enti locali.
Comuni e regioni alle prese con i nuovi criteri di virtuosità.
Si pone il problema di come procedere in attesa dei decreti
attuativi del dl crescita.
Caos
sulle assunzioni per comuni e regioni. Il decreto crescita rende
particolarmente complicato capire quale sia, attualmente, la fonte che
autorizza alle assunzioni e, soprattutto, i limiti da rispettare per il
turnover.
La causa della confusione operativa è l'articolo 33 del dl 34/2012; una
norma che stravolge lustri di normativa impostata in modo da limitare le
assunzioni entro una certa percentuale del costo dei dipendenti cessati
l'anno precedente: quest'anno la percentuale sarebbe stata del 100%.
Tuttavia, per regioni e comuni (la norma ha dimenticato forme associative
comunali, province e città metropolitane) il limite entro il quale assumere
sarà un valore soglia derivante dal rapporto tra il totale delle spese di
personale al lordo degli oneri, e le entrate del primi tre titoli; nel caso
delle regioni, le entrate sono calcolate al netto di quelle la cui
destinazione è vincolata, ivi incluse quelle relative al servizio sanitario
nazionale ed al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in
bilancio di previsione; nel caso dei comuni, le entrate sono calcolate al
netto al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità stanziato in bilancio
di previsione.
Tuttavia, questo nuovo sistema di determinazione della spesa per assunzioni,
che premia gli enti virtuosi, non è ancora applicabile. L'articolo 33,
infatti, rinvia a successivi decreti, che il Ministero della Funzione
pubblica dovrà applicare entro giugno, per determinare appunto i valori
soglia da rispettare: operazione piuttosto complessa per quanto riguarda i
comuni, visto che occorrerà anche definire valori soglia distinti per fascia
demografica.
Il problema che si pone, dunque, consiste nel capire come procedere in
attesa dei decreti e se sia possibile effettuare assunzioni, come anche
avviare nuove procedure concorsuali.
In primo luogo appare evidente che gli enti potranno dare corso alle
assunzioni scaturenti da procedure avviate nel previgente regime normativo,
sulla base di regole a suo tempo operanti: infatti, nella sostanza, fino al
2018 (verosimilmente le assunzioni di questo primo scorcio di 2019 saranno
effetto di concorsi avviati l'anno prima) regioni e comuni hanno potuto
assumere in misura ridotta rispetto al 100% del turnover. Non è da
sottovalutare, tuttavia, la circostanza che queste assunzioni, pur
scaturendo da procedure avviate legittimamente vigente un diverso regime
normativo, potrebbero porre problemi: infatti, da esse non è escluso
scaturisca quell'esubero di spesa che faccia andare l'ente al di sopra del
valore soglia ancora da definire.
In quanto a nuove procedure concorsuali, si potrebbe ritenere che nelle more
dei decreti previsti dall'articolo 33 del dl 34/2019 sia ancora vigente la
vecchia normativa, in particolare l'articolo 3, comma 5 e seguenti, del d.l.
90/2014. Tale tesi sul piano strettamente tecnico non convince. L'articolo
33 del decreto crescita non contiene alcuna disposizione transitoria ed
essendo una norma manifestamente incompatibile con le previgenti regole di
disciplina delle facoltà assunzionali, queste ultime non possono che
considerarsi abolite tacitamente e, quindi, non più operanti.
Allora, si deve concludere che in attesa dei decreti attuativi dell'articolo
33 gli enti debbano restare immobili e non assumere? Questa conclusione è
erronea. Come visto sopra, intanto le assunzioni scaturenti da procedure
avviate precedentemente possono sicuramente essere portate a termine. Ma,
nulla esclude per gli enti di attivare anche nuovi concorsi, nelle more dei
decreti attuativi. L'unica conseguenza eventualmente negativa di questo
«salto nel buio» potrebbe consistere semplicemente nel ritrovarsi al di
sopra dei valori soglia previsti dall'articolo 33: ma, esso prevede la
possibilità di riallinearsi entro il 2025.
Dunque, assunzioni effettuate in
attesa dei decreti attuativi non possono considerarsi né illegittime, né
causa di danno erariale, visto il lungo lasso di tempo che il decreto
crescita comunque consente agli enti meno virtuosi per rispettare i valori
soglia e visto che, comunque, anche laddove entro il 2025 gli enti non
riuscissero a porsi sotto il valore, l'unica conseguenza è la riduzione
delle capacità assunzionali al 30% del turnover (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
L'agente immobiliare non può amministrare il
condominio. PROFESSIONI/ Il Mise risponde ad Arco:
l'incompatibilità resta anche dopo la legge europea.
Indietro tutta sulla possibilità che gli agenti immobiliari
possano svolgere l'attività di amministratore condominiale.
La legge europea 2019 (37/2019, che entrerà in vigore il 26
maggio) aveva cambiato le regole sulle incompatibilità della
legge 39/1989 (istitutiva del ruolo degli agenti
immobiliari); in particolare, il nuovo articolo 5, comma 3,
della legge 39/1989 stabilisce l'incompatibilità per
l'esercizio di:
a) attività imprenditoriali di produzione, vendita, rappresentanza
o promozione dei beni afferenti al medesimo settore
merceologico per il quale si esercita l'attività di
mediazione;
b) attività svolta in qualità di dipendente (ad esclusione delle
imprese di mediazione) di ente pubblico o privato, o di
istituto bancario, finanziario o assicurativo;
c) esercizio di professioni intellettuali afferenti al medesimo
settore merceologico per cui si esercita l'attività di
mediazione;
d) situazioni di conflitto di interessi. Per le associazioni di
categoria degli agenti le novità avrebbero sdoganato il
divieto di esercitare le due professioni, anche se si
attendeva comunque l'interpretazione del Mise.
Nella risposta ufficiale di ieri (nota
22.05.2019 n. 128364 di prot.) al quesito posto da Arco
(Associazione di revisori condominiali) lo scorso 17 aprile,
come anticipato sul Quotidiano del Sole 24 Ore - Condominio
il 2 aprile, la direzione generale per il mercato, divisione
VI, dello Sviluppo economico, che comunque già in passato si
era detto contrario alla doppia attività, ha risposto
chiaramente (protocollo AOO_PIT.U.0128364) che «anche in
questa nuova disciplina permanga l'incompatibilità di detta
attività professionale con quella di amministratore
condominiale: sia ove quest'ultima venga intesa come
professione intellettuale afferente al medesimo settore
merceologico per cui viene esercitata la mediazione
(rientrando, quindi, l'incompatibilità nell'ipotesi della
sopra citata lettera c), sia ove venga considerato l'aspetto
imprenditoriale di rappresentanza di beni afferenti al
medesimo settore merceologico (rientrando, quindi
nell'ipotesi di incompatibilità della lettera a); nonché
trattandosi comunque di evidente conflitto di interesse per
il mediatore immobiliare che, contemporaneamente a curare
per il proprio cliente la vendita/acquisto di un immobile,
lo amministra e lo gestisce per conto del condominio
(lettera d)».
Nella parte finale della risposta il Mise ricorda che lo
svolgimento di attività incompatibili con quella di agente
di affari in mediazione di cui alla legge n. 39/1989
determina, da parte degli uffici camerali, «l'avvio della
procedura di inibizione allo svolgimento di quest'ultima e
la conseguente inibizione alla stessa».
Viene così risolta alla radice (tranne ripensamenti futuri)
la questione che aveva animato il dibattito nel mondo
immobiliare nelle ultime settimane.
«Arco -ha detto il presidente Francesco Schena- non ha
alcuna posizione ideologica sul tema della compatibilità ma
era necessario che gli uffici preposti facessero chiarezza e
che si superasse l'aberrante negazione della natura di
professione intellettuale dell'amministratore posta a
fondamento delle tesi contrarie a quella oggi ribadita dal
ministero»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 23.05.2019 - tratto da
www.fondazionecni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
ristrutturazioni, limiti applicativi
Bonus ristrutturazione edilizia, applicazione limitata. Gli acquirenti di un
immobile oggetto di ristrutturazione e di ampliamento della superficie
utile, potranno fruire della detrazione di cui all'art. 16-bis, comma 3, del
Tuir, il c.d. «bonus fiscale ristrutturazioni», solo per le spese riferibili
alla parte esistente, sul presupposto che i lavori effettuati consistano in
una ristrutturazione senza demolizione dell'edificio esistente e con
ampliamento dello stesso.
Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate con la
risposta 21.05.2019 n. 150.
L'istante è un'impresa immobiliare di costruzione per la rivendita che ha
acquistato una struttura oggetto di intervento edilizio di ristrutturazione
(per circa il 71% dell'edificio) e costruzione di un avancorpo commerciale
(la parte ampliata corrisponde al 29% circa dell'intero complesso).
La
società domanda, quindi, all'Ente impositore se sulle unità immobiliari
cedute i futuri acquirenti potranno godere dell'agevolazione fiscale
disciplinata dall'art. 16-bis del Tuir, consistente in una detrazione dall'Irpef
del 36% delle spese sostenute, fino a un ammontare complessivo delle stesse
non superiore a 48 mila euro.
Il Fisco, dopo un'attenta disamina della normativa in oggetto, e dopo aver
ricordato che ai fini del bonus è necessario che dal titolo amministrativo
di autorizzazione dei lavori, rilasciato dal Comune o da altro ente
competente in tema di classificazioni urbanistiche, risulti che la
volumetria dell'edificio sottoposto a lavori di ristrutturazione rimanga
identica a quella preesistente ai lavori stessi, chiarisce che «nell'ipotesi
di demolizione e ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele
ricostruzione: nell'ipotesi di demolizione e ricostruzione con ampliamento
della volumetria, la detrazione non spetta in quanto l'intervento si
considera, nel suo complesso, una nuova costruzione. Qualora, invece, la
ristrutturazione avvenga senza demolizione dell'edificio e con suo
ampliamento, la detrazione compete solo per le spese riferibili alla parte
esistente, in quanto l'ampliamento configura, comunque, una nuova
costruzione»
(articolo ItaliaOggi del 22.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Gli
incarichi dirigenziali non possono essere solo fiduciari.
Il tema delle regole per conferire gli incarichi dirigenziali della pubblica
amministrazione è quanto mai attuale ed è attraversato da questioni sempre
più rilevanti: basti pensare alle recenti indagini penali e a quelle per
responsabilità contabile che evidenziano l'esigenza di un intervento
chiarificatore del legislatore in grado di fare sintesi tra il necessario
rapporto fiduciario alla base dell'incarico e la scelta della migliore
professionalità, previa selezione pubblica trasparente e tale da garantire
il buon andamento e l'imparzialità della Pa.
La questione è stata già affrontata dalla legge n. 114/2014, che modificato
con due norme le modalità per nominare i dirigenti: da un lato ha imposto
agli enti locali una selezione pubblica volta ad accertare il possesso di
una comprovata esperienza pluriennale e una specifica professionalità nelle
materie oggetto dell'incarico, dall'altra, in relazione agli incarichi
regionali, ha introdotto il tema della selezione pubblica «per la dirigenza
regionale e la dirigenza professionale, tecnica ed amministrativa degli enti
e delle aziende del Servizio sanitario nazionale» rinviando alla «selezione
pubblica ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del testo unico n. 267/2000».
Sulla selezione comparativa ha parlato la Cassazione
In ordine alla selezione comparativa si è già indirettamente espressa la
Corte di Cassazione -Sezione unite civili (sentenza 27.02.2017 n.
4881) così come la Corte dei conti che in varie decisioni ha ritenuto
illegittimi i conferimenti effettuati senza il rispetto d'idonea pubblicità
dei posti vacanti ovvero in assenza delle procedure valutative; ciò perché
il descritto procedimento è improntato al duplice obiettivo di contemperare
sia l'interesse dell'amministrazione ad attribuire il posto al soggetto più
idoneo, in ossequio al principio del buon andamento, sia ad assicurare la
parità di trattamento e le legittime aspirazioni degli interessati.
Il previo esperimento delle procedure di interpello corrisponde, come più
volte affermato dalla Corte dei Conti, sia alla necessità di assicurare la
soddisfazione delle esigenze di trasparenza, non discriminazione e buona
amministrazione, sia a tener conto delle aspirazioni degli interessati.
La sentenza
L'occasione per tornare sul tema è offerta da una recente decisione del
Tribunale di Catanzaro (Ordinanza n. 3474/2019) nella quale è affrontato,
con una visuale molto particolare, il potere privatistico di conferimento
dell'incarico dirigenziale di cui è titolare la pubblica amministrazione in
qualità di datore di lavoro, in conformità ai principi di buona fede e
correttezza nell'esercizio del potere negoziale.
Il Tribunale, partendo dall'obbligo previsto dall'articolo 19, comma 1-bis,
del Dlgs 165/2001, ricava che «la ragione ultima della norma -espressione
dell'articolo 97 Costituzione e del principio di ponderata separazione tra
politica e amministrazione- è quella di escludere la possibilità di
conferimenti di incarichi dirigenziali meramente fiduciari».
È necessaria,
invece, «l'imposizione di una selezione fondata su criteri predeterminati e
conoscibili, di carattere obiettivo e di natura tecnico-professionale». Per
il Tribunale di Catanzaro «l'amministrazione deve realizzare una procedura
selettiva, di natura non concorsuale» con un giudizio di idoneità utile
all'affidamento dell'incarico dirigenziale, completo degli elementi e delle
connessioni valutative di natura prettamente tecnico-professionale.
Per il Giudice è «dovere per l'amministrazione» predeterminare i criteri di
scelta e dei limiti prescritti, precisi ma adeguatamente elastici,
confermando l'impostazione della prevalente giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato n. 2947/2013) e di quella ordinaria per la quale lo
scopo della procedura selettiva è quello di «fornire all'amministrazione,
cui compete la scelta del soggetto al quale conferire l'incarico
dirigenziale, una rosa di candidati qualificati in possesso di
caratteristiche professionali corrispondenti ai criteri predeterminati e
idonei a ricoprire tale incarico e rispetto ai quali la Pa è chiamata ad
effettuare una scelta» (sentenza Corte di Cassazione del 14.04.2008 n.
9818).
Una fattispecie caratterizzata non dalla definizione di una graduatoria
vincolante per la scelta, quanto da un confronto comparativo ispirato
all'imparzialità, alla ragionevolezza e all'osservanza dei principi
costituzionali del buon andamento, dell'efficienza e dell'agire pubblico.
La novità
La novità introdotta dal giudice calabrese sta nella necessità da parte
dell'amministrazione di modellare adeguatamente il procedimento ed i
presupposti sui quali fondare il giudizio di idoneità. È su questo dovere
che la decisione pare innovare, imponendo alla Pa di predeterminare i
criteri di scelta ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione
dirigenziale. La predeterminazione dei criteri di scelta costituisce,
quindi, l'impalcatura di sostegno all'esercizio del conferimento, poiché
sono le regole di selezione a determinare il giudizio d'idoneità per
l'incarico dirigenziale, a conformare la struttura.
Solo la predeterminazione dei criteri di scelta assicura il buon andamento e
l'imparzialità dell'amministrazione, il rispetto della buona fede e della
correttezza contrattuale ed è insufficiente un'apparente predeterminazione
dei criteri di selezione.
Occorre elaborare una «forma di selezione che, per quanto non abbia natura
concorsuale in senso stretto, è tuttavia comunque basata sull'apprezzamento
oggettivo, ed eventualmente anche comparativo, delle qualità professionali e
del merito» ed evitare, quindi, che l'affidamento di un incarico volto
all'attuazione dell'indirizzo politico, e non alla sua formazione, «possa
avvenire in base ad una mera valutazione soggettiva di consentaneità
politica e personale fra nominante e nominato» (Corte costituzionale n.
34/2010).
La fittizia e apparente predeterminazione dei criteri di scelta, vulnerando
la necessaria conoscibilità dei medesimi, elide i principi di buona fede e
correttezza, conducendo ad un conferimento solo apparentemente motivato,
sottratto ad un effettivo controllo giurisdizionale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
risultato di amministrazione finanzia la «buonuscita» del sindaco.
L'imminente svolgimento delle consultazioni amministrative per il rinnovo
degli organi, che coinvolge circa la metà dei Comuni italiani, è l'occasione
per fare il punto sugli adempimenti contabili cui sono chiamati i servizi
finanziari in relazione all'elezione del sindaco.
Indennità di fine mandato
L'articolo 82, comma 8, lettera f), del Dlgs n.
267/2000 ha introdotto l'indennità di fine mandato. Si tratta di
un’integrazione dell'indennità di funzione prevista in favore del sindaco
alla fine dell'incarico amministrativo. L'istituto è regolato dall’articolo
10 del Dm Interno n. 119/2000, che ne ha stabilito la misura in un'indennità
mensile spettante per ogni 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per
periodi inferiori all'anno. Successivamente il comma 719 della legge
296/2006 ha previsto che, dal 01.01.2007, l'indennità di fine mandato
del sindaco spetti solamente «nel caso in cui il mandato elettivo abbia
avuto una durata superiore a trenta mesi».
Il ministero dell'Interno, con la circolare n. 5/2000 e poi con la circolare
n. 4/2006, ha ribadito quanto già definito in merito dal Consiglio di Stato
(parere espresso nell'adunanza della prima sezione del 19.10.2005),
cioè che l'indennità di fine mandato deve essere commisurata all'importo
effettivamente corrisposto al sindaco e non all'importo teorico spettante in
base al Dm 119/2000, e va ridotta proporzionalmente per periodi inferiori
all'anno. Se il sindaco ha rinunciato a percepire l'indennità, per effetto
del divieto di cumulo o di autonoma scelta, nulla è quindi dovuto per la
fine del mandato.
Il diritto del sindaco a percepire l'indennità di fine mandato sorge al
momento della cessazione della carica e al verificarsi delle condizioni
descritte, anche in caso di rielezione. Quindi il pagamento è sempre dovuto
e la spesa dovrà essere finanziata (ad eccezione del rateo maturato nel
2019) mediante applicazione della quota accantonata nel risultato di
amministrazione 2018, in base al punto 5.2, lettera i) del principio
contabile allegato 4/2 al Dlgs 118/2011.
Gli enti che non avessero
provveduto in tal senso dovranno quindi attendere l'insediamento del
consiglio comunale e l'approvazione della variazione di bilancio, non
risultando corretto l'utilizzo delle risorse destinate ordinariamente al
pagamento delle indennità di funzione.
Il legislatore non ha fissato un termine per la liquidazione, che potrà
avvenire anche a distanza di qualche mese. La mancata erogazione è soggetta
a prescrizione, in relazione alla quale si applica il termine quinquennale
previsto dall'articolo 2948, n. 5, del Codice civile (parere del Ministero
dell'interno del 28.01.2010, Corte dei conti Molise, delibera n.
61/2009 e Corte dei conti Abruzzo, delibera n. 149/2018).
L’indennità è soggetta a tassazione separata ai fini Irpef e concorre a
determinare la base imponibile Irap (risoluzione agenzia delle Entrate del
15.04.2010 n. 29/E ).
Verifica straordinaria di cassa
L'articolo 224, comma 1, del Tuel prevede che in caso di mutamento della
persona del sindaco si proceda alla verifica straordinaria di cassa, a cui
devono intervenire «gli amministratori che cessano dalla carica e coloro che
la assumono, nonché il segretario, il responsabile del servizio finanziario
e l'organo di revisione dell'ente». Gli enti non dovranno procedere ad
alcuna verifica nel caso in cui, invece, vi sia una riconferma del sindaco
uscente.
Il Tuel demanda al regolamento comunale di contabilità la
disciplina delle modalità di svolgimento di tale verifica ed in particolare
i tempi entro cui svolgerla, che comunque devono essere contenuti nell'arco
di pochi giorni. La verifica straordinaria di cassa deve riguardare non
solamente i fondi liquidi disponibili presso la Banca d'Italia, ma anche
quelli giacenti sui conti correnti postali o bancari, i depositi azionari e
la verifica dei conti degli agenti contabili a denaro.
Comunicazione variazione legale rappresentante
Altri adempimenti importanti riguardano la variazione del legale
rappresentante dell'ente agli enti esterni, da attivare in caso di mutamento
della persona del sindaco (in particolare Agenzia delle entrate, Inail, Inps).
Infatti, non essendo i comuni tenuti all'iscrizione al registro imprese, la
comunicazione della modifica del legale rappresentante rappresenta un
obbligo posto in capo ai singoli enti. Le comunicazioni devono essere
inviate entro 30 giorni dalla proclamazione del sindaco, pena l'applicazione
di sanzioni.
Linee programmatiche e Dup
La presentazione delle linee programmatiche di mandato, da effettuarsi entro
45 giorni dall'insediamento in base all'articolo 46, comma 3, del Tuel,
influenzerà la redazione del documento unico di programmazione (Dup), sia
con riferimento alla strategia della nuova amministrazione che della parte
strettamente operativa e contabile.
Le linee programmatiche, infatti,
consistono in un documento, che contiene gli indirizzi, gli obiettivi e le
più significative iniziative, nonché l'elenco delle opere pubbliche che si
intende finanziare durante il corso del mandato. Il documento, inoltre,
contiene per sommi capi i riferimenti alle quantità di risorse finanziarie
necessarie ed alle modalità con cui si intende reperirle.
La relazione di inizio mandato
All'inizio del nuovo mandato politico-amministrativo, è necessario redigere
la relazione che consiste in un documento di analisi utile a verificare lo
stato di salute finanziaria e patrimoniale e la misura dell'indebitamento
dell'ente, nonché ad evidenziare eventuali scostamenti rispetto alla
relazione di fine mandato, già redatta dall'amministrazione uscente.
Il
documento, previsto dall' articolo 4-bis del Dlgs 149/2011 dovrà essere
redatto dal responsabile finanziario o dal segretario dell'ente e
sottoscritta dal sindaco/presidente entro 90 giorni dall'insediamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni
economiche solo per metà dei dipendenti della categoria.
Le progressioni economiche all'interno della categoria possono essere
riconosciute a una quota limitata di dipendenti, vincolo che deve essere
tradotto in una quantità massima non eccedente il 50% degli aventi diritto.
È l'importante chiarimento contenuto nella
circolare 16.05.2019 n. 15 della Ragioneria
generale dello Stato sul conto annuale per l'anno
2018.
Con la riforma Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo 23), partendo dalla
considerazione che deve trattarsi di uno strumento premiale, le progressioni
economiche vengono legate non solo alle risorse disponibili, che devono
avere carattere di stabilità, ma anche a un concetto di selettività.
Principio che viene introdotto anche nel Dlgs 165/2001, e, in particolare,
all'articolo 52, comma 1-bis. Tale selettività viene declinata, dalla stessa
riforma Brunetta, in una formula che vuole il riconoscimento «a una quota
limitata di dipendenti».
Ma anche questa locuzione non ha contribuito alla serenità degli operatori
ed è iniziato il toto interpretazione di quale fosse l'altezza
dell'asticella che consentisse di dormire sonni tranquilli. Un numero, fino
ad oggi, non era mai stato pronunciato, ma si potevano registrare una serie
infinita di pronunce della Corte dei conti che condannavano al danno
erariale i responsabili che avevano disposto il riconoscimento dell'istituto
in questione per la quasi totalità dei dipendenti. I sindacati, pure
firmatari del contratto decentrato dove vengono decise le progressioni, ad
oggi, non sono stati mai chiamati a rispondere in caso di illegittimità.
Un anno fa
A parlare di quantità ha iniziato l'anno scorso la Ragioneria dello Stato,
con la circolare sul conto annuale 2017, quando, a proposito delle
progressioni, ha scritto che la misura del grado di selettività può
ritenersi convenzionalmente inferiore o uguale al 50%.
Quest'anno la stessa Ragioneria ha fatto un ulteriore passo in avanti. Parte
facendo riferimento al disposto del Ccnl delle funzioni locali sottoscritto
il 21.05.2018, dove, all'articolo 16, comma 2, viene ripreso il concetto
di quota limitata di dipendenti ed afferma che questo «è da intendersi
riferito a non oltre il 50% degli aventi diritto ad accedere alla
procedura».
Quindi la percentuale non è riferita a tutti i lavoratori dell'ente, ma a
quella parte di questi che sono in possesso dei requisiti, stabiliti in sede
di contrattazione decentrata, anche se il Ccnl ne detta uno, minimale: 24
mesi di permanenza nella posizione economica in godimento. Quindi per
calcolare il 50% si devono escludere, quantomeno, i dipendenti che hanno già
usufruito di una progressione orizzontale nell'ultimo biennio. Facendo due
conti, il primo anno può essere riconosciuto il beneficio alla metà degli
aventi diritto. La tornata successiva, questi ultimi non possono partecipare
per il vincolo dei 24 mesi di permanenza nella posizione economica in
godimento e, quindi, può prendere parte alla selezione solo l'altra metà dei
dipendenti e, di questi, solo al 50% può essere attribuita la progressione.
In pratica il 25% dei lavoratori. La mente va alle mitiche fasce di
brunettiana memoria, oggi abrogate formalmente, le quali prevedevano che il
premio fosse riservato alle prime due delle predette fasce, per un totale
del 75% dei dipendenti, lasciando a bocca asciutta il restante 25%
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Al via il monitoraggio delle posizioni organizzative.
Dopo le novità dell’ultimo contratto nazionale c'era davvero d'aspettarsi
che anche la rendicontazione sulle spese di personale delle pubbliche
amministrazioni si adeguasse al fatto che i valori della retribuzione di
posizione e di risultato sono ricompresi nel tetto del trattamento
accessorio previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
I versanti di principale analisi sono due: da una parte vengono chieste
informazioni su quanto l'ente ha stanziato per l'istituto e dall'altra si
chiedono dati in merito all'utilizzo di tale somme.
Posiziono organizzative
Compare per la prima volta una sezione speciale denominata «Posizioni
organizzative (bilancio)» della Tabella 15 . La precisazione sta nel fatto
che tali somme non vengono più prelevate dal fondo del trattamento
accessorio, ma per tutti gli enti costituiscono stanziamenti di bilancio.
Nella tabella a sinistra vanno indicate tre possibili informazioni. Il punto
fermo da cui si muove la rilevazione è costituito dal riportare quante somme
sono state destinate all'istituto nel 2017. È, infatti, tale valore che
costituisce il punto di partenza anche per "capire" se è necessario una
qualche relazione sindacale. Le altre due voci, di conseguenza, sono quelle
destinate a monitorare se l'ente, nell'anno della rilevazione ha aumentato o
diminuito il valore dell'anno 2017. Va da sé, che per rimanere nel «tetto»
dell'anno 2016 l'utilizzo di tale possibilità deve essere compensato da
medesime valorizzazioni sulle altre poste del fondo. Non a caso, all'interno
della sezione «Decurtazioni» è stata inserita anche la voce «Decurtazione
somme destinate alle p.o.», per garantire l'invarianza nel rispetto del
limite complessivo.
Ricordiamo, anche, le regole introdotte dal Ccnl 21.05.2018: se l'ente
stanzia meno somme per le posizioni organizzative, in sede di confronto con
i sindacati, si valutano le facoltà per poter integrare altre voci del fondo
dei dipendenti. Se, invece, l'ente vuole stanziare di più per le p.o. è
necessario che l'azione venga contrattata con le rappresentanze sindacali.
Le modalità di utilizzo
Nella sezione a destra della Tabella 15 vengono invece raccolte le modalità
di utilizzo. Per l'istituto in esame troviamo tre caselle di compilazione.
La parte più importante è costituita dalla retribuzione di posizione, che
per le categorie D può variare da 5mila a 16.000 euro.
Poi va indicata, altresì, la quota della retribuzione di risultato che non
può essere inferiore al 15% dell'intera somma destinata alle posizioni
organizzative. Da ultimo viene prevista anche l'indicazione delle somme
erogate per «interim» ovvero quanto una p.o. sostituisce un suo collega. In
questo caso, la maggiorazione che viene riconosciuta varia dal 15 al 25%
della posizione sostituita
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.05.2019). |
APPALTI:
Appalti, lo stato di avanzamento fa scattare i termini per i
pagamenti. A partire dal 28 maggio, calendario più stretto nei lavori e
nelle forniture.
Le amministrazioni devono effettuare i pagamenti degli
stati di avanzamento degli appalti entro 30 giorni, salvo diverso termine
stabilito nel contratto per giustificate ragioni; in ogni caso mai oltre i
60 giorni.
L’articolo 5 della legge europea (n. 37/2019) traspone negli appalti
pubblici, con vigenza dal 28 maggio, gli effetti della seconda direttiva
pagamenti. La norma riformula l’articolo 113-bis del Dlgs 50/2016 e
individua i riferimenti per il versamento dei corrispettivi agli
appaltatori, modificando lo schema temporale ormai consolidato in base
all’articolo 4, comma 4 del Dlgs 231/2002.
La norma stabilisce anzitutto che i pagamenti relativi agli acconti del
corrispettivo di appalto sono effettuati nel termine di 30 giorni
dall’adozione di ogni stato di avanzamento dei lavori, salvo che sia
espressamente concordato nel contratto un diverso termine. Termine che
comunque non può superare i 60 giorni, e che deve essere oggettivamente
giustificato dalla natura particolare del contratto o da alcune sue
caratteristiche.
Si specifica quindi come momento di decorrenza del termine quello di
formalizzazione dello stato di avanzamento lavori, rispetto al quale le
amministrazioni devono emettere contestualmente (o al massimo entro sette
giorni) i certificati di pagamento relativi agli acconti del corrispettivo.
L’applicazione del nuovo sistema anche ai servizi e alle forniture di beni è
rilevabile nel comma 2, il quale prevede che all’esito positivo del collaudo
o della verifica di conformità (e comunque entro sette giorni) il
responsabile unico del procedimento rilasci il certificato di pagamento per
l’emissione della fattura da parte dell’appaltatore; il pagamento è
effettuato nel termine di 30 giorni decorrenti dall’esito positivo del
collaudo o della verifica di conformità, salvo che sia espressamente
concordato nel contratto un diverso termine. Ancora una volta, il tetto è di
60 giorni e serve la motivazione oggettiva.
Per gli appalti di servizi e di forniture (nei quali la verifica di
conformità in corso di esecuzione è spesso sistematizzata in relazione a
scansioni temporali anche brevi), il pagamento deve avvenire entro 30 giorni
dall’esito positivo delle verifiche.
Sia nell’ambito dei lavori sia in quello dei servizi e delle forniture il
termine di pagamento può essere esteso a un massimo di 60 giorni, ma sulla
base di una specifica indicazione contrattuale e solo quando sussistano
ragioni connesse agli elementi peculiari dell’appalto (per esempio
particolari tipologie di prestazioni con consegna immediata).
In entrambe le macro-tipologie di appalti il responsabile unico del
procedimento deve rilasciare, contestualmente all’adozione degli stati di
avanzamento lavori o all’esito del collaudo o della verifica, il certificato
di pagamento, in rapporto al quale l’appaltatore emetterà la fattura
elettronica. L’emissione del certificato può essere posticipata al massimo
di sette giorni.
La nuova disposizione chiarisce che il certificato di pagamento non
costituisce presunzione di accettazione dell’opera in base all’articolo
1666, comma 2 del Codice civile.
Il comma 4 del riformulato articolo 113-bis del Codice degli appalti replica
il comma 2 della disposizione originaria, che configura la disciplina per
l’applicazione delle penali negli appalti pubblici. E conferma che la
definizione delle penali deve essere operata dai contratti, commisurandole
ai giorni di ritardo e in misura proporzionale rispetto all’importo
contrattuale o alle prestazioni. Il riferimento per il calcolo della misure
giornaliera rientra nel range compreso tra lo 0,3 per mille e l’1 per
mille dell’ammontare netto contrattuale.
Le stazioni appaltanti devono determinare le penali in relazione all’entità
delle conseguenze legate al ritardo, considerando che in caso di sommatoria
il superamento del valore del 10% dell’ammontare netto contrattuale si
configura come causa di risoluzione del contratto (articolo Il Sole 24
Ore del 20.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni solo con il via libera dei revisori contabili. I
controllori dovranno certificare il rispetto degli equilibri pluriennali.
Aumentano i controlli sulla spesa di personale per i
revisori dei conti.
La nuova disciplina delle assunzioni introdotta dal decreto crescita
(articolo 33, comma 2 del Dl 34/19) stabilisce l’obbligo di asseverazione
del rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio nei Comuni che vogliono
effettuare assunzioni a tempo indeterminato.
I nuovi reclutamenti, da programmare in coerenza con i piani triennali dei
fabbisogni, non potranno determinare una spesa complessiva per tutto il
personale dipendente (al lordo degli oneri riflessi) superiore al valore
soglia definito come percentuale, differenziata per fascia demografica,
delle entrate relative ai primi tre titoli del rendiconto dell’anno
precedente, al netto del fondo crediti dubbia esigibilità nel bilancio di
previsione (Anci ha chiesto di aggiungere la precisazione di parte
corrente).
Questa norma cambia le capacità assunzionali dei Comuni, sostituendo il turn
over con un sistema basato sulla sostenibilità finanziaria della spesa.
Con decreto interministeriale, da emanare entro fine giugno, saranno
individuate le fasce, i valori soglia prossimi al valore medio per singola
fascia e le percentuali massime annuali di incremento del personale in
servizio per i Comuni sotto la soglia. L’aggiornamento dei parametri di
calcolo potrà essere quinquennale.
I Comuni che si collocheranno sopra la soglia dovranno adottare un percorso
di graduale riduzione annuale del rapporto, fino al conseguimento del valore
soglia nel 2025 anche applicando un turn over inferiore al 100%. Dal 2025
questi Comuni applicheranno un turn over del 30%, fino al conseguimento del
valore soglia.
I revisori saranno chiamati in causa con l’obbligo di asseverazione del
rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio. Il punto di riferimento
per questo adempimento è il prospetto di verifica degli equilibri allegato
al bilancio di previsione e alle sue variazioni, dove sono rappresentati gli
equilibri finanziari per le tre annualità del bilancio. La firma si aggiunge
a quella sulla delibera di approvazione dei fabbisogni di personale,
nell’ambito della quale occorre dar conto della compatibilità della
programmazione con i vincoli di bilancio.
Non è chiara invece la sorte degli ulteriori tetti e limitazioni alla spesa
di personale, non espressamente abrogati nella norma (Sole 24 Ore di lunedì
scorso). Anci ha inserito fra le proposte di emendamenti la loro
disapplicazione per evitare ulteriori stratificazioni normative. Si tratta,
in particolare, del vincolo per cui la politica retributiva e assunzionale
degli enti locali deve comunque essere attuata all’interno dei vincoli di
contenimento della spesa di personale fissati ai commi 557 e 562 della legge
296/2006 per gli enti già assoggettati oppure esclusi dal vecchio patto di
stabilità.
I Comuni con più di mille abitanti sono tenuti ad assicurare il contenimento
delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio
2011/2013. Gli altri sono invece obbligati a mantenere le spese di personale
entro il corrispondente ammontare del 2008 le proprie spese di personale, al
lordo degli oneri riflessi e dell’Irap, con esclusione degli oneri relativi
ai rinnovi contrattuali.
Per chi non rispetta i vincoli sulla spesa di personale si bloccano le
assunzioni a qualsiasi titolo. Agli enti inadempienti è preclusa anche la
possibilità di alimentare il fondo delle risorse decentrate con quote
aggiuntive variabili.
Ulteriori limiti di contenimento disciplinano poi le spese relative ai
rapporti di lavoro flessibile (articolo
Il Sole 24 Ore del 20.05.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Cambia
il sindaco, obbligatoria la verifica straordinaria di cassa.
In molti Comuni interessati dalle prossime consultazioni
per l'elezione diretta dei sindaci e dei consigli comunali (26 maggio con
eventuale ballottaggio il 9 giugno), si dovrà procedere a una verifica
straordinaria della cassa.
É opportuno, sin d'ora, interessare gli uffici preposti per raccordare e
regolarizzare con il tesoriere le partite sospese/vaganti, carte contabili,
pignoramenti, riscossioni e pagamenti non contabilizzati.
Sarà utile aggiornare i flussi di cassa riportando in bilancio, con
l'emissione di reversali, quelle somme extracontabili giacenti su conti
correnti postali o bancari ottemperando all'obbligo stabilito dalle norme di
tesoreria unica di riversamento quindicinale delle disponibilità da
utilizzare prioritariamente rispetto ai fondi in tesoreria unica,
infruttiferi di interessi (circolare Mef 24.03.2012 n. 11 prot. 20131-
articolo 1, comma 1, legge 720/1984).
L'organo di revisione ancora prima di ricevere i dati trattati e aggiornati
dagli uffici ha la possibilità di conoscere, con indipendenza, la
consistenza dei flussi di cassa del tesoriere segnalati nel sito web Siope
all'indirizzo
https://www.siope.it/Siope/ cliccando la sezione "Enti" per
conoscere i dettagli giornalieri o con la periodicità desiderata.
Analogamente è possibile consultare on-line presso la banca d'Italia dal
sito web www.bancaditalia.it
(sezione Compiti/Tesoreria/Estratti conto on line), previo accreditamento,
le varie sintesi delle somme transitate in BankItalia n base al modello 56T
(mensile) e al 3TesUn (giornaliero).
Definizione dell'obbligo
L'articolo 224 del Tuel stabilisce che si debba procedere alla verifica
straordinaria ogni qualvolta cambi il sindaco anche metropolitano ovvero il
presidente della Provincia o di Comunità montana.
Alle operazioni di verifica straordinaria intervengono gli amministratori
che cessano dalla carica e quelli che la assumono, nonché il segretario, il
responsabile del servizio finanziario e l'organo di revisione dell'ente.
Viceversa il tesoriere dell'ente è tenuto nel corso dell'esercizio alla
conservazione e custodia dei verbali redatti (articolo 225).
Regolamento di contabilità
Il regolamento di contabilità in forza dell'articolo 74 del Dlgs n. 118/2011
- punto 51) articolo 3 del Dlgs 126/2014 disciplina le modalità di
svolgimento delle operazioni di verifica in deroga ai principi generali con
valore di limite inderogabile che ne escludevano la pianificazione (articoli
1, comma 3 e 152, comma 4, del Tuel 267/2000).
Principi, caratteristiche e contenuti del verbale
La verifica straordinaria di cassa si articola in tre momenti fondamentali:
verifica e raccordo interno del conto di diritto dell'ente; verifica e
raccordo con il conto di fatto del tesoriere; verifica e raccordo del conto
del tesoriere con il conto della Banca d'Italia per le transazioni/partite
giornaliere non compensate degli ultimi 3 giorni lavorativi come da questo
schema.
Una volta definita la parte contabile di riconciliazione e concordanza dei
dati (situazione diritto/di fatto/bankit) si potrà procedere alla verifica
dei saldi della cassa vincolata totalizzando le movimentazioni intervenute
in tesoreria di residui passivi vincolati e fondo pluriennale vincolato
(spesa) al 31 dicembre contrapposte ai residui attivi vincolati - principio
contabile allegato 4/2 Dlgs 118/2011, punto 10.6 contabilità finanziaria.
Un adempimento non puntuale è considerato dalla Sezione Autonomie della
Corte dei conti se in grado di incidere negativamente sulle risultanze
(deliberazione n. 31 del 19.11.2015). Altri elementi da indicare vengono
disposti dal regolamento di contabilità tenendo presente che per motivi di
ragionevolezza e buon andamento, con criteri di efficacia ed efficienza, è
conveniente indicare le risultanze dei conti correnti
bancari/postali/tesoreria Stato acquisendo agli atti la situazione delle
eventuali anticipazioni di tesoreria e dei conti degli agenti contabili
anch'essi verificabili on-line dal portale SOLe della Corte dei conti, conto
Sireco on-line (articolo 138, comma 1, del Dlgs 26.08.2016 n. 174).
Responsabilità dell'organo di revisione
I componenti dell'organo di revisione sono considerati pubblici ufficiali e
in quanto tali, nello svolgimento delle proprie funzioni, possono incorrere
in abuso di ufficio (articolo 353 codice penale), falso materiale (476 cp),
falso ideologico (479 cp) ma anche nella «culpa in vigilando» (articolo 2407
codice civile) sanzionabile patrimonialmente per inosservanza dolosa o
colposa degli obblighi di servizio. Avviarsi pacatamente all'adempimento,
per tempo debito e con il coinvolgimento professionale degli uffici comunali
e del tesoriere, rappresenta un rimedio infallibile per la ottimale
redazione, senza particolari ansie, della verifica straordinaria di cassa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Decreto
Crescita e posizioni organizzative, corsa contro il tempo per gli Enti senza
dirigenti.
Corsa contro il tempo per poter adeguare il valore delle posizioni
organizzative dei Comuni privi di dirigenti con equivalente riduzione delle
capacità assunzionali da inserire, mediante modifica, nella programmazione
del personale, in coerenza con le indicazioni del decreto semplificazioni
(Dl 135/2018).
Infatti, una volta emanato il decreto del ministero della Pubblica
amministrazione, sarà indicata la data di operatività del decreto crescita
(Dl 34/2019) che, invece, prevede per i Comuni (anche con personale
dirigenziale) l'incremento o la riduzione della dote finanziaria per le
posizioni organizzative a seconda della verifica del rapporto tra spesa del
personale e i primi tre titoli delle entrate (al netto del fondo crediti di
dubbia esigibilità stanziato in bilancio).
Le disposizioni del decreto semplificazioni
In sede di conversione in legge del Dd 135/2018, è stato inserito l'articolo
11-bis, comma 2, che ha concesso, ai soli enti locali privi di posizioni
dirigenziali, la possibilità di incrementare il differenziale tra il valore
stabilito dal nuovo contratto delle funzioni locali (fino a 16.000 euro +
risultato) e quello attribuito alla data di entrata in vigore del nuovo
contratto (fino a 12.911,42 + risultato).
Questo incremento è stato, tuttavia, condizionato a due diversi requisiti.
Il primo è che il maggior importo sia finanziato da una equivalente
riduzione finanziaria da «destinate alle assunzioni di personale a tempo
indeterminato» (capacità assunzionale disponibile). La seconda condizione
riguarda il rispetto del limite di spesa che non potrà essere superiore alla
spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013, ovvero, per gli enti con
popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno 2008.
Le nuove disposizioni del decreto crescita
L'articolo 33, comma 2, del Dl 34/2019 ha previsto, invece, che le nuove
assunzioni di personale da parte dei Comuni possano avvenire non più sulla
base delle proprie capacità assunzionali, ma solo qualora rispettino il
valore di un parametro soglia individuato con specifico decreto del
ministero per la Pubblica amministrazione per classe demografica, dato dal
rapporto tra spesa del personale e i primi tre titoli delle entrate (al
netto del fondo crediti dubbi stanziati in bilancio).
Spariscono, pertanto, i due parametri previsti dal decreto semplificazioni,
ossia le capacità assunzionali (date dalle cessazioni dell'anno precedente
cui si aggiungono anche eventuali resti assunzionali del triennio
precedente) e, il rispetto del valore medio della spesa sostenuta nel
triennio 2011-2013, sostituita nel decreto crescita dal rispetto pluriennale
dell'equilibrio di bilancio asseverato dall'organo di revisione.
Applicazione della nuova normativa
La concreta applicazione, tuttavia, contenuta nel decreto Crescita potrà
avvenire esclusivamente dalla data «individuata dal decreto». In altri
termini il decreto del ministero della Pa, previsto entro 60 giorni dalla
data del Dl 34/2019, previa intesa in Conferenza Stato città, dovrà anche
definire la data di applicazione delle nuove disposizioni.
I Comuni, privi
di dirigenti, avranno un ristretto tempo a disposizione per poter ancora
modificare gli importi delle proprie capacità assunzionali per eventualmente
destinarle in parte a incrementare la dote finanziaria delle posizioni
organizzative. Infatti, una volta individuata la data di operatività nel
decreto ministeriale e verificati i valori soglia, i Comuni che rientreranno
tra quelli in cui il rapporto è inferiore al valore soglia potranno
incrementare le proprie assunzioni e dovranno anche aumentare sia il fondo
che il valore economico delle posizioni organizzative in proporzione
all'incremento del valore pro-capite dell'anno di riferimento rispetto
quello al 31.12.2018. Situazione opposta per gli enti non virtuosi che
dovranno, invece, procedere ad una riduzione del salario accessorio anche
per le posizioni organizzative.
Si ricorda come risultano esclusi dalle disposizioni del decreto Crescita le
Città metropolitane, le Province, le Unioni dei Comuni e le Comunità montane
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.05.2019). |
APPALTI: Subappalti
più facili e con maggiori possibilità di utilizzo.
Il subappalto può essere previsto dalla stazione appaltante nei documenti di
gara sino al 50% del valore del contratto e gli aggiudicatari possono
subappaltare a operatori economici che abbiano partecipato alla stessa gara.
Il Dl 32/2019 ha apportato numerose modifiche alla disciplina del
subappalto, determinandone una possibilità di utilizzo più ampia rispetto al
quadro precedente nonché semplificando alcuni aspetti connessi alla
procedura di gara e all'esecuzione.
Le modifiche
La prima conseguenza delle nuove disposizioni riformulate nel comma 2
dell'articolo 105 del codice dei contratti pubblici è la più netta
evidenziazione dell'obbligo di indicazione del subappalto nel bando di gara
(o nella lettera di invito nelle procedure ristrette o negoziate). La
disposizione può essere interpretata anche nel senso di permettere
all'amministrazione di non prevedere il subappalto, non indicandolo nei
documenti di gara.
Rispetto a questa scelta la stazione appaltante deve tener conto
dell'interpretazione estensiva dell'istituto in ambito eurounitario (nel
quale il subappalto è considerato uno strumento di flessibilizzazione
organizzativa ampiamente utilizzabile dagli operatori economici) e delle
indicazioni della giurisprudenza, che rispetto al regime previgente hanno
ammesso l'esclusione, ma solo se motivata in rapporto a peculiarità
dell'appalto.
La stazione appaltante ha in ogni caso la possibilità di determinare il
dimensionamento quantitativo dell'appalto entro la soglia del 50% del valore
del contratto (con l'unica eccezione per le opere super-specialistiche, per
cui il limite rimane al 30%), eventualmente tenendo conto anche delle
specificità dei lavori, dei servizi o delle forniture oggetto dell'appalto
stesso.
In relazione alla procedura di affidamento il Dl 32/2019 ha abrogato il
comma 6 dell'articolo 105 del Dlgs 50/2016, eliminando l'obbligo di
indicazione della terna dei subappaltatori da parte dei concorrenti in sede
di partecipazione alla gara, ma rimane per gli operatori economici la
specificazione in sede di offerta delle parti che intendono subappaltare, se
vogliono poi esercitare la facoltà nel corso dell'esecuzione dell'appalto.
Protocolli di legalità
Il decreto Sblocca-cantieri, abrogando la disposizione contenuta nella
lettera a) del comma 4 dell'articolo 105 consente ora all'aggiudicatario di
subappaltare a un altro operatore economico che abbia partecipato alla
stessa gara.
L'eliminazione della disposizione che vietava la relazione ex post tra
soggetti partecipanti alla stessa gara deve essere considerata anche in
rapporto ai protocolli di legalità, in uso in molti contesti territoriali al
fine di contrastare le infiltrazioni negli appalti delle organizzazioni
criminali, per verificare se incide sugli stessi (determinando la
disapplicazione delle clausole) o se non ne tocca la portata applicativa
come strumenti integrativi della lex specialis con particolare
finalità di garanzia dell'ordine pubblico.
Nell'esecuzione dell'appalto la stazione appaltante non deve più pagare
direttamente i subappaltatori per la sola configurazione degli stessi come
micro o piccole imprese, ma solo in caso di inadempimento da parte
dell'appaltatore o se vi sia una specifica richiesta da parte del
subappaltatore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019). |
APPALTI: Sblocca-cantieri,
nei mercati elettronici semplificate le verifiche sui requisiti generali.
I soggetti che gestiscono mercati elettronici verificano la sussistenza dei
requisiti generali degli operatori economici iscritti su un significativo
campione degli stessi, mentre le amministrazioni che affidano appalti con le
procedure semplificate, sempre nell'ambito dei stessi mercati elettronici,
devono solo verificare i requisiti di capacità.
Dopo le modifiche alle procedure di gara che comportano adeguamento di
bandi-tipo e altri documenti sia per agli affidamenti sopra-soglia sia per
quelli sotto-soglia (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del
29 aprile) e aver ridefinito complessivamente il quadro dei presupposti per
rilevare le offerte anomale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della
Pa del 30 aprile), il Dl n. 32/2019 modifica anche le regole per verificare
l'assenza delle cause ostative previste dall'articolo 80 del codice dei
contratti pubblici per l'ammissione e per la permanenza nei mercati
elettronici, sostituendo il precedente quadro di riferimento, che su questo
impegnava i soggetti gestori solo per gli affidamenti di importo inferiore a
40mila euro e manteneva il controllo dei requisiti sull'aggiudicatario.
La novità
Il nuovo comma 6-bis stabilisce che per l'ammissione e la permanenza degli
operatori economici nei mercati elettronici il soggetto responsabile
dell'ammissione verifica l'assenza dei motivi di esclusione previsti
dall'articolo 80 su un campione significativo di operatori economici,
ampliando la portata della vecchia norma a tutta l'area del sottosoglia e
valorizzando l'utilizzo della banca dati nazionale degli operatori
economici, quando sarà operativa.
Il dato più singolare e probabilmente più innovativo sta nel successivo
nuovo comma 6-ter, articolo 36 del codice, il quale stabilisce che nelle
procedure di affidamento effettuate nell'ambito dei mercati elettronici, la
stazione appaltante verifica esclusivamente il possesso da parte
dell'aggiudicatario dei requisiti economici e finanziari e tecnico
professionali: tale previsione consente alle amministrazioni che utilizzano
le procedure semplificate dei mercati elettronici (sia per gli affidamenti
diretti sia per le mini-gare) di sottoporre a verifica ai fini
dell'aggiudicazione solo i requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-professionale, potendo assumere come sussistenti quelli di ordine
generale, in quanto sottoposti al meccanismo di verifica continua sviluppato
dal soggetto gestore.
Tale interpretazione sembra essere sostenuta dalla nuova configurazione del
processo di verifica, in quanto nelle due disposizioni e nel successivo
(anch'esso nuovo) comma 6-quater non c'è alcun riferimento all'obbligo di
verifica specifica dei requisiti in capo all'aggiudicatario, come invece
c'era nel previgente dato normativo.
Formulari semplificati
Proprio il nuovo comma 6-quater, inoltre, nello stabilire per i soggetti
gestori di mercati elettronici la possibilità di utilizzare formulari
semplificati in luogo del documento di gara unico europeo mediante i quali
richiedere e verificare il possesso dei requisiti di cui all'articolo 80 e
ogni eventuale ulteriore informazione necessaria all'abilitazione o
all'ammissione, prevede che nell'ambito della fase del confronto competitivo
la stazione appaltante utilizza il dgue solo per richiedere eventuali
informazioni, afferenti la specifica procedura, ulteriori a quelle già
acquisite in fase di abilitazione o ammissione.
Pertanto, tale disposizione conferma che il soggetto gestore acquisisce e
verifica i requisiti di ordine generale e gli altri necessari all'ammissione
e alla permanenza dell'operatore economico nel mercato elettronico, mentre
la stazione appaltante deve limitarsi ad acquisire e verificare solo quelli
di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale eventualmente
richiesti in relazione alla singola procedura di affidamento.
La particolare innovazione procedurale, peraltro, è limitata alle procedure
gestite nell'ambito dei mercati elettronici (come evidenziato anche dalla
relazione accompagnatoria del Dl n. 32/2019), pertanto nel caso di una
procedura gestita con la piattaforma telematica (per esempio una procedura
aperta per lavori non di manutenzione ordinaria di valore inferiore alla
soglia) la stazione appaltante deve richiedere tutti i requisiti e deve
effettuare la verifica sull'aggiudicatario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.05.2019). |
APPALTI: Nello
sblocca-cantieri doppio criterio per rilevare le anomalie nelle offerte.
Le stazioni appaltanti rilevano le offerte anormalmente basse applicando due
sistemi differenziati: in rapporto al numero delle offerte in caso di
utilizzo del criterio del minor prezzo; con il metodo dei quattro quinti in
caso di gara con l'offerta economicamente più vantaggiosa, ma solo se le
offerte sono pari o superiori a tre.
Ridefiniti i presupposti normativi
Il Dl n. 32/2019 ha ridefinito complessivamente il quadro di riferimento dei
presupposti per rilevare le offerte anomale, nonché le condizioni di
utilizzo dell'esclusione automatica delle stesse nelle gare con il prezzo
più basso.
Nelle procedure con la valutazione con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, il comma 3 mantiene come presupposto di
riscontro dell'anomalia la contestuale sussistenza di un valore pari o
superiore ai quattro quinti del punteggio massimo attribuibile sia per il
prezzo sia per la componente tecnico-qualitativa, ma in base
all'integrazione introdotta dal decreto «sblocca cantieri» tale calcolo dev'essere
effettuato solo quando il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore
a tre: in caso di un numero inferiore, l'amministrazione può attivare la più
semplice verifica di congruità.
Le disposizioni del Dl n. 32/2019 incidono in modo più consistente nella
ridefinizione del sistema di rilevazione delle offerte anormalmente basse
nelle gare nelle quali sia utilizzato il criterio del prezzo più basso,
definendo anzitutto due percorsi: uno (regolato dal nuovo comma 2
dell'articolo 97) da applicarsi quando il numero delle offerte sia pari o
superiore a quindici e un altro (disciplinato dal comma 2-bis) da
utilizzarsi quando sia inferiore a quindici.
In entrambi i casi la stazione appaltante deve seguire la sequenza di
operazioni prevista dalla norma, che parte dal calcolo della media dei
ribassi, con conseguente esclusione delle offerte di maggiore e di minore
ribasso (attraverso il «taglio delle ali»), per sostanziarsi, attraverso
l'applicazione di successive operazioni di calcolo degli scarti, nella
definizione della soglia di anomalia, in base alla quale è possibile
individuare la migliore offerta non anomala.
Sistemi di calcolo in evoluzione
I sistemi di calcolo definiti dalle due disposizioni saranno nel tempo
modificati dal ministero delle infrastrutture, con specifico decreto, per
non rendere predeterminabili le soglie.
Il nuovo comma 3-bis dell'articolo 97 stabilisce che i calcoli per la
rilevazione delle offerte anormalmente basse si effettuino solo quando il
numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque. Tale elemento è
rilievante in rapporto a quanto previsto dall'innovato comma 8, il quale
stabilisce sia che la stazione appaltante prevede nel bando di gara o nella
lettera di invito l'esclusione automatica delle offerte nelle gare con il
prezzo più basso per appalti di valore inferiore alle soglie eurounitarie e
che non abbiano rilevanza transfrontaliera (per esempio appalti di lavori di
valore molto prossimo alla soglia di 5.548.000 euro), ma anche che tale
percorso non ha luogo quando il numero delle offerte sia inferiore a dieci.
Le amministrazioni che utilizzino in un appalto sottosoglia il criterio del
prezzo più basso, pertanto:
a) non devono applicare il sistema di calcolo per la rilevazione quando le
offerte siano meno di cinque (ma possono in tal caso comunque effettuare la
verifica di congruità prevista dal comma 6);
b) non possono utilizzare l'esclusione automatica quando le
offerte siano meno di dieci (pertanto, in caso di un numero di offerte tra
cinque e nove, devono sottoporre le anomale a verifica specifica)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
SBLOCCA CANTIERI/ Demolizione e ricostruzione facilitata per chi
mantiene distanze e volumi.
Interventi possibili con Scia se viene rispettata la volumetria esistente
Dalle Regioni indicazioni su altezze e standard per adattarsi alle realtà
locali.
Demolizioni e ricostruzioni più semplici già dal 19 aprile, con l'entrata
in vigore dell'articolo 5 del Dl 32/2019, il decreto sblocca cantieri.
Questo tipo di interventi, infatti, non potrà essere bloccato, anche se
realizzato con Scia, se saranno rispettati alcuni paletti: distanze
preesistenti, sedime, volume dell' edificio e altezze.
Attualmente, sono eseguibili con Scia interventi che rispettino questi
parametri: è ammessa la stessa volumetria, con le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento antisismico (articolo 3, comma 1, lettera d), Dpr 380/2001). Se c'è un vincolo di bene culturale (nei centri storici o
per vincoli specifici), va rispettata anche la «medesima sagoma dell'edificio preesistente»; per procedere con Scia, poi, in zone vincolate non
vi dovranno essere né un «organismo edilizio» in tutto o parte diverso dal
precedente, né modifiche della volumetria complessiva o dei prospetti; per i
beni sottoposti alla tutela culturale, non vi devono essere né mutamenti di
destinazione d'uso né modifiche alla sagoma.
Gli elementi da considerare sono quindi vari (volumetria, area di sedime,
altezza, prospetti) cui si aggiungono, per le zone vincolate, la sagoma e la
destinazione d'uso.
Per un prossimo futuro, le Regioni dovranno anche introdurre (essendo stata
eliminata la sola "possibilità" di introdurre) elementi di deroga al Dm
1444/1968 in tema di zonizzazione e standard, dando indirizzi ai Comuni
anche su altezze e distanze. Di fatto, il decreto ministeriale sarà regionalizzato, cioè adattato alle realtà locali.
Per effetto delle modifiche del decreto legge 32/2019, quindi, diventa più
facile demolire e ricostruire. Si potrà, infatti, sempre fare in regime di
Scia, rispettando le distanze legittimamente preesistenti, purché rimangano
uguali l'area di sedime, il volume e l'altezza massima dell' edificio
preesistente. Maggiori elasticità su distanze e altezze sembrano possibili
soltanto per le ricostruzioni con permessi di costruire (che possono mutare,
in base all' articolo 10 del Dpr 380/2001, la destinazione d'uso e la
sagoma di immobili sottoposti a vincoli), oltre che con piani
particolareggiati e lottizzazioni convenzionate. Vi sarà quindi una forte
pressione sulle Regioni, che dovranno adattare il Dm del 1968 alle esigenze
locali.
Uno dei problemi più rilevanti sarà quello della gerarchia tra il Dm
1444/1968, le norme regionali ed i piani urbanistici comunali, perché si
prevedono leggi regionali che derogheranno al Dm 1444/1968, restituendo alle
Regioni ed ai Comuni la libertà di pianificare senza standard nazionali. Una
via di uscita, seppure impropria, è rappresentata dall'articolo 21-nonies
della legge 241/1990, che cristallizza in 18 mesi i provvedimenti edilizi
(Scia) ottenuti dai privati, rendendoli di fatto irreversibili anche se
illegittimi. Chi sbaglia in buona fede, demolendo e ricostruendo troppo,
deve sperare nella distrazione dei vicini
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.04.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Gli
onesti non crescono nella Pa. E i rappresentanti dei dipendenti pubblici
stanno zitti. È questo che ha detto, in sostanza, il
presidente dell' Anticorruzione Raffaele Cantone.
Un week-end pasquale drammatico (Sri Lanka) e tuttavia pieno di spunti.
Tanti.
Troppi. Mi soffermerò solo su due: le dichiarazioni di Raffaele Cantone,
magistrato penale prestato alla pubblica Amministrazione e l'elezione di Volodomyr Zelensky alla presidenza dell' Ucraina. Cogliendo di sorpresa
estimatori e disistamatori, il presidente dell'Anticorruzione ha dichiarato
che, più o meno, le persone oneste non fanno carriera nell'amministrazione.
Un'affermazione infondata e inaccettabile che getta un'ombra inquietante
sul magistrato (nominato da Matteo Renzi) e sui suoi imprevedibili
pregiudizi. Se lo immaginiamo nello svolgimento, passato e futuro, delle
funzioni di pubblico ministero non possiamo non essere colti dai brividi che
un simile preconcetto può provocare a tutte le persone perbene che operano
nello e per lo Stato.
In un Paese normale, questa dichiarazione inibirebbe l'esercizio del
magistero penale. In Italia no, tanto che lo stesso Cantone è in corsa per
la guida delle procure della Repubblica di Perugia, Torre Annunziata e
Frosinone.
Ciò, pur non avendo «alcuna intenzione di dimettermi da Presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, come riportato da alcuni organi di
stampa, tanto più che l' esito della deliberazione del Csm non è affatto
scontato». Il che pone un' altra questione che spesso, soprattutto in politica, viene
all' evidenza quando, per esempio, un sindaco concorre al parlamento europeo
(per i quale non occorrono preventive dimissioni) senza alcuna certezza di
elezione, mantenendo stretto l'incarico cui è stato nominato e cui ritiene
di poter disporre a proprio piacimento.
È infatti difficile ritenere che Raffaele Cantone abbia presentato la
propria candidatura alle tre procure indicate «senza intenzione».
L'intenzione c'era e c'è, giacché nel metodo cristallino e indipendente
dall'associazionismo giudiziario che presiede al conferimento degli
incarichi direttivi, una candidatura permette di misurare le forze in campo,
gli amici, gli estimatori e i nemici e, quindi, di regolarsi per il futuro.
Insomma la cartina di tornasole intorno alla quale si possono chiarire i
termini del futuro professionale di un magistrato.
Sino al momento in cui scrivo, purtroppo, nessuno dei sindacati della p.a.,
compreso quello dei dirigenti, ha obiettato alcunché, rispetto all'
affermazione diffamatoria del presidente dell'Anticorruzione. In altri
tempi, forse con altre tempre di dirigenti, la cosa avrebbe suscitato tutte
le reazioni che l' ordinamento mette a disposizione dei cittadini per la
tutela della loro onorabilità.
Il secondo elemento di riflessione è l'Ucraina. Volodomyr Zelensky, il
nuovo presidente eletto con oltre il 70% dei consensi è un comico (che
almeno ci ha messo la faccia, non come altri comici che hanno preferito il
ruolo di manovratori), che per alcuni anni s'è esibito in un programma
televisivo di «antipolitica» militante. Poiché il presidente uscente Petro Poroshenko rappresentava il partito amerikano (e si giovava dell' appoggio,
fra l'altro, del movimento neonazista e del suo apparato paramilitare) è
facile immaginare e ritenere che con Zelensky cesserà la politica antirussa
che tante tensioni e tante vittime ha provocato nello scacchiere.
Intendiamoci, Mosca ci ha messo del suo, tanto del suo, nell' intervento in Crimea e nel sostegno alle minoranze russe, ma rimane il fatto che in
Ucraina una specie di «caccia al russo» ci sia stata e sia stata messa in
atto in nome di un cambiamento di fronte del paese. Una sorta di Cuba al
contrario, con l' ex granaio d' Europa nella parte di spina nel fianco degli
eredi dell'Urss.
Niente di più erroneo, tuttavia. Infatti, il neopresidente (privo di forza
parlamentare, che spera di ottenere nelle prossime legislative d' autunno)
ha subito affermato «Come cittadino ucraino posso dire ai popoli
post-sovietici: guardate a noi, tutto è possibile!». Una sorta di invito
alla ribellione nei confronti di Vladimir Putin e del regime moscovita. Se
queste sono le intenzioni, possiamo solo aspettarci che le tensioni, già
drammatiche, si accentueranno nei prossimi mesi.
In un mondo multipolare, nel quale gli Stati Uniti hanno perso (e non
vogliono perdere) l'esercizio del ruolo di custodi degli equilibri, ogni
evento in qualche modo eversivo, anche Zelensky quindi, può innescare
processi incontrollabili.
Gli esperti prevedono che una guerra possa scoppiare prima del 2030. Per
evitarla ci vorrebbero moderazione e senso di responsabilità: proprio le
virtù che non si vedono in giro
(articolo ItaliaOggi del 24.04.2019). |
APPALTI: Salta
l’obbligo di ricorso alle stazioni uniche per i non capoluoghi.
Saltano gli appalti centralizzati per gli acquisti
sopra-soglia.
I Comuni non capoluogo potranno gestire da soli le procedure di gara di
maggior rilievo, senza ricorrere a centrali uniche di committenza o stazioni
uniche appaltanti.
Il decreto-legge «sblocca cantieri» introduce un’importante innovazione
nelle disposizioni dell’articolo 37 del Codice dei contratti pubblici,
eliminando l’obbligo per le amministrazioni comunali non capoluogo di
sviluppare oltre specifiche soglie i processi di acquisizione di lavori,
beni e servizi mediante moduli organizzativi aggregativi.
La disposizione stabiliva originariamente che le stazioni appaltante
rappresentate da Comune non capoluogo dovessero acquisire i beni e servizi
di valore superiore alle soglie eurounitarie facendo ricorso ai soggetti
aggregatori; e, in particolare, alle centrali uniche di committenza
costituite tra i Comuni e alle stazioni uniche appaltanti presso le
Province, replicando un modello organizzativo già definito nel Dlgs
163/2006.
Lo stesso obbligo valeva per i lavori di costruzione e di manutenzione
straordinaria di valore superiore ai 150mila euro e per i lavori di
manutenzione ordinaria di importo superiore a un milione di euro.
Nel pacchetto di norme finalizzato a dare maggiore impulso agli appalti è
contenuta la riformulazione di una parte del comma 4 dello stesso articolo
37, che con la sostituzione della parola «procede» con le parole «può
procedere» trasforma l’obbligo in facoltà.
I Comuni non capoluogo, pertanto, dal momento dell’entrata in vigore del
decreto-legge possono scegliere se gestire in proprio le procedure di gara
per appalti di valori superiori alle soglie dell’articolo 35 del Codice per
beni e servizi o superiori alle soglie interne stabilite dallo stesso
articolo 37 per i lavori, oppure continuare a fare ricorso alle centrali
uniche di committenza o alle stazioni uniche appaltanti.
L’opzione può consentire alle amministrazioni comunali interessate di
valorizzare i moduli aggregativi sulle procedure più impegnative e
complesse, nonché, al tempo stesso, di gestire autonomamente e più
rapidamente gare per appalti di media entità.
Il quadro di obblighi derivante dal codice comporta per i comuni non
capoluogo che vogliano gestire in proprio le procedure sopra le soglie
individuate dall’art. 37 con strumenti informatici adeguati a soddisfare le
prescrizioni dell’articolo 40, comma 2 dello stesso Dlgs 50/2016, dovendo
quindi utilizzare piattaforme telematiche che consentano di effettuare
procedure aperte (come nel caso degli appalti di lavori di valore superiore
ai 200mila euro in base alle nuove disposizioni introdotte nell’articolo
36).
L’innovazione determina anche una revisione delle scelte effettuate da molte
amministrazioni locali in sede di costituzione di unioni di Comuni, per
individuare le soluzioni più efficaci
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
LAVORI PUBBLICI: Project
financing, dubbi sulla gara per il promotore.
Forti incertezze sulle procedure di project financing per illuminazione
pubblica, proprio mentre il Governo (nel decreto sblocca cantieri) promuove
il risparmio energetico degli enti locali.
Il contrasto sorge tra sentenze amministrative di primo grado (Tar Milano
691/2019) e di appello (4777/2018), in liti tra Enel Sole ed alcuni
raggruppamenti temporanei di imprese e società a partecipazione pubblica
locale. Il settore si presta ad interventi di finanza di progetto, sia per
la gestione di impianti di pubblica illuminazione che per l’adeguamento ed
efficientamento energetico, servizi di smart city, impianti semaforici,
colonnine per la ricarica dei veicoli, sistemi di controllo,
riqualificazione degli impianti.
Il Codice appalti disciplina la realizzazione di interventi pubblici con
capitali privati: in particolare, l’articolo 183 Dlgs 50/2016 prevede una
prima fase affidata ad un promotore, che propone all’ente e progetta
l’intervento. Successivamente vi è l’aggiudicazione dell’intervento. Alla
gara partecipa anche il promotore il quale, se non si aggiudica la gara
formulando la migliore offerta, può comunque esercitare un diritto di
prelazione. Se poi non vince la gara e non esercita nemmeno la prelazione,
il promotore ottiene comunque il pagamento (a carico dell’aggiudicatario)
delle spese di predisposizione della proposta.
Accade di frequente che più imprenditori del settore energetico, a distanza
di pochi mesi, formulino separate proposte: l’amministrazione deve decidere
quale sia l’impresa promotrice, cui affidare il progetto da porre poi a
gara. Essere promotori garantisce un vantaggio competitivo, rappresentato
dalla redazione del progetto di fattibilità da porre in gara, con la
sicurezza di vedersi almeno remunerato il progetto, qualora un’altra impresa
si aggiudichi la gara ed il promotore non eserciti la prelazione.
Le scelte che spettano all’ente pubblico sono quindi due: dapprima
individuare il promotore, in seguito selezionare con gara l’esecutore. Qui
appunto sorge il contrasto, perché il Consiglio di Stato vuole che il
promotore sia scelto comparando formalmente le varie proposte delle imprese,
prima che tali proposte producano un vero e proprio progetto di fattibilità
da porre a base di gara. Il Tar Milano ritiene, invece, che la proposta del
promotore possa essere valutata dall’ente locale senza gara, come un’autocandidatura
esaminata in termini generali: la gara, osserva il Tar, vi sarà dopo.
Tutto ruota intorno alla qualificazione della scelta del promotore: se essa
è (come dice il Consiglio di Stato) il cuore dell’intera procedura, perché
il promotore ha un vantaggio ai fini della fase di gara, la doppia gara (sul
promotore e sul progetto) è necessaria. Del resto, la stessa Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato (1/2012), decidendo dell’esecuzione di un
parcheggio pubblico ad Alessandria, ha ritenuto che la scelta del promotore
vada tempestivamente impugnata dalle imprese antagoniste che a loro volta
intendano essere promotrici, proprio perché con tale scelta cominciano a
maturare significativi vantaggi, che si ripercuotono sulla successiva gara
per l’esecuzione dell’opera
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Per
ARCO l'agente immobiliare e l'amministratore non sono
compatibili.
Da più parti, si discute, anche in maniera divergente, sul
tema dell'incompatibilità o meno tra la professione di
agente immobiliare e quella di amministratore di condominio
per gli effetti che ne deriveranno dall'approvanda legge
europea 2018.
L'art. 2 del DDL in argomento, a seguito degli emendamenti
di seconda lettura, prevede l'incompatibilità dell'esercizio
dell'attività di mediazione con l'attività svolta in qualità
di dipendente di ente pubblico o privato, o di dipendente di
istituto bancario, finanziario o assicurativo ad esclusione
delle imprese di mediazione, o con l'esercizio di
professioni intellettuali afferenti al medesimo settore
merceologico per cui si esercita l'attività di mediazione e
comunque in situazioni di conflitto di interessi.
Nonostante quello che –a parere di ARCO– risulti molto
chiaro, in questi giorni numerosi rappresentanti di
associazioni di categoria si stanno spendendo per la
compatibilità, perorando una interpretazione assolutamente
forzata quanto infondata.
A parere di chi scrive, svolgere l'attività di
amministrazioni condominiali in forma di lavoro autonomo non
significa erogare servizi ma, sicuramente, prestare un'opera
intellettuale nell'ambito di un contratto di mandato. A
sostegno di questa tesi, si può ricordare che:
●
L'articolo 2229 c.c. stabilisce come spetti alla legge
determinare quali siano le professioni intellettuali il cui
esercizio è da subordinare all'iscrizione in appositi albi o
elenchi con la conseguenza che non occorre l'esistenza di un
albo o un elenco per qualificare una professione come “intellettuale”.
Quindi, anche senza un Albo o un Registro, l'amministratore
è un professionista intellettuale;
●
Secondo la legge n. 4/2013 perché si discorra di professione
intellettuale non occorre essere riuniti sotto l'egida di un
Ordine o un Albo e il MiSE, proprio per effetto di questa
legge, riconosce le associazioni “professionali”
degli amministratori di condominio prevedendo, addirittura,
appositi modelli di certificazione della qualità. Quindi,
l'amministratore di condominio è un professionista
intellettuale, almeno secondo la legge 4/2013 e secondo il
MiSE;
●
Secondo il fisco l'amministratore è un lavoratore autonomo
che subisce la ritenuta del 20% perché non esercita attività
di impresa. Ma non solo. Anche se l'attività viene svolta da
società, queste non subiscono la ritenuta del 4% perché non
erogano servizi in appalto e, pur producendo un reddito
d'impresa, l'attività in sé resta svolta in seno ad un
rapporto di mandato e non di appalto. Dunque, per il fisco,
l'amministratore è un professionista intellettuale;
●
Secondo il D.M. n. 140/2014, l'amministratore deve osservare
il rispetto della formazione professionale, anche periodica.
Dunque, per il Ministero della Giustizia, l'amministratore
di condominio è un professionista intellettuale;
●
Secondo il raggruppamento Istat delle professioni quella
dell'amministratore di condominio rientra nel terzo grande
gruppo delle “Professioni Tecniche”, come professione
nell'organizzazione e amministrazione, categoria “Contabili
e assimilate”, al codice 3.3.1.2.3. Dunque, anche per l'Istat
l'amministratore di condominio è un professionista
intellettuale;
●
L'amministratore può assicurarsi per la responsabilità
civile professionale e risponde non più per la diligenza del
buon padre di famiglia ma per imperizia e negligenza
professionale. Quindi, anche su questo piano,
l'amministratore di condominio è un professionista
intellettuale;
●
Secondo l'art. 2238 c.c., se l'esercizio della professione
costituisce elemento di una attività organizzata in forma di
impresa, si applicano “anche” le disposizioni del
titolo II. Tuttavia, la libera professione non è impresa,
tanto che al chirurgo titolare di una clinica si applica la
disciplina dell'imprenditore in quanto titolare della
clinica, ma quella del libero professionista per quanto
concerne l'attività medica. E questo vale anche per le
società che svolgono attività di amministrazione
condominiale;
●
La norma UNI 10801:2016 definisce quella dell'amministratore
come attività professionale e non di impresa di servizi.
Quindi, ci si può certificare come professionista
intellettuale;
●
Il fatto che l'incarico di amministratore possa essere
assunto da un condomino interno senza requisiti non basta a
sostenere che gli amministratori che svolgono l'attività in
via professionale non siano professionisti intellettuali. Il
nostro ordinamento, per talune circostanze, consenti al
privato cittadino di difendersi davanti al Giudice senza il
patrocinio di un avvocato: questo non fa di lui un avvocato
e questo non cambia la qualità di professionista
intellettuale dell'avvocato;
●
Se l'amministratore volesse iscriversi alla CCIAA, questo
non gli sarebbe consentito perché, pur non avendo un
Ordine/Albo, secondo la legge camerale rimane un'attività
professionale intellettuale;
●
Secondo giurisprudenza granitica, l'amministratore di
condominio svolge un mandato con rappresentanza e questo non
può coincidere con l'erogazione di servizi che, invece,
risulterebbe collocata nella antagonistica posizione di
appaltatore;
●
Se l'amministratore volesse qualificarsi come esperto, può
avanzare domanda di iscrizione al Ruolo dei Periti e degli
Esperti delle CCIAA come libero professionista
intellettuale;
●
E in quale settore merceologico svolge la sua attività
professionale l'amministratore? In quello immobiliare,
codice Ateco 68, esattamente quello degli agenti
immobiliari.
Pertanto, secondo ARCO, quella dell'amministratore di
condominio è una professione intellettuale e giammai
un'impresa che eroga servizi con la conseguenza –piuttosto
palmare– che allo stato dell'arte del DDL, la professione di
agente immobiliare è incompatibile con quella di
amministratore di condominio.
Si badi bene, si tratta giammai di una posizione ideologica
–nessuna contrarietà in punto di principio- ma di una mera
interpretazione della norma che, per far venire meno
l'incompatibilità, andrebbe modificata rispetto all'ultima
versione licenziata. Al contrario, di posizione ideologica e
di favore, invece, si tratterebbe nel caso si sostenesse il
contrario senza addurre una articolata motivazione.
Ad ogni buon conto, ARCO sottoporrà un articolato interpello
al MiSE affinché chiarisca il dubbio interpretativo
(articolo Quotidiano del Sole 24 Ore - Condominio del
02.04.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Contratto,
il segretario «coordina» i dirigenti.
Nella direttiva all’Aran prevista l’assunzione di compiti gestionali.
Il nuovo contratto dei dirigenti determinerà molti mutamenti nei compiti dei
segretari comunali. Le novità amplieranno i compiti di coordinamento della
dirigenza e determineranno l’assunzione di incarichi gestionali. Questi
compiti si aggiungono a quelli attuali, concentrati sulle attività di
supporto giuridico e di controllo.
Il contratto dovrà dettare, in base alla direttiva del comitato di settore
(Sole 24 Ore del 25 marzo), una nuova disciplina per l’adeguamento della
prestazione del segretario alla sede di lavoro, per la revoca, per la
definizione dei compiti di coordinamento dei dirigenti o responsabili, il
coordinamento tra le attività di responsabile anti-corruzione e
l’assegnazione di compiti gestionali, la predisposizione del Peg e del piano
degli obiettivi e l’esercizio del potere di avocazione, solo per citare gli
aspetti più rilevanti. Sulla scorta dell’articolo 40 del Dlgs 165/2001, sono
precluse alla contrattazione collettiva, tra l’altro, le materie «attinenti
all’organizzazione degli uffici ... afferenti alle prerogative dirigenziali
... e il conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali». Per cui
il contratto dovrà comunque evitare di prevedere disposizioni che violino
gli ambiti riservati alla legislazione.
Viene chiesto al contratto di intervenire sulla revoca dei segretari:
l’articolo 100 del Tuel la consente solo per «violazione dei doveri di
ufficio». In particolare l’intervento andrà finalizzato a consentire che
questa fattispecie maturi nel caso di «inadeguato esercizio delle funzioni
di sovrintendenza e coordinamento» dei dirigenti o, negli enti che ne sono
sprovvisti, dei responsabili, e per il «mancato conseguimento degli
obiettivi» relativi allo svolgimento di questo incarico. È evidente che, con
disposizioni di questo tipo, i segretari diventeranno sempre più il punto di
riferimento della dirigenza, sempre che non ci sia il direttore generale.
Il nuovo contratto nazionale dovrà definire che cosa in concreto si debba
intendere per funzioni di sovrintendenza e coordinamento. In quest’ambito l’Aran
viene impegnata a disciplinare nel contratto sia l’esercizio del potere di
avocazione di singoli atti in caso di accertata inadempienza, sia –più in
generale- le modalità di concreto esercizio delle funzioni dirigenziali. Ed
ancora, per l’esercizio dei compiti di predisposizione della proposta di Peg
e del Piano dettagliato degli obiettivi, quindi del Piano delle performance.
In questo quadro arriva la conferma dell’indennità di galleggiamento.
Nella stessa direzione vanno anche le indicazioni che chiedono al contratto
di rispondere all’esigenza di contemperare lo svolgimento dei compiti,
assegnati in via ordinaria dalla legge n. 190/2012, di responsabile
anti-corruzione con quelli di responsabile di articolazioni organizzative,
che possono comprendere attività a elevato rischio corruttivo. Allo stesso
filone si può ascrivere un altro vincolo, molto generico, che il nuovo
contratto dovrà introdurre e disciplinare: l’obbligo per i segretari di
adeguare la propria prestazione alle esigenze organizzative dell’ente, con
specifico riferimento alla gestione delle risorse umane
(articolo Il Sole 24 Ore del 01.04.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Anac adegua linee guida alla Ue. Opere di urbanizzazione: il
valore dei lotti si cumula. Consultazione entro il
21 febbraio sulle soluzioni ai rilievi di Bruxelles sul codice appalti.
L'affidamento diretto di lavori fino a 150 mila euro comporta sempre la
richiesta di almeno tre preventivi; è vietato selezionare le imprese in base
all'ordine cronologico di arrivo delle domande o in base alla prossimità
della sede legale rispetto al luogo di esecuzione dei lavori; obbligo di
applicare il principio della rotazione negli affidamenti diretti vale oltre
i 5mila euro; l'applicazione del codice appalti per l'affidamento delle
opere di urbanizzazione scatta anche quando i lotti dei lavori sono sotto
soglia, ma il loro importo totale supera la soglia Ue dei 5,2 milioni.
Sono queste alcune delle soluzioni ipotizzate dall'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) che, avviando una rapida consultazione pubblica per
aggiornare le linee guida n. 4 sugli affidamenti sotto soglia (termine per
le risposte il 21 febbraio), indirettamente risponde, per quanto di
competenza, ai rilievi espressi dall'Unione europea contenuti nella lettera
di messa in mora contro l'Italia che ha toccato diversi punti del codice dei
contratti pubblici.
In attesa delle correzioni del decreto 50, che dovrebbero arrivare con un
disegno di legge ordinario, l'Anac ha affrontato in primo luogo il tema
dell'affidamento delle le opere di urbanizzazione a scomputo totale o
parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire.
Anche per evitare il frazionamento artificioso in lotti, l'Anac ha
ipotizzato che nel calcolo del valore stimato siano cumulativamente
considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e secondaria, anche se
appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di
costruire.
Non solo: l'Autorità ha proposto anche che, se il valore complessivo delle
opere di urbanizzazione a scomputo, qualunque esse siano, non raggiunge la
soglia comunitaria, il privato può affidare senza gara esclusivamente le
opere funzionali; al contrario, qualora il valore complessivo di tali opere
superi la soglia comunitaria, il privato dovrà applicare il codice sia per
le opere funzionali sia per quelle non funzionali.
Sugli affidamenti diretti, la cui soglia massima è stata portata dalla legge
di bilancio 2019 (per i soli lavori) da 40 mila a150 mila euro, l'Anac ha
ricordato che è la stessa legge a prevedere che questa possibilità vale
soltanto per il 2019. Ma soprattutto ha precisato che «la procedura
introdotta in via transitoria dalla disposizione in esame possa essere
interpretata nel senso che, per gli affidamenti tra 40 mila e 150 mila euro
per l'anno 2019, è possibile ricorrere all'affidamento diretto previa
richiesta di tre preventivi».
Per i piccoli affidamenti l'Anac, con le linee guida n. 4, aveva stabilito
che negli affidamenti di importo inferiore a mille euro, fosse consentito
derogare all'applicazione del principio di rotazione, con scelta,
sinteticamente motivata, ma dopo che la legge di bilancio ha previsto
l'obbligo di ricorso al Mepa da 5 mila euro, l'Anac ha suggerito di portare
a 5mila euro anche la soglia oltre la quale applicare l'obbligo di rotazione
(con un effetto semplificatorio per circa 4 milioni l'anno di affidamenti di
importo inferiore a 5 mila euro).
Infine, l'Anac ha segnalato anche alcuni punti critici oggetto di esposti:
la selezione delle imprese da invitare alle procedure non può essere
effettuata chiedendo agli operatori «requisiti aggiuntivi ulteriori rispetto
all'attestazione Soa», né è legittimo fare ricorso al «criterio cronologico
basato sull'ordine di arrivo delle domande di partecipazione» o a quello
della «prossimità della sede legale rispetto al luogo di esecuzione della
prestazione, per la selezione degli operatori da invitare» (articolo
ItaliaOggi del 15.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rinviato
l'associazionismo obbligatorio, Anci e Upi propongono la volontarietà
incentivata.
Tra le disposizioni del capitolo dedicato agli enti locali del decreto
Semplificazioni spicca l'ennesima proroga del termine –ora dal 30 giugno al
31.12.2019- decorso il quale diventa obbligatoria la gestione in
forma associata delle funzioni fondamentali da parte dei piccoli Comuni.
La
proroga è concessa nelle more della conclusione dei lavori del tavolo
tecnico-politico istituito presso la Conferenza Stato-città per la redazione
di linee guida finalizzate non solo al superamento dell'obbligo di gestione
associata delle funzioni ma anche all'avvio di un percorso di revisione
organica della disciplina sull'ordinamento delle province e delle Città
metropolitane e sulla semplificazione degli oneri amministrativi e contabili
a carico dei Comuni, soprattutto di piccole dimensioni.
L'associazionismo obbligatorio
Il vincolo impone ai Comuni con meno di 5mila abitanti ovvero fino a 3mila
se appartengono o sono appartenuti a Comunità montane, di esercitare
obbligatoriamente in forma associata le proprie funzioni fondamentali
mediante Unione o convenzione (articolo 14, comma 28, del Dl 78/2010).
Sono esclusi i Comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di
una o di più isole e il comune di Campione d'Italia. Il termine per
l'esercizio in forma associata di tutte le funzioni fondamentali era stato
fissato inizialmente al 01.01.2014 dal Dl 95/2012 [articolo 19, comma
1, lettera e)], che ha sostituito l'originario comma 31, articolo 14, del Dl
n. 78/2010 con i commi 31, 31-bis, 31-ter e 31-quater.
Il comma 31-ter
prevede termini differenti in relazione al numero di funzioni da svolgere in
forma associata: 01.01.2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni
fondamentali (lettera a); 30.09.2014, con riguardo ad ulteriori tre
delle funzioni fondamentali (lettera b); 31.12.2014 –termine in
precedenza fissato al 01.01.2014 (originaria lettera b) e più volte
oggetto di proroga- al complesso delle funzioni (lettera b-bis).
Dopo diverse proroghe, infine, l'articolo 1, comma 1.120, lettera a), della
legge n. 205/2017 ha fissato al 30.06.2019 il termine ultimo per
l'esercizio associato delle funzioni fondamentali, che ora è spostato al 31
dicembre prossimo dal Dl Semplificazioni.
La situazione al momento
Per i Comuni che hanno l'obbligo della gestione associata, comunque, rimane
valida la previsione di dar corso entro il 30.09.2014 alla gestione
associata di almeno 6 funzioni fondamentali, come previsto dalla lettera
b), comma 31-ter, dell'articolo 14 del Dl 78/2010, non prorogato.
La mancanza di sanzioni per i Comuni inadempienti è stata colmata in sede di
conversione del Dl 95/2012 (articolo 19, comma 1), che ha aggiunto
all'articolo 14 del Dl 78/2010, il comma 31-quater, prevedendo che: «in
caso di decorso dei termini di cui l comma 31-ter, il prefetto assegna agli
enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso
inutilmente detto termine, trova applicazione l'articolo 8 della legge 05.06.2003 n. 131, ovvero il potere sostitutivo esercitato da un
Commissario ad acta».
Con intese raggiunte in sede di Conferenza Unificata,
inoltre, sono state definite le modalità di ripartizione dei fondi statali
da erogare alle Regioni per il sostegno dell' associazionismo comunale, come
già disposto dal decreto Interno del 10.09.2000 n. 318. I fondi
vengono ripartiti tra le diverse Regioni che, annualmente, ne fanno
richiesta e presentano la prescritta documentazione.
Le proposte di riforma
L' Anci vorrebbe sostituire l'obbligo della gestione associata delle
funzioni con il principio di «volontarietà incentivata», che tenga conto
dell'autonomia e dell'eterogeneità dei territori. La stessa associazione
propone di definire a livello locale gli ambiti territoriali più adeguati
per le gestioni associate, tenendo conto della diversità dei territori e
rispettando l'autonomia dei sindaci.
In tal senso, propone che in sede di Conferenza metropolitana o di Assemblea
dei sindaci della Provincia sia definito un piano per individuare gli ambiti
delle gestioni associate legati da prevalente contiguità territoriale e
socio economica. Il piano, sul quale dovrebbe essere sentita la Regione,
dovrebbe individuare le Unioni e le convenzioni su proposta dei Comuni
interessati (fatte salve quelle già esistenti). Anche l'Upi propone un
percorso simile.
L' Associazione dei Comuni ha proposto di adeguare la dotazione dei fondi
statali destinati all'incentivazione dell'associazionismo e di rivederne i
relativi criteri di riparto, tenendo conto in modo proporzionale del numero
e della tipologia di funzioni e servizi, del numero di Comuni e della
dimensione demografica raggiunta dalla forma associativa.
L'Upi propone l'adozione di un programma triennale finalizzato
all'incentivazione delle gestioni associate negli ambiti territoriali
individuati in base a criteri di contiguità territoriale e socio-economica e
di sostenibilità economica ed organizzativa, lasciando ai Comuni la
possibilità di scegliere la soluzione migliore per l'esercizio associato
delle funzioni a partire dalle esperienze esistenti.
L'Upi ipotizza la previsione di una funzione ad hoc, come funzione
fondamentale da attribuirsi a Città metropolitane e Province, in materia di
«pianificazione degli ambiti dell'associazionismo comunale e di
programmazione degli incentivi»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nodo
graduatorie e profili sull’obbligo di adesione alle selezioni centralizzate.
Sui nuovi ingressi l’incognita del concorso unico.
Superamento del blocco alle assunzioni di personale a qualsiasi titolo per
le amministrazioni che non hanno rispettato nell’anno precedente i vincoli
del pareggio di bilancio e divieto di indire concorsi da parte delle singole
amministrazioni per posti che non hanno profili specifici e peculiari. Le
due novità portate dalla legge di bilancio sono rilevanti.
Il comma 823 stabilisce che «a decorrere dal 2019 cessano di avere
applicazione» una serie di commi della legge n. 232/2016, tra cui il
comma 475, compresa la lettera e), cioè la disposizione che sanziona con il
divieto di assunzioni a qualunque titolo le amministrazioni che nell’anno
precedente non hanno rispettato il pareggio. Viene meno una sanzione che già
dal finire degli anni 90 colpiva le amministrazioni inadempienti rispetto ai
vincoli di finanza pubblica. In via interpretativa il divieto era stato
inteso in senso assai ampio, interessando anche le proroghe, i contratti
flessibili e le co.co.co.: sostanzialmente rimanevano escluse solo le
assunzioni delle categorie protette necessarie per il rispetto della quota
d’obbligo.
Occorre però capire la decorrenza della disposizione: se dall’eventuale
mancato rispetto del pareggio di bilancio nel 2018 o dalla inosservanza del
vincolo a partire dal 2019. Il dettato legislativo si limita a dire che la
cessazione del divieto si applica «a decorrere dal 2019». Nella direzione di
applicare la disposizione agli enti che nel 2019 non rispetteranno i vincoli
del pareggio di bilancio sembrano spingere le disposizioni contenute nel
comma 827, che espressamente escludono l’applicazione del divieto di
effettuare assunzioni per i Comuni che hanno votato nel corso del 2018.
Il comma 360, con una disposizione sulla cui legittimità costituzionale si
possono sollevare numerosi dubbi, impone anche alle regioni ed agli enti
locali effettuare le assunzioni a tempo indeterminato, fatte salve le
professionalità che hanno una «spiccata specificità», aderendo ai
concorsi unici. Queste forme di reclutamento saranno organizzate per tutte
le Pa dalla Funzione Pubblica, con il concorso della commissione Ripam e il
supporto di Formez.
Per questi concorsi viene disposto il superamento dell’obbligo della
preventiva indizione delle procedure di mobilità volontaria, mentre resta il
vincolo della comunicazione preventiva per l’eventuale assegnazione di
personale in disponibilità. Le regole operative saranno dettate dalla
Funzione pubblica con un decreto che dovrebbe essere emanato entro la fine
di febbraio. Fino all’emanazione, le amministrazioni possono continuare ad
effettuare le proprie assunzioni sulla base di concorsi autonomi.
Si deve presumere che sono in ogni caso fatte salve le procedure avviate sia
prima dell’entrata in vigore della legge di bilancio, quindi entro il 31
dicembre scorso, sia prima della emanazione del decreto. La disposizione
solleva dubbi sulla sua prevalenza rispetto alla preferenza che da tempo il
legislatore ha previsto per lo scorrimento delle graduatorie dello stesso
ente. Essa è inoltre destinata a sollevare contrasti sull’individuazione
delle selezioni che, per la specificità della professionalità richiesta,
rimangono al di fuori del vincolo al concorso unico
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Saltano le distinzioni basate sui livelli di spesa o le dimensioni dell’ente.
Alla dote si aggiungono gli spazi inutilizzati degli anni precedenti. Turn
over al 100 per cento per tutti e spazi aggiuntivi per la sicurezza.
Da quest’anno Regioni ed enti locali possono assumere a tempo indeterminato
dipendenti nel tetto del 100% dei risparmi dei cessati degli anni
precedenti. La manovra non introduce limiti ulteriori, e i Comuni possono
inoltre assumere vigili a tempo indeterminato senza superare la spesa per il
personale della vigilanza del 2016.
Le Regioni possono effettuare assunzioni a tempo indeterminato per
l’attivazione del numero unico di emergenza e a tempo determinato per
specifiche esigenze di accelerazione degli investimenti. Le Province e le
Città metropolitane devono indirizzare le proprie assunzioni in primo luogo
per elevate professionalità nell’edilizia scolastica e nella manutenzione
delle strade. Per i centri per l’impiego saranno inoltre autorizzate nelle
prossime settimane assunzioni a tempo indeterminato per circa 4mila unità.
Le capacità di assunzione ordinarie di Regioni ed enti locali sono fissate
al 100% senza più distinzioni di dimensione, numero di dipendenti o spesa di
personale. A queste capacità assunzionali si devono aggiungere quelle
inutilizzate del triennio precedente. Il turn over era nel 2018 al 25% dei
risparmi dei cessati 2017, percentuale che saliva al 100% nei Comuni fino a
5mila abitanti con un rapporto tra spesa del personale ed entrate correnti
fino al 24%, e al 75% per i comuni con più di mille abitanti con un rapporto
dipendenti popolazione inferiore a quello previsto per gli enti dissestati
e/o strutturalmente deficitari dal decreto del Viminale del 10.04.2017
(ma al 90% se questi Comuni lasciano anche spazi finanziari inutilizzati
inferiori all’1% delle entrate).
Nel 2017 il turn-over era al 75% della spesa dei cessati 2016 se l’ente era
in linea con il tetto previsto per gli enti dissestati e/o strutturalmente deficitari, altrimenti si fermava al 25%. Ma nei Comuni fra mille e 3mila
abitanti era al 100% se il rapporto tra spesa del personale ed entrate
correnti (dato medio dell’ultimo triennio) era inferiore al 24% nell’anno
precedente.
Nel 2016 la percentuale era al 25% dei risparmi derivanti dalle cessazioni
2015, e saliva al 100% negli enti con rapporto spesa personale/corrente
inferiore al 25%, e al 75% nei Comuni con popolazione inferiore a 10mila
abitanti in caso di rispetto del rapporto tra dipendenti e popolazione
previsto per gli enti dissestati. Da sempre gli enti non soggetti al Patto
di stabilità possono effettuare assunzioni di personale nel tetto dei
dipendenti cessati.
Per i vigili ci sono disposizioni specifiche. In primo luogo, le cessazioni
del 2018 possono essere destinate solo ad assunzioni di nuovi vigili, quindi
non entrano nel calcolo delle capacità assunzionali ordinarie, determinando
così la necessità di un calcolo distinto. I Comuni che nell’intero triennio
2016/2018 hanno rispettato il pareggio di bilancio possono assumere vigili a
tempo indeterminato nel tetto della spesa sostenuta nel 2016 per «detto»
personale: quindi anche in deroga alla copertura delle cessazioni.
Questa norma va chiarita nel suo ambito di applicazione sia per il calcolo
della spesa del personale per la vigilanza del 2016, sia per capire se il
riferimento è all’intera spesa per la vigilanza o solo a quella per i vigili
a tempo indeterminato, il che ne limiterebbe l’impatto in misura assai
rilevante
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.01.2019). |
TRIBUTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incentivi antievasione e trattamento economico accessorio del personale
dipendente.
Il comma 1091 della Manovra 2019 (Legge 145/2018) consente ai Comuni di
incentivare economicamente il personale dipendente che recupera risorse
contrastando l'evasione dei tributi comunali. La norma prevede che agli
uffici comunali preposti alla gestione delle entrate possano essere
destinati fondi per il potenziamento delle risorse strumentali e per il
trattamento accessorio del personale dipendente anche di qualifica
dirigenziale a due condizioni di aver approvato entro i termini di legge il
bilancio di previsione e il rendiconto.
Reintrodotti gli incentivi
Reintrodotti gli incentivi aboliti precedentemente, anche se con limiti ben
definiti. È prevista la possibilità di destinare sino al massimo del 5% del
maggiore gettito Imu e Tari, accertato e riscosso, nell'esercizio fiscale
precedente a quello di riferimento come risultante dal conto consuntivo
approvato.
Il riferimento al rendiconto evidenzia la diretta correlazione tra incentivi
che gli enti potranno erogare al proprio personale e le effettive maggiori
entrate del Comune. Va chiarito se limitare l'incentivo agli atti di
accertamento emessi e incassati nello stesso anno, seguendo un stringente
principio di cassa oppure se ragionare in termini di riscossione realizzata
nell'anno, anche se non derivante dai soli accertamenti dell'anno di
riferimento.
Pur nella rigidità dell'istituto, gli enti dovranno dotarsi di specifico
regolamento per definire la procedura, la cui competenza, in base
all'articolo 48, comma 3, del Dl 267/2000, è della giunta comunale, a
integrazione delle norme che disciplinano l'ordinamento degli uffici e dei
servizi.
La possibilità di erogare incentivi viene concessa agli Enti in deroga ai
limiti di legge relativi all'ammontare complessivo dei fondi destinabili al
salario accessorio del personale dipendente, articolo 23, comma 2°, del Dlgs
75/2017. L'importo erogabile non potrà comunque superare il 15% del
trattamento tabellare annuo lordo individuale di ciascun percettore.
Tra i beneficiari sono ricompresi i dirigenti e, in base all'articolo 18,
lettera h) del Ccnl del Comparto funzioni locali 2016–2018 sottoscritto il
21.05.2018, rientrano anche a pieno titolo gli incaricati di posizione
organizzativa.
In sede di contrattazione integrativa aziendale, ai sensi dell'articolo 7,
lettera j), del Ccnl già citato, saranno individuati eventuali criteri di
correlazione tra i compensi e la retribuzione di risultato dei titolari di
posizione organizzativa, come avverrà per la dirigenza.
Pare importante ricordare che, la quota destinata al trattamento economico
accessorio sarà attribuita al personale direttamente coinvolto nel
raggiungimento degli obiettivi di maggiore entrata, anche con riferimento
alle attività connesse alla partecipazione del Comune all'accertamento dei
tributi erariali e dell'evasione contributiva (in base all'articolo 1 Dl
203/2005), mentre nulla sarà erogato nel caso in cui il servizio di
accertamento sia affidato in concessione a terzi.
Sarebbe auspicabile che gli Enti aggiornino i propri documenti di
programmazione affinché ogni anno, a preventivo, siano previsti obiettivi di
contrasto all'evasione, con target oggettivi, prefissati, che siano
facilmente misurabili e rendicontabili, in modo da giustificare a
consuntivo, previa valutazione, l'erogazione dei compensi nel rispetto delle
disposizioni sulla performance (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.01.2019). |
APPALTI: Pareggio
di bilancio, con l’addio alle sanzioni spesa senza rete.
L'articolo 1, commi 819 e seguenti, della legge 145/2018 (legge di bilancio
2019) ha abolito per Regioni a statuto speciale, Province autonome, Città
metropolitane, Province e Comuni, l'obbligo del pareggio di bilancio
previsto in attuazione della legge 243/2012 e, di conseguenza, nella
sostanza viene meno, dal 2019, l’apparato sanzionatorio.
Il comma 824 invece
rimanda per le Regioni a statuto ordinario l'appuntamento con l'abolizione
del pareggio di bilancio al 2021, subordinatamente però all'intesa in sede
di Conferenza Stato – Regioni e Province autonome, entro il 31 gennaio,
sulle risorse aggiuntive per il finanziamento degli investimenti e lo
sviluppo infrastrutturale nelle materie di competenza concorrente.
L’evoluzione dello strumento
Il passaggio, per la finanza locale italiana, è veramente epocale. Dopo 19
anni va in soffitta il patto di stabilità interno per gli enti locali. Il
patto, introdotto con l'articolo 28 della legge 488/1998, (legge finanziaria
per il 1999) e poi variamente declinato dalle manovre di finanza pubblica,
si è trasformato dal 2016, in applicazione della legge 243/2012, nel
pareggio di bilancio.
Il patto ha avuto molte versioni: prima meccanismo
facoltativo non sanzionato, poi obbligo sanzionato e, infine, requisito di
legittimità del bilancio di previsione dell'ente. L'articolo 1, comma 684,
della legge 296/2006 (legge finanziaria per il 2007), sempre confermato nel
suo contenuto negli anni successivi, ha stabilito che il bilancio di
previsione degli enti locali soggetti al patto doveva essere approvato in
modo da consentire il rispetto del suo obiettivo programmatico.
Il patto è stato costruito per saldi, doppi saldi (competenza e cassa), per
tetti di spesa, per saldo misto e, una volta divenuto pareggio bilancio, per
saldo non negativo fra entrate e spese finali. È difficile dare un giudizio
su questo strumento di coordinamento con il quale lo Stato ha coinvolto gli
enti locali nel raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
derivanti, in un primo tempo, dall'adesione al patto di stabilità e
crescita, adottato dal Consiglio europeo di Amsterdam nel giugno del 1997 e
poi conseguenti all'ingresso definitivo nell'Unione Monetaria Europea.
Al patto, sicuramente, sono state addossate troppe colpe, quali la
difficoltà di impiegare risorse da parte degli enti, soprattutto in termini
di spese d'investimento. Gli enormi overshooting lasciati sul campo dal
sistema delle autonomie negli ultimi tempi hanno dimostrato che non è stato
il vincolo di finanza pubblica a bloccare la spesa.
Il nuovo sistema
In un certo senso, si ritorna all'antico, nel senso che d'ora in avanti
l'unico equilibrio da rispettare sarà quello intrinseco al sistema di
bilancio, come delineato dall'ordinamento finanziario degli enti locali
(comma 821 della legge 145/2018). Nello specifico, l'unico vincolo è quello
dell'articolo 162, comma 6, del Tuel che prevede tre saldi in equilibrio:
corrente, di parte capitale e finale. Il bilancio di previsione (articolo
162, comma 6) deve essere deliberato in pareggio finanziario complessivo di
competenza, comprensivo dell'avanzo e del disavanzo e con la garanzia del
fondo cassa finale non negativo.
L'equilibrio corrente di competenza, il
vincolo più “reale”, richiede che le spese correnti sommate a quelle
relative ai trasferimenti in conto capitale, al saldo negativo delle partite
finanziarie e alle quote di capitale delle rate di ammortamento dei
prestiti, con l'esclusione dei rimborsi anticipati, non debbano superare le
previsioni dei primi tre titoli dell'entrata, i contribuiti destinati al
rimborso dei prestiti e l'avanzo di parte corrente, salvo le eccezioni
indicate nei principi contabili. L'equilibrio di parte corrente è molto
stringente, poiché in esso rileva il fondo crediti di dubbia esigibilità.
Le conseguenze
Gli enti adesso, però, sono «senza rete», poiché non c'è più nessun vincolo
esterno che ne freni la capacità di spesa, ma che, per altro verso,
garantisca loro, seppur in modo indiretto, una qualche tenuta «derivata»
alla situazione finanziaria.
Scompare dal sistema il concetto di overshooting, vale a dire la differenza,
in termini di spazio finanziario, fra saldo obiettivo e risultato
effettivamente conseguito. Non può esistere infatti overshooting senza
vincolo di finanza pubblica.
L'avanzo di amministrazione e il fondo pluriennale vincolato, in
ottemperanza alle recenti posizioni della Consulta, tornano nella piena
disponibilità degli enti, secondo le regole previste dal Tuel (comma 820
della legge 145/2018).
Se scompare il sistema sanzionatorio diretto previsto per il mancato
rispetto degli obiettivi del patto/pareggio, è necessario verificare, per
coerenza ordinamentale, la persistenza o meno di sanzioni indirette connesse
alla violazione del vincolo di finanza pubblica. Si pensi soprattutto al
divieto di inserimento di risorse variabili nei fondi per il trattamento
accessorio del personale in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi
di finanza pubblica (articolo 40, comma 3-quinquies, del Dlgs 165/2001).
Questa limitazione viene a cadere o, più probabilmente, il divieto si trasla
sul mancato rispetto del rimanente vincolo, cioè quello intrinseco al
sistema di bilancio previsto dall'articolo 162 del Tuel?
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.01.2019). |
ENTI LOCALI: Revisori
dei conti, ai nuovi compensi serve la delibera.
Decisione consiliare necessaria ai professionisti che sono già in carica.
Aumentano i compensi dei revisori degli enti locali, ma per gli organi in
carica occorre la delibera del Consiglio. Il 21 dicembre è stato infatti
firmato il decreto interministeriale di aggiornamento dei limiti massimi dei
compensi dei revisori degli enti locali, i cui importi sono bloccati dal 20.05.2005 (si veda il Sole 24 ore del 19.11.2018).
L’eventuale efficacia del provvedimento per i soggetti in carica richiede
però l’adozione di apposita deliberazione da parte del consiglio dell’ente.
Il comma 3 dell’articolo 1 del decreto stabilisce tuttavia che questo
eventuale adeguamento del compenso non abbia effetto retroattivo.
L’articolo 241 primo comma Tuel stabilisce che con decreto del ministro
dell’Interno, di concerto con il ministro del Tesoro del Bilancio e della
Programmazione economica, vengano fissati i limiti massimi del compenso base
spettante ai revisori, da aggiornarsi ogni tre anni. Il compenso base è
determinato in relazione alla classe demografica e alle spese di
funzionamento e di investimento dell’ente locale. Il compenso base può
infatti essere maggiorato:
- sino ad un massimo del 10% per gli enti locali la cui spesa corrente
annuale pro-capite, desumibile dall’ultimo bilancio preventivo approvato,
sia superiore alla media nazionale per fascia demografica riportata nel
decreto;
- sino ad un massimo del 10% per gli enti locali la cui spesa per
investimenti annuale pro-capite, desumibile dall’ultimo bilancio preventivo
approvato, sia superiore alla media nazionale per fascia demografica
indicata nel decreto.
Il decreto, che sarà in vigore dal primo gennaio 2019, adegua anche i
parametri della spesa corrente e della spesa di investimento degli enti
locali alle nuove medie di fascia desunte dagli ultimi rendiconti approvati
riferiti all’anno 2017.
A dimostrare le criticità dell’attività del revisore dei conti degli enti
locali (compensi, sistema di estrazione, ecc.) è la fuga dal registro. Per il
secondo anno di seguito cala infatti il numero dei professionisti che
sceglie di abbandonare l’elenco tenuto dal ministero dell’Interno.
La nuova composizione per l’anno 2019, approvata nei giorni scorsi dal
ministero dell’Interno con decreto del 20 dicembre, è formata da 15.548
professionisti, oltre 1.500 in meno rispetto a due anni fa (quasi 500 in
meno rispetto all’anno scorso). Nel complesso gli iscritti all’albo dei
dottori commercialisti nelle regioni in cui vale il registro tenuto dal
ministero dell’Interno sono 104.385.
Il registro è articolato su base regionale, ed è con riferimento a tale
ambito che viene scelto l’organo di revisione. Le riduzioni più
significative si sono registrate nelle regioni Basilicata, Emilia Romagna
Puglia e Toscana.
Non è riuscita dunque a invertire la tendenza la notizia del duplice aumento
del limite dei compensi con decorrenza dal 01.01.2019
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2019). |
APPALTI: Acquisti
e appalti. Tra i 10 e i 40mila euro serve la delibera del consiglio di
istituto con i criteri e i limiti delle procedure da seguire per il
dirigente scolastico.
Affidamenti diretti «liberi» sotto la soglia dei 10mila euro.
Dal 1° gennaio è in vigore il nuovo regolamento sulla gestione
amministrativo-contabile degli istituti scolastici (Dm Istruzione 129/2018), redatto dal ministero dell' Istruzione, dell' Università e della
Ricerca, in collaborazione con il ministero dell' Economia e delle Finanze.
Obiettivo semplificazione Il regolamento opera una revisione organica del
decreto precedentemente in vigore, adottato ben 18 anni fa, il 01.02.2001. Lo scopo è quello di semplificare gli adempimenti delle scuole -pur
con i vincoli derivanti dalla necessità di rispettare la normativa primaria- e di fornire agli istituti gli strumenti operativi che serviranno, fra l'altro, a supportarli nella loro attività quotidiana e anche a liberare
risorse per il conseguimento del loro obiettivo primario: la didattica.
Le procedure di acquisto Il nuovo regolamento interviene, tra le altre cose,
anche nella disciplina relativa alle procedure di acquisto. La legislazione
è particolarmente complessa al riguardo ed è oggetto di continue istanze di
riforma, con l'attuale Governo al lavoro in un' ottica di ulteriore
semplificazione.
Per orientare e sostenere le attività delle scuole, in attuazione di
specifiche previsioni del regolamento, il ministero dell' Istruzione, d'
intesa con il Mef, ha adottato e sta adottando linee guida operative, schemi
di atti di gara e altri modelli documentali.
Le nuove linee guida Ad esempio, è stata già diffusa la circolare 24078/2018
sull'affidamento del servizio di cassa, che fornisce lo schema di
convenzione e gli schemi di atti di gara e introduce, in considerazione del
rilevante grado di standardizzazione del servizio, importanti elementi di
semplificazione, soprattutto con riferimento ai criteri di aggiudicazione.
Nella circolare, infatti, si suggerisce di espletare l' affidamento sulla
base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata
sulla base del miglior rapporto qualità-prezzo (articolo 95 del Dlgs
50/2016) e quindi, venendo a mancare valutazioni discrezionali, non c' è l'obbligo per le scuole di costituzione della commissione di gara.
Oltre a quelli citati, sono in fase di predisposizione ulteriori strumenti,
che vedranno la luce nel 2019: ad esempio, linee guida generali e su temi
specifici, schemi di provvedimenti di acquisto e di aggiudicazione, schemi
di atti di gara riguardanti procedure complesse, come le concessioni di
servizi bar e distributori automatici.
La gestione delle Reti Il regolamento chiarisce, inoltre, alcuni punti
relativi alla gestione contabile delle "Reti di Scuole". Queste ultime sono
istituti giuridici introdotti dal Dpr 275/1999, all' articolo 7, con lo
scopo di creare sinergie tra istituzioni scolastiche -ciascuna nell'ambito
della propria autonomia- per vari scopi tra cui quello di potenziare l'offerta formativa. Il regolamento entrato da poco in vigore nasce con l'intento di incentivare il ricorso alla Rete: per le scuole gli acquisti in
forma aggregata sono un'opportunità molto vantaggiosa per conseguire dall'appaltatore risparmi di spesa e condizioni migliori anche sul piano tecnico.
Gli affidamenti diretti Il nuovo regolamento, tenendo conto della peculiare
realtà delle istituzioni scolastiche, prevede che, per gli affidamenti
diretti sopra i 10mila euro, le scuole adottino una delibera interna di
autoregolamentazione, nel rispetto dei principi comunitari e degli
orientamenti dell' Anac, tra i quali, fondamentale, è quello relativo alla
trasparenza. Al di sotto di questa soglia -che il precedente Dl 44/2001
aveva invece fissato a 2mila euro- il dirigente scolastico potrà procedere
in piena autonomia. Viceversa, per gli affidamenti compresi tra i 10mila e i
40mila euro, sarà il consiglio di istituto a individuare, con apposita
delibera, i criteri e i limiti delle procedure di acquisto, tenendo conto
delle specifiche esigenze della singola istituzione scolastica, effettuando
un' analisi attenta del fabbisogno ed avendo cura di fornire congrua
motivazione delle scelte adottate.
Anche per gli affidamenti di minore importo è sempre auspicabile che l'amministrazione consulti il mercato per individuare le condizioni
tecnico-economiche migliori.
Ad ogni modo, saranno le singole scuole a definire nel dettaglio le modalità
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.01.2019). |
ENTI LOCALI:
La relazione dei revisori non può tacere le cause del dissesto.
Rientra tra i compiti dei revisori degli enti locali, secondo l'articolo 246
del Tuel, la redazione di una dettagliata relazione «che analizza le cause
che hanno provocato il dissesto», da allegare obbligatoriamente alla
deliberazione consiliare dichiarativa del default. Il conciso dettato
legislativo non offre all'interprete molti spunti ricostruttivi circa
l'estensione dell'adempimento. A riempire di contenuti la norma supplisce il
diritto vivente.
La giurisprudenza amministrativa enuncia coordinate utili a
capire la reale portata della mansione dell'organo di revisione, con
riferimento a natura e contenuto della relazione.
La natura
L'iter procedurale che conduce al dissesto non attribuisce alla relazione
una efficacia vincolante ma è necessario che la declaratoria consiliare si
ancori –atteso il suo carattere non discrezionale– a dati contabili
oggettivi e non condizionati da apprezzamenti di stampo soggettivo (Tar
Campania, sentenza n. 2450/2015).
Inoltre, la relazione non ha natura giuridica di parere da cui
l'amministrazione possa discostarsi solo motivatamente confutandone in
maniera espressa tutti gli elementi (Tar Campania, sentenza n. 2115/2015).
Il contenuto
Sotto il profilo contenutistico, la relazione che si limiti a porre in
evidenza il disordine contabile e rendere palese la difficoltà di misurare
con precisione gli squilibri esistenti è censurabile di contraddittorietà
laddove ometta di pronunciarsi sulla sussistenza o meno dei presupposti per
la dichiarazione di dissesto (Tar Campania, sentenza n. 2117/2015).
I presupposti del dissesto
L’orientamento giurisprudenziale consente di affermare che, in sede di
relazione, l'accertamento dei presupposti del dissesto è fattore connaturato
alla valutazione delle cause che hanno provocato il deficit, costituendone
anzi una sorta di premessa logica: solo un dissesto acclarato consente
l’analisi delle cause (rappresentate dalle diverse criticità che implicano
l'insanabile disequilibrio strutturale).
Il riconoscimento dei presupposti del dissesto non esula dalla relazione e
non induce un difetto di funzione in capo ai revisori. Infatti, la stessa
magistratura –data la natura vincolata della declaratoria di dissesto– ha
espresso l'orientamento che nega il superamento delle competenze e l'eccesso
di potere allorché i revisori, oltre ad analizzare le cause provocanti il
dissesto, concludano la propria relazione reputando che ne sussistano i
presupposti di legge (Tar Campania, sentenza n. 1437/2015).
La collaborazione consiliare
La collaborazione consiliare non solo è possibile quanto insita nella
funzione propria dei revisori con il consiglio, nella complessa attività
d'indirizzo e controllo amministrativo di competenza dell'organo consiliare.
Come statuito dai principi di revisione degli enti locali, si tratta
dell’analisi e della valutazione anche prospettica dei risultati
dell'attività amministrativa che si concretizza in osservazioni e
suggerimenti che, analizzando aspetti gestionali nelle cause e negli
effetti, si traducono in un complesso di elementi utili al consiglio
(Principio Cndcec n. 3).
Appare evidente, in definitiva, che la relazione dei revisori alla delibera
di dissesto assurge a elemento di valutazione più qualificato per il
consiglio, giacché resa da un organo indipendente (dalla giunta e dalla
struttura amministrativa) e con rapporto collaborativo diretto. Esimersi,
allora, dall'accertare l'esistenza dei requisiti per il dissesto
significherebbe per i revisori (specie nell'ipotesi anomala di eventuale
contrasto tra le risultanze –in ordine alle condizioni finanziarie
dell'ente– cui pervengono giunta e responsabile finanziario) abdicare alla
rilevante funzione di organo tecnico di supporto consiliare.
Il rischio è
quello di precludere al consiglio il consapevole e penetrante controllo
sugli atti sottoposti alla sua deliberazione, finendo così –con la mera
ratifica di quanto ad esso proposto– per svalutarne le prerogative di
garanzia. Questo deficit informativo della relazione, per l'effetto,
legittimerebbe la richiesta suppletiva ai revisori di integrazione della
loro analisi con l'esplicitazione della ricorrenza (o meno) dei presupposti
legali del dissesto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.01.2019). |
APPALTI SERVIZI: Società
in house, dai giudici i confini sulle attività commerciali.
Dopo anni d'incertezza normativa è stata definita una disciplina organica
per il modello dell'in house providing, con la conseguenza che oggi i
margini di manovra per l'autoproduzione di servizi da parte della Pa
risultano chiari e ben delineati.
Il quadro normativo
Sotto il profilo normativo, l'articolo 5 del Dlgs 50/2016 (codice dei
contratti), in linea con l'accezione di «controllo analogo» introdotta
dall'articolo 12 della direttiva 2014/24/Ue, ha stabilito che una
concessione o un appalto non rientra nell'ambito di applicazione del codice
quando sono soddisfatte le seguenti condizioni:
a) l'amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto
affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
b) oltre l'80 per cento dell'attività del gestore è svolta per
l‘ente controllante (o da altre persone giuridiche da essa controllate);
c) nel soggetto controllato non vi è alcuna partecipazione diretta
di capitali privati a
eccezione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla
legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano
un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
Dal 15.01.2018 è entrato in vigore il regime speciale degli affidamenti
in house con l'istituzione, a cura dell'Anac, di un elenco di enti
aggiudicatori. A questo riguardo, l'articolo 192, comma 1, del codice
prevede che:
a) l'iscrizione nell'elenco avviene a domanda, dopo il riscontro
dell'esistenza dei requisiti;
b) la domanda consente all'ente aggiudicatore, in attesa
dell'iscrizione e sotto la propria responsabilità, di affidare direttamente
all'organismo controllato appalti o concessioni.
Resta inteso che l'affidamento in house potrà legittimamente proseguire solo
in caso di esito positivo dell'istruttoria da parte dell'Anac, in conformità
alla delibera n. 235/2017.
A latere di questo costrutto normativo, l'articolo 16 del Dlgs 175/2016
(testo unico sulle società a partecipazione pubblica) ha recepito, sotto il
profilo degli assetti societari, lo scenario organizzativo entro cui possono
essere disposti gli affidamenti in house, in deroga alle procedure di scelta
del contraente secondo le regole di evidenza pubblica.
Gli orientamenti giurisprudenziali
Sulla base della disciplina appena descritta, la giurisprudenza ha sciolto
una serie di dubbi in ordine alla «vocazione commerciale» delle società in
house. Dubbi alimentati, in molti casi, da un contesto d'incertezza legato
all'esigenza di colmare le lacune dell'ordinamento con i principi comunitari
–oltretutto, non sempre univoci e concordanti– in tema di autoproduzione
di servizi.
Per fare un esempio, il Consiglio di Stato ha sancito «la contrarietà ai
principi di tutela della concorrenza e del libero mercato della prassi,
adottata da un sempre crescente numero di Università, (…) di acquisire da Cineca (e, per tramite di questa, dalla società interamente controllata), la
fornitura dei software gestionali e dei relativi servizi di assistenza», in
assenza dei requisiti prescritti per il modello organizzativo dell'in house providing.
Il Consorzio Cineca, scrivono i giudici, opera al di fuori del controllo
analogo e non svolge un'attività prevalente a favore dei soggetti
consorziati, in maniera tale che l’ organismo svolge, direttamente o tramite
società controllate, una parte rilevante della propria attività a favore di
soggetti non consorziati, pubblici e privati, sia in Italia che all'estero.
Di qui il rilievo secondo cui «lo svolgimento di attività imprenditoriale
verso l'esterno attribuisce al Cineca una vocazione commerciale che
impedisce di considerarlo alla stregua di un soggetto in house, ovvero di un
mero organo delle Amministrazioni consorziate» (Consiglio di Stato, Sezione
VI, sentenza n. 6009/2018).
Di contro, la pronuncia del Tar Lombardia n. 2746/2018 ha chiarito, sempre in
tema di vocazione commerciale, che quest'ultima non è un elemento
incompatibile con l'in house providing là dove la società partecipata da più
enti locali sia munita di uno statuto che:
a) garantisce agli enti soci l'esercizio del controllo analogo
congiunto (ancorché a fronte di una partecipazione minima al capitale
sociale), grazie sia alle modalità di calcolo delle maggioranze nel
meccanismo di voto assembleare, sia al «diritto di veto assoluto»
riconosciuto ai soci minori «per l'assunzione delle delibere assembleari che
incidano direttamente nel proprio servizio o territorio»;
b) prevede la soglia dell'80% dell'attività svolta dalla società a
favore degli enti pubblici soci.
Va notato che, secondo il Tar lombardo, là dove queste prescrizioni siano
puntualmente previste e rispettate non rappresenta un elemento ostativo al
riconoscimento della natura di società in house la circostanza che quest'ultima
detenga partecipazioni in altre società, dando luogo a una configurazione
organizzativa articolata e complessa.
Secondo i giudici, la legittimità del modello dell'in house providing, sotto
l'angolo visuale della vocazione commerciale, risulta assicurata per il solo
fatto che la società pubblica operi con un fatturato superiore all'80 per
cento a favore dei comuni soci, a prescindere dalla complessità della
propria struttura organizzativa.
Con riguardo alla nozione di vocazione commerciale, la medesima sentenza fa
poi un richiamo ai principi della Corte di giustizia per precisare che le
attività rientranti nell'in house providing sono quelle che la società
realizza nell'ambito di un affidamento effettuato dall'amministrazione
aggiudicatrice, indipendentemente dal fatto che il destinatario sia la
stessa amministrazione o l'utente delle prestazioni sul proprio territorio.
La pronuncia chiarisce che non ha rilevanza accertare chi remunera le
prestazioni dell'impresa in questione, potendosi trattare sia dell'ente
controllante, sia di terzi utenti di prestazioni fornite in forza di
concessioni o di altri rapporti giuridici instaurati dal suddetto ente.
Questa ampia facoltà della società in house di sviluppare un'attività
commerciale riscontra ovviamente il limite quantitativo del 20 per cento del
fatturato, e può essere svolta «a condizione che la stessa permetta di
conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza sul complesso
dell'attività principale della società» (articolo 16, comma 3-bis, del Dlgs
175/2016)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.01.2019). |
ENTI LOCALI: Sul
pareggio di bilancio sanatorie «su misura».
Cancellazione «mirata» delle sanzioni per la violazione dei vincoli di
finanza pubblica.
La novità, che spunta nei commi 827-830 dell'articolo 1
della legge 145/2018, interviene in modo puntuale a individuare una serie di
situazioni specifiche al verificarsi delle quali non si applicano le
limitazioni per il mancato rispetto del patto di stabilità interno o del
pareggio di bilancio.
Assunzioni di personale
Il primo caso riguarda i Comuni in cui si sono svolte le elezioni
amministrative nel mese di giugno 2018, per i quali, se inadempienti ai
vincoli, non trova applicazione la sanzione del divieto di assumere
personale, disciplinata dall' articolo 1, comma 475, lettera e), della legge
232/2016. La norma prevede l'impossibilità per l'ente di procedere nell'anno
successivo a quello di inadempienza ad assunzioni di personale a qualsiasi
titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, compresi i rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa e di somministrazione, anche con
riferimento ai processi di stabilizzazione in atto. È fatto anche divieto
agli enti di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si
configurino come elusivi della presente disposizione.
Enti in dissesto o pre-dissesto
Con altra norma si interviene invece a tutelare gli enti locali in stato di
dissesto o pre-dissesto, nei quali la violazione ai vincoli di finanza
pubblica sia stata accertata dalla Corte dei conti. In questo caso non si
applicano infatti le sanzioni previste dall'articolo 31, comma 26, della
legge 183/2011 e dall'articolo 1, comma 723, della legge 208/2015, cioè la
riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio, i limiti agli impegni di
spesa corrente, il divieto di indebitamento per gli investimenti e di
assunzione di personale e la riduzione delle indennità di funzione e dei
gettoni di presenza degli amministratori.
Gli enti locali in stato di dissesto che hanno adottato la procedura
semplificata di accertamento e liquidazione dei debiti secondo l'articolo
258 del Tuel non applicano poi la sanzione consistente nel divieto di
assumere personale a qualsiasi titolo, nel caso in cui il mancato
raggiungimento del saldo obiettivo risulti essere diretta conseguenza del
pagamento dei debiti residui mediante utilizzo di una quota dell'avanzo
accantonato.
Infine, non applicano le sanzioni neppure gli enti locali in stato di
dissesto o pre-dissesto, nei quali la Corte dei conti abbia accertato il
mancato rispetto degli obiettivi per l'anno 2016
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.01.2019). |
TRIBUTI: Aumento
delle addizionali per compensare la flat tax.
Con la legge di stabilità per il 2019 (legge 145/2018) i Comuni, le Province
e le Regioni tornano a poter esercitare la loro autonomia impositiva,
bloccata dal 2016.
Naturalmente, ciò non vuol dire aumento generalizzato di tutti i tributi
comunali, perché in realtà molti enti avevano già “consumato” tutta la leva
fiscale.
Il termine per l'approvazione delle aliquote e delle tariffe è fissato al 28
febbraio, scadenza per l'approvazione dei bilanci comunali, e tale termine è
valido anche per gli enti che hanno già approvato il “proprio” bilancio, con
l'unica conseguenza che se le delibere tariffarie o regolamentari comportano
una variazione delle poste già iscritte in bilancio, sarà necessario
approvare contestualmente una variazione del bilancio di previsione e non
procedere alla sua totale riapprovazione (risoluzione 21 novembre 2013,
della VI Commissione permanente finanze).
Per quanto riguarda l'addizionale Irpef, i Comuni hanno la possibilità di
aumentare l'aliquota fino allo 0,8 per cento, ma anche di rimodularne
l'applicazione, rideterminando le soglie di esenzione o le singole aliquote,
in caso di applicazione per scaglioni di reddito, che si ricorda devono
essere gli stessi di quelli previsti ai fini Irpef.
Anche le regioni hanno la possibilità di aumentare l'aliquota base
dell'addizionale regionale all'Irpef, pari all'1,23%, fino ad arrivare a
un'aliquota massima del 3,33 per cento.
Sul fronte delle addizionali va però tenuto conto dell'estensione del regime
forfettario introdotto dalla legge di stabilità 2015 ed ora esteso allo
soglia dei compensi e ricavi fino a 65mila euro. Il regime è quello previsto
dal comma 64 della legge 190/2014, il quale prevede che l'imposta sostituiva
sostituisce non solo l'Irpef, ma anche le addizionali comunali e regionali,
oltre all'Irap. Nella relazione tecnica alla legge di stabilità si è
stimata, a decorrere dal 2020, una perdita di gettito per l'addizionale
comunale di 59 milioni di euro, e per quella regionale di 119,5 milioni di
euro.
Possibili aumenti anche per Imu e Tasi, ricordando che l'aliquota Imu
massima è pari al 10,6 per mille, mentre quella Tasi può arrivare fino al
2,5 per mille, anche se occorre ricordare che la normativa comunque prevede
che la sommatoria delle aliquote Imu e Tasi non può comunque essere
superiore al 10,6 per mille. Un discorso a parte deve essere fatto per la
maggiorazione Tasi dello 0,8 per mille, che si va a sommare al limite
massimo del 10,6.
Inizialmente tale maggiorazione doveva servire a
finanziare le detrazioni per l’abitazione principale, ma a seguito
dell'esenzione Tasi per tali immobili è stata data la possibilità di
continuare ad utilizzarla anche per immobili diversi dall'abitazione
principale, possibilità che ha trovato conferma anche per il 2019.
Ovviamente, la proroga vale solo per gli enti che avevano già deliberato la
maggiorazione, ed anche quest'anno è richiesta l'adozione di un'espressa
delibera confermativa.
Sul fronte Tari, anche se tale entrata non era sottoposta a blocco, va
segnalata la proroga della possibilità di derogare ai coefficienti di
produzione dei rifiuti nei limiti del 50% dei valori minimi o massimi
previsti dal Dpr 158/1999, proroga necessaria ad evitare aumenti
generalizzati per tutti gli utenti.
La legge di stabilità cerca di mettere ordine anche in tema di imposta di
pubblicità, a seguito della confusione creata dalla sentenza della Corte
Costituzionale 15/2018 che ha dichiarato l'illegittimità delle maggiorazioni
fino al 50% sull'imposta di pubblicità deliberate, anche tacitamente, dai
Comuni a partire dal 2013, benché difatti sia stata confermata la
legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 739, della legge 208/2015
che aveva la funzione di salvaguardare proprio le delibere dei Comuni che
avevano già deliberato la maggiorazione. Ora la legge di stabilità prevede
che dal 01.01.2019 le tariffe ed i diritti possono essere aumentati
fino al 50% per le superfici “superiori” al metro quadrato.
La norma,
invero, non ripristina integralmente le facoltà di aumento, perché non
considera gli aumenti fino al 20% che potevano essere disposti, in base
all'abrogato articolo 11, comma 10, della legge 449/1997, per le superfici
fino ad un metro quadrato (Mef, circolare 1/2001). Questo mancato gettito
potrà essere compensato agendo sulla possibilità di dividere il territorio
in due categorie, applicando alla categoria speciale una maggiorazione fino
al 150% della tariffa normale, ex articolo 4 del Dlgs 507/1993
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Per
i dipendenti scavalco condiviso con calendario predeterminato.
L'utilizzo congiunto del personale da parte degli enti locali è stato sino a
oggi regolato sia in via legislativa sia contrattuale. L'articolo 1, comma
577, della legge 311/2004 ha dato la possibilità ai piccoli Comuni di
avvalersi del cosiddetto «scavalco di eccedenza» che consiste nell'utilizzo
di uno stesso dipendente tra due Comuni oltre al suo normale orario di
obbligo settimanale, nel limite massimo delle 48 ore settimanali
complessive.
L'articolo 14, comma 1, del contratto del 22.01.2004 ha esteso
anche agli altri enti territoriali la possibilità di utilizzare lo stesso
dipendente ma solo all'interno del suo normale orario di obbligo settimanale
(36 ore settimanali) mediante l'istituto del cosiddetto «scavalco
condiviso». Questa ultima indicazione contrattuale è ora regolata anche in
via legislativa dall'articolo 1, comma 124, della legge di bilancio 2019.
Il passaggio dal comparto autonomie locali a funzioni
locali
Il nuovo contratto del comparto funzioni locali, sottoscritto il 21.05.2018, rinvia alle disposizioni sullo scavalco condiviso esclusivamente in
tema di utilizzazione di personale titolare di posizione organizzativa
(articolo 17, comma 6) facendo esplicito riferimento alle disposizioni
previste dall'articolo 14, comma 1, del contratto del 2004.
Si ricorda come,
il passaggio operato dal contratto del 13.07.2016, ha modificato gli
enti appartenenti alle funzioni locali rispetto a quelli precedentemente
appartenenti alle Autonomie locali. Infatti, sono stati inseriti e/o riclassificati nuovi enti (Città metropolitane, Enti di area vasta, Liberi
consorzi comunali di cui alla legge 04.08.2015 n. 15 della regione
Sicilia) con soppressione di altri (agenzia per la gestione dell'albo dei
segretari comunali e provinciali; Scuola superiore della pubblica
amministrazione locale – Sspal; associazioni regionali delle Camere di
commercio).
Attraverso, quindi, l'inserimento di una specifica norma,
all'interno della legge di bilancio 2019, a partire dal 01.01.2019, lo
scavalco condiviso potrà essere effettuato dagli enti locali nei confronti
di tutti gli enti del comparto funzioni locali, utilizzando la medesima
normativa, in quanto compatibile, contenuta nell’articolo14 del contratto
del 2004 cui il legislatore fa espresso rinvio.
I presupposti per lo scavalco condiviso
Al fine di poter validamente attivare l'istituto della condivisione del
personale, la normativa prevede il previo consenso del lavoratore
interessato su un periodo di tempo predeterminato sin dall'inizio.
L'utilizzazione può avvenire esclusivamente per una parte del tempo di
lavoro d'obbligo (36 ore settimanali) del dipendente, con obbligo del previo
assenso dell'amministrazione di appartenenza. Infine, la norma stabilisce
uno specifico obbligo di disciplinare, l'utilizzazione del lavoratore tra i
due enti, mediante convenzione.
I vantaggi nell'utilizzazione del personale condiviso
A seguito di alcune posizioni divergenti della magistratura contabile, la
Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, con la deliberazione n. 23/2016,
ha precisato come la spesa sostenuta dall'ente utilizzatore, nello scavalco
condiviso, non rientri nelle limitazioni della spesa del personale a tempo
determinato (articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010), in quanto il personale è
pur sempre utilizzato nell'ambito del suo normale orario di lavoro.
Tale è
la differenza rispetto all'utilizzazione, da parte di piccoli Comuni, dello
scavalco di eccedenza, in quanto in quest'ultima ipotesi il dipendente è
utilizzato nell'amministrazione di destinazione oltre al suo orario di
obbligo. In questo caso, pertanto, la spesa per il numero di ore eccedenti
(nel limite massimo delle 12 ore settimanali) dovrà essere computata
all'interno del limite disposto dalla normativa per le assunzioni di
personale flessibile (spesa non superiore a quella sostenuta nell'anno 2009)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.01.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Con
il divieto di assunzioni a tempo indeterminato, PA alla prova del turn-over.
Grazie alla quota 100 contenuta nel maxiemendamento alla legge di bilancio
si chiude l'epoca della riforma Fornero, e a chi lavora sarà finalmente
consentito di sommare l'età anagrafica a quella contributiva per raggiungere
la fatidica soglia utile al pensionamento anticipato.
La combinazione sulla quale si focalizza l'attenzione generale è la somma
costituita dai 62 anni di età e 38 anni di contributi, che non dovrebbe
comportare l'applicazione di una penalità sulla misura dell'assegno, né un
tetto alla contribuzione figurativa valorizzabile ai fini del
perfezionamento del requisito contributivo, ma soltanto un divieto
temporaneo di cumulo tra reddito da lavoro e pensione.
A quanto pare, il nuovo meccanismo per la fuoriuscita dal mondo del lavoro
dovrebbe produrre effetti sin dai primi mesi del 2019 (cioè subito dopo
l'approvazione della legge di bilancio) con un esteso raggio d'azione, per
il fatto di riguardare i lavoratori iscritti presso l'assicurazione generale
obbligatoria dell'Inps, le gestioni speciali dei lavoratori autonomi, la
gestione separata dell'Inps e i fondi sostitutivi dell'assicurazione
generale obbligatoria.
Il difficile turn over
Per quel che concerne la Pa, è sotto gli occhi di tutti il forte impatto che
la Quota 100 dovrebbe sortire in un contesto organizzativo già pesantemente
penalizzato dai vincoli di finanza pubblica, e del tutto impreparato a
gestire un ricambio generazionale ormai inevitabile. È il caso di ricordare
che secondo l'ultimo conto annuale del personale pubblico del 2016, in
seguito al blocco del turn over e alla stretta sui pensionamenti l'età media
dei dipendenti pubblici nel 2014 ha sfiorato i 50 anni, registrando un
incremento di quasi 6 anni rispetto al 2001.
In quel documento si legge che l'83% dei dipendenti della Pa supera i 40
anni, mentre appena il 3,1% (ossia 101.693 lavoratori) ha meno di 30 anni.
Risulta poi che gli ultrasessantenni (372.932 unità) superano di molto i
dipendenti con meno di 35 anni, che sono 260.065.
Ora siamo alle soglie del 2019, per cui dopo quasi 5 anni dall'epoca del
rilevamento il quadro dei dati è divenuto ancora più drammatico, tanto più
che l'invecchiamento del personale pubblico altro non è che lo specchio
della nostra società civile.
Le ricadute sugli enti locali
In questa cornice gli enti locali, specie di piccole dimensioni, si trovano
da tempo in difficoltà nel garantire la continuità dei servizi essenziali,
per l'impossibilità ex lege di sostituire dipendenti in posizione chiave, e
incamminati a grandi passi verso il congedo per raggiunti limiti d'età. A
breve il congedo del personale in possesso dei requisiti previsti dalla
Quota 100 potrebbe dar luogo a un esodo di massa, con contraccolpi quasi
impossibili da gestire per la macchina burocratica.
Blocco delle assunzioni
Questa dura realtà sembra però trascurata, tanto che nella manovra di
governo si prevede che la Presidenza del Consiglio, i ministeri, gli enti
pubblici non economici, le agenzie fiscali e le università non potranno
effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato fino al 15.11.2019.
Visto che nello stesso arco temporale del 2019 la Quota 100 dovrebbe
esplicare il proprio effetto, il divieto di assumere non si prospetta quale
misura adeguata per il contenimento della spesa pubblica, perché potrebbe
comportare un cortocircuito con effetti destabilizzanti per la Pa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.12.2018). |
TRIBUTI - PUBBLICO IMPIEGO: Doppio
vincolo agli incentivi anti-evasione per il personale degli uffici tributi.
Perse le speranze sugli incentivi da recupero dell'evasione Imu (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 4 aprile), il legislatore, nella
manovra 2019, amplia la possibilità di destinare il maggior recupero
tributario degli enti locali prevedendo specifici incentivi fuori dai limiti
di crescita dei salari accessori (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017),
ma a due specifiche condizioni.
La prima condizione riguarda la platea degli
enti beneficiari che possono essere solo quelli che abbiano approvato nei
termini del Tuel sia il bilancio di previsione (entro il 31/12) sia
rendiconto di gestione (entro il 30/04). La seconda condizione chiarisce che
gli incentivi sono dovuti esclusivamente per i Comuni che non abbiano
esternalizzato il servizio di accertamento a un concessionario.
L'accertamento e il recupero tributario
La norma introdotta stabilisce che gli enti locali possono destinare, con
proprio regolamento, specifiche risorse finanziarie per incentivare il
proprio personale al recupero del maggior accertamento e riscossione della
Tari, dell'Imu e della partecipazione dei Comuni nell'accertamento dei
tributi erariali.
La percentuale, nel limite massimo del 5% del maggiore accertamento e
riscossione di questi tributi, può essere destinata in parte al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e in parte al trattamento accessorio del personale
dipendente, anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite stabilito d
all'articolo 23, comma 2, del Dlgs75/2017 (ossia potendo superare il limite
finanziario del salario accessorio del 2016) e al principio di
onnicomprensività della retribuzione dirigenziale.
Pertanto, una volta che
il regolamento dell'ente abbia stabilito la quota di incentivazione da
destinare al personale, sarà cura della contrattazione integrativa, in caso
di raggiungimento degli obiettivi, di individuare il personale impiegato cui
le quote potranno essere distribuite.
Secondo la norma, il calcolo dovrà essere effettuato prendendo a riferimento
la differenza tra accertamento dei tributi nell'anno precedente e quelli
accertati nell'esercizio in corso, sulla base dei dati consuntivi
formalmente approvati dall'ente, mentre la distribuzione della percentuale
sarà effettuata solo sull'effettiva riscossione. Così, ad esempio, se ho
accertato nell'anno 2018 una evasione di 100 e nell'anno 2019 il mio
accertamento è pari a 120, il maggiore gettito di 20 potrà essere
distribuito solo per la parte effettivamente riscossa (non importa in quale
anno). Il responsabile dei tributi, dovrà quindi tenere distinto
l'accertamento ordinario rispetto al maggior accertamento stimato, al fine
di poter correttamente controllare quest'ultimo con due distinte
contabilizzazioni anche per gli incassi.
Limitazioni oggettive e soggettive
La norma estende il beneficio con alcune limitazioni oggettive e soggettive.
La prima condizione oggettiva dipende dall'approvazione nei termini,
previsti dal Tuel, sia del bilancio di previsione sia del rendiconto di
gestione. L'altra limitazione oggettiva, anche questa condizionante la
distribuzione degli incentivi, è rivolta ai soli enti locali che non abbiano
affidato l'accertamento (e non la riscossione) a un concessionario, ossia
l'ente deve accertare il maggior gettito con il proprio personale.
In merito alle limitazioni soggettive sulla distribuzione degli incentivi,
che dovranno essere calcolati al lordo degli oneri riflessi e dell'Irap a
carico dell'amministrazione, è previsto che ciascun dipendente beneficiario
non potrà superare il quindici per cento del suo trattamento tabellare annuo
lordo.
L'approvazione dei documenti contabili
In considerazione dell'operatività della norma, a partire dal 01.01.2019, si
ritiene che essa non possa che operare per il futuro. Pertanto, il primo
bilancio di previsione da approvare sarà quello dell'anno 2020, la cui
scadenza è prevista al 31.12.2019, mentre il primo rendiconto di gestione
sarà quello del 2018 la cui approvazione dovrà avvenire entro il 30.04.2019
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.12.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondo
decentrato, il vademecum operativo di fine anno dopo le esclusioni dai tetti
di spesa.
L'articolo 10 del Dl 135/2018 (decreto semplificazioni) ha finalmente
chiarito che gli incrementi previsti dai contratti sui fondi delle risorse
decentrate sono esclusi dal limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017.
È, quindi, il momento di compiere le ultime azioni in materia di
contrattazione integrativa decentrata. Il 31 dicembre di ogni anno
costituisce un importante punto di arrivo con riflessi sia sulle procedure
sia sul bilancio, dopo che i principi contabili hanno indicato come agire a
seconda dello stato di avanzamento dei lavori sugli integrativi. Quest'anno,
poi, le cose si sono complicate con la stipula del contratto del 21.05.2018.
Sono due i momenti fondamentali dell'intera procedura. Da una parte è
necessario costituire il fondo delle risorse decentrate e quindi
quantificare la somma da portare al tavolo con sindacati. Dall'altra parte
si deve stipulare un contratto integrativo decentrato che vada a individuare
i criteri per l'erogazione dei trattamenti accessori. I principi contabili
si sono preoccupati di spiegare che cosa succede al bilancio a seconda dallo
stato delle cose. Il tutto è disciplinato al punto 5.2., lettera a),
dell'allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011.
Se l’ente non costituisce il fondo
Il caso più grave è certamente quello dell'ente che entro il 31 dicembre non
ha neppure costituito il fondo delle risorse decentrate. Quest'anno,
peraltro, sono emerse diverse criticità in quanto l'articolo 67 del
contratto 21.05.2018 ha reimpostato le regole per la quantificazione
delle somme lasciando spesso dubbi interpretativi per i quali a oggi non vi
ha ancora una soluzione definitiva.
Pensiamo solo, ad esempio, alla
questione della 0,20% del monte salari 2001 oppure alla difficoltà di
mettere insieme la costituzione del fondo con il valore delle posizioni
organizzative per il rispetto del limite dell'anno 2016 come previsto
dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 165/2001. Di fatto, se un ente non
costituisce il fondo si trova nella situazione più difficile in quanto
confluiranno dell'avanzo di amministrazione solo le somme non già spese
della parte stabile che si ritiene essere comunque obbligatoria in quanto
prevista dai contratti.
Quando l’ente non chiude il contratto integrativo
Il secondo contesto lo troviamo quando un ente, dopo aver costituito il
fondo, non riesce a chiudere con un contratto integrativo stipulato
definitivamente la procedura delle risorse decentrate. In questo caso,
nell'avanzo di amministrazione vincolato confluiscono non solo le somme non
spese di parte stabile, ma anche quelle di parte variabile in quanto la
costituzione ne ha almeno determinato i valori.
Nel principio contabile vi è però un inciso da tenere in stretta
considerazione: il consiglio è, infatti, quello di richiedere la
certificazione della costituzione del fondo all'organo di revisione al fine
di “bloccare” definitivamente le somme.
La situazione ideale sia dal punto di vista delle procedure della
contrattazione che da quello della contabilità, la si raggiunge quando un
ente dopo aver costituito il fondo riesce anche a contrattarlo e siglarlo
definitivamente entro il 31 dicembre. In questo caso tutte le somme non già
erogate confluiranno nel fondo pluriennale vincolato in quanto la stipula dà
certezza di esigibilità degli importi.
Questo accade, naturalmente, sia che
lente sia riuscito a stipulare un accordo triennale così come previsto
dall'articolo 8 del contratto 21.05.2018 sia in presenza di un accordo
“ponte” di durata annuale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.12.2018). |
ENTI LOCALI: Doppio premio per i comuni puntuali nell'approvare i bilanci.
Doppio premio per le amministrazioni puntuali nell'approvare bilanci e
rendiconti. La manovra in corso di approvazione, infatti, aggiunge nuove
agevolazioni a quelle già previste dal dl 50/2017. Anche se la modifica
entrerà in vigore solo dal prossimo 1° gennaio, i suoi effetti retroagiranno
a favore delle amministrazioni che riusciranno a varare il preventivo
2019-2021 entro il prossimo 31 dicembre.
Nel corso dei lavori alla camera, al disegno di legge di Bilancio è stata
aggiunta una norma (cfr.
art. 1, comma 905, L. 30.12.2018 n. 145) che prevede importanti semplificazioni per i comuni e le
loro forme associative (unioni e comunità montane) che approvano il bilancio
di previsione entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello di
riferimento e il rendiconto entro il 30 aprile dell'anno successivo. In tali
casi, verranno disapplicate le seguenti norme:
a)
art. 5, commi 4 e 5, della legge n. 67/1987 (obbligo di comunicare al
Garante delle spese pubblicitarie effettuate nel corso di ogni esercizio
finanziario, al momento previsto per i soli comuni con più di 40.000
abitanti);
b)
art. 2, comma 594, della legge n. 244/2007 (obbligo di approvare piani
triennali per l'individuazione di misure finalizzate alla razionalizzazione
dell'utilizzo delle dotazioni strumentali, anche informatiche, che corredano
le stazioni di lavoro nell'automazione d'ufficio, delle autovetture di
servizio, attraverso il ricorso, previa verifica di fattibilità, a mezzi
alternativi di trasporto, anche cumulativo, dei beni immobili ad uso
abitativo o di servizio, con esclusione dei beni infrastrutturali);
c)
art. 6, commi 12 e 14, del dl 78/2010 (contenimento delle spese di
missione e per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di
autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi);
d)
art. 12, comma 1-ter, del dl n. 98/2011 (limitazione all'acquisito di
beni immobili);
e)
art. 5, comma 2, del dl n. 95/2012 (contenimento delle spese per
l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture,
nonché per l'acquisto di buoni taxi);
f)
art. 24 del dl n. 66/2014 (limitazioni in materia di locazioni e
manutenzioni di immobili).
Particolarmente rilevanti appaiono l'eliminazione dei tetti di spesa per le
autovetture (che tanti problemi hanno creato specialmente ai piccoli comuni)
e dei limiti agli acquisti di immobili (che spesso si sono tradotti
nell'impossibilità di portare avanti progetti anche importanti di
riqualificazione).
Le nuove semplificazioni si aggiungono a quelle già previste dall'art.
21-bis del dl 50/2017, riguardo alle spese per studi ed incarichi di
consulenza, relazioni pubbliche, convegni, pubblicità, rappresentanza,
sponsorizzazioni, formazione e spesa per la stampa delle relazioni e di ogni
altra pubblicazione
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
APPALTI: Nomina
dei commissari di gara, dal 15 gennaio cambiano le regole.
Conto alla rovescia, per le stazioni appaltanti, per procedere in autonomia
alla nomina delle commissioni giudicatrici degli appalti pubblici.
È questo
l'alert lanciato dall'Anci, con una nota operativa, di supporto ai Comuni,
in cui si ricorda che, a far data dal 15.01.2019, cesserà la vigenza
del periodo transitorio previsto dall'articolo 216, comma 12, del codice
appalti. L'individuazione dei commissari di gara non potrà più essere
discrezionale ma dovrà avvenire attraverso l'uso di un applicativo, messo a
disposizione dall'Anac già dallo scorso 10 settembre, che consente alla
stazione appaltante di richiedere la lista di esperti, tra cui sorteggiare,
in seduta pubblica, i componenti della commissione.
La nuova procedura è il corollario dell'entrata in vigore dell'Albo
nazionale dei commissari, previsto dall'articolo 78 del codice degli
appalti, operativo per le procedure di affidamento i cui bandi o avvisi
prevedono termini di scadenza della presentazione delle offerte a partire
dal 15.01.2019. Da questa data, quando il criterio di aggiudicazione è
quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, per poter far parte
della commissione gli esperti devono necessariamente essere iscritti
all'Albo obbligatorio, istituito presso l'Anac, anche se appartenenti alla
stazione appaltante che indice la gara.
Albo e requisiti
Possono iscriversi all'Albo i candidati in possesso dei requisiti di
esperienza, professionalità e onorabilità previsti dalla linee guida Anac n.
5, dietro versamento di una tariffa annuale pari a 168 euro.
La commissione deve essere composta da un numero dispari di membri,
normalmente tre, salvo situazioni complesse nelle quali si può arrivare a
cinque componenti, esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto
del contratto.
Con deliberazione dell'Autorità anticorruzione n. 648/2018 sono definite le
istruzioni operative per l'iscrizione all'Albo nazionale dei commissari e i
relativi criteri per l'estrazione, la cui oggettività è assicurata da un
servizio di randomizzazione che genera numeri casuali.
L'obbligo di nominare una commissione di gara costituita da esperti esterni
- Presidente e commissari - vige per gli appalti di lavori sopra un milione
di euro e di servizi e forniture sopra la soglia comunitaria.
Presidente e componenti interni
Tuttavia, a differenza del Presidente di gara, la cui nomina è sempre
esterna, la stazione appaltante può individuare alcuni componenti interni
quando si tratta di affidamenti di contratti per servizi e forniture di
importo inferiore alle soglie comunitarie o lavori di importo inferiore a un
milione di euro o per contratti che non presentano particolari complessità,
quali le procedure interamente telematiche e quelle svolte attraverso i
sistemi dinamici di acquisizione ,nonché per servizi e forniture di elevato
contenuto scientifico, tecnologico o innovativo.
È comunque considerato interno alla stazione appaltante il commissario di
gara appartenente a uno dei diversi enti che hanno deliberato la volontà di
costituirsi in forma aggregata secondo i dettami dell'articolo 37 del Dlgs
50/2016, anche se non è stato completato l'iter previsto. I componenti
interni sono esonerati dal pagamento della tariffa prescritta per
l'iscrizione all'Albo e per i medesimi non è previsto alcun compenso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.12.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Enti
Locali alla prova delle nuove regole sul piano delle opere pubbliche.
Enti locali all'angolo nella difficile sfida di dare attuazione alle nuove
norme sulla programmazione delle opere pubbliche con il ciclo del bilancio
di previsione. Dal 2019 si applicano, infatti, per la prima volta, le nuove
disposizioni del codice dei contratti pubblici e dei decreti attuativi sui
tempi di adozione e approvazione del piano delle opere pubbliche.
La nuova programmazione di settore
L'articolo 21 del Dl 50/2016 (codice dei contratti pubblici) stabilisce
l'obbligo di approvazione del programma biennale degli acquisti di beni e
servizi e di quello triennale dei lavori pubblici, e relativi aggiornamenti.
I piani settoriali sono approvati nel rispetto dei documenti programmatori e
in coerenza con il bilancio e, per gli enti locali, secondo le norme che
disciplinano la programmazione economico-finanziaria degli enti.
Successivamente alla adozione -per la quale non è indicato un termine- il
programma triennale e l'elenco annuale devono essere pubblicati sul profilo
del committente. Le amministrazioni possono consentire la presentazione di
eventuali osservazioni entro i trenta giorni successivi.
L'approvazione
definitiva del programma triennale, unitamente all'elenco annuale dei
lavori, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro trenta giorni dalla
scadenza delle consultazioni, ovvero, in assenza di queste, entro sessanta
giorni dalla pubblicazione. La pubblicazione deve poi essere effettuata in
formato open data sui siti informatici del ministero delle Infrastrutture e
dei trasporti e dell'Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture.
I documenti di bilancio
Con la modifica al paragrafo 8.2 del principio applicato della
programmazione, introdotta dal Dm Economia e Finanze 29.08.2018, viene
stabilito che, salvi gli specifici termini previsti dalla normativa vigente,
si considerano approvati, in quanto contenuti nel Dup, senza necessità di
ulteriori deliberazioni, anche il programma triennale e l’elenco annuale dei
lavori pubblici e il piano biennale di forniture e servizi.
Nel caso in cui i termini di adozione o approvazione dei singoli documenti
di programmazione previsti dalla normativa vigente precedano l'adozione o
l'approvazione del Dup, gli stessi devono essere adottati o approvati
autonomamente dal Dup, fermo restando il successivo inserimento degli stessi
nel documento unico.
Nel caso in cui invece la legge preveda termini di
adozione o approvazione successivi a quelli previsti per l'adozione o
l'approvazione del Dup, i documenti di programmazione settoriale possono
essere adottati o approvati autonomamente dal Dup, fermo restando il
successivo inserimento degli stessi nella nota di aggiornamento. I documenti
di programmazione per i quali la legge non prevede termini di adozione o
approvazione –ed è questo il caso del programma lavori e forniture- devono
essere infine inseriti nel Dup.
Le criticità
Di difficile attuazione la norma secondo cui entro novanta giorni dalla data
di decorrenza degli effetti del proprio bilancio, il programma triennale e
l'elenco annuale devono essere definitivamente approvati dal consiglio
dell'ente, nel rispetto ed in coerenza con gli atti di programmazione
approvati (articolo 21 del Dl 50/2016).
La via d'uscita
In questo contesto scollato una possibile via d'uscita potrebbe essere
rappresentata dalla presentazione del Dup al consiglio entro il 31 luglio,
senza dar seguito agli obblighi di pubblicazione del programma delle opere
pubbliche.
Entro il 15 novembre, o la diversa data scelta per approvare la nota di
aggiornamento al Dup e lo schema di bilancio di previsione 2019/21, potrebbe
poi essere adottato e pubblicato il programma delle opere pubbliche, da
approvare entro il 31/12. Questa soluzione ha il vantaggio di garantire la
coerenza del programma con il bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.12.2018). |
APPALTI: Si
allargano le cause di esclusione dagli appalti. Chiarito lo stop per gravi
illeciti professionali o influenze indebite.
Le stazioni appaltanti dovranno adeguare i bandi ai nuovi requisiti generali
e valutare le eventuali situazioni critiche sulla base di nuovi parametri.
A modificare lo scenario è il decreto semplificazioni atteso oggi in
consiglio dei ministri. Il provvedimento, stando alle bozze circolate in
questi giorni, riformula l’articolo 80, comma 5, del Codice dei contratti,
chiarendo alcune cause di esclusione dalle gare che avevano creato problemi.
In primo luogo, la nuova lettera c) stabilisce che si ha causa di esclusione
quando la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore
economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da
rendere dubbia la sua integrità o affidabilità (rilevabili ad esempio da
condanne per reati non gravi, ma attestanti violazioni di obblighi di
sicurezza sul lavoro o di norme ambientali).
L’operatore economico sarebbe escluso dalla gara anche quando, in base alla
nuova lettera c-bis, abbia tentato di influenzare indebitamente il processo
decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate
per proprio vantaggio o abbia fornito, anche per negligenza, informazioni
false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione,
la selezione o l’aggiudicazione; stesso esito quando abbia omesso le
informazioni dovute per il corretto svolgimento della gara.
La terza causa di esclusione è delineata nella nuova lettera c-ter) e si
determina quando l’operatore economico abbia dimostrato significative o
persistenti carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o
di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento o la
condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili; la stazione
appaltante motiva anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione
e alla sua gravità.
Rispetto alla norma originaria, la nuova versione rafforzerebbe la rilevanza
della carenza, che può essere significativa o persistente (ad esempio quando
l’operatore economico è inadempiente per situazioni non gravi, ma per un
periodo lungo, producendo quindi disservizi e disagi costanti
nell’esecuzione dell’appalto), ma soprattutto sancisce che questa si
concretizza come causa ostativa a contrarre quando le situazioni critiche
hanno determinato la risoluzione per inadempimento o hanno comportato una
condanna per risarcimento o altre sanzioni comparabili.
L’ulteriore novità è l’obbligo per la stazione appaltante di valutare le
circostanze e di considerare sia il tempo trascorso dalla violazione sia la
sua gravità, a cui si lega l’obbligo (comma 10) di considerare per
l’esclusione l’eventuale pendenza di un ricorso sulla risoluzione o sulla
sanzione.
Le innovazioni inserite nell’articolo 80 obbligano inoltre le stazioni
appaltanti ad adattare il formulario del documento di gara unico europeo o a
inserire nell’istanza, in attesa della revisione da parte del Mit, le
dichiarazioni per le nuove fattispecie di requisiti di ordine generale
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Funzione
pubblica, la Conferenza dei servizi «semplificata» deve essere la regola, e
l’ordinaria l’eccezione.
A due anni dalle più recenti modifiche apportate dal Dlgs 127/2016, uno
degli undici decreti attuativi della riforma Pa targata Madia, sulla
conferenza di servizi torna ufficialmente il dipartimento della Funzione
pubblica, facendone una dettagliata analisi nella
circolare 03.12.2018 n. 4/2018, corredata da cinque corposi
allegati, con destinatarie tutte le Pa centrali e locali.
Nel richiamare le ragion d’essere di uno strumento potenzialmente in grado
di semplificare e accelerare enormemente i procedimenti amministrativi,
obiettivo dichiarato nella legge 241/1990 che la introdusse nell’ordinamento
giuridico, il dipartimento pone l’accento sull’opportunità della conferenza
di servizi di essere il «momento di migliore esercizio del potere
discrezionale della Pa», in quanto luogo di analisi e discussione in cui può
essere garantita la «completa e approfondita valutazione degli interessi
pubblici (e privati) coinvolti».
Per raggiungere tali obiettivi è rilevante -secondo il dipartimento-
implementare correttamente la disciplina nelle Pa, sollecitando l’apporto
del personale coinvolto, che va formato e motivato all’uso degli strumenti
normativi così come di quelli tecnologici. Determinante un buona
organizzazione degli uffici.
I cinque allegati
La parte più importante della circolare di ieri, però, sono i cinque
allegati redatti per ognuno degli altrettanti «aspetti qualificanti» della
conferenza di servizi.
Il primo descrive lo svolgimento della conferenza, distinta in due fasi: una
«semplificata», che è il modello ordinario e una «simultanea», che è la
modalità eccezionale. In modalità semplificata, secondo Palazzo Vidoni, si
deve chiudere «la maggior parte delle conferenze di servizi», mentre alle
procedure ordinarie, più complesse, bisogna ricorrere solo «nell'ipotesi in
cui siano emersi dissensi espressi ritenuti insuperabili».
Il secondo riguarda la conferenza simultanea, prevedendo che la decisione
sia assunta dall'amministrazione procedente, sulla base delle posizioni
prevalenti degli altri partecipanti.
Sul rafforzamento del silenzio-assenzo come momento di «chiusura certa» dei
lavori della conferenza è il terzo allegato, mentre il quarto considera le
ipotesi nelle quali è necessaria una conclusione del procedimento «anche
quando vi sono amministrazioni portatrici di interessi sensibili che hanno
espresso un dissenso».
Il quinto allegato, infine, prevede un procedimento unico di opposizione
delle amministrazioni dissenzienti qualificate con deliberazione finale del
consiglio dei ministri
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.12.2018). |
APPALTI: Obbligo
di gare informatizzate, la deroga dell’Anac per somme sotto i mille euro non
copre l’in house.
A decorrere dallo scorso 18 ottobre, come noto, per effetto del comma 2
dell'articolo 40 del codice dei contratti pubblici è scattato l’obbligo di
uso dei mezzi di comunicazione elettronici nello svolgimento di procedure di
aggiudicazione. Le comunicazioni e gli scambi di informazioni nell'ambito
delle procedure del codice dei contratti pubblici svolte dalle stazioni
appaltanti vanno quindi eseguiti utilizzando mezzi di comunicazione
elettronici
Già all'indomani dell'entrata in vigore dell'obbligo sono sorti diversi
dubbi.
Il quadro normativo
In particolare, sono state poste all'Anac richieste volte a capire se
nell'ambito delle procedure soggette all’obbligo rientrano anche gli
affidamenti di importo inferiore a 1.000 euro. Infatti, secondo l'articolo
1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296 (Finanziaria 2007), le
amministrazioni elencate, vale a dire le amministrazioni statali centrali e
periferiche, a esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e
grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, gli
enti nazionali di previdenza e assistenza sociale pubblici, le agenzie
fiscali di cui al decreto legislativo 30.07.1999 n. 300, nonché le altre
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 e le autorità indipendenti, sono tenute a fare ricorso al
mercato elettronico «per gli acquisti di beni e servizi di importo di
importo pari o superiore a 1.000 euro». Diverse amministrazioni si sono
quindi rivolte all’Anac per avere chiarimenti in ordine all'applicazione di
questa norma rispetto all'obbligo introdotto dallo scorso 18 ottobre.
Le indicazioni dell’Anac
L'Autorità, con comunicato del Presidente 30.10.2018, ha reso le
proprie indicazioni, affermando che per gli acquisti infra 1.000 euro,
permane la deroga prevista dalla legge finanziaria e, quindi, la possibilità
di procedere senza l'acquisizione di comunicazioni telematiche, non essendo
stato abrogato dal codice dei contratti pubblici il comma 450 dell'articolo
1 della legge 296/2006.
Ci si chiede però a questo punto se le stazioni appaltanti che non rientrano
nell'elenco dell’articolo 1, comma 450, della finanziaria 2007 (ad esempio,
le società in house) godano oppure no della deroga prevista.
Se si tiene conto all'interpretazione restrittiva dell'articolo 40, in base
alla quale tutte le stazioni appaltanti sono tenute per le procedure
previste dal codice dei contratti pubblici all'adozione dei mezzi telematici,
bisogna chiedersi che cosa ne sarà delle stazioni appaltanti che non sono
comprese nella Finanziaria 2007? Al momento, in assenza di chiarimenti,
questi soggetti sembrerebbero tenuti all'obbligo di utilizzo dei mezzi di
comunicazione elettronici anche per acquisti inferiori a mille euro.
Quindi, a oggi, risulterebbero più svantaggiati proprio quei soggetti, come
ad esempio gli organismi di diritto pubblico di cui all'articolo 2 del
codice dei contratti pubblici, meno strutturati e certamente meno avvezzi
all'utilizzo delle piattaforme elettroniche.
Si auspica quindi un chiarimento in tal senso, anche perché altrimenti
verrebbe vanificata la ratio delle agevolazioni ai piccoli acquisti sotto i
mille euro, per i quali peraltro in base alla linea guida di Anac n. 4 il
criterio della rotazione è derogabile motivatamente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.11.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Privacy, p.a. in una strettoia.
Per trattare i dati servono sempre leggi o regolamenti. Le
conseguenze del dlgs 101/2018.
Meno libertà di manovra per gli enti pubblici.
La
privacy per le p.a. è diventata un gran pasticciaccio. Il nuovo codice della
privacy ha spinto gli enti pubblici in una strettoia: per trattare i dati
(quelli diversi da quelli sensibili, genetici e biometrici), secondo il dlgs
101/2018, le pubbliche amministrazioni devono basarsi, sempre e solo, su una
norma di legge o di regolamento. Nella vecchia versione del codice della
privacy (n. 196/2003), invece, per i trattamenti dei dati diversi da quelli
sensibili, e al di fuori di comunicazioni e diffusioni, non era necessaria
una specifica norma di legge o di regolamento, essendo sufficiente che
l'attività rientrasse nelle funzioni istituzionali.
Il problema è che non sempre c'è una norma specifica di legge o di
regolamento per ogni singola attività amministrativa: molte volte è
l'amministrazione stessa, usando, com'è normale che sia, la sua
discrezionalità amministrativa, a individuare (con delibere, determinazioni,
provvedimenti interni ecc.) le attività concrete, mediante le quali
realizzare una funzione istituzionale, tesa al perseguimento di un interesse
pubblico. C'è, allora, un astratto rischio di paralisi dell'attività
amministrativa? Per come sono state scritte le disposizioni, ci si potrebbe
porre anche questo problema. Peraltro, si può tentare di indicare
interpretazioni idonee a rimediare a un problema, creato dal legislatore,
che mette gli interpreti tutti (dal Garante della privacy alle singole
pubbliche amministrazioni) di fronte a un rebus.
Il vecchio codice della privacy (si veda la tabella), per i trattamenti
interni di dati diversi da quelli sensibili e giudiziari (articolo 19, comma
1), si accontentava del richiamo alle funzioni istituzionali, da soli
sufficienti a basare la liceità del trattamento; il nuovo codice (articolo
2-ter) richiede, invece, una legge o un regolamento (solo se previsto dalla
legge) e questo «esclusivamente». È un fatto che la p.a. svolge
quotidianamente trattamenti di dati personali (diversi da quelli
«sensibili») nell'ambito delle funzioni istituzionali, talvolta con e
talaltra senza una disciplina puntuale e analitica dell'attività secondo i
profili della normativa sulla privacy. Altrimenti detto, non sempre c'è una
legge o un regolamento che espliciti chi è il titolare del trattamento o il
responsabile del trattamento o che specifichi le misure di sicurezza o le
modalità di comunicazione/diffusione dei dati e così via.
Il vecchio codice della privacy era consapevole di ciò e aveva creato un
sistema così articolato: per i trattamenti, interni all'ente, di dati
diversi da quelli sensibili bastava il riferimento alle funzioni
istituzionali (anche senza una espressa norma di legge, articolo 19, comma
1); per le comunicazioni di dati (diversi da quelli sensibili) da una p.a.
ad altra p.a. ci voleva una norma di legge o di regolamento e, in mancanza,
occorreva una preventiva segnalazione al Garante (articoli 19, comma 2, e
39); per la comunicazione di dati a un soggetto privato o per la diffusione
(per esempio pubblicazione su un sito web) occorreva necessariamente una
norma di legge o di regolamento (articolo 19, comma 3); per il trattamento
dei dati sensibili ci voleva una norma di legge dichiarativa di un interesse
pubblico rilevante e, poi, una legge o un regolamento descrittivi di tipi di
dati utilizzabili e delle operazioni di trattamento effettuabili (articolo
20).
In sostanza c'era un crescendo di limiti e condizioni, a seconda del tipo
dei dati e dei trattamenti.
Il dlgs 101/2018 ha abrogato gli articoli 18, 19, 20 e 39 del vecchio codice
della privacy e ha innestato, nello stesso codice, gli articoli 2-ter e
2-sexies. Mentre per i dati ex «sensibili» sia la vecchia formulazione
(articolo 20) sia la nuova formulazione del codice della privacy (articolo
2-sexies) pretendono una espressa norma di legge e di regolamento e anche
l'indicazione espressa di tipi di dati utilizzabili e di categorie di
operazioni, si coglie una forte differenza nella disciplina testuale del
trattamento dei dati diversi dagli ex «sensibili» (di questi ci si occupa in
questo approfondimento). L'articolo 2-ter, comma 1, scrive, infatti, che per
trattare i dati (diversi da quelli «sensibili», che nel frattempo non si
chiamano più così, ma si chiamano «categorie particolari di dati»), la p.a.
deve avere alla base «esclusivamente» una norma di legge o una norma di
regolamento (se previsto dalla legge).
Pare, conseguentemente, che ci sia una brusca restrizione. Dunque, stando
alla lettera, non basterebbe più il riferimento alle funzioni istituzionali,
in quanto l'articolo 18, comma 1, è stato abrogato. Ci vuole
necessariamente, sembra, una legge o un regolamento (adottato su rinvio
legislativo). Ci si chiede che cosa occorra fare, allora, quando manca la
legge o il regolamento, e anche, quando non si sia sicuri che ci sia una
norma di legge o di regolamento, tale da disciplinare dettagliatamente il
singolo trattamento.
L'unica alternativa parrebbe essere di chiedere il consenso al cittadino.
Non a caso, si potrebbe aggiungere, è stato abrogato l'articolo 18 del
vecchio codice, che, al comma 4, vietava alle p.a. di raccogliere il
consenso (salvo per la sanità pubblica, che, nell'impianto del vecchio
codice, doveva raccoglierlo). Seguendo questo ragionamento, allora, avremmo
funzioni istituzionali (da gestire per conseguire interessi pubblici), per i
quali non c'è una norma di legge o di regolamento descrittiva, in maniera
analitica, del trattamento, il quale diventerebbe lecito, da un punto di
vista privacy, solo con il consenso del cittadino. La conseguenza sarebbe,
dunque, che un interesse pubblico sarebbe subordinato al consenso
individuale del cittadino (cioè all'interesse privato). Non si ritiene che
questo esito sia accettabile: il mancato consenso renderebbe non
utilizzabili i dati (articolo 2-decies del nuovo codice) e si trasformerebbe
in un vero e proprio veto al perseguimento delle funzioni istituzionali.
Tanto per complicare ulteriormente le cose, non mancano contraddizioni
interne allo stesso articolo 2-ter: questo nuovo articolo, infatti,
disciplina anche l'ipotesi della comunicazione dei dati dalla p.a. ad altri
soggetti che operano per pubblico interesse; nel fare ciò tratta anche il
caso in cui manca una norma di legge o di regolamento, che preveda tale
comunicazione e, in questo caso, ammette il trattamento, anche se solo dopo
che si sia data notizia al garante e il garante non abbia sollevato
obiezioni. In sostanza abbiamo una deroga alla regola della necessità di una
norma di legge o di regolamento e il trattamento è ammesso (seppur previa
procedura che coinvolge l'autorità di controllo).
Si tratta di una ipotesi di trattamento di dati da parte di una p.a. per
funzioni istituzionali, senza una norma di legge o di regolamento, che,
nonostante ciò, può essere iniziato (decorsi 45 giorni da un avviso al
Garante). Ci si domanda, allora, perché per i trattamenti diversi dalla
comunicazione, la lettera del nuovo codice pretenda «esclusivamente», cioè
«senza eccezioni», una norma di legge o di regolamento. E si consideri poi
che, sulla carta, una comunicazione (cioè un trattamento esterno) è
potenzialmente più pericolosa di un trattamento interno.
Per risolvere il dilemma non è risolutiva nemmeno la relazione allo schema
del decreto legislativo, divenuto dlgs 101/2018, che, laconicamente, si
limita a dire che l'articolo 2-ter è «una riformulazione dell'articolo 19
del previgente codice in materia di protezione dei dati personali, il cui
ambito di applicazione soggettivo viene esteso al fine di adeguarsi
all'impostazione adottata dal regolamento». Sembrerebbe, a tutto concedere,
che la riformulazione consista nella sola estensione soggettiva della norma
sulla base giuridica alternativa al consenso (ai soggetti privati che
operano nel pubblico interesse) e non nella restrizione oggettiva della base
giuridica normativa.
Da un punto di vista sistematico si consideri, poi, che è stato eliminato il
consenso quale base giuridica per il settore sanitario: a questo punto si
nota, non senza perplessità, che un organismo sanitario pubblico, che tratta
dati delicatissimi, non deve più chiedere il consenso e, invece, dovrebbe
chiederlo un ente locale o un'amministrazione regionale, quando un
determinato trattamento di dati comuni (per esempio i soli dati anagrafici)
sia prevista, sempre ad esempio, da una deliberazione di consiglio o di
giunta (che non sono atti regolamentari).
In attesa di orientamenti ufficiali, si ritiene che la possibile via di
uscita da questo ginepraio passi attraverso la valorizzazione delle norme
generali sul procedimento e sulla documentazione amministrativa: in
particolare si deve considerare la legge 241/1990 (soprattutto l'articolo 3)
e il dpr 445/2000 (articolo 43). Una volta che c'è la finalità (cioè la
funzione istituzionale) scritta in una legge (vedasi i «considerando» 41 e
45 e l'articolo 6, paragrafo del regolamento Ue 2016/679), le norme generali
sull'attività e sui procedimenti amministrativi sono da ritenersi la base
giuridica sempre sufficiente per il trattamento interno dei dati diversi da
quelli appartenenti alle cosiddette particolari categorie.
A ciò deve
affiancarsi la predisposizione da parte di ciascun ente pubblico di misure
organizzative e tecniche e di sicurezza, ma senza alcuna necessità di andare
a chiedere un consenso, visto che si tratta di compiti istituzionali
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ccnl
funzioni locali, la valutazione negativa deve essere preceduta dal
contraddittorio.
Il nuovo Ccnl delle funzioni locali impone alle amministrazioni una
rivisitazione del sistema di misurazione e valutazione della performance
adottato in base all’articolo 7 del Dlgs 150/2009 il quale, tra l’altro,
prevede, appunto, l’aggiornamento annuale che deve essere inteso nel senso
sia di un adeguamento alle eventuali indicazioni dell’Oiv, effettuate
nell’ambito delle azioni di presidio del sistema e di garanzia della
correttezza dei processi di misurazione e valutazione nonché dell'utilizzo
dei premi (la più importante delle quali è la Relazione annuale sul
funzionamento dei sistema di valutazione, trasparenza e integrità dei
controlli interni), e sia per affrontare eventuali sopravvenienze normative
e, in questo caso, contrattuali.
Tra i diversi aspetti sui quali l’intervento adeguativo si rende necessario
uno riguarda in modo diretto la procedura di valutazione dei titolari di
posizione organizzativa.
La possibile valutazione negativa
Il nuovo comma 5-bis dell’art 3 del Decreto 150/2009, introdotto dal Dlgs
74/2017, disciplina le conseguenze della valutazione negativa del personale.
In particolare stabilisce che la stessa rileva ai fini dell’accertamento
della responsabilità dirigenziale ex art. 21 del Dlgs 165/2001 (che può
portare all’impossibilità di rinnovo dell’incarico dirigenziale fino alla
revoca dell’incarico) e ai fini dell’irrogazione del licenziamento
disciplinare come normato dall’articolo 55-quater, comma 1, lettera f-quinquies, Dlgs 165/2001 (“licenziamento per insufficiente rendimento”).
Per quanto riguarda la durata dell’insufficiente rendimento lo stesso
articolo 55-quater prevede che il licenziamento disciplinare possa
conseguire ad una valutazione negativa reiterata nell’arco dell’ultimo
triennio. Una lettura approfondita di quest’ultima norma consente di
individuare un ulteriore campo di intervento del sistema di misurazione e
valutazione della performance. Infatti è prevista l’irrogazione della
sanzione disciplinare del licenziamento nella ipotesi di “reiterata
violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti
da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o
individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e
rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del
dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a tali specifici fini
ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150/2009”.
Il coordinamento tra le due norme citate non è immediato e presenta aspetti
di non facile soluzione rispetto ai quali sarà utile verificare i primi
pronunciamenti in materia e gli indirizzi del Dipartimento della Funzione
pubblica adottati in base al secondo comma dell’articolo 3 del Decreto
150/2009, che è una norma di principio per tutte le amministrazioni.
Al momento è possibile ipotizzare che non sia sufficiente definire quando la
valutazione debba essere considerata negativa in quanto è necessario che
nella valutazione siano considerate anche le “violazione degli obblighi
concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o
regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e
provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza”. Infatti la lettura
sistematica delle norme richiamate porta a ritenere che tali tipologie di
violazioni, devono essere intercettate al momento della valutazione e,
quindi, concorrere a determinare una valutazione negativa; per cui il
valutatore dovrà necessariamente tenerne conto nell’esprimere il giudizio
finale di valutazione.
Il Ccnl delle funzioni locali
Il Ccnl delle funzioni locali 21.05.2018 si occupa della valutazione negativa
con riferimento alle posizioni organizzative. In particolare l’articolo 14,
comma 3, stabilisce che l’incarico di Posizione organizzativa. Può essere
revocato prima della scadenza, con atto scritto e motivato, tra l’altro in
conseguenza di una valutazione negativa della performance individuale.
Il
successivo comma 4 stabilisce che i risultati della attività svolte dai
dipendenti incaricati di posizione organizzativa sono soggetti a valutazione
annuale in base al sistema adottato dall’ente e che la valutazione positiva
da diritto alla corresponsione della retribuzione di risultato.
Il medesimo comma 4 stabilisce che l’ente, prima di procedere alla
definitiva formalizzazione di una valutazione non positiva, acquisiscono in
contraddittorio, le considerazioni del dipendente interessato anche
assistito dall’organizzazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o
da persona di sua fiducia; procedura di contraddittorio che vale anche per
la revoca anticipata dell’incarico.
Questa fase del procedimento valutativo è obbligatoria e si distingue dalle
procedure di conciliazione che il sistema deve disciplinare, in quanto
queste ultime vengono attivate quanto le valutazioni sono state già
formalizzate e, quindi, sono definitive, mentre il “preavviso di valutazione
negativa” previsto dalla disposizione contrattuale per i titolari di
posizione organizzativa vuole favorire, prima che il valutatore formalizzi
il giudizio valutativo finale, l’acquisizione di elementi utili e che
possano, invece, essere sfuggiti al valutatore o non correttamente
interpretati.
Disposizione di analogo tenore è contenuta nel Ccnl dell’area dirigenti
attualmente vigente (articolo 23-bis, Ccnl 10.04.1996, introdotto
dall’articolo 13 Ccnl 22.02.2006).
Questo tipo di interlocuzione è abbastanza simile ad un istituto previsto,
in generale, dalla legge sul procedimento amministrativo, la legge 241/1990,
laddove all’art. 10-bis viene stabilito che nei procedimenti ad istanza di
parte “prima della formale adozione di un provvedimento negativo” si
comunichino agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda,
istaurandosi un sub procedimento dei cui esiti occorre dare conto nel
provvedimento finale.
Il sistema di misurazione e valutazione
Nel dettaglio è compito del Sistema di misurazione e valutazione prevedere
nello sviluppo del processo di valutazione individuale una specifica fase di
interlocuzione preliminare diversa dal colloquio valutativo e dalla
procedure di conciliazione.
Mentre il colloquio valutativo fa parte dell’ istruttoria valutativa ed è,
nella logica dei processi valutativi, finalizzata a raccogliere elementi
utili ai fini della valutazione, il “preavviso di valutazione negativa”
implica che il valutatore abbia già effettuato la relativa istruttoria in
base ai dati e alle informazioni acquisite e si sia già formato una giudizio
negativo; quest’ultimo prima di essere formalizzato e reso definito deve
essere preceduto da una nuova interlocuzione che consenta al destinatario
della valutazione di portare all’attenzione ulteriori elementi o confutare
le conclusioni cui il valutatore è pervenuto. Tutto ciò ha un senso anche in
considerazione della rilevanza, nell’assetto normativo vigente, della
valutazione negativa che, quindi, nella intenzione delle parti contrattuali,
deve essere attentamente ponderata.
L’acquisizione in contradditorio di ulteriori elementi e in modo specifico
delle considerazioni del destinatario della valutazione ha un senso nella
misura in cui il valutatore ne tenga conto nella valutazione finale per cui
si deve ritenere che deve obbligatoriamente esprimersi su quanto emerso nel
contradditorio.
Non vi sono ostacoli ad estendere la previsione contrattuale prevedendo
l’obbligo di attivazione del contraddittorio, prima della formalizzazione
nella ipotesi in cui si delinei una valutazione negativa, alle valutazioni
di tutti i dipendenti anche se non titolari di posizione organizzativa. Anzi
questa soluzione appare ragionevole.
Conclusioni
Il tema trattato riflette l’esigenza costante che accompagna i sistemi di
misurazione e valutazione di adeguamento continuo rispetto all’evoluzione
normativa e contrattuale.
Gli Oiv, tenuti ad esprimersi preventivamente e in modo vincolante sulle
modifiche al sistema, devono considerare queste evoluzioni e sollecitare
proattivamente le amministrazione che comunque non possono eludere le
prescrizioni minimali.
Sulle disposizioni contrattuali l’esigenza di intervento deriva dal
perimetro di operatività proprio del sistema di misurazione e valutazione
che non può non dettagliare e rendere possibile in concreto le previsioni
del Ccnl
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Regolamenti edilizi omogenei.
Nei comuni 45 definizioni tecniche uguali per tutti. La giunta lombarda ha
approvato il modello tipo da attuare entro il 30.04.2019.
Semplificazione
dei regolamenti edilizi comunali in Lombardia. Con 45 definizioni tecniche
uniformi (Dtu) che rappresentano il glossario comune valevole su tutto il
territorio regionale (e nazionale). L'adeguamento da parte dei comuni
lombardi consisterà nell'adozione di un nuovo regolamento edilizio omogeneo
per tutti, pena la diretta applicazione delle Dtu in sostituzione delle
disposizioni comunali con esse incompatibili.
Con la
delibera di giunta
24.10.2018 n. 695, pubblicata sul Bur del 31.10.2018, la
regione Lombardia ha recepito il regolamento edilizio tipo dando ai comuni
180 giorni dal recepimento regionale, vale a dire entro il 30.04.2019,
per adeguarsi.
La regione ha adottato il regolamento edilizio tipo (Ret), che si inserisce
nel solco della semplificazione amministrativa già da tempo avviata nel
panorama normativo italiano (si pensi alla riforma Madia, ai decreti Scia 1
e Scia 2 e alla sfida della soft law delle linee guida Anac).
Il superamento degli obsoleti regolamenti edilizi comunali ha avuto inizio
con il dl 133/2014 (Sblocca Italia) con lo scopo di uniformarli in tutto il
territorio nazionale. La delibera della giunta lombarda del 24.10.2018
è il risultato di quanto previsto dall'intesa tra Stato, regioni e Anci del
20/10/2016 (G.U. n. 268 del 16/11/16) che ha portato alla redazione di una
serie di documenti, cioè, oltre alle definizioni tecniche, lo schema del
regolamento edilizio tipo, suddiviso in due parti, la prima consistente
nell'indice dei principi generali su cui deve essere basata l'attività
edilizia e la seconda nelle specifiche disposizioni regolamentari locali
definite da ogni comune, secondo le peculiarità del proprio territorio; e la
raccolta della normativa sovraordinata statale in materia edilizia che
costituisce il riferimento per i regolamenti comunali.
La finalità del Ret è quella di uniformare i circa 8 mila regolamenti
edilizi comunali presenti sul territorio nazionale ponendo fine alla
frammentazione, specie nelle definizioni, che ha da sempre caratterizzato
l'ambito edilizio e urbanistico. Il dato più significativo è, infatti, la
non modificabilità delle 42 Dtu standardizzate dal Ret. Ci si aspetta dunque
che nei prossimi anni si consolidino anche a livello giurisprudenziale delle
definizioni e dei concetti edilizi che siano valevoli sull'intero territorio
nazionale, con l'evidente semplificazione dell'attività di tutti gli
operatori del settore che potranno fare affidamento su definizioni edilizie
uguali in tutti i comuni.
I comuni sono tenuti a rispettare la struttura e la numerazione dello schema
di Ret, non hanno l'obbligo di compilare tutte le parti dello schema, ma
solo quelle di loro interesse e devono acquisire il parere sulle norme di
carattere igienico-sanitario da parte delle Aziende territoriali sanitarie.
Tuttavia, il recepimento delle Dtu non avrà effetti sulle previsioni
urbanistiche comunali che hanno un impatto sulle dimensioni degli interventi
edilizi (a titolo esemplificativo, in riferimento alle Dtu previste dalla
Lombardia, la «superficie territoriale» e la «superficie fondiaria»). Le
previsioni urbanistiche che regolano tali aspetti dimensionali, pertanto,
continueranno ad essere applicate fino all'adozione del nuovo strumento
urbanistico comunale.
La delibera lombarda chiarisce inoltre che i procedimenti urbanistici ed
edilizi avviati prima della sua efficacia sono fatti salvi e quindi restano
disciplinati dai regolamenti edilizi comunali in essere. Nulla è detto in
merito alle pratiche edilizie che saranno avviate nell'arco dei 180 giorni.
L'esigenza di uniformare le definizioni edilizie sull'intero territorio
nazionale non prescinde, tuttavia, dalle connotazioni specifiche che possono
esserci sui diversi territori regionali. A questo proposito l'intesa tra
stato, regioni e Anci del 20/10/2016 ha previsto la possibilità per le
regioni di integrare, ma non modificare, le Dtu. La regione Lombardia ha
provveduto al recepimento del Ret aggiungendo tre Dtu alle 42 previste e
standardizzate dall'intesa.
Più in generale, l'adozione regionale -che ad
oggi è ancora a metà strada perché non tutte le regioni si sono adeguate- è
avvenuta nella misura più varia a seconda delle diverse peculiarità
territoriali: da un recepimento tout-court della regione Veneto a un'opera
di vera e propria integrazione delle Dtu da parte della regione Piemonte,
Emilia Romagna e Toscana che hanno aggiunto ulteriori definizioni rispetto
alle 42 tipizzate
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2018). |
PATRIMONIO: Patrimonio
della PA, entro il 15 dicembre il censimento degli immobili pubblici.
Al via la rilevazione dei beni immobili pubblici riferiti all'anno 2017, da
completare entro il prossimo 15 dicembre. Il Dipartimento del Tesoro, con un
comunicato del 24 settembre, ha reso nota l'apertura dei termini per la
comunicazione da effettuare nel rispetto dell'articolo 2, comma 222, della
legge 191/2009. La norma prevede l'obbligo per le amministrazioni di
comunicare annualmente al Dipartimento del Tesoro i dati relativi ai beni
immobili di proprietà pubblica al fine di consentire la redazione del
rendiconto patrimoniale a valori di mercato.
Per rispondere all'esigenza di una puntuale conoscenza del patrimonio
pubblico è stato scelto un approccio dal basso verso l'alto per cui la
rilevazione, avviata a febbraio 2010, è condotta presso ogni singola
amministrazione e l'unità di rilevazione è fissata a livello del singolo
bene che, nel caso della rilevazione dei beni immobili accatastati, coincide
con l'identificativo catastale dell'unità immobiliare o del terreno.
Rilevazione dei dati
Ogni amministrazione deve pertanto comunicare i dati relativi ai beni
immobili pubblici, detenuti o utilizzati a qualunque titolo, specificando i
beni di cui è proprietaria (esclusiva o per una quota parte), di proprietà
dello Stato e di proprietà di altra Amministrazione pubblica. A partire
dalla rilevazione riferita all'anno 2014, sono rilevate anche le
informazioni sui beni immobili (fabbricati e terreni) di cui
l'amministrazione ha ceduto la proprietà. La rilevazione è condotta
interamente per via telematica, tramite il Portale
https://portaletesoro.mef.gov.it,
all'interno del quale sono stati sviluppati gli applicativi del Progetto
«Patrimonio della PA».
Le dichiarazioni negative prestate in occasione delle passate rilevazioni
non saranno considerate valide per l'adempimento in corso, pertanto le
amministrazioni devono accedere all'applicativo “Immobili” e procedere,
entro la scadenza stabilita, all'invio dei dati riferiti all'anno 2017.
L’interoperabilità con gli archivi del catasto
Da quest'anno è inoltre stato sviluppato nell'applicativo “Immobili”, in
collaborazione con l'Agenzia delle entrate, un servizio di interoperabilità
con gli archivi del catasto per il riscontro di tutti gli identificativi
catastali (limitatamente al catasto ordinario) inseriti a sistema e sono
state realizzate le funzionalità per la verifica degli esiti. Il servizio
risponde all'esigenza di mettere a disposizione delle amministrazioni uno
strumento di verifica delle informazioni ricevute e di favorire un sempre
più accurato censimento del patrimonio immobiliare pubblico.
Le istruzioni
rammentano che non è possibile procedere all'invio dei dati in presenza di
schede con segnalazioni bloccanti. Come già previsto per i dati di
superficie dei fabbricati, le segnalazioni bloccanti, in occasione della
rilevazione corrente, sono state estese anche ai valori di cubatura
superiori alle soglie massime individuate per ciascuna tipologia
immobiliare. Le schede che presentano valori di cubatura superiori alle
soglie massime, pertanto, devono essere modificate o validate per procedere
all'invio della comunicazione.
Trattandosi di nuove funzionalità, l'esito del riscontro con il catasto non
porta, invece, a segnalazioni bloccanti per la comunicazione dei dati. Il
Dipartimento del Tesoro invita tuttavia le amministrazioni a sfruttare al
massimo le potenzialità del nuovo servizio per il corretto censimento dei
beni immobili e a verificare con sollecitudine il corretto accesso
all'applicativo senza attendere, per l'inserimento dei dati, i giorni a
ridosso della scadenza. La scadenza merita di essere segnata sul calendario
anche in funzione delle sanzioni in caso di inadempienza. Le amministrazioni
che non provvederanno saranno infatti segnalate alla Corte dei conti per il
seguito di competenza
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Arconet,
il fondo demolizioni non è indebitamento.
Il fondo per le demolizioni delle opere abusive non costituisce
indebitamento in quanto ha natura giuridica di mera anticipazione,
rappresentata nella parte corrente del bilancio.
Il chiarimento su come
contabilizzare l'operazione arriva dalle
carte di lavoro
(riunione del 17.10.2018) della Commissione Arconet.
Il quesito
Il tema è stato posto in agenda a seguito del quesito di Cassa depositi e
prestiti che ha chiesto se il fondo per le demolizioni delle opere abusive
disciplinato dall'articolo 32, comma 12, del Dl 30.09.2003 n. 269
possa essere considerato anticipazione o se invece l'operazione rientri
nell'alveo della categoria dell'indebitamento, sottoposta a tutti i relativi
limiti di legge.
La risposta arriva dopo aver specificato che l'elemento
fondamentale di discernimento non è l'analisi della struttura finanziaria
dell'operazione, bensì la finalità dell'azione amministrativa.
La natura dell’attività
L'attività di demolizione delle opere abusive costituisce un'attività
surrogatoria del Comune che interviene in luogo del responsabile dell'abuso,
il quale non ha ottemperato all'ordine di demolizione. In questo caso si
tratta di esecuzione in danno e il Comune agisce per conto del soggetto
terzo tenuto a risarcire la pubblica amministrazione.
L'attività in
questione deve dunque essere inquadrata tra quelle poste a tutela
dell'ordine pubblico finalizzate al corretto uso del territorio, nel
rispetto dei diritti di proprietà pubblica e privata ed è riconducibile alla
generale funzione di vigilanza e di polizia. Per questo motivo la spesa
sostenuta dall'ente deve essere ricondotta nell'ambito delle spese di
funzionamento e non in quello degli investimento.
La provvista di danaro nei termini e secondo le modalità appena richiamate
non costituisce dunque debito alla luce delle regole della contabilità
pubblica perché il suo utilizzo non finanzia alcun investimento. Il richiamo
alla «demolizione» fatto nell'articolo 3, comma 18 della legge n. 350 del
2003 come forma di investimento non rappresenta una contraddizione, perché
in quel caso la legge si riferisce alle attività lecite intestate all'ente e
non ad un compito esercitato in surroga e per conto di chi vi è obbligato
per legge.
Il rimborso dell'anticipazione
Poiché l'operazione ha natura di anticipazione (e non di indebitamento),
l'impegno concernente il rimborso dell'anticipazione è imputato al medesimo
esercizio in cui la stessa è erogata.
L'articolo 1, comma 1, del decreto Mef 23.07.2004 prevede che le somme
erogate in anticipazione siano rimborsate dai Comuni alla Cassa depositi e
prestiti entro 60 giorni dall'effettiva riscossione delle somme a carico dei
responsabili degli abusi, e in ogni caso, trascorsi cinque anni dalla data
di concessione delle anticipazioni. L'obbligazione giuridica concernente il
rimborso dell'anticipazione è esigibile nel medesimo esercizio in cui
l'anticipazione è erogata.
Per favorire la corretta modalità di contabilizzazione delle anticipazioni
concesse a valere del fondo per le demolizioni delle opere abusive sarà
operato un aggiornamento all'allegato 4/2 al Dlgs 118/2011
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.11.2018). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori,
le Province sdoppiano le centrali uniche. Le strutture create in forma
associata continueranno a operare per beni e servizi
I Comuni non capoluogo dovranno gestire le gare per
appalti di lavori superiori a un milione tramite le stazioni uniche
appaltanti presso Province e Città metropolitane.
La legge di bilancio (si veda Il Sole 24 Ore del 30 ottobre) modifica
integralmente l’articolo 37, comma 5, del Codice appalti. La nuova norma
stabilisce che dal 1° gennaio, in attesa della qualificazione delle stazioni
appaltanti in base all’articolo 38 del Codice, l’ambito territoriale di
riferimento delle centrali di committenza coincide con il territorio
provinciale o metropolitano e i Comuni non capoluogo ricorrono alla stazione
unica costituita presso Province e Città.
La disposizione contenuta nel disegno di legge di bilancio 2019 delinea il
particolare obbligo solo per le procedure di affidamento degli appalti e
delle concessioni di lavori di valore più rilevante: per gli appalti di
servizi e di forniture di valore superiore alle soglie comunitarie, i Comuni
non capoluogo potranno continuare ad avvalersi delle centrali uniche di
committenza costituite in questi anni in forma associata.
Nella prospettiva delineata dalla nuova norma, le Province e le Città
metropolitane dovranno attivarsi presso i Comuni non capoluogo per
verificare sia le procedure in preparazione e da attivare all’inizio del
nuovo anno sia gli strumenti di programmazione triennale (focalizzando
l’attenzione sugli elenchi annuali).
Il potenziamento del ruolo delle stazioni uniche appaltanti, soprattutto nei
contesti nei quali le centrali uniche di committenza tra Comuni gestivano
significativi numeri di gare per lavori, comporta anche il rafforzamento
delle strutture deputate a sviluppare le procedure di affidamento, con
risorse umane qualificate.
Le Province e le Città metropolitane, inoltre, sono chiamate a rivedere gli
aspetti convenzionali dei rapporti con i Comuni non capoluogo, in ragione
del passaggio, per gli appalti di lavori, da un sistema che aveva varie
alternative a uno che definisce un preciso obbligo di ricorso alle loro
strutture.
I Comuni non capoluogo possono, da qui al termine dell’anno, avviare
mediante le centrali uniche di committenza le procedure che hanno a base
progetti esecutivi già approvati, per ricondurre al nuovo sistema le
procedure derivanti dalla programmazione triennale decorrente dal 2019.
Particolare attenzione, inoltre, dovrà essere posta da tutti gli attori del
processo (Comuni non capoluogo e Province-Città metropolitane) sulla
ripartizione dei compiti tra il Responsabile unico del procedimento che
dovrà seguire (nel comune) la programmazione, la progettazione e
l’esecuzione e il responsabile del procedimento di gara individuato dalla
stazione unica appaltante
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lotta
all'assenteismo, «no» del Garante Privacy e della Cassazione alle impronte
digitali.
La strada della riforma Buongiorno sulla lotta all'assenteismo nel pubblico
impiego, attraverso le rilevazioni biometriche di presenza, si rivela molto
stretta.
Il parere del Garante Privacy
Con il parere depositato l'11 ottobre scorso, il Garante Privacy sottolinea
che sarebbe sproporzionata l'introduzione generalizzata dei sistemi di
rilevazione delle presenze mediante identificazione biometrica, in ragione
dell’invasività di queste forme di verifica e della natura stessa del dato
trattato.
A giudizio dell'Authority, per assicurare il rispetto dei principi
di liceità, proporzionalità, minimizzazione, è necessario emendare il
disegno legge, limitando la scelta a un solo strumento di verifica tra
quelli proposti (raccolta di dati biometrici o videosorveglianza),
prevedendone in ogni caso l'utilizzo nel rispetto del principio di
gradualità: laddove altri sistemi non risultino adeguati allo scopo. Occorre
in particolare ancorare l'utilizzo dello strumento della rilevazione
biometrica, alla sussistenza di concreti fattori di rischio ovvero a
specifici presupposti: dimensioni dell'ente, numero dei dipendenti
coinvolti, su tutto, tangibile ricorrenza di situazioni di criticità
ambientale.
La linea della Cassazione
Coerente è il punto di vista della Cassazione che, con l’ordinanza n.
25686/2018, ha deciso su un caso di utilizzo del dato biometrico per
rilevare la presenza del personale di una società catanese. Investito della
questione, il Tribunale di Catania aveva ritenuto che il dato biometrico
fosse “individualizzante”, ma non “identificante”, posto che il lavoratore
non sarebbe identificato per mezzo dei propri dati biometrici, ma di un
regolare badge. Il dato biometrico riguardante la mano di ciascun lavoratore
viene trasformato in un modello di 9 byte, a sua volta archiviato e
associato a un codice numerico di riferimento. Il codice numerico è
memorizzato in un badge. In sostanza, il sistema verifica soltanto se il
badge che si sta utilizzando sia stato adoperato dalla stessa mano impiegata
per configurarlo.
Con questa ricostruzione, esclusa deduttivamente l'applicazione della
normativa privacy, il Tribunale ha persino condannato il Garante a ben
30.000 euro per abuso di processo secondo l'articolo 96, comma 3, del codice
di procedura civile, per essersi cioè avventurato in una vera e propria lite
temeraria: consapevole dell'infondatezza della domanda, l'avrebbe proposta
ugualmente, costringendo la controparte a partecipare a un processo
sostanzialmente immotivato.
La Corte di cassazione ha completamente ribaltato la ricostruzione del
Tribunale: il sistema di raccolta dei dati biometrici della mano, anche se
tradotti in algoritmi, è comunque in grado di risalire al lavoratore e
quindi di riflesso lo “identifica”, sebbene allo scopo legittimo di
controllarne la presenza. Secondo la Cassazione, è irrilevante, ai fini
della configurabilità del trattamento di dati personali, la mancata
registrazione degli stessi in apposita banca dati, essendo sufficiente
un'attività di raccolta ed elaborazione temporanea.
Neppure è dirimente il fatto che il modello archiviato, realizzato
attraverso la compressione dell'immagine della mano, consista in un numero
che non è di per sé correlabile al dato fisico. Nemmeno esclude che si versi
in ipotesi di trattamento di dati biometrici, il fatto che partendo da detto
numero, non sia possibile ricostruire l'immagine della mano, in quanto
l'algoritmo è comunque unidirezionale e irreversibile.
In altre parole, ciò
che rileva è che il sistema, attraverso l'algoritmo, è in grado di risalire
al lavoratore al quale appartiene il dato biometrico e quindi indirettamente
lo identifica, nonostante il fine in sé certamente lecito di controllarne
l'effettiva presenza in servizio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 31.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Portale
nazionale per le graduatorie dei concorsi pubblici.
Il monitoraggio telematico delle graduatorie concorsuali delle Pa, sancito
dall’articolo 4, comma 5, del Dl 101/2013, approda ufficialmente sulla
piattaforma della Funzione pubblica
https://lavoropubblico.gov.it/.
Il sito, che ha lo scopo di supportare le amministrazioni nell’attuazione e
nel monitoraggio di processi e adempimenti amministrativi, si arricchisce
così di un’altra funzionalità che si aggiunge a gestione della mobilità,
banca dati della dirigenza e sito lavoro agile). A breve, informa il
Dipartimento, la piattaforma sarà ampliata anche con il monitoraggio delle
tipologie di lavoro flessibile.
Le informazioni
Il sistema acquisisce le dichiarazioni inviate dalle amministrazioni sulle
graduatorie vigenti per le assunzioni a tempo indeterminato e consente di
aggiornare costantemente i dati. Il monitoraggio diventa permanente. Le Pa
devono comunicare le graduatorie di ogni nuova procedura concorsuale avviata
e giunta a conclusione, aggiornare costantemente i dati registrando tutte le
variazioni relative ai vincitori assunti e da assumere e sugli idonei.
Le informazioni della banca dati consentono agli enti, attraverso
funzionalità di ricerca, di verificare l’eventuale esistenza di profili
professionali di interesse tra i vincitori o gli idonei delle graduatorie
vigenti di altre amministrazioni. Si tratta di uno strumento utilissimo,
soprattutto per quegli enti locali, spesso di piccole dimensioni, che
potendo disporre di capacità assunzionali si rivolgono ad altri enti per
attingere alle loro graduatorie trovandosi nell’impossibilità di gestire in
proprio i concorsi per mancanza di strutture in grado di ospitare le prove,
carenza di personale e di risorse.
Ricerche e consultazioni
Il sistema permette anche ai portatori di interesse (ad esempio ai vincitori
o agli idonei) di effettuare in maniera più funzionale ricerche e
consultazioni delle informazioni sulle graduatorie vigenti. Le ricerche
possono essere riferite ad ambiti regionali o provinciali, per singolo ente
o tipologia di ente, aggregate rispetto ai requisiti contrattuali
professionali o economici. È possibile acquisire informazioni statistiche
sull’andamento del fenomeno, sia di tipo sintetico sia analitico.
Il sistema consente anche di verificare in tempo reale l’effettivo
adempimento da parte di tutte le Pa dell’obbligo di dichiarazione al portale
delle graduatorie approvate ancora vigenti. L’obbligo della rilevazione
ricade anche sulle amministrazioni che non hanno graduatorie vigenti. Di
particolare interesse è la sezione reportistica del portale nella quale
vengono esposti i dati complessivi della rilevazione in corso. Ad oggi, pur
essendo un obbligo di legge, è ancora basso il numero degli enti censiti
(solo 2.407), da qui l’invito da parte della Funzione pubblica alle Pa a
registrarsi, ad aggiornare le graduatorie già inserite con i dati e le
informazioni mancanti o a inserire le eventuali nuove graduatorie nel
frattempo approvate.
Il report evidenzia come oggi risultino censite 15.660 graduatorie, per un
totale di 3.966 vincitori ancora da assumere. Sono i Comuni ad avere le
percentuali più alte in termini di posti banditi (34,4%), vincitori assunti
(33,4%), vincitori da assumere (51,4%), idonei (35,9%), idonei assunti
(20,1%) e idonei soggetti ad eventuale assunzione (40%)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anche
il mancato aggiornamento dei piani triennali per le pari opportunità blocca
le assunzioni.
I piani triennali di azioni positive per le pari opportunità dovranno essere
aggiornati per il triennio 2019-2021, pena il divieto di assumere personale.
Nei prossimi anni la pubblica amministrazione sarà interessata da un
ricambio generazionale, è quindi quanto mai essenziale ricordare gli atti
propedeutici previsti dalla normativa vigente al fine di poter
legittimamente effettuare assunzioni, tra questi rientra il piano triennale
di azioni positive in materia di pari opportunità disciplinato dall'articolo
48, comma 1, del Dlgs 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e
donna).
Il piano di azioni positive è un documento programmatico mirato a introdurre
azioni positive all'interno del contesto di lavoro, che esplica gli
obiettivi, i tempi, i risultati attesi e le risorse disponibili per
realizzare progetti mirati a riequilibrare le eventuali situazioni di
disparità di condizioni fra uomini e donne che lavorano all'interno di un
ente.
La mancata adozione nella giurisprudenza contabile
La mancata adozione del piano costituisce una violazione, a cui consegue,
mediante il richiamo alla previsione dell'articolo 6, comma 6, del Dlgs
165/2001, il divieto per l'amministrazione inadempiente di assumere nuovo
personale.
Nel divieto di assunzione, secondo la delibera n. 531/2015 della Corte dei
conti del Veneto, rientra ogni fattispecie che consenta all'ente interessato
di porre a carico del proprio bilancio l'utilizzo di nuove risorse umane,
comprese, come ha precisato la Corte dei conti Molise nella delibera n.
43/2014, le assunzioni secondo l’articolo 110 del Tuel.
Il richiamo all'articolo 6, comma 6, contenuto nell'articolo 48 lascia
intendere che il legislatore abbia voluto sottolineare la necessaria cogenza
dell'adozione del piano; infatti la sua predisposizione non può essere
effettuata nemmeno successivamente sostenendo di avere comunque
salvaguardato i principi che il documento mira a tutelare.
Secondo la delibera n. 82/2016 della Corte dei Conti della Liguria, a
prescindere dalla previsione o meno di eventuali assunzioni, resta sempre
fermo l'obbligo di adottare il piano triennale di azioni positive in materia
di pari opportunità; infatti, la mancata adozione del piano deve comunque
essere rilevata, a prescindere dalla sanzione formalmente prevista del
divieto di assunzione di nuovo personale, in quanto costituisce uno
strumento altamente rilevante nell'ambito del contrasto di qualsiasi forma
di discriminazione e di violenza morale o psichica per i lavoratori e di
tutela delle donne nei luoghi di lavoro.
Del resto, lo stesso articolo 48 prevede che in occasione tanto di
assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e
preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale
scelta del candidato di sesso maschile sia accompagnata da un'esplicita e
adeguata motivazione.
Piani e contenuti
I soggetti tenuti all'adozione del piano triennale sono le amministrazioni
dello Stato, le Province, i Comuni e gli altri enti pubblici non economici.
Il piano di azioni positive si deve porre in linea con i contenuti del piano
della performance e del piano per la prevenzione della corruzione e della
trasparenza, come strumento per poter attuare le politiche di genere di
tutela dei lavoratori e come strumento indispensabile nell'ambito del
generale processo di riforma della Pa, diretto a garantire l'efficacia e
l'efficienza dell'azione amministrativa attraverso la valorizzazione delle
risorse umane.
Da un punto di vista procedurale, gli organi di vertice dell'ente approvano
il piano di azioni positive a seguito della consultazione del comitato pari
opportunità o comitato unico di garanzia (Cug), degli organismi di
rappresentanza dei lavoratori e della consigliera di parità competente
territorialmente.
L'iter da seguire per la redazione di un Pap in un ente pubblico si compone
di una serie di passaggi tra i quali:
• analisi della situazione di partenza, vale a dire descrizione della
situazione occupazionale interna;
• individuazione delle azioni positive da realizzare come per esempio:
regolamento del Cug, budget previsto per le sue attività, predisposizione di
un codice di condotta contro le molestie sessuali, morali, psicologiche e
nomina della consigliera di fiducia;
• approvazione del piano mediante delibera
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018). |
APPALTI: Contratti
pubblici: quando si paga l'imposta di bollo.
L'agenzia delle Entrate, con la
risposta 12.10.2018 n. 35, ha fornito interessanti
chiarimenti all'interpello sull’applicazione dell’imposta di bollo sui
documenti prodotti nell'ambito dei contratti pubblici.
Il quesito
Un ente pubblico in materia di contratti pubblici di lavoro, servizi e
forniture, nel far presente che gestisce abitualmente procedure di evidenza
pubblica per l'affidamento di appalti e servizi, forniture e realizzazione
di opere, precisa che le imprese che partecipano alla procedura devono
produrre una serie di documenti che sono soggetti all'imposta di bollo, in
base al Dpr 642/1972.
Al riguardo, l'ente evidenzia che, a seguito
dell'evoluzione normativa in materia di procedure di affidamento di appalti
da parte delle pubbliche amministrazioni, e dell'introduzione sempre più
frequente di procedure elettroniche per la stipula degli stessi contratti di
appalto, non è sempre agevole individuare la corretta modalità di
applicazione e assolvimento dell'imposta di bollo.
In particolare l'ente pone una serie di quesiti relativi all'imposta di
bollo e alla sua corretta applicazione; di seguito si analizzano le risposte
fornite dai tecnici delle Entrate.
La risposta delle Entrate
Per quanto riguarda l'applicazione dell'imposta di bollo ai capitolati e al
computo metrico che fanno parte del contratto di appalto per lavori e
servizi, con l'entrata in vigore delle modifiche al codice degli appalti
pubblici (Dlgs 50/2016), relativamente al trattamento tributario da
riservare ai fini dell'imposta di bollo ai capitolati, l'agenzia osserva che
questi documenti poiché disciplinano particolari aspetti del contratto (a
esempio, termine entro il quale devono essere ultimati i lavori,
responsabilità e obblighi dell'appaltatore, modi di riscossione dei
corrispettivi dell'appalto), sono riconducibili alle tipologie disciplinate
dall'articolo 2 della tariffa, parte prima, allegata al Dpr 642/1972, che
prevede l'imposta di bollo nella misura di 16 euro per ogni foglio, per le
«scritture private contenenti convenzioni o dichiarazioni anche unilaterali
con le quali si creano, si modificano, si estinguono, si accertano o si
documentano rapporti giuridici di ogni specie, descrizioni, constatazioni e
inventari destinati a far prova tra le parti che li hanno sottoscritti».
Per quanto concerne l'imposta di bollo del computo metrico estimativo, con
la risoluzione n. 97/2002, l'agenzia delle Entrate ha precisato che gli
allegati di natura tecnica, quali gli elaborati grafici progettuali, i piani
di sicurezza, i disegni, i computi metrici sono parte integrante del
contratto e devono essere richiamati al suo interno. Pertanto, il computo
metrico estimativo, in quanto elaborato tecnico la cui redazione viene
affidata a un professionista in possesso di determinati requisiti, rientra
tra gli atti individuati dall'articolo 28 della tariffa, parte seconda, del
Dpr 642/1972, per i quali è dovuta l'imposta di bollo in caso d'uso, nella
misura di 1 euro per ogni foglio o esemplare.
Relativamente all'applicazione dell'imposta di bollo sulle offerte
economiche, formulate dagli operatori nell'ambito del Mepab, come
risoluzione n. 96/2013/E , gli operatori che non risultano aggiudicatari
della commessa non scontano l'imposta di bollo.
In merito al trattamento tributario ai fini dell'imposta di bollo del
documento riepilogativo del contenuto dell'offerta economica generato
automaticamente dal sistema, l'agenzia delle Entrate ritiene che il
documento in questione non assume un'autonoma rilevanza rispetto al
documento principale «offerta economica».
Per quanto riguarda il trattamento fiscale alle istanze/dichiarazione di
partecipazione a una procedura di evidenza pubblica come previsto dalla
normativa provinciale dell'Alto Adige 17/1993 all'articolo 23–bis, l'agenzia
delle Entrate ritiene che non sono assimilabili, ai fini dell'imposta di
bollo, alle istanze/dichiarazioni di partecipazione alla procedura di gara;
nel caso in esame, queste dichiarazioni sono rilasciate all'interno della
«dichiarazione di partecipazione alla procedura di gara» e quindi devono
essere trattate come le istanze dirette a una amministrazione dello Stato
che sono soggette all'imposta di bollo fin dall'origine, secondo l'articolo
3, comma 1, della tariffa allegata al Dpr 642/1972, nella misura di 16 euro
per ogni foglio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PA
digitale, in due enti su tre manca il responsabile - L'ultimatum di Funzione
pubblica.
Obbligo di nominare in tutti gli enti, «con ogni opportuna urgenza», il
responsabile per la transizione al digitale (Rtd), senza che ciò implichi
l'aumento del numero delle posizioni dirigenziali. Necessità che gli uffici
preposti all’organizzazione, all’innovazione e alle tecnologie siano
impegnati nell’attuazione delle misure per la digitalizzazione, processo da
cui si devono determinare razionalizzazioni e miglioramenti dell'attività
amministrativa.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella
circolare 01.10.2018 n. 3
della Funzione pubblica, la prima circolare firmata dal ministro Bongiorno,
emblematicamente, dedicata all’innovazione tecnologica nelle Pa.
Il ruolo
Il responsabile per la transizione al digitale risponde direttamente al
vertice politico o burocratico dell'ente. È questa una scelta espressamente
compiuta dal legislatore che vuole sottolineare la necessità del massimo
coinvolgimento dell'ente nella sua espressione più elevata.
Un coinvolgimento che deve tendere non tanto o non solo all’introduzione
delle nuove tecnologie della società dell'informazione, ma soprattutto alla
«realizzazione di servizi pubblici rivisitati in un'ottica che ne prevede la
piena integrazione con le nuove tecnologie». La circolare ricorda che
l'obbligo della introduzione di questa figura è già operativo da oltre 2
anni (esattamente dal 14.09.2016), ma sono ancora assai poche le
amministrazioni che vi hanno provveduto.
Le competenze
I compiti del responsabile per la transizione digitale, come definiti dal
legislatore, sono così riassunti: coordinamento strategico dei sistemi
informativi di telecomunicazione e fonia e indirizzo e coordinamento dello
sviluppo dei servizi; programmazione, coordinamento e applicazione della
sicurezza informatica; accesso dei disabili; analisi periodica della
coerenza tra la organizzazione e l'utilizzo delle tecnologie
dell'informazione; partecipazione alla revisione del modello organizzativo
dell'ente; progettazione e coordinamento delle iniziative per il
miglioramento della erogazione dei servizi; attuazione delle direttive della
Funzione pubblica; pianificazione e coordinamento nell'ente
dell’introduzione degli strumenti della società dell'informazione;
pianificazione e coordinamento della acquisizione di soluzioni e sistemi
informatici, telematici e di telecomunicazione.
La circolare raccomanda che a questa figura siano assegnati anche i seguenti
compiti: costituzione di tavoli di coordinamento all'interno dell'ente;
attivazione di gruppi tematici; proposta di circolari ed atti di indirizzo;
definizione delle forme di raccordo con le altre figure interessate ai
processi di digitalizzazione; predisposizione del piano triennale per
l'informatica; predisposizione della relazione annuale sulle attività svolte
da inviare al vertice dell'ente.
La qualifica
Sul terreno operativo tutte le singole amministrazioni pubbliche devono
individuare l'ufficio dirigenziale cui assegnare questi compiti con
l'assegnazione al vertice dello stesso, a condizione che sia «dotato di
adeguate competenze tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali»,
dei compiti di responsabile per la transizione al digitale.
Nella graduazione delle posizioni dirigenziali, cioè nella cosiddetta
pesatura ai fini della determinazione della misura della indennità di
posizione, si deve tenere conto dell’assegnazione di questa responsabilità.
Negli enti senza dirigenti, l'incarico deve essere assegnato a un
responsabile titolare di posizione organizzativa. I piccoli Comuni possono
dare corso all’individuazione di questa figura anche in modo associato, sia
ricorrendo alla convenzione sia all’unione (articolo Quotidiano Enti
Locali & Pa del 03.10.2018). |
LAVORI PUBBLICI: Programma
delle opere pubbliche, possibile l’approvazione dopo il bilancio.
In mancanza di istruzioni ufficiali da parte del ministero, la recente
pubblicazione da parte di Itaca (l'Istituto per l'innovazione e trasparenza
degli appalti e la compatibilità ambientale, che opera a servizio della
Conferenza delle Regioni e Province autonome) del manuale contenente
«Istruzioni per la redazione del programma triennale dei lavori pubblici e
del programma biennale degli acquisti di forniture e servizi di cui all'art. 21
dlgs 50/2016» rappresenta l'occasione per analizzare sotto una diversa
prospettiva (tecnica e non solo contabile) l'iter di approvazione del
programma triennale delle opere pubbliche e il suo rapporto con il documento
unico di programmazione e il bilancio di previsione.
Sino a ora è stato affermato (si veda la nota Anci del 24.07.2018) che
il Dup dovesse contenere gli atti di programmazione settoriale già dalla sua
genesi del mese di luglio, in forza di quanto previsto nel principio
contabile allegato 4/1. Successivamente il Dm 29.08.2018 ha chiarito, in
merito alle procedure di approvazione valide per i Comuni sopra i 5.000
abitanti (ma con disposizione di portata generale), che «Nel caso in cui la
legge preveda termini di adozione o approvazione dei singoli documenti di
programmazione successivi a quelli previsti per l'adozione o l'approvazione
del DUP, tali documenti di programmazione possono essere adottati o
approvati autonomamente dal DUP, fermo restando il successivo inserimento
degli stessi nella nota di aggiornamento al DUP. I documenti di
programmazione per i quali la legge non prevede termini di adozione o
approvazione devono essere inseriti nel DUP».
I termini di approvazione del programma delle opere
pubbliche
In quale casistica rientra l'approvazione del programma triennale delle
opere pubbliche? L'articolo 5, comma 6, del Dm 14/2018 precisa che, dopo aver
adottato il piano, assolto agli obblighi di pubblicazione, consentito (in
via facoltativa) la presentazione delle osservazioni, gli enti locali
procedono all'approvazione definitiva del piano entro 60 giorni dalla
pubblicazione e comunque «entro novanta giorni dalla data di decorrenza
degli effetti del proprio bilancio o documento equivalente, secondo
l'ordinamento proprio di ciascuna amministrazione».
Il termine ultimo
(l'unico ancorato ad una data) per l'approvazione del piano è quindi fissato
nei tre mesi successivi alla data di approvazione del bilancio. I motivi di disposizione (sinora del tutto “trascurata”) possono essere sintetizzati
nelle seguenti considerazioni:
a) l'articolo 21, comma 1, del codice impone che i piani siano approvati in
coerenza con il bilancio di previsione;
b) fino a quando il bilancio non viene approvato e non è definito
l'ammontare delle risorse disponibili per la realizzazione delle opere
pubbliche, non è possibile dare corso compiutamente alla programmazione
delle opere pubbliche (ma analogo discorso vale anche per il programma delle
forniture di beni e servizi).
A spianare la strada a questa impostazione è l'eliminazione del piano delle
opere pubbliche quale allegato al bilancio, documento espunto
dall'elencazione dell'articolo 172 del Tuel sin dal 2015. La difficoltà di
delineare una programmazione degli investimenti in via anticipata rispetto
alla quantificazione delle risorse è infatti sempre stato il punto debole
del rapporto tra i due ambiti di pianificazione, che ha portato in passato
gli enti o ad approvare piani delle opere pubbliche del tutto “avulsi” dal
bilancio (i cosiddetti «piani dei sogni») oppure ad apportare modifiche
sostanziali al piano adottato, per adeguare quello definitivamente approvato
alle effettive disponibilità finanziarie. Secondo la recente lettura
interpretativa, quindi, non è il Dup a imporre i termini per l'approvazione
del piano delle opere pubbliche, termini che sono invece sganciati dal Dup e
indicati dall’articolo 5, comma 6.
Quale rapporto con il bilancio e il Dup?
Se dunque il termine ultimo di approvazione del programma delle opere
pubbliche è fissato in data successiva all'approvazione del documento unico
di programmazione (o della sua nota di aggiornamento), trova applicazione la
seconda casistica disciplinata dal punto 8.2 del principio contabile
allegato 4/1, che prevede l'autonoma approvazione del piano e il successivo
inserimento nella nota di aggiornamento al Dup. A questo punto però il corto
circuito è inevitabile. Come inserire nella nota di aggiornamento al Dup
approvata insieme al bilancio un piano che, a rigore, potrebbe non essere
ancora approvato? Per uscire da questo empasse gli enti alternativamente
possono:
1) non includere nel Dup (o nota di aggiornamento) approvato insieme al
bilancio il programma delle opere pubbliche. Al momento dell'approvazione
del piano di procederà con un ulteriore aggiornamento del Dup;
oppure
2) approvare il programma delle opere pubbliche contestualmente alla nota di
aggiornamento al Dup e al bilancio entro il 31/12 (opzione questa non
vietata dal Dm 14/2018 e che comunque garantisce la coerenza del programma
con il bilancio, come imposto dall'articolo 21, comma 1, del Codice). Per
ragioni di snellimento, riteniamo che questa sia la soluzione più indicata.
Quale che sia la soluzione adottata dalle singole amministrazioni, si può in
conclusione affermare che:
• non vi è alcun obbligo di inserire nel Dup di luglio il programma
triennale delle opere pubbliche e il programma biennale delle forniture di
beni e servizi. Il documento potrà limitarsi a fornire indicazioni sulla
spesa per investimenti e sugli interventi da programmare, fermo restando
l'obbligo di procedere, in sede di nota di aggiornamento, a inserire il
piano una volta approvato;
• l'iter di adozione e approvazione del programma opere pubbliche è
sganciato da quello del Dup e del bilancio, dovendo garantire solo il
rispetto del termine ultimo di 90 giorni dall'approvazione del bilancio
stesso;
• gli enti possono avviare l'iter di approvazione del piano
anche prima dell'approvazione del bilancio, purché sia garantita la coerenza
del piano approvato (e non anche di quello adottato) con il bilancio stesso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.10.2018). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI SERVIZI: Con
riferimento alle procedure di evidenza pubblica aventi ad oggetto la
raccolta e il trasporto di rifiuti, l’iscrizione all’Albo Nazionale dei
Gestori Ambientali è un requisito di partecipazione alla gara e non di
esecuzione del contratto.
---------------
1. – Dopo aver aggiudicato, a seguito di procedura negoziata, il servizio di
raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani a Eu.So.Co.So.,
il Comune di Fagnano Castello ha revocato l’aggiudicazione e ha affidato il
servizio a Ma.Se. S.r.l., seconda classificata.
L’amministrazione, infatti, ha ritenuto che l’aggiudicataria non possedesse,
al momento dell’aggiudicazione, i requisiti tecnici richiesti dalla legge di
gara, giacché solo in un momento successivo essa ha ottenuto l’iscrizione
all’Albo dei Gestori Ambientali per i codici CER relativi ai rifiuti solidi
urbani; dunque, difettando in capo alla Eu. un requisito di partecipazione,
l’aggiudicazione non poteva essere mantenuta in vita.
2. – Eu. ha impugnato le decisione del Comune di Fagnano Castello d’innanzi
a questo Tribunale Amministrativo Regionale con ricorso cui hanno resistito
il Comune di Fagnano Castello e la controinteressata Ma.Se. S.r.l.
...
3. – L’amministrazione resistente e la società controinteressata hanno
eccepito la tardività del ricorso, nella parte in cui sono stati impugnati
la lettera di invito, il capitolato di gara e alcuni atti endoprocedimentali.
La questione è ininfluente, in quanto la revoca dell’aggiudicazione come si
vedrà ai §§ che seguono, è autonomamente illegittima.
4. – Il Collegio ritiene, preliminarmente, che, con riferimento alle
procedure di evidenza pubblica aventi ad oggetto la raccolta e il trasporto
di rifiuti, l’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali sia un
requisito di partecipazione alla gara e non di esecuzione del contratto (Cons.
Stato, Sez. V, 03.06.2019, n. 3727), come peraltro specificamente previsto
nel caso in esame dalla legge speciale di gara.
In effetti, la lettera di invito trasmessa dal Comune di Fagnano Castello
prevedeva, per la gara di cui si controverte, l’iscrizione all’Albo per la
categoria 1, classe F.
La società ricorrente possedeva, alla data di presentazione della domanda di
partecipazione alla procedura e alla data di aggiudicazione, l’iscrizione
alla categoria 1 e alla superiore classe E. Non è pertanto possibile
ritenere che essa non fosse in possesso del requisito di qualificazione
previsto dalla legge speciale di gara.
5. – L’indicazione, nell’iscrizione all’Albo, dei codici CER si pone,
invece, su un piano diverso.
Infatti, a mente dell’art. 212, comma 23, d.lgs. 03.04.2006, n. 152,
nell’Albo sono indicate, oltre ai dati del soggetto autorizzato, l'attività
per la quale viene rilasciata l'autorizzazione, i rifiuti oggetto
dell'attività di gestione, la scadenza dell'autorizzazione; ed è
successivamente annotata ogni variazione delle predette informazioni che
intervenga nel corso della validità dell'autorizzazione stessa.
Dunque, con l’iscrizione all’Albo si ottiene l’autorizzazione all’esercizio
di una determinata attività. Nel caso di specie, la Eu., essendo iscritta
nell’Albo per la categoria 1, classe E, è autorizzata alla raccolta e al
trasporto dei rifiuti urbani prodotti da una popolazione inferiore a 20.000
abitanti.
Nell’albo vengono poi annotati, attraverso l’indicazione dei codici CER, i
rifiuti in concreto gestiti, i mezzi adoperati, il personale impiegato (art.
14, comma 2, lett. c), d.m. 03.06.2014, n. 120). Ogni variazione per
incremento dei mezzi adoperati deve essere comunicata al soggetto gestore
dell’Albo e da questo annotata (cfr. art. 18, comma 2, d.m. n. 120 del
2014).
Ciò è proprio quanto accaduto nella vicenda in esame. Essendosi aggiudicata
il servizio messo a gara dal Comune di Fagnano Castello, avendo acquistato
dei nuovi mezzi, Eu. ha provveduto alle necessarie variazioni
dell’iscrizione all’Albo, indicando i mezzi acquistati e codici CER dei
rifiuti al trasporto dei quali i mezzi erano destinati. Tale variazione non
ha comportato una modifica del requisito di qualificazione già posseduto, ma
una specificazione dell’attività effettivamente svolta.
6. – Il ricorso è dunque fondato e, conseguentemente, debbono essere
annullati i provvedimenti con i quali è stata disposta la revoca
dell’aggiudicazione e lo scorrimento della graduatoria
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 16.08.2019 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Essendole stata revocata l'aggiudicazione, la ditta richiede il
danno da mancata percezione degli utili, che la ricorrente quantifica
equitativamente nella misura del 10% del valore dell’appalto, e da mancato
arricchimento del curriculum, che viene valutato in misura del 5% del citato
valore.
Tali danni non possono essere riconosciuti, alla stregua dei principi ormai
consolidati elaborati dalla giurisprudenza in tema di determinazione del
danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto, secondo cui:
- ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il
danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume
di avere sofferto;
- in particolare, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova
dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata
aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni
il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo
acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3,
c.p.a.);
- quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista
la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e
privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità
non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in
relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina
il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale
dall'art. 2697, primo comma c.c. (e specificato per il risarcimento dei
danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art. 124, comma 1, c.p.a.);
- la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., in
combinato con l'art. 2056 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione
di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare
del danno;
- la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di
essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del
consulente tecnico d'ufficio senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi
specifici posti a fondamento di tali diritti;
- la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla regola generale
di cui all'art. 2729 c.c. queste devono essere dotate dei requisiti legali
della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore
probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
- va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10%
dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente
dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di
applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un
giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il
quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da
lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale sopra
indicata;
- anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una
prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in termini di
mancato arricchimento del proprio curriculum professionale e della perdita
di ulteriori commesse sulla base di una qualificazione mancata a causa
dell'altrui illegittima aggiudicazione.
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7. – Essendosi ormai esaurito il servizio oggetto di gara, può essere
accordata alla società ricorrente solo la tutela risarcitoria.
7.1. – Viene richiesto il danno da mancata percezione degli utili, che la
ricorrente quantifica equitativamente nella misura del 10% del valore
dell’appalto, e da mancato arricchimento del curriculum, che viene
valutato in misura del 5% del citato valore.
Tali danni non possono essere riconosciuti, alla stregua dei principi ormai
consolidati elaborati dalla giurisprudenza in tema di determinazione del
danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto (cfr. ex plurimis:
Cons. Stato, Ad. Plen., 12.05.2017, n. 2; Cons. Stato, Sez. V, 11.05.2017,
n. 2184; Cons. Stato, Sez. IV, 23.05.2016, n. 2111), secondo cui:
- ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il
danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del
danno che assume di avere sofferto;
- in particolare, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova
dell'utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata
aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni
il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo
acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3,
c.p.a.);
- quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista
la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e
privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità
non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in
relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina
il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale
dall'art. 2697, primo comma c.c. (e specificato per il risarcimento dei
danni da mancata aggiudicazione dal sopra citato art. 124, comma 1, c.p.a.);
- la valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., in
combinato con l'art. 2056 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione
di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull'ammontare
del danno;
- la parte danneggiata non può sottrarsi all'onere probatorio su di
essa gravante e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del
consulente tecnico d'ufficio senza dedurre quantomeno i fatti e gli elementi
specifici posti a fondamento di tali diritti;
- la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni, ma in conformità alla regola generale
di cui all'art. 2729 c.c. queste devono essere dotate dei requisiti legali
della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore
probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
- va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10%
dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente
dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di
applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un
giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit
secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il
danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale
sopra indicata;
- anche per il cd. danno curriculare il creditore deve offrire una
prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito in termini di
mancato arricchimento del proprio curriculum professionale e della perdita
di ulteriori commesse sulla base di una qualificazione mancata a causa
dell'altrui illegittima aggiudicazione.
Nel caso di specie la società ricorrente ha solo enunciato i danni da lucro
cessante, senza dare alcun elemento probatorio utile per la quantificazione
del danno da mancata percezione degli utili e per l’accertamento
dell’esistenza di un danno curricolare, sicché, come già anticipato, tali
voci di danno non possono essere risarcite.
7.2. – Stesso discorso vale per il danno all’immagine, che viene valutato
nella misura del 3% del valore complessivo dell’appalto. Ma anche in tal
caso non vi sono elementi che facciano ritenere che l’immagine di Eu. sia
stata in qualche modo offuscata.
7.3. – È invece risarcibile, in quanto dimostrato, il danno emergente,
rappresentato dalla differenza tra il prezzo di acquisto dei mezzi necessari
per l’esecuzione del servizio e il prezzo di loro rivendita (€ 24.705,00),
dai costi di assicurazione dei veicoli (documentati nella misura €
1.960,60), dai costi della fidejussione (€ 850,00), dai costi per la
variazione dell’iscrizione all’Albo Nazionale dei gestori ambientali (€
500,00); non sono documentate spese per recupero dei mezzi.
Il danno subito dalla società ricorrente va dunque quantificato in €
28.015,60, da rivalutare a partire dalla data di sospensione del servizio
sino a quella di pubblicazione della presente sentenza. Sulle somme,
annualmente rivalutate, sono dovute interessi al saggio legale, decorrenti
dalla data di proposizione del ricorso
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 16.08.2019 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Esclusione
dalla gara per omessa dichiarazione di debito con il fisco.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Omessa
dichiarazione debito con il fisco – Non oggetto di atto dell’Amministrazione
finanziaria – Non comporta l’esclusione.
Non è motivo di esclusione dalla gara la mancata
dichiarazione di un debito con il fisco ancora non oggetto di (o contenuto
in) un atto dell’amministrazione finanziaria in pendenza del termine per
presentare la domanda di partecipazione alla procedura, che nel suo
complesso il contribuente ha poi chiesto di rateizzare e la cui istanza è
stata accolta (1).
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(1) Ha affermato la Sezione che la disciplina nazionale in tema di
esclusione dalla gare per irregolarità fiscale, anche in ragione del
recepimento incompleto della direttiva è molto garantista nei confronti del
privato e non del tutto coordinata con il diritto tributario.
Rilevano infatti, in senso escludente, solamente i debiti fiscali
definitivamente accertati, per tali intendendosi quelli non contestati in
giudizio nei termini di legge ovvero se contestati confermati dal giudice
tributario sulla base di una sentenza non più soggetta ad impugnazione; con
la conseguenza che la proposizione di un ricorso dinanzi alla competente
commissione tributaria (o di un appello o di un ricorso per cassazione),
quand’anche manifestamente infondato, è comunque sufficiente a determinare
(a perpetuare) la non definitività del debito e, in ultima analisi, a
permettere nelle more la partecipazione alle gare, oltre tutto, a scapito
degli altri concorrenti che siano invece (del tutto) in regola con il fisco
(e magari, proprio per tale ragione, impossibilitati ad offrire ribassi
oltre una certa misura).
Si intende, quindi, secondo la legislazione in materia di contratti
pubblici, che qualunque debito, per quanto rilevante in termini economici,
purché (e finché) ancora oggetto di un giudizio tributario (proponibile o)
pendente, non potrà essere motivo di esclusione ai sensi dell’art. 80, comma
4, del codice dei contratti del 2016.
La Sezione ha aggiunto che la previsione della direttiva 24/2014, che
permette alle stazioni appaltanti di valutare anche l’esistenza di debiti
non ancora definitivi, sulla base di un prudente apprezzamento e attraverso
una causa di esclusione di tipo facoltativo, non è stata recepita nel nostro
sistema, neppure in occasione dell’ultimo intervento dedicato alla modifica
di talune parti del codice dei contratti del 2016 (con il d.l. n. 32 del
2019 e la legge di conversione n. 55 del 2019).
Ha quindi affermato la Sezione che l’art. 80, comma 4, del Codice dei
contratti pubblici non si coordina alla perfezione con la disciplina fiscale
propriamente intesa.
L’art. 80, nel fare riferimento a “sentenze e atti non più soggetti ad
impugnazione” sembra scritto, infatti, pensando essenzialmente alle
pretese fiscali (che sono) oggetto di avvisi di accertamento, la cui
inoppugnabilità o la cui conferma in giudizio rende “definitivamente
accertate” le violazioni (ossia gli omessi pagamenti, nella soglia
minima ritenuta rilevante) del contribuente.
Molto meno chiaro è invece se, a fronte di un avviso di accertamento
divenuto già definitivo ovvero inoppugnabile, possa bastare l’impugnazione
della cartella di pagamento, quale atto di riscossione esecutivo di detto
avviso, per permettere al contribuente di invocare –magari a distanza di
anni dal verificarsi del presupposto- la non definitività della sua
irregolarità
(CGARS,
sentenza 16.08.2019 n. 758 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: La
semplice richiesta di rinnovo dell’attestazione Soa non è sufficiente per
partecipare alla gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Attestazione
Soa – Scaduta – Richiesta di rinnovo – Insufficienza ex se.
Ai fini della partecipazione ad una gara pubblica la
semplice richiesta di rinnovo dell’attestazione Soa non è sufficiente a
determinare la retroattività del rinnovo della stessa Soa, occorrendo che
essa abbia almeno i requisiti di una proposta contrattuale e sia accettata
sall’organismo di attestazione Soa (1).
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(1) Ha ricordato il Tar che l’art. 76, d.P.R. n. 207 del 2010
dispone che gli operatori economici devono possedere l'attestazione di
qualificazione rilasciata da appositi organismi di diritto privato
debitamente autorizzati dall'Autorità di regolazione del settore; il comma 5
del citato articolo precisa che “l’efficacia dell’attestazione è pari a
cinque anni con verifica triennale del mantenimento dei requisiti di ordine
generale, nonché dei requisiti di capacità strutturale di cui all'art. 77,
comma 5. Almeno novanta giorni prima della scadenza del termine, l'impresa
che intende conseguire il rinnovo dell'attestazione deve stipulare un nuovo
contratto con la medesima Soa o con un'altra autorizzata all’esercizio
dell’attività di attestazione”.
Come riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza l’adempimento di cui al
citato art. 76, comma 5, d.P.R. n. 207 del 2010 discende direttamente dalla
diligente condotta dell’impresa richiedente l’attestazione, mentre il
superamento dei termini prescritti per l’istruttoria può comportare sanzioni
a carico dell’Organismo di certificazione, ma non preclude l’effetto
retroattivo della certificazione stessa, ove infine positivamente
rilasciata, con riconosciuta ultravigenza del precedente attestato, in
pendenza della procedura di verifica ritualmente attivata (Cons.
St., sez. V, 21.06.2013, n. 3398, Tar Bari, sez. I, 09.06.2016,
n. 737;
Tar Lazio, sez. III, 06.04.2017, n. 4296).
Se la ratio sottesa alla regola dell’ultra vigenza della Soa, quindi,
risiede nel non far ricadere sull’impresa concorrente le conseguenze della
durata del processo di verifica da parte dell’organismo di attestazione,
occorre comunque che l’impresa abbia posto in essere nel termine di 90
giorni precedenti alla scadenza del termine di efficacia della SOA, tutte le
attività necessarie per radicare l’obbligo dell’organismo di eseguire le
verifiche, a pena dell’applicazione delle predette sanzioni configurabili
solo in quanto sull’organismo di attestazione SOA sia sorto il relativo
obbligo di svolgere le verifiche che presuppone la presenza di un accordo
vincolante in tal senso.
Del resto l’art. 76, comma 5, d.P.R. n. 207 del 2010, per consentire
l’ultravigenza della Soa parla espressamente di stipula di un nuovo
contratto, non potendo essere sufficiente a tal fine una semplice richiesta
in tal senso effettuata dalla ricorrente con una mail, peraltro mancante
degli elementi essenziali per configurarla come vera e propria proposta
contrattuale e nemmeno prodotta nella fase del contraddittorio
procedimentale con la stazione appaltante.
Diversamente argomentando, per garantirsi l’effetto retroattivo
dell’eventuale nuova attestazione, all’impresa sarebbe sufficiente
manifestare all’organismo di attestazione anche genericamente la propria
intenzione di rinnovare la SOA indipendentemente dall’accettazione di quest’ultimo
che, per avventura, potrebbe anche non riscontrare la richiesta.
La Sezione ha chiarito di non ignorare che il prevalente orientamento
giurisprudenziale (richiamato anche da parte ricorrente) interpreta
estensivamente il riferimento contenuto nel predetto articolo alla stipula
di un “nuovo contratto”, ritenendo sufficiente a tal fine (tanto per
il rinnovo che per la verifica dell’attestazione Soa) anche una ”richiesta”
di rinnovo (o verifica sia pure con termini diversi), anziché la formale
stipula del contratto, in omaggio al principio del favor partecipationis
(Cons. St. n. 1190 del 2018;
Tar Milano, sez. I, 23.01.2018, n. 186, che si richiama alla
pronuncia
Cons. St., Ad.Plen., 18.07.2012, n. 27;
Cons. St., sez. V, 08.03.2017, n. 1091).
Tuttavia tali pronunce suppongono che il procedimento di rinnovo fosse
comunque stato formalmente avviato e che fossero in corso le relative
verifiche da parte dell’organo di attestazione sulla perduranza dei
requisiti dell’impresa partecipante, giustamente ritenendo che i tempi
necessari per lo svolgimento di tali attività non possano tradursi in un
pregiudizio per la società che avesse diligentemente proposto la richiesta
di rinnovo e che si vedrebbe esclusa dalle gare in ragione del tempo
necessario all’organismo di attestazione per svolgere il proprio incarico.
Tuttavia, l’insorgenza di un tale obbligo gravante sull’organismo di
attestazione presuppone che sia configurabile almeno un nucleo minimo di
accordo contrattuale (accettazione, data di avvio delle operazioni,
corrispettivo dell’attività, ecc.) ovvero che tale obbligo possa conseguire
anche alla semplice richiesta dell’impresa interessata ad esempio sulla base
di un precedente accordo normativo stipulato tra le parti che imponga
all’Organismo di attestazione di avviare il procedimento di verifica sulla
base della sola istanza dell’impresa anche senza accettazione, di modo che
non siano configurabili ulteriori attività anche negoziali incombenti
sull’impresa richiedente.
In tal senso, quindi, deve preferibilmente intendersi il riferimento operato
dalla giurisprudenza sopra riportata alla necessità che la semplice
richiesta di rinnovo sia stata tuttavia tempestivamente e ritualmente
presentata (Tar
Milano, sez. I, 20.04.2018, n. 1060;
Cons. St., sez. V, 31.08.2016, n. 3752 e
08.03.2017, n. 1091)
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 12.08.2019 n. 4340 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il rilievo non merita positiva considerazione.
Come noto, secondo la giurisprudenza, che il Collegio condivide e ribadisce
anche in questa sede, “in materia di accertamento dei
requisiti di ordine speciale per il conseguimento degli appalti di lavori
pubblici, vige il principio secondo cui le qualificazioni richieste dal
bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della
scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni
successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata
dell'appalto, senza soluzione di continuità”, tale principio con
particolare riguardo alle attestazioni SOA risponde “ad evidenti esigenze
di certezza e di funzionalità del sistema di qualificazione obbligatoria,
imperniato sul rilascio da parte degli organismi di attestazione di
certificati che costituiscono condizione necessaria e sufficiente per
l'idoneità ad eseguire contratti pubblici”; e “pertanto, l'impresa
che partecipa alla procedura selettiva deve dimostrare di possedere, dalla
presentazione dell'offerta fino all'eventuale fase di esecuzione
dell'appalto, la qualificazione tecnico-economica richiesta dal bando”
(per tutte Adunanza Plenaria 07.04.2011, n. 4 e Adunanza Plenaria
20.07.2015, n. 8).
Ciò posto, il Collegio ritiene che la procedura di gara non
si concluda con la proposta di aggiudicazione di cui all’art. 33, co. 1, del
d.lgs. n. 50/2016, ma includa anche la successiva fase dei controlli che
deve ritenersi parte integrante del procedimento di gara.
E infatti, secondo quanto statuito dall’art. 33 del
predetto decreto legislativo, tra le fasi in cui si articola il procedimento
di affidamento è prevista, tra l’altro, l’adozione, all’esito della
valutazione delle offerte delle imprese, di una proposta di aggiudicazione a
cui segue la verifica dei requisiti di partecipazione dell’impresa risultata
migliore offerente.
Il comma 7 dell’art. 32 precisa che “l’aggiudicazione diventa efficace
dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti”, con la
conseguenza che fino a questo momento, ovvero fino al positivo esito dei
controlli, la procedura di gara non può considerarsi terminata e, quindi non
viene meno l’onere delle imprese partecipanti di conservare il possesso dei
requisiti di partecipazione.
Né questa conclusione conduce ad aggravare eccessivamente la posizione delle
partecipanti tenuto conto che lo stesso articolo 33 prevede che
l’espletamento di tali controlli avvenga nel termine all’uopo previsto dalla
stazione appaltante, ovvero in mancanza, in quello di trenta giorni, di modo
che le altre concorrenti sono garantite dalla previsione di tempi certi per
l’avvio e l’espletamento dei controlli stessi, atteso che prima della
conclusione degli stessi il contratto non può essere stipulato.
Sotto questo aspetto, non è applicabile al caso di specie l’orientamento
giurisprudenziale, invocato da parte ricorrente, secondo cui occorre
differenziare la posizione dell’aggiudicataria da quella delle altre
concorrenti, in quanto la prima sarebbe tenuta a conservare il possesso dei
requisiti di partecipazione anche dopo l’aggiudicazione definitiva, mentre
alle altre concorrenti non potrebbe imporsi un tale onere, atteso che, nel
caso di specie, la Città Metropolitana aveva adottato solo una proposta di
aggiudicazione nei confronti di DLM e pertanto, come ammesso anche dalla
ricorrente, ancora si dovevano espletare i controlli sulla congruità
dell’offerta proposta da DLM ai sensi dell’art. 95 del codice dei contratti,
all’esito dei quali, infatti, è risultata l’incongruità dell’offerta
proposta dalla predetta società (cfr. nota Città Metropolitana 31.10.2018
prot. n. 142641).
Ad ulteriore comprova che la procedura non fosse chiusa sta il fatto che la
mancata stipula con la DLM Costruzioni non è avvenuta all’esito di un
procedimento di autotutela riferito all’aggiudicazione, ma nell’ambito dello
stesso procedimento di affidamento non ancora concluso per assenza dell’atto
terminale di aggiudicazione definitiva.
Analogamente non può ravvisarsi una soluzione di continuità nello
svolgimento del procedimento di gara nell’intervento in autotutela con cui
la stazione appaltante, prima della proposta di aggiudicazione in favore di
DLM, ha corretto il calcolo della soglia di anomalia (in linea con i
principi dettati poco prima dall’Adunanza Plenaria, n. 13/2018); tale
intervento deve considerarsi una parentesi nell’ambito della medesima
procedura di affidamento che anche in quel caso non si era conclusa in
assenza, come detto, di un’aggiudicazione definitiva.
Con il secondo motivo di ricorso, parte ricorrente contesta la
gravata revoca, denunciando l’omessa applicazione del principio di ultra
vigenza dell’attestazione SOA adducendo di avere richiesto il rinnovo
all’organismo di attestazione 90 giorni prima della scadenza in data
11.06.2018 e di aver stipulato il relativo contratto in data 5 settembre
dello stesso per poi ottenere l’attestazione definitiva in data 13.02.2019.
Secondo la ricorrente la richiesta di rinnovo varrebbe ad escludere la
soluzione di continuità nel possesso del requisito.
La censura non merita positiva considerazione.
Giova premettere che l’art. 76 del D.P.R. n. 207/2010 dispone che gli
operatori economici debbano possedere l'attestazione di qualificazione
rilasciata da appositi organismi di diritto privato debitamente autorizzati
dall'Autorità di regolazione del settore; il comma 5 del citato articolo, “l’efficacia
dell’attestazione è pari a cinque anni con verifica triennale del
mantenimento dei requisiti di ordine generale, nonché dei requisiti di
capacità strutturale di cui all'articolo 77, comma 5. Almeno novanta giorni
prima della scadenza del termine, l'impresa che intende conseguire il
rinnovo dell'attestazione deve stipulare un nuovo contratto con la medesima
SOA o con un'altra autorizzata all’esercizio dell’attività di attestazione”.
Come riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza, infatti,
l’adempimento di cui al citato art. 76, comma 5, del d.P.R. n. 207
del 2010 (Regolamento di
esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante
Codice dei contratti pubblici) discende direttamente dalla
diligente condotta dell’impresa richiedente l’attestazione, mentre il
superamento dei termini prescritti per l’istruttoria può comportare sanzioni
a carico dell’Organismo di certificazione, ma non preclude l’effetto
retroattivo della certificazione stessa, ove infine positivamente
rilasciata, con riconosciuta ultravigenza del precedente attestato, in
pendenza della procedura di verifica ritualmente attivata
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.06.2013, n. 3398, TAR Puglia, Bari, sez. I,
09.06.2016, n. 737, TAR Lazio, Roma, sez. III, 06.04.2017, n. 4296).
Se la ratio sottesa alla regola dell’ultra vigenza
della SOA, quindi, risiede nel non far ricadere sull’impresa concorrente le
conseguenze della durata del processo di verifica da parte dell’organismo di
attestazione, occorre comunque che l’impresa abbia posto in essere nel
termine di 90 giorni precedenti alla scadenza del termine di efficacia della
SOA, tutte le attività necessarie per radicare l’obbligo dell’organismo di
eseguire le verifiche, a pena dell’applicazione delle predette sanzioni
configurabili solo in quanto sull’organismo di attestazione SOA sia sorto il
relativo obbligo di svolgere le verifiche che presuppone la presenza di un
accordo vincolante in tal senso.
Del resto l’art. 76, co. 5 del d.P.R. 207/2010, per consentire
l’ultravigenza della SOA parla espressamente di stipula di un nuovo
contratto, non potendo essere sufficiente a tal fine una semplice richiesta
in tal senso effettuata dalla ricorrente con una mail, peraltro mancante
degli elementi essenziali per configurarla come vera e propria proposta
contrattuale e nemmeno prodotta nella fase del contraddittorio
procedimentale con la stazione appaltante.
Diversamente argomentando, per garantirsi l’effetto retroattivo
dell’eventuale nuova attestazione, all’impresa sarebbe sufficiente
manifestare all’organismo di attestazione anche genericamente la propria
intenzione di rinnovare la SOA indipendentemente dall’accettazione di quest’ultimo
che, per avventura, potrebbe anche non riscontrare la richiesta.
Nel caso di specie, parte ricorrente adduce che il contratto si sarebbe
perfezionato in data 11.06.2018, in quanto la predetta mail della PRG
recante la richiesta di rinnovo avrebbe fatto seguito ad una proposta
contrattuale dell’organismo di attestazione.
La ricorrente allude ad un nota (prot. 110618/010) dell’11.06.2018 con cui
l’organismo di attestazione si limitava, in realtà, a ricordare alla PRG
l’imminente scadenza della SOA e a sollecitare l’impresa ad avviare l’iter
istruttorio volto al rinnovo dell’attestazione. Si tratta all’evidenza di un
mero atto informativo volto, appunto, a sollecitare l’impresa ricorrente ad
attivare il meccanismo di rinnovo, come reso palese dal riferimento
contenuto nella stessa lettera dell’organismo di attestazione alla necessità
di acquisire ulteriore documentazione, oltre a quella già detenuta per
avviare l’iter nonché come dimostra la mancata indicazione delle condizioni
contrattuali del rinnovo e del relativo costo.
Ne consegue che, anche in base a tale comunicazione, sarebbe stato
necessario che la PRG ponesse in essere ulteriori adempimenti, non
risultando prova che il mero invio della mail con la quale si chiedeva il
rinnovo radicasse l’effettivo obbligo dell’organo di attestazione di
compiere le verifiche; del resto la stessa ricorrente ha ritenuto necessario
a tal fine stipulare un apposito contratto in data 05.09.2018, e poi anche
nel mese di ottobre dello stesso anno, con cui si prevedevano espressamente
obblighi e diritti reciproci dell’impresa e dell’organismo di attestazione
prevedendosi altresì un compenso per l’attività di quest’ultimo.
Peraltro, il Collegio non ignora che il prevalente
orientamento giurisprudenziale
(richiamato anche da parte ricorrente) interpreta
estensivamente il riferimento contenuto nel predetto articolo alla stipula
di un “nuovo contratto”, ritenendo sufficiente a tal fine (tanto per
il rinnovo che per la verifica dell’attestazione SOA) anche una ”richiesta”
di rinnovo (o verifica sia pure con termini diversi), anziché la formale
stipula del contratto, in omaggio al principio del favor partecipationis
(cfr. da ultimo Cons. Stato 1190/2018; TAR Lombardia, Milano, sez. I,
23.01.2018, n. 186 che si richiama alla pronuncia Cons. Stato, Ad. Plen.
18.07.2012, n. 27; Consiglio di Stato, sez. V, 08.03.2017, n. 1091; TAR
Puglia, Bari, sez. I, 09.06.2016, n. 737; TAR Campania, Napoli, sez. I,
10.07.2015, n. 3670; TAR Campania, Salerno, sez. II, 10.04.2015, n. 785; TAR
Basilicata, Potenza, 29.04.2013, n. 214).
Tuttavia tali pronunce suppongono che il procedimento di
rinnovo fosse comunque stato formalmente avviato e che fossero in corso le
relative verifiche da parte dell’organo di attestazione sulla perduranza dei
requisiti dell’impresa partecipante, giustamente ritenendo che i tempi
necessari per lo svolgimento di tali attività non possano tradursi in un
pregiudizio per la società che avesse diligentemente proposto la richiesta
di rinnovo e che si vedrebbe esclusa dalle gare in ragione del tempo
necessario all’organismo di attestazione per svolgere il proprio incarico.
Come già rilevato, tuttavia, l’insorgenza di un tale
obbligo gravante sull’organismo di attestazione presuppone che sia
configurabile almeno un nucleo minimo di accordo contrattuale (accettazione,
data di avvio delle operazioni, corrispettivo dell’attività, ecc.) ovvero
che tale obbligo possa conseguire anche alla semplice richiesta dell’impresa
interessata ad esempio sulla base di un precedente accordo normativo
stipulato tra le parti (del quale tuttavia in atti non vi è traccia) che
imponga all’Organismo di attestazione di avviare il procedimento di verifica
sulla base della sola istanza dell’impresa anche senza accettazione, di modo
che non siano configurabili ulteriori attività anche negoziali incombenti
sull’impresa richiedente.
In tal senso, quindi, deve preferibilmente intendersi il
riferimento operato dalla giurisprudenza sopra riportata alla necessità che
la semplice richiesta di rinnovo sia stata tuttavia tempestivamente e
ritualmente presentata (cfr. in
particolare TAR Lombardia, sez. I, 20.04.2018, n. 1060; Consiglio di Stato,
sez. V, 31.08.2016, n. 3752 e 08.03.2017, n. 1091).
Infine non può fondarsi la pretesa continuità del possesso dei requisiti sul
presupposto che la nuova SOA sia stata riconosciuta sulla base di
certificati di esecuzione lavori precedenti alla scadenza della SOA
precedente (09.09.2018), atteso che il sistema di attestazione vigente
postula che siano solo gli organismi all’uopo preposti a certificare la
sussistenza dei requisiti tecnico/organizzativi necessari, con la
conseguenza che l’attestazione SOA non può in alcun modo essere surrogata da
una valutazione in concreto di essi operata dalla stazione appaltante.
In definitiva, tutti i motivi di ricorso si appalesano infondati e il
ricorso deve conseguentemente essere respinto. |
APPALTI: Clausola
sociale degli appalti di lavori e di servizi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale –
Applicazione – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio – Salvaguardia
della concorrenza e della libertà di impresa.
L’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle
dipendenze dell’appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel
contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile
con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante (1).
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(1)
Cons. Stato, sez., III, 05.05.2017, n. 2078; id.
27.09.2018, n. 5551; id.
30.01.2019, n. 750; id.,
sez. V, 28.08.2017, n. 4079;
Tar Reggio Calabria 15.03.2017, n. 209.
Ciò è stato confermato dal
Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere n. 2703/2018, del
21.11.2018, reso sulle Linee guida recanti la disciplina delle
clausole sociali, che ha precisato che la prescrizione delle clausole
sociali non può che avvenire che nel «rispetto della libertà di
iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost., ma anche
dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce “la libertà di impresa”,
conformemente alle legislazioni nazionali»
(TAR
Valle d’Aosta,
sentenza 09.08.2019 n. 44 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3. Con la prima censura di ricorso, proposta in via principale,
Eu. assume l’illegittimità della sua esclusione dalla gara, avendo la stessa
offerto un ribasso sul costo del lavoro stabilito dalla Stazione appaltante
nella lex specialis, pur non essendo possibile escludere in via
automatica un’offerta in assenza di un procedimento di verifica della sua
congruità.
3.1. La doglianza è fondata.
La Stazione appaltante all’art. 10 del Disciplinare della gara oggetto del
presente contenzioso ha stabilito che il “costo del lavoro non [è]
soggetto a ribasso”; tale prescrizione è stata altresì ribadita nel
successivo art. 18.5, riguardante le modalità di compilazione del form
on-line.
Avendo la ricorrente offerto un costo del lavoro in misura inferiore
rispetto a quanto stabilito negli atti di gara, è stata esclusa dalla
procedura da parte della Stazione appaltante.
In prima battuta, va evidenziato che le richiamate clausole non appaiono di
significato univoco, stante l’assenza di una espressa comminatoria di
esclusione in caso di loro violazione (sulla tassatività delle cause di
esclusione dalle gare, cfr. Consiglio di Stato, III, 26.07.2019, n. 5295) e
considerando altresì che la disposizione di cui all’art. 18.5 riveste un
carattere meramente procedurale, essendo finalizzata a regolamentare le
modalità di compilazione della domanda di partecipazione alla procedura.
In presenza di prescrizioni ambigue, è consolidato l’indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale la necessità di garantire la massima
partecipazione alle gare impone una interpretazione estensiva delle predette
clausole, da applicare a fortiori nel caso in cui le stesse si
presentino di dubbia compatibilità con i principi costituzionali e del
diritto dell’Unione europea
(Consiglio di Stato, V, 31.05.2018, n. 3262; 14.05.2018, n. 2852).
Tanto premesso, deve sottolinearsi come l’esclusione della
ricorrente dalla gara non appaia legittima, in considerazione della
impossibilità di ritenere ex se anomala un’offerta che indichi un
costo della manodopera inferiore a quello indicato dalla Stazione appaltante
(con dati ricavati dalle Tabelle Ministeriali: cfr. all. 4 e 5 di In.Va. e 8
di Eu.), dovendo necessariamente lo stesso essere valutato
nell’ambito della verifica di congruità, tenuto conto che di regola siffatte
tabelle –redatte dal Ministero competente– esprimono un costo del lavoro
medio, ricostruito su basi statistiche, per cui esse non rappresentano un
limite inderogabile per gli operatori economici partecipanti a procedure di
affidamento di contratti pubblici, ma solo un parametro di valutazione della
congruità dell’offerta, con la conseguenza che lo scostamento da esse,
specie se di lieve entità, non legittima di per sé un giudizio di anomalia
(Consiglio di Stato, V, 06.02.2017, n. 501; altresì, III, 13.03.2018, n.
1609; III, 21.07.2017 n. 3623; 25.11.2016, n. 4989).
I costi medi della manodopera, indicati nelle tabelle
(ministeriali), del resto, svolgono una funzione indicativa, suscettibile di
scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali,
laddove si riesca, in relazione alle peculiarità dell’organizzazione
produttiva, a giustificare la sostenibilità di costi inferiori, fungendo gli
stessi da esclusivo parametro di riferimento da cui è possibile discostarsi,
in sede di giustificazioni dell’anomalia, sulla scorta di una dimostrazione
puntuale e rigorosa (cfr. TAR
Lazio, Roma, II-bis, 19.06.2018, n. 6869).
Ciò che invece non può essere derogato in peius
–e non risulta essersi verificato nella specie– sono i
minimi salariali della contrattazione collettiva nazionale, sui quali non
sono ammesse giustificazioni (TAR
Veneto, I, 19.07.2018, n. 774).
3.2. Non appare rilevante, in senso contrario, l’eccezione formulata dalla
difesa di In.Va. in ordine alla stretta connessione tra la prescrizione
relativa all’inderogabilità del costo del lavoro e la clausola sociale di
cui all’art. 23 del Disciplinare, che avrebbe imposto l’immediata
impugnazione di quest’ultima in seguito alla pubblicazione del Bando, non
potendo procedersi alla sua disapplicazione in fase di gara.
Dalla lettura della richiamata disposizione –che recita “al fine di
promuovere la stabilità occupazionale nel rispetto dei principi dell’Unione
Europea, e ferma restando la necessaria armonizzazione con l’organizzazione
dell’operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative
e di manodopera previste nel nuovo contratto, l’aggiudicatario del contratto
di appalto è tenuto ad assorbire prioritariamente nel proprio organico il
personale già operante alle dipendenze dell’aggiudicatario uscente, come
previsto dall’articolo 50 del D.Lgs. 50/2016 e s.m.i., garantendo
l’applicazione dei CCNL di settore, di cui all’art. 51 del D.Lgs.
15.06.2015, n. 81”– non emerge affatto un vincolo assoluto in capo al
partecipante alla gara (e futuro aggiudicatario) di dover assorbire
necessariamente il personale attualmente impiegato presso l’Amministrazione
procedente, essendo un tale impegno da conciliare con le esigenze produttive
e la libertà di impresa del concorrente (come emerge pure dall’esame
dell’art. 8 del Capitolato d’appalto: all. 2 di In.Va.). Inoltre,
l’eventuale assorbimento non risulta essere subordinato al rispetto di
specifiche condizioni (se non il rispetto di quanto previsto dai contratti
collettivi per i dipendenti delle imprese del settore, genericamente
indicate: cfr. art. 8 del Capitolato).
La cd. clausola sociale,
difatti, deve essere interpretata conformemente ai principi
nazionali e dell’Unione europea in materia di libertà di iniziativa
imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti lesiva dei
richiamati principi nel senso di scoraggiare la partecipazione alla gara e
di limitare eccessivamente la platea dei partecipanti.
Pertanto, siffatta clausola deve essere interpretata in
modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque,
evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
Ne consegue che l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori
alle dipendenze dell’appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel
contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile
con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante
(Consiglio di Stato, III, 05.05.2017, n. 2078).
Ciò è stato confermato dal Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere
n. 2703/2018, del 21.11.2018, reso sulle Linee guida recanti la disciplina
delle clausole sociali (Art. 50 del D.Lgs. n. 50 del 2016, come modificato
dal D.Lgs. n. 56 del 2017), che ha precisato che la
prescrizione delle clausole sociali non può che avvenire che nel «rispetto
della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost.,
ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce “la libertà di
impresa”, conformemente alle legislazioni nazionali. E’ in base al
necessario rispetto di tale principio che secondo costante giurisprudenza di
questo Consiglio, per tutte C.d.S.
sez. III 27.09.2018 n. 5551 e sez. V 28.08.2017 n. 4079,
l’obbligo di riassorbimento del personale imposto dalla clausola in
questione deve essere inteso in modo compatibile con l’organizzazione di
impresa prescelta dall’imprenditore subentrante»
(Consiglio di Stato, III, 30.01.2019, n. 750).
3.3. Quindi, a fronte della non univocità delle disposizioni riguardanti sia
la non ribassabilità del costo del lavoro sia la clausola sociale, non
poteva pretendersi una immediata impugnazione del Bando da parte della
ricorrente, trattandosi di clausole non univoche o imponenti obblighi chiari
e specifici non proporzionati o abnormi (cfr. Consiglio di Stato, III,
08.06.2018, n. 3471; cfr. anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 26.04.2018,
n. 4, secondo la quale “il rapporto tra impugnabilità immediata e non
impugnabilità immediata del bando è traducibile nel giudizio di relazione
esistente tra eccezione e regola”; con riguardo all’illegittimità di un
bando contenente una clausola di non ribassabilità del costo del lavoro, TAR
Sicilia, Palermo, III, 16.07.2014, n. 1882; più di recente, II, 12.04.2019,
n. 1023).
3.4. Da quanto rilevato in precedenza emergono, dunque, sia la tempestività
dell’impugnazione dell’esclusione dalla procedura, sia la sua fondatezza,
non essendo ammissibile una esclusione automatica per violazione delle
tabelle sul costo del lavoro predisposte dalla Stazione appaltante e
ricavate dai dati ministeriali (cfr. Consiglio di Stato, III, 08.06.2018, n.
3471).
3.5. Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
nel passato la giurisprudenza amministrativa e penale aveva sempre ritenuto
necessario ai fini della ristrutturazione edilizia la preesistenza di
un organismo edilizio costituito dagli elementi essenziali delle mura
perimetrali, delle strutture orizzontali e della copertura, la novella del
2013 (art.
30, comma 1, lettera a), del d.l. 69/2013 convertito in legge n. 98/2013
–che ha modificato l’art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001)
ha ritenuto sufficiente a tal fine anche solo la possibilità di
“accertarne la preesistente consistenza”.
E’ dunque venuta meno la necessità dell’esistenza, all’attualità,
dell’organismo edilizio da ristrutturare, essendo sufficiente la mera
possibilità di accertarne le dimensioni pregresse ma non è venuta meno la
necessità che si tratti pur sempre di edificio comunque venuto ad esistenza,
determinando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
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L’appello è infondato.
Con il primo motivo di doglianza la ricorrente censura la sentenza
del Tar nella parte in cui ha affermato l'infondatezza nel merito del
ricorso “in quanto la disciplina nazionale, regionale e comunale che
inquadra la ricostruzione di ruderi nell’ambito della ristrutturazione
edilizia fa riferimento ad edifici completamente realizzati e poi caduti in
rovina. Si tratta dunque di una fattispecie completamente diversa e non
assimilabile al completamento di un edificio concessionato non portato a
termine. In quest’ultima ipotesi, come già affermato dalla sentenza n.
1453/2014, trattandosi di completare un’opera che rientra indiscutibilmente
nella categoria della nuova costruzione, il titolo edilizio necessario per
procedere al completamento dell’intervento è il permesso di costruire e non
la scia”.
Ne assume la erroneità nella parte in cui ha qualificato la ricostruzione
dei ruderi come fattispecie completamente diversa e non assimilabile al
completamento di un edificio concessionato in quanto entrambi riconducibili
tra gli interventi suscettibili di ristrutturazione edilizia alla luce della
nuova tipizzazione normativa della fattispecie prevista dall'art. 30, comma
1, lettera a), del d.l. 69/2013 convertito in legge n. 98/2013 –che ha
modificato l’art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001– che vi
ricomprende, tra gli altri, gli interventi “volti al ripristino di
edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente
consistenza”.
Osserva che la norma applicabile, nella nuova formulazione, comprende nella
ristrutturazione edilizia il ripristino mediante ricostruzione di un
edificio preesistente o di sue parti, solo eventualmente crollato o demolito
(quindi non necessariamente tale) di cui sia possibile dimostrare la
consistenza e poiché la finalità avuta di mira dal legislatore sarebbe
quella di tutelare il paesaggio deturpato dalla presenza di ruderi
abbandonati, non rileverebbe –sempre a dire dell’appellante- che si tratti
di rudere di un edificio completato o invece di uno che è rimasto
incompleto.
La tesi, pur abilmente prospettata, non è tuttavia persuasiva in quanto si
discosta dal tenore letterale della norma in questione, accedendo ad una
interpretazione teleologica priva di ancoraggio normativo.
Osserva il collegio che la norma in questione è volta al ripristino di
edifici attraverso la loro ricostruzione.
Si tratta di azioni che necessariamente presuppongono la preesistenza
dell’edificio, successivamente venuto meno per cause naturali, per vetustà o
per iniziativa dell’uomo (demolizione), e che mirano a recuperarne le
caratteristiche fisiche e funzionali originarie.
Mentre nel passato la giurisprudenza amministrativa e penale aveva sempre
ritenuto necessario ai fini della ristrutturazione edilizia la
preesistenza di un organismo edilizio costituito dagli elementi essenziali
delle mura perimetrali, delle strutture orizzontali e della copertura
(Consiglio di Stato, sez. VI, 05/12/2016, n. 5106; Consiglio di Stato, sez.
V, 15/03/2016, n. 1025; Consiglio di Stato, sez. IV, 13/10/2010, n. 7476;
Consiglio di Stato, sez. V, 15/04/2004, n. 2142; Consiglio di Stato, sez. V,
01/12/1999, n. 2021; Consiglio di Stato, sez. V, 10/03/1997, n. 240;
Consiglio di Stato, sez. IV, 15/09/2006, n. 5375; Cassazione penale, sez.
III, 09/07/2018, n. 39340; Cassazione penale, sez. III, 21/10/2008, n.
42521; Cassazione penale, sez. III , 20/02/2001, n. 13982), la novella del
2013 ha ritenuto sufficiente a tal fine anche solo la possibilità di “accertarne
la preesistente consistenza”.
E’ dunque venuta meno la necessità dell’esistenza, all’attualità,
dell’organismo edilizio da ristrutturare, essendo sufficiente la mera
possibilità di accertarne le dimensioni pregresse ma non è venuta meno la
necessità che si tratti pur sempre di edificio comunque venuto ad esistenza,
determinando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Nulla di tutto questo accade nella diversa ipotesi della costruzione
iniziata ma non completata che non realizza la trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, implicita invece nella ristrutturazione edilizia,
di cui rappresenta il presupposto logico e giuridico.
Ammettere queste tipologie di interventi incompiuti alla ristrutturazione
edilizia. equiparandoli ai ruderi, avrebbe una finalità non di ripristino,
mediante ricostruzione di una realtà fisica preesistente, bensì di
completamento di una realtà fisica mai venuta per l’innanzi ad esistenza.
In tal modo verrebbe snaturata la finalità di recupero insita nella
ristrutturazione, annettendovi anche interventi di carattere innovativo
dell’esistente.
Il completamento delle opere iniziate e non completate nel termine di
efficacia del titolo edilizio trova invece una propria autonoma disciplina
nell’art. 15, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 a mente del quale “La
realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito
è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire,
salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante
segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si
procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”.
Poiché nel caso di specie le opere ancora da eseguire non rientrano tra
quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai
sensi dell’articolo 22, implicando la creazione di nuovi rilevanti volumi e
non si verte in un’ipotesi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo
3, comma 1, lettera d) [richiamata all’art. 22, comma 1, lett. c)] atteso
che l’edificio da ricostruire, in realtà, non è mai venuto ad esistenza, è
necessario richiedere un nuovo permesso di costruire a titolo di
completamento dell’opera iniziata, in base alla normativa vigente al momento
del suo rilascio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.08.2019 n. 5589 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza contingibile e
urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto e attuale, che
impone di provvedere in via d'urgenza con strumenti "extra ordinem" per
porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, non fronteggiabili
con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento.
Nello specifico, si è anche affermato “Il presupposto per l'adozione
dell'ordinanza contingibile e urgente risiede nella necessità di provvedere
nell'immediatezza per il pericolo per la pubblica incolumità anche se non
imminente, quando sussiste una ragionevole probabilità che possa
verificarsi, se non interviene prontamente, avendone constatato il
deteriorato stato dei luoghi.
Ciò posto, la risalenza nel tempo della situazione di pericolo non esime
dall’adozione del provvedimento extra ordinem ove la stessa perduri e si sia
presuntivamente aggravata, non incidendo sulla sussistenza di un pericolo
concreto, attuale, irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità.
Ed invero, “Il presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile e
urgente è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè il rischio
concreto di un danno grave imminente per l'incolumità pubblica, l'ordine
pubblico e l'igiene, a nulla rilevando che la situazione di pericolo sia
nota da tempo, posto che il ritardo nell'agire potrebbe addirittura
aggravare la situazione”.
---------------
Ora, “La possibilità di ricorrere allo strumento dell'ordinanza
contingibile e urgente è legata alla sussistenza di un pericolo concreto e
attuale, che impone di provvedere in via d'urgenza con strumenti "extra
ordinem" per porre rimedio a situazioni di natura eccezionale ed
imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica,
non fronteggiabili con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento”
(TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 21.09.2017, n. 1448).
Nello specifico, si è anche affermato “Il presupposto per l'adozione
dell'ordinanza contingibile e urgente risiede nella necessità di provvedere
nell'immediatezza per il pericolo per la pubblica incolumità anche se non
imminente, quando sussiste una ragionevole probabilità che possa
verificarsi, se non interviene prontamente, avendone constatato il
deteriorato stato dei luoghi” (TAR Lazio, Roma, sez. II, 17.10.2016, n.
10344).
Ciò posto, la risalenza nel tempo della situazione di pericolo non esime
dall’adozione del provvedimento extra ordinem ove la stessa perduri e
si sia presuntivamente aggravata, non incidendo sulla sussistenza di un
pericolo concreto, attuale, irreparabile ed imminente per la pubblica
incolumità.
Ed invero, “Il presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile e
urgente è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè il rischio
concreto di un danno grave imminente per l'incolumità pubblica, l'ordine
pubblico e l'igiene, a nulla rilevando che la situazione di pericolo sia
nota da tempo, posto che il ritardo nell'agire potrebbe addirittura
aggravare la situazione” (TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 04.05.2017, n.
286; TAR Lazio, Roma, sez. II, 07/04/2016, n. 4191)
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 06.08.2019 n. 4300 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Cantiere
domestico ed incidente mortale: la Cassazione salva il mero proprietario
dell’immobile e conferma la condanna del datore di lavoro e dell’altro
committente che si è interposto nei lavori.
Si segnala la
sentenza
31.07.2019 n. 34893 resa in tema di sicurezza sui luoghi di
lavoro, con la quale la Suprema Corte ha confermato la responsabilità penale
del committente dell’opera, che nell’avvalersi di altre imprese per
l’esecuzione dei lavori ed interponendosi nelle attività di cantiere,
ometteva di fornire le informazioni idonee a scongiurare i rischi connessi a
ciascuna attività, così causando l’incidente mortale di un lavoratore per
folgorazione.
L’imputazione e il doppio grado di giudizio.
La Corte di appello di Messina confermava la condanna a due anni di
reclusione con beneficio della sospensione condizionale della pena e della
non menzione, degli imputati tratti a giudizio in qualità di datore di
lavoro, committente ed elettricista, che nel dare esecuzione ai lavori di
ristrutturazione dell’immobile cagionavano a causa di condotte negligenti,
imprudenti e imperite e violando le disposizioni previste dalle norme
antinfortunistiche, il decesso del lavoratore, che nel riordinare gli
attrezzi di lavoro, restava folgorato a seguito di un contatto con una
prolunga non a norma, in quanto priva di presa e collegata direttamente alla
rete elettrica a bassa tensione dell’immobile.
Il ricorso per cassazione.
Avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte distrettuale di Messina
interponevano ricorso per cassazione gli imputati con tre diversi atti,
denunciando vizi di legge e di motivazione della sentenza impugnata per la
cui cognizione di rimanda alla lettura della sentenza in commento.
Il giudizio di legittimità e il principio di diritto.
Il Supremo Collegio ha ritenuto fondato il ricorso limitatamente alle
censure elevate dal proprietario dell’immobile non committente, annullando
la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di
Reggio Calabria.
In punto di diritto si riportano i passaggi della motivazione che affrontano
il tema degli obblighi connessi a ciascuno delle posizioni di garanzia
coinvolte nella vicenda in esame:
1. Sugli obblighi che gravano in ordine
alla posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro:
“La prima censura è
infondata. Invero, il ricorrente non si confronta affatto con la completa e
logica motivazione del giudice di appello, il quale non si è limitato a
rinviare alle argomentazioni del giudice di primo grado, ma ha osservato che
omissis, in qualità di datore di lavoro del figlio “avrebbe dovuto
preventivamente sincerarsi della sicurezza dei luoghi” e conseguentemente,
una volta contestate le condizioni di insicurezza del cantiere, anche in
considerazione dell’intervento di ulteriori imprese, “avrebbe dovuto
provvedere ad evitare che il giovane omissis procedesse nell’esecuzione dei
lavori o permanesse ulteriormente su luoghi, data la condizione di
pericolo”. Nella sentenza si è anche precisato che “l’obbligo di vigilanza
necessita di un progressivo e costante aggiornamento”, sicché è irrilevante
che, al momento dell’eventuale valutazione dei rischi, le condizioni del
cantiere fossero diverse.
Del resto, come ha chiarito Sez. 3, n. 4063 del 04/10/2007 ud- dep.
28/01/2008, Rv. 238539 – in tema di prevenzione infortuni sul lavoro,
integra la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di elaborare un
documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il
lavoro non soltanto l’omessa redazione del documento iniziale, ma anche il
suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento od adeguamento, mentre
i giudici di merito hanno accertato che omissis non ha adempiuto tale suo
obbligo né all’inizio né nel corso dell’esecuzione dei lavori, inadempimento
di sicura rilevanza causale, in quanto la corretta valutazione del rischio
elettrico esistente avrebbe comportato la predisposizione di maggiori
cautele e impedito l’evento, che, contrariamente a quanto asserito dal
ricorrente, costituisce proprio la concretizzazione del rischio che la norma
violata mira a neutralizzare.”
2. In ordine alla responsabilità penale per
l’incidente occorso sul cantiere ascrivibile al mero proprietario in qualità
di committente formale:
“Per quanto riguarda, invece, omissis, proprietaria dell’immobile oggetto
dei lavori la Corte di appello ha desunto il suo ruolo di committente
“formale” dal verbale di contravvenzione indirizzato dall’Ispettorato del
lavoro ad entrambi i coniugi in qualità di committenti, pur precisando che
solo omissis si era occupato dei contatti e dei rapporti con i
professionisti e con le imprese.
La motivazione in ordine alla posizione di garanzia della ricorrente
risulta, dunque, contraddittoria e manifestamente illogica, in quanto supera
l’indizio contrario indicato con l’indicazione di un dato del tutto neutro e
senza evidenziare alcun significativo elemento probatorio, quale, ad
esempio, la gestione delle pratiche amministrative o il pagamento dei
professionisti o imprenditori, che, unitamente dal dato formale della
proprietà ed ai rapporti di affinità con l’altro committente, potesse
dimostrare l’assunzione effettiva e sostanziale del ruolo di committente
unitamente a omissis.
La sentenza deve essere annullata nei confronti omissis, in accoglimento
esclusivamente del motivo riferito al vizio motivazionale relativo al suo
asserito ruolo di committente, con rinvio per nuovo giudizio sul punto.
Va difatti ribadito, come recentemente chiarito Sez. 4 n. 10039 del
13/11/2018- dep. 07/03/2019, che gli obblighi di sicurezza previsti dagli
artt. 26 e 90 del d.lgs. n. 81 del 2008 gravano esclusivamente sul
committente, da intendersi come colui che ha stipulato il contratto d’opera
o di appalto, anche se non proprietario del bene che si avvantaggia delle
opere affidate, mentre nessuna responsabilità è configurabile a carico del
proprietario non committente che non si sia ingerito nell’esecuzione delle
opere, pur in assenza di una delega di funzioni.”
3. Sugli obblighi che gravano in ordine alla
posizione di garanzia assunta dal committente dell’opera:
“Relativamente alla
responsabilità di omissis, il giudice di appello ha affermato che “a
prescindere da qualsiasi obbligo di redazione del piano operativo di
sicurezza o di valutazione del rischio elettrico… e dal fatto che la
proprietà della prolunga che ha portato al decesso dell’omissis possa essere
ad egli attribuita”, il comportamento tenuto dall’ omissis, “il quale è
intervenuto sul quadro elettrico senza predisporre le dovute cautele e senza
rendere noti in forma scritta i pericoli ivi presenti e le precauzioni da
adottare, data la compresenza sui luoghi di lavoro di diversi soggetti ed
operanti”, ha costituito “ragionevolmente” uno degli antecedenti causali da
cui è discesa la morte del giovane”.
Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, vi è, dunque, una
motivazione esaustiva e non manifestamente illogica sulla propria
responsabilità, coerente, peraltro, con l’art. 95 lett. g e h, del d.lgs. n.
81 del 2008, che, anche nella formulazione anteriore alla novella,
stabiliva: “i datori di lavoro delle imprese esecutrici, durante
l’esecuzione dell’opera osservano le misure generali di tutela di cui
all’art 15 e curano, ciascuno per la parte di competenza… g) la cooperazione
tra datori di lavoro e lavoratori autonomi; h) le interazioni con le
attività che avvengono sul luogo, all’interno o in prossimità del cantiere”.
Proprio dagli obblighi di curare la reciproca cooperazione e interazione con
gli altri soggetti presenti sul cantiere, obblighi che gravano su ciascuna
impresa esecutrice, deriva l’obbligo di fornire adeguate informazioni circa
i rischi connessi alla propria attività, dal cui inadempimento la Corte di
appello ha fatto discendere la responsabilità di omissis.”
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza
31.07.2019 n. 34893 - commento tratto da e link a https://studiolegaleramelli.it). |
APPALTI: Ratio
e presupposti dell’interdittiva antimafia.
Il TAR Milano, con
riferimento alla ratio e ai presupposti
dell’interdittiva antimafia, richiama
l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa e precisa che:
● l’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91,
comma 6, del d.l.vo n. 159/2011, presuppone
“concreti elementi da cui risulti che
l’attività d’impresa possa, anche in modo
indiretto, agevolare le attività criminose o
esserne in qualche modo condizionata”;
● per quanto riguarda la ratio dell’istituto della interdittiva
antimafia, si tratta di una misura volta
alla salvaguardia dell’ordine pubblico
economico, della libera concorrenza tra le
imprese e del buon andamento della pubblica
Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva
antimafia comporta che il Prefetto escluda
che un imprenditore -pur dotato di adeguati
mezzi economici e di una adeguata
organizzazione- meriti la fiducia delle
Istituzioni (vale a dire che risulti
“affidabile”) e possa essere titolare di
rapporti contrattuali con le pubbliche
amministrazioni o degli altri titoli
abilitativi, individuati dalla legge;
● il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di
cui al d.l.vo. n. 159 del 2011 -come già
avevano disposto l'art. 4 del d.l.vo
08.08.1994, n. 490, e il d.p.r. 03.06.1998,
n. 252- ha tipizzato un istituto mediante il
quale si constata un’obiettiva ragione di
insussistenza della perdurante “fiducia
sulla affidabilità e sulla moralità
dell'imprenditore” che deve costantemente
esservi nei rapporti contrattuali di cui sia
parte una amministrazione (e di per sé
rilevante per ogni contratto d'appalto, ai
sensi dell'art. 1674 c.c.), ovvero comunque
deve sussistere affinché l’imprenditore
risulti meritevole di conseguire un titolo
abilitativo, ovvero di conservarne gli
effetti;
● l’interdittiva prefettizia antimafia integra, secondo una logica
di anticipazione della soglia di difesa
dell’ordine pubblico economico e degli altri
interessi pubblici primari già ricordati,
una misura preventiva, volta a colpire
l’azione della criminalità organizzata,
impedendole di avere rapporti contrattuali
con la Pubblica amministrazione, cosicché,
proprio per il suo carattere preventivo,
essa prescinde dall’accertamento di singole
responsabilità penali nei confronti dei
soggetti che, nell’esercizio di attività
imprenditoriali, hanno rapporti con la
Pubblica amministrazione e si fonda sugli
accertamenti compiuti dai diversi organi di
polizia e analizzati, per la loro rilevanza,
dal Prefetto territorialmente competente, la
cui valutazione costituisce espressione di
ampia discrezionalità che può essere
assoggettata al sindacato del giudice
amministrativo solo sotto il profilo della
sua logicità, in relazione alla rilevanza
dei fatti accertati;
● tanto in sede amministrativa, quanto in sede giurisdizionale,
rileva il complesso degli elementi concreti
emersi nel corso del procedimento: una
visione “parcellizzata” di un singolo
elemento, o di più elementi, non può che far
perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza
nel suo legame sistematico con gli altri;
● con riferimento alla consistenza del quadro indiziario rilevante
dell’infiltrazione mafiosa, esso deve dar
conto in modo organico e coerente, ancorché
sintetico, di quei fatti aventi le
caratteristiche di gravità, precisione e
concordanza, dai quali, sulla base della
regola causale del “più probabile che non”,
il giudice amministrativo, chiamato a
verificare l'effettivo pericolo di
infiltrazione mafiosa, possa pervenire in
via presuntiva alla conclusione ragionevole
che tale rischio sussista, valutatene e
contestualizzatene tutte le circostanze di
tempo, di luogo e di persona;
● resta estranea al sistema delle informative antimafia, non
trattandosi di provvedimenti nemmeno
latamente sanzionatori, qualsiasi logica
penalistica di certezza probatoria raggiunta
al di là del ragionevole dubbio (né -tanto
meno- occorre l’accertamento di
responsabilità penali, quali il “concorso
esterno” o la commissione di reati aggravati
ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del
1991), poiché simile logica vanificherebbe
la finalità anticipatoria dell'informativa,
che è quella di prevenire un grave pericolo
e non già quella di punire, nemmeno in modo
indiretto, una condotta penalmente
rilevante;
● occorre valutare il rischio di inquinamento mafioso in base
all’ormai consolidato criterio del più
“probabile che non”, alla luce di una regola
di giudizio, cioè, che ben può essere
integrata da dati di comune esperienza,
evincibili dall’osservazione dei fenomeni
sociali, qual è, anzitutto, anche quello
mafioso;
● ne consegue che gli elementi posti a base dell’informativa
possono essere anche non penalmente
rilevanti o non costituire oggetto di
procedimenti o di processi penali o,
addirittura e per converso, possono essere
già stati oggetto del giudizio penale, con
esito di proscioglimento o di assoluzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 30.07.2019 n. 1782 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
2.1) Con riferimento alla ratio e ai
presupposti dell’interdittiva antimafia, la
giurisprudenza amministrativa (cfr. ex
multis Consiglio di Stato sez. III,
30.01.2019, n. 758 Consiglio di Stato, sez.
III, 13.11.2017, n. 5214; Consiglio di
Stato, sez. III, 23.10.2017, n. 4880;
Consiglio di Stato, sez. III, 20.07.2016, n.
3299; Consiglio di Stato, sez. III,
03.05.2016, n. 1743; Consiglio di Stato,
sez. III, 31.08.2016, n. 3754; Tar Campania
Napoli, sez. I, 06.02.2017, n. 731; Tar
Lombardia Milano, sez. IV, 06.10.2017, n.
1908; Tar Campania Napoli, sez. I,
07.11.2016, n. 5118) precisa che:
- l’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91,
comma 6, del d.l.vo n. 159/2011, presuppone
“concreti elementi da cui risulti che
l’attività d’impresa possa, anche in modo
indiretto, agevolare le attività criminose o
esserne in qualche modo condizionata”;
- per quanto riguarda la ratio dell’istituto della
interdittiva antimafia, va premesso che si
tratta di una misura volta alla salvaguardia
dell’ordine pubblico economico, della libera
concorrenza tra le imprese e del buon
andamento della pubblica Amministrazione:
nella sostanza, l’interdittiva antimafia
comporta che il Prefetto escluda che un
imprenditore -pur dotato di adeguati mezzi
economici e di una adeguata organizzazione-
meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a
dire che risulti “affidabile”) e
possa essere titolare di rapporti
contrattuali con le pubbliche
amministrazioni o degli altri titoli
abilitativi, individuati dalla legge;
- il codice delle leggi antimafia e delle misure di
prevenzione, di cui al d.l.vo. n. 159 del
2011 - come già avevano disposto l'art. 4
del d.l.vo 08.08.1994, n. 490, e il d.p.r.
03.06.1998, n. 252 - ha tipizzato un
istituto mediante il quale si constata
un’obiettiva ragione di insussistenza della
perdurante “fiducia sulla affidabilità e
sulla moralità dell'imprenditore”, che
deve costantemente esservi nei rapporti
contrattuali di cui sia parte una
amministrazione (e di per sé rilevante per
ogni contratto d'appalto, ai sensi dell'art.
1674 c.c.), ovvero comunque deve sussistere
affinché l’imprenditore risulti meritevole
di conseguire un titolo abilitativo, ovvero
di conservarne gli effetti;
- insomma, l’interdittiva prefettizia antimafia integra, secondo
una logica di anticipazione della soglia di
difesa dell’ordine pubblico economico e
degli altri interessi pubblici primari già
ricordati, una misura preventiva, volta a
colpire l’azione della criminalità
organizzata, impedendole di avere rapporti
contrattuali con la Pubblica
amministrazione, cosicché, proprio per il
suo carattere preventivo, essa prescinde
dall’accertamento di singole responsabilità
penali nei confronti dei soggetti che,
nell’esercizio di attività imprenditoriali,
hanno rapporti con la Pubblica
amministrazione e si fonda sugli
accertamenti compiuti dai diversi organi di
polizia e analizzati, per la loro rilevanza,
dal Prefetto territorialmente competente, la
cui valutazione costituisce espressione di
ampia discrezionalità (cfr. in argomento,
Tar Lombardia Milano, sez. III, 29.04.2009,
n. 3593; TAR Campania Napoli, sez. I,
06.04.2011, n. 1966; Consiglio di Stato,
sez. III, 30.01.2015, n. 455), che può
essere assoggettata al sindacato del giudice
amministrativo solo sotto il profilo della
sua logicità, in relazione alla rilevanza
dei fatti accertati;
- tanto in sede amministrativa, quanto in sede giurisdizionale,
rileva il complesso degli elementi concreti
emersi nel corso del procedimento: una
visione “parcellizzata” di un singolo
elemento, o di più elementi, non può che far
perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza
nel suo legame sistematico con gli altri (cfr.
Tar Lombardia Milano, sez. IV, 10.01.2017,
n. 39, che richiama sul punto, fra le tante,
Consiglio di Stato, sez. III, 15.09.2016, n.
3889);
- con riferimento alla consistenza del quadro indiziario rilevante
dell’infiltrazione mafiosa, la
giurisprudenza precisa che esso deve dar
conto in modo organico e coerente, ancorché
sintetico, di quei fatti aventi le
caratteristiche di gravità, precisione e
concordanza, dai quali, sulla base della
regola causale del “più probabile che non”
(già Consiglio di Stato, sez. III,
07.10.2015, n. 4657; Cassazione civile, sez.
III, 18.07.2011, n. 15709), il giudice
amministrativo, chiamato a verificare
l'effettivo pericolo di infiltrazione
mafiosa, possa pervenire in via presuntiva
alla conclusione ragionevole che tale
rischio sussista, valutatene e
contestualizzatene tutte le circostanze di
tempo, di luogo e di persona;
- resta estranea al sistema delle informative antimafia, non
trattandosi di provvedimenti nemmeno
latamente sanzionatori, qualsiasi logica
penalistica di certezza probatoria raggiunta
al di là del ragionevole dubbio (né -tanto
meno- occorre l’accertamento di
responsabilità penali, quali il “concorso
esterno” o la commissione di reati
aggravati ai sensi dell'art. 7 della legge
n. 203 del 1991), poiché simile logica
vanificherebbe la finalità anticipatoria
dell'informativa, che è quella di prevenire
un grave pericolo e non già quella di
punire, nemmeno in modo indiretto, una
condotta penalmente rilevante;
- occorre valutare il rischio di inquinamento mafioso in base
all’ormai consolidato criterio del più “probabile
che non”, alla luce di una regola di
giudizio, cioè, che ben può essere integrata
da dati di comune esperienza, evincibili
dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual
è, anzitutto, anche quello mafioso;
- ne consegue che gli elementi posti a base dell’informativa
possono essere anche non penalmente
rilevanti o non costituire oggetto di
procedimenti o di processi penali o,
addirittura e per converso, possono essere
già stati oggetto del giudizio penale, con
esito di proscioglimento o di assoluzione. |
EDILIZIA PRIVATA: Va
riconosciuta la giurisdizione del G.A. essendo
consolidata la giurisprudenza nell’affermare che la controversia in ordine
alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di
urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo a norma dell’art. 16, l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art.
133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto
di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica
amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni
impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini
di decadenza.
---------------
Il ricorso è infondato e va dunque respinto per le seguenti
motivazioni.
Va innanzitutto riconosciuta la giurisdizione dell’adito Tribunale, essendo
consolidata la giurisprudenza nell’affermare che la controversia in ordine
alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di
urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo a norma dell’art. 16, l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art.
133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto
di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica
amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni
impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini
di decadenza (in tal senso Cons. St. 30.08.2018 n. 12)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 30.07.2019 n. 898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La legge n. 122/1989, nell'innovare la
disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura
minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il
rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall'art. 41, comma 1, della legge
1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è
stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio
secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti),
all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di
urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati
come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli
previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo
pubblico.
Tanto premesso va condivisa la tesi per cui la gratuità non va estesa anche
ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso
che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso la
interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei
parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11 comma 1
della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati
dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i
parcheggi eccedenti il "tetto" di dotazione obbligatoria trova
applicazione il disposto di cui al D.M. di riferimento.
Pertanto, il pagamento di tale contributo va commisurato, come correttamente
operato dagli uffici comunali, alle superfici a parcheggio realizzate in
eccedenza rispetto allo standard minimo di legge.
---------------
Relativamente alla questione principale, ovvero i parcheggi pertinenziali
eccedenti il minimo di legge, parte ricorrente sostiene di aver soddisfatto
una richiesta dell’amministrazione comunale, che d’altro canto ha rispettato
le disposizioni di legge alla luce del progetto proposto dalla stessa
ricorrente.
In punto di diritto, relativamente alla questione principale va richiamato
l’orientamento secondo cui la legge n. 122/1989, nell'innovare la
disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura
minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il
rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall'art. 41, comma 1, della legge
1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è
stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio
secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti),
all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di
urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati
come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli
previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo
pubblico.
Tanto premesso va condivisa la tesi per cui la gratuità non va estesa anche
ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso
che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso la
interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei
parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11 comma 1
della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati
dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i
parcheggi eccedenti il "tetto" di dotazione obbligatoria trova applicazione
il disposto di cui al D.M. di riferimento (cfr. Cons. St. sez. IV. n.
6033/2012).
Pertanto, il pagamento di tale contributo va commisurato, come correttamente
operato dagli uffici comunali, alle superfici a parcheggio realizzate in
eccedenza rispetto allo standard minimo di legge.
Ne consegue l’infondatezza delle censure sviluppate in ricorso che di
conseguenza va respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 30.07.2019 n. 898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Sulla
revoca dell’incarico di revisore dei conti poiché questi ha espresso un
parere non in linea con le aspettative dell’Amministrazione.
In ambito amministrativo, con l’eccezione di alcuni
incarichi pubblici espressamente individuati dalla legge, non rileva la
fiducia soggettiva tra le persone. La fiducia è invece intesa in senso
oggettivo, come coerenza tra la funzione rivestita e le azioni poste in
essere sulla base della funzione.
Di conseguenza, l’amministrazione può dichiarare di non avere più fiducia
nel revisore dei conti solo se quest’ultimo non adempie gli obblighi della
propria funzione, perché è evidentemente impossibile continuare una
collaborazione se una delle parti non interpreta lealmente il proprio ruolo.
In questi termini deve essere letto il riferimento all’inadempienza
contenuto nell’art.
235, comma 2, del Dlgs. 267/2000.
È vero che tra gli obblighi del revisore dei conti vi è anche quello di
fornire consulenza agli uffici per risolvere i problemi contabili e
sottoporre all’approvazione del consiglio comunale uno schema di bilancio
veritiero e affidabile. Non può tuttavia essere chiesto al revisore dei
conti di concorrere, con un parere favorevole o condizionato, a
procrastinare una situazione di squilibrio finanziario che richiede le
misure straordinarie ex art. 243-bis del Dlgs. 267/2000.
---------------
Sui presupposti della revoca
18. Passando al merito, si osserva che le difficoltà economiche di Br.Su.Sk.
srl e il successivo fallimento hanno condotto il Comune di Valleve,
creditore nei confronti della partecipata, a una situazione di squilibrio
finanziario. La Corte di Conti Lombardia, intervenuta su segnalazione della
ricorrente, ha vigilato sulla procedura di riequilibrio, che ha condotto
all’approvazione dell’apposito piano pluriennale ai sensi dell’art. 243-bis
del Dlgs. 267/2000.
19. La ricorrente, basandosi sulla relazione del predecessore per il
rendiconto 2015, ha intuito tempestivamente che gli ingenti crediti del
Comune nei confronti di Br.Su.Sk. srl si stavano deteriorando rapidamente in
parallelo con il peggioramento dei conti della società partecipata. Di qui
l’avvertimento circa la necessità di classificare i suddetti crediti tra
quelli di dubbia esigibilità, cancellando i corrispondenti residui attivi
dal bilancio comunale.
L’analisi era corretta, come hanno dimostrato ampiamente gli avvenimenti
successivi, e parimenti corretta era la proposta di far emergere il
disavanzo di amministrazione già nel rendiconto 2016. Quando è chiaro che il
bilancio comunale è su una traiettoria di dissesto, l’opera di risanamento e
di rigore finanziario deve essere avviata immediatamente, per impedire che
la situazione si aggravi. Le ipotesi di spesa inserite nella proposta di
bilancio di previsione 2017-2019 erano evidentemente disancorate dalla
sottostante realtà finanziaria del Comune.
20. Poiché Br.Su.Sk. srl era una partecipata del Comune, gli amministratori
comunali erano perfettamente a conoscenza delle sue difficoltà economiche.
Non era affatto necessario aspettare il fallimento per avere maggiori
elementi di valutazione. Tanto meno era giustificata la scelta di
qualificare il fallimento (dichiarato il 23.02.2017, ossia prima
dell’approvazione del bilancio di previsione dell’esercizio in corso) come
un evento di cui prendere atto a posteriori nel consuntivo 2017.
21. Su questo punto non vi era alcuna possibilità di collaborazione tra la
ricorrente e il Comune. Era infatti chiara l’intenzione del sindaco,
espressa nella nota del 26.04.2017, di rinviare il riequilibrio finanziario
al 2018, dopo l’approvazione del consuntivo 2017. È vero che la posizione
del sindaco era più articolata, in quanto faceva riferimento anche
all’utilizzo dei proventi delle alienazioni degli immobili comunali come
fondo provvisorio di garanzia dei crediti deteriorati, ma la differenza di
impostazioni tra l’avvio immediato e quello differito della procedura di
risanamento rimaneva incolmabile.
22. Nell’atteggiamento della ricorrente non è quindi ravvisabile alcun
inadempimento ai propri doveri, ma solo l’espressione di un parere non in
linea con le aspettative dell’amministrazione. Nello specifico, come si è
visto sopra, si trattava di un parere professionalmente corretto, in quanto
finalizzato ad anticipare l’avvio della procedura di riequilibrio
finanziario.
23. Manca dunque il presupposto che possa giustificare la revoca
dell’incarico per cessazione del rapporto di fiducia. In ambito
amministrativo, con l’eccezione di alcuni incarichi pubblici espressamente
individuati dalla legge, non rileva la fiducia soggettiva tra le persone. La
fiducia è invece intesa in senso oggettivo, come coerenza tra la funzione
rivestita e le azioni poste in essere sulla base della funzione.
Di conseguenza, l’amministrazione può dichiarare di non avere più fiducia
nel revisore dei conti solo se quest’ultimo non adempie gli obblighi della
propria funzione, perché è evidentemente impossibile continuare una
collaborazione se una delle parti non interpreta lealmente il proprio ruolo.
In questi termini deve essere letto il riferimento all’inadempienza
contenuto nell’art.
235, comma 2, del Dlgs. 267/2000.
24. È vero che tra gli obblighi del revisore dei conti vi è anche quello di
fornire consulenza agli uffici per risolvere i problemi contabili e
sottoporre all’approvazione del consiglio comunale uno schema di bilancio
veritiero e affidabile. Non può tuttavia essere chiesto al revisore dei
conti di concorrere, con un parere favorevole o condizionato, a
procrastinare una situazione di squilibrio finanziario che richiede le
misure straordinarie ex art. 243-bis del Dlgs. 267/2000
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 30.07.2019 n. 716 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO DEL MARE – Inquinamento da plastica -
Contenitori in plastica monouso – Divieto di utilizzo sulle
aree demaniali marittime pugliesi – Direttiva Ue 2019/904 –
Termine di recepimento – Misure spettanti allo Stato –
Natura self executing della direttiva – Esclusione.
Il termine per il recepimento della
direttiva (UE) 2019/904 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 05.06.2019 (GUUE del 12.06.2019) è fissato al
03.07.2021; tale direttiva necessita di misure di
recepimento spettanti allo Stato (ex articolo 117, comma
secondo, lettera s), anche perché incidente sulla “tutela
della concorrenza” (di cui alla successiva lettera e) della
norma costituzionale), nella parte in cui la disciplina
europea importa restrizioni al mercato dei prodotti di
plastica monouso (articolo 5 e allegato, parte B).
Nella situazione attuale, si è quindi in attesa di misure di
attuazione della direttiva – le quali oltretutto impongono
una serie complessa di scelte di politica ambientale e di
carattere tecnico (in parte affidate alla stessa Unione
europea; ad esempio, non sembra neppure completamente
delineata la stessa definizione di “prodotto di plastica
monouso).
Rebus sic stantibus, non sembra esserci spazio perché la
regione (a livello legislativo piuttosto che direttamente
nell'esercizio delle funzioni amministrative) sfrutti “la
possibilità che leggi regionali, emanate nell'esercizio
della potestà concorrente di cui all'art. 117, terzo comma,
della Costituzione, o di quella "residuale" di cui all'art.
117, quarto comma, possano assumere fra i propri scopi anche
finalità di tutela ambientale
(cfr. sentenze n. 407 del 2002 e n. 222 del 2003)” (sentenza
n. 307 del 2003, p. 5), nell’ambito di una
materia qualificata come “trasversale”
(Corte cost., n. 77 del 2017, n. 83 del 2016, n. 109 del
2011, n. 341 del 2010, n. 232 del 2009 e n. 407 del 2002); ciò
principalmente perché l’intervento regionale non può
“compromettere il punto di equilibrio tra esigenze
contrapposte espressamente individuato dalla norma dello
Stato” (sentenza
n. 300 del 2013), tanto meno in uno stadio
in cui tale punto di equilibrio non è stato ancora trovato;
non può peraltro predicarsi alcun effetto diretto della
direttiva sia perché non possiede le caratteristiche per
ritenerla self-executing sia perché tale effetto consegue
solitamente all’inadempienza dello Stato membro.
Non è, in conclusione, rintracciabile la norma (statale o
regionale) su cui si fonda il divieto di utilizzare sulle
aree demaniali marittime pugliesi, contenitori per alimenti,
piatti, bicchieri, posate, cannucce, mescolatori per bevande
monouso non realizzati in materiale compostabile (TAR
Puglia-Bari, Sezz. unite,
ordinanza 30.07.2019 n. 315 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti aventi natura di “atto vincolato” (come l’ingiunzione di
demolizione), non devono essere in ogni caso preceduti dalla comunicazione
di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della l. n. 241/ 1990, non
essendo prevista la possibilità per l’amministrazione di effettuare
valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene.
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5. Deve pertanto ritenersi infondato anche il settimo motivo di
ricorso, con cui si deduce la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990
per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di adozione
dell’ingiunzione di demolizione impugnata, sulla scorta della giurisprudenza
di questo Consiglio, dalla quale il Collegio non intende discostarsi, per la
quale i provvedimenti aventi natura di “atto vincolato” (come
l’ingiunzione di demolizione), non devono essere in ogni caso preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della l. n.
241/ 1990, non essendo prevista la possibilità per l’amministrazione di
effettuare valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del
bene (Cons. Stato, sez. VI, 25.02.2019, n. 1281).
Nella fattispecie, l’impugnata ingiunzione di demolizione conseguiva
all’accertamento di un’abusiva alterazione della naturale quota di campagna,
in disparte l’accertamento del soggetto che ne fosse stato responsabile, e
pertanto essa costituiva un atto dovuto, non necessitante il previo avviso
di inizio del procedimento.
Nella specie, poiché la volumetria complessivamente realizzabile era
indicata negli atti della lottizzazione e nell’atto di compravendita, gli
appellanti dovevano essere ragionevolmente a conoscenza del presupposto di
fatto dell’ingiunzione di demolizione, cioè l’abusiva alterazione della
quota naturale del terreno, rientrando nella propria sfera di controllo (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, sentenza n. 2681 del 05.06.2017; Sez. V, sentenza n.
2194 del 28.04.2014)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 29.07.2019 n. 5317 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Abuso
realizzato su parti comuni di un edificio.
Le parti comuni
dell’edificio non sono di proprietà
dell’ente condominio, ma dei singoli
condomini; a tanto consegue che la misura
volta a colpire l’abuso realizzato sulle
parti comuni deve essere indirizzata
esclusivamente nei confronti dei singoli
condomini, in quanto unici (com)proprietari
delle stesse
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.07.2019 n. 1764 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2.1. La doglianza è fondata.
Come già evidenziato da questa Sezione,
l’art. 1117 cod. civ. stabilisce che le
parti comuni dell’edificio sono oggetto di
proprietà comune dei condomini, con la
conseguenza che il Codominio non vanta alcun
diritto reale sulle stesse.
Secondo una consolidata giurisprudenza,
difatti, il Condominio è un mero ente di
gestione, privo di personalità giuridica (cfr.
Cass. civ., II, 16.12.2015, n. 25288;
06.08.2015, n. 16562; VI, 22.05.2015, n.
10679; TAR Lombardia, Milano, II,
05.12.2016, n. 2302). Siffatto principio è
stato peraltro confermato anche dopo le
modifiche introdotte nel codice civile dalla
legge n. 220 del 2012 (Modifiche alla
disciplina del condominio negli edifici),
poiché quest’ultima, pur avendo attribuito
un attenuato grado di soggettività al
condominio, non lo ha comunque fatto
assurgere al rango di ente dotato di vera e
propria personalità giudica (Cass. civ.,
SS.UU., 18.09.2014, n. 19663).
Da tutto quanto sopra si ricava che le parti
comuni dell’edificio non sono di proprietà
dell’ente condominio, ma dei singoli
condomini.
A tanto consegue che la misura volta a
colpire l’abuso realizzato sulle parti
comuni deve essere indirizzata
esclusivamente nei confronti dei singoli
condomini, in quanto unici (com)proprietari
delle stesse (TAR Lombardia, Milano, II,
05.12.2016, n. 2302).
L’ordine rivolto al Condominio risulta
quindi illegittimo, in ragione del difetto
di legittimazione passiva dello stesso con
riguardo alla repressione degli abusi
edilizi. |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Il
Comune non risarcisce i danni all'immobile abusivo.
Il Comune non è tenuto a risarcire i danni provocati dalla cattiva
manutenzione delle strade a immobili costruiti abusivamente. Il difetto di
concessione edilizia del bene danneggiato, infatti, «viene ad affievolire,
se non ad azzerare, il diritto del proprietario del bene ad essere
risarcito» del danno sofferto.
Il diritto soggettivo ad essere risarcito del danno provocato da fatto
illecito altrui non può infatti comportare un arricchimento ingiustificato
per chi, costruendo un immobile in assenza di ius aedificandi o di
autorizzazione amministrativa, è onerato piuttosto -e in via permanente- di
non aggravare le responsabilità della Pubblica Amministrazione nei confronti
dei terzi che entrino in contatto con la cosa in sua custodia.
Il difetto di concessione edilizia del bene danneggiato, difatti, viene ad
affievolire, se non ad azzerare, il diritto del proprietario del bene ad
essere risarcito per equivalente del danno sofferto, poiché la costruzione
abusiva in tal caso non esaurisce la sua rilevanza nell'ambito del rapporto
pubblicistico tra l'amministrazione ed il privato che ha realizzato la
costruzione, ma viene inevitabilmente a incidere sulla risarcibilità del
relativo danno, qualora l'abuso risulti avere aggravato la posizione di
garanzia assegnata alla Pubblica Amministrazione nella custodia dei propri
beni
(cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20849 del 2013, per la quale
«in
tema di rapporti di vicinato, l'originaria abusività di un immobile per
difformità dalla concessione, oggetto di successiva sanatoria, non osta al
risarcimento del danno allo stesso cagionato da una illecita costruzione su
terreno confinante, atteso che l'immobile sanato, non essendo più
incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di
valore commerciale»).
1.11.
Nel caso concreto, pertanto,
deve non solo tenersi conto del fatto che l'abuso edilizio commesso dal
privato ha consentito -in diversa misura- la costruzione, in prossimità alla
strada comunale, di vani ad uso abitativo in spregio delle regole tecniche e
dell'arte e delle norme edilizie, ma anche che esso ha aggravato
pesantemente la posizione di garanzia cui è tenuta la pubblica
amministrazione.
Pertanto, tale fatto è in grado di recidere, ex art. 1227, comma 1, cod. civ.,
in concreto, il nesso causale tra il bene in custodia della Pubblica
Amministrazione e il danno subito dal privato possessore del bene
abusivamente costruito, azzerando lo spettro di responsabilità ex art. 2051
cod. civ. della pubblica amministrazione.
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1.2. Il motivo è fondato.
1.3. La Corte di merito, riportandosi all'ampia motivazione del giudice di
prime cure e alla CTU acquisita nel giudizio di primo grado, ha affermato
che la responsabilità del Comune per omessa custodia ex art. 2051 cod. civ.
rinvenibile in una condotta negligente nella manutenzione dei condotti
fognari della strada, specificando che l'abuso edilizio del privato non ha
inciso su tutto l'immobile del proprietario ma solo sull'ampliamento privo
del permesso a costruire, dando rilievo non solo agli obblighi di custodia
ex art. 2051 cod. civ. che comportano una responsabilità oggettiva, ma anche
al principio del neminem laedere che impone alla P.A. l'obbligo di
adottare, nella costruzione e nella manutenzione delle pubbliche vie, gli
accorgimenti e I ripari necessari per evitare un deflusso anomalo nei fondi
privati confinanti, così da impedire di arrecare un danno ingiusto.
Conseguentemente la Corte d'appello, alla luce delle risultanze della CTU
che ha accertato la presenza di falle nei condotti fognari e dei tombini
della pubblica via per il deflusso delle acque, nonché di vizi costruttivi
degli immobili danneggiati, in base all'art. 1227 cod. civ. che impone al
giudice di merito di accertare l'eventuale incidenza causale della condotta
colposa e negligente del danneggiato nella produzione del fatto dannoso, ha
considerato, quanto a un'unità immobiliare, prevalente la responsabilità del
privato che aveva costruito senza licenza e non a regola d'arte un vano
sotto l'arco strutturale della strada e, quanto all'altra unità immobiliare,
prevalente la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del Comune per la parte
costruita dal privato in adiacenza alla sede viaria, investita dall'onda di
fango e acqua, ripartendo la responsabilità tra danneggiante e danneggiato
in diversa misura, sì da imputare al Comune il 34% della quota di
responsabilità nella prima ipotesi e il 66% nella seconda ipotesi.
1.4.
Il precedente richiamato dalla Corte territoriale nell'affermare la
responsabilità del Comune, reso da
Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2566 del 06/02/2007,
sancisce la responsabilità della pubblica amministrazione per omessa
manutenzione delle strade e riguarda il rapporto tra il Comune ed i suoi
abitanti verso i quali l'Amministrazione è, comunque, tenuta all'osservanza
del principio del "neminem laedere", che di per sé implica l'obbligo
di adottare, nella costruzione delle strade pubbliche, gli accorgimenti e i
ripari necessari per evitare che, dalla strada, le acque che nella medesima
si raccolgono o che sulla stessa sono convogliate, legalmente o
illegalmente, senza opposizione del Comune proprietario, possano defluire in
modo anomalo nei fondi confinanti, così impedendo di arrecare loro un danno
ingiusto
(Cfr. anche Sez. 3, Sentenza n. 3631 del 28/04/1997; Sez. U., Sentenza n.
2693 del 13/07/1976, in tema di ripartizione di giurisdizione a
proposito di danni patiti dai singoli a causa di fatti illeciti imputabili
alla P.A.).
Sicché in tema di danno cagionato ex art. 2051 c.c. da beni demaniali, grava
sulla P.A. custode l'onere di provare la sussistenza di una situazione la
quale imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo
esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente
esigibile l'intervento riparatore dell'ente custode
(Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 6326 del 05/03/2019; Sez. 6 - 3, Ordinanza n.
6703 del 19/03/2018).
1.5. Il ragionamento effettuato dalla Corte di merito non è tuttavia
sufficiente a regolare il caso in esame.
La pretesa risarcitoria riguarda invero il danneggiamento di un bene
immobile, il cui risarcimento va commisurato in riferimento all'impatto che
ha avuto, nella causazione del danno, la condotta colposa del danneggiato,
ex art. 1227, co. 1, cod. civ.: in proposito, la Corte di merito ha ritenuto
di considerarlo solamente in proporzione ai vizi costruttivi rilevati negli
immobili danneggiati. Un'ulteriore questione, non adeguatamente considerata
dalla Corte di merito, si pone però ove il bene di cui si chiede il
risarcimento presenti non solo vizi costruttivi, ma anche una situazione di
insanabile irregolarità edificatoria che venga a interferire sul diritto a
ottenere il ripristino dello stato dei luoghi o il risarcimento per
equivalente.
1.6.
In generale, quando l'evento dannoso si ricollega a più azioni od omissioni,
il problema della concorrenza di una pluralità di cause trova la sua
soluzione nella disciplina di cui all'art. 41, cod. pen., in virtù del quale
il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se
indipendenti dall'azione o dall'omissione del colpevole, non esclude il
rapporto di causalità fra dette case e l'evento, essendo quest'ultimo
riconducibile a ciascuna di esse, a meno che non sia raggiunta la prova
dell'esclusiva efficienza causale di una sola, pur se imputabile alla stessa
vittima dell'illecito, da ritenersi idonea ad impedire l'evento od a ridurne
le conseguenze (cfr. da ultimo
Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 3779 del 08/02/2019).
L'accertamento dei presupposti per l'applicabilità della
disciplina di cui all'art. 1227 cod. civ. in rapporto all'art. 2051 cod. civ.,
implicante un'analisi del nesso di causalità tra fatto ed evento, richiede
quindi un'indagine sul piano della valutazione delle singole condotte
colpose e della loro concreta incidenza sul piano causale
(cfr. Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27724 del 30/10/2018; Cass. Sez. 6 - 3,
Ordinanza n. 12027 del 16/05/2017; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 30775 del
22/12/2017; Cass. n. 20619/2014 ; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2563 del
06/02/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5511 del 08/04/2003).
Una siffatta valutazione attiene al piano della discrezionalità assegnata al
giudice del merito e, pertanto, al giudice di legittimità spetta il compito
di verificare se essa sia stata fatta, con argomenti logici e congruenti, in
adesione alla fattispecie da esaminare.
1.7. Ebbene, la sussistenza di una irregolarità
costruttiva, sotto il profilo di un'insanabile mancanza di ius
aedificandi, è certamente in grado di determinare l'effetto di esclusiva
efficienza causale sul piano degli eventi causativi del danno da risarcire,
stante la natura "conformativa" dei vincoli di edificabilità apposti
sul diritto di proprietà, ex art. 42, 1° co., Cost. -i quali, pur
comprimendo il diritto di proprietà, non possono essere definitivi
propriamente come vincoli aventi natura espropriativa, e dunque non sono di
per sé indennizzabili in quanto tali-
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 07.04.2010, n. 1982).
Pertanto, la presenza di tale elemento di interferenza sul piano causale
deve essere adeguatamente considerata dal giudice di merito.
1.8. Se e' vero, infatti, che il riconoscimento della
natura oggettiva del criterio di imputazione della responsabilità custodiale
si fonda sul dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla
cosa custodita, in funzione di prevenzione dei danni che da essa possono
derivare, è altrettanto vero che l'imposizione di un dovere di cautela
in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde a un principio di
solidarietà (ex articolo 2 Cost.), che comporta la necessità di adottare
condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per i
terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza
civile
(Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27724 del 30/10/2018).
1.9. In precedenti riferiti allo specifico tema della espropriazione per
pubblica utilità è rinvenibile un simile ragionamento, e precisamente ove si
è sancita la insussistenza del diritto di indennizzo da esproprio per opere
abusivamente costruite, a meno che alla data dell'evento ablativo non
risulti già rilasciata la concessione in sanatoria (cfr. Cass. 11390/2016;
Cass. n. 26260/2007).
In tali casi, ove il rapporto tra privato e Pubblica Amministrazione ha
rilievo pubblicistico e riguarda il valore intrinseco del bene ablato, nella
liquidazione dell'indennizzo non si applica il criterio del valore venale
complessivo dell'edificio e del suolo su cui il medesimo insiste, ma si
valuta la sola area, sì da evitare che l'abusività degli insediamenti possa
concorrere anche indirettamente ad accrescere il valore del fondo.
La stessa regola vale anche per le ipotesi di espropriazione cosiddetta "larvata"
previste dall'art. 46 della legge n. 2359 del 1865, e ciò pure se il danno
lamentato consista proprio nella diminuzione di godimento dell'immobile
abusivo, poiché è principio di carattere generale desumibile dalla normativa
sia urbanistica, che espropriativa (art. 16, comma 9, legge n. 865 del
1971), quello per cui il proprietario non può trarre beneficio alcuno dalla
sua attività illecita (frustra petis quod mox restiturus es).
1.10. La ratio sottesa è inoppugnabile.
Il diritto soggettivo ad essere risarcito del danno provocato da fatto
illecito altrui non può infatti comportare un arricchimento ingiustificato
per chi, costruendo un immobile in assenza di ius aedificandi o di
autorizzazione amministrativa, è onerato piuttosto -e in via permanente- di
non aggravare le responsabilità della Pubblica Amministrazione nei confronti
dei terzi che entrino in contatto con la cosa in sua custodia.
Il difetto di concessione edilizia del bene danneggiato, difatti, viene ad
affievolire, se non ad azzerare, il diritto del proprietario del bene ad
essere risarcito per equivalente del danno sofferto, poiché la costruzione
abusiva in tal caso non esaurisce la sua rilevanza nell'ambito del rapporto
pubblicistico tra l'amministrazione ed il privato che ha realizzato la
costruzione, ma viene inevitabilmente a incidere sulla risarcibilità del
relativo danno, qualora l'abuso risulti avere aggravato la posizione di
garanzia assegnata alla Pubblica Amministrazione nella custodia dei propri
beni
(cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20849 del 2013, per la quale
«in
tema di rapporti di vicinato, l'originaria abusività di un immobile per
difformità dalla concessione, oggetto di successiva sanatoria, non osta al
risarcimento del danno allo stesso cagionato da una illecita costruzione su
terreno confinante, atteso che l'immobile sanato, non essendo più
incommerciabile, è in grado di risentire della correlata diminuzione di
valore commerciale»).
1.11.
Nel caso concreto, pertanto,
deve non solo tenersi conto del fatto che l'abuso edilizio commesso dal
privato ha consentito -in diversa misura- la costruzione, in prossimità alla
strada comunale, di vani ad uso abitativo in spregio delle regole tecniche e
dell'arte e delle norme edilizie, ma anche che esso ha aggravato
pesantemente la posizione di garanzia cui è tenuta la pubblica
amministrazione.
Pertanto, tale fatto è in grado di recidere, ex art. 1227, comma 1, cod. civ.,
in concreto, il nesso causale tra il bene in custodia della Pubblica
Amministrazione e il danno subito dal privato possessore del bene
abusivamente costruito, azzerando lo spettro di responsabilità ex art. 2051
cod. civ. della pubblica amministrazione
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
ordinanza 26.07.2019 n. 20312). |
APPALTI SERVIZI: Lo
scrutinio della correttezza e legittimità della verifica della congruità
dell’offerta non può che essere effettuato sulla esclusiva scorta dei
principi generali in materia elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui:
- nelle gare pubbliche il giudizio circa l’anomalia o l’incongruità
dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile
dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale e, quindi, non può essere esteso ad una autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci;
- il procedimento di verifica dell’anomalia non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto,
e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica,
senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci
di prezzo;
- la valutazione di congruità di una offerta deve essere globale e
sintetica, in quanto “ciò che interessa al fine dello svolgimento del
giudizio successivo alla valutazione dell’anomalia dell’offerta è
rappresentato dall’accertamento della serietà dell’offerta desumibile dalle
giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua complessiva
attendibilità”, con la conseguenza che “l’esclusione dalla gara necessita la
prova dell’inattendibilità complessiva dell’offerta sicché eventuali
inesattezze su singole voci devono ritenersi irrilevanti: ciò che conta è
l’attendibilità dell’offerta e la sua idoneità a fondare un serio
affidamento per la corretta esecuzione dell’appalto";
- al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a
zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della
quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile
apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la
prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la
pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria
e aver portato a termine un appalto pubblico.
---------------
La giurisprudenza ammette la possibilità di produrre in sede di verifica
dell’anomalia preventivi dell’impresa fornitrice con valore probante delle
condizioni particolarmente vantaggiose spuntate dal concorrente di una gara
pubblica.
Alle stesse conclusioni si perviene anche tenendo conto della più rigorosa
giurisprudenza di cui alla sentenza 25.07.2018, n. 4537 della Sezione, che,
dando atto dell’ammissibilità, in linea di massima, delle giustificazioni
fondate sui ribassi risultanti da preventivi dei subappaltatori, esige che
essi siano corredati a loro volta da giustificazioni.
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Ciò precisato deve evidenziarsi che lo scrutinio della correttezza e
legittimità della nuova verifica della congruità dell’offerta
dell’aggiudicataria (nei sensi e nei limiti sopra indicati) non può che
essere effettuato sulla esclusiva scorta dei principi generali in materia
elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui:
- nelle gare pubbliche il giudizio circa l’anomalia o l’incongruità
dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile
dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale e, quindi, non può essere esteso ad una autonoma verifica
della congruità dell’offerta e delle singole voci (Cons. Stato, III,
06.02.2017, n. 514; V, 17.11.2016, n. 4755);
- il procedimento di verifica dell’anomalia non ha per oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto,
e che pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica,
senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci
di prezzo (Cons. Stato, III, 29.01.2019, n. 726; V, 23.01.2018, n. 430;
30.10.2017, n. 4978);
- la valutazione di congruità di una offerta deve essere globale e
sintetica, in quanto “ciò che interessa al fine dello svolgimento del
giudizio successivo alla valutazione dell’anomalia dell’offerta è
rappresentato dall’accertamento della serietà dell’offerta desumibile dalle
giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua complessiva
attendibilità”, con la conseguenza che “l’esclusione dalla gara
necessita la prova dell’inattendibilità complessiva dell’offerta (Cons.
Stato A.P., 29.11.2012, n. 36; Sez. V, 26.09.2013, n. 4761; 18.08.2010, n.
5848; 23.11.2010, n. 8148) sicché eventuali inesattezze su singole voci
devono ritenersi irrilevanti: ciò che conta è l’attendibilità dell’offerta e
la sua idoneità a fondare un serio affidamento per la corretta esecuzione
dell’appalto" (Cons. Stato, V, 18.12.2018, n 7129; 29.01.2018, n. 589);
- al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a
zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della
quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile
apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la
prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la
pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere
aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico (Cons. Stato, V,
17.01.2018, n. 269; 13.02.2017, n. 607; 25.01.2016, n. 242; III, 22.01.2016,
n. 211; 10.11.2015, n. 5128).
...
Le divergenze risultanti dai prezzi dei preordini di cui trattasi e dai
prezzi indicanti dal consulente del RUP si rivelano, al più, delle
sottostime, che non possono condurre ad un giudizio di falsità dei
preordini, che l’appellante afferma senza offrire, al riguardo, alcun serio
elemento probatorio.
Tale non è, in particolare, né la specifica convenienza della vendita, che
dipende anche dalla forza contrattuale delle parti interessate e che non può
ritenersi cristallizzata nel tempo, dipendendo dal numero di transazioni
relative a un ben determinato periodo, né la circostanza che il RTI Sangalli
non abbia prodotto in giudizio le fatture di acquisto dei beni, atteso che
il contratto per l’affidamento del servizio de quo è stato stipulato solo il
27.02.2019, a ridosso della trattazione dell’odierno appello.
Del resto la giurisprudenza ammette la possibilità di produrre in sede di
verifica dell’anomalia preventivi dell’impresa fornitrice con valore
probante delle condizioni particolarmente vantaggiose spuntate dal
concorrente di una gara pubblica (da ultimo, Cons. Stato, V, 08.04.2019, n.
2281; 07.06.2017, n. 2736).
Alle stesse conclusioni si perviene anche tenendo conto della più rigorosa
giurisprudenza di cui alla sentenza 25.07.2018, n. 4537 della Sezione, che,
dando atto dell’ammissibilità, in linea di massima, delle giustificazioni
fondate sui ribassi risultanti da preventivi dei subappaltatori, esige che
essi siano corredati a loro volta da giustificazioni.
Infatti, in applicazione di tale indirizzo alla fattispecie e in vista delle
sue evidenti finalità, che tendono, per un verso, a conferire
garanzia alla congruità dei prezzi praticati e, per altro verso, a
non sottrarre una parte della prestazione al vaglio di sostenibilità della
stazione appaltante, nonché fatti i debiti mutamenti conseguenti al fatto
che si verte in tema di acquisti e non di lavorazioni, non può non rilevarsi
che, come emerge dagli atti di causa, i preordini in parola sono stati
accettati dal fornitore con comunicazione del 26.09.2017, con gli effetti di
cui all’art. 1326 Cod. civ., sicché non può dirsi, come sostiene
l’appellante, che i preordini sono sempre revocabili, e che Sa. afferma di
fatturare nel settore dell’igiene urbana circa € 100 milioni annui, il che
depone per la riconducibilità dei particolari prezzi di vendita “spuntati”
dall’operatore economico alle quantità acquistate piuttosto che alla
ipotizzata precostituzione di una posizione processuale a lui favorevole
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.07.2019 n. 5259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sul
piano soggettivo, la legittimazione al ricorso in materia ambientale,
avendo natura eccezionale e discendendo direttamente dalla legge, deve
riconoscersi alle sole associazioni nazionali, indicate nell’elenco
ministeriale.
Altresì, la legittimazione si estende anche ad associazioni diverse da
quelle di cui al citato art. 13 della legge n. 349 del 1986 e alle
articolazioni periferiche delle associazioni nazionali, purché si tratti di
enti che presentino determinati connotati, quali: il perseguimento della
tutela ambientale in modo non occasionale e per espressa previsione dello
statuto; l’esistenza di un adeguato grado di rappresentatività e stabilità
nell’area ricollegabile alla zona in cui si trova il bene ambientale che si
presume leso.
Sul piano oggettivo, relativo alle finalità di tutela per le quali
detti enti possono ricorrere, le associazioni ambientaliste possono agire
solo a tutela dell’ambiente in senso strettamente inteso, con esclusione,
tra l’altro, della legittimazione ad impugnare atti a mero contenuto
urbanistico.
Altresì, la legittimazione si estende anche all’impugnazione di atti aventi
valenza non strettamente ambientale, purché si accerti che il loro
annullamento è strumentale alla tutela ambientale.
---------------
Sul piano soggettivo, Italia Nostra è una
associazione dotata di personalità giuridica di rilevanza nazionale ed
iscritta nell’elenco di cui al citato articolo 13 della legge n. 349 del
1986. La normativa e gli orientamenti interpretativi in materia sono –come
sopra rilevato– nel senso che sussiste certamente la legittimazione
dell’associazione nazionale. Ora, nel caso in esame, il ricorso è stato
proposto dall’associazione nazionale, con la conseguenza che è irrilevante
prendere posizione in ordine all’estensione della legittimazione anche alle
articolazioni periferiche.
Sul piano oggettivo, Italia Nostra ha impugnato atti e provvedimenti
che incidono su una pluralità di ambiti diversi. La normativa e gli
orientamenti interpretativi dianzi richiamati in materia sono nel senso che
la legittimazione deve riconoscersi in presenza di una impugnazione avente
ad oggetto atti di rilevanza ambientale e paesaggistica. La questione
relativa all’estensione anche ad altri settori e, in particolare,
l’accertamento in concreto della sussistenza di un interesse strumentale
all’annullamento degli atti impugnati per vizi diversi non assume rilevanza
ai fini del giudizio, in quanto, per le ragioni indicate nei successivi
punti, gli unici motivi fondati sono quelli relativi al procedimento
paesaggistico.
In questo senso è, dunque, da ritenersi che Italia Nostra –che è
un'associazione di protezione ambientale, secondo le previsioni di cui
all'art. 13 della l. n. 349/1986 e del d.m. 20.02.1987 e il cui statuto
(approvato con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del
19.10.1999), all'art. 1, dichiara solennemente che lo scopo della predetta
associazione è quello di «concorrere alla tutela e alla valorizzazione del
patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione» e, all'art. 3,
precisa che per il perseguimento del suo scopo si propone di «suscitare il
più vivo interesse e promuovere azioni per la tutela, la conservazione e la
valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente, del paesaggio urbano,
rurale e naturale, dei monumenti, dei centri storici e della qualità della
vita»– sia certamente legittimata ad agire in giudizio non solo per la
tutela degli interessi ambientali in senso stretto (che possono essere
individuati negli aspetti fisico-naturalistici di una certa zona o di un
certo territorio), bensì anche per quelli ambientali in senso lato,
comprendenti la conservazione e valorizzazione dei beni culturali,
dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei
monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come
beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare e
irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni
altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad
ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una propria specifica
utilità che non può essere assicurata da un altro ambiente.
Sotto tale angolazione prospettica, Italia Nostra deve intendersi
legittimata ad impugnare quei provvedimenti amministrativi capaci di ledere
immediatamente o di esporre a pericolo i ricordati valori e di privare
conseguentemente l'individuo delle relative utilità, con la ovvia
precisazione che tale legittimazione, del tutto eccezionale, è concorrente
con quella normalmente facente capo ai singoli soggetti ed è finalizzata a
rendere quanto più effettiva e puntuale possibile la tutela di tali beni e
valori.
---------------
Sul piano soggettivo, il Consiglio di Stato, in alcune decisioni, ha
affermato che la legittimazione al ricorso in materia ambientale, avendo
natura eccezionale e discendendo direttamente dalla legge, deve riconoscersi
alle sole associazioni nazionali, indicate nell’elenco ministeriale (Cons.
Stato, ad plen., 11.01.2007, n. 2; Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, n.
1876; 09.03.2010, n. 1403; 19.10.2007, n. 5453; 03.10.2007, n. 5111; sez. IV,
14.04.2006, n. 2151).
Lo stesso Consiglio di Stato, in altre decisioni, ha ritenuto che la
legittimazione si estende anche ad associazioni diverse da quelle di cui al
citato art. 13 della legge n. 349 del 1986 e alle articolazioni periferiche
delle associazioni nazionali, purché si tratti di enti che presentino
determinati connotati, quali: il perseguimento della tutela ambientale in
modo non occasionale e per espressa previsione dello statuto; l’esistenza di
un adeguato grado di rappresentatività e stabilità nell’area ricollegabile
alla zona in cui si trova il bene ambientale che si presume leso (ex
plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 23.05.2011, n. 3107; 13.09.2010, n.
6554; sez. IV, 16.02.2010, n. 885; sez. II 17.12.2008, n. 4098; sez. V,
23.04.2007, n. 1830; 14.06.2007, n. 3192; sez. IV 02.10.2006, n. 5760).
Sul piano oggettivo, relativo alle finalità di tutela per le quali
detti enti possono ricorrere, il Consiglio di Stato, in linea con la
suddetta impostazione restrittiva, ha affermato, in alcune decisioni, che le
associazioni ambientaliste possano agire solo a tutela dell’ambiente in
senso strettamente inteso (Cons. Stato, sez. IV, 16.12.2003, n. 8234), con
esclusione, tra l’altro, della legittimazione ad impugnare atti a mero
contenuto urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2005, n. 5202).
Lo stesso Consiglio di Stato, in altre decisioni, ha affermato che la
legittimazione si estende anche all’impugnazione di atti aventi valenza non
strettamente ambientale, purché si accerti che il loro annullamento è
strumentale alla tutela ambientale (Cons. Stato, sez. VI, 23.10.2007 n.
5560, Id., sez. IV 02.10.2006 n. 5760).
Applicando queste regole alla fattispecie in esame ne consegue quanto segue.
Sul piano soggettivo, Italia Nostra è una associazione dotata di
personalità giuridica di rilevanza nazionale ed iscritta nell’elenco di cui
al citato articolo 13 della legge n. 349 del 1986. La normativa e gli
orientamenti interpretativi in materia sono –come sopra rilevato– nel senso
che sussiste certamente la legittimazione dell’associazione nazionale. Ora,
nel caso in esame, il ricorso è stato proposto dall’associazione nazionale,
con la conseguenza che è irrilevante prendere posizione in ordine
all’estensione della legittimazione anche alle articolazioni periferiche.
Sul piano oggettivo, Italia Nostra ha impugnato atti e provvedimenti
che incidono su una pluralità di ambiti diversi. La normativa e gli
orientamenti interpretativi dianzi richiamati in materia sono nel senso che
la legittimazione deve riconoscersi in presenza di una impugnazione avente
ad oggetto atti di rilevanza ambientale e paesaggistica. La questione
relativa all’estensione anche ad altri settori e, in particolare,
l’accertamento in concreto della sussistenza di un interesse strumentale
all’annullamento degli atti impugnati per vizi diversi non assume rilevanza
ai fini del giudizio, in quanto, per le ragioni indicate nei successivi
punti, gli unici motivi fondati sono quelli relativi al procedimento
paesaggistico.
Alle superiori considerazioni è appena il caso di soggiungere che, in
disparte la relativa fondatezza o meno, le censure formulate da Italia
Nostra anche con riguardo ad aspetti non strettamente
paesaggistico-ambientali (ma, comunque, oggettivamente intrecciati con essi)
del controverso iter amministrativo di abilitazione alla realizzazione della
UMI 4 del subcomparto del PUA S. Teresa, si presentano assistite da un
interesse qualificato ad opporsi a tale progetto, in quanto denunciato come
confliggente con i valori tutelati dall’associazione ricorrente
(segnatamente nella parte in cui prevede la costruzione dell’edificio
Crescent «di proporzioni mastodontiche, avente uno sviluppo lineare di
300 metri circa ed un’altezza di quasi 30 metri, con utilizzo di oltre
150.000 metri cubi di calcestruzzo», così da incidere, «alterandolo
irreversibilmente, sul paesaggio urbano e, in particolare, sulla visuale del
centro storico dal mare e sul paesaggio verso il mare e verso la rinomata
Costiera Amalfitana da tratti significativi del Lungomare cittadino».
In questo senso è, dunque, da ritenersi che Italia Nostra –che è
un'associazione di protezione ambientale, secondo le previsioni di cui
all'art. 13 della l. n. 349/1986 e del d.m. 20.02.1987 e il cui statuto
(approvato con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del
19.10.1999), all'art. 1, dichiara solennemente che lo scopo della predetta
associazione è quello di «concorrere alla tutela e alla valorizzazione
del patrimonio storico, artistico e naturale della Nazione» e, all'art.
3, precisa che per il perseguimento del suo scopo si propone di «suscitare
il più vivo interesse e promuovere azioni per la tutela, la conservazione e
la valorizzazione dei beni culturali, dell'ambiente, del paesaggio urbano,
rurale e naturale, dei monumenti, dei centri storici e della qualità della
vita»– sia certamente legittimata ad agire in giudizio non solo per la
tutela degli interessi ambientali in senso stretto (che possono essere
individuati negli aspetti fisico-naturalistici di una certa zona o di un
certo territorio), bensì anche per quelli ambientali in senso lato,
comprendenti la conservazione e valorizzazione dei beni culturali,
dell'ambiente in senso ampio, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei
monumenti e dei centri storici e della qualità della vita, intesi tutti come
beni e valori ideali idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare e
irripetibile un certo ambito geografico e territoriale rispetto ad ogni
altro ambito geografico e territoriale e pertanto capaci di assicurare ad
ogni individuo che entra in contatto con tale ambito una propria specifica
utilità che non può essere assicurata da un altro ambiente (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 09.10.2002, n. 5365; 26.09.2013, n. 4817).
Sotto tale angolazione prospettica, Italia Nostra deve intendersi
legittimata ad impugnare quei provvedimenti amministrativi capaci di ledere
immediatamente o di esporre a pericolo i ricordati valori e di privare
conseguentemente l'individuo delle relative utilità, con la ovvia
precisazione che tale legittimazione, del tutto eccezionale, è concorrente
con quella normalmente facente capo ai singoli soggetti ed è finalizzata a
rendere quanto più effettiva e puntuale possibile la tutela di tali beni e
valori (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2013, n. 4817)
(TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.07.2019 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel processo amministrativo, ai fini della decorrenza del termine
per proporre ricorso è considerata sufficiente la percezione dell'esistenza
di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente
la immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato, al
fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica connessa alla previsione
di un termine decadenziale per l'impugnativa degli atti amministrativi,
senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto
processo, garantiti, invece, dalla congruità del termine temporale per
impugnare, decorrente dalla conoscenza dell'atto nei suoi elementi
essenziali e dalla possibilità di proporre successivi motivi aggiunti.
Costituisce, infatti, ius receptum l'indirizzo secondo il quale, nel
processo amministrativo, la decorrenza del termine per l'impugnazione deve
essere ancorata al momento in cui in concreto si è verificata ed è stata
apprezzata la situazione di lesività, atteso che la piena conoscenza del
provvedimento causativo non può ritenersi operante oltre ogni limite
temporale, rendendosi, altrimenti, l'attività dell'amministrazione e le
iniziative dei controinteressati suscettibili d'impugnazione sine die, in
aperta contraddizione con l’onere decadenziale del soggetto interessato di
farsi tempestivamente parte diligente.
---------------
In argomento, è appena il caso di ricordare che, nel processo
amministrativo, ai fini della decorrenza del termine per proporre ricorso è
considerata sufficiente la percezione dell'esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la immediata e
concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato, al fine di
garantire l'esigenza di certezza giuridica connessa alla previsione di un
termine decadenziale per l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che
ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto processo,
garantiti, invece, dalla congruità del termine temporale per impugnare,
decorrente dalla conoscenza dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla
possibilità di proporre successivi motivi aggiunti.
Costituisce, infatti, ius receptum l'indirizzo secondo il quale, nel
processo amministrativo, la decorrenza del termine per l'impugnazione deve
essere ancorata al momento in cui in concreto si è verificata ed è stata
apprezzata la situazione di lesività, atteso che la piena conoscenza del
provvedimento causativo non può ritenersi operante oltre ogni limite
temporale, rendendosi, altrimenti, l'attività dell'amministrazione e le
iniziative dei controinteressati suscettibili d'impugnazione sine die,
in aperta contraddizione con l’onere decadenziale del soggetto interessato
di farsi tempestivamente parte diligente (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 14.06.2016, n. 2565; 19.08.2016 n. 3645; sez. V, 09.05.2017,
n. 2533; TAR Campania, Napoli, sez. I, 30.01.2017, n. 644; sez. VIII,
02.02.2017, n. 696; TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.03.2017, n. 3332)
(TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.07.2019 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In
sede di elaborazione degli strumenti urbanistici si rinviene, di regola, la
dicotomia tra le prescrizioni che, in via diretta, stabiliscono le
potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (ossia
afferenti alla c.d. zonizzazione, alla destinazione di aree a standard, alla
localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo) e le
prescrizioni che, più in dettaglio, disciplinano l'esercizio
dell'attività edificatoria per il tramite delle norme tecniche di attuazione
del piano o del regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle
distanze e delle altezze, sull'osservanza di canoni estetici,
sull'assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche
sull'attività costruttiva, ecc.).
Detto altrimenti, abbiamo le prescrizioni per le quali, in ragione
del loro effetto conformativo del ius aedificandi dei privati proprietari,
si impone l’onere decadenziale di immediata impugnazione e le
prescrizioni destinate a regolare la futura attività edilizia e, quindi,
suscettibili di ripetuta applicazione, le quali possono essere impugnate in
seguito all’adozione dell’atto applicativo, allorquando, cioè, assumono
portata concretamente lesiva per gli interessati.
---------------
In argomento, il Consiglio di Stato,
sez. VI, nella sentenza n. 6223 del 23.12.2013 ha rilevato che il PUA S.
Teresa presenta un modulo contenutistico eccentrico rispetto a quello
generalmente invalso in sede di elaborazione degli strumenti urbanistici.
Nell’ambito di questi ultimi, si rinviene, infatti, di regola, la dicotomia
tra le prescrizioni che, in via diretta, stabiliscono le potenzialità
edificatorie della porzione di territorio interessata (ossia afferenti alla
c.d. zonizzazione, alla destinazione di aree a standard, alla localizzazione
di opere pubbliche o di interesse collettivo) e le prescrizioni che, più in
dettaglio, disciplinano l'esercizio dell'attività edificatoria per il
tramite delle norme tecniche di attuazione del piano o del regolamento
edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze,
sull'osservanza di canoni estetici, sull'assolvimento di oneri
procedimentali e documentali, regole tecniche sull'attività costruttiva,
ecc.); ossia tra le prescrizioni per le quali, in ragione del loro effetto
conformativo del ius aedificandi dei privati proprietari, si impone
l’onere decadenziale di immediata impugnazione e le prescrizioni destinate a
regolare la futura attività edilizia e, quindi, suscettibili di ripetuta
applicazione, le quali possono essere impugnate in seguito all’adozione
dell’atto applicativo, allorquando, cioè, assumono portata concretamente
lesiva per gli interessati (cfr., ex multis, Cons. Stato, ad. gen.
06.06.2012, n. 3240; sez. VI, 30.06.2011, n. 1868; sez. III, 16.04.2014, n.
1955; sez. IV, 17.11.2015, n. 5235; sez. IV, 19.01.2018, n. 332; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 03.07.2018, n. 4392; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 06.09.2018, n. 2052) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.07.2019 n. 1420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L'operatore
economico non è tenuto a dichiarare, in sede di gara, l'esistenza di
condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti.
L'art 80, c. 3, del d.lgs n. 50 del 2016 (Codice dei
contratti) prevede espressamente, all'ultimo periodo, che l'esclusione dalla
gara per uno dei reati previsti dal c. 1 non può essere disposta allorquando
sia intervenuta la dichiarazione della loro estinzione: l'effetto estintivo
del fatto di reato in tali evenienze, priva di per sé e per espressa
disposizione normativa, la stazione appaltante del potere di apprezzarne la
relativa incidenza ai fini partecipativi.
Ne consegue che, l'operatore economico non è tenuto a dichiarare, in sede di
gara, l'esistenza di condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti e
ciò in quanto si tratta di condanne che, comunque, la stazione appaltante
-per espressa previsione normativa- non potrebbe mai prendere in
considerazione ai fini della comminatoria della esclusione del concorrente
dalla gara e/o, come nel caso di specie, della revoca della aggiudicazione,
ove già disposta.
Una omessa dichiarazione in tal senso non potrebbe nemmeno costituire grave
illecito professionale (art. 80, c. 5, lett. c) o omissione di informazione
dovuta ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art.
80, c. 5, lett. c-ter) né tanto meno dichiarazione non veritiera (art. 80,
c. 5, lett. f-bis) da parte dell'operatore economico non sussistendo alcun
obbligo dichiarativo di tale tenore.
Pertanto, l'obbligo dichiarativo, la cui omissione potrebbe porre in dubbio
l'affidabilità o l'integrità dell'operatore economico, non può essere esteso
a tal punto da ricomprendere anche i precedenti penali che siano stati
espressamente dichiarati estinti e ciò in quanto la legge stessa li
qualifica come non idonei a giustificare l'esclusione del concorrente dalla
gara
(TAR Molise,
sentenza 25.07.2019 n. 259 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: L’obbligo
del partecipante di dichiarare le condanne penali non ricomprende le
condanne per reati estinti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Precedenti penali per reati dichiarati estinti – Omessa dichiarazione – Art.
80, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016 – Non può essere disposta l’esclusione
dalla gara – Obbligo dichiarativo – Non sussiste
In sede di gara pubblica, l’obbligo dichiarativo, la
cui omissione potrebbe porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità
dell’operatore economico, non può essere esteso a tal punto da ricomprendere
anche i precedenti penali che siano stati espressamente dichiarati estinti e
ciò in quanto la legge stessa li qualifica come non idonei a giustificare
l’esclusione del concorrente dalla gara (1).
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(1)
Cons. St., sez. V, 25.02.2016, n. 761; id., sez. VI, 03.09.2013,
n. 4392.
Ha chiarito il Tar che, se pure il nuovo codice non riproduce la previsione
contenuta nell’art. 38, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che, ai fini degli
obblighi dichiarativi dei reati incidenti sulla moralità professionale,
precisava che «il concorrente non è tenuto ad indicare nella
dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti
dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è
intervenuta la riabilitazione» (art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163 del
2006), è anche vero che esso non contiene un’espressa imposizione di una
dichiarazione generalizzata estesa a questi ultimi.
Al contrario, l’art. 80, comma 3, del vigente Codice dei Contratti prevede
espressamente, all’ultimo periodo, che l’esclusione dalla gara per uno dei
reati previsti dal comma 1 non può essere disposta allorquando sia
intervenuta la dichiarazione della loro estinzione: l’effetto estintivo del
fatto di reato in tali evenienze, cioè, priva di per sé e per espressa
disposizione normativa, la stazione appaltante del potere di apprezzarne la
relativa incidenza ai fini partecipativi.
Ha aggiunto il Tar che, se ciò è vero, allora deve anche ritenersi che
l’operatore economico non sia tenuto a dichiarare, in sede di gara,
l’esistenza di condanne penali afferenti a reati dichiarati estinti e ciò in
quanto si tratta di condanne che, comunque, la stazione appaltante -per
espressa previsione normativa- non potrebbe giammai prendere in
considerazione ai fini della comminatoria della esclusione del concorrente
dalla gara e/o, come nel caso che di specie, della revoca della
aggiudicazione, ove già disposta.
Una omessa dichiarazione in tal senso non potrebbe nemmeno costituire grave
illecito professionale (art. 80, comma 5, lett. c) o omissione di
informazione dovuta ai fini del corretto svolgimento della procedura di
selezione (art. 80, comma 5, lett. c-ter) né tanto meno dichiarazione non
veritiera (art. 80, comma 5, lett. f-bis) da parte dell’operatore economico
non sussistendo, per le ragioni sopra indicate, alcun obbligo dichiarativo
di tale tenore.
Rilevando, poi, come, nel caso di specie, la lex specialis non abbia
previsto alcun obbligo in tal senso, il Tar ha affermato che, tuttora, non
occorra dichiarare in sede di gara le situazioni che, per espressa
previsione legislativa, più non rilevano ai fini dell’affidabilità e
dell’integrità morale del concorrente
(TAR Molise,
sentenza 25.07.2019 n. 259 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
L’assunto non può essere condiviso.
Ed invero, se pure il nuovo codice non riproduce la previsione contenuta
nell’art. 38 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che, ai fini degli obblighi
dichiarativi dei reati incidenti sulla moralità professionale, precisava che
«il concorrente non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne
per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa,
né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la
riabilitazione» (art. 38, comma 2, d.lgs. n. 163/2006), è anche vero che
esso non contiene un’espressa imposizione di una dichiarazione generalizzata
estesa a questi ultimi.
Al contrario, l’art. 80, comma 3, del vigente Codice dei Contratti prevede
espressamente, all’ultimo periodo, che l’esclusione dalla gara per uno dei
reati previsti dal comma 1 non può essere disposta allorquando sia
intervenuta la dichiarazione della loro estinzione: l’effetto estintivo del
fatto di reato in tali evenienze, cioè, priva di per sé e per espressa
disposizione normativa, la stazione appaltante del potere di apprezzarne la
relativa incidenza ai fini partecipativi (Cons. Stato, V, 25.02.2016, n.
761; VI, 03.09.2013, n. 4392).
Se ciò è vero, allora deve anche ritenersi che l’operatore economico non sia
tenuto a dichiarare, in sede di gara, l’esistenza di condanne penali
afferenti a reati dichiarati estinti e ciò in quanto si tratta di condanne
che, comunque, la stazione appaltante -per espressa previsione normativa-
non potrebbe giammai prendere in considerazione ai fini della comminatoria
della esclusione del concorrente dalla gara e/o, come nel caso che ci
occupa, della revoca della aggiudicazione, ove già disposta.
Una omessa dichiarazione in tal senso non potrebbe nemmeno costituire grave
illecito professionale (art. 80, comma 5, lett. c) o omissione di
informazione dovuta ai fini del corretto svolgimento della procedura di
selezione (art. 80, comma 5, lett. c-ter) né tanto meno dichiarazione non
veritiera (art. 80, comma 5, lett. f-bis) da parte dell’operatore economico
non sussistendo, per le ragioni sopra indicate, alcun obbligo dichiarativo
di tale tenore.
In conclusione, deve ritenersi che l’obbligo dichiarativo, la cui omissione
potrebbe porre in dubbio l’affidabilità o l’integrità dell’operatore
economico, non può essere esteso a tal punto da ricomprendere anche i
precedenti penali che siano stati espressamente dichiarati estinti e ciò in
quanto la legge stessa li qualifica come non idonei a giustificare
l’esclusione del concorrente dalla gara; non può non rilevarsi, poi, come,
nel caso di specie, la lex specialis non abbia previsto alcun obbligo
in tal senso.
Ciò avvalora la conclusione che, tuttora, non occorra dichiarare in sede di
gara le situazioni che, per espressa previsione legislativa, più non
rilevano ai fini dell’affidabilità e dell’integrità morale del concorrente.
Va, quindi, condiviso il principio secondo il quale “l’obbligo del
partecipante di dichiarare le condanne penali non ricomprende le condanne
per reati estinti o depenalizzati […] in ragione dell’effetto privativo che
l’abrogatio criminis (ovvero il provvedimento giudiziale dichiarativo della
estinzione del reato) opera sul potere della stazione appaltante di
apprezzare la incidenza, ai fini partecipativi, delle sentenze di condanna
cui si riferiscono quei fatti di reato" (cfr TAR Napoli, sent. n.
3518/2016).
Per quanto dedotto, il ricorso va accolto con conseguente annullamento degli
atti impugnati. |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi ed illegittimità della sanatoria 'condizionata'.
E' da escludere la cosiddetta sanatoria condizionata,
caratterizzata dal fatto che i suoi effetti siano subordinati all'esecuzione
di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il
requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non
posseggono.
Tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi giacché l'art. 36 d.P.R. n.
380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce
come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell'opera sia al momento della presentazione della domanda di
sanatoria.
Invero, "è illegittimo, e non determina l'estinzione
del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto
abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta
subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria,
collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale
rispondenza alla disciplina urbanistica".
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad
un'attività vincolata e non discrezionale della Pubblica amministrazione.
Per le medesime ragioni, non è ammissibile una sanatoria parziale che non
contempli gli interventi eseguiti nella loro integrità, come nel caso, ad
esempio, in cui la sanatoria presupponga la conservazione di alcune opere e
la demolizione delle parti di volumetria in eccedenza.
A tal fine va ribadito il principio già espresso che ha affermato che
non sono legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il
reato di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, i
provvedimenti amministrativi di sanatoria di immobile abusivo che
subordinano gli effetti del beneficio all'esecuzione di specifici interventi
finalizzati a ricondurre l'immobile stesso nell'alveo di conformità agli
strumenti urbanistici, atteso che detta subordinazione è ontologicamente
contrastante con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta
esecuzione delle opere ed alla loro conformità agli strumenti urbanistici.
---------------
Con motivazione logica e razionale la Corte territoriale ha osservato che,
nonostante il ricorrente avesse ottenuto un provvedimento di condono nel
2009, il Procuratore generale aveva chiarito che, dalla disposizione del
dirigente del Comune di Napoli n. 121 del 28.09.2017, era emerso che l'opera
abusiva, non ancora demolita, non era suscettibile di condono. Premesso che
il giudice dell'esecuzione doveva valutare in piena autonomia la conformità
del bene alle prescrizioni di legge e quindi la validità amministrativa dei
condoni edilizi, ha precisato:
a) che, nella specie, il frazionamento del manufatto era consistito
nella parziale demolizione dell'eccesso di cubatura che aveva
originariamente impedito all'edificio di rientrare nei limiti della
condonabilità,
b) che i limiti dovevano sussistere alla data ultima del
31.03.2003, mentre, a quella data, la cubatura unitaria dell'abuso edilizio
era risultata superiore a quella sanabile,
c) che il Comune di Napoli aveva già avviato la pratica di diniego
del condono e, solo successivamente, il ricorrente aveva ridotto la cubatura
dell'abuso edilizio rendendo condonabile l'opera,
d) che il requisito della condonabilità era maturato dopo il
31.03.2003 e dopo la domanda di condono del 2004.
Siccome la modifica dei presupposti di cubatura della domanda di condono n.
606/04 avrebbe imposto comunque il rigetto della domanda pendente e la
necessità della presentazione di una nuova domanda di condono, sulla base di
nuovi presupposti di cubatura, che però sarebbe stata comunque tardiva, ha
concluso che il condono rilasciato il 28.02.2018 dal Comune di Napoli era da
considerarsi illegittimo, con la conseguenza che l'ordine di demolizione non
poteva essere revocato.
D'altra parte la demolizione solo parziale della parte aggiuntiva della
cubatura dell'edificio che aveva impedito il condono non aveva estinto il
reato urbanistico di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380/2001 non essendo
applicabile analogicamente la disciplina sui reati paesaggistici. Il reato
urbanistico sulla parte di abuso edilizio, solo autodemolita e non
condonata, non si era estinta in conseguenza della sola autodemolizione,
cosicché l'ordine non poteva essere revocato dal giudice dell'esecuzione a
causa dell'estinzione del reato che ne aveva comportato l'obbligatoria
emissione.
Ha aggiunto che l'abuso edilizio insisteva su zona vincolata e che non
poteva essere rilasciato il condono in forma semplificata, senza
acquisizione dei pareri delle autorità preposte alla tutela
del vincolo. Anche se la presenza del vincolo era stato negata dal Comune,
la sentenza di condanna irrevocabile non poteva essere modificata dal
giudice dell'esecuzione; inoltre, per il manufatto in cemento armato non
erano stati presentati i calcoli strutturali né era stato effettuato il
collaudo e mancava la documentazione di conformità alla normativa edilizia
antisismica; che la Pubblica amministrazione non avesse provveduto alla
demolizione, infine, non costituiva elemento ostativo a che vi avesse
provveduto il Procuratore generale in esecuzione della sentenza
irrevocabile.
La decisione è in linea con la consolidata interpretazione di legittimità
dell'art. 36 d.P.R. n. 380/2001.
Ed invero è da escludere la cosiddetta sanatoria condizionata,
caratterizzata dal fatto che i suoi effetti siano subordinati all'esecuzione
di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il
requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non
posseggono.
Tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi giacché l'art. 36 d.P.R. n.
380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce
come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell'opera sia al momento della presentazione della domanda di
sanatoria (si veda, ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 51013 del
05/11/2015, Carratù, Rv. 266034, secondo cui è illegittimo, e non determina
l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre
il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in
quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio"
della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla
loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica).
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata e
non discrezionale della Pubblica amministrazione. Per le medesime ragioni,
non è ammissibile una sanatoria parziale che non contempli gli interventi
eseguiti nella loro integrità, come nel caso, ad esempio, in cui la
sanatoria presupponga la conservazione di alcune opere e la demolizione
delle parti di volumetria in eccedenza.
A tal fine va ribadito il principio già espresso da Cass., Sez. 3, n. 41567
del 04/10/2007, Rubechi, Rv. 238020, che ha affermato che non sono
legittimi, e pertanto sono inidonei ad estinguere il reato di cui all'art.
44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, i provvedimenti amministrativi di
sanatoria di immobile abusivo che subordinano gli effetti del beneficio
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre l'immobile
stesso nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, atteso che detta
subordinazione è ontologicamente contrastante con la "ratio" della
sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere ed alla loro
conformità agli strumenti urbanistici
(Corte di Cassazione, Sez. VII
penale,
ordinanza 24.07.2019 n. 33390). |
APPALTI: La
c.d. "clausola sociale" deve essere interpretata in modo da non
limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di
attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
La c.d. "clausola sociale" (nel caso di specie sotto
forma di clausola di riassorbimento), ammessa dall'art. 50 del D.Lgs.
18/04/2016, n. 50, deve essere interpretata conformemente ai principi
nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e
di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza,
scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea
dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e
garantita dall'art. 41 Cost., che sta a fondamento dell'autogoverno dei
fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo
del contratto di appalto.
In sostanza, tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare
la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un
effetto automaticamente e rigidamente escludente.
Conseguentemente l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze
dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello
stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con
l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante;
I lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore
subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore
uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in
materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun
obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a
tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il totale del
personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.07.2019 n. 5243 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Stand
still processuale in caso di impugnazione dell’aggiudicazione con istanza
cautelare.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Impugnazione –
Contestuale istanza cautelare – Effetti – Individuazione.
L’apparente contraddittorietà interna dell’art. 32,
comma 11, d.lgs. n. 50 del 2016 –laddove prevede che, in caso di
proposizione di un ricorso avverso l'aggiudicazione con contestuale domanda
cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della
notificazione dell'istanza cautelare alla stazione appaltante “per i
successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga
almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del
dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito
all'udienza cautelare” stabilendo tuttavia, altresì, che il contratto non
può essere stipulato “fino alla pronuncia di detti provvedimenti se
successiva” (alla scadenza del termine di venti giorni)– deve essere risolta
nel senso di ritenere che l’effetto preclusivo automatico debba permanere
fino all’assunzione dei predetti provvedimenti ad opera del giudice, anche
se adottati oltre il termine di venti giorni, dovendosi quindi correlare lo
stand still processuale esclusivamente alla decisione del giudice in ordine
alla richiesta cautelare, altrimenti risultando privo di significato
l’inciso “ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva”
ai venti giorni, di cui alla citata norma (1).
---------------
(1) Ad avviso della Sezione tale interpretazione –sulla permanente
operatività dell’effetto preclusivo alla stipula del contratto sino alla
conclusione della fase cautelare di primo grado- è la più coerente con la
ratio della norma, da raccordarsi con le previsioni di cui agli articoli
da 121 a 124 c.p.a. e con il principio di effettività della tutela, nonché
con l’applicazione dell’istituto per i casi di rinvio della camera di
consiglio per l’esame cautelare, essendosi affermato, in tale ipotesi, che “Nel
caso in cui nella camera di consiglio fissata per la trattazione della
domanda cautelare di sospensione temporanea dell'aggiudicazione venga
disposto un rinvio dell'udienza camerale continua ad operare lo stand still,
potendo dirsi venuto meno tale motivo ostativo alla stipula del contratto
solo nel caso di un rinvio della causa all'udienza di merito (anche ai fini
dell'esame dell'istanza cautelare), perché solo in questo ultimo caso può
dirsi essere intervenuta una rinuncia, sia pur implicita, all'operatività
del vincolo di stand still” (Cons.
St., sez. V, 14.11.2017, n. 5243;
Tar Lazio, sez. II-bis, dec., 31.05.2019, n. 3222)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 24.07.2018 n. 5055 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Secondo il pacifico indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, alle amministrazioni è riconosciuta ampia discrezionalità in
sede di valutazione dell’anomalia delle offerte, senza contare che il
giudizio di congruità ha carattere globale, mirando ad accertare la
complessiva sostenibilità economica della proposta, mentre non si può certo
configurare come un procedimento volto alla “caccia all’errore”, di
carattere quasi sanzionatorio.
Corollario di tali presupposti è che in sede di giustificazioni sono
consentiti parziali aggiustamenti all’offerta ed anche spostamenti delle
voci di costo nell’ambito dell’offerta stessa, purché quest’ultima possa
però reputarsi complessivamente affidabile.
---------------
La doglianza, per quanto suggestiva e ben esposta, appare però infondata.
Dapprima giova richiamare il pacifico indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, cui aderisce anche la scrivente Sezione, secondo cui alle
amministrazioni è riconosciuta ampia discrezionalità in sede di valutazione
dell’anomalia delle offerte, senza contare che il giudizio di congruità ha
carattere globale, mirando ad accertare la complessiva sostenibilità
economica della proposta, mentre non si può certo configurare come un
procedimento volto alla “caccia all’errore”, di carattere quasi
sanzionatorio.
Corollario di tali presupposti è che in sede di giustificazioni sono
consentiti parziali aggiustamenti all’offerta ed anche spostamenti delle
voci di costo nell’ambito dell’offerta stessa, purché quest’ultima possa
però reputarsi complessivamente affidabile (cfr. da ultimo, fra le tante,
TAR Lazio, Roma, sez. III-quater, n. 8656/2019, con la giurisprudenza ivi
richiamata)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.07.2019 n. 1713 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
diritto, o meno, all’esenzione dal pagamento del contributo di concessione
edilizia prevista dall’art. 9, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10, in
base al quale “Il
contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .... f) per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti
urbanistici".
Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, la
ragione della deroga prevista dalla prima parte dell’art. 9, comma 1, lett.
f), l. 28.01.1977 n. 10 è, anzitutto, quella di agevolare l’esecuzione di
opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la
collettività possa comunque trarne una utilità, quando l’esecuzione sia
compiuta da un ente istituzionalmente competente tramite un concessionario
di opera pubblica, in tal caso venendo giustificata la concessione di un
beneficio economico che, non contribuendo alla formazione di un utile
d’impresa, si riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce
dell’opera una volta eseguita.
Ai fini dell’esenzione, pertanto, occorre che l’opera sia pubblica o di
interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non competendo,
invece, alle opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza
sociale dell’attività da essi esercitata nella o con l’opera edilizia cui la
concessione si riferisce.
---------------
L’Istituto appellante non può dirsi “ente istituzionalmente competente”
ai sensi della disposizione de qua, perché l’espressione adoperata dalla
norma non può riferirsi che ad enti pubblici, ovvero a soggetti che agiscono
per conto di essi, come confermato dal fatto che soltanto nella seconda
parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione,
la disposizione si riferisce ad opere “eseguite anche da privati”.
Occorre cioè, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, che, quando
non sia esso stesso ente pubblico, il soggetto realizzatore abbia agito
quale organo indiretto dell’amministrazione, come nella concessione o nella
delega.
---------------
E’ per mera completezza, dunque, che può aggiungersi che la strumentalità
rispetto all’esercizio di un servizio pubblico non è sufficiente ad
integrare la nozione di “impianti, attrezzature, opere pubbliche o di
interesse generale”, di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della l. n.
10 del 1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001), in
quanto l’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione vale per la
struttura che realizza o contribuisce con vincolo indissolubile
all’erogazione diretta del servizio, come, a titolo meramente
esemplificativo, nell’ipotesi di un impianto tecnico, ma non per un bene la
cui strumentalità dipende da scelte discrezionali e, quindi, revocabili,
della società, dovendosi dunque concludere che a rilevare non è la
destinazione che soggettivamente s’intende dare alla struttura, bensì la sua
natura oggettiva: solo laddove l’opera non possa, neppure in astratto, avere
una destinazione diversa da quella pubblica si potrà dunque configurare il
presupposto per l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione.
---------------
1. - In primo grado l’Istituto Diocesano Sostentamento del Clero di Caserta
ha agito nei confronti del Comune di Caserta per l’accertamento negativo
dell’obbligo di pagare il contributo concessorio e per il riconoscimento del
diritto alla restituzione delle somme che avrebbe indebitamente versato per
la realizzazione della struttura sportiva polivalente di sua proprietà sita
in Caserta alla via Borsellino, sostenendo di aver diritto all’esenzione dal
pagamento del contributo di concessione edilizia prevista dall’art. 9,
lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10, in base al quale “Il
contributo di cui al precedente art. 3 non è dovuto: .... f) per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti
urbanistici".
Il TAR ha respinto il ricorso giudicando insussistenti i presupposti per il
riconoscimento dell’esenzione in favore dell’opera in questione
(riconducibile ad una struttura pubblica di quartiere e verde attrezzato e
di proprietà di un ente ecclesiastico civilisticamente riconosciuto con
Decreto del Ministero degli Interni ed iscritto nel registro delle persone
giuridiche della Prefettura di Caserta) con riferimento ad ambedue le
ipotesi della disposizione citata.
In particolare, in relazione alla fattispecie prevista dalla prima parte
dell’articolo, ha rilevato la carenza sia del presupposto oggettivo (opera
pubblica o destinata a soddisfare bisogni della collettività), sia di quello
soggettivo (opera realizzata da un’amministrazione pubblica o da un soggetto
privato per conto di una pubblica amministrazione), osservando che “è
pacifico che l’ente proprietario dell’immobile è un soggetto a personalità
giuridica privo di alcun collegamento con la pubblica amministrazione; tale
circostanza è sufficiente per escludere il riconoscimento del beneficio, in
considerazione anche della specifica tipologia di opera in questione
(struttura sportiva poliva[len]te) e della sue concrete modalità di
fruizione”.
In relazione alla seconda ipotesi, ha evidenziato che “per essere esente
da contributo, l’opera di urbanizzazione deve essere specificatamente
indicata come tale nello strumento urbanistico, anche attuativo (C.d.S. Sez.
V, 21.01.1997 n. 69). Nel caso in esame la realizzazione dell’opera de qua è
certamente conforme agli strumenti urbanistici vigenti; non è tuttavia
espressamente contemplata come tale dagli strumenti urbanistici”.
...
8. – Nel merito, il Giudice di primo grado ha correttamente escluso che
l’Istituto avesse titolo all’esenzione dal pagamento dei contributi
concessori e, dunque, alla ripetizione di quanto versato.
9. – Per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, la ragione della
deroga prevista dalla prima parte dell’art. 9, comma 1, lett. f), l.
28.01.1977 n. 10 è, anzitutto, quella di agevolare l’esecuzione di opere
destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la
collettività possa comunque trarne una utilità, quando l’esecuzione sia
compiuta da un ente istituzionalmente competente tramite un concessionario
di opera pubblica, in tal caso venendo giustificata la concessione di un
beneficio economico che, non contribuendo alla formazione di un utile
d’impresa, si riverbera a vantaggio di tutta la collettività che fruisce
dell’opera una volta eseguita (ex ceteris, C.d.S., Sez. VI,
11.04.2014, n. 1759).
Ai fini dell’esenzione, pertanto, occorre che l’opera sia pubblica o di
interesse pubblico e sia realizzata da un ente pubblico, non competendo,
invece, alle opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza
sociale dell’attività da essi esercitata nella o con l’opera edilizia cui la
concessione si riferisce (ex aliis, C.d.S., sez. V, 15.12.2005, n.
7140).
L’Istituto appellante non può dirsi “ente istituzionalmente competente”
ai sensi della disposizione de qua, perché l’espressione adoperata dalla
norma non può riferirsi che ad enti pubblici, ovvero a soggetti che agiscono
per conto di essi, come confermato dal fatto che soltanto nella seconda
parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione,
la disposizione si riferisce ad opere “eseguite anche da privati” (C.d.S.,
sez. V, 11.01.2006, n. 51).
Occorre cioè, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, che, quando
non sia esso stesso ente pubblico, il soggetto realizzatore abbia agito
quale organo indiretto dell’amministrazione, come nella concessione o nella
delega (C.d.S., sez. IV, 20.11.2017, n. 5356, Id., sez. IV, 30.08.2016, n.
3721, con riferimento alla previsione ora contenuta nell’art. 17, co. 3,
lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001).
E poiché non è gravato il capo della sentenza di primo grado che ha escluso
che possa ricadersi, in alternativa, nell’ipotesi dell’esenzione dovuta, in
forza della seconda parte della disposizione citata, per le opere di
urbanizzazione eseguite anche da privati in attuazione di strumenti
urbanistici, non vertendosi, nel caso di specie, di opere di urbanizzazione
specificamente indicate come tali nello strumento urbanistico, tanto basta
ad escludere che l’Istituto appellante abbia diritto all’esenzione dal
versamento del contributo di concessione.
E’ per mera completezza, dunque, che può aggiungersi che la strumentalità
rispetto all’esercizio di un servizio pubblico non è sufficiente ad
integrare la nozione di “impianti, attrezzature, opere pubbliche o di
interesse generale”, di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), della l. n.
10 del 1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001), in
quanto l’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione vale per la
struttura che realizza o contribuisce con vincolo indissolubile
all’erogazione diretta del servizio, come, a titolo meramente
esemplificativo, nell’ipotesi di un impianto tecnico, ma non per un bene la
cui strumentalità dipende da scelte discrezionali e, quindi, revocabili,
della società, dovendosi dunque concludere che a rilevare non è la
destinazione che soggettivamente s’intende dare alla struttura, bensì la sua
natura oggettiva: solo laddove l’opera non possa, neppure in astratto, avere
una destinazione diversa da quella pubblica si potrà dunque configurare il
presupposto per l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione
(C.d.S., sez. IV, 31.08.2016, n. 3750).
10. – Per queste ragioni, in conclusione, l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 23.07.2019 n. 5194 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
possibilità di ricorrere alla figura dell'ordinanza contingibile e urgente è
legata alla sussistenza di un pericolo concreto, attuale ed imminente per
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana che imponga di provvedere in via
d'urgenza, con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie
o di sicurezza per l’incolumità privata e pubblica, non fronteggiabili con i
mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento.
---------------
3.- Il contratto di locazione e le precedenti trattative ai fini del
rilascio del locale appaiono indici fortemente sintomatici del ricorso
improprio al potere di ordinanza contingibile ed urgente, di cui al
menzionato art. 54 d.lgs. 267/2000, adottata dal sindaco, in definitiva, non
per fronteggiare un pericolo reale ed imminente alla sicurezza ed incolumità
pubbliche bensì come strumento di pressione per lo sgombero dei locali.
Come chiarito da ampia e condivisa giurisprudenza, la possibilità di
ricorrere alla figura dell'ordinanza contingibile e urgente è legata alla
sussistenza di un pericolo concreto, attuale ed imminente per l'incolumità
pubblica e la sicurezza urbana che imponga di provvedere in via d'urgenza,
con strumenti extra ordinem, per fronteggiare emergenze sanitarie o
di sicurezza per l’incolumità privata e pubblica, non fronteggiabili con i
mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento (ex multis, Tar Torino,
sez. II, 26.07.2018, n. 903; Tar Milano, sez. III, 16.05.2018, n. 1284; Tar
Napoli, sez. V, 06.03.2018, n. 1409; Cons. Stato, sez. V, 12.06.2017, n.
2799 e n. 2847)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza III,
sentenza 23.07.2019 n. 4028 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Autotutela
prima dell’aggiudicazione.
Sino a quando non
intervenga l’aggiudicazione, la stazione
appaltante resta libera di intervenire sugli
atti di gara senza sottostare alle forme e
ai limiti di cui all’autotutela decisoria;
sino a quel momento, infatti, la procedura
di gara non può dirsi conclusa e
l’aggiudicatario provvisorio è titolare di
una mera aspettativa alla conclusione
favorevole del procedimento e al
conseguimento del bene della vita
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 23.07.2019 n. 1705 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Vero è, infatti, che sino a quando non
intervenga l’aggiudicazione, la stazione
appaltante resta libera di intervenire sugli
atti di gara senza sottostare alle forme e
ai limiti di cui all’autotutela decisoria (cfr.,
ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza
n. 107/2019). Sino a quel momento, infatti,
la procedura di gara non può dirsi conclusa
e l’aggiudicatario provvisorio è titolare di
una mera aspettativa alla conclusione
favorevole del procedimento e al
conseguimento del bene della vita (cfr.,
C.d.S., Sez. V, sentenza n. 7056/2018).
Nel caso di specie, addirittura, il
ripensamento, perfettamente ammissibile e
qui ampiamente giustificato, della
Commissione giudicatrice è intervenuto
ancora nella fase di valutazione delle
offerte, sicché nessuna contraddittorietà
può rinvenirsi nella posizione assunta dalla
Commissione medesima rispetto alla
valutazione iniziale e provvisoria. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO – Inquinamento da plastica – Regolamentazione
dell’utilizzo dei materiali plastici – Comune –
Incompetenza, in difetto di normativa primaria.
Il Comune non ha alcuna competenza a
regolamentare in via autonoma l’utilizzo dei materiali
plastici, in difetto di normativa primaria. Non può infatti
essere richiamata la direttiva (UE) 2019/904, entrata in
vigore il 02.07.2019, che dovrà essere recepita entro il
03.07.2021: è appena il caso di rammentare che la competenza
ad adottare le misure di recepimento spetta allo Stato e non
al Comune.
Né sono invocabili gli artt. 181, 182 e 182-bis del codice
dell’ambiente, che, dettando norme in materia di riciclaggio
e recupero dei rifiuti nonché di smaltimento dei rifiuti,
non riguardano la regolamentazione dell’uso della plastica e
non possono pertanto legittimare l’ordine, per le imprese
titolari di distributori automatici di cibi e bevande, di
“utilizzare esclusivamente bicchieri, posate, mescolatori,
in materiale biodegradabile e compostabile certificato”.
In astratto, e in presenza dei presupposti che ne
legittimano l’esercizio, l’unico strumento utilizzabile da
parte del Comune è il potere extra ordinem (TAR
Puglia- Bari, Sez. II,
sentenza 23.07.2019 n. 1063 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Effetti
della presentazione della domanda di concordato “in bianco”.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione dalla gara –
Concordato in bianco – Istanza presentata durante la procedura di gara o
prima del suo inizio – Conseguenza.
La presentazione, durante una procedura di
affidamento di appalti pubblici, di una domanda di concordato “in bianco”,
disciplinata dall’art. 161, comma 6, della legge fallimentare, comporta
l’esclusione dalla gara per violazione del principio di continuità dei
requisiti di partecipazione.
Invece, anche dopo le modifiche introdotte dal d.l. n. 32 del 2019, come
convertito dalla l. n. 55 del 2019, la partecipazione dell’impresa che ha
presentato una domanda di concordato “in bianco” è consentita, alle
condizioni previste dagli artt. 110, d.lgs. n. 50 del 2016 e 186-bis, comma
4, della legge fallimentare, in riferimento alle sole procedure di
affidamento iniziate dopo il deposito della domanda stessa (1).
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(1) Il Tar ha ritenuto che il tenore letterale dell’art. 80, comma
5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 riferisce esplicitamente l’eccezione,
rispetto alla regola dell’esclusione di cui alla lett. b), dell’art. 80,
d.lgs. n. 50 del 2016, al solo caso in cui l’operatore “si trovi” in
continuità aziendale e, quindi, sia stato già ammesso al concordato e non
anche ai casi di “procedimenti in corso” e, quindi, in cui sia stata
presentata la sola domanda di concordato “in bianco”.
L’art. 110 del citato Codice dei contratti, laddove, nel testo vigente prima
delle modifiche introdotte dal d. l. n. 32 del 2019, prevede, a determinate
condizioni, la possibilità di partecipazione alle procedure di appalto,
riguarda le sole imprese già ammesse al concordato come ivi espressamente
specificato, e non anche l’ipotesi di concordato “in bianco”; alla
medesima conclusione deve, in particolare, pervenirsi anche in relazione a
quando disposto dal comma 5 il quale richiama il parere del giudice delegato
che viene nominato solo dopo l’ammissione al concordato (art. 163, comma 2,
n. 1, L.F.).
Ha ancora ricordato il Tar che la possibilità per l’impresa che ha
presentato domanda di concordato “in bianco” di partecipare alla gara
è esclusa dall’art. 161, comma 7, L.F. secondo cui “dopo il deposito del
ricorso e fino al decreto di cui all'art. 163 il debitore può compiere gli
atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del
tribunale, il quale può assumere sommarie informazioni e deve acquisire il
parere del commissario giudiziale, se nominato”. Dalla disposizione in
esame risulta che il debitore in situazione di pre-concordato può porre in
essere non tutti gli atti di amministrazione ma solo quelli urgenti e solo
previa autorizzazione del Tribunale.
Secondo la giurisprudenza la partecipazione ad una procedura selettiva per
l'affidamento di un contratto di appalto pubblico, così come la permanenza
all'interno della procedura stessa, laddove al momento dell'avvio non era
stata presentata, da parte dell'operatore economico, alcuna domanda di "concordato
in bianco", rientrano nella categoria degli atti di straordinaria
amministrazione, anche perché già solo la partecipazione alla procedura
potrebbe ridurre ancor di più le opportunità di tutela dei creditori (Cons.
Stato n. 3984 del 2019; id.
n. 5966 del 2018; id
n. 3225 del 2018).
Ha aggiunto il Tar che l’art. 186-bis L.F., nel consentire, a determinate
condizioni, la possibilità per l’impresa di partecipare alle procedure di
gara, riguarda le sole ipotesi in cui “il piano di concordato di cui
all'articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione
dell'attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell'azienda in
esercizio ovvero il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più
società, anche di nuova costituzione” e in cui il piano abbia i
contenuti di cui al comma secondo lettere a) e c) della disposizione e sia
accompagnato dalla relazione del professionista di cui all'articolo 161,
terzo comma L.F. la quale “deve attestare che la prosecuzione dell'attività
d'impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior
soddisfacimento dei creditori” (art. 186-bis, comma 2, lett. b, L.F.).
L’art. 186-bis L.F., pertanto, presuppone l’avvenuta presentazione di un
piano di concordato e della relazione del professionista che, invece,
mancano nelle fattispecie di c.d. “concordato in bianco”.
Infine, l’art. 110, d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione introdotta dopo la
l. n. 55 del 2019, nel prevedere che “alle imprese che hanno depositato
la domanda di cui all’articolo 161, anche ai sensi del sesto comma, del
regio decreto 16.03.1942, n. 267, si applica l’articolo 186-bis del predetto
regio decreto. Per la partecipazione alle procedure di affidamento di
contratti pubblici tra il momento del deposito della domanda di cui al primo
periodo ed il momento del deposito del decreto previsto dall’articolo 163
del regio decreto 16.03.1942, n. 267 è sempre necessario l’avvalimento dei
requisiti di un altro soggetto”, e l’art. 186-bis, comma 4, L.F.,
debbano essere interpretati nel senso che la “partecipazione”, ivi
menzionata, riguarda le sole procedure che iniziano ex novo dopo la
presentazione della domanda di concordato “in bianco” e non anche
quelle in corso al momento del deposito della domanda stessa
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 22.07.2019 n. 9782 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Clausola
di sbarramento nelle offerte tecniche.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta – Clausola di
sbarramento - Riferimento ai valori “assoluti” delle offerte tecniche –
Necessità.
In sede di gara pubblica, ai fini della valutazione
dell’offerta essendo lo scopo della previsione della soglia di sbarramento
di assicurare un filtro di qualità, impedendo la prosecuzione della gara a
quelle offerte che non raggiungano uno standard minimo corrispondente a
quanto (discrezionalmente) prefissato dalla lex specialis, tale filtro va
operato con riferimento ai valori “assoluti” delle offerte tecniche, ovvero
al risultato derivante dall’applicazione dei punteggi come previsti dal
metodo di gara in relazione ai singoli parametri, avendo questi ultimi un
significato funzionale proprio (1).
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(1) Ha affermato il Tar che non è senza rilievo sostanziale che la
soglia di qualità deve riferirsi ai punteggi non riparametrati perché vuole
evitarsi che la riparametrazione, in quanto volta solo ad operare un
opportuno riequilibrio del punteggio tecnico e mantenere il rapporto
corretto con il peso dell’offerta economica, influisca sulla selezione dei
minimi standard cui si vuole subordinare l’ammissione dell’offerta alla fase
di verifica successiva, e consenta così ad offerte oggettivamente prive di
requisiti minimi di qualità di superare quel filtro che la soglia è appunto
preordinata ad assicurare.
Ha aggiunto la Sezione che nella premessa che l’individuazione della soglia
così come la scelta di consentire la riparametrazione, sono frutto di
esercizio di attività discrezionale della PA che attiene al governo della
gara ed alla predeterminazione delle relative regole, è necessario che il
concreto disimpegno di tale discrezionalità risponda a canoni di logica e di
ragionevolezza. Per cui, laddove la S.A. decida di applicare una soglia “rigida”
di qualificazione, ovvero espressa in valori assoluti, quest’ultima non
potrà che operare anteriormente alla riparametrazione e quindi sui valori
altrettanto “assoluti” come emersi all’esito dell’esame delle offerte
tecniche.
Laddove si voglia applicare invece la soglia alle offerte come riparametrate,
allora anche la soglia non potrebbe che dover essere riparametrata in
maniera corrispondente, per mantenere la stessa percentuale di sufficienza
rispetto al massimo del valore del “peso” attribuito all’offerta
tecnica e garantire così la neutralità della riparametrazione rispetto al
meccanismo di filtro proprio della soglia (in altri termini, dovrebbe
prevedersi una sorta di “doppia” soglia, ovvero una soglia assoluta
-da applicarsi nel caso in cui non si verifichino i presupposti per la
riparametrazione- ed una soglia relativa -da applicarsi nel caso in cui tali
presupposti si verifichino, costituita dalla prima adeguata alla percentuale
di riparametrazione concretamente risultante dalle relative operazioni).
Ponendosi la predeterminazione di una soglia minima di punteggi di qualità
delle offerte quale criterio di filtro delle offerte stesse ai fini della
prosecuzione della gara, la riparametrazione deve rimanere neutrale rispetto
alla verifica della soglia e dunque non può che essere applicata alle
offerte non riparametrate (oppure, se prevista ex post, deve essere
costruita sulla base di una soglia “mobile” che vari all’eventuale
variazione del punteggio in conseguenza della riparametrazione laddove se ne
verifichino i presupposti ed in maniera percentualmente corrispondente)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 22.07.2019 n. 9781 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’installazione
di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di costruire,
trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario per
apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente
intesa.
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Le dimensioni minime di un ascensore sono quelle prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche".
Tale disciplina trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Tuttavia, la normativa di cui al d.m. richiamato è derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi di titolo autorizzatorio ad
hoc di competenza ministeriale.
---------------
Venendo all’esame del merito dell’impugnativa, il Collegio osserva
che il ricorso è infondato e va respinto.
Nella narrativa in fatto dell’atto introduttivo il Condominio ricorrente
allega che l’impianto ascensore, alla cui realizzazione il Comune resistente
ha negato l’assenso mediante la declaratoria di inefficacia della SCIA
presentata in data 10/05/2018 qui impugnata, era sottodimensionato rispetto
a quelle “convenzionali”, id est rispetto alla dimensioni minime prescritte
dall’art. 8.1.12, lett. c), del d.m. LL.PP. n. 236/1989 recante "Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica
sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle
barriere architettoniche", disciplina che –contrariamente a quanto opinato
dalla difesa attorea, trova applicazione non solo per nuove costruzioni, ma
anche per quelle preesistenti, discorrendosi nel testo delle disposizioni
del richiamato d.m. di “adeguamento” (art. 8.1.12, lett. c) e di “spazi
costruiti” (art. 2, lett. m).
Quella appena cennata è, invero, l’unica normativa dedicata all’istallazione
degli impianti ascensore, mancando ogni riferimento al tema nel corpus
normativo sull’edilizia (T.U. Edilizia e altre fonti normative connesse).
Peraltro, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale,
l’installazione di un ascensore di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessario
per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione
strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134;
TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
La normativa di cui al d.m. richiamato è peraltro derogabile –nel senso che
si può richiedere di realizzare al di sotto delle dimensioni minime
prescritte– solo nei termini di cui al
d.p.r. 19/01/2015 n. 8, premunendosi
di titolo autorizzatorio ad hoc di competenza ministeriale, del tutto
mancante nel caso di specie (cfr. motivazione dell’atto impugnato).
Sulla base dei soli due rilievi appena svolti (insussistenza delle
dimensioni minime prescritte per gli impianti ascensori e assenza della
deroga) –senza necessità, dunque, di approfondire la tematica, molto
controversa tra le parti e di certo non trascurabile ai fini delle esigenze
di sicurezza, sulla necessità di assicurare il cd. “giro barella”
nella cassa scale– il ricorso può ritenersi infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Costituisce jus receptum nella giurisprudenza amministrativa che “quando un provvedimento sia fondato su una pluralità di
ragioni, tra loro distinte ed autonome, che siano tutte egualmente idonee a
sorreggerne la parte dispositiva, l'eventuale illegittimità di una di esse
non è sufficiente ad inficiare il provvedimento stesso”.
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Costituisce, infatti, jus receptum nella giurisprudenza amministrativa,
infatti, che “quando un provvedimento sia fondato su una pluralità di
ragioni, tra loro distinte ed autonome, che siano tutte egualmente idonee a
sorreggerne la parte dispositiva, l'eventuale illegittimità di una di esse
non è sufficiente ad inficiare il provvedimento stesso” (TAR Campania
Napoli, sez. I, 07.10.2008, n. 13437; ex multis, v. anche TAR
Liguria Genova, sez. II, 26.11.2008, n. 2041; TAR Campania Napoli
sez. V 05.08.2008 n. 9774; TAR Lazio Roma sez. II 01.07.2008 n.
6346; TAR Emilia Romagna Parma, sez. I, 17.06.2008 n. 314; TAR
Lazio Roma, sez. II, 23.04.2008 n. 3505; TAR Lazio Roma, sez. II, 10.03.2008 n. 2165; TAR Lazio Roma, sez. II, 28.01.2008 n. 608;
Consiglio Stato, sez. V 28.12.2007 n. 6732).
Né alla vicenda in esame può accostarsi quella oggetto di una recente
decisione di questa Sezione (TAR Napoli, sez. IV, 11/01/2019 n. 175), venendo
in quel caso in rilievo specifiche esigenze, non adeguatamente valutate
nell’atto in quella sede impugnato (e annullato proprio per il riscontrato
difetto motivazionale) e qui neppure allegate da parte attorea, scaturenti
dall’interesse all’abbattimento delle barriere architettoniche in capo a uno
o più condomini portatori di handicap.
Il ricorso, va pertanto, respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 22.07.2019 n. 4025 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
ben noto che i dati catastali non possono ritenersi, neppure dal punto di
vista topografico, fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente
sul piano immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento di
tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, senza assurgere a
strumento idoneo, al di là di un mero valore indiziario, ad evidenziare la
reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla
disciplina urbanistico-edilizia.
---------------
5. Con il quarto motivo si lamenta che tra i documenti mancanti nella
pratica edilizia in questione non sarebbero presenti gli elaborati grafici
da cui il Comune avrebbe potuto evincere le distanze dei manufatti dai
confini. Ciò avrebbe determinato che parte della proprietà di cui i
controinteressati si sono dichiarati titolari, in realtà, apparterrebbe al
demanio dello stesso Comune di Marciana, posto che porzione della p.lla 346
su cui gli stessi controinteressati intenderebbero realizzare un muro
divisorio insiste su un’area a tutt’oggi classificata “strada comunale”.
La tesi è condivisibilmente smentita dalla difesa dell’amministrazione.
L’assunto del ricorrente si fonda sulla rappresentazione ai fini catastali
delle aree interessate nelle quali la strada è tracciata all’interno dei
giardini pertinenziali delle proprietà dello stesso Provenzali e dei Sigg.ri
Le. e Me..
Ora, è ben noto che i dati catastali non possono ritenersi, neppure dal
punto di vista topografico, fonte di prova certa sulla situazione di fatto
esistente sul piano immobiliare, rappresentando l'accatastamento un
adempimento di tipo fiscale-tributario che fa stato ad altri fini, senza
assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero valore indiziario, ad
evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa
conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (Cons. Stato, sez. VI,
09/02/2015, n. 631; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20/05/2015, n. 1195).
Nel caso di specie i vigenti strumenti urbanistici comunali riportano il
tracciato della strada in un punto diverso non involgente le proprietà
coinvolte e ad essi legittimamente si è attenuto il Comune nel rilascio dei
titoli edilizi
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.07.2019 n. 1149 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sul
diritto di accesso alle e-mail intercorse tra membri di commissione di
concorso.
Dalla verbalizzazione emerge che i commissari «rendono
per e-mail apposita dichiarazione di approvazione dei criteri concordati,
mentre nella successiva pag. 27 è specificato che la riunione collegiale è
servita per avere uno scambio sincrono e progressivo di opinioni già
ampiamente discusse mediante messaggi di posta elettronica circolati tra i
membri della commissione nei giorni 24, 27 e 30.07.2018 e di telefonate».
Appare evidente che le e-mail dei commissari di concorso hanno avuto a
oggetto l’esercizio di funzioni pubblicistiche e sono pertinenti al
procedimento concorsuale, sicché non possono essere qualificate come
corrispondenza privata, rilevando che qualora fossero presenti frasi che
esulano le procedure concorsuali, in sede di acquisizione, dovrebbero essere
stralciate od oscurate.
Inoltre, non può dubitarsi che le citate conversazioni presenti nelle e–mail
sono espressamente citate per relationem nel verbale concorsuale, ed entrano
a pieno titolo e legittimamente nel procedimento, sicché l’Amministrazione
non può giustificare la mancata ostensione con la propria inottemperanza
all’obbligo di acquisizione, dovendo affermare che le parti
controinteressate (rectius i commissari) sono obbligate, ai sensi
dell’articolo 60 «Definizione del giudizio in esito all’udienza cautelare»
c.p.a., a collaborare con l’Amministrazione al deposito in giudizio delle
succitate e - mail, omettendo eventuali parti non pertinenti al processo
valutativo e alle operazioni concorsuali.
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Considerato che:
- la ricorrente, con istanza di accesso del 22.10.2018, ha
chiesto, tra l’altro, alla Università resistente l’accesso ai “2) messaggi
di posta elettronica circolati tra i membri della Commissione nei giorni 24,
27 e 30.07.2018” e alla “7) e-mail menzionata a pagina 26, terz’ultimo
capoverso, del Verbale n. 1”;
- con nota del 15.11.2018 l’Università le ha messo a
disposizione l’altra documentazione richiesta ma ha precisato che “per
quanto concerne il punto 2 e il punto 7 della domanda, il settore detentore
dei documenti (Settore Personale Docente e Rapporti con la Asl) si è
riservato di chiedere parere sulla ostensibilità degli stessi all’Area
Affari Legali di questo Ateneo ed è in attesa di risposta”;
- perdurando l’inerzia, la ricorrente ha quindi presentato il
ricorso in epigrafe chiedendo l’ostensione delle e-mail succitate;
- con la propria relazione depositata in giudizio, l’Università
resistente ha rappresentato che “questa amministrazione, pur consapevole
degli obblighi imposti ex lege 241/1990, non ha potuto soddisfare la
richiesta della ricorrente non essendo in possesso del materiale in
questione. Difatti, le e-mail reclamate sono intercorse esclusivamente tra i
membri della Commissione i quali hanno fatto uso di computer privati né le
mail in parola sono pervenute o acquisite dall'Ateneo agli atti della
procedura. L'accesso può concretamente aver luogo solo se esista un atto
adottato o un documento acquisito agli atti del procedimento; ciò posto, il
rimedio dell'accesso non può essere utilizzato per indurre o costringere
l'Amministrazione a formare atti nuovi rispetto a documenti amministrativi
già esistenti, potendo, invece, essere invocato esclusivamente al fine di
ottenere il rilascio di copie di documenti già formati e materialmente
esistenti presso gli archivi dell'Amministrazione … Solo per spirito di
precisione si evidenzia che il contenuto delle mail, scambiate tra terminali
privati, potrebbe essere di natura anche strettamente confidenziale o con
riferimenti alla vita privata. Per la detta ragione, in alcun modo, la
resistente può pretendere, anche in via coattiva, l'ostensione dello scambio
epistolare intercorso tra i membri della Commissione”;
- ciò posto, questo Tribunale ha disposto l’integrazione del
contraddittorio nei confronti dei membri della commissione autori delle mail
in questione (prof.ri Pa.Cu., Eu.Ba., Gi.Pe.),
affinché potessero rappresentare anche eventuali particolari esigenze di
riservatezza in ordine al contenuto di alcuna di esse; la parte ricorrente
ha adempiuto all’ordine di integrazione depositando l’08.05.2019 le
cartoline di ricevimento, nessuno tuttavia si è costituito in giudizio;
...
- il ricorso è fondato;
- ai sensi dell’articolo 25, comma 4, della legge 241 del 1990
“decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende
respinta”; e nel caso di specie si è pertanto formato un provvedimento
tacito di rigetto, attraverso la cui impugnazione il Collegio è chiamato in
realtà a decidere sulla fondatezza della pretesa (cfr. Consiglio di Stato
sentenza 906 del 2019);
- nel caso in esame, come evidenziato dalla ricorrente, nel verbale
n. 1 della commissione giudicatrice (di predeterminazione dei criteri di
valutazione), a pag. 26, è scritto che “Il Segretario invia il verbale sin
qui redatto a mezzo di posta elettronica agli altri commissari. Dopo ampia
discussione collegiale, i Commissari predeterminano i criteri della
valutazione come contenuti nel presente verbale. I commissari rendono per
e-mail apposita dichiarazione di approvazione dei criteri concordati”,
mentre nella successiva pag. 27 è specificato che “… la riunione collegiale
è servita per avere uno scambio sincrono e progressivo di opinioni già
ampiamente discusse mediante messaggi di posta elettronica circolati tra i
membri della commissione nei giorni 24, 27 e 30.07.2018 e di
telefonate”;
- ciò premesso, se ne desume che le e-mail in questione hanno avuto
a oggetto l’esercizio di funzioni pubblicistiche e sono pertinenti al
procedimento in questione, sicché non possono essere qualificate come
corrispondenza privata, salva la possibilità, in sede di acquisizione, di
stralciare frasi che esulano del tutto dalla questione in esame (cfr. Tar
Firenze sentenza 1375 del 2016; Consiglio di Stato 1113 del 2015);
- le medesime, inoltre, proprio perché citate per relationem nel
verbale succitato devono essere acquisite al procedimento, sicché
l’Amministrazione non può giustificare la mancata ostensione con la propria
inottemperanza all’obbligo di acquisizione;
- peraltro, le parti controninteressate, citate nel presente
giudizio, sono obbligate, ai sensi dell’articolo 60 cpa, a collaborare con
l’Amministrazione al deposito in giudizio delle succitate e-mail, nei limiti
sopra chiariti
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 22.07.2019 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Al riguarda si legga anche:
● M. Lucca,
Diritto di accesso alle conversazioni e-mail tra commissari d’esame
(31.07.2019 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
concetto di "sagoma a terra" e "sagoma".
Vi
è una definizione espressa, sia perché consolidata in giurisprudenza sia
perché ora trasfusa in un testo normativo, del concetto di “sagoma”, che
corrisponde alla "conformazione planivolumetrica
della costruzione, ossia il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio nella sua
struttura fuori terra (esclusa, quindi, la parte interrata), ivi comprese le
strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”, che è stata
sostanzialmente recepita nel “Quadro delle definizioni uniformi” di
cui all’allegato A alla Intesa 20.10.2016, “ai sensi dell'articolo 8, comma
6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni
concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4,
comma 1-sexies del decreto del d.P.R. 06.06.2001, n. 380”, dove è definita “Conformazione
planivolumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato
in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere
l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali, nonché gli aggetti e gli
sporti superiori a 1,50 m''.
Pertanto, la nozione di "sagoma" è di carattere più comprensivo, rendendo
evidente il quadro dimensionale totale del manufatto in quanto, includendovi
aggetti e sporti, ne considera l’ingombro in senso lato.
In questo senso, non si può non concordare con il primo giudice sulla necessità
di dare un significato al puntuale riferimento alla “sagoma a terra”
come un concetto diverso da quello della semplice “sagoma”, che
altrimenti non avrebbe alcuna utilità autonoma.
La conseguenza è che quindi,
correttamente, il primo giudice ha ritenuto che nella nozione di "sagoma a
terra" non rientrasse la proiezione ideale degli elementi aggettanti della
copertura che debordano rispetto ai muri perimetrali e che possono essere
rilevanti ai fini delle distanze rispetto ai confini ed alle costruzioni
finitime.
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2. - Con il primo motivo di diritto, recante violazione di legge con
riferimento all’art. 6, comma 1, lett. d), della l.r. Piemonte 08.07.1999,
n. 19 e all’art. 34 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; eccesso di potere per
travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti; carenza e/o
insufficienza di istruttoria e di motivazione; contraddittorietà;
illogicità; sviamento, viene lamentata l’erroneità della sentenza per aver
ritenuto che l’edificio sarebbe stato realizzato in totale difformità dalla
concessione edilizia, essendo state introdotte delle variazioni essenziali
al progetto approvato, sia in merito alla supposta “diversa
localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza” sia in relazione
alle altre difformità essenziali che il ricorrente non avrebbe adeguatamente
contestato.
2.1. - La doglianza non può essere condivisa.
In relazione al primo punto, la variazione contestata riguarda il tema della
diversa localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza, che diventa
variazione essenziale, a norma della l.r. Piemonte, 08.07.1999, n. 19 che,
all’art. 6 “Determinazione delle variazioni essenziali al progetto
approvato”, comma 1, lett. d), considera tale la “modifica della
localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza, quando la
sovrapposizione della sagoma a terra dell'edificio in progetto e di quello
realizzato, per effetto di rotazione o traslazione di questo, sia inferiore
al 50 per cento”.
Il tema in esame, visto che non vi è contestazione sulle dimensioni
dell’immobile e sulla sua reale collocazione, riguarda le modalità di
computo della “sagoma a terra”, atteso che, in ragione delle due
diverse interpretazioni proposte, viene rispettato o meno il limite della
sovrapposizione inferiore al 50 per cento.
In dettaglio, se la nozione di “sagoma a terra” corrisponde alla
nozione di sagoma in generale, ossia quella per cui è “la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso
orizzontale e verticale, ovvero il contorno che viene ad assumere
l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli
sporti” (Cons. Stato, Sez. VI, 15.03.2013 n. 1564) oppure se debba avere
una nozione diversa, per cui “la sagoma a terra è rappresentata dalla
linea di contorno dell’edificio nel punto di intersezione tra le strutture
verticali di esso (muri) e la linea di spiccato (intersezione della
superficie naturale o sistemata del terreno con la superficie della
facciata). Nella sagoma a terra non rientra viceversa la proiezione ideale
degli elementi aggettanti della copertura che debordano rispetto ai muri
perimetrali e che possono essere rilevanti ai fini delle distanze rispetto
ai confini ed alle costruzioni finitime”.
Va evidenziato come la nozione di “sagoma a terra” appare presente in
diverse disposizioni regionali, proprio in tema di individuazione delle
variazioni essenziali (si tratta delle leggi regionali Sardegna, 03.07.2017,
n. 11; Lazio, 11.08.2008, n. 15; Liguria, 06.06.2008, n. 16; Piemonte,
08.07.1999, n. 19; Lazio, 02.07.1987 n. 36; Sardegna, 11.10.1985 n. 23),
senza che però vi sia una definizione del concetto stesso.
Al contrario, come ha evidenziato anche il primo giudice, vi è una
definizione espressa, sia perché consolidata in giurisprudenza sia perché
ora trasfusa in un testo normativo, del concetto di “sagoma”, che
corrisponde a quella precedente evocata (come ripresa da ultimo da Cons.
Stato, VI, 20.11.2017 n. 5319) ossia “la conformazione planivolumetrica
della costruzione, ossia il suo perimetro considerato in senso verticale e
orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio nella sua
struttura fuori terra (esclusa, quindi, la parte interrata), ivi comprese le
strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti”, che è stata
sostanzialmente recepita nel “Quadro delle definizioni uniformi” di
cui all’allegato A alla Intesa 20.10.2016, “ai sensi dell'articolo 8, comma
6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni
concernente l'adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all'articolo 4,
comma 1-sexies del decreto del d.P.R. 06.06.2001, n. 380”, dove è definita “Conformazione
planivolumetrica della costruzione fuori terra nel suo perimetro considerato
in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere
l'edificio, ivi comprese le strutture perimetrali, nonché gli aggetti e gli
sporti superiori a 1,50 m''.
Pertanto, la nozione di sagoma è di carattere più comprensivo, rendendo
evidente il quadro dimensionale totale del manufatto in quanto, includendovi
aggetti e sporti, ne considera l’ingombro in senso lato.
In questo senso, non si può non concordare con il primo giudice sulla necessità
di dare un significato al puntuale riferimento alla “sagoma a terra”
come un concetto diverso da quello della semplice “sagoma”, che
altrimenti non avrebbe alcuna utilità autonoma. La conseguenza è che quindi,
correttamente, il primo giudice ha ritenuto che nella nozione di "sagoma a
terra" non rientrasse la proiezione ideale degli elementi aggettanti della
copertura che debordano rispetto ai muri perimetrali e che possono essere
rilevanti ai fini delle distanze rispetto ai confini ed alle costruzioni
finitime.
Pertanto, la doglianza va respinta
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.07.2019 n. 5087 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
pacifica la giurisprudenza sulla inesauribilità del potere di ripristino
dell’ordine edilizio violato.
Invero, “il provvedimento con cui viene
ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non
richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse
da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”.
---------------
3. - Con il secondo motivo di diritto, intitolato “violazione di
legge in relazione all’art. 3 della legge 07.08.1990, n. 241, eccesso di
potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti;
carenza e/o insufficienza di istruttoria e di motivazione”, viene
lamentata la mancata considerazione di due diversi profili illustrati nel
ricorso in prime cure: la mancanza di una motivazione rafforzata in
considerazione del fatto che l’intervento abusivo è stato realizzato trent’anni
addietro e la mancata valutazione delle osservazioni presentate dal
ricorrente nel procedimento.
3.1. - La censura è infondata.
Al riguardo, va osservato come il primo giudice abbia correttamente
richiamato in materia la pacifica giurisprudenza sulla inesauribilità del
potere di ripristino dell’ordine edilizio violato, facendo perno sulle
affermazione contenute nella recente sentenza di questo Consiglio (Cons.
Stato, ad.plen., 17.10.2017 n. 9): “il provvedimento con cui viene
ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non
richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse
da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”.
Evidenziando come il detto principio, riferito a “un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo”, si attagliasse perfettamente al caso
in specie, il TAR ha integralmente e condivisibilmente risposto alle censure
proposte.
4. - L’appello va quindi respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.07.2019 n. 5087 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Più
volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che i limiti di
edificabilità riconducibili alle “zone bianche” hanno per loro natura
carattere provvisorio e che è preciso obbligo dell’amministrazione di
colmare prontamente ogni lacuna verificatasi nell’ambito della
pianificazione urbanistica, dettando per tali zone una nuova disciplina
urbanistica.
Peraltro, a ratione un siffatto obbligo non richiede l’indefettibile
iniziativa di parte, ma va ricondotto al novero degli adempimenti attivabili
d’ufficio, in quanto risponde al pubblico e generale interesse la
definizione di un razionale e ordinato assetto del territorio.
---------------
Va precisato che vi sono due tipologie di “zone bianche”: quelle ab
origine e quelle successive.
Le zone bianche ab origine sono quelle non considerate
dal P.R.G. (o P.U.G.), per scelta pianificatoria iniziale, diretta ed
espressa, che rimanda al futuro ogni più precisa determinazione, benché
l’art. 7, comma 1, legge 17.08.1942 n. 1150 preveda che il piano regolatore
generale debba considerare la totalità del territorio comunale. Sono invero
note nella prassi, soprattutto ma non solo con riferimento alle
pianificazioni degli anni Sessanta e Settanta, e possono riguardare
territori molto vasti, o a particolare conformazione orografica, o altre
situazioni motivatamente considerate.
In tal caso non v’è un dovere da parte del Comune di procedere alla
tipizzazione edilizia in tempi predefiniti, applicandosi la regola prevista,
di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il “Testo unico in
materia edilizia” (già art. 4, ultimo comma, legge 28.01.1977 n. 10), che
prevede una limitata utilizzabilità a fini edificatori.
Le zone bianche successive, invece, sono quelle che, già considerate
dal P.R.G. (o P.U.G.) nella scelta pianificatoria come zone sulle quali
gravi l’imposizione del vincolo espropriativo, a seguito della parziale
attuazione o della scadenza del periodo temporale di validità del vincolo,
hanno perso una siffatta connotazione.
La giurisprudenza ha chiarito che la cessazione di efficacia di un piano
attuativo, in tutto o in parte non eseguito, non rende l’area interessata
priva di alcuna disciplina urbanistica, bensì detta area diviene soggetta ex
nunc alle prescrizioni provvisorie (e restrittive per il privato), di cui
all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In sostanza, l’area soggetta a un vincolo espropriativo oramai decaduto
(zona bianca successiva) va interinalmente, fino alla nuova c.d.
ritipizzazione, ad opera di variante urbanistica, considerata come un’area
non pianificata (zona bianca ab origine).
Difatti, la decadenza del vincolo imposto sull’area del privato ha carattere
espropriativo e comporta il venir meno della disciplina urbanistica
concernente le aree interessate e l’applicazione temporanea della disciplina
delle c.d. zone bianche.
Per cui, medio tempore, il Comune non è esentato dall’obbligo di provvedere
a dettare una nuova disciplina urbanistica, mediante spesso una variante
specifica, oppure anche una variante generale.
Poiché i limiti di edificabilità riconducibili alle “zone bianche” c.d.
successive hanno, per quanto fin qui apprezzato, un carattere provvisorio o,
rectius, interinale, ossia temporaneamente vigente tra il regime edilizio
cessato e il regime edilizio da individuarsi ex novo, l’Amministrazione
comunale ha l’obbligo di provvedervi con sollecitudine, seppure previa
adeguata istruttoria, colmandosi in tal modo la lacuna verificatasi
nell’ambito della pianificazione urbanistica.
---------------
1.- Con ricorso depositato in data 13.05.2019, gli istanti proprietari di un
suolo nell’abitato di Andria (in catasto al foglio n. 31, particella 3550,
già parte della particella 1840), in un contesto cittadino urbanizzato,
ricadente in parte in zona B3.4 di completamento e in parte in zona per la
viabilità, impugnavano il provvedimento soprassessorio del Comune di Andria
come in epigrafe descritto, con il quale gli Uffici comunali comunicavano di
non poter concludere il procedimento di c.d. richiesta di ritipizzazione,
rimandando a data futura e incerta ogni ulteriore determinazione in merito.
...
4.2.- In secundis, va detto che più volte la giurisprudenza
amministrativa ha affermato che i limiti di edificabilità riconducibili alle
“zone bianche” hanno per loro natura carattere provvisorio e che è
preciso obbligo dell’amministrazione di colmare prontamente ogni lacuna
verificatasi nell’ambito della pianificazione urbanistica, dettando per tali
zone una nuova disciplina urbanistica (TAR Puglia, sez. I, 06.05.2008 n.
1079; TAR Puglia, sez. Lecce, sez. I, 10.06.2011 n. 1040).
Peraltro, a ratione un siffatto obbligo non richiede l’indefettibile
iniziativa di parte, ma va ricondotto al novero degli adempimenti attivabili
d’ufficio (Cons. St., sez. V, 28.12.2007 n. 6741), in quanto risponde al
pubblico e generale interesse la definizione di un razionale e ordinato
assetto del territorio.
Va però precisato che vi sono due tipologie di “zone bianche”:
quelle ab origine e quelle successive.
4.2.1.- Le zone bianche ab origine sono quelle non considerate
dal P.R.G. (o P.U.G.), per scelta pianificatoria iniziale, diretta ed
espressa, che rimanda al futuro ogni più precisa determinazione, benché
l’art. 7, comma 1, legge 17.08.1942 n. 1150 preveda che il piano regolatore
generale debba considerare la totalità del territorio comunale. Sono invero
note nella prassi, soprattutto ma non solo con riferimento alle
pianificazioni degli anni Sessanta e Settanta, e possono riguardare
territori molto vasti, o a particolare conformazione orografica, o altre
situazioni motivatamente considerate.
In tal caso non v’è un dovere da parte del Comune di procedere alla
tipizzazione edilizia in tempi predefiniti, applicandosi la regola prevista,
di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, recante il “Testo unico
in materia edilizia” (già art. 4, ultimo comma, legge 28.01.1977 n. 10),
che prevede una limitata utilizzabilità a fini edificatori (TAR Abruzzo,
sez. Pescara, sez. I, 06.10.2009 n. 580; Cons. St., sez. IV, 28.06.2005 n.
3437).
4.2.2.- Le zone bianche successive, invece, sono quelle che, già
considerate dal P.R.G. (o P.U.G.) nella scelta pianificatoria come zone
sulle quali gravi l’imposizione del vincolo espropriativo, a seguito della
parziale attuazione o della scadenza del periodo temporale di validità del
vincolo, hanno perso una siffatta connotazione (TAR Puglia, sez. III,
07.12.2011 n. 1861).
La giurisprudenza (TAR Puglia, sez. III, 07.03.2013 n. 346; Cons. St., sez.
V, 28.12.2007 n. 6741) ha chiarito che la cessazione di efficacia di un
piano attuativo, in tutto o in parte non eseguito, non rende l’area
interessata priva di alcuna disciplina urbanistica, bensì detta area diviene
soggetta ex nunc alle prescrizioni provvisorie (e restrittive per il
privato), di cui all’art. 9 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In sostanza, l’area soggetta a un vincolo espropriativo oramai decaduto
(zona bianca successiva) va interinalmente, fino alla nuova c.d.
ritipizzazione, ad opera di variante urbanistica, considerata come un’area
non pianificata (zona bianca ab origine).
Difatti, la decadenza del vincolo imposto sull’area del privato ha carattere
espropriativo e comporta il venir meno della disciplina urbanistica
concernente le aree interessate e l’applicazione temporanea della disciplina
delle c.d. zone bianche (TAR Puglia, sez. III, 07.12.2011 n. 1861).
Per cui, medio tempore, il Comune non è esentato dall’obbligo di
provvedere a dettare una nuova disciplina urbanistica, mediante spesso una
variante specifica, oppure anche una variante generale (TAR Puglia, sez. III,
10.12.2014 n. 1514; TAR Puglia, sez. III, 07.03.2013 n. 346).
4.3.- Nel caso di specie, in verità –come sopra anticipato– sono proprio gli
atti del Comune di Andria, precedenti al provvedimento soprassessorio
impugnato, che hanno dato espressamente atto dell’esistenza di un vincolo
espropriativo imposto sulla proprietà dei ricorrenti, che è risultato a
posteriori non più utile, né utilizzabile ai fini di pubblica utilità, per
come inizialmente pianificato.
Né vale la considerazione che, nel caso di specie, trattasi di zona
destinata alla viabilità, perché non solo riguarda parte e non tutta la
particella in proprietà dei ricorrenti, parte della quale infatti ricade in
zona di completamento, ma anche perché la giurisprudenza (Cons. St., sez. IV,
19.02.2013 n. 1021) ha ascritto i vincoli urbanistici di destinazione a
strada pubblica nel novero dei vincoli espropriativi, nella misura in cui
riguardino determinati terreni e non già intere zone del territorio
comunale.
5.- Pertanto, nella fattispecie concreta, sussiste un classico caso nel
quale è necessario provvedere ad una nuova tipizzazione, in modo tale che
venga chiarito il regime proprietario edilizio, non potendo imporsi sine
die ai titolari di beni immobili, che hanno il diritto di godere e di
disporre della proprietà (art. 832 codice civile), seppure nei limiti
(negativi) e con l’osservanza degli obblighi (positivi) stabiliti
dall’ordinamento giuridico, una situazione d’incertezza protratta nel tempo.
Per meglio dire, a fronte di una precisa istanza del privato, il
procedimento –anche quello riguardante gli atti amministrativi generali di
pianificazione e di programmazione (TAR Puglia, sez. I, sentenza 06.05.2008
n. 1079)– è, ai sensi dell’art. 2, della legge 07.08.1990 n. 241, soggetto
al dovere di conclusione in forma espressa.
Poiché i limiti di edificabilità riconducibili alle “zone bianche”
c.d. successive hanno, per quanto fin qui apprezzato, un carattere
provvisorio o, rectius, interinale, ossia temporaneamente vigente tra
il regime edilizio cessato e il regime edilizio da individuarsi ex novo,
l’Amministrazione comunale ha l’obbligo di provvedervi con sollecitudine,
seppure previa adeguata istruttoria, colmandosi in tal modo la lacuna
verificatasi nell’ambito della pianificazione urbanistica.
6.- In conclusione, il Comune di Andria non può adottare un mero atto
soprassessorio, nelle fattispecie nelle quali è doveroso procedere alla
ripitizzazione della particella, come nel caso di specie.
Ergo, il ricorso va accolto nei termini sopra esposti e, quindi, va
annullato il provvedimento gravato e dichiarato l’obbligo
dell’Amministrazione comunale di adottare il provvedimento richiesto in
forma espressa. Una volta chiarito l’obbligo di provvedere del Comune e
annullato l’atto di diniego (sia pure a carattere soprassessorio), sarà
onere dell’Amministrazione locale procedere alle successive incombenze alla
stessa precipuamente riservate.
Resta tuttavia salvo il giudizio di ottemperanza alla presente sentenza, da
attivarsi appositamente, nel caso di persistente inerzia o elusione
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 19.07.2019 n. 1053 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Calcolo
delle altezze e piano di posa del
fabbricato.
La giurisprudenza civile
è concorde nell’affermazione del principio
secondo cui quando, al fine di stabilire le
distanze legali tra costruzioni sporgenti
dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i
criteri per la misurazione delle altezze dei
fabbricati frontistanti, queste devono
essere determinate con riferimento al piano
di posa, che è quello dell'originario piano
di campagna e non la quota di terreno
sistemato.
Lo stesso Consiglio di Stato ha avuto modo
di precisare che la tesi di far derivare la
quota del piano di campagna dalle scelte
progettuali e non –come invece logico e
naturale– dallo stato di fatto del terreno,
tende a dare un’interpretazione capziosa
della nozione di “opere di sistemazione” del
terreno che sono non tutte quelle scelte dal
progettista, ma quegli interventi di minima
entità necessari a conformare il terreno
alla futura attività edilizia (dissodamento,
livellamento e interventi analoghi), ma non
certo ad alterarne la caratteristiche
naturali; altrimenti, si perverrebbe alla
conclusione assurda che lo stacco
dell’edificio dal terreno non sia ancorato a
dati certi ed obiettivi, ma a scelte
arbitrarie ed insindacabili del proprietario
dell’immobile
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.07.2019 n. 5034 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
9.1. Il Comune, con il terzo motivo e
i controinteressati, con il terzo motivo,
lett. b), censurano l’argomentazione
sostenendo che:
a) il giudice, pur condividendo l’applicabilità del testo
previgente dell’art. 22 cit. ne ha dato una
interpretazione che ne svuota il
significato, posto che, poiché in entrambe
le previsione c’è l’espressione “piano
naturale”, finisce con il ritenere che
piano naturale sia sempre quello di fatto e
toglie ogni rilievo all’innovazione
consistente nell’eliminazione del
riferimento allo stato di progetto;
b) che, invece, per la normativa preesistente si dovesse fare
riferimento allo stato di progetto, trova
conferma nella relazione alla modifica, dove
l’innovazione è ricondotta alla situazione
attuale laddove prima rilevava lo stato di
progetto; e, calcolando la distanza sulla
base dell’altezza dallo stato di progetto
risulterebbe superiore alla distanza minima
da rispettare.
9.2. La censura va rigettata.
Il primo giudice, pur considerando
applicabile l’art. 22 preesistente, ha dato
correttamente rilievo al piano naturale del
terreno rilevante ai fini del calcolo delle
distanze in entrambe le disposizioni.
Invero, la modifica apportata si spiega
proprio con l’esigenza –che traspare dalla
relazione illustrativa- di espungere il
riferimento al “piano di progetto”,
che aveva ingenerato abusi facendo dipendere
la quota del piano di campagna dalle scelte
progettuali.
Testualmente, la relazione alla modifica
dell’art. 22 recita: <<Questa norma…deve
essere nuovamente modificata, nel senso che
l’altezza di ciascun fronte sia riferita
alla quota del terreno nella sua situazione
attuale e non di progetto, al contrario
della norma vigente. E’ in atto infatti
un’applicazione distorta –innalzamenti
anomali delle quote di progetto dei terreni
rispetto alle situazioni attuali– che
produce anch’essa peggioramenti evidenti
della qualità del tessuto urbano>>. La
norma sopravvenuta, più che innovare,
quindi, si pone come conferma della corretta
interpretazione della disposizione
precedente che, per la sua formulazione,
aveva dato luogo ad abusi.
9.2.1. Si deve aggiungere che una diversa
interpretazione, quale quella sostenuta
dagli appellanti, contrasterebbe con una
giurisprudenza consolidata di questo
Consiglio e della Corte di Cassazione.
La giurisprudenza civile, infatti, è
concorde nell’affermazione del principio,
secondo cui, quando, al fine di stabilire le
distanze legali tra costruzioni sporgenti
dal suolo, i regolamenti edilizi dettano i
criteri per la misurazione delle altezze dei
fabbricati frontistanti, queste devono
essere determinate con riferimento al piano
di posa, che è quello dell'originario piano
di campagna e non la quota di terreno
sistemato (ex multis, Cass. civ. Sez.
II, n. 4497 del 2014, n. 6058 del 2006).
Questo Consiglio (sez. IV, n. 2579 del
2009), ha avuto modo di precisare che la
tesi di far derivare la quota del piano di
campagna dalle scelte progettuali e non
–come invece logico e naturale– dallo stato
di fatto del terreno, tende a dare
un’interpretazione capziosa della nozione di
“opere di sistemazione” del terreno,
che sono non tutte quelle scelte dal
progettista, ma quegli interventi di minima
entità necessari a conformare il terreno
alla futura attività edilizia (dissodamento,
livellamento e interventi analoghi) ma non
certo ad alterarne la caratteristiche
naturali. Altrimenti, si perverrebbe alla
conclusione assurda che lo stacco
dell’edificio dal terreno non sia ancorato a
dati certi ed obiettivi, ma a scelte
arbitrarie ed insindacabili del proprietario
dell’immobile. |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza della Corte di cassazione e
di questo Consiglio è univoca
nell’affermazione dei principi, secondo cui:
a) i balconi vanno considerati ai fini della determinazione del
calcolo delle distanze, essendo unica la
nozione di costruzione agli effetti
dell'art. 873 cod. civ., che non può subire
deroghe da parte delle norme secondarie,
neanche al limitato fine del computo delle
distanze legali;
b) un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che
non tenga conto dell'estensione del balcone,
è contra legem.
---------------
10. Il Tar ha accolto il ricorso anche in
riferimento alla mancata considerazione dei
balconi nella sagoma al fine del calcolo
delle distanze tra gli edifici.
Ha così essenzialmente argomentato:
a) ai fini del calcolo delle distanze tra edifici, vanno
considerati i balconi ed in particolare
quelli dell’edificio del ricorrente in
applicazione dei principi civilistici, non
derogati dal Regolamento comunale per detto
profilo;
b) secondo la nozione civilistica di costruzione è pacifico che i
balconi, costituiti da solette aggettanti
anche se scoperti ed anche se non
corrispondono a volumi abitativi, rientrano
nel concetto di costruzione per il quale
occorre il rispetto delle distanze tra
edifici;
c) la circostanza che l’articolo 21 del regolamento comunale
esclude i balconi dalla definizione di
sagoma planovolumetrica non implica che gli
stessi non debbano essere presi in
considerazione ai fini della distanza tra
edifici;
d) la definizione civilistica di costruzione non risulta derogata
espressamente dall’articolo 21, che esclude
i balconi soltanto dalla nozione di sagoma
planovolumetrica, senza a dire nulla per
quanto concerne le distanze;
e) né sussistono altre indicazioni esplicite in senso contrario
nell’articolo 29 dello stesso regolamento
edilizio, che disciplina specificamente le
distanze con riferimento al concetto di
sagoma planovolumetrica solo in materia di
distanze dal confine, ma non richiama detto
concetto nella disciplina delle distanze tra
edifici.
10.1. Gli appellanti (il Comune con il
quarto motivo e i controinteressati con
il terzo) censurano la sentenza: - da
un lato perché l’art. 34 del regolamento,
che disciplina la distanza minima tra
edifici, richiama espressamente l’art. 21,
che esclude dalla sagoma i balconi; -
dall’altro rilevano che l’art. 34, non
considerato dal giudice, non è stato oggetto
di impugnazione.
10.2. Le censure sono infondate e vanno
rigettate.
10.2.1. La giurisprudenza della Corte di
cassazione e di questo Consiglio è univoca
nell’affermazione dei principi, secondo cui:
a) i balconi vanno considerati ai fini della determinazione del
calcolo delle distanze, essendo unica la
nozione di costruzione agli effetti
dell'art. 873 cod. civ., che non può subire
deroghe da parte delle norme secondarie,
neanche al limitato fine del computo delle
distanze legali (ex plurimis, Cass.
civ., Sez. 2 , Ord. n. 23843 del 2018; Sent.
n. 19530 del 2005; n. 17089 del 2006; da
ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 5307 del
2018);
b) un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di
misurazione della distanza tra edifici che
non tenga conto dell'estensione del balcone,
è contra legem (Cass. civ., Sez. 2,
sent. n. 5594 del 2016; n. 5741 del 2008) e
va disapplicato, se non impugnato (Cons.
Stato, sez. IV, n. 5759 del 2011; n. 354 del
2013).
10.2.2. Nella fattispecie, l’esclusione dei
balconi dalla definizione di sagoma
nell’art. 21 del regolamento e il richiamo
dello stesso articolo nell’art. 34, che
disciplina le distanze tra gli edifici,
costituiscono una illegittima deroga posta
dal regolamento comunale alla disciplina
legale non derogabile. Mentre, la mancata
diretta impugnazione dell’art. 34, da parte
dell’originario ricorrente, non può giovare
agli odierni appellanti, stante la pacifica
possibilità di disapplicazione.
Né può avere alcun rilievo la circostanza,
dedotta dagli appellanti, che dal lato del
confine sud/ovest l’edificio progettato non
ha balconi, ma logge, posto che non è messo
in discussione che, come rilevato dal primo
giudice, i balconi sono presenti
nell’edificio del signor Ma. (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 18.07.2019 n. 5034 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo principi consolidati, “le risultanze catastali non
fanno piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti
reali, … in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento
depositati”.
Invero, fin
dalla legge istitutiva del catasto del 01.03.1886 n. 3682, le iscrizioni
catastali non hanno valore di piena prova ai fini del riconoscimento della
proprietà dei beni immobili, tanto che “nel contrasto tra intestazione
catastale e prova giuridica dell'acquisto del diritto di proprietà, quest'ultima
deve prevalere”.
---------------
Secondo principi consolidati, infatti, “le risultanze catastali non
fanno piena prova circa la titolarità della proprietà e degli altri diritti
reali, … in assenza di titoli di proprietà o atti di trasferimento
depositati” (TAR Marche, Ancona, sez. I, 06.11.2017, n. 840).
Invero, fin
dalla legge istitutiva del catasto del 01.03.1886 n. 3682, le iscrizioni
catastali non hanno valore di piena prova ai fini del riconoscimento della
proprietà dei beni immobili, tanto che “nel contrasto tra intestazione
catastale e prova giuridica dell'acquisto del diritto di proprietà, quest'ultima
deve prevalere” (Corte Cost., 21.03.2012 n. 61; in tale senso anche Cass.
n. 27296 del 05.12.2013 n. 27296, ai sensi della quale la mera intestazione
catastale di un bene non costituisce un titolo di proprietà sul quale
fondare l’azione di rivendica).
Ne consegue che a fondamento della pretesa del ricorrente non risulta
addotto alcun principio di prova giuridicamente rilevante.
Giova in proposito osservare che nel processo amministrativo vale il
principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., secondo il quale
spetta al deducente fornire la dimostrazione dei fatti posti a fondamento
della propria domanda
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 18.07.2019 n. 3965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza consolidata i gazebo vanno considerati come
manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico
urbanistico.
Ne consegue per l’area in questione
(in contiguità con la
Reggia di Caserta) il necessario rispetto della
disciplina a cui la medesima risulta assoggettata. Più specificamente, la
presenza di vincoli impone il rilascio del preventivo parere della
Soprintendenza.
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6.2. – Quanto alla necessità di preventiva acquisizione del parere della
Soprintendenza, come rilevato nella relazione dell’amministrazione
depositata in atti a seguito del disposto riesame, la via oggetto di
controversia è compresa nella perimetrazione del centro di interesse
storico, attesa la sua contiguità con la Reggia di Caserta e, su tale area,
il sig. Fa. ha apposto un gazebo senza ottenere la preventiva
autorizzazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Per giurisprudenza consolidata i gazebo vanno considerati come manufatti
alteranti lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico
urbanistico (cfr. Cons. Stato, V, 01.12.2003, n. 7822; sez. VI, sent.
6382 del 12.12.2012).
Ne consegue per l’area in questione il necessario rispetto della disciplina
a cui la medesima risulta assoggettata. Più specificamente, la presenza di
vincoli impone il rilascio del preventivo parere della Soprintendenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 18.07.2019 n. 3965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abbattimento delle barriere architettoniche
e distanze.
Ai sensi del combinato
disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R.
n. 380/2001, le opere dirette
all’abbattimento delle barriere
architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste
dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali
casi la previsione di cui all’articolo 9 del
D.M. 1444/1968, atteso che l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’articolo
79 del D.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere
la deroga delle norme sulle distanze
previste dai regolamenti edilizi (dettate
nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli
atti di normazione primaria, con il
corollario di dover limitare al dato
testuale il richiamo all’articolo 873 c.c.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.07.2019 n. 1659 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Con il ricorso introduttivo del presente giudizio il signor Fr.Ru.
impugna:
a) il provvedimento a firma del Dirigente S.U.E. del comune di
Milano in data 15.12.2017 PG n. 578406/2017, con il quale si sospendono le
opere in corso presso la proprietà dello stesso, ubicata in Milano, via ...
n. 3;
b) l’articolo 86, comma 4, del Regolamento Edilizio del comune di
Milano;
c) la determina dirigenziale 13.12.2017 citata nel provvedimento
impugnato.
2. In punto di fatto, il ricorrente deduce:
a) di essere invalido del lavoro
con percentuale del 35%, di avere 73 anni e di risiedere con la moglie
settantenne al quarto piano della palazzina posta in via ...;
b) di
presentare la S.C.I.A. del 16.11.2017 relativa a lavori di
realizzazione di un ascensore esterno che serva l’intero stabile e
garantisca una più agevole accessibilità al proprio appartamento;
c) di
voler realizzare l’impianto di sollevamento nel rispetto delle prescrizioni
tecniche di cui al D.M. 236 del 14.06.1989, garantendo l’eliminazione
delle barriere architettoniche per l’accesso all’abitazione;
d) di intendere
realizzare un servoscala per garantire l’accesso all’abitazione stante
l’impossibilità per ragioni tecniche di far fermare l’ascensore ai piani.
2.1. L’Amministrazione ordina la sospensione dei lavori e preannuncia
l’emanazione della revoca del titolo abilitativo evidenziando il contrasto
della S.C.I.A. con la previsione di cui all’articolo 86.4 del Regolamento
Edilizio e la non accessibilità dell’ascensore ai livelli di piano.
...
13. Passando al ricorso per motivi aggiunti,
il Collegio osserva come lo stesso sia
fondato.
13.1. Il punto di partenza per
un’interpretazione della normativa vigente
che tenga conto dei valori involti è
costituito dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 251 del 04.07.2008, che
chiarisce come: “in relazione al contenuto
dei diritti costituzionalmente riconosciuti
ai disabili, si deve ritenere […] che la
legislazione in loro favore (specie LL. 09.01.1989 n. 13 e
05.02.1992 n.
104), oltre ad innalzare il livello di
tutela personale, ha segnato un radicale
mutamento di prospettiva rispetto al modo
stesso di affrontare i problemi degli
handicappati, assunti come nodi dell'intera
collettività, per esempio a proposito della
costruzione di nuovi edifici e della
ristrutturazione di quelli preesistenti,
intese ad eliminare comunque le barriere
architettoniche, indipendentemente dal più o
meno probabile utilizzo da parte
dell'invalido”.
13.2. Secondo la costante giurisprudenza
“l’installazione di un ascensore rientra fra
le opere dirette ad eliminare le barriere
architettoniche, di cui all’art. 27, comma
1, della legge 03.03.1971, n. 118, e
all’art. 1, comma 1, del d.P.R. 27.04.1978, n. 384 […] (Cass. Sez. 2, Sentenza n.
28920 del 27/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 8286 del 20/04/2005; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 14384 del 29/07/2004)”
(Cassazione civile, sez. VI, 09.03.2017,
n. 6129).
Del resto, secondo la normativa
nazionale, si intendono per barriere
architettoniche (ai sensi dell'articolo 2,
lettera A), punti a) e b), D.M. 14.06.1989 n. 236) “gli ostacoli fisici che sono
fonte di disagio per la mobilità di chiunque
ed in particolare di coloro che, per
qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita, in forma permanente o
temporanea”, ovvero “gli ostacoli che
limitano o impediscono a chiunque la comoda
e sicura utilizzazione di parti,
attrezzature e componenti”.
Tra tali
ostacoli devono, quindi, annoverarsi “le
scale dei palazzi a più piani, non
affrontabili in assoluto da soggetti
deambulanti con sussidi ortopedici, o
comunque fonte di affaticamento -e, dunque,
di "disagio"- per chiunque, a causa
dell'età o di patologie di varia natura,
abbia ridotte capacità di compiere sforzi
fisici. Invero, non può ragionevolmente
negarsi che l'installazione di ascensori
costituisca anche rimozione di barriere
architettoniche” (Consiglio di Stato, sez.
VI, 05.03.2014, n. 102).
13.3. Inoltre, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 78 e 79 del D.P.R.
n. 380/2001, le opere dirette
all’abbattimento delle barriere
architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste
dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di
rispetto delle distanze di cui agli articoli
873 e 907 del codice civile. Non risulta,
dunque, applicabile in tali casi la
previsione di cui all’articolo 9 del D.M.
1444/1968.
Ed è, invero, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente
orientata dell’articolo 79 del D.P.R. n.
380/2001 porta ad estendere la deroga delle
norme sulle distanze previste dai
regolamenti edilizi (dettate nel comma 1
dell’art. 79 cit.) anche agli atti di
normazione primaria, con il corollario di
dover limitare al dato testuale il richiamo
all’articolo 873 c.c. (cfr. TAR per il
Lazio, sede di Latina, 22.09.2014, n.
726).
13.4. Nel caso di specie, la funzione di
abbattimento delle barriere è comunque
assolta dall’ascensore che la parte
ricorrente intende realizzare atteso che lo
stesso preserva lo stesso dal disagio,
connesso all’età e alla pur parziale
invalidità, di dover percorrere quattro
piani di scale.
Come evidente dalle
indicazioni offerte dalla Corte
Costituzionale, la disciplina della l. 13
del 1989 rappresenta un modello di
riferimento per conformare tutti gli spazi
secondo caratteristiche che ne consentano
l’utilizzo anche da parte di soggetti
disabili senza necessità che l’intervento
edilizio de quo sia subordinato
all’effettiva e comprovata fruizione da
parte di un portatore di handicap.
Inoltre,
la circostanza che, allo stato, l’ascensore
realizzi l’accessibilità al solo quarto
piano non pare poter precludere la
realizzazione dell’opera tenuto conto della
funzione comunque assolta dalla stessa e
della possibilità di realizzare in futuro
meccanismi per l’integrale accessibilità a
tutti i piani dell’edificio.
13.5. In definitiva, il ricorso per motivi
aggiunti deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA: Controinteressato
in caso di impugnativa dell’ordine di
demolizione.
Nel caso di impugnativa
dell'ordine di demolizione, va considerato
che, di norma, non sono configurabili
controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un
contraddittorio, anche nel caso in cui sia
palese la posizione di vantaggio che
scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione
della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da
altri commesso.
Tuttavia, l’assolutezza di siffatto
orientamento è temperata e precisata dalla
considerazione che la qualità di
controinteressato, cui il ricorso deve
essere notificato, va riconosciuta non già a
chi abbia un interesse, anche legittimo, a
mantenere in vita il provvedimento impugnato
e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
soltanto indirette o riflesse, ma (solo) a
chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato; per cui in
sede di impugnazione di un’ordinanza di
demolizione di abusi edilizi deve ritenersi
contraddittore necessario il soggetto che
abbia provveduto a segnalare l’abuso e il
cui diritto di proprietà risulti
direttamente leso dall’opera edilizia della
cui demolizione si tratta.
Così qualificata la posizione di vantaggio
che deve caratterizzare il denunziante
affinché costui assurga al rango di
litisconsorte necessario, è palese come essa
non sia surrogabile dal generico interesse
vantato da un qualsiasi vicino di casa,
bensì occorre che l’interesse faccia capo
proprio a quel soggetto, denunciante nel
procedimento amministrativo, il cui diritto
di proprietà (ovvero, come può
estensivamente ritenersi, un altro diritto
reale di godimento) risulti direttamente
leso da un'opera edilizia abusiva (di cui,
in esito a quel procedimento,
l’Amministrazione ordini la demolizione).
In altri termini, è controinteressato in
senso tecnico (soltanto) colui il quale,
oltre ad essere contemplato nel
provvedimento, riceva (rispetto a un proprio
diritto reale) direttamente un vantaggio dal
diniego del titolo abilitativo o
dall'attività repressiva
dell'amministrazione; si tratta, insomma, di
soggetto che sia direttamente danneggiato
dall'esecuzione di opere edilizie abusive,
il quale ha un interesse qualificato a
difendere la propria posizione giuridica di
titolare di un diritto di proprietà (ovvero
reale) leso dalla edificazione sine titulo o
comunque illegittima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.07.2019 n. 1658 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Parte ricorrente impugna il provvedimento
del Responsabile dell’Area Tecnica del
Comune di Monguzzo n. 1 del 30.06.2018
(registro generale n. 10), notificato in
data 02.07.2018, che ingiunge alla stessa
(nella sua qualità di comproprietaria del mappale 1939) di provvedere alla demolizione
e rimozione del manufatto accessorio ivi
insistente, nonché al ripristino dello stato
originale dei luoghi entro il termine
perentorio di giorni 90.
1.1. Il provvedimento impugnato è relativo
ad un manufatto di mq 30 che si sviluppa su
un unico piano fuori terra, le cui
dimensioni sono pari a 5.50 m. x 5.60 mt.,
con un’altezza massima al colmo
dell’intradosso di 2.35 mt., ed un’altezza
dell’imposta dell’intradosso di 1.85 mt.
...
7. Osserva, preliminarmente, il Collegio
come l’eccezione di inammissibilità
formulata dal signor Conti sia fondata pur
con le precisazioni che seguono.
7.1. La signora Ci. non può ritenersi
propriamente un controinteressato. Infatti,
in linea con le più recenti acquisizioni
giurisprudenziali, il riconoscimento della
qualifica di controinteressato in senso
tecnico (ossia di litisconsorte necessario)
è subordinato alla sussistenza di due
elementi: uno di carattere formale ossia, ai
sensi dell’articolo 41 c.p.a., la sua
espressa menzione nel provvedimento
impugnato; ed uno sostanziale, ossia la
titolarità di un interesse qualificato alla
conservazione del provvedimento impugnato (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2017,
n. 2416).
7.2. Nel caso di impugnativa dell'ordine di
demolizione, va considerato che, di norma,
non sono configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario
instaurare un contraddittorio, anche nel
caso in cui sia palese la posizione di
vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a
segnalare all'amministrazione l'illecito
edilizio da altri commesso (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 06.06.2011, n. 3380; Id., sez. V,
03.07.1995, n. 991).
7.3. L’assolutezza di siffatto orientamento
è temperata e precisata dalla considerazione
che la qualità di controinteressato, cui il
ricorso deve essere notificato, va
riconosciuta non già a chi abbia un
interesse, anche legittimo, a mantenere in
vita il provvedimento impugnato e tanto meno
a chi ne subisca conseguenze soltanto
indirette o riflesse, ma (solo) a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio
diretto e immediato (Consiglio di Stato,
04.09.2012, n. 4684).
Con tale sentenza il Consiglio di Stato
afferma, infatti, il principio per cui “in
sede di impugnazione di un’ordinanza di
demolizione di abusi edilizi deve ritenersi
contraddittore necessario il soggetto che
abbia provveduto a segnalare l’abuso e il
cui diritto di proprietà risulti
direttamente leso dall’opera edilizia”
della cui demolizione si tratta.
Così qualificata la
posizione di vantaggio che deve
caratterizzare il denunziante affinché
costui assurga al rango di litisconsorte
necessario, è palese come essa non sia
surrogabile dal generico interesse vantato
da un qualsiasi vicino di casa, bensì
occorre che l’interesse faccia capo proprio
a quel soggetto, denunciante nel
procedimento amministrativo, il cui diritto
di proprietà (ovvero, come può
estensivamente ritenersi, un altro diritto
reale di godimento) risulti direttamente
leso da un'opera edilizia abusiva (di cui,
in esito a quel procedimento,
l’Amministrazione ordini la demolizione).
In
altri termini, è controinteressato in senso
tecnico (soltanto) colui il quale, oltre ad
essere contemplato nel provvedimento, riceva
(rispetto a un proprio diritto reale)
direttamente un vantaggio dal diniego del
titolo abilitativo o dall'attività
repressiva dell'amministrazione. Si tratta,
insomma, di soggetto che sia direttamente
danneggiato dall'esecuzione di opere
edilizie abusive, il quale ha un interesse
qualificato a difendere la propria posizione
giuridica di titolare di un diritto di
proprietà (ovvero reale) leso dalla
edificazione sine titulo o comunque
illegittima (cfr., in termini, Consiglio di
Stato, sez. VI, 29.05.2012, n. 3212; Id.,
sez. VI, 29.05.2007, n. 2742).
7.4. Pertanto, la qualità di controinteressato va riconosciuta non già a
chi abbia un interesse, anche legittimo, a
mantenere in vita il provvedimento impugnato
(e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
solo indirette o riflesse), ma unicamente a
chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un
positivo ampliamento della propria sfera
giuridica.
“Altrimenti detto, a radicare la
condizione di controinteressato in senso
tecnico (ossia di litisconsorte necessario
nell’azione di annullamento), secondo il
richiamato orientamento giurisprudenziale
[…], non può ritenersi sufficiente la c.d. vicinitas –pur potendo essa integrare il
presupposto fattuale della legittimazione ad
agire che, in questa materia, è infatti
riconosciuta a “chiunque”– occorrendo
invece la sussistenza di una diretta
lesione, attuale o almeno potenziale, della
proprietà (o di altro diritto reale di
godimento) del terzo menzionato nell’atto
per aver dato impulso con la sua denunzia al
procedimento sanzionatorio” (Consiglio di
Stato, sez. VI, 23.05.2017, n. 2416).
Non sembra, in effetti,
affatto incongruente
che non vi sia una biunivoca corrispondenza
tra legittimazione ad agire per
l’annullamento di un titolo edilizio
illegittimo e qualità di litisconsorte
necessario nel giudizio per l’annullamento
di un provvedimento sanzionatorio; sia
perché la più ampia legittimazione attiva
deriva, nel primo caso, da una precisa
scelta del legislatore (che, a maggior
garanzia del corretto assetto urbanistico,
ha inteso estendere tale legittimazione a
“chiunque” versi in condizione di oggettivo
interesse a perseguire la realizzazione e il
mantenimento di tale assetto); sia perché,
con riguardo alla seconda ipotesi, un
indiscriminato ampliamento del novero dei litisconsorti necessari dal lato passivo
(ferma ovviamente restando, invece, la più
estesa facoltà di intervenire
volontariamente nel giudizio ad opponendum
in capo a chiunque altro vi abbia interesse)
si risolverebbe in un correlativo
restringimento, quantomeno fattuale, della
possibilità di agire utilmente in giudizio
da parte del destinatario del provvedimento
sanzionatorio, e dunque in un’indiretta
limitazione del diritto di difesa in
giudizio dei propri diritti e interessi,
costituzionalmente garantito (cfr., ancora,
Consiglio di Stato, sez. VI, 23.05.2017,
n. 2416).
La posizione di controinteresse
processualmente rilevante non deriva solo
dal fatto che il procedimento sanzionatorio
sia stato innescato dalla denuncia del
terzo, ma dal fatto che dal ripristino dello
stato dei luoghi sortisca un vantaggio
diretto, ovverosia un positivo ampliamento
della sfera giuridica del denunciante.
7.5. Declinando i principi esposti al caso
di specie si osserva come la signora Ci.
non deduca un interesse diretto connesso
alla necessità di demolizione dell’opera. Al
contrario, la lesione prospettata in sede
procedimentale si sostanzia nel pregiudizio
derivante da immissioni ritenute contrarie
alla normale tollerabilità che certamente
abilitano il proprietario al ricorso agli
appositi rimedi civilistici ma non lo
rendono contraddittore necessario in un
giudizio avente ad oggetto l’ordinanza di
demolizione della res da cui tali esalazioni
promanano.
Pertanto, nel caso di specie, la
signora Ci., pur indicata nel
provvedimento finale dell’Amministrazione,
non può ritenersi controinteressata. Ne
consegue che debbono ritenersi inammissibili
le difese svolte con la memoria depositata
in giudizio atteso che la parte avrebbe
dovuto, piuttosto, provvedere alla
notificazione di un atto di intervento
(omessa nel caso di specie).
8. In ogni caso, osserva il Collegio come le
difese articolate dalla signora Ciceri non
colgano nel segno.
8.1. Come evidenziato dalla Sezione
nell’ordinanza n. 1314 del 2018, la
questione centrale oggetto del giudizio
risiede nella verifica dell’integrale
difformità dell’opera rispetto al manufatto
originariamente edificato in epoca
antecedente al 01.09.1967. Sul punto,
il provvedimento impugnato osserva che “il
manufatto visibile nelle foto scattate
anteriormente all’anno 1967 è totalmente
difforme per tipologia e consistenza da
quello attualmente edificato… ed è stato
completamente sostituito dall’attuale
edificio in legno di forma e consistenza
completamente diversa”.
Ne consegue che, nel
caso di specie, non assumono rilievo le
deduzioni in ordine alla necessità di un
titolo edilizio nel territorio comunale già
prima del 01.09.1967, trattandosi di
questione estranea al contenuto del
provvedimento e, come tale, aliena dal thema
decidendum.
8.2. Inoltre, il provvedimento impugnato non
indica, in modo analitico le divergenze tra
l’originario edificio e l’attuale manufatto,
né tale giudizio può essere svolto sulla
base delle risultanze processuali fornite
dalla controinteressata atteso che le stesse
non sono poste a fondamento del
provvedimento impugnato dal signor Conti.
8.3. Inoltre, va considerato che,
seppure
secondo una consolidata giurisprudenza
“incombe sulla parte che adduce un rilievo a
sé favorevole l’onere di fornire adeguata
dimostrazione del proprio assunto, avendo la
condivisibile giurisprudenza chiarito che le
prove sulla data di realizzazione delle
opere debbono risultare “obiettivamente
inconfutabili sulla base di atti e documenti
che, da soli o unitamente ad altri elementi
probatori, offrono la ragionevole certezza
dell'epoca di realizzazione del manufatto”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 02/10/2013
n. 814)” (così, da ultimo, TAR per la
Campania – sede di Napoli, sez. III,
30/05/2018, n. 3549; cfr, inoltre, TAR per
la Campania – sede di Napoli Sez. IV,
19.10.2016, n. 4774; TAR per il Lazio,
sede di Latina Sez. I, 15/06/2016, n. 391;
TAR per la Campania, sede di Napoli Sez.
II, 27.11.2014, n. 6118; Cons. St., sez. IV,
06.08.2014 n. 4208; Cons. St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3414),
opportunamente il
Consiglio di Stato ammette “un temperamento
nel caso in cui, da un lato, il privato
porti a sostegno della propria tesi sulla
realizzazione dell'intervento prima del 1967
elementi non implausibili e, dall'altro, il
Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione
del manufatto privo di titolo edilizio,
stante comunque il dovere dell'autorità che
adotta l'ingiunzione di demolizione di
verificare in maniera adeguata la
sussistenza dei presupposti dell’esercizio
del potere sanzionatorio” (Consiglio di
Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3177).
Nel caso di specie, il privato produce,
comunque, della documentazione fotografica
da cui risulta la realizzazione del
manufatto in epoca antecedente al 1967 e la
datazione di tali riproduzioni non risulta
contestata dall’Amministrazione né viene
eseguito un approfondimento istruttorio
tradottosi nella motivazione del
provvedimento impugnato che, al contrario,
difetta di indicazioni analitiche sul punto.
8.4. In ragione di quanto esposto,
sussistono i vizi di istruttoria e di
motivazione del provvedimento impugnato che
deve, pertanto, essere annullato, fatte
salve le eventuali ulteriori determinazioni
dell’Amministrazione comunale. |
URBANISTICA: Costituisce
principio pacifico in giurisprudenza che la parte grafica del piano
urbanistico costituisce completamento e chiarimento della parte normativa;
di conseguenza, la parte grafica deve essere interpretata conformemente alla
parte normativa in modo da conciliare le due parti; solo nel caso di
insanabile contrasto la parte normativa prevale.
---------------
Con il dodicesimo motivo d’impugnazione il ricorrente lamenta un’asserita
difformità tra la parte normativo – deliberativa e la parte grafica di
Piano.
La censura è infondata.
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza che la parte grafica del
piano urbanistico costituisce completamento e chiarimento della parte
normativa; di conseguenza, la parte grafica deve essere interpretata
conformemente alla parte normativa in modo da conciliare le due parti; solo
nel caso di insanabile contrasto la parte normativa prevale (cfr., ex
multis, TAR Ancona, Sez. I, 27.09.2010, n. 3305; Cons. Stato, Sez. IV,
27.03.1995, n. 207; TAR Catania, Sez. I, 10.04.2015, n. 1062; Cons. Stato,
Sez. IV, 13.11.1998, n. 1520).
Nel caso all’esame la parte grafica e la parte normativa del piano sono
suscettibili di una lettura che ne concilia i contenuti, sicché non ricorre
alcun insanabile contrasto tra le medesime
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 17.07.2019 n. 175 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - COMPETENZE GESTIONALI: Nelle
procedure d'appalto indette dagli enti locali spetta al dirigente il compito
di adottare il provvedimento di esclusione dalla gara.
La competenza ad adottare il provvedimento di esclusione
dal procedimento di gara spetta al dirigente, ai sensi dell'art. 107 del
d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL).
Rientra infatti tra i compiti dei dirigenti l'adozione degli atti di
gestione delle procedure di appalto, essendo riservata alla Giunta comunale,
ai sensi dell'art. 48 del TUEL, l'adozione degli atti, diversi da quelli di
gestione, spettanti agli organi di governo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 16.07.2019 n. 4997 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente
utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso
di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente,
non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione
delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o
della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è
costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in
difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che
il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente
motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro
accertata abusività.
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del
procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che
hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta
realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti
destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che
potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase
dell’accertamento dell’inottemperanza.
---------------
L'esercizio del
potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono
atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione,
perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse
all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli
ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame
l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto
dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ...
qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato".
---------------
Le caratteristiche dell’opera realizzata abusivamente,
ovvero manufatto di circa mq. 70,00 con pali e travi in legno, copertura in
legno, grondaia perimetrale e tegole sovrastanti, integrano gli estremi di
un organismo edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile,
come destinato a soddisfare esigenze di carattere permanente ed abitativo;
trattasi di nuova costruzione che, in quanto ha inciso sul tessuto
urbanistico ed edilizio, va ricondotta al genus delle opere esterne che
necessitano di Permesso di costruire esplicito, nella fattispecie mancante.
---------------
Dalla lettura dell’art. 31, commi 2
e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione
demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il
responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può
legittimamente essere emanata nei confronti del
proprietario dell’immobile oggetto di intervento abusivo, sebbene non
responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente
sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo
o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede
rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità
o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito
potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione
gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del
proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
Invero, l’acquisizione gratuita del bene e
dell’area di sedime può lasciare indenne il proprietario estraneo all’esecuzione
delle opere abusive solo quando questi, nel rispetto dei doveri di diligente
amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari
di cui è titolare, si sia adoperato con i mezzi previsti dall’ordinamento
per impedire la realizzazione degli abusi edilizi o per agevolarne la
rimozione.
In definitiva, in materia di
abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce
principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e,
segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento
dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
---------------
La stipulazione del contratto di locazione se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità
materiale e del godimento dell'immobile, non fa affatto venire meno in
assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e
vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un
ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia
del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull'entità immobiliare
locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo,
sotto tutti i profili, di vigilanza sull'immobile.
Sotto il profilo edilizio, se è
giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di
ignoranza dell'abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario
ne sia stato notiziato.
Essendo indubbio, quindi, che a partire da una certa
data o da un certo momento la proprietaria era venuta ben a conoscenza
dell'abuso edilizio realizzato sulla sua proprietà, secondo i principi
affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario
incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire
all'effetto sanzionatorio di cui all'art. 31 del testo unico dell'edilizia
della demolizione o dell'acquisizione come effetto della inottemperanza
all'ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che,
oltre a rendere palese la sua estraneità all'abuso, siano però anche idonee
a costringere il responsabile dell'attività illecita a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa.
---------------
Perché vi siano misure concretanti le "azioni idonee" ad escludere
l'esclusione di responsabilità o la partecipazione all'abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall'effettivo riacquisto della materiale disponibilità
del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in
diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
conduttore ("che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la
cessazione dell'abuso"), al fine di evitare l'applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell'abuso, prevede che l'opera abusivamente costruita
e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la
proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni
di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività
materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l'abuso
(risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale,
diffide ad eliminare l'abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi
rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.
---------------
E' orientamento consolidato e condiviso dal Collegio, in ordine
all’interpretazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che nella
motivazione dell’ordine di demolizione deve essere ricompresa l’analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la precisa individuazione, per il tramite dei confini, degli
estremi catastali o di altri indicatori tratti dalla conservatoria dei
registri immobiliari, dei beni e dell’estensione di superficie destinati ad
essere gratuitamente acquisiti al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, perché tale elemento
afferisce all’eventuale successivo provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale.
---------------
Il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra
il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di
demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento
e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di
motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento.
Il
carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere
adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì
che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di
demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato
alla permanenza in loco dell’opus.
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale
sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un
notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto
laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di
un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore
realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere
rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine
alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse
privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo
legittimare.
---------------
1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce la violazione
dell’art. 31 del DPR n. 380/2001 in ragione della propria estraneità
all’abuso, nonché l’eccesso di potere e l’ingiustizia manifesta.
2. Il Collegio ritiene, ai fini della reiezione del ricorso, di evidenziare
in via preliminare che, con riguardo ad un organismo edilizio autonomamente
utilizzabile siccome realizzato in assenza di titolo autorizzativo, in caso
di ordine di demolizione ed anche di acquisizione al patrimonio dell’Ente,
non è richiesta una specifica motivazione che dia conto della valutazione
delle ragioni di interesse pubblico sottese alla determinazione assunta o
della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto il presupposto per l'adozione dell'ordine de quo è
costituito esclusivamente dalla constatata esecuzione dell'opera in
difformità dal titolo abilitativo o in sua assenza, con la conseguenza che
il provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente
motivato con la descrizione delle opere abusive e il richiamo alla loro
accertata abusività (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 04.02.2012, n. 227;
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 09.02.2012, n. 693).
Nemmeno è dovuta in siffatte ipotesi la comunicazione di avvio del
procedimento, atteso che per gli atti repressivi degli abusi edilizi che
hanno natura urgente e vincolata –proprio in considerazione dell’avvenuta
realizzazione di una trasformazione del territorio senza alcun titolo abilitativo- non sono richiesti apporti partecipativi dei soggetti
destinatari nemmeno quanto alla determinazione dell’area di sedime, che
potrà sempre essere meglio specificata nella successiva fase
dell’accertamento dell’inottemperanza.
2.1 Non troverebbero ingresso neanche le censure di natura procedimentale,
essendo orientamento della Sezione (cfr. n. 203/2014) che l'esercizio del
potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione e la stessa acquisizione, costituiscono
atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
I provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, dunque, non devono essere preceduti da tale comunicazione,
perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere abusivo delle medesime; inoltre, seppure si aderisse
all'orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli
ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame
l'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della Legge n. 241/1990 (introdotto
dalla Legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che "non è annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ...
qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato".
2.2 In ogni caso le caratteristiche dell’opera realizzata abusivamente,
ovvero manufatto di circa mq. 70,00 con pali e travi in legno, copertura in
legno, grondaia perimetrale e tegole sovrastanti, integrano gli estremi di
un organismo edilizio con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile,
come destinato a soddisfare esigenze di carattere permanente ed abitativo;
trattasi di nuova costruzione che, in quanto ha inciso sul tessuto
urbanistico ed edilizio, va ricondotta al genus delle opere esterne che
necessitano di Permesso di costruire esplicito, nella fattispecie mancante.
Nello specifico la proprietaria deve ritenersi passivamente legittimata
rispetto all’ordine di demolizione, indipendentemente o meno dall’estraneità
alla realizzazione dell’abuso; quanto alla sussistenza di elementi idonei ad
ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della
sua condotta, parte ricorrente non ha fornito inequivocabile prova di
assenza di condotta omissiva e di non conoscibilità dell’abuso.
Neanche
soccorre al riguardo la circostanza che, successivamente all’accoglimento
della misura cautelare, l’istante abbia ottenuto un provvedimento di sfratto
esclusivamente per ragioni di morosità del conduttore dell’immobile, senza
che al giudice ordinario investito di tale domanda fosse prospettata alcuna
questione concernente l’abuso edilizio come asseritamente posto in essere
dalla sig.ra Ol.Es..
Del resto dalla lettura dell’art. 31, commi 2
e 3, del d.P.R. n. 380/2001 emergono come destinatari della sanzione
demolitoria, in forma non alternativa ma congiunta, il proprietario ed il
responsabile dell’abuso: ne discende che l’ordinanza di demolizione può
legittimamente essere emanata, come nella specie, nei confronti del
proprietario dell’immobile oggetto di intervento abusivo, sebbene non
responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente
sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall’accertamento del dolo
o della colpa del soggetto interessato, nonché del suo stato di buona fede
rispetto alla commissione dell’illecito.
Infatti la condizione di estraneità
o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito
potrebbe assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione
gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità del
proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il terzo responsabile dell’abuso.
E’ appena il caso di
precisare, a tale ultimo riguardo, che l’acquisizione gratuita del bene e
dell’area di sedime, peraltro nella specie non ancora formalmente
intervenuta, può lasciare indenne il proprietario estraneo all’esecuzione
delle opere abusive solo quando questi, nel rispetto dei doveri di diligente
amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari
di cui è titolare, si sia adoperato con i mezzi previsti dall’ordinamento
per impedire la realizzazione degli abusi edilizi o per agevolarne la
rimozione (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez.
VI, 29.01.2016 n. 358 e 30.03.2015 n. 1650; TAR Campania Napoli, Sez. III, 08.01.2016 n. 14; TAR Campania Napoli, Sez. II,
06.03.2014
n. 1360).
2.3 In definitiva si presta adesione all’orientamento giurisprudenziale (ex plurimis, Cons. Stato, VI,
04.05.2015, n. 2211) secondo cui, in materia di
abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce
principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001) e,
segnatamente, rispetto all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, quando risulti, in modo
inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento
dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi
adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
Ora,
se nella specie può ammettersi la completa estraneità e ignoranza nel
momento della realizzazione dell'abuso e anche nel momento iniziale del
primo procedimento di accertamento dell'abuso, non può invece negarsi la
conoscenza da un dato momento, e quindi la sussistenza di doveri del
proprietario, che riemergono a partire dal momento di conoscenza certa
dell'abuso realizzato.
Non vale ad escludere l'incombenza dei doveri di gestione dominicale la
circostanza della stipulazione del contratto di locazione, in quanto tale
negozio, se comporta il trasferimento al conduttore della disponibilità
materiale e del godimento dell'immobile, non fa affatto venire meno in
assoluto in capo al proprietario i poteri e doveri di controllo, cura e
vigilanza spettanti al proprietario locatore, il quale, anche se in un
ambito diverso da quello in cui si esplica a sua volta il potere di custodia
del conduttore, conserva un effettivo potere fisico sull'entità immobiliare
locata (si pensi alla manutenzione straordinaria), con conseguente obbligo,
sotto tutti i profili, di vigilanza sull'immobile (così Cassazione civile,
sezione III, 27.07.2011, n. 16422).
Sotto il profilo edilizio, se è
giustificabile che tale vigilanza non sia stata attiva nella situazione di
ignoranza dell'abuso, ciò non può valere dal momento in cui il proprietario
ne sia stato notiziato. Essendo indubbio, quindi, che a partire da una certa
data o da un certo momento la proprietaria era venuta ben a conoscenza
dell'abuso edilizio realizzato sulla sua proprietà, secondo i principi
affermati dalla giurisprudenza che regolano la materia, il proprietario
incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire
all'effetto sanzionatorio di cui all'art. 31 del testo unico dell'edilizia
della demolizione o dell'acquisizione come effetto della inottemperanza
all'ordine di demolizione, deve provare la intrapresa di iniziative che,
oltre a rendere palese la sua estraneità all'abuso, siano però anche idonee
a costringere il responsabile dell'attività illecita a ripristinare lo stato
dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa.
2.4 Perché vi siano misure concretanti le "azioni idonee" ad escludere
l'esclusione di responsabilità o la partecipazione all'abuso effettuato da
terzi, prescindendo dall'effettivo riacquisto della materiale disponibilità
del bene, si ritiene necessario un comportamento attivo, da estrinsecarsi in
diffide o in altre iniziative di carattere ultimativo nei confronti del
conduttore ("che si sia adoperato, una volta venutone a conoscenza, per la
cessazione dell'abuso", tra tante, si veda Cassazione penale, 10.11.1998, n. 2948), al fine di evitare l'applicazione di una norma che, in caso
di omessa demolizione dell'abuso, prevede che l'opera abusivamente costruita
e la relativa area di sedime siano, di diritto, acquisite gratuitamente al
patrimonio del Comune, non bastando invece a tal fine un comportamento
meramente passivo di adesione alle iniziative comunali.
Se, per ipotesi, la
proprietà potesse dissociarsi soltanto con mere dichiarazioni o affermazioni
di dissociazione o con manifestazioni di intenti, senza alcuna attività
materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l'abuso
(risoluzione iniziata giudiziariamente per inadempimento contrattuale,
diffide ad eliminare l'abuso, attività materiali), la tutela dagli abusi
rimarrebbe inefficace nei casi di locazione.
2.5 Peraltro è orientamento consolidato e condiviso dal Collegio, in ordine
all’interpretazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, che nella
motivazione dell’ordine di demolizione deve essere ricompresa l’analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è
necessaria la precisa individuazione, per il tramite dei confini, degli
estremi catastali o di altri indicatori tratti dalla conservatoria dei
registri immobiliari, dei beni e dell’estensione di superficie destinati ad
essere gratuitamente acquisiti al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, perché tale elemento
afferisce all’eventuale successivo provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014 n. 3438; TAR Campania Napoli, Sez. VII,
09.01.2015 n. 68; la
giurisprudenza citata nell’ultima memoria difensiva depositata dalla difesa attorea, laddove letta nella sua interezza, è sostanzialmente in linea con
il predetto insegnamento);
2.6 Per il resto il Collegio ritiene di far proprio quanto di recente
ribadito dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero che il tempo
trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione
dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina
l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo
all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il
decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione
giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo
dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il
carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere
adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì
che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di
demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato
alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale
sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un
notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto
laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di
un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore
realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908;
VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere
rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine
alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse
privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo
legittimare (Cons. Stato, 28.02.2017, n. 908; IV, 12.10.2016, n. 4205;
31.08.2016, n. 3750).
2.7 Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al
Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma
dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza
tra il chiesto e pronunciato (come chiarito da giurisprudenza costante: ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22.03.1995 n. 3260, e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16.05.2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e
comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
3. In conclusione, chiarito che il provvedimento impugnato non è in
contrasto con le previsioni di legge invocate da parte ricorrente, atteso
che in siffatte ipotesi –per la natura vincolata del potere- non è
configurabile alcun affidamento tutelabile all’effettuazione di un abusivo
intervento edilizio, il ricorso deve essere rigettato per come infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 16.07.2019 n. 3921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sull'applicazione
anche agli appalti sotto soglia del principio ex art. 95, c. 10, d.lgs. n.
50 del 2016, secondo cui gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera
devono essere espressamente indicati in sede di offerta.
Il principio, fissato dall'art. 95, c. 10, d.lgs. n. 50
del 2016, secondo cui gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera
devono essere espressamente indicati in sede di offerta, con la conseguenza
che la mancata ottemperanza a tale obbligo legale comporta necessariamente
l'esclusione dalla gara perché la loro omessa evidenziazione non è
un'omissione formale, ma integra pienamente la violazione sostanziale della
prescrizione di legge, è applicabile anche agli appalti sotto soglia, come
nella specie in cui si controverte di un appalto sotto soglia europea privo
di rilevanza transfrontaliera (procedura negoziata per l'affidamento in
appalto della gestione del servizio nido comunale" con importo a base di
gara di euro 190.974,85 comprensivo di iva al 5%), in quanto si applica la
regola del precedente vincolante costituito dalle ordinanze nn. 1, 2 e 3 del
2019 della Adunanza Plenaria
(CGARS,
sentenza 16.07.2019 n. 683 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Oneri
di sicurezza e costo manodopera negli appalti sotto soglia.
----------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Oneri della
sicurezza – Appalti sotto soglia – Espressa indicazione bell’offerta –
Necessità.
Si applica anche agli appalti sotto soglia il
principio, sancito dall’art. 95, comma 10, d.lg. n. 50 del 2016, secondo cui
gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera devono essere
espressamente indicati in sede di offerta, con la conseguenza che la mancata
ottemperanza a tale obbligo legale comporta necessariamente l’esclusione
dalla gara perché la loro omessa evidenziazione non è un’omissione formale,
ma integra pienamente la violazione sostanziale della prescrizione di legge
(1).
----------------
(1) Ha ricordato il Cga che la Corte di giustizia UE, sez. IX,
02.05.2019 C-309/18, e non ancora sulla rimessione delle A.P. nn. 1, 2 e 3
del 2019, si è pronunciata su una ordinanza di rimessione del Tar Lazio, e
non ancora su quelle di rimessione dell’Adunanza plenaria, affermando che i
principi della certezza del diritto, della parità di trattamento e di
trasparenza, quali contemplati nella direttiva 2014/24/UE devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella italiana, secondo la quale la mancata indicazione separata dei costi
della manodopera, in un’offerta economica presentata nell’ambito di una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, comporta l’esclusione
della medesima offerta senza possibilità di soccorso istruttorio, anche
nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non
fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto, sempre che tale
condizione e tale possibilità di esclusione siano chiaramente previste dalla
normativa nazionale relativa alle procedure di appalti pubblici
espressamente richiamata in detta documentazione.
Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli
offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i
principi di trasparenza e di proporzionalità devono essere interpretati nel
senso che essi non ostano alla possibilità di consentire agli offerenti di
sanare la loro situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla
normativa nazionale in materia entro un termine stabilito
dall’amministrazione aggiudicatrice.
Il Cga ha altresì escluso che la circostanza che la questione pregiudiziale
sia nuovamente pendente alla C. giust. UE a seguito di rimessione da parte
delle citate ordinanze dell’Adunanza Plenaria, giustificano –almeno in
questa causa- una sospensione del presente giudizio o una ulteriore
rimessione alla Corte di giustizia con diversi pur possibili argomenti.
E, invero, in disparte la ragionevole prevedibilità dell’esito della
prossima decisione della C. giust. UE sulla scorta del suo precedente del
maggio 2019 sopra riportato, è tranciante la considerazione che nella specie
si controverte di un appalto sotto soglia europea privo di rilevanza
transfrontaliera (procedura negoziata per l'affidamento in appalto della
gestione del servizio nido comunale con importo a base di gara di euro
190.974,85 comprensivo di iva al 5%), che esula dalle competenze della C.
giust. UE e per il quale opera invece in pieno la regola del precedente
vincolante costituito dalle citate ordinanze nn. 1, 2 e 3 del 2019 della
Adunanza Plenaria (rese nella composizione della plenaria a quindici con la
partecipazione di componenti del Cga), ordinanze che hanno già preso
posizione sulla questione di diritto
(CGARS,
sentenza 16.07.2019 n. 683 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Riduzione
consumo di suolo, la Consulta boccia una norma della legge n. 31/2014 della
Lombardia.
Illegittimo non consentire ai Comuni di apportare varianti che riducono le
previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano vigente
Con la
sentenza 16.07.2019 n. 179 la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ultimo
periodo dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia
28.11.2014, n. 31, recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di
suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”, nel testo
precedente alle modifiche apportate dalla legge della Regione Lombardia
26.05.2017, n. 16 (recante «Modifiche all’articolo 5 della legge
regionale 28.11.2014, n. 31»).
La Consulta ha bocciato la parte della suddetta norma in cui non consente ai
Comuni di apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi
edificatori nel documento di piano vigente (commento tratto da
www.casaeclima.com).
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Circa il rinvio alla Consulta ne davamo conto con l'AGGIORNAMENTO
AL 28.12.2017.
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12.– Nel merito le questioni aventi a oggetto l’ultimo periodo dell’art. 5,
comma 4, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014, sono fondate.
12.1.– È utile premettere che la legge reg. Lombardia n. 31 del 2014
persegue innovative finalità generali, consistenti nell’orientare gli
interventi edilizi prioritariamente verso aree già urbanizzate, degradate o
dismesse e nel prevedere consumo di suolo esclusivamente se la
riqualificazione e la rigenerazione di aree già edificate si dimostri
tecnicamente ed economicamente insostenibile (art. 1).
Essa quindi, da un lato, traguarda le più recenti concezioni di territorio,
considerato non più solo come uno spazio topografico suscettibile di
occupazione edificatoria ma rivalutato come una risorsa complessa che
incarna molteplici vocazioni (ambientali, culturali, produttive, storiche)
e, dall’altro, è avvertita sul fatto che il consumo di suolo rappresenta una
delle variabili più gravi del problema della pressione antropica sulle
risorse naturali.
In quest’ottica la legge regionale si distingue per aver definito il suolo
come «bene comune di fondamentale importanza per l’equilibrio ambientale, la
salvaguardia della salute, la produzione agricola finalizzata alla
alimentazione umana e/o animale, la tutela degli ecosistemi naturali e la
difesa dal dissesto idrogeologico» (art. 1, comma 2).
La legge regionale quindi, nelle sue finalità generali, dimostra di
inserirsi in un processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione
tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della
quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale
eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio
ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una
pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura
intergenerazionale.
Si tratta di una prospettiva che risulta, peraltro, conforme –come
correttamente ricorda la difesa della Regione Lombardia– agli indirizzi
espressi in sede europea fin dalla comunicazione della Commissione del 22.09.2006, “Strategia tematica per la protezione del suolo”, e più
recentemente dall’approvazione del cosiddetto Settimo programma di azione
per l’ambiente (decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 20.11.2013).
Nell’attuazione delle suddette finalità, l’art. 2 della legge reg. Lombardia
n. 31 del 2014 fornisce le definizioni di consumo di suolo e di
rigenerazione urbana, prevedendo, al comma 2, che il piano territoriale
regionale (PTR) «precisa le modalità di determinazione e quantificazione
degli indici che misurano il consumo di suolo, validi per tutto il
territorio regionale, disaggrega […] i territori delle [province e della
città metropolitana] in ambiti omogenei, in dipendenza dell’intensità del
corrispondente processo urbanizzativo ed esprime i conseguenti criteri,
indirizzi e linee tecniche da applicarsi negli strumenti di governo del
territorio per contenere il consumo di suolo».
12.2.– In questo quadro normativo si inseriscono le norme oggetto di
censura, che disciplinano la fase transitoria volta ad adeguare gli
strumenti di pianificazione territoriale stabiliti dalla legislazione
lombarda ai criteri previsti per il perseguimento delle suddette finalità.
Nel periodo occorrente alla integrazione dei contenuti del piano
territoriale regionale (PTR) e al successivo adeguamento dei piani
territoriali di coordinamento provinciale (PTCP) e dei piani di governo del
territorio (PGT), l’art. 5, comma 4, nel testo originario censurato, dispone
che «i comuni possono approvare unicamente varianti del PGT e piani
attuativi in variante al PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo,
diretti alla riorganizzazione planivolumetrica, morfologica, tipologica o
progettuale delle previsioni di trasformazione già vigenti, per la finalità
di incentivarne e accelerarne l’attuazione, esclusi gli ampliamenti di
attività economiche già esistenti, nonché quelle finalizzate all’attuazione
degli accordi di programma a valenza regionale».
L’ultimo periodo di tale disposizione stabilisce che «[f]ino a detto
adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori
del documento di piano vigente».
Tale divieto di ius variandi in relazione ai contenuti edificatori del
documento di piano viene in ogni caso scandito, dalla ricordata
disposizione, fino alla conclusione del processo di adeguamento, anche se
poi effettivamente declinato secondo due diverse scadenze temporali: la
prima prevista dal comma 6 assegnando ai privati il termine di trenta mesi
per la presentazione delle istanze di attuazione del programma edificatorio;
la seconda stabilita dal comma 9 per le ipotesi in cui a) entro il predetto
termine di trenta mesi non siano stati presentati progetti da parte dei
soggetti interessati alla realizzazione di un piano attuativo ovvero b) se
presentati, non sia stata stipulata la relativa convenzione entro dodici
mesi dall’approvazione. Anche in queste ultime due ipotesi, comunque, il
Comune è vincolato al vigente documento di piano «sino all’esito del
procedimento di adeguamento di cui al comma 3».
La sospensione della potestà di apportare modifiche ai contenuti edificatori
del documento di piano viene quindi ad assumere, sul piano giuridico, un
carattere temporalmente limitato ma indefinito nella sua ampiezza,
risultando in ogni caso collegata –costituisce, infatti, una circostanza di
mero fatto che i privati abbiano presentato l’istanza entro il termine di
trenta mesi– al concretizzarsi del processo di adeguamento, per il quale i
termini previsti dalla sequenza procedimentale individuata dalla legge
regionale hanno carattere meramente ordinatorio. Del resto, come dichiarato
dalla difesa della Regione, è solo con la pubblicazione avvenuta nel
Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 11, serie avvisi e concorsi,
del 13.03.2019 che è divenuta efficace la integrazione del PTR alla
quale, invece, secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, della legge
reg. Lombardia n. 31 del 2014, la Regione avrebbe dovuto provvedere entro
dodici mesi dalla entrata in vigore della predetta legge.
12.3.– In questi termini la disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 5,
comma 4, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014 si pone in violazione del
combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.,
relativamente alla competenza esclusiva statale sulle funzioni fondamentali,
e degli artt. 5 e 118, primo e secondo comma, Cost., con riguardo al
principio di sussidiarietà verticale.
La funzione di pianificazione urbanistica, infatti, come giustamente rileva
il giudice rimettente, nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente
rimessa all’autonomia dei Comuni fin dalla legge 25.06.1865, n. 2359
(Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica).
Tutta la complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento
regionale ordinario, a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla
consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale, non ha
travolto questo presupposto di fondo, tanto che il legislatore nazionale ha
qualificato, attuando il nuovo Titolo V della Costituzione, come funzioni
fondamentali dei Comuni «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito
comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di
livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, in
legge 30.07.2010, n. 122, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera
a, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per
la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario», convertito, con modificazioni, in legge 07.08.2012, n. 135).
Il legislatore statale ha quindi sottratto allo specifico potere regionale
di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di
pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea
di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui
storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta
come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente
locale. Ha così stabilito un regime giuridico comune sottratto, per questo
aspetto e salvo quanto si dirà in seguito, alle potenzialità di
differenziazione insite nella potestà allocativa delle Regioni nelle materie
di loro competenza.
12.4.– Se quindi la funzione di pianificazione comunale rientra in quel
nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del
principio dell’autonomia comunale, ciò non comporta, tuttavia, che la legge
regionale non possa intervenire a disciplinarla, anche in relazione agli
ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla in nome della
verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a
una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio (sentenza n.
378 del 2000).
Anche dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione,
infatti, questa Corte ha ribadito, con riguardo all’autonomia dei Comuni,
che «essa non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il
legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a
fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione
di funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 160 del 2016).
Non sono mancate occasioni, inoltre, in cui questa Corte ha anche
espressamente escluso che «il “sistema della pianificazione” assurga a
principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale –che
è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici
locali– di prevedere interventi in deroga a tali strumenti» (sentenza n.
245 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2014).
La competenza concorrente in materia di governo del territorio, infatti,
abilita fisiologicamente la legislazione regionale a intervenire nell’ambito
di disciplina della pianificazione urbanistica; del resto, come
correttamente ricorda la difesa della Regione e delle parti private, è la
stessa norma che individua le funzioni fondamentali comunali a prevedere che
rimangono ferme «le funzioni di programmazione e di coordinamento delle
regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e
quarto, della Costituzione» (art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010,
come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a, del d.l. n. 95 del 2012,
come convertito).
12.5.– All’interno del delicato rapporto tra l’autonomia comunale e quella
regionale, tuttavia, questa Corte ha avuto modo di precisare anche che «il
potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla
utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le
regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di
compiere» (sentenza n. 378 del 2000) e che la suddetta competenza regionale
«non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia
dei comuni» (sentenza n. 83 del 1997).
Su questo piano, è quindi richiesto uno scrutinio particolarmente rigoroso
laddove la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante
previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le
previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema
di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso
della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un
periodo temporale.
In questi casi, dove emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e
municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato
impianto del Titolo V della Costituzione, il giudizio di costituzionalità
non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del
legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in
ordine alla «verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano
ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle
funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 286 del 1997).
Viene quindi in causa il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha
riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio
di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa
Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale
ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge
regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome
di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali
compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la
dispone.
Il giudizio di proporzionalità deve perciò svolgersi, dapprima, in astratto
sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi
in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto
bilanciamento degli interessi coinvolti.
Si tratta allora di verificare se la norma di cui all’ultimo periodo
dell’art. 5, comma 4, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014 sia
proporzionata rispetto al tipo di interessi coinvolti, e in particolare, in
questo caso, rispetto alle finalità affermate, su un piano più generale,
dalla stessa legge regionale in cui la norma s’inserisce. Se infatti
emergesse che la sottrazione ai Comuni della potestà pianificatoria, anziché
costituire il minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore
regionale, si ponesse in contraddizione con questi ultimi, si dovrebbe
concludere che la norma verrebbe illegittimamente a incidere sulla funzione
fondamentale allocata dal legislatore statale al livello locale.
12.6.– A questo riguardo si deve riscontrare innanzitutto che il livello
regionale è strutturalmente quello più efficace a contrastare il fenomeno
del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti ab externo e generali
alla pianificazione urbanistica locale: del resto proprio in questa
direzione, come la Lombardia, si sono mosse anche altre Regioni, approvando
leggi dirette a limitare il consumo del suolo.
Per questo profilo, quindi, lo scopo perseguito dal legislatore regionale
rientra, senza dubbio, nell’ambito del legittimo esercizio della competenza
regionale e di per sé appare compatibile con la pianificazione urbanistica
locale.
D’altro canto, tuttavia, la norma impugnata, precludendo ogni modifica al
documento di piano quand’anche di carattere riduttivo, e perciò volta a
contenere il consumo di suolo, finisce per paralizzare la potestà
pianificatoria del Comune al di là di quanto strettamente necessario a
perseguire l’obiettivo, e anzi in contraddizione con quest’ultimo.
La suddetta norma impugnata, come si è visto, viene a bloccare
diacronicamente la potestà pianificatoria comunale, incidendo su uno dei
suoi elementi più rilevanti proprio ai fini del fenomeno che si vorrebbe
limitare; è, infatti, il documento di piano, che contiene le scelte più
significative ai fini della trasformazione del territorio: le destinazioni
d’uso, gli indici edificatori e le aree soggette a trasformazione (art. 8
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
Poco rileva, a tal fine, quanto evidenzia la difesa delle parti private,
ovvero che, secondo la disciplina regionale, anche nel periodo transitorio,
i Comuni rimangono comunque liberi di modificare il piano delle regole e il
piano dei servizi del PGT.
Rimane fermo, in ogni caso, che cristallizzando i contenuti edificatori del
documento di piano, la norma impugnata viene a sottrarre all’ente locale la
possibilità di esprimere un nuovo indirizzo politico amministrativo diretto,
sia pure, alla riduzione del consumo di suolo.
È ben vero quanto ancora afferma la difesa delle stesse parti, ovvero che la
norma censurata “non sceglie al posto” dei singoli Comuni lombardi,
sostituendo cioè direttamente una specifica e diversa decisione regionale a
quelle che questi hanno assunto, bensì produce solo l’effetto di mantenerli
coerenti alla pianificazione territoriale che questi stessi hanno, in un
determinato momento e fino all’entrata in vigore della legge regionale,
compiuto.
Tuttavia, se da un lato è corretto affermare che, anche da questo punto di
vista, i Comuni non vengono completamente spogliati di una loro funzione
fondamentale, dall’altro è evidente che la norma impugnata, all’interno
della complessiva funzione di pianificazione urbanistica comunale, ne
ritaglia uno specifico contenuto, quello della potestas variandi e la
sottrae ai Comuni, ritenendoli inidonei a svolgerla in nome di una esigenza
di esercizio unitario rispondente a non ben definiti interessi generali.
Incidendo sul principio di inesauribilità della funzione di pianificazione
urbanistica, la norma regionale priva quindi l’ente locale di una quota
rilevante della suddetta funzione fondamentale, che, al di là di letture
minimalistiche, è diretta, secondo l’orientamento ormai uniforme della
giurisprudenza amministrativa, non solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli, ma anche allo sviluppo complessivo e armonico del
territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità
locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati (da ultimo,
Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 09.05.2018, n. 2780, 22.02.2017, n. 821 e 10.05.2012, n. 2710).
La rigidità insita nella norma censurata è quindi tale da incidere in modo
non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce
la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (che
peraltro, in astratto, potevano anche provenire da maggioranze politiche
locali diverse da quelle poi in carica), ma soprattutto perché, al tempo
stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi
interessi generali sottostanti alle finalità di fondo della legge regionale
e quindi coerenti con queste.
In sostanza, l’enunciato censurato, cristallizzando le scelte urbanistiche
in vigore al momento dell’intervento del legislatore regionale,
paradossalmente, comporta un giudizio di inadeguatezza del Comune a
esercitare la potestas variandi anche quando questo intenda svolgerla nella
stessa direzione dei principi di coordinamento fissati dal legislatore
regionale, ma “in anticipo” rispetto alla prevista applicazione a regime.
La sola giustificazione a fondamento dell’esercizio unitario regionale della
quota di funzione sottratta ai Comuni sembra allora essere quella –affermata
dalla difesa regionale e da quella privata– di tutelare l’affidamento dei
soggetti coinvolti al mantenimento di determinate previsioni urbanistiche.
Tuttavia nemmeno tale argomento è dirimente all’interno del giudizio di
proporzionalità, anzi si dimostra palesemente inconferente perché in materia
urbanistica tale affidamento è normalmente ritenuto tutelabile, dalla
giurisprudenza amministrativa, solo a fronte di convenzioni già stipulate
(Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 12.05.2016, n. 1907 e
07.11.2012, n. 5665, oltre alle pronunce richiamate supra); la norma
in questione, invece, verrebbe a garantirlo in un momento molto anteriore
rispetto a quello in cui matura un’aspettativa qualificata al mantenimento
della destinazione urbanistica.
Nella valutazione di proporzionalità deve essere considerata, inoltre, la
durata della sottrazione della
potestas variandi che la norma censurata
impone ai Comuni: questa, come si è visto, non è assistita da un termine
certo e congruo; il periodo della sottrazione risulta, infatti, in ultima
analisi rimesso, per effetto del combinato disposto dei commi 4 e 9
dell’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2014, alla discrezionalità
della Regione nell’approvare l’adeguamento del PTR.
Infine, occorre anche considerare che a fronte della suddetta limitazione,
che rende i Comuni meri esecutori di una valutazione compiuta dal livello di
governo superiore, non viene prevista a favore dei primi alcuna possibilità
di una motivata interlocuzione con il secondo, in contrasto con quanto
questa Corte ha affermato in ordine alla necessità di «garantire agli stessi
forme di partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia»
(sentenza n. 126 del 2018).
Nemmeno, da ultimo, può acquistare consistenza l’argomento addotto dalla
difesa della Regione in ordine alla necessità di “fotografare” la situazione pianificatoria comunale, al fine di procedere con il PTR a indicare le
soglie di riduzione assegnate ai singoli Comuni; dirimente al riguardo è
quanto affermato dalla difesa dell’ANCI: quando lo stesso legislatore
regionale, modificando la disciplina transitoria con la legge reg. Lombardia
n. 16 del 2017, ha eliminato il vincolo di immodificabilità delle previsioni
espansive del documento di piano, si è dimostrato per tabulas che per
l’integrazione del piano regionale non era né necessario, né rilevante
conservare immutate le previsioni dei piani comunali.
12.7.– Si deve quindi concludere che la norma impugnata non supera, ai sensi
del legittimo esercizio del principio di sussidiarietà verticale, il test di
proporzionalità con riguardo all’adeguatezza e necessarietà della
limitazione imposta all’autonomia comunale in merito a una funzione
amministrativa che il legislatore statale ha individuato come connotato
fondamentale dell’autonomia comunale.
Essa pertanto deve essere dichiarata
costituzionalmente illegittima nella parte in cui non consente ai Comuni di
apportare varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel
documento di piano vigente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’ultimo periodo
dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Lombardia 28.11.2014, n. 31
(Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato), nel testo precedente alle modifiche
apportate dalla legge della Regione Lombardia 26.05.2017, n. 16, recante «Modifiche
all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la
riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo
degradato)», nella parte in cui non consente ai Comuni di apportare
varianti che riducono le previsioni e i programmi edificatori nel documento
di piano vigente;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 9, della legge reg. Lombardia n. 31 del
2014, nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge reg.
Lombardia n. 16 del 2017, sollevate, in riferimento agli artt. 5, 117,
secondo comma, lettera p), e 118 della Costituzione, dal Consiglio di Stato,
sezione quarta, con l’atto indicato in epigrafe. |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza formatasi sull’art. 221 del R.D. 27.07.1934, n.
1265 (c.d. Testo unico delle leggi sanitarie) ha chiaramente evidenziato che
la funzione della licenza di agibilità/abitabilità, e l’interesse pubblico
cui essa ha riguardo, attengono solo ai profili della agibilità/abitabilità
(tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza
dell'edificio) e non anche al profilo urbanistico-edilizio.
Va inoltre sottolineato che –secondo consolidata giurisprudenza- la
destinazione d'uso di fatto di un immobile è irrilevante.
In altri termini, la destinazione d'uso giuridicamente rilevante di un
immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di
carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo
di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato
sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto; tale uso, quantunque
si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un
consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione
giuridica dell'immobile.
---------------
Il
successivo certificato di abitabilità del 04.06.1981 (doc. 5 della
produzione di parte ricorrente), che dichiara abitabili i locali del
“fabbricato industriale (escluso l’alloggio a nord) sito in Via ...”,
non ha quel valore che la ricorrente pretende di attribuirgli.
Ed invero, da un lato detto certificato contiene il medesimo errore già
visto a proposito della nota sindacale datata 25.09.1979, prot. n.
7924, in quanto nel richiamare la concessione n. 1032 del 05.08.1977, il
certificato esplicita (erroneamente, si ribadisce) che era stata
originariamente assentita la costruzione di un “fabbricato industriale” (e
non di un “complesso artigianale”, come avvenne effettivamente).
Dall’altro, la giurisprudenza formatasi sull’art. 221 del R.D. 27.07.1934, n. 1265 (c.d. Testo unico delle leggi sanitarie) ha chiaramente
evidenziato che la funzione della licenza di agibilità/abitabilità, e
l’interesse pubblico cui essa ha riguardo, attengono solo ai profili della
agibilità/abitabilità (tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza
dell'edificio) e non anche al profilo urbanistico-edilizio (arg. ex TAR
Toscana, sez. III, 28.01.2014, n. 177; TAR Puglia, Bari, sez. II, 04.02.2003, n. 489; TAR Molise, 10.05.1995, n. 111).
Va inoltre sottolineato che –secondo consolidata giurisprudenza- la
destinazione d'uso di fatto di un immobile è irrilevante (arg. ex TAR
Campania, Napoli, sez. III, 05.05.2016, n. 2243).
In altri termini, la destinazione d'uso giuridicamente rilevante di un
immobile è unicamente quella prevista da atti amministrativi pubblici, di
carattere urbanistico o catastale, dovendosi del tutto escludere il rilievo
di un uso di fatto che in concreto si assume sia stato praticato
sull'immobile, risultante da circostanza di mero fatto; tale uso, quantunque
si sia protratto nel tempo, è comunque inidoneo a determinare un
consolidamento di situazioni ed a modificare ex se la qualificazione
giuridica dell'immobile (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2013, n. 1712;
TAR Valle d'Aosta, sez. I, 19.09.2013, n. 62)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.07.2019 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce ius receptum in giurisprudenza il principio che l’ammissione
allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione ampiamente
discrezionale da parte dell’Amministrazione (che ben può optare per
soluzioni diverse, senza alcun obbligo di specifica motivazione) e che un
vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a
fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione, ovvero
dell’impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di “accettazione”
consensuale da parte della stessa Amministrazione.
Lo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non configura un
diritto dell’operatore, ma una mera possibilità, per la quale occorre sempre
il consenso e l’autorizzazione dell’Amministrazione; ne consegue che, in
difetto di autorizzazione e di accordo espresso della P.A. sullo scomputo
delle nuove opere, a destinazione variata, dall’ammontare degli oneri,
l’operatore non dispone di alcuna pretesa tutelata diretta a portare in
detrazione il valore delle suddette opere dal contributo di urbanizzazione
dovuto.
Pertanto, ove nessun atto di assenso sia stato espresso in ordine allo
scomputo degli oneri concessori dovuti, ovvero sulla possibile compensazione
tra questi ultimi e le spese sostenute dalla ricorrente per la realizzazione
delle opere (id est, in mancanza di accordo), la ricorrente è in ogni caso
tenuta al pagamento integrale degli oneri concessori dovuti.
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3.1.
Il motivo è infondato.
Costituisce ius receptum in giurisprudenza il principio che l’ammissione
allo scomputo costituisce oggetto di una valutazione ampiamente
discrezionale da parte dell’Amministrazione (che ben può optare per
soluzioni diverse, senza alcun obbligo di specifica motivazione) e che un
vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente allorché, a
fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione, ovvero
dell’impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di “accettazione”
consensuale da parte della stessa Amministrazione (cfr. TAR Marche, sez.
I, 01.10.2018, n. 631; TAR Campania, Salerno, sez. I, 15.12.2016, n. 2653; TAR Liguria, sez. I, 29.09.2016, n. 955).
Lo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non configura un
diritto dell’operatore, ma una mera possibilità, per la quale occorre sempre
il consenso e l’autorizzazione dell’Amministrazione; ne consegue che, in
difetto di autorizzazione e di accordo espresso della P.A. sullo scomputo
delle nuove opere, a destinazione variata, dall’ammontare degli oneri,
l’operatore non dispone di alcuna pretesa tutelata diretta a portare in
detrazione il valore delle suddette opere dal contributo di urbanizzazione
dovuto (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. III, 04.02.2019, n. 158; TAR
Lombardia, Milano, sez. I, 10.04.2018, n. 954).
Pertanto, ove nessun atto di assenso sia stato espresso in ordine allo
scomputo degli oneri concessori dovuti, ovvero sulla possibile compensazione
tra questi ultimi e le spese sostenute dalla ricorrente per la realizzazione
delle opere (id est, in mancanza di accordo), la ricorrente è in ogni caso
tenuta al pagamento integrale degli oneri concessori dovuti (arg. ex TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, 07.07.2010, n. 16606).
La necessità di un atto di assenso della parte pubblica è peraltro
confermata proprio dall’art. 86, primo comma, della legge regionale Veneto
27.06.1985, n. 61, richiamato dalla società ricorrente, secondo il quale
il concessionario ha titolo allo scomputo totale o parziale della quota di
contributo dovuta per gli oneri di urbanizzazione qualora, in luogo totale o
parziale della stessa, si obblighi col Comune a cedere le aree e le opere di
urbanizzazione già esistenti o da realizzare “con le modalità e le garanzie,
di cui alla convenzione dell’art. 63”.
Sul punto il Tribunale ha chiarito che, ai fini di interesse, è <<[…]
necessaria la previa stipulazione di una convenzione “completa”, vale a dire
includente anche la dettagliata stima del costo delle opere di diretta
realizzazione: evidente la ratio, volta a consentire al Comune la
valutazione sulla convenienza dell’operazione e la congruità della spesa
[…]>> (cfr. TAR Veneto, sez. II, 28.05.2008, n. 1626).
Non avendo comprovato parte ricorrente l’atto di assenso comunale allo
scomputo, la doglianza si rivela, per ciò solo, del tutto priva di base
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.07.2019 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Piano
di caratterizzazione: può essere valutato e autorizzato solo dagli enti
competenti.
L’avvio di un procedimento di bonifica, così come
previsto dall’art. 242 del D.L.vo n. 152/2006, comporta la presentazione di
un piano di caratterizzazione alle autorità competenti. Una diversa
relazione, come ad esempio un "piano di lavoro", non può essere inteso quale
sostitutivo di un piano di caratterizzazione che solo gli enti competenti
possono valutare e autorizzare.
---------------
3. Ciò chiarito, la doglianza difensiva non è fondata.
Il Gip ha affermato che, dalla nota dell'ARPAT del 03.10.2018, era
emerso che -essendo state rilevate macchie blu e verdi sia su alcune balle
che
sul terreno con conseguente contaminazione del suolo da idrocarburi, che
richiedeva l'avvio di un procedimento di bonifica ex
articolo 242 del TUA
con la
presentazione di un piano di caratterizzazione- l'interessato, siccome era
stato
registrato il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC),
avrebbe dovuto comunicare agli enti competenti entro un mese dalla data di
campionamento il "piano di caratterizzazione" per la sua approvazione, e
successivamente richiedere il dissequestro definitivo allo scopo di mettere
in
opera detto piano, smaltire o eventualmente recuperare i materiali
costituenti le
balle e mandare a ditte autorizzate i rifiuti da costruzione e demolizione
per
essere recuperati.
E' stato pertanto osservato che la relazione presentata dall'indagato (cd.
"piano di lavoro") non poteva essere intesa quale sostitutiva di un piano di
caratterizzazione che, invece, solo gli enti competenti possono valutare e
autorizzare.
La motivazione è corretta.
L'articolo 242, commi 1, 2 e 3, d.lgs. n. 152 del 2006 prevede, per quanto
qui interessa, che, al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in
grado di
contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento deve mettere in opera
entro
ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e deve darne immediata
comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 304, comma 2.
La
medesima procedura si applica all'atto di individuazione di contaminazioni
storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della
situazione
di contaminazione.
Inoltre, il responsabile dell'inquinamento, attuate le necessarie misure di
prevenzione, deve svolgere, nelle zone interessate dalla contaminazione,
un'indagine preliminare sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove
accerti
che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia
stato
superato, è tenuto al ripristino della zona contaminata, dandone notizia,
con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per
territorio
entro quarantotto ore dalla comunicazione.
Qualora, poi, l'indagine preliminare, di cui al
comma 2 dell'articolo 242,
accerti l'avvenuto superamento, come nella specie, delle CSC anche per un
solo
parametro, il responsabile dell'inquinamento deve darne immediata notizia al
comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle
misure
di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate.
Nei successivi
trenta giorni, deve presentare alle predette amministrazioni, nonché alla
regione
territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di
cui
all'allegato 2 alla parte quarta del decreto n. 152 del 2006. Entro i trenta
giorni
successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il
piano di
caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L'autorizzazione
regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla
caratterizzazione,
sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa,
nulla
osta da parte della pubblica amministrazione.
Va poi ricordato che l'articolo 240 del d.lgs. n. 152 del 2006 contiene,
alla
lettera d), la nozione del sito potenzialmente contaminato, che definisce
come
"un sito nel quale uno o più valori di concentrazione delle sostanze
inquinanti
rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di
concentrazione
soglia di contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di
caratterizzazione e di analisi di rischio sanitario e ambientale sito
specifica, che
ne permettano di determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base
delle
concentrazioni soglia di rischio (CSR)".
Pertanto non ha alcun rilievo l'assunto del ricorrente, del tutto
indimostrato,
secondo il quale non sarebbe stato cagionato alcun danno o pericolo concreto
e
attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche
protette.
Rileva invece che sono stati superati i livelli di contaminazione delle
matrici
ambientali ed il superamento dei valori comporta necessariamente la
caratterizzazione del sito per cui, quando uno o più valori di
concentrazione delle
sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai
valori di
concentrazione soglia di contaminazione (CSC), il piano di caratterizzazione
deve
essere necessariamente conseguito e senza di esso non può definirsi la
procedura di bonifica ex
articolo 242 TUA e neppure la stessa può essere
correttamente avviata; tanto meno sono definibili le modalità e i tempi della rimessione in pristino del sito, risultando di conseguenza impossibile
verificare
una corretta attuazione della bonifica e tutto ciò esclude che possa essere
disposto il dissequestro
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.07.2019 n. 30702). |
EDILIZIA PRIVATA: Incostituzionale
il divieto di recinzione dei terreni agricoli che incide sulla facoltà
proprietaria di chiudere il fondo previsto dalla legge regionale.
La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della
disciplina regionale dell’Umbria che vieta, salve limitate deroghe
strettamente necessarie alla protezione di edifici ed attrezzature
funzionali anche per le attività zootecniche, la recinzione dei terreni. Con
la previsione di un divieto di recinzione che non interviene su un aspetto
specifico correlato al governo del territorio e che incide sulla facoltà di
chiudere il fondo, attribuzione tipica del diritto di proprietà, il
legislatore regionale ha travalicato i limiti della competenza concorrente
in materia di governo del territorio e di quella statale in materia di
ordinamento civile
(Corte Costituzionale,
sentenza 12.07.2019 n. 175).
---------------
Edilizia e urbanistica – Regione Umbria – Zone agricole – Recinzione dei
terreni – Limiti – Incostituzionalità.
E’ incostituzionale l’art. 89, comma 2, ultimo
periodo, della legge della Regione Umbria 21.01.2015, n. 1 (Testo unico
governo del territorio e materie correlate), nella parte in cui vieta, nelle
zone agricole, ogni forma di recinzione dei terreni non espressamente
prevista dalla legislazione di settore o non giustificata da motivi di
sicurezza, purché strettamente necessaria a protezione di edifici ed
attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche (1).
---------------
(1) I. – La sentenza in rassegna ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 89, comma 2, della legge regione Umbria per la
parte in cui vieta, salve le limitate deroghe ammesse, ogni forma di
recinzione dei terreni agricoli in assenza di specifiche previsioni della
legislazione di settore o di esigenze di sicurezza pubblica.
La questione era stata rimessa dal
Tar per l’Umbria, sez. I, ordinanza 08.10.2018, n. 521 (oggetto
della
News US in data 17.10.2018, cui si rinvia per i riferimenti di
dottrina e giurisprudenza).
Il giudizio amministrativo a quo ha ad oggetto l’ordinanza comunale di
demolizione di opere abusive, consistenti nella realizzazione di una
recinzione elettrificata, come sistema difensivo dalla fauna selvatica, a
delimitazione di terreni agricoli con impianto colturale a frutteto.
Nel dettaglio, l’opera consisteva in una recinzione estesa per circa 3 km
senza soluzione di continuità, posta in area agricola non soggetta a vincolo
paesaggistico e costituita da paletti metallici ad altezza massima di mt.
1,50 distanziati tra loro mt. 6 con 4 ordini di filo metallico elettrificato
e 8 aperture di circa mt. 6 l’una; tali modalità costruttive erano descritte
nell’ordinanza come idonee a consentire il normale passaggio di animali di
piccole e medie dimensioni, fatta eccezione degli ungulati.
Il Tar per l’Umbria, ha sollevato q.l.c. –per contrasto con gli artt. 3, 42,
97 e 117, commi 2, lett. l), e 3, Cost.– del predetto art. 89, comma 2,
nell’ipotesi in cui detta norma debba intendersi come diretta ad escludere
l’ammissibilità dei sistemi di difesa passivi nei confronti degli animali
selvatici. Il Collegio aveva evidenziato che:
a) la recinzione è riconducibile alle
manifestazioni del diritto di proprietà quando consista di materiale di
scarso impatto visivo e si configuri come un intervento di dimensioni
ridotte, privo di opere murarie di sostegno. In presenza di tali
caratteristiche essa:
a1) assolve
una mera funzione di difesa della proprietà dalle ingerenze materiali;
a2) è
strumentale all’esercizio dello ius excludendi alios (Consiglio di
Stato, sezione VI, 04.07.2014, n. 3408, in Foro amm., 2014, 7-8, 208), che
si traduce nella facoltà di delimitare e di conferire l’assetto più
opportuno alle singole proprietà, allo scopo di separarle dalle altre, di
custodirle e di proteggerle da eventuali intrusioni;
b) quando invece la recinzione, per le modalità
costruttive prescelte, determini un’apprezzabile alterazione ambientale,
estetica e funzionale e si atteggi, pertanto, come esercizio dello ius
aedificandi, è indispensabile il previo rilascio di un idoneo titolo
abilitativo;
c) la distinzione tra esercizio dello ius
excludendi alios ed esercizio dello ius aedificandi deve essere
condotta alla stregua delle caratteristiche concrete del manufatto e
dell’impatto che esso produce sul territorio (Consiglio di Stato, sezione
VI, 12.06.2019, n. 3932, in www.dejure.it).
II. – La Corte, con la sentenza in rassegna:
d) ha ritenuto fondata nel merito la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 2, ultimo periodo, della
legge regionale di cui trattasi sulla base delle seguenti considerazioni:
d1) la giurisprudenza
amministrativa è costante nell’affermare che la facoltà di chiudere il
fondo, attribuzione tipica del diritto di proprietà, può essere limitata e
conformata dalle norme urbanistiche soltanto in funzione di preminenti
interessi pubblici (Tar per la Lombardia-sezione staccata di Brescia,
sezione I, 04.03.2015, n. 362, in www.dejure.it; Tar per il Piemonte,
sezione II, 10.05.2012, n. 532, in Foro amm. TAR, 2012, 5, 1471; Tar per la
Lombardia-sezione staccata di Brescia, sezione I, 05.02.2008, n. 40, in Foro
amm. TAR, 2008, 2, 398);
d2) nel caso di specie la
Regione Umbria, nel vietare nelle zone agricole le recinzioni dei terreni
con deroga per quelle strettamente necessarie a protezione di edifici ed
attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche, ha dettato una
previsione di valenza generale riconducibile all’ambito dei rapporti
interprivati e di disciplina del contenuto del diritto di proprietà;
d3) la previsione censurata:
colpisce anche quelle recinzioni che non determinano alcuna trasformazione
del territorio e sono espressione dello ius excludendi alios; incide
sul potere del privato proprietario di chiudere il fondo in ogni tempo;
esclude in via generale una facoltà che il codice civile considera, per
contro, parte integrante del diritto di proprietà;
d4) la previsione non
interviene, dunque, su un aspetto specifico correlato al governo del
territorio, ma limita un potere tradizionalmente oggetto di codificazione e
si prefigge di regolarne il contenuto;
d5) conseguentemente, il
legislatore regionale ha travalicato sia la competenza legislativa esclusiva
statale legiferando nella materia dell’ordinamento civile di competenza
esclusiva dello Stato (Corte cost., 27.06.2013, n. 159, in Giur. costit.
2013, 3, 2327, con nota di MOSCARINI; Corte cost., 06.11.2001, n. 352, in
Urbanistica e appalti, 2001, 12, 1297; Giur. costit., 2001, 6; Foro it.
2002, I, 638; Regioni, 2002, 579, con nota di LAMARQUE), sia la competenza
concorrente in materia di governo del territorio, la quale riconosce la
potestà regionale di dettare prescrizioni di dettaglio sugli interessi
legati all’uso del territorio in conformità con i princìpi fondamentali
enunciati dalla legislazione statale (Corte cost., 11.05.2017, n. 105, in
www.federalismi.it, con
nota di SALVAGO).
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
e) sulla ripartizione della potestà legislativa
in materia di ordinamento civile, in aggiunta alle pronunce richiamate
nell’ordinanza di rimessione, si vedano in particolare:
e1) Corte cost., 21.03.2019, n.
62 (in Foro it., 2019, I, 1474), secondo cui è evidente la “riconducibilità
della disciplina del lavoro pubblico contrattualizzato all’ordinamento
civile e alla norma di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 che, a propria volta,
rinvia alla contrattazione collettiva”, di competenza esclusiva dello
Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. In senso
analogo: Corte cost., 23.07.2018, n. 172 (in Foro it., 2018, I, 3814, con
nota di richiami e osservazioni di D'AURIA), che ha, tra l'altro, dichiarato
incostituzionale l'art. 55 l.reg. Siciliana 11.08.2017, n. 16, nella parte
in cui includeva nell'ambito applicativo del contratto collettivo nazionale
di lavoro per i dipendenti della sanità il personale in posizione di comando
presso l'agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (Arpa),
attribuendo ad essa (in contrasto con la disciplina dell'art. 70, 12° comma,
d.leg. 30.03.2001, n. 165, che prevede il rimborso all'amministrazione di
appartenenza, da parte dell'amministrazione utilizzatrice, dell'onere
relativo al trattamento fondamentale) l'obbligo di corrispondere il
trattamento economico al personale di altre amministrazioni comandato presso
la stessa agenzia;
e2) Corte cost., 10.11.2017, n. 234 (in Rass. dir. farmaceutico 2017, 6,
1203 e Giur. costit. 2017, 6, 2367), che ha dichiarato incostituzionale la
normativa della regione Umbria che estendeva le procedure concorsuali di
stabilizzazione del personale precario del comparto sanitario —regolate a
livello nazionale dal d.P.C.M. 06.03.2015— anche al personale dirigente del
ruolo professionale, tecnico e amministrativo, in quanto detta normativa
regionale legiferava, con fonte legislativa primaria, una materia, quella
dell'ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato;
e3) Corte cost., 13.07.2017, n 175 (in Giur. costit. 2017, 4, 1631 e Forum
di Quaderni costituzionali, annotata da DE GOTZEN); Corte cost., 11.07.2017,
n. 160 (in Foro it., 2017, I, 3577, con nota di richiami e Giur. costit.
2017, 4, 1476), che ha dichiarato incostituzionale l'art. 8, secondo comma,
l.reg. Liguria n. 8 del 2016, nella parte in cui prevedeva che, qualora la
seduta dell'assemblea consiliare regionale si protragga oltre le ore
ventuno, al personale impegnato nell'attività di supporto diretto
all'attività consiliare spettasse il trattamento previsto dalla
contrattazione collettiva nazionale di lavoro in caso di trasferta e che il
medesimo trattamento di trasferta venga riconosciuto al personale autista,
anche in caso di missioni inferiori alle otto ore, se il servizio termina
dopo le ore ventidue;
f) sulla nozione di muro di cinta elaborata dalla
giurisprudenza, si vedano, tra le altre:
f1) Cons. Stato, sezione V, 08.04.2014, n. 1651 (in Foro amm., 2014, 1077),
secondo cui “per muro di cinta, nella dizione contenuta nell'art. 4, 7º
comma, lett. c), d.l. 05.10.1993 n. 398, conv. con modif. in l. 04.12.1993
n. 493, e sostituito per effetto dell'art. 2, 60º comma, l. 23.12.1996 n.
662, devono intendersi le opere di recinzione; non suscettibili di
modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che
assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di
delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà; ben diversa è
invece la consistenza e la funzione dei c.d. «muri di contenimento», i quali
si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la
funzione, ma anche perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare
movimenti franosi dello stesso e quindi devono necessariamente presentare
una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive; di
conseguenza il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla
situazione dei luoghi, anche una concomitante funzione di recinzione, sotto
il profilo edilizio è un'opera ben più consistente di una recinzione in
quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e,
soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla
sua funzione principale; il che esclude la sua riconducibilità al concetto
di pertinenza, conseguendone sia la necessità del suo assoggettamento al
regime concessorio, sia la legittimità della sanzione della demolizione
prevista per il caso di assenza di concessione”;
f2) Cass. civ., 03.09.1991, n. 9348 (in Foro it., Mass., 1991), secondo cui
“il muro di cinta che a norma dell'art. 878, primo comma, c.c., non va
considerato ai fini delle distanze, deve rispondere al triplice requisito:
di essere essenzialmente destinato a recingere una determinata proprietà,
allo scopo di separarla dalle altre, custodirla e difenderla da intrusioni;
di non superare l'altezza di tre metri; di costituire un muro isolato, le
cui facce, cioè, emergono dal suolo e sono isolate da ogni altra costruzione”;
f3) Cass. civ., 15.11.1986, n. 6737 (in Foro it., Mass., 1986), secondo cui
“i muri di cinta non considerati agli effetti delle distanze legali sono
quei muri, caratterizzati dall'altezza non superiore a tre metri e dalla
destinazione attuale alla delimitazione ed alla protezione del fondo, che,
per avere le facce entrambe isolate, non creano intercapedine tra volumi; in
detta categoria non rientrano pertanto i muri di cinta tra fondi a
dislivello, che assolvono anche alla ulteriore funzione di contenere la
scarpata o il terrapieno; questi viceversa, facendo corpo con il terreno che
essi sostengono e modificando, in particolare, attraverso l'opera dell'uomo,
lo stato naturale dei luoghi per la costruzione di un manufatto sono idonei
a creare intercapedini nocive con l'altrui costruzione, con conseguente
necessità di verificare in ciascuna concreta fattispecie se, avuto riguardo
alle loro particolari caratteristiche strutturali e dimensionali, siano da
considerare o meno alla stregua di un muro di fabbrica, agli effetti delle
distanze legali”;
g) sull’attività edilizia libera:
g1) Corte cost. 08.11.2017, n. 232, in Foro it., 2018, 6230, 27; Riv. giur.
ed., 2017, 5, I, 1021; Quotidiano Enti Locali, 2017; Giur. costit. 2017, 6,
2340, annotata da SAITTA: “È costituzionalmente illegittimo l'art. 3,
comma 2, lett. f), l.reg. Sicilia 10.08.2016, n. 16, nella parte in cui
consente di realizzare, senza alcun titolo abilitativo, tutti gli interventi
inerenti agli impianti ad energia rinnovabile di cui agli artt. 5 e 6 d.lgs.
03.03.2011, n. 28 senza fare salvo il previo espletamento della verifica di
assoggettabilità a VIA sul progetto preliminare, qualora prevista. […]”;
g2) Corte cost., 21.12.2016, n. 282 (in Foro Amministrativo, 2017, 6, 1215),
la quale ha precisato che le regioni possono sì estendere la disciplina
statale dell’edilizia libera ad interventi “ulteriori” rispetto a
quelli previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche
differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi
edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila.
L’omogeneità funzionale della comunicazione preventiva (asseverata o meno)
rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di
costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla norma che la
prescrive ‒al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi‒
la natura di principio fondamentale della materia del “governo del
territorio”, in quanto ispirata alla tutela di interessi unitari
dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto il
territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni
regionali (sentenza n. 231 del 2016, in Dir. e giustizia, 2016).
Ne consegue che è precluso al legislatore regionale di discostarsi dalla
disciplina statale e di rendere talune categorie di opere totalmente libere
da ogni forma di controllo, sia pure indiretto mediante denuncia.
Sulla base di tale premessa la Corte ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo l’art. 4 della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, nella
parte in cui esso ha ricondotto all'edilizia libera opere non contemplate
come rientranti in tale regime dalla legislazione statale;
h) sul rapporto tra titolo edilizio, recinzioni e
muretti divisori, anche in relazione al mutamento della destinazione
funzionale dell’opera, si vedano:
h1) C.g.a., sezioni riunite, 19.11.2018, n. 336 (in
www.giustiziaamministrativa.it), secondo cui: “va ricordato il pacifico
orientamento giurisprudenziale, secondo cui la valutazione in ordine alla
necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di
recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di conseguenza, si
ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che
non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in
rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di
sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione
rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo
“ius excludendi alios” o, comunque, la delimitazione delle singole
proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo
durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio […]”; in
termini, Cons. Stato, sezione V, 09.04.2013, n. 1922 (in Foro amm.-Cons.
Stato, 2013, 937);
h2) Cons. Stato, sezione VI, 04.01.2016, n. 10 (in Comuni d'Italia, 2016, 1,
86), secondo cui “è illegittimo l'ordine di demolizione di un muretto
divisorio in cemento armato posto su di un lato di un lotto di terreno
realizzato senza la previa acquisizione del permesso di costruire,
considerato che più che all'astratto genus o tipologia di intervento
edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali a chiudere i
confini sui fondi finitimi) occorre far riferimento all'impatto effettivo
che le opere a ciò strumentali generano sul territorio: con la conseguenza
che si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione (con
quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli
abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare
significative trasformazioni urbanistiche e edilizie; sulla base di tale
approccio attento al rapporto effettivo dell'innovazione con la preesistenza
territoriale, e che prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per
qualificare l'opus quale muro di recinzione (o altre simili), la
realizzazione di muri di cinta di modesti corpo e altezza è generalmente
assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui
all'art. 22 d.p.r. n. 380 del 2001 e, in seguito, al regime della
segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo art. 19 l. n.
241 del 1990”;
h3) Cass. pen., sez. III, 11.11.2014, n. 52040, secondo cui “in tema di
reati edilizi, la realizzazione di un muro di recinzione necessita del
previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo
alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale
da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel
novero degli «interventi di nuova costruzione» di cui all'art. 3, lett. e),
d.p.r. n. 380 del 2001 (fattispecie relativa a muro in cemento armato avente
spessore di cm. venticinque ed un'altezza di circa metri uno virgola
ottanta)”;
h4) Cons. Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4860 (in Foro amm.-Cons. Stato,
2013, 2484), secondo cui “il titolo edilizio originariamente rilasciato,
che riguardava la recinzione di un terreno a meri fini e scopi di difesa
della proprietà, non può giustificare il successivo mutamento della
destinazione funzionale dell'opera in recinzione di suolo trasformato con
opere edilizie e al servizio di manufatti abusivi in difetto di nuovo titolo
edilizio che, sia pure in sanatoria, possa legittimarne la permanenza e
l'utilizzazione pertinenziale diversa, ma ne implica l'abusività, proprio
perché è carente qualsivoglia provvedimento autorizzativo che ne abbia
accertato la conformità urbanistico-edilizia”;
h5) Cons. Stato, sez. V,
09.04.2013, n. 1922 (in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 937), secondo cui “il
permesso di costruire non è necessario per modeste recinzioni di fondi
rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete
metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno,
in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni
del diritto di proprietà, che comprende lo jus excludendi alios; occorre,
invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di
sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (nella specie, la
recinzione era stata effettuata con un manufatto con profilati di cemento,
lungo trecentoquarantasei metri e con un'altezza di metri due e cinquanta)”;
i) in dottrina:
i1) sugli aspetti penali delle opere a difesa della proprietà, e delle
recinzioni in particolare, v. V. POLI, in Testo unico dell’edilizia, a cura
di M.A. SANDULLI, Milano, 2015, 973 ss.;
i2) sulle opere a difesa della proprietà e sulle recinzioni, v. P. BERESUTTI,
in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN – TRABUCCHI, Padova,
2014, 875 e 915 ss.;
i3) sugli appostamenti fissi per la caccia in relazione all’art. 6 t.u.
edilizia (attività libera), si veda Corte cost., 13.06.2013, n. 139 (in Foro
it., 2013, I, 2061, con nota di ROMBOLI; in Giurisdiz. amm., 2013, III, 441,
e in Riv. giur. ambiente, 2013, 723, con nota di GRATANI; in Dir. e giur.
agr. e ambiente, 2014, 56, con nota di GORLANI);
i4) sul rapporto tra facoltà del proprietario e poteri pubblici in materia
urbanistica ed edilizia: F. GAFFURI, Il permesso di costruire e i diritti
dei terzi, in Urbanistica e appalti, 2012, 2, 150; A. M. BENEDETTI, Norme
regionali, distanze legali tra edifici e "ordinamento civile": si può
fare, ma dipende dallo "scopo", in Corr. giur., 2013, 8, 1059-1063;
G. PAGLIARI, M. SOLLINI, G. FARRI, Regime della proprietà privata tra
vincoli e pianificazione dall'unità d'Italia ad oggi, in Riv. giur.
edilizia, 2015, 6, 282; M. PALMA, Edilizia e urbanistica - il doppio limite
di edificabilità ex art. 9, d.p.r. n. 380/2001 di fronte alla corte
costituzionale, in Giur. it., 2016, 4, 956; L. GRIMALDI, Quali spazi per la
legislazione regionale nella disciplina degli interventi di “manutenzione”
degli immobili?, in Consulta on-line, I, 2017; A. IACOVIELLO, Il riparto
della competenza legislativa tra lo Stato e le Regioni in materia di beni
minerari, in Riv. giur. edilizia, 2018, 3, 153; G. SICCHIERO, Condominio e
barriere architettoniche - dalla solidarietà costituzionale alla solidarietà
condominiale, in Giur. it., 2018, 1, 69; E. BUOSO,
La disciplina dei terreni gravati da usi civici e delle terre collettive tra
paesaggio e ordinamento civile, in www.forumcostituzionale.it,
2019; S. AMOROSINO, Una rilettura costituzionale della proprietà a rilevanza
urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 2019, 1, 3;
i5) sul rapporto tra ordinamento civile e disciplina dei contratti pubblici:
G. ALPA, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale,
Contratto e impresa, 2002, 2, 597; G. ALPA, «L’ordinamento civile»
nella recente giurisprudenza costituzionale, Contratti, 2004, 2, 175; E.
GRAGNOLI, procedura negoziale ed ordinamento civile, Argomenti Dir. Lav.,
2007, 2, 2009; L. TORMEN, Regioni e province autonome - «il diritto
privato regionale: quali possibilità di deroga all’ordinamento civile
statale?», in Nuova giur. comm., 2017, 7-8, 968; P. CARLUCCIO PINA, R.
FINOCCHI GHERSI, Ordinamento civile e limiti alla competenza regionale nella
disciplina degli appalti, in Giornale dir. amm., 2011, 4, 419; C. CONTESSA,
Il codice dei contratti prevale anche sulla normativa delle regioni a
statuto speciale, in Urbanistica e appalti, 2009, 3, 301;
i6) sull’ordinamento civile e la disciplina regionale del procedimento
amministrativo: V. NERI, Potestà legislativa regionale e "nullità
regionale" del provvedimento amministrativo, in Urbanistica e appalti
2014, 2, 215, il quale ha dubitato della “possibilità per il legislatore
regionale di intervenire con la sanzione della nullità del provvedimento
amministrativo (il bando di gara) non rispettoso delle prescrizioni di legge
senza violare la competenza statale in materia di "giustizia amministrativa"
[…] nonché sulle conseguenze della nullità del bando con riferimento al
contratto a valle stipulato e l'eventuale interferenza con la materia
«ordinamento civile»”;
i7) sull’ordinamento civile e il pubblico impiego locale e regionale: A.M.
BENEDETTI,
Lavoro privato,
lavoro pubblico e "ordinamento civile": quali spazi per le Regioni?,
in www.giurcost.org, 2010; A. BOSCATI, Ordinamento civile per incarichi
dirigenziali ad esterni e per procedure di mobilità tra enti, in Riv. it.
dir. lav., 2011, II, 1203; F. GHERA, Ordinamento civile e autonomia
regionale: alla ricerca di un punto di equilibrio, Giur. cost., 2011, 1164;
G. FONTANA, Spunti critici in tema di ordinamento civile e disciplina
dell'impiego pubblico, in Giur. costit., 2013, 1161; R. COCCIOLITO,
Una pronuncia sulla mobilità dei dirigenti regionali offre lo spunto per
riflettere ancora sulla natura e la portata della materia "ordinamento
civile", in www.osservatorioaic.it, 2014; S. DE GOTZEN,
Procedure di mobilità nel lavoro pubblico, assegnazione a mansioni superiori
dirigenziali tra organizzazione regionale e "ordinamento civile",
in www.forumcostituzionale.it, 2014; C. PADULA,
Il riparto delle competenze legislative fra Stato e regioni in materia di
pubblico impiego, in www.federalismi.it, 2017;
i8) sull’attività edilizia libera e relativi limiti: D. CHINELLO, L’attività
edilizia libera fra comunicazione al comune e relazione asseverata, in
Immobili e proprietà, 2010, 7; L. BISORI, Attività edilizia libera e
strumenti urbanistici applicabili, in Urbanistica e appalti, 2011, 7, 871;
D. ZONNO, La “nuova” manutenzione straordinaria dopo il decreto
sblocca-Italia, in Riv. giur. edilizia, 2014, 6, 53; M. BREGANZE, L'attività
edilizia libera, in Riv. giur. urbanistica, 2015, 1; G. GUZZARDO;
Semplificazioni e complicazioni nei titoli edilizi, Riv. giur. edilizia,
2015, 2, 35; E. BOSCOLO, I decreti attuativi della legge Madia:
liberalizzazioni e ridisegno del sistema dei titoli edilizi, Riv. giur.
edilizia, 2016, 6, 601; A. SENATORE, L’attività edilizia libera, in
Urbanistica e appalti, 2017, 2, 278; G. RIZZI, L’attività di edilizia
libera, in Immobili e proprietà, 2018, 7, 431; E. AMANTE, Ancora sui profili
sostanziali e procedimentali dell’attività edilizia libera e della c.i.l.a.,
in Urbanistica e appalti, 2019, 2, 229
(Corte Costituzionale,
sentenza 12.07.2019 n. 175). |
APPALTI: Sospensione
del giudizio proposto avverso l'interdittiva antimafia se è stato nominato
un amministratore giudiziario per il controllo della società.
---------------
Informativa antimafia - Amministratore giudiziario - Nomina - Effetti.
Qualora sia stato nominato un amministratore
giudiziario per il controllo della società per due anni, ai sensi dell’art.
34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, inserito dall’art. 11, comma 1, l.
n. 161 del 2017, deve essere sospeso il giudizio proposto avverso l'interdittiva
antimafia per tutto il periodo della misura del controllo giudiziario (1).
---------------
(1) Ha ricordato la Sezione che ai sensi dell’art. 34-bis, comma 7,
d.lgs. n. 159 del 2011, il provvedimento che dispone l’amministrazione
giudiziaria prevista dall’art. 34 o il controllo giudiziario ai sensi del
comma 6 dello stesso articolo sospende gli effetti di cui all’art. 94,
derivanti dall’emissione del provvedimento antimafia.
Tale sospensione degli effetti interdittivi, quale conseguenza scaturente
ex lege dal provvedimento che dispone il controllo giudiziario, comporta
anche la sospensione del giudizio avente ad oggetto l’informativa antimafia.
Quindi, una volta disposto il controllo giudiziario, la sospensione degli
effetti interdittivi conseguenti all’informazione antimafia deve operare
indefettibilmente per tutto il tempo della misura del controllo giudiziario
adottata dal Tribunale in sede di prevenzione
(Consiglio di Stato, Sez. III,
ordinanza 10.07.2019 n. 4873 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Fideiussione
rilasciata da un soggetto che non è
debitamente autorizzato ad operare nel
territorio della Repubblica.
La presentazione di una
fideiussione rilasciata da un soggetto che
non è debitamente autorizzato ad operare nel
territorio della Repubblica è equiparabile
alla mancata prestazione della cauzione e
non ad una semplice irregolarità della
fideiussione presentata, in quanto
l’extraterritorialità comporta che la
garanzia risulti improduttiva di effetti,
non potendo ex se valere nei confronti dello
Stato o altro ente pubblico (fattispecie in
tema di garanzia prestata per il pagamento
rateale del contributo di costruzione)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.07.2019 n. 1585 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è infondato.
Ai sensi dall’art. 16 del DPR 380/2001 La
quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al comune
all'atto del rilascio del permesso di
costruire e, su richiesta dell'interessato,
può essere rateizzata (comma 2) e La quota
di contributo relativa al costo di
costruzione, determinata all'atto del
rilascio, è corrisposta in corso d'opera,
con le modalità e le garanzie stabilite dal
comune, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione della costruzione (comma 3).
A sua volta la legge n. 348 del 1982
prevede, all’art. 1, che in tutti i casi in
cui è prevista la costituzione di una
cauzione a favore dello Stato o altro ente
pubblico, questa può essere costituita in
uno dei seguenti modi:
a) da reale e valida cauzione, ai sensi dell'articolo 54 del
regolamento per l'amministrazione del
patrimonio e per la contabilità generale
dello Stato, approvato con regio decreto
23.05.1924, n. 827, e successive
modificazioni;
b) da fidejussione bancaria rilasciata da aziende di credito di cui
all'articolo 5 del regio decreto-legge
12.03.1936, n. 375, e successive modifiche
ed integrazioni, ovvero da consorzi di
garanzia collettiva dei fidi iscritti
nell'albo degli intermediari finanziari,
previsto dall'articolo 106 del testo unico
delle leggi in materia bancaria e
creditizia, di cui al decreto legislativo
01.09.1993, n. 385, e sottoposti alla
vigilanza della Banca d'Italia ai sensi
dell'articolo 108 del medesimo testo unico;
c) da polizza assicurativa rilasciata da imprese di assicurazione
debitamente autorizzata all'esercizio del
ramo cauzioni ed operante nel territorio
della Repubblica in regime di libertà di
stabilimento o di libertà di prestazione di
servizi.
L’art. 2 prevede poi che diritti ed azioni,
di cui godeva il creditore beneficiario
della prestazione garantita da cauzione
costituita in uno dei modi sopra detti, si
trasferiscono in surrogazione a chi ha
prestato la cauzione a seguito di
inadempienza del debitore principale ed
incameramento della cauzione.
L’art. 42, co. 2, del DPR 380/2001 prevede
poi che "Il mancato versamento, nei
termini stabiliti, del contributo di
costruzione di cui all’articolo 16 comporta:
a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora
il versamento del contributo sia effettuato
nei successivi centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando,
superato il termine di cui alla lettera a),
il ritardo si protrae non oltre i successivi
sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando,
superato il termine di cui alla lettera b),
il ritardo si protrae non oltre i successivi
sessanta giorni…. 4. Nel caso di pagamento
rateizzato le norme di cui al secondo comma
si applicano ai ritardi nei pagamenti delle
singole rate.".
Se ne ricava che la
presentazione di una fideiussione rilasciata
da un soggetto che non è debitamente
autorizzato ad operare nel territorio della
Repubblica è equiparabile alla mancata
prestazione della cauzione e non ad un
semplice irregolarità della fideiussione
presentata, in quanto l’extraterritorialità
comporta che la garanzia risulti
improduttiva di effetti, non potendo ex
se valere nei confronti dello Stato o
altro ente pubblico, ai sensi della su
indicata normativa; circostanza quest’ultima,
del resto, non puntualmente contestata dalla
ricorrente, che si limita a richiamare
genericamente la prassi di altri enti
locali, senza peraltro fornire elementi
dettagliati in tal senso.
In merito, poi, all’addotta violazione del
dovere di trasparenza dell’azione
amministrativa, per non avere
l’Amministrazione indicato alla ricorrente
un termine di presentazione della nuova
garanzia o la data entro cui provvedere al
versamento della residua quota dovuta, in
applicazione dei principi di soccorso
istruttorio che diano modo al cittadino di
rimediare ad errori o incomprensioni tramite
la chiara enunciazione dei suoi obblighi, il
Collegio osserva quanto segue.
Innanzitutto la giurisprudenza (Consiglio di
Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2016 n. 778)
ha chiarito che mentre il
rilascio della garanzia (nel caso che ne
occupa fideiussoria) opera su un piano
paritetico disciplinato dal diritto civile,
la determinazione e la riscossione dei ratei
tardivamente versati ha un connotazione
pubblicistica, insita nel suo essere
concepita per operare in un contesto nel
quale si ha esercizio di una potestà
sanzionatoria, e dunque comporta l’esigenza
di osservare garanzie e formalità affatto
diverse da quelle che soprassiedono
all’attività negoziale. L’irrogazione delle
sanzioni serve a rafforzare norme di
condotta il cui rispetto appare essenziale
per l’ordinato sviluppo del territorio ed
assicurare la celere esecuzione delle opere
di urbanizzazione destinate alla
collettività (cfr., testualmente, art. 3 l.
n. 47/1985).
Secondo Consiglio di Stato, Ad. Plen.,
07.12.2016, n. 24, <<Un’amministrazione
comunale ha il pieno potere di applicare,
nei confronti dell’intestatario di un titolo
edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta
dalla legge per il caso di ritardo ovvero di
omesso pagamento degli oneri relativi al
contributo di costruzione anche ove, in caso
di pagamento dilazionato di detto
contributo, abbia omesso di escutere la
garanzia fideiussoria in esito alla
infruttuosa scadenza dei singoli ratei di
pagamento ovvero abbia comunque omesso di
svolgere attività sollecitatoria del
pagamento presso il debitore principale>>.
Orbene, venendo al caso di specie, non è
possibile ritenere che il Comune abbia
violato l’obbligo del clare loqui, si
voglia ancorarne il fondamento al dovere di
trasparenza dell’azione amministrativa o
trovarne la fonte nei canoni civilistici
della correttezza e della buona fede
nell’adempimento delle obbligazioni ed in
sede di esecuzione contrattuale (artt. 1175
e 1375 cod. civ.).
Infatti la comunicazione del Comune è
pervenuta alla ricorrente in data
13.09.2017, solo due giorni dopo la consegna
della fideiussione, il cui controllo
richiedeva evidentemente un approfondimento
incompatibile con l’immediata reiezione
della fideiussione presentata, e quindi in
tempo ampiamente utile perché l’interessata
vi rimediasse entro il termine di trenta
giorni dal rilascio del permesso di
costruire (termine che sarebbe scaduto il
successivo 30 settembre).
Né occorreva specificare quale fosse tale
termine, se è vero che in sede di richiesta
del permesso di costruire la ricorrente
aveva sottoscritto un modulo che recava la
chiara indicazione “Modalità di
versamento: … La proprietà si impegna
inoltre a produrre, al Settore Sportello
unico per l’Edilizia entro 30 giorni dalla
data di emissione del permesso … le
fidejussioni per le rateizzazioni del
contributo di costruzione e dell’eventuale
monetizzazione nel caso di pagamento in
forma rateale … Si avvisa che la mancata
presentazione delle fidejussioni entro il
termine sopra indicato comporta: nel caso di
fidejussioni per le rateizzazioni la non
ammissione al pagamento in forma rateale e
pertanto l’obbligo della corresponsione
dell’intero importo in un’unica soluzione e
l’applicazione delle sanzioni previste
dall’art. 42 del D.P.R. 380/2001 …”.
Che il pagamento del contributo di
costruzione, quando da effettuare in
un’unica soluzione, dovesse avvenire entro
30 giorni dalla data di emissione del titolo
edilizio era stato ben chiarito nello stesso
modulo, sicché la scelta di non ricorrere ad
una nuova garanzia fideiussoria –scelta che
non poteva non essere effettuata entro il
30.09.2017 per le inequivoche indicazioni in
tal senso contenute nel “modulo” a
suo tempo sottoscritto– imponeva che entro
quella data si provvedesse al pagamento
della residua quota dovuta. Non si trattava,
insomma, di tempi incerti, essendo la
ricorrente in possesso di tutti gli elementi
di conoscenza necessari ad operare
correttamente e quindi ben in grado di
ricavare dalla sopraggiunta risposta
negativa dell’Amministrazione le conseguenze
del suo operare, secondo una diligenza media
da valutare in ragione di criteri di
ragionevole esigibilità.
Per quanto riguarda, poi, la denunciata
violazione dell’obbligo di soccorso
istruttorio, occorre rilevare che con la
comunicazione del 13.09.2017 il Comune aveva
anche indicato alla ricorrente l’elenco
delle società dichiarate dalla Banca
d’Italia prive di titolo ad operare sul
territorio nazionale, collaborando quindi
alla regolarizzazione della sua posizione.
In merito, poi, alla pretesa violazione
procedimentale per non essere stato concesso
un nuovo termine per la rateizzazione,
occorre rilevare che tale termine non è
stato assegnato dal Comune in quanto il
termine ordinario per depositare la
fideiussione, cioè il 30 settembre 2017, non
era ancora scaduto. La ricorrente aveva
ancora 17 giorni per presentare una nuova
fideiussione oppure per provvedere al
pagamento o per chiedere ulteriori
chiarimenti all’Amministrazione. Tardivo,
quindi, e perciò sanzionabile, si presenta
il versamento avvenuto solo in data
13.11.2017.
La legittimità e la correttezza della
condotta del Comune comporta la reiezione
della domanda risarcitoria presentata dalla
ricorrente. La scelta di rivolgersi ad un
istituto poi rivelatosi privo del necessario
titolo al rilascio della prescritta garanzia
fideiussoria è, invero, da addebitare
unicamente all’interessata, che avrebbe
dovuto evidentemente acquisire tutti gli
elementi di conoscenza necessari per
compiere una scelta corretta, alcun obbligo
di preventiva informativa gravando
sull’Amministrazione comunale, la quale,
peraltro, quando interpellata, ha poi
fornito indicazioni utili ad orientare le
successive decisioni della ricorrente.
In definitiva quindi il ricorso va respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, va rilevato che nel processo amministrativo la
controversia sulle sanzioni edilizie azionata dai diretti destinatari non
conosce controinteressati in senso tecnico, anche quando determinati
soggetti (in particolare i proprietari confinanti) conseguirebbero evidenti
vantaggi dalla demolizione delle opere sanzionate; in tal caso, resta salva
ovviamente la loro possibilità di intervenire ad opponendum.
Ciò in quanto
la qualità di controinteressato va riconosciuta nella compresenza
dell’elemento sostanziale, vale a dire al soggetto portatore di un interesse
analogo e contrario a quello che legittima la posizione del ricorrente, e
dell’elemento formale, costituito dall’indicazione nominativa del medesimo
soggetto nel provvedimento impugnato (ovvero la sua agevole individuabilità
in altro modo).
Da ciò consegue, ad esempio, che i concorrenti commerciali
dell’esercizio raggiunto da un ordine di demolizione non sono controinteressati non essendo indicati nell’atto sanzionatorio impugnato né
risultando titolari di un interesse diretto e contrario a quello azionato,
ma sono titolari di un interesse di fatto, tale da legittimare il loro
intervento ad opponendum.
---------------
... per l'annullamento
del provvedimento 13.09.2018 n. 8411 prot. del Responsabile dell'Area
Edilizia e Urbanistica del Comune di San Felice del Benaco di diniego
definitivo all'istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria e
di parere di compatibilità paesaggistica e di accertamento
dell’inottemperanza ad ordine di demolizione ed irrogazione della sanzione
amministrativa di € 20.000,00 ex art. 31, comma 4-bis, dPR n. 380/2001,
nonché
degli atti tutti presupposti, connessi e consequenziali.
...
La società Il Gi. srl ha impugnato, formulando anche istanza di
sospensione cautelare, il provvedimento, meglio indicato in epigrafe, con
cui il Comune di San Felice del Benaco ha respinto la domanda di rilascio di
permesso di costruire in sanatoria e di parere di compatibilità
paesaggistica, accertando contestualmente l’inottemperanza all’ordine di
demolizione ed irrogando la sanzione ex art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n.
380/2001.
...
In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum.
In linea generale, va rilevato che nel processo amministrativo la
controversia sulle sanzioni edilizie azionata dai diretti destinatari non
conosce controinteressati in senso tecnico, anche quando determinati
soggetti (in particolare i proprietari confinanti) conseguirebbero evidenti
vantaggi dalla demolizione delle opere sanzionate; in tal caso, resta salva
ovviamente la loro possibilità di intervenire ad opponendum. Ciò in quanto
la qualità di controinteressato va riconosciuta nella compresenza
dell’elemento sostanziale, vale a dire al soggetto portatore di un interesse
analogo e contrario a quello che legittima la posizione del ricorrente, e
dell’elemento formale, costituito dall’indicazione nominativa del medesimo
soggetto nel provvedimento impugnato (ovvero la sua agevole individuabilità
in altro modo); da ciò consegue, ad esempio, che i concorrenti commerciali
dell’esercizio raggiunto da un ordine di demolizione non sono
controinteressati non essendo indicati nell’atto sanzionatorio impugnato né
risultando titolari di un interesse diretto e contrario a quello azionato,
ma sono titolari di un interesse di fatto, tale da legittimare il loro
intervento ad opponendum (ex multis TAR Veneto, sez. I, 21.12.2015, n.
1372; TAR Lazio, Latina, sez. I, 17.04.2015, n. 346; TAR Liguria, sez.
I, 12.02.2015, n. 176; TAR Marche, Ancona, 20.06.2013, n. 468; TAR
Abruzzo, 31.08.2010, n. 616; TAR Liguria, sez. I, 21.04.2009,n. 779;
TAR Calabria, Catanzaro, sez. II; 01.07.2008, n. 1027).
Peraltro, nel caso in esame, gli intervenienti non esplicitano alcun
interesse, nemmeno di mero fatto, atteso che non evidenziano alcun danno
concreto nemmeno potenziale, in relazione agli abusi di cui si tratta,
limitandosi ad invocare una generica violazione della privacy, non meglio
specificata.
L’intervento è, dunque, inammissibile (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.07.2019 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istituto del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n.
241 del 1990, invero, stante la sua portata generale, trova applicazione
anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego
dell’istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio
della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il
soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque
della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una
diversa conclusione della vicenda.
---------------
Passando
al merito, come già anticipato in sede cautelare, i primi due motivi di
ricorso sono fondati.
E’, invero, fondato il dedotto vizio procedimentale.
L’istituto del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n.
241 del 1990, invero, stante la sua portata generale, trova applicazione
anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego
dell’istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall’invio
della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il
soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque
della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una
diversa conclusione della vicenda (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI,
02.05.2018, n. 2615) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.07.2019 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’istanza
di permesso di costruire in sanatoria può essere presentata anche oltre il
termine di 90 giorni indicato nell’ordine di demolizione, sempre che
-tuttavia- risulti proposta in assenza di accertamento (da parte
dell’Amministrazione) dell’inottemperanza dell’ordine di demolizione e,
comunque, prima dell’irrogazione delle sanzioni amministrative.
Il Collegio non ignora
che, sul punto specifico, si fronteggiano due opposti
orientamenti giurisprudenziali.
In particolare, un primo orientamento
ritiene che l’ordinanza di demolizione consolida i suoi effetti traslativi
automatici dopo 90 giorni e, quindi, l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere abusive opera di diritto e va riconnessa al mero
decorso del termine di 90 giorni assegnato con l’ingiunzione a demolire;
dunque, scaduto il termine di cui all’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380
del 2001, è legittimo il diniego di sanatoria a causa del difetto di
legittimazione a presentare l’istanza.
Secondo altro orientamento, il privato raggiunto dall’ordine di
demolizione può richiedere la sanatoria delle opere eseguite, ai sensi
dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, anche oltre il termine di 90 giorni dalla
notifica dell’ordinanza e ciò sulla base dello stesso tenore letterale del
comma 1 del predetto art. 36, che ammette la possibilità di ottenere il
permesso in sanatoria "fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli
31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle
sanzioni amministrative".
Per tale secondo orientamento, dunque, già dalla lettera della norma si
desume la possibilità di proporre la domanda di accertamento di conformità
in un momento successivo alla scadenza del termine ex art. 31, comma 3, ove
a tal momento non siano state ancora in concreto irrogate le sanzioni
amministrative;
Il termine di novanta giorni è, infatti, fissato unicamente per la
demolizione volontaria del manufatto abusivo (con il corollario che dopo il
decorso di detto termine la P.A. può procedere agli ulteriori adempimenti)
mentre, fino a quando l’opera esiste nella sua integrità ed il soggetto ne
conserva la titolarità, è sempre possibile richiedere la sanatoria, che ha
lo scopo di evitare le previste sanzioni amministrative.
---------------
Quanto alle censure di carattere sostanziale di cui al
secondo motivo, che
costituiscono il vero nodo centrale della controversia oggetto di giudizio,
il Collegio non ignora che, sul punto specifico, si fronteggiano due opposti
orientamenti giurisprudenziali.
In particolare, un primo orientamento
ritiene che l’ordinanza di demolizione consolida i suoi effetti traslativi
automatici dopo 90 giorni e, quindi, l’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere abusive opera di diritto e va riconnessa al mero
decorso del termine di 90 giorni assegnato con l’ingiunzione a demolire;
dunque, scaduto il termine di cui all’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380
del 2001, è legittimo il diniego di sanatoria a causa del difetto di
legittimazione a presentare l’istanza (ex multis, Consiglio di Stato, sez.
VI, 23.11.2017, n. 5471; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 11.07.2016,
n. 1877); secondo altro orientamento, il privato raggiunto dall’ordine di
demolizione può richiedere la sanatoria delle opere eseguite, ai sensi
dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, anche oltre il termine di 90 giorni dalla
notifica dell’ordinanza e ciò sulla base dello stesso tenore letterale del
comma 1 del predetto art. 36, che ammette la possibilità di ottenere il
permesso in sanatoria "fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli
31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle
sanzioni amministrative"; per tale orientamento, dunque, già dalla lettera
della norma si desume la possibilità di proporre la domanda di accertamento
di conformità in un momento successivo alla scadenza del termine ex art. 31,
comma 3, ove a tal momento non siano state ancora in concreto irrogate le
sanzioni amministrative; il termine di novanta giorni è, infatti, fissato
unicamente per la demolizione volontaria del manufatto abusivo (con il
corollario che dopo il decorso di detto termine la P.A. può procedere agli
ulteriori adempimenti) mentre, fino a quando l’opera esiste nella sua
integrità ed il soggetto ne conserva la titolarità, è sempre possibile
richiedere la sanatoria, che ha lo scopo di evitare le previste sanzioni
amministrative (TAR Lazio, Latina, 11.01.2018, n. 16; TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 05.07.2017, n. 3631).
Ebbene, nel caso in esame, va rilevato che l’istanza di permesso di
costruire in sanatoria, per quanto sia stata presentata indubbiamente oltre
il termine di 90 giorni indicato nell’ordine di demolizione, risulta
comunque proposta in assenza di accertamento (da parte dell’Amministrazione)
dell’inottemperanza dell’ordine di demolizione, che non può essere presunto
unicamente sulla base della stessa presentazione dell’istanza di sanatoria
e, comunque, prima dell’irrogazione delle sanzioni amministrative.
Permane, pertanto, in capo all’Amministrazione Comunale il dovere di
valutare nel merito l’istanza proposta dalla ricorrente, al fine di
verificarne la conformità ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001,
atteso che alla data di presentazione la stessa non aveva ancora accertato
l’inottemperanza all’ordine di demolizione e proceduto alla demolizione
delle opere abusive.
Sotto tale profilo, pertanto, le censure articolate in ricorso sono fondate
e vanno accolte, con conseguente annullamento dell’atto impugnato
limitatamente al rigetto dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria
con chiusura del relativo procedimento (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.07.2019 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
consigliere comunale può avere le credenziali di accesso a protocollo e
sistema contabile dell'ente.
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art.
43 cit. del TUEL va oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale
processo di digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività
amministrativa, risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e
alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr.
art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni sono
formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso
delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano
la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da
parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art. 50,
co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la
più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile
conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di
una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è
inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il
consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive
connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità
informatica, con accesso da remoto.
---------------
Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con
corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità
organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità
dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da
remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica).
---------------
... per l'annullamento della nota del Comune di Vietri di Potenza, prot. 467
del 16/01/2019, di diniego e rifiuto in ordine alla richiesta del 17/12/2018
di rilascio delle credenziali e della password di accesso da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell'Ente.
...
1. Con il ricorso in epigrafe, spedito per la notificazione in data
09/02/2019, il sig. Ca.Gr., nella sua qualità di consigliere comunale di
minoranza del Comune di Vietri di Potenza, ha impugnato il provvedimento
comunale, prot. 467 del 16/01/2019, con cui non è stata accolta la sua
richiesta, formulata in data 17/12/2018, di rilascio delle credenziali per
accesso da remoto al protocollo informatico e al sistema informatico
contabile dell’Ente.
1.1. Il provvedimento comunale è motivato in quanto “l’applicativo
riferito al protocollo non è ancora funzionante al 100% e pertanto
vulnerabile ad eventuali azioni di hacheraggio”.
1.2. Il ricorso è affidato al seguente motivo:
- Interesse ad agire; Violazione e falsa applicazione degli artt.
3, 97 costituzione; Violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del d.lgs.
267/2000 e degli artt. 22 e ss l. 241/1990; Violazione e falsa applicazione
del d.lgs. n. 82 del 07.03.2005; Violazione e falsa applicazione del
principio di economicità dell’azione amministrativa; Eccesso di potere per
contraddittorietà incongruità, illogicità ed irragionevolezza, carenza di
istruttoria e di motivazione-mancato esercizio dell’azione amministrativa.
Mancata valutazione degli interessi in gioco - sviamento-carenza assoluta di
istruttoria-omessa valutazione dei presupposti giuridici - violazione del
giusto procedimento e dell’agire amministrativo-ingiustizia manifesta.
Il provvedimento sarebbe illegittimo in quanto contrastante con l’art. 43
del d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico enti locali), che riconosce ai
consiglieri comunali e provinciali il “diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed
enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del loro mandato”.
Tale diritto dovrebbe essere esercitabile anche con modalità elettroniche,
stante quanto disposto dall’art. 2 del d.lgs. n. 82/2005 (Codice
dell’Amministrazione digitale), secondo cui “le autonomie locali
assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tal fine utilizzando con le modalità più
appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli
utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
In tal senso non sarebbe apprezzabile la giustificazione addotta dal Comune
a fondamento del mancato accoglimento della richiesta di accesso da remoto.
D’altra parte, la ritenuta esistenza di problemi nell’applicativo
sembrerebbe contraddetta dalla circostanza che il medesimo Comune, in data
04/07/2018, avrebbe acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro
consigliere comunale.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di Vietri di Potenza che resiste
all’accoglimento del ricorso in quanto l’Amministrazione si sarebbe limitata
a rinviare l’accesso, ma non a negarlo. Inoltre, la richiesta modalità di
accesso non sarebbe ammissibile in quanto renderebbe possibile un accesso
generalizzato all’attività amministrativa, svincolato dall’esercizio del
mandato elettorale.
3. Alla camera di consiglio del 03/07/2019 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
4. Il ricorso è fondato nei sensi di seguito esposti.
Deve ritenersi che il diritto di accesso dei consiglieri comunali ex art. 43
cit. del TUEL, cui è funzionalmente connessa la richiesta del ricorrente, va
oggi necessariamente correlato al progressivo e radicale processo di
digitalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa,
risultante dal Codice dell’Amministrazione digitale.
Tale disciplina, per quanto di rilievo, impone allo Stato, alle regioni e
alle autonomie locali di assicurare "la disponibilità, la gestione,
l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità
dell'informazione in modalità digitale", "utilizzando con le modalità
più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (cfr.
art. 2, co. 1), precisando che "i dati delle pubbliche amministrazioni
sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l'uso
delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione che ne consentano
la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall'ordinamento, da
parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei privati" (cfr. art.
50, co. 1).
Partendo dalla lettura combinata di tali precisi riferimenti normativi, la
più recente giurisprudenza amministrativa è giunta alla condivisibile
conclusione per cui l'Amministrazione comunale ha il dovere di dotarsi di
una piattaforma integrata di gestione documentale, nell'ambito della quale è
inserito anche il protocollo informatico. Corrispondentemente, il
consigliere comunale ha il diritto di soddisfare le esigenze conoscitive
connesse all’espletamento del suo mandato anche attraverso la modalità
informatica, con accesso da remoto (cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II,
04.04.2019, n. 545; TAR Sardegna, 04.04.2019, n. 317).
Alla luce di tali assunti, va rilevata l’illegittimità della nota impugnata,
in quanto recante un sostanziale e ingiustificato diniego alla richiesta
ostensiva del ricorrente, in violazione dell’art. 43 TUEL. Invero,
l’esigenza conoscitiva del ricorrente è rimasta insoddisfatta sine die
e comunque sino al momento di assunzione in decisione del ricorso, malgrado
il decorso di diversi mesi dalla sua introduzione, nel corso dei quali
l’Amministrazione nulla ha fatto per rimuovere i presunti ostacoli di
sicurezza informatica opposti al ricorrente. Questi ultimi, peraltro,
soltanto asseriti ma non provati nella loro oggettività e, dunque, non
apprezzabili in questa sede.
Né può rilevare, secondo quanto ulteriormente esposto dal Comune, che il
provvedimento si è limitato a differire il rilascio delle credenziali, posto
che il ritardo nell’approntamento degli eventuali accorgimenti tecnologici
(che a tacer d’altro corrispondono all’adempimento di un preciso ed
inderogabile dovere legale) non può comunque andare a detrimento del pieno e
incondizionato esercizio delle prerogative connesse all’esercizio del
mandato elettorale.
D’altra parte, sotto tale profilo, va anche rilevato che, come
documentalmente dedotto dal ricorrente e non contestato dal Comune (cfr.
art. 64 cod. proc. amm.), il medesimo Ente, in data 04/07/2018, ha
acconsentito ad analoga richiesta proveniente da altro consigliere comunale,
senza addurre alcun elemento ostativo. Circostanza che depone nel senso
dell’inattendibilità della motivazione addotta a fondamento della nota
comunale.
Al ricorrente va, dunque, riconosciuto il diritto ad accedere da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, con
corrispondente obbligo per il Comune di approntare le necessarie modalità
organizzative, sia pure con alcune necessarie limitazioni.
In particolare, al fine di evitare ogni accesso indiscriminato alla totalità
dei documenti protocollati, il Collegio è dell’avviso che l’accesso da
remoto vada consentito in relazione ai soli dati di sintesi ricavabili dalla
consultazione telematica del protocollo, non potendo essere esteso al
contenuto della documentazione, la cui acquisizione rimane soggetta alle
ordinarie regole in materia di accesso (tra le quali la necessità di
richiesta specifica).
5. In conclusione, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, va
annullata la nota comunale impugnata e va ordinato al Comune di Vietri di
Potenza di apprestare, entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla
pubblicazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente
sentenza, le modalità organizzative per il rilascio in favore del
consigliere comunale ricorrente di credenziali per l'accesso da remoto al
protocollo informatico e al sistema informatico contabile dell’Ente, ferme
restando le limitazione dianzi esplicitate
(TAR Basilicata,
sentenza 10.07.2019 n. 599 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di muro perimetrale di recinzione - Modifica
dell'assetto urbanistico del territorio per struttura ed
estensione - Permesso di costruire - Necessità - Artt. 3, 6,
9, 31, 44, 45, D.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di un muro perimetrale
di recinzione necessita del rilascio del permesso a
costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura
e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da
modificare l'assetto urbanistico del territorio, così
rientrando nel novero degli "interventi di nuova
costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380
del 2001.
Inoltre, anche per la realizzazione di un muro di recinzione
di un fondo agricolo che modifichi l'assetto urbanistico del
territorio per struttura ed estensione, occorre il permesso
di costruire, senza che la presenza all'interno del fondo di
un edificio adibito ad abitazione possa far ritenere il muro
pertinenza dell'edificio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda i muri perimetrali di recinzione, va rilevato,
innanzitutto, che, secondo quanto affermato da più decisioni, la
realizzazione di
un'opera di tale tipologia necessita del previo rilascio del permesso a
costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e
all'estensione dell'area
relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del
territorio, così
rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui
all'art. 3, lett.
e), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Altresì, per la realizzazione di un muro di recinzione di un fondo agricolo
che modifichi l'assetto urbanistico del territorio per struttura ed
estensione, occorre il permesso di costruire, senza che la presenza
all'interno del fondo di un edificio adibito ad abitazione possa far
ritenere il muro pertinenza dell'edificio.
---------------
2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel
terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse
e da
esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato
di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le
opere in
questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo
autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata
come
vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il
muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere
realizzati
sulla base di S.C.I.A.
2.1. Per una corretta valutazione delle censure occorre premettere quale
risulta essere lo stato degli orientamenti giurisprudenziali in materia.
Per quanto riguarda i muri perimetrali di recinzione, va rilevato,
innanzitutto, che, secondo quanto affermato da più decisioni, la
realizzazione di
un'opera di tale tipologia necessita del previo rilascio del permesso a
costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e
all'estensione dell'area
relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del
territorio, così
rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui
all'art. 3, lett.
e), del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 52040 del
11/11/2014,
Langella, Rv. 261521-01, relativa a fattispecie concernente un muro in
cemento
armato avente spessore di cm. 25 ed un'altezza di circa metri 1,80, nonché Sez.
3, n. 5755 del 13/12/2007, dep. 2008, Romano, Rv. 238788-01).
E' utile
aggiungere che si è anche precisato che, per la realizzazione di
un muro di recinzione di un fondo agricolo che modifichi l'assetto
urbanistico del
territorio per struttura ed estensione, occorre il permesso di costruire,
senza che
la presenza all'interno del fondo di un edificio adibito ad abitazione possa
far
ritenere il muro pertinenza dell'edificio (così Sez. 3, n. 41518 del
22/10/2010,
Bove, Rv. 248744-01)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
09.07.2019 n. 29963). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura pertinenziale di una piscina - Presupposti e limiti.
Affinché ad una piscina si possa
riconoscere natura pertinenziale, occorre che la stessa
abbia un volume non superiore al 20% di quello dell'edificio
cui accede, che tale manufatto sia preordinato ad
un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale,
e, non abbia un autonomo valore di mercato in modo da non
consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue
caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa
(Cass. Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni),
infine, che non sia in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti ed inerisca ad un edificio preesistente
legittimamente edificato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento alla piscina, va segnalato che la giurisprudenza,
sebbene riconosca la possibile natura pertinenziale di tale opera quando la
stessa
abbia un volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede,
richiede
che tale manufatto sia preordinato ad un'oggettiva esigenza funzionale
dell'edificio principale, non abbia un autonomo valore di mercato, in modo
da
non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una
destinazione autonoma e diversa, non sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, ed inerisca
ad un edificio preesistente legittimamente edificato.
---------------
2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel
terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse
e da
esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato
di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le
opere in
questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo
autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata
come
vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il
muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere
realizzati
sulla base di S.C.I.A.
...
Con riferimento alla piscina, poi, va segnalato che la giurisprudenza,
sebbene riconosca la possibile natura pertinenziale di tale opera quando la
stessa
abbia un volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede,
richiede
che tale manufatto sia preordinato ad un'oggettiva esigenza funzionale
dell'edificio principale, non abbia un autonomo valore di mercato, in modo
da
non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una
destinazione autonoma e diversa (così Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni,
Rv. 268552-01), non sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (cfr.,
tra le tante, Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253064-01), ed
inerisca
ad un edificio preesistente legittimamente edificato (cfr. Sez. 3, n. 37257
del
11/06/2008, Alexander, Rv. 241278-01)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
09.07.2019 n. 29963). |
EDILIZIA PRIVATA:
Piazzale - Pavimentazione di una vasta area in cemento -
Assenza di permesso di costruire - Configurabilità del reato
ex art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Interventi di
urbanizzazione e destinazione di zona prevista dal piano
regolatore generale - Regime dell'attività edilizia libera -
Presupposti e limiti.
La pavimentazione di una vasta area con
tappeto bituminoso in assenza di permesso di costruire,
integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n.
380 del 2001, in quanto tale attività edilizia rientra tra
gli interventi di urbanizzazione secondaria ovvero
infrastrutturali considerati come di "nuova costruzione"
dall'art. 3, comma 1, lettere e.2) ed e.3), d.P.R. n.
380/2001.
Inoltre, il regime dell'attività edilizia libera, ovvero non
soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi
che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione,
siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti
urbanistici, e che, quindi, è configurabile il reato di cui
all'art. 44 d.P.R. d.P.R. n. 380/2001 in ipotesi di
realizzazione di piazzali da adibire a parcheggio in area
classificata come zona agricola (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Relativamente alla realizzazione di un pavimento in cemento nel
piazzale, è utile considerare che, in giurisprudenza, è consolidato un
orientamento rigoroso.
Secondo una decisione, in particolare, integra il
reato
previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, la pavimentazione
di una
vasta area con tappeto bituminoso in assenza di permesso di costruire, in
quanto
tale attività edilizia rientra tra gli interventi di urbanizzazione
secondaria ovvero
infrastrutturali considerati come di "nuova costruzione" dall'art. 3, comma
1,
lettere e.2) ed e.3), d.P.R. cit..
Altra pronuncia ha affermato che il regime dell'attività
edilizia
libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6
del d.P.R.
n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle
tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici, e che, quindi, è configurabile il reato di cui
all'art. 44
d.P.R. cit. in ipotesi di realizzazione di piazzali da adibire a parcheggio
in area classificata come zona agricola.
---------------
2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel
terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse
e da
esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato
di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le
opere in
questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo
autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata
come
vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il
muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere
realizzati
sulla base di S.C.I.A.
...
Anche relativamente alla realizzazione di un pavimento in cemento nel
piazzale, è utile considerare che, in giurisprudenza, è consolidato un
orientamento rigoroso.
Secondo una decisione, in particolare, integra il
reato
previsto dall'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, la pavimentazione
di una
vasta area con tappeto bituminoso in assenza di permesso di costruire, in
quanto
tale attività edilizia rientra tra gli interventi di urbanizzazione
secondaria ovvero
infrastrutturali considerati come di "nuova costruzione" dall'art. 3, comma
1,
lettere e.2) ed e.3), d.P.R. cit. (Sez. 3, n. 42896 del 24/10/2008,
Carotenuto,
Rv. 241545-01).
Altra pronuncia ha affermato che il regime dell'attività
edilizia
libera, ovvero non soggetta ad alcun titolo abilitativo, di cui all'art. 6
del d.P.R.
n. 380 del 2001, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle
tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici, e che, quindi, è configurabile il reato di cui
all'art. 44
d.P.R. cit. in ipotesi di realizzazione di piazzali da adibire a parcheggio
in area classificata come zona agricola (Sez. 3, n. 19316 del 27/04/2011,
Ferraro, Rv. 250018-01)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
09.07.2019 n. 29963). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Attività edificatoria abusiva - Valutazione
dell'opera nella sua unitarietà.
In tema di reati edilizi, la valutazione
dell'opera, ai fini della individuazione del regime
abilitativo applicabile, deve riguardare il risultato
dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che
sia consentito considerare separatamente i singoli
componenti.
...
Reati urbanistici - Rilascio del permesso in sanatoria -
Estinzione del reato - Subordine della demolizione delle
opere alla sospensione condizionale della pena.
In tema di reati urbanistici, ai fini
dell'estinzione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett.
b), d.P.R. n. 380 del 2001, è necessario sia stato
effettivamente rilasciato il permesso in sanatoria, secondo
quanto prevede l'art. 45 d.P.R. n. 380/2001.
In caso di mancata sanatoria, il giudice può subordinare la
concessione della sospensione condizionale della pena per i
reati di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 alla
demolizione delle opere.
In questo specifico caso, l'ordine giudiziale di demolizione
ha natura di sanzione amministrativa costituente espressione
di un potere autonomo e non residuale o sostitutivo di
quello spettante all'autorità amministrativa, in quanto
assolve ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene
giuridico leso (Cass.,
Sez. 3, n. 23189/2018; Cass. Sez. 3, n. 37120 del
11/05/2005, Morelli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.07.2019 n. 29963 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di
legittimità, in tema di reati edilizi la valutazione dell'opera, ai fini
della individuazione del regime abilitativo applicabile, deve riguardare il
risultato dell'attività edificatoria nella sua unitarietà, senza che sia
consentito considerare separatamente i singoli componenti.
---------------
2. Manifestamente infondate sono le censure proposte nel secondo, nel
terzo, nel quarto e in parte del nono motivo, tra loro strettamente connesse
e da
esaminare congiuntamente, le quali contestano la configurabilità del reato
di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, deducendo che le
opere in
questione potevano essere eseguite senza il preventivo rilascio di titolo
autorizzativo, e, in particolare, che la piscina doveva essere qualificata
come
vasca interrata o, comunque, come pertinenza, e che la stessa, così come il
muro perimetrale per parte superiore a metri 1,70, potevano essere
realizzati
sulla base di S.C.I.A.
...
Ancora, occorre evidenziare, in linea generale, che, secondo l'insegnamento
consolidato della giurisprudenza di legittimità, in tema di reati edilizi,
la
valutazione dell'opera, ai fini della individuazione del regime abilitativo
applicabile, deve riguardare il risultato dell'attività edificatoria nella
sua
unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i singoli
componenti (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv.
263473-01, nonché Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011, dep. 2012, Forte, Rv.
252125-01)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
09.07.2019 n. 29963). |
APPALTI: Soccorso
istruttorio.
Non può ammettersi il
soccorso istruttorio in sede di comprova dei
requisiti, attesa non solo l’inesistenza
della carenza di un elemento formale della
domanda, ma anche la natura perentoria del
relativo termine, con conseguenze
immediatamente escludenti, laddove, al
contrario, il soccorso istruttorio
equivarrebbe ad una sostanziale rimessione
in termini
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.07.2019 n. 4789 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Il motivo è infondato.
Giova muovere dal provvedimento di
esclusione, il quale rileva che «per n. 64
servizi presuntivamente svolti dall’ing. Ni. Di Pi. e dichiarati dallo stesso
in sede di gara non si fornisce alcuna
documentazione probante il possesso del
requisito dichiarato in sede di gara mentre
per n. 4 servizi risultano dichiarati in
sede di gara importi nelle rispettive classi
e categorie differenti rispetto a quanto
emergerebbe dal certificato di regolare
esecuzione rilasciato dai committenti. In
particolare si evidenzia che per 3 dei 4
servizi suddetti non è nemmeno possibile
stabilire dalla documentazione presentata la
percentuale di competenza del servizio
svolto dalla stesso nell’ambito del RTP e
dunque i corretti importi di lavori
progettati e/o diretti nelle rispettive
categorie».
Dai certificati versati in atti non si
evincono le quote di competenza
attribuibili, all’interno di un R.T.P.,
all’ing. Di Pi., salvo che nel
certificato rilasciato dal Comune di
Lucera-IV intervento, in cui è indicato che
il contratto di appalto (concernente la
progettazione definitiva ed esecutiva delle
opere, consulenza e calcoli statici nonché
direzione dei lavori) è stato eseguito
dall’odierno appellante nella misura del 30
per cento con riguardo all’importo di euro
3.807.984,70 per la categoria S.05.
Nelle altre certificazioni (rese dal Comune
di Lucera, ovvero di Apricena) si fa
riferimento solamente al fatto che
l’attività progettuale è stata redatta da
A.T.P., di cui è parte l’ing. Di Pi.,
indicandosi gli importi complessivi,
riferiti alla categoria S.05 (“strutture”),
ovvero alla categoria D.02 (“idraulica”).
Ne discende dunque che dalle certificazioni
allegate alla dichiarazione di comprova non
emerge, di regola, la quota parte di
competenza dell’ing. Di Pi., e non
trovano pertanto conferma i dati contenuti
nella domanda di partecipazione.
Alcun rilievo assume in questa prospettiva
l’invocata disposizione dell’art. 48, comma
5, del d.lgs. n. 50 del 2016 che prevede la
responsabilità solidale degli operatori
raggruppati nei confronti della stazione
appaltante, senza peraltro superare la
distinzione tra i requisiti di
qualificazione e la quota di partecipazione
al raggruppamento, ed ancora la quota di
esecuzione, attenendo i primi alle
caratteristiche soggettive del concorrente;
la quota di partecipazione alla
responsabilità di componente del
raggruppamento; la quota di esecuzione
concernendo infine la parte della
prestazione che verrà eseguita (con
conseguente preclusione alla condivisibilità
dell’assunto dell’appellante secondo cui
ciascun professionista sarebbe legittimato
ad utilizzare il servizio in quota paritaria
per attestare l’esperienza maturata).
D’altro canto, non può ammettersi il
soccorso istruttorio in sede di comprova dei
requisiti, attesa non solo l’inesistenza
della carenza di un elemento formale della
domanda, ma anche la natura perentoria del
relativo termine, con conseguenze
immediatamente escludenti, laddove, al
contrario, il soccorso istruttorio
equivarrebbe ad una sostanziale rimessione
in termini (Cons. Stato, V, 31.01.2017,
n. 385). |
APPALTI: Dichiarazioni
false o fuorvianti nelle gare d'appalto.
Con
riferimento alla c.d. condotta fraudolenta o
fuorviante, integrante la causa di
esclusione di cui all’articolo 80, comma 5,
lettera c), (oggi c-bis) ovvero lettera
f-bis), D.Lgs. n. 50/2016, che le
precitate disposizioni, nel consentire
l’espulsione dalla gara dell’operatore
economico che fornisca informazioni false o
fuorvianti, idonee a influire in modo
notevole sul processo decisionale della
stazione appaltante, in relazione al pregio
tecnico delle offerte ovvero
all’individuazione dell’aggiudicatario,
mirano a preservare l’interesse
dell’Amministrazione a non trattare con
operatori economici che non diano
sufficienti garanzie in ordine alla propria
affidabilità morale e professionale; si
tratta di preservare un interesse pubblico
particolarmente delicato, ma tuttavia la
sanzione espulsiva, proprio per la gravità
delle conseguenze che comporta per
l’operatore economico che la subisce,
richiede un accertamento approfondito della
situazione fattuale.
Affinché possa ritenersi
concretizzata la condotta suscettibile di
sanzione espulsiva, è necessario tenere
conto di tutte le circostanze del caso
concreto, ivi comprese le condizioni
soggettive del destinatario delle
dichiarazioni false o fuorvianti; operando
un parallelismo, occorre operare un’indagine
non dissimile da quella che consente
l’applicazione dei rimedi previsti dagli
articoli 1439 e 1440 Cod. civ. per gli
accordi negoziali conclusi tra privati e,
dunque, come gli artifici e raggiri sono
causa di annullamento del contratto (nel
caso di dolo determinante) ovvero di
risarcimento del danno (nel caso dolo
incidente), se sono idonei a trarre in
inganno un contraente di normale diligenza,
avuto riguardo alle relative condizioni
soggettive, così le dichiarazioni false e
fuorvianti sono cause di espulsione se
idonee a trarre in inganno una commissione
di esperti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.07.2019 n. 1575 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.5.1. Passando al requisito premiale del
tempo di accensione dell’ecotomografo, va
considerato che –come risulta dai documenti
di gara- il modello offerto dalla controinteressata presenta due distinte
modalità di accensione: la prima da
completamente spento che impiega al massimo
110 secondi; e la seconda potenziata o in
configurazione trasporto (perché collegata a
una batteria) che impiega al massimo 20
secondi (v. doc. 22 p. 21 fascicolo di
Ph. S.p.A.).
In considerazione dell’esito che ha avuto
(accensione in 14 secondi), non vi è dubbio
che la prova pratica è stata svolta con la
macchina in modalità trasporto.
2.5.2. Il Collegio ritiene che, avuto
riguardo alle finalità perseguite dalla
legge di gara non era così che doveva essere
effettuata la prova pratica.
Invero, il disciplinare di gara, al
paragrafo 5 prevedeva l’attribuzione di 5
punti, con metodo lineare per il «minor
tempo di pronto all’uso da ecografo spento e
scollegato alla rete: si calcola il tempo
dall’inserimento della spina all’accensione
in pronto all’uso». Sicché, è chiaro che
l’intento della stazione appaltante era
quello di premiare l’ecotomografo che, in
caso di emergenza, da completamente spento
entra in funzione più rapidamente, e non
certo quello di premiare lo strumento che
più rapidamente si riavvia dalla condizione
di stand-by, la quale non è la condizione
normale dello strumento che non lavora, in
quanto è comunque di durata limitata nel
tempo (per la macchina offerta da Ph.
S.p.A., 40 minuti).
2.5.3. Non per questo, tuttavia, può
ritenersi che l’aggiudicataria abbia tenuto
una condotta fuorviante, integrante la causa
di esclusione di cui all’articolo 80, comma
5, lettera c) ovvero lettera f-bis), D.Lgs.
n. 50/2016, nella formulazione applicabile
ratione temporis.
Le precitate disposizioni, nel consentire
l’espulsione dalla gara dell’operatore
economico che fornisca informazioni false o
fuorvianti, idonee a influire in modo
notevole sul processo decisionale della
stazione appaltante, in relazione al pregio
tecnico delle offerte ovvero
all’individuazione dell’aggiudicatario,
mirano a preservare l’interesse
dell’Amministrazione a non trattare «con
operatori economici che non diano
sufficienti garanzie in ordine alla propria
affidabilità morale e professionale» (così, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2747/2018).
Indubbiamente, si tratta di preservare un
interesse pubblico particolarmente delicato.
E, tuttavia, la sanzione espulsiva, proprio
per la gravità delle conseguenze che
comporta per l’operatore economico che la
subisce, richiede un accertamento
approfondito della situazione fattuale.
Dunque, affinché possa ritenersi
concretizzata la condotta fraudolenta
suscettibile di sanzione espulsiva, è
necessario tenere conto di tutte le
circostanze del caso concreto, ivi comprese
le condizioni soggettive del destinatario
delle dichiarazioni false o fuorviante.
Operando un parallelismo, occorre operare
un’indagine non dissimile da quella che
consente l’applicazione dei rimedi previsti
dagli articoli 1439 e 1440 Cod. civ. per gli
accordi negoziali conclusi tra privati. E,
dunque, come gli artifici e raggiri sono
causa di annullamento del contratto (nel
caso di dolo determinante) ovvero di
risarcimento del danno (nel caso dolo
incidente), se sono idonei a trarre in
inganno un contraente di normale diligenza,
avuto riguardo alle relative condizioni
soggettive (cfr., Cass., Sez. II, sentenza
n. 13872/2018), così le dichiarazioni false
e fuorvianti sono cause di espulsione se
idonee a trarre in inganno una commissione
di esperti. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Il Sindaco può ordinare la rimozione dei rifiuti (il loro recupero o lo
smaltimento) e il ripristino dello stato dei luoghi anche al proprietario
del fondo, sempre che, tuttavia, la violazione del divieto dell’abbandono e
del deposito incontrollato di rifiuti gli sia imputabile a titolo di dolo o
di colpa, adeguatamente accertata in contraddittorio dagli organi di
controllo.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito, in più occasioni, che la
condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all’art. 192,
comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, necessita di un serio accertamento della
sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su
presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata
a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro
contrasto con l’indicazione legislativa.
Si è aggiunto, altresì, che la responsabilità solidale del proprietario può
essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle cautele
e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di
un’efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che
su di essa possano essere depositati rifiuti.
---------------
La questione della competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei rifiuti
abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, comma 3, d.lgs.
03.04.2006, n. 152 è stata già affrontata e risolta nel senso
dell’appartenenza al Sindaco.
E’ stato convincentemente affermato che l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152,
nel prevedere espressamente la competenza del Sindaco, è norma speciale
sopravvenuta rispetto all’art. 107 (Funzioni e responsabilità della
dirigenza), comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) per il quale “A decorrere dalla data di
entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono
agli organi di cui al capo I del titolo III l’adozione di atti di gestione e
di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’articolo
50, comma 3, e dall’articolo 54” e su di essa prevalente.
---------------
4. Il motivo è fondato e va accolto.
4.1. Con l’ordine impugnato il Comune di Binetto ha esercitato il potere
previsto dall’art. 192 (“Divieto di abbandono rifiuti”), comma 3,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”) per il
quale: “Fatta salva l’applicazione della sanzione di cui agli articoli
255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a
procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento
sull’area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa,
in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con
ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti
obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Il Sindaco può ordinare la rimozione dei rifiuti (il loro recupero o lo
smaltimento) e il ripristino dello stato dei luoghi anche al proprietario
del fondo, sempre che, tuttavia, la violazione del divieto dell’abbandono e
del deposito incontrollato di rifiuti gli sia imputabile a titolo di dopo o
di colpa, adeguatamente accertata in contraddittorio dagli organi di
controllo.
4.2. La giurisprudenza amministrativa ha chiarito, in più occasioni, che la
condanna del proprietario del suolo agli adempimenti di cui all’art. 192,
comma 3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, necessita di un serio accertamento della
sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su
presunzioni e nei limiti della esigibilità qualora la condotta sia imputata
a colpa, pena la configurazione di una responsabilità da posizione in chiaro
contrasto con l’indicazione legislativa (cfr. Cons. Stato, sez. V,
28.05.2019, n. 3518; sez. IV, 07.06.2018, n. 3430; IV, 12.04.2018, n. 2195;
sez IV, 25.07.2017, n. 3672; sez. V, 08.03.2017, n. 1089; sez. IV,
01.04.2016, n. 1301).
4.3. Si è aggiunto, altresì, che la responsabilità solidale del proprietario
può essere imputabile a colpa omissiva, consistente nell'omissione delle
cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di
un’efficace custodia e protezione dell'area, e segnatamente per impedire che
su di essa possano essere depositati rifiuti (cfr. Cons. Stato, sez. V,
28.05.2019, n. 3518; sez. III, 01.12.2017, n. 5632).
4.4. Dall’esame del provvedimento impugnato risulta che il Comune di Binetto
non ha svolto attività di accertamento della responsabilità del Gi. per
violazione del divieto di abbandono dei rifiuti sul suolo; nella
motivazione, infatti, si riferisce solo della presenza di rifiuti pericolosi
in due sopralluoghi effettuati a distanza di diversi mesi da soggetti
diversi (il primo dai Rangers d’Italia, il 29.10.2013, e il secondo, dalla
Polizia locale il 07.02.2014) e si afferma il totale abbandono del fondo.
E’ solo nelle memorie depositate nel giudizio di primo grado che il Comune
ha chiarito che l’abbandono dei rifiuti sul suolo era imputabile al Gi. a
titolo di colpa omissiva per non aver prestato la dovuta e necessaria
vigilanza, disinteressandosi completamente di quel che accadeva nel proprio
fondo e così favorendo ed incentivando lo scarico dei rifiuti ad opera di
terzi sulla sua proprietà.
Il giudice di primo grado ha aggiunto, poi, che l’omessa recinzione del
fondo e la mancanza di denunce alle autorità restituivano un quadro –quanto
meno– di colposo abbandono del fondo.
4.5. Ritiene il Collegio che la carente illustrazione, nella motivazione del
provvedimento, di circostanze di fatto presuntive del disinteresse del
proprietario, che avrebbe per questo colposamente lasciato che rifiuti
venissero abbandonati sul suo fondo, non possa essere superata né dalle
argomentazioni difensive spese in giudizio, né tanto meno da un’attività
valutativa effettuata dal giudice.
E’ onere, invece, dell’amministrazione comunale, in primo luogo, richiedere
informazioni al proprietario sulla gestione del fondo (ad es. da quando
tempo non coltivava, da quando non vi si recava, in che modo intendeva
utilizzarlo), così da rendere effettivo quel contraddittorio cui fa
riferimento l’art. 192, comma 3, cit. e, solo completata tale fase di
indagine, valutare se il proprietario si sia realmente disinteressato alle
sorti del fondo, dandone conto del convincimento raggiunto nella motivazione
del provvedimento.
4.6. Non può mancare, inoltre, negli ordini di rimozione dei rifiuti a
carico dei proprietari la contestualizzazione delle misure di diligenza e
cautela richieste alla collocazione del fondo: misure di diligenze e cautele
accresciute –rivolte ad evitare che sul fondo possano essere depositati
rifiuti da terzi– sono tanto più necessarie quanto più è nota la densità
criminale ove il fondo è collocato (per essere, ad esempio, presenti
organizzazioni criminali operanti nel traffico dei rifiuti pericolosi).
Nel contesto di tale accertamento potrà valutarsi l’idoneità del tipo di
recinzione del fondo adottato dal proprietario, che, altrimenti, anche il
muretto a secco, criticato negli scritti difensivi del Comune, ma
caratteristico di talune zone del territorio italiano, è recinzione idonea
allo scopo, suo proprio, di delimitare il confine dei fondi.
4.7. In conclusione, sussiste la violazione dell’art. 192, comma 3, d.lgs.
n. 152 cit. per mancata attivazione del contraddittorio con il proprietario
del fondo, come pure il vizio di omessa motivazione; la sentenza di primo
grado va riformata sul punto. L’accoglimento del primo motivo di appello per
le ragioni poc’anzi espresse consente di assorbire il terzo motivo di
appello con il quale era lamentata l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. 07.08.1990, n. 241.
5. Con il secondo motivo di appello il Gi. contesta la sentenza di
primo grado per “Error in procedendo et in iudicando. Violazione di legge
per falsa applicazione del D.Lgs. 152/2006 art. 192, comma 3, incompetenza
del funzionario”.
Sostiene l’appellante che la competenza ad adottare l’ordine di rimozione
dei rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi appartiene al
Sindaco e non al dirigente comunale; il provvedimento impugnato,
sottoscritto dal “Responsabile del IV settore” del Comune di Binetto
sarebbe, dunque, viziato da incompetenza e la sentenza di primo grado, che
ne ha confermato la legittimità, erronea.
6. Il motivo è fondato e va accolto.
6.1. La questione della competenza ad adottare l’ordine di rimozione dei
rifiuti abbandonati e ripristino dello stato dei luoghi ex art. 192, comma
3, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 è stata già affrontata e risolta nel senso
dell’appartenenza al Sindaco (da ultimo, in Cons. Stato, sez. V, 14.03.2019,
n. 1684, che ha specificato che l’incompetenza del “Responsabile del
settore” sussiste anche in caso di delega a suo favore adottata dal
dirigente del settore; Cons. Stato, sez. IV, 21.01.2019, n. 509).
6.2. E’ stato convincentemente affermato che l’art. 192, comma 3, d.lgs. n.
152, nel prevedere espressamente la competenza del Sindaco, è norma speciale
sopravvenuta rispetto all’art. 107 (Funzioni e responsabilità della
dirigenza), comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali) per il quale “A decorrere dalla data
di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che
conferiscono agli organi di cui al capo I del titolo III l’adozione di atti
di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso
che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto
dall’articolo 50, comma 3, e dall’articolo 54” e su di essa prevalente (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2018, n. 2195; V, 11.01.2016 n. 57; ma già V,
25.08.2008, n. 4061).
6.3. La sentenza di primo grado che ha fatto proprio il diverso orientamento
per il quale la competenza spetta al dirigente del settore, va riformata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.07.2019 n. 4781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rapporto
tra congedo parentale, permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 e ferie.
---------------
●
Pubblico impiego privatizzato – Congedo parentale – Art. 42, d.lgs. n. 151
del 2001 – Cumulabilità con i permessi ex art. 33, l. n. 104 del 1992 ed i
riposi spettanti al dipendente – Congedo richiesto in maniera continuativa –
Esclusione.
●
Pubblico impiego privatizzato – Congedo parentale – Art. 42, comma 5, d.lgs.
n. 151 del 2001 – Trattamento economico spettante al lavoratore – Ferie –
Tredicesima mensilità – Trattamento di fine rapporto – Non maturano.
●
Durante il periodo di fruizione del congedo parentale non maturano anche i
permessi retribuiti previsti dall'art. 33, comma 4, l. 05.02.1992, n. 104 e
ciò in quanto il “cumulo” dei permessi consentito dall’art 42, comma 4,
d.lgs. 26.03.2001, n. 151 deve essere correttamente inteso come possibilità
di fruizione degli stessi in un medesimo arco temporale, ma non anche come
maturazione ed insorgenza del diritto ai permessi medesimi in capo al
lavoratore; e ciò in quanto il diritto alla fruizione dei permessi
retribuiti presuppone, necessariamente, lo svolgimento in essere e la
costanza dell’attività lavorativa durante la quale tali permessi vengono a
maturare.
●
I periodi di congedo straordinario incidono negativamente sulla maturazione
delle ferie, della tredicesima e del trattamento di fine rapporto,
coerentemente con la natura del suddetto congedo che appare idoneo a
determinare una vera e propria “sospensione”, seppur temporanea,
dell’attività lavorativa (1).
---------------
(1) Parere Consiglio di Stato n. 3389 del 2005.
Ha chiarito il Tar che durante il periodo di congedo parentale, all’opposto,
l’attività lavorativa viene messa in uno stato, per così dire, di quiescenza
atteso che tale congedo ne va a determinare una vera e propria sospensione,
non idonea a far maturare, in capo al lavoratore, gli ulteriori permessi ex
art. 33, l. n. 104 del 1992.
Analogamente è a dirsi per le festività ed i riposi che la ricorrente
pretende esserle riconosciute e non conteggiate nel periodo complessivo di
congedo parentale.
Affinché le festività e i riposi non vengano conteggiati nel periodo di
congedo parentale occorre che la domanda di congedo sia stata presentata in
maniera c.d. frazionata; invece, se il congedo è richiesto in maniera
continuativa, festivi e riposi non possono essere scomputati ma vanno in
esso interamente conteggiati (in tal senso si vedano anche: Circolare INPS
n. 64 del 15.03.2001; Circolare Dipartimento Funzione Pubblica n. 1 del
03.02.2012)
(TAR
Molise,
sentenza 08.07.2019 n. 233 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
trasformazione dell’immobile destinato a magazzino e deposito in unità
abitativa.
Il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione
di opere edilizie non costituisce un'attività del tutto libera e priva di
vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione
urbanistica che disciplini l'uso nel territorio nel singolo Comune; in
effetti una diversa soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio,
una inammissibile vulnerazione delle prerogative di autonomia e
responsabilità sul territorio degli enti locali, ma comporterebbe anche, in
concreto, la violazione di regole generali finalizzate ad assicurare il
corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente inevitabile
pericolo di pregiudizievoli modificazioni degli equilibri prefigurati dalla
strumentazione urbanistica.
La circostanza che il mutamento di destinazione d’uso sia intervenuto già
nel 1994, quando la legislazione regionale veneta non assoggettava il
mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale a concessione edilizia
bensì ad autorizzazione, non toglie pregio al principio dalla
giurisprudenza, posto che ancorché manchi la disciplina regionale, il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non
costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli.
---------------
4. Per quanto riguarda l’abusiva trasformazione dell’immobile destinato a
magazzino e deposito in unità abitativa (appartamento residenziale), si deve
rilevare che detto mutamento è rilevante urbanisticamente perché intervenuto
tra categorie urbanistiche diverse, essendo la destinazione a deposito e
magazzino assimilabile a quella produttiva artigianale o, altrimenti, a
quella commerciale, non certo a quella residenziale.
Infatti, non si può ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione
di un garage o di una soffitta in un locale abitabile e deve ritenersi che
solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non
necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico
urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e
vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime
del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere
che, comunque, nel caso di specie sono presenti.
Il cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie,
pertanto, non costituisce un'attività del tutto libera e priva di vincoli,
non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che
disciplini l'uso nel territorio nel singolo Comune; in effetti una diversa
soluzione non solo costituirebbe, in linea di principio, una inammissibile
vulnerazione delle prerogative di autonomia e responsabilità sul territorio
degli enti locali, ma comporterebbe anche, in concreto, la violazione di
regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto
del territorio, con conseguente inevitabile pericolo di pregiudizievoli
modificazioni degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012, n. 759).
La circostanza che il mutamento di destinazione d’uso sia intervenuto già
nel 1994, quando la legislazione regionale veneta non assoggettava il
mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale a concessione edilizia
bensì ad autorizzazione, non toglie pregio al principio dalla
giurisprudenza, posto che ancorché manchi la disciplina regionale, il
cambiamento di destinazione d'uso senza realizzazione di opere edilizie non
costituisce una attività del tutto libera e priva di vincoli (cfr. Consiglio
di Stato n. 759/2012 cit.).
Peraltro, nel caso di specie si verte in un’ipotesi di mutamento di
destinazione d’uso con opere edilizie, costituite dalla realizzazione di
tramezze, di servizi igienici (bagni e scarichi) con installazione dei
relativi sanitari, una scala e anche un soppalco: il tutto, come si evince
dalle relazioni di sopralluogo, ha determinato la nascita di un vero e
proprio appartamento, attrezzato con impianti e completamente arredato,
nonché abitato dal ricorrente.
Non è tanto la quantità degli interventi edilizi che determina il rilievo
degli stessi ai fini del mutamento d’uso con opere, bensì soprattutto la
qualità ossia il fatto che gli stessi risultino finalizzati ad un diverso
utilizzo del bene.
La realizzazione di ben due bagni (ancorché “ciechi”) senza
autorizzazione determina già di per sé il mutamento d’uso.
Anche il soppalco appare a ciò destinato, così come la scala per raggiungere
lo stesso, che sembrano integrare interventi strutturali, riguardando la
realizzazione, in sostanza, di un nuovo piano soppalcato e di una struttura
verticale di collegamento, che hanno consentito un ampliamento a fini
abitativi della stessa superficie utile dell’appartamento abusivo
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 04.07.2019 n. 4590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
pergotenda "è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste
dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è
facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua
installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività
di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso”.
È stato chiarito, inoltre, che “per aversi una pergotenda occorrerebbe … che
l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda,
quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la
conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda. Nel caso in
esame, infatti, trattasi di struttura con travetti lignei di una certa
consistenza che sorreggono una tenda, struttura che può essere senz'altro
definita solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una
evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio”.
---------------
6.3. Il manufatto in questione, peraltro, proprio per le sue caratteristiche
dimensionali, sfugge al perimetro applicativo della pergotenda e deve
pertanto, anche sotto tal profilo, ritenersi asservito al regime del
permesso di costruire.
La pergotenda, infatti, "è qualificabile come mero arredo esterno quando
è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi
esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che
la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle
attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso”
(Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1777 dell’11.04.2014).
È stato chiarito, inoltre, che “per aversi una pergotenda occorrerebbe …
che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla
tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con
la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Nel caso in esame, infatti, trattasi di struttura con travetti lignei di una
certa consistenza che sorreggono una tenda, struttura che può essere
senz'altro definita solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare
una evidente variazione di sagoma e prospetto dell'edificio” (Consiglio
di Stato, sez. VI, sentenza n. 5737 del 05.10.2018).
Nel caso di specie, la struttura realizzata, identica, secondo quanto dalla
stessa ricorrente rappresentato, a quella installata negli anni precedenti,
è compiutamente descritta nella relazione illustrativa allegata alla
richiesta di autorizzazione del 22.05.2015.
Emerge da tale descrizione nonché dalle planimetrie allegate alla suddetta
relazione che "l’opera oltre ad avere delle dimensioni rilevanti
(caratteristica che, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata,
esclude in sé la possibilità di definirla tecnicamente una “pergotenda”)
presenta delle caratteristiche (quali la struttura portante in legno
composta da pilastrini e travetti costituente orditura principale e
secondaria della copertura”, il fissaggio al suolo “con opportuni
basamenti in cls di sostegno alla struttura”, la pavimentazione in “piastrelle
di cemento 40x40 allettate al suolo su strato di sabbia predisposto”)
tali da escludere che la struttura possa qualificarsi in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda ed
altresì tali da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto
dell'edificio
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.07.2019 n. 439 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione
di avvio del procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
Le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non
debbano essere applicate meccanicamente e formalisticamente, dovendo essere
invece essere interpretate in senso sostanziale, coordinando in modo
ragionevole e sistematico principi di legalità, imparzialità e buon
andamento ed i corollari di economicità e speditezza dell'azione
amministrativa, così che la mancata comunicazione di avvio del procedimento
ed anche la mancata nomina del responsabile del procedimento non possono
determinare sic et simpliciter l'annullamento del provvedimento, allorquando
l'interessato sia venuto comunque a conoscenza dei fatti posti a fondamento
del provvedimento sfavorevole ai suoi interessi ed abbia avuto la
possibilità di svolgere osservazioni e controdeduzioni.
---------------
7. Alla luce del costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è
ragione di discostarsi è, infine, infondato anche il terzo motivo di
ricorso con cui parte ricorrente deduce l'illegittimità del provvedimento
sanzionatorio per mancato rispetto delle garanzie procedimentali e per
mancata comunicazione del preavviso di rigetto.
"L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione
di avvio del procedimento [né del preavviso di rigetto], non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (TAR Lombardia,
Milano, II, 06.08.2018, n. 1946; 05.03.2018, n. 616; altresì Consiglio di
Stato, VI, 29.11.2012, n. 6071; 24.09.2010, n. 7129)” (TAR Milano, sez.
II, sentenza n. 2098 del 18.09.2018).
Va osservato, peraltro, che l’impresa ricorrente ha riscontrato la diffida
alla rimozione del manufatto notificata il 26.07.2016 chiedendone
l’annullamento in autotutela.
In quella occasione ha potuto, pertanto, introdurre nel procedimento gli
elementi a suo avviso determinanti. Tali elementi sono stati oggetto di
apposita istruttoria da parte dei competenti uffici comunali, conclusasi con
la conferma del provvedimento sanzionatorio precedentemente adottato.
La censura è, conseguentemente, infondata dovendo ritenersi che “le norme
in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non debbano
essere applicate meccanicamente e formalisticamente, dovendo essere invece
essere interpretate in senso sostanziale, coordinando in modo ragionevole e
sistematico principi di legalità, imparzialità e buon andamento ed i
corollari di economicità e speditezza dell'azione amministrativa, così che
la mancata comunicazione di avvio del procedimento ed anche la mancata
nomina del responsabile del procedimento non possono determinare sic et
simpliciter l'annullamento del provvedimento, allorquando l'interessato sia
venuto comunque a conoscenza dei fatti posti a fondamento del provvedimento
sfavorevole ai suoi interessi ed abbia avuto la possibilità di svolgere
osservazioni e controdeduzioni” (TAR Milano, sentenza citata)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.07.2019 n. 439 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: La
sussistenza della mera vicinitas tra fondi costituisce presupposto sufficiente per radicare la
legittimazione e l’interesse ad agire.
La questione giuridica sottesa alla presente decisione
concerne la consistenza che deve presentare l’interesse ad agire del
proprietario di un fondo contiguo o comunque posto nelle vicinanze di quello
su cui si assume si stia realizzando un’edificazione illegittimamente
assentita, affinché sia ammissibile l’impugnativa del titolo abilitativo rilasciato dall’amministrazione
competente.
In materia edilizia si fronteggiano due orientamenti.
Il primo e tradizionale orientamento è quello che ritiene la vicinitas,
intesa quale stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato, elemento
sufficiente a radicare la legittimazione e l’interesse ad agire in giudizio,
senza che sia necessario, da parte del ricorrente, fornire la prova di un
pregiudizio concreto ed effettivo arrecato alla sua sfera giuridica (e
dunque ad una specifica situazione giuridica soggettiva in esso presente)
dal provvedimento impugnato.
Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha puntualizzato come “la giurisprudenza ha riconosciuto il criterio
della vicinitas di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli
titoli edilizi, assorbendo
in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione, qualora ad impugnare
sia il proprietario confinante.
… deve aggiungersi che, nell’ambito degli abusi edilizi, la giurisprudenza
ritiene il pregiudizio del confinante in re ipsa, dato che ogni edificazione
abusiva incide sull'equilibrio urbanistico e sull' ordinato sviluppo del
territorio”, così ribadendo e confermando
l’orientamento tradizionale.
Il secondo e più recente orientamento, invece, ritiene necessario che
il ricorrente fornisca la “prova concreta del vulnus specifico inferto dagli
atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del
valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed
all'ambiente”.
Di recente, a questo orientamento ha aderito il Consiglio di Stato il quale, in un caso peculiare riguardante
l’impugnazione di una variante in riduzione di un’opera precedentemente
assentita da un titolo edilizio non impugnato, ha però avuto modo di
evidenziare come la “vicinitas può anche rilevare al fine di qualificare la lesività dell’intervento e quindi il pregiudizio patito in conseguenza del
rilascio del titolo autorizzatorio atteso che, di regola, e quindi, secondo
l’id quod plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile
di arrecare pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area
interessata dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di
maggior carico urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…; in
questo senso i precedenti giurisprudenziali richiamati dagli appellati
meritano senz’altro conferma”.
È immediatamente evidente che l’adesione all’uno o all’altro
orientamento condiziona l’ammissibilità del presente ricorso.
---------------
Ritiene il Collegio preferibile dare continuità all’orientamento che,
tradizionalmente, è sempre stato maggioritario nell’ambito della
giurisprudenza amministrativa e che, ancora adesso, risulta tutt’altro che
superato da quello più recente, di cui si è dato conto.
Invero, a fronte di un’edificazione asseritamente illegittima da un
punto di vista edilizio, compiuta in un’area dove chi agisce in giudizio è
titolare di un diritto di proprietà su di un determinato bene, si ritiene
più opportuno consentire a costui di proporre ricorso al G.A., lamentando la
lesione di quelle regole che disciplinano le trasformazioni del territorio,
allegando, quale condizione dell’azione, in punto di legittimazione ed
interesse ad agire, la mera vicinanza di un suo bene al luogo in cui si sta
commettendo l’abuso e si sta, quindi, contravvenendo a tali regole, quale
formula idonea a compendiare adeguatamente sia gli elementi fondanti la
legittimazione ad agire sia quelli inerenti all’interesse a ricorrere.
L’interesse a ricorrere, in una siffatta ipotesi, è costituito, per
l’appunto, dal risultato utile, perseguito mediante la proposizione della
domanda di annullamento del titolo edilizio illegittimamente rilasciato, di
evitare quelle edificazioni che, in quanto illegittime (perché in contrasto
con le norme di legge o con gli strumenti urbanistici di governo del
territorio), vanno ad incidere sul territorio (in cui si colloca anche la
sua proprietà), alterandone il carico urbanistico e la conformazione
morfologica ed abitativa, in modo diverso da quanto programmato
dall’amministrazione in sede di pianificazione, secondo quello che quest’ultima,
in quanto autorità a ciò preposta dal legislatore, ha ritenuto essere
l’assetto ottimale.
Se si assume –come, del resto, fa il nostro ordinamento– che la
pianificazione urbanistica e il controllo sulla legittimità dell’attività
edilizia perseguano quei valori e quegli interessi pubblici compendiati
nella formula dell’“ordinato e razionale assetto del territorio”,
l’eventuale lesione di tali valori ed interessi, perpetrati attraverso
un’edificazione abusiva, rileva per chi in quel determinato territorio è
titolare di un diritto di proprietà e si avvantaggia, per l’appunto, del
razionale sviluppo dell’area in cui il bene di cui è titolare si colloca.
Su quest’ultimo punto è bene compiere un’ulteriore precisazione: l’interesse
ad un ordinato assetto del territorio è, in linea di massima, interesse di
tutta la collettività, ma la sua salvaguardia è demandata
all’amministrazione.
E’ dunque chiaro che, così come i privati, di regola, non possono
“sostituirsi” alla P.A. nella tutela dell’interesse in questione, allo
stesso modo essi non possono sostituire il loro apprezzamento su ciò che
vantaggioso realizzare in un determinato ambito territoriale, essendo tale
scelta rimessa all’esclusivo apprezzamento della P.A., espresso in sede di
pianificazione.
Quest’ultima eventualità si concretizzerebbe, tuttavia, laddove si
consentisse a chi ha beneficiato di un permesso di costruire illegittimo di
opporre al proprietario confinante che dall’edificazione, pur in tesi
assunta come illegittima, non scaturirà, in concreto, alcuna conseguenza
pregiudizievole in capo a costui.
Il punto di equilibrio allora è ritenere che coloro che sono insediati in
una determinata zona e fruiscono, “in” e “per” quella zona, delle scelte di
pianificazione operate dall’amministrazione e dunque di un ordinato e non
caotico sviluppo del territorio, beneficiandone direttamente e concretamente
nella propria sfera giuridica, abbiano interesse ad agire in giudizio per
salvaguardare quelle decisioni, ogni qualvolta ritengano che
l’amministrazione stessa le abbia disattese.
È evidente che l’essere proprietari di un bene collocato in un’area ordinata
e frutto di scelte di pianificazione coerenti e logiche è preferibile
dell’essere proprietari di un bene collocato in un’area che invece presenta
un’edificazione disordinata e caotica, frutto dei desiderata estemporanei
dei diversi proprietari.
Sicché, in ultima analisi, si ritiene che la vicinitas ben si ponga quale
elemento discriminante (necessario e sufficiente) fra chi fruisce della
legittimazione (perché deduce di essere titolare di un diritto di proprietà
leso dall’abuso edilizio che si sta consumando o si è consumato) e
dell’interesse ad agire (perché deduce che, attraverso gli effetti
demolitori della pronuncia di annullamento, con l’eliminazione del permesso
di costruire, tale lesione giuridica verrà eliminata) e chi invece ne è
privo, proprio in considerazione di quanto rilevato da Consiglio di Stato a mente del quale, “…secondo l’id quod
plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile di arrecare
pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area interessata
dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di maggior carico
urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…;” (seppure, poi, il
richiamato precedente aderisca al secondo dei due orientamenti citati).
Si ritiene, peraltro, che in assenza di una definizione univoca di
interesse ad agire e in presenza, dunque, di una molteplicità di tesi che ne
disputano la qualificazione e la valenza (quale presupposto processuale,
condizione dell’azione o, finanche, elemento correlato al merito della
controversia, oltre che in presenza di un’autorevole, ma isolata dottrina
che ne contesta addirittura la sussistenza), sia preferibile l’adesione ad
un orientamento volto ad ampliarne la portata e non a restringerla, poiché
una simile impostazione si profila più rispettosa della tutela
Costituzionale accordata al diritto di azione in giudizio dall’art. 24 Cost.
Ritiene infatti il Collegio che la limitazione del diritto di agire in
giudizio, quand’anche ammissibile, debba essere posta inequivocabilmente
dall’ordinamento (in presenza, peraltro, di interessi di pari rango
costituzionale) e che, nel dubbio su come esso debba essere inteso rispetto
ad una data tipologia di contenzioso, sia preferibile quella tesi che amplia
l’esercizio del diritto riconosciuto dalla Costituzione, piuttosto che
restringerlo.
---------------
Il contenzioso ha ad oggetto il provvedimento autorizzatorio del
SUAP – Cilento, del 15.02.2018, richiesto ed assentito per la “realizzazione
del progetto di adeguamento igienico-sanitario, completamento ed
ampliamento, attraverso la realizzazione di nuove unità destinate a
residenza turistica, della struttura alberghiera esistente denominata
albergo la Co.”.
Con tale provvedimento, la società controinteressata, secondo quanto da essa
stessa dedotto, è stata autorizzata all’adeguamento igienico–sanitario e
al completamento dell’Albergo “La Co.”, sito in Palinuro, sul terreno
identificato dalla particella n. 103, di proprietà della sig.ra Lu.Pa., detenuto da I.T.S. S.r.l. per contratto di locazione, nonché, su
due porzioni di terreno adiacenti all’albergo, di proprietà della I.T.S.
S.r.l., alla demolizione e ricostruzione dell’immobile preesistente sul
lotto identificato dalla particella n. 106, e alla costruzione di un nuovo
fabbricato sul terreno inedificato adiacente sulla particella n. 104.
...2.2 In linea generale, la questione giuridica sottesa alla decisione
dell’eccezione pregiudiziale concerne la consistenza che deve presentare
l’interesse ad agire del proprietario di un fondo contiguo o comunque posto
nelle vicinanze di quello su cui si assume si stia realizzando
un’edificazione illegittimamente assentita, affinché sia ammissibile
l’impugnativa del titolo abilitativo rilasciato dall’amministrazione
competente (posto, ovviamente, che l’ammissibilità di una simile
impugnazione è ammessa dal giurisprudenza amministrativa, seppure, come si
vedrà, a differenti condizioni).
2.3 In materia edilizia si fronteggiano due orientamenti (di tale contrasto
dà conto, di recente, Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.03.2019, n. 2025).
2.3.1 Il primo e tradizionale orientamento è quello che ritiene la vicinitas,
intesa quale stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato (cfr., ad esempio, da ultimo,
TRGA Trentino-Alto Adige Bolzano, 06/03/2019, n. 60), elemento
sufficiente a radicare la legittimazione e l’interesse ad agire in giudizio,
senza che sia necessario, da parte del ricorrente, fornire la prova di un
pregiudizio concreto ed effettivo arrecato alla sua sfera giuridica (e
dunque ad una specifica situazione giuridica soggettiva in esso presente)
dal provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.04.2019, n.
2645; Consiglio di Stato, sez. VI, 10.09.2018, n. 5307. Distinguendo
questo caso da quello avente ad oggetto l’impugnazione delle scelte di
pianificazione urbanistica: Consiglio di Stato, sez. IV, 20.08.2018, n.
4969; id., sez. IV, 26.07.2018, n. 4583).
Una recente sentenza del Consiglio di Stato (Sez. VI, 29.03.2019, n.
2100) ha puntualizzato come “la giurisprudenza ha riconosciuto il criterio
della vicinitas di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli
titoli edilizi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010 n. 2565), assorbendo
in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione, qualora ad impugnare
sia il proprietario confinante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29.12.2010
n. 9537).
… deve aggiungersi che, nell’ambito degli abusi edilizi, la giurisprudenza
ritiene il pregiudizio del confinante in re ipsa, dato che ogni edificazione
abusiva incide sull'equilibrio urbanistico e sull' ordinato sviluppo del
territorio (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 11.06.2015, n. 2861; Cons. di
Stato, Sez. IV, 23.06.2015, n. 3180)”, così ribadendo e confermando
l’orientamento tradizionale.
2.3.2 Il secondo e più recente orientamento, invece, ritiene necessario che
il ricorrente fornisca la “prova concreta del vulnus specifico inferto dagli
atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del
valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed
all'ambiente” (Cons. Stato Sez. IV, 22.06.2018, n. 3843; Consiglio di
Stato, sez. IV, 15.12.2017 n. 5908; Consiglio di Stato, sez. VI, 18.10.2017, n. 4830).
Di recente, a questo orientamento ha aderito Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.03.2019 n. 1656, il quale, in un caso peculiare, riguardante
l’impugnazione di una variante in riduzione di un’opera precedentemente
assentita da un titolo edilizio non impugnato, ha però avuto modo di
evidenziare come la “vicinitas può anche rilevare al fine di qualificare la lesività dell’intervento e quindi il pregiudizio patito in conseguenza del
rilascio del titolo autorizzatorio atteso che, di regola, e quindi, secondo
l’id quod plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile
di arrecare pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area
interessata dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di
maggior carico urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…; in
questo senso i precedenti giurisprudenziali richiamati dagli appellati
meritano senz’altro conferma”.
2.4 È immediatamente evidente che l’adesione all’uno o all’altro
orientamento condiziona l’ammissibilità del presente ricorso, poiché il
ricorrente, pur avendo allegato circostanze idonee a rappresentare una
situazione di concreto ed effettivo vulnus alla sua sfera giuridica e,
segnatamente al suo diritto di proprietà, non ha tuttavia fornito la prova
della sussistenza della situazione descritta e vi è stata una specifica
contestazione di tali circostanze ad opera della controparte.
2.4.1 Va evidenziato, infatti, che il ricorrente, oltre ad aver invocato la
vicinanza tra i fondi, quale criterio di radicamento della legittimazione e
dell’interesse a ricorrere, deducendo di essere il proprietario di
un’abitazione che fronteggia i fondi interessati dalle opere edilizie
assentite, ha altresì rilevato che a causa della loro realizzazione subirà
la perdita di un panorama particolarmente ameno, oltre che una minore
fruizione di luce, aria e vedute.
Gli aspetti appena elencati costituiscono attributi rilevanti del diritto di
proprietà, poiché ne connotano in modo qualitativamente significativo il
godimento sia sul piano prettamente non patrimoniale che su quello
patrimoniale, sicché una loro lesione, ad opera di una costruzione
illegittimamente assentita, è idonea a radicare l’interesse ad agire in
giudizio, per domandare la pronuncia di annullamento dell’atto che rende
possibile la realizzazione di tali opere asseritamente lesive.
2.4.2 Tuttavia, ove si aderisse al secondo dei due orientamenti, sarebbe
necessario verificare su quale parte incomba l’onere della prova circa la
sussistenza o l’insussistenza dell’asserita lesione dell’interesse
giuridicamente rilevante della parte che esperisce l’azione giudiziaria,
considerato che, nel caso di specie, la controinteressata ha contestato
l’effettiva sussistenza della lesione paventata dal ricorrente.
2.5 Operata questa premessa, si ritiene di dover ritenere infondata
l’eccezione opposta e, dunque, ammissibile il ricorso proposto per le
ragioni che seguono.
2.6 Ritiene infatti il Collegio preferibile dare continuità all’orientamento
che, tradizionalmente, è sempre stato maggioritario nell’ambito della
giurisprudenza amministrativa e che, ancora adesso, risulta tutt’altro che
superato da quello più recente, di cui si è dato conto.
2.6.1 Invero, a fronte di un’edificazione asseritamente illegittima da un
punto di vista edilizio, compiuta in un’area dove chi agisce in giudizio è
titolare di un diritto di proprietà su di un determinato bene, si ritiene
più opportuno consentire a costui di proporre ricorso al G.A., lamentando la
lesione di quelle regole che disciplinano le trasformazioni del territorio,
allegando, quale condizione dell’azione, in punto di legittimazione ed
interesse ad agire, la mera vicinanza di un suo bene al luogo in cui si sta
commettendo l’abuso e si sta, quindi, contravvenendo a tali regole, quale
formula idonea a compendiare adeguatamente sia gli elementi fondanti la
legittimazione ad agire sia quelli inerenti all’interesse a ricorrere.
2.6.2 L’interesse a ricorrere, in una siffatta ipotesi, è costituito, per
l’appunto, dal risultato utile, perseguito mediante la proposizione della
domanda di annullamento del titolo edilizio illegittimamente rilasciato, di
evitare quelle edificazioni che, in quanto illegittime (perché in contrasto
con le norme di legge o con gli strumenti urbanistici di governo del
territorio), vanno ad incidere sul territorio (in cui si colloca anche la
sua proprietà), alterandone il carico urbanistico e la conformazione
morfologica ed abitativa, in modo diverso da quanto programmato
dall’amministrazione in sede di pianificazione, secondo quello che quest’ultima,
in quanto autorità a ciò preposta dal legislatore, ha ritenuto essere
l’assetto ottimale.
Se si assume –come, del resto, fa il nostro ordinamento– che la
pianificazione urbanistica e il controllo sulla legittimità dell’attività
edilizia perseguano quei valori e quegli interessi pubblici compendiati
nella formula dell’“ordinato e razionale assetto del territorio”,
l’eventuale lesione di tali valori ed interessi, perpetrati attraverso
un’edificazione abusiva, rileva per chi in quel determinato territorio è
titolare di un diritto di proprietà e si avvantaggia, per l’appunto, del
razionale sviluppo dell’area in cui il bene di cui è titolare si colloca.
Su quest’ultimo punto è bene compiere un’ulteriore precisazione: l’interesse
ad un ordinato assetto del territorio è, in linea di massima, interesse di
tutta la collettività, ma la sua salvaguardia è demandata
all’amministrazione.
E’ dunque chiaro che, così come i privati, di regola, non possono
“sostituirsi” alla P.A. nella tutela dell’interesse in questione, allo
stesso modo essi non possono sostituire il loro apprezzamento su ciò che
vantaggioso realizzare in un determinato ambito territoriale, essendo tale
scelta rimessa all’esclusivo apprezzamento della P.A., espresso in sede di
pianificazione.
Quest’ultima eventualità si concretizzerebbe, tuttavia, laddove si
consentisse a chi ha beneficiato di un permesso di costruire illegittimo di
opporre al proprietario confinante che dall’edificazione, pur in tesi
assunta come illegittima, non scaturirà, in concreto, alcuna conseguenza
pregiudizievole in capo a costui.
Il punto di equilibrio allora è ritenere che coloro che sono insediati in
una determinata zona e fruiscono, “in” e “per” quella zona, delle scelte di
pianificazione operate dall’amministrazione e dunque di un ordinato e non
caotico sviluppo del territorio, beneficiandone direttamente e concretamente
nella propria sfera giuridica, abbiano interesse ad agire in giudizio per
salvaguardare quelle decisioni, ogni qualvolta ritengano che
l’amministrazione stessa le abbia disattese.
È evidente che l’essere proprietari di un bene collocato in un’area ordinata
e frutto di scelte di pianificazione coerenti e logiche è preferibile
dell’essere proprietari di un bene collocato in un’area che invece presenta
un’edificazione disordinata e caotica, frutto dei desiderata estemporanei
dei diversi proprietari.
Sicché, in ultima analisi, si ritiene che la vicinitas ben si ponga quale
elemento discriminante (necessario e sufficiente) fra chi fruisce della
legittimazione (perché deduce di essere titolare di un diritto di proprietà
leso dall’abuso edilizio che si sta consumando o si è consumato) e
dell’interesse ad agire (perché deduce che, attraverso gli effetti
demolitori della pronuncia di annullamento, con l’eliminazione del permesso
di costruire, tale lesione giuridica verrà eliminata) e chi invece ne è
privo, proprio in considerazione di quanto rilevato da Consiglio di Stato,
Sez. IV, 13.03.2019 n. 1656, a mente del quale, “…secondo l’id quod
plerumque accidit, un nuovo insediamento edilizio è suscettibile di arrecare
pregiudizio a quanti risiedono in prossimità dell’area interessata
dall’intervento di trasformazione edilizia, in termini di maggior carico
urbanistico, di perdita di luce, aria, visuale ecc…;” (seppure, poi, il
richiamato precedente aderisca al secondo dei due orientamenti citati).
2.6.3 Si ritiene, peraltro, che in assenza di una definizione univoca di
interesse ad agire e in presenza, dunque, di una molteplicità di tesi che ne
disputano la qualificazione e la valenza (quale presupposto processuale,
condizione dell’azione o, finanche, elemento correlato al merito della
controversia, oltre che in presenza di un’autorevole, ma isolata dottrina
che ne contesta addirittura la sussistenza), sia preferibile l’adesione ad
un orientamento volto ad ampliarne la portata e non a restringerla, poiché
una simile impostazione si profila più rispettosa della tutela
Costituzionale accordata al diritto di azione in giudizio dall’art. 24 Cost.
Ritiene infatti il Collegio che la limitazione del diritto di agire in
giudizio, quand’anche ammissibile, debba essere posta inequivocabilmente
dall’ordinamento (in presenza, peraltro, di interessi di pari rango
costituzionale) e che, nel dubbio su come esso debba essere inteso rispetto
ad una data tipologia di contenzioso, sia preferibile quella tesi che amplia
l’esercizio del diritto riconosciuto dalla Costituzione, piuttosto che
restringerlo.
2.6.4 Va poi anche rilevato che ritenere che il ricorrente debba non
soltanto dedurre, ma anche provare, in concreto, quale sia il pregiudizio a
lui discendente dall’abuso da altri commesso, potrebbe determinare delle
conseguenze paradossali nell’ambito del processo (e specialmente nell’ambito
del processo amministrativo, ove il thema decidendum attiene alla
legittimità di un atto).
Si pensi al caso in cui, a fronte di un ricorrente che comprova il suddetto
pregiudizio, ad es., con un elaborato peritale, si contrapponga
l’amministrazione o un controinteressato che, a sua volta, contesti la
sussistenza di quel pregiudizio con un altro elaborato peritale.
Il giudice dovrebbe, ove ritenga le due relazioni parimenti attendibili,
disporre una verificazione o una consulenza, per verificare se sussista o
meno una condizione dell’azione. Dovrebbe cioè svolgere un’attività
istruttoria complessa per appurare la sussistenza non già degli elementi
attinenti al merito della controversia, bensì soltanto relativi ai profili
pregiudiziali e di carattere meramente processuale.
Ciò comporterebbe un appesantimento dell’attività processuale e un possibile
allungamento dei tempi del processo, in spregio alla regola sancita
dall’art. 111 Cost.
Anche da questo versante, dunque, il primo dei due orientamenti risulta
preferibile.
2.6.5 La tesi che impone di provare in concreto il pregiudizio subito dal
proprietario confinante pone anche ulteriori, non condivisibili,
conseguenze.
Sulla scorta di questa tesi, infatti, non potrà reagire ad un’edificazione
illegittima chi sia proprietario di un terreno posto al confine con un’area
che al momento della commissione dell’abuso è abbandonata o in uno stato di
degrado: se infatti è il terreno su cui l’edificazione ritenuta illegittima
andrà esplicata versa in una simile condizione, l’abuso edilizio commesso
rappresenterà, tendenzialmente, sempre un miglioramento dello stato dei
luoghi, determinandosi così l’inconfigurabilità di quel pregiudizio concreto
richiesto, dal secondo dei due orientamenti sopra ricordati, per potersi
agire in giudizio.
Il proprietario confinante dovrà tollerare la commissione
dell’abuso, senza avere strumenti adeguati per reagirvi, quantomeno innanzi
al Giudice amministrativo, anche se l’area su cui l’edificazione illegittima
avviene era stata destinata a tutt’altra finalità in sede di pianificazione
(si pensi, ad es., ad un fondo in stato di abbandono, ma destinato a verde
pubblico, per il quale è stato rilasciato un illegittimo permesso di
costruire).
2.7 In conclusione, il Collegio ritiene che la sussistenza della mera
vicinitas tra fondi costituisca presupposto sufficiente per radicare la
legittimazione e l’interesse ad agire.
Essendo il dato della vicinitas incontestato nel presente giudizio, il
ricorso va dichiarato ammissibile
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 03.07.2019 n. 1198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa il c.d. “lotto intercluso”, la giurisprudenza del Giudice
amministrativo ha avuto modo di chiarire che la fattispecie in questione
configura un’ipotesi eccezionale, poiché deroga alla regola della necessità
del piano attuativo, ove previsto da quello generale.
Nell’ambito di questa giurisprudenza e dei principi da essa enunciati,
il Giudice amministrativo ha anche avuto modo di chiarire che:
- “L'esigenza di
un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di
armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”
e che
- “In linea di
principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il
P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del
permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo. Pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la
necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione
della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il
lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non
anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si
trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione
esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione)”.
---------------
4.
Il ricorso, tuttavia, è fondato anche in relazione a quella censura (secondo
motivo di ricorso) che lamenta la violazione dell’art. 23 N.T.A. del P.R.G.
del Comune di Camerota, per essere stato l’intervento edilizio autorizzato
in assenza della previa predisposizione di un piano esecutivo.
Invero, nella sua memoria difensiva, la società controinteressata ha
contestato la deduzione di parte ricorrente, richiamando quella
giurisprudenza sul c.d. lotto intercluso e allegando, quindi, che, nel caso
di specie, il piano esecutivo non sarebbe stato necessario.
4.1 Dalla verificazione disposta dal Collegio è invero emerso che “La zona
in cui va a collocarsi l’intervento in argomento è caratterizzata dalla
presenza di un tessuto edilizio notevolmente articolato…Ciò ha determinato
che quanto alla omogeneità del tessuto edilizio esistente, esso si presenti
come scarsamente omogeneo e fortemente caratterizzato da notevole
stratificazione…In relazione al livello quantitativo di edificazione
riscontrabile, già la stessa qualificazione della zona come Zona Omogenea di
tipo “B” denota un alto livello di edificazione suscettibile, però, ancora
di completamenti”.
Per completezza, va soggiunto che il verificatore ha evidenziato che
“…nell’area libera in argomento oggetto del proposto intervento costruttivo
non si ritiene che sia possibile un intervento pubblico di realizzazione di
urbanizzazioni…”.
4.2 Circa il c.d. “lotto intercluso”, la giurisprudenza del Giudice
amministrativo ha avuto modo di chiarire che la fattispecie in questione
configura un’ipotesi eccezionale, poiché deroga alla regola della necessità
del piano attuativo, ove previsto da quello generale (ex plurimis, Consiglio
di Stato Sez. IV, 14.11.2018, n. 6417; TAR Lazio-Latina Sez. I, 02.11.2018, n. 554; Consiglio di Stato Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397;
TAR Campania Napoli Sez. VIII, 24.03.2016, n. 1580; TAR Campania
Napoli Sez. VIII, 18.12.2015, n. 5801; Consiglio di Stato Sez. V, 31.10.2013, n. 5251).
4.3 Nell’ambito di questa giurisprudenza e dei principi da essa enunciati,
il Giudice amministrativo ha anche avuto modo di chiarire che “L'esigenza di
un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della
concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di
armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata”
(Consiglio di Stato Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397) e che “In linea di
principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il
P.R.G. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del
permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo. Pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la
necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la
situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione
della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il
lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non
anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si
trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a
restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione
esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone
contigue, già asservite all'edificazione)” (Consiglio di Stato Sez. IV, 08.02.2018, n. 825 e Consiglio di Stato Sez. IV, 12.07.2018, n.
4271).
4.4 Le suesposte coordinate ermeneutiche consentono dunque di ritenere
fondata la censura dedotta da parte ricorrente circa la necessità del piano
attuativo, sulla scorta della rappresentazione della zona in cui
l’intervento va a collocarsi, fornita da parte del verificatore.
L’elaborato peritale, pur dando atto della pressoché quasi totale
edificazione dell’area in cui l’intervento interviene (“la stessa
qualificazione della zona come Zona Omogenea di tipo “B” denota un alto
livello di edificazione suscettibile, però, ancora di completamenti”), ha
nondimeno evidenziato che essa presenta uno sviluppo urbanistico
frastagliato e disomogeneo, frutto di un’edificazione non pianificata né
coordinata e, dunque, in ultima analisi non pienamente razionale, come tale
suscettibile di quel doveroso miglioramento, cui si richiama l’orientamento
giurisprudenziale da ultimo citato (ossia Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.04.2018, n. 2397, Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.02.2018, n. 825
e Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.07.2018, n. 4271).
In buona sostanza, nel caso di specie, la sussistenza di un’edificazione
disomogenea, in ragione dei richiamati precedenti, esige un intervento
idoneo a restituire efficienza all'abitato, cosicché ben può statuirsi che,
in ragione dello stato di fatto emerso dalla verificazione, si profila
illegittimo il provvedimento autorizzatorio rilasciato dal Comune, in
assenza della previa approvazione del piano attuativo.
4.5 La doglianza formulata dal ricorrente va dunque accolta
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 03.07.2019 n. 1198 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Contenuto
delle convenzioni urbanistiche.
Le convenzioni
urbanistiche (alle quali è assimilabile
l’atto unilaterale d’obbligo che accede a un
titolo abilitativo) sono la sede naturale
per introdurre criteri diversi di
compensazione tra gli oneri concessori e le
opere di interesse pubblico eseguite
direttamente a spese dei privati.
Per quanto riguarda questi ultimi, le
posizioni giuridiche relative agli oneri
concessori sono considerate disponibili, e
dunque non vi sono ostacoli alla definizione
di un sinallagma che preveda anche
l’accettazione di condizioni meno
vantaggiose rispetto a quelle risultanti
dalla normativa regionale o comunale, purché
sia salvaguardata l’utilità economica finale
dell’intervento edilizio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 03.07.2019 n. 624 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3. Deve a questo punto essere esaminata la
domanda proposta in via subordinata, con la
quale il Comune di Gorle, ove fosse accolta
la domanda di gravare i mappali n. 2250 e
2254 di passo pedonale e carraio, chiede di
condannare IFL a risarcire i danni per il
minor valore del parcheggio e per gli oneri
da sostenere per garantire la sicurezza
degli utenti della strada (alla luce
dell’utilizzo “promiscuo”, pubblico e
privato).
La domanda è fondata e merita di essere
accolta.
3.1 In linea generale, le convenzioni
urbanistiche (alle quali è assimilabile
l’atto unilaterale d’obbligo che accede a un
titolo abilitativo) sono la sede naturale
per introdurre criteri diversi di
compensazione tra gli oneri concessori e le
opere di interesse pubblico eseguite
direttamente a spese dei privati; per quanto
riguarda questi ultimi,
ha osservato questa Sezione (cfr. sentenza 22/2/2018 n. 198) che
le posizioni giuridiche relative agli oneri
concessori sono considerate disponibili, e
dunque non vi sono ostacoli alla definizione
di un sinallagma che preveda anche
l’accettazione di condizioni meno
vantaggiose rispetto a quelle risultanti
dalla normativa regionale o comunale, purché
sia salvaguardata l’utilità economica finale
dell’intervento edilizio.
Ha statuito la
pronuncia che <<Come osservato da TAR
Trieste – 30/12/2016 n. 589 (che risulta
appellata) “nulla osta a che il privato
proponente un piano attuativo,
nell’esercizio della propria autonomia
negoziale, assuma in sede di convenzione
urbanistica obblighi, di fare e/o di dare,
ulteriori ed eccedenti rispetto a quelli
discendenti dalla legge. La convenzione
urbanistica, infatti, rientra nel novero
degli accordi integrativi o sostitutivi di
provvedimento, e vede combinarsi insieme
poteri pubblicistici (dell’amministrazione),
con quelli privatistici (di entrambi i
contraenti) di autoregolare il proprio
assetto di interessi, con l’assunzione di
reciproci obblighi e correlati diritti di
credito …. nell’equilibrio del sinallagma
contrattuale cristallizzato nella
convenzione urbanistica l’obbligo di rendere
prestazioni eccedenti il minimo legale ben
può risultare giustificato dai benefici che
la convenzione consente comunque al privato
di conseguire ….>>.
Nella sentenza di questa Sezione 14/02/2018
n. 181 è stata affrontata, in termini
generali, la questione dell’efficacia di un
Piano attuativo e si è sostenuto (con il
richiamo alla sentenza sez. I – 15/09/2014 n.
991) che “Il problema della durata dei
vincoli a carico dei lottizzanti deve invece
essere impostato a partire dal collegamento
con le facoltà edificatorie. Se un piano attuativo stabilisce un certo equilibrio tra
i diritti dei lottizzanti complessivamente
intesi (indici edificatori, destinazione dei
nuovi edifici) e gli obblighi che i
lottizzanti assumono nei confronti
dell’amministrazione (opere e oneri di
urbanizzazione, cessione gratuita di aree a
standard), è evidente che una cancellazione
(totale o parziale) degli obblighi può
essere ipotizzata solo quando si sia
verificata e sia definitiva una
corrispondente cancellazione (totale o
parziale) dei diritti”.
Ha aggiunto questo
TAR che “La ricostituzione
dell’equilibrio tra le posizioni giuridiche
opera in entrambe le direzioni, ossia tanto
a beneficio dei privati quanto a beneficio
dell’amministrazione. Così, se le
urbanizzazioni vengono ultimate e l’area è
definitivamente trasformata secondo
l’impostazione del piano attuativo, si
verifica l’effetto irreversibile della
lottizzazione (argomento ex art. 17 della
legge 1150/1942), con la conseguenza che le
singole edificazioni private possono
proseguire anche dopo la scadenza
originariamente prevista nella convenzione
urbanistica, purché sia assicurato il
rispetto degli allineamenti e delle altre
prescrizioni del piano attuativo. Per
converso, se i lottizzanti hanno già
esaurito il volume concesso dal piano
attuativo, non possono rifiutarsi di
ottemperare agli obblighi assunti, anche se
l’amministrazione sia in ritardo nel
chiederne l’esecuzione. La conformazione dei
luoghi conseguente alla lottizzazione vale
quindi anche come conformazione delle
singole proprietà, sulle quali grava di
conseguenza un vincolo non solo obbligatorio
ma reale a favore dell’amministrazione”. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo alle occupazioni o al
riposo delle persone - Momento consumativo del reato - Unica
condotta rumorosa o di schiamazzo - Configurabilità - Natura
di reato eventualmente permanente - Art. 659, comma primo,
cod. pen. - Giurisprudenza.
La contravvenzione di cui all'art. 659,
comma primo, cod. pen., è reato solo eventualmente
permanente, che si può consumare anche con un'unica condotta
rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate
circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al
riposo delle persone, in quanto non è necessaria la prova
che il rumore abbia concretamente molestato una platea più
diffusa di persone, essendo sufficiente l'idoneità del fatto
a disturbare un numero indeterminato di individui
(Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, dep. 2015, Calvarese).
In definitiva, quindi, per l'integrazione
del reato è sufficiente l'idoneità della condotta ad
arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, non
occorrendo l'effettivo disturbo alle stesse (in specie è
stata così ritenuta integrata la fattispecie a carico del
proprietario di cani, tenuti in un giardino recintato, che
non aveva impedito il loro continuo abbaiare, tale da
arrecare disturbo al riposo delle persone dimoranti in
abitazioni contigue)
(Sez. 1, n. 7748 del 24/01/2012, Giacomasso e altro).
Sì che la ricerca di una platea più diffusa
di persone che possano essere state effettivamente
disturbate riguarda l'intensità e la diffusività del danno,
non la sussistenza del reato. Nella specie, i rumori avevano
una potenzialità diffusa, ancorché solamente alcune persone
se ne potessero lamentare in concreto, anche a prescindere
comunque dal fatto che la sussistenza degli elementi
costitutivi del reato era fornita dalla stessa costituzione
di un comitato di cittadini della zona e dalle segnalazioni
degli abitanti.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Reato di disturbo delle occupazioni
e del riposo delle persone - Responsabilità del gestore di
un pubblico esercizio - Schiamazzi provocati degli avventori
- Qualità di titolare della gestione dell'esercizio pubblico
- Obbligo giuridico di controllare - Art. 659 c.p..
Risponde del reato di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un
pubblico esercizio (in specie, un locale di intrattenimento)
che non impedisca i continui schiamazzi provocati degli
avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore
notturne, poiché al gestore è imposto l'obbligo giuridico di
controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o
all'autorità, che la frequenza del locale da parte degli
utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste
a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica
(Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo; Sez. 1, n. 48122
del 03/12/2008, Baruffaldi).
Infatti la qualità di titolare della
gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione
dell'obbligo giuridico di controllare che la frequentazione
del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte
contrastanti con le norme concernenti la polizia di
sicurezza (Sez. 1,
n. 16686 del 28/03/2003, Massazza) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.07.2019 n. 28570 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza
costante, invero, il permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36, d.P.R. n. 380/2001 è
finalizzato alla regolarizzazione degli abusi
meramente formali -vale a dire di interventi che,
pur effettuati senza il preventivo rilascio del
titolo abilitativo edilizio, risultino conformi alla
normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento
della loro realizzazione e al momento della
presentazione dell’istanza di sanatoria- e non può
riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che
necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione,
salvo che si tratti di semplice completamento dei
lavori già intrapresi.
Questo principio esclude l’ammissibilità del
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
subordinato alla realizzazione di opere, siano esse
di demolizione o, come nel caso di specie, di
edificazione -pur se, per quanto si è affermato,
tali opere non sono da ritenersi necessarie a
regolarizzare il fabbricato- e costituisce ragione
ostativa al rilascio del permesso di costruire
domandato dal ricorrente.
---------------
10. Ciò non porta tuttavia all’annullamento del
provvedimento impugnato stante la legittimità del
principio applicato dall’amministrazione comunale
nella parte in cui contesta la possibilità di
rilasciare un permesso di costruire in sanatoria
subordinato alla realizzazione di opere.
Per giurisprudenza costante, invero, il permesso di
costruire in sanatoria ex art. 36, d.P.R. n.
380/2001 è finalizzato alla regolarizzazione degli
abusi meramente formali -vale a dire di interventi
che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del
titolo abilitativo edilizio, risultino conformi alla
normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento
della loro realizzazione e al momento della
presentazione dell’istanza di sanatoria- e non può
riguardare, in conseguenza, interventi abusivi che
necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione,
salvo che si tratti di semplice completamento dei
lavori già intrapresi (TAR Liguria, Sez. I, sentenza
n. 1003 del 16/12/2015; TAR Piemonte, Sez. I,
04.11.2016, n. 1372).
Questo principio esclude l’ammissibilità del
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
subordinato alla realizzazione di opere, siano esse
di demolizione o, come nel caso di specie, di
edificazione -pur se, per quanto si è affermato,
tali opere non sono da ritenersi necessarie a
regolarizzare il fabbricato- e costituisce ragione
ostativa al rilascio del permesso di costruire
domandato dal ricorrente.
11. Anche l’istanza risarcitoria è infondata e deve
essere respinta in quanto non supportata da alcuna
prova, non essendo stata fornita, in particolare, la
prova della demolizione del fabbricato (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 02.07.2019 n. 749 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza ha ritenuto, con riferimento alle attività di pavimentazione
e spargimento di ghiaia sul terreno che debba essere assentita dal Comune
ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, anche quelle non consistenti in attività di edificazione, ma
nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo
qualora appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione
d’uso.
Con riferimento alla realizzazione di parcheggi, la giurisprudenza di questo
Consiglio ha più volte affermato la necessità del permesso di costruire
edilizio, in quanto la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il
carico urbanistico
---------------
Ritiene il Collegio che, rispetto a tale disciplina, l’opera concretamente
realizzata, con la posa di un massetto di pochi centimetri e la sua
esclusiva funzione di manutenzione del terreno, non potesse configurare,
diversamente da quanto affermato dal giudice di primo grado, una opera di
trasformazione irreversibile del terreno con realizzazione di un nuovo
organismo edilizio.
La esclusiva funzione di manutenzione del terreno è, in fatto, confermata
anche dalla mancanza di qualsiasi attività edilizia successiva alla posa del
massetto nonché dello stesso utilizzo dell’area, in base alle circostanze
risultanti dagli atti del giudizio.
Ne deriva che tale opera non richiedesse la concessione edilizia e che
potesse essere realizzata con denunzia di inizio attività, rientrando nella
definizione di restauro e risanamento conservativo di cui al primo comma
lettera c) della legge n. 457 del 1978.
A sostegno di tale interpretazione ritiene il Collegio di richiamare,
altresì, le norme sopravvenute in materia edilizia, non applicabili al caso
di specie, ma utilizzabili quale ausilio interpretativo, che hanno
espressamente indicato “le opere di pavimentazione e di finitura di spazi
esterni, anche per aree di sosta” (che siano contenute entro l'indice di
permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico) nella attività
edilizia libera ( attualmente art. 6 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, comma 1,
lettera e-ter).
La giurisprudenza, infatti, ha ritenuto, con riferimento alle attività di
pavimentazione e spargimento di ghiaia sul terreno che debba essere
assentita dal Comune ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, anche quelle non consistenti in attività di
edificazione, ma nella modificazione dello stato materiale e della
conformazione del suolo qualora appaia preordinata alla modifica della
precedente destinazione d’uso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.04.2012, n.
2450, id. 31.03.2016 n. 1268 con riguardo ad una attività di spargimento di
ghiaia su di un’area). Con riferimento alla realizzazione di parcheggi, la
giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte affermato la necessità del
permesso di costruire edilizio, in quanto la sistemazione di un’area a
parcheggio aumenta il carico urbanistico (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
17.12.2018, n. 7103).
Nel caso di specie, la posa del massetto di cemento non ha comportato alcuna
modifica della destinazione d’uso del terreno né una qualunque utilizzazione
del bene; è escluso, quindi, che la modifica dello stato materiale del suolo
sia stata effettuata per adattarlo ad un utilizzo diverso, né una tale
circostanza è stata contestata dal Comune; sembra utile rilevare, del pari,
che l’amministrazione pubblica non ha mai contestato le affermazioni degli
originari ricorrenti circa la finalità del modesto manufatto, utile ad
evitare incivili fenomeni di abbandono incontrollato di rifiuti: e d’altra
parte, per un elementare principio di non contraddizione dell’ordinamento,
una volta che il sistema onera il privato proprietario a vigilare sulla non
adibizione dell’area di sua pertinenza a discarica da parte di terzi
(attraverso la predisposizione di recinzioni, etc.) sembra incongruo che, di
converso, lo sanzioni in termini così afflittivi per una modestissima opera
volta proprio a perseguire detta finalità
Inoltre, neppure appare riportabile ad un aumento del carico urbanistico
della zona interessata.
Ritiene, ancora, il Collegio, che, per le concrete modalità dell’opera, nel
caso di specie, il Comune non potesse fare applicazione in maniera legittima
dei poteri di cui all’art. 4 della legge n. 47 del 1985, che prevede la
demolizione per le “opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da
leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a
vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad
interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962,
n. 167”.
Infatti, a prescindere dalla effettiva natura del vincolo- conformativo o
espropriativo- posto sull’area in base alla destinazione di piano regolatore
(parchi pubblici e impianti sportivi), la particolare natura dell’opera
realizzata non appare in contrasto con tale destinazione, trattandosi di una
mera attività di pavimentazione funzionale alla conservazione in buono stato
dell’area, non incompatibile con la destinazione impressa dal piano
regolatore
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 4475 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
costante e consolidata giurisprudenza, il verbale redatto e sottoscritto
dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante
l’esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente
fino a querela civile di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle
circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di
fatto, sia rispetto allo status quo ante.
---------------
Per quanto occorrer possa -in relazione alla deduzione, effettuata in
extremis, che imputa ai tecnici comunali una erronea rilevazione degli
abusi- ricorda il Collegio che, per costante e consolidata giurisprudenza,
il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a
seguito di sopralluogo, attestante l’esistenza di manufatti abusivi,
costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela civile di falso, ai
sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia
relativamente allo stato di fatto, sia rispetto allo status quo ante
(cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 05.10.2018, n. 5738).
Nella fattispecie non risulta documentata né la proposizione di una querela
civile di falso né, comunque, risulta essere stata altrimenti accertata in
altro giudizio (civile e/o penale), la falsità della relazione della
relazione di sopralluogo agli del processo di primo grado.
Nella valutazione dei motivi articolati in sede di appello, il Collegio si
atterrà pertanto esclusivamente alla descrizione risultante da siffatto
verbale, così come trasfusa nei provvedimenti impugnati in primo grado
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.07.2019 n. 4472 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa, con riferimento a strutture tipo “gazebo”, ne
ha ritenuto l’inquadramento nel regime pertinenziale e di manutenzione
straordinaria solo con riferimento a manufatti di modeste dimensioni e
consistenza, aventi funzioni di riparo dagli agenti atmosferici, costituenti
semplici arredi, mentre ha escluso i manufatti che, per le apprezzabili
dimensioni strutturali, per l’impatto visivo, il non trascurabile “carico
urbanistico”, la loro conformazione e destinazione all'attività
imprenditoriale, la rilevante alterazione della sagoma esterna
dell’immobile, implicano una incidenza significativa sull’assetto
urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto edilizio.
---------------
Per configurare una c.d. “pergotenda”, in quanto tale non necessitante di
titolo abilitativo, occorre che l’opera principale sia costituita non dalla
struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o
dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve
qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all’estensione della tenda.
Non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è
solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente
variazione di sagoma e prospetto dell’edificio.
---------------
In proposito, la giurisprudenza
amministrativa, con riferimento a strutture tipo “gazebo”, ne ha
ritenuto l’inquadramento nel regime pertinenziale e di manutenzione
straordinaria solo con riferimento a manufatti di modeste dimensioni e
consistenza, aventi funzioni di riparo dagli agenti atmosferici, costituenti
semplici arredi, mentre ha escluso i manufatti che, per le apprezzabili
dimensioni strutturali, per l’impatto visivo, il non trascurabile “carico
urbanistico”, la loro conformazione e destinazione all'attività
imprenditoriale, la rilevante alterazione della sagoma esterna
dell’immobile, implicano una incidenza significativa sull’assetto
urbanistico ed una consistente trasformazione del tessuto edilizio.
In particolare, ancora da ultimo, questo Consiglio ha evidenziato che, per
configurare una c.d. “pergotenda”, in quanto tale non necessitante di
titolo abilitativo, occorre che l’opera principale sia costituita non dalla
struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o
dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve
qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all’estensione della tenda.
Non è invece configurabile una pergotenda se la struttura principale è
solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente
variazione di sagoma e prospetto dell’edificio (Cons. Stato, sez. VI,
05.10.2018 n. 5737) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.07.2019 n. 4472 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza
paesistica dell’opera.
Ad escludere la
rilevanza paesistica dell’opera non può
considerarsi sufficiente il requisito della
poca visibilità dalla strada pubblica a
fronte del principio, ormai consolidato,
secondo cui ai fini della valutazione di
compatibilità la nozione di “visibilità”
dell'opera nel contesto paesaggistico
tutelato non può ritenersi limitata a
particolari punti di osservazione, ma deve
riguardare l'apprezzamento puntuale e
concreto dell'effettiva compatibilità
dell'intervento e di tutti gli elementi che
ne determinano l’impatto paesaggistico, con
i valori ambientali propri del sito
vincolato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1523 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
9. Venendo al terzo motivo del
ricorso per motivi aggiunti, deve escludersi
l’affidamento, per le motivazioni già
indicate in precedenza: irrilevanza
dell’assenso espresso nell’esame paesistico
del progetto perché è un procedimento
diverso dall’autorizzazione paesistica ed
irrilevanza del tempo trascorso perché la
DIA non ha mai prodotto effetto in mancanza
della richiesta dell’autorizzazione
paesistica.
10. Per quanto riguarda la supposta
irrilevanza paesistica dell’opera, in quanto
il sottotetto non sarebbe visibile dalla
strada (oggetto del terzo motivo di ricorso
principale e del quarto per motivi
aggiunti), la giurisprudenza ha chiarito che
ad escludere la rilevanza paesistica
dell’opera non può considerarsi sufficiente
il requisito della poca visibilità dalla
strada pubblica a fronte del principio,
ormai consolidato, secondo cui ai fini della
valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità”
dell'opera nel contesto paesaggistico
tutelato non può ritenersi limitata a
particolari punti di osservazione, ma deve
riguardare l'apprezzamento puntuale e
concreto dell'effettiva compatibilità
dell'intervento, e di tutti gli elementi che
ne determinano l’impatto paesaggistico, con
i valori ambientali propri del sito
vincolato (cfr. TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n. 1819; Cons. Stato,
sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, e id.,
10.05.2013, n. 2535, ma già id., 28.10.2002,
n. 5881).
Nel caso di specie è chiaro il fatto che
l’innalzamento della copertura per una sua
parte ha alterato l’aspetto esteriore
dell’edificio e che tale modifica, incidendo
sulla facciata del fabbricato, è visibile
quanto meno dagli edifici posti di fronte e
sui lati, quindi si presenta idonea a
modificare il paesaggio.
Né, evidentemente, la similarità della
copertura a quella di altre costruzioni
della zona di per sé determina il corretto
inserimento ambientale del manufatto, in
quanto –una volta accertato che la
variazione c’è stata– il giudizio di
compatibilità è poi in concreto rimesso
all’Autorità amministrativa a ciò
competente, sempre chE sussistano i
requisiti espressamente previsti dalla legge
per l’avvio del procedimento di sanatoria. |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione non
deve essere preceduta dalla comunicazione di
avvio del procedimento, trattandosi di una
misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, adottata in base ad un
procedimento di natura vincolata.
---------------
1. Venendo all’esame del ricorso principale,
diretto nei confronti dell’ordine di
demolizione emesso per mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica, il primo
motivo di ricorso è infondato.
Soccorre l’orientamento giurisprudenziale,
al quale il Collegio si conforma, secondo il
quale “l'ordinanza di demolizione non
deve essere preceduta dalla comunicazione di
avvio del procedimento, trattandosi di una
misura sanzionatoria per l'accertamento
dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, adottata in base ad un
procedimento di natura vincolata" (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.06.2019
n. 7300; TAR Campania, Napoli, sez. VII,
15.03.2019, n. 1448; TAR Puglia, Lecce, Sez.
III, 11.03.2019 n. 413)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1523 -
link a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA:
La richiesta dell’esame dell'impatto paesistico ed il
giudizio positivo espresso dalla Commissione
urbanistica comunale integrata non sono
equipollenti dell’autorizzazione paesistica
in quanto attengono ad immobili che non sono
soggetti a vincolo paesistico.
---------------
La
giurisprudenza amministrativa ha affermato
che, in presenza di zona vincolata, si
impone la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica e che
l’assenza della stessa rende doverosa
l’applicazione della sanzione demolitoria,
tenuto conto che non può attribuirsi alcun
rilievo all’inoltro di una previa DIA,
poiché essa, in mancanza del prescritto
parere dell’autorità preposta alla tutela
del vincolo, è da ritenersi priva di effetti
ai sensi dell’art. 23, comma 3, T.U.
Edilizia.
Né tanto meno deve ritenersi necessario che,
in presenza di un vincolo paesistico,
l’amministrazione debba motivare l’ordine di
demolizione con riferimento alla mancanza di
autorizzazione, dando compiutamente conto
delle ragioni di pubblico interesse che
depongono per il ripristino dello stato dei
luoghi.
Infatti la giurisprudenza, alla
quale il Collegio si conforma, afferma che
in presenza di un illecito paesaggistico,
l’ordine di demolizione di un’opera edilizia
abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né infine una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto e attuale
alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.
Come è stato
ulteriormente precisato, il fatto che
l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico identifica per ciò solo un
preminente interesse pubblico,
costituzionalmente rilevante ex art. 9,
comma 2, Cost., rispetto al quale
l'interesse privato è necessariamente
recessivo.
---------------
2. Venendo al secondo motivo di
ricorso esso è infondato in quanto risulta
dagli atti che la DIA presentata dal
ricorrente Pe. su delega del
proprietario Sc. non reca alcuna
indicazione dell'esistenza del vincolo
paesistico gravante sull’immobile.
In merito occorre precisare che la richiesta
dell’esame dell'impatto paesistico ed il
giudizio positivo espresso dalla Commissione
urbanistica comunale integrata non sono
equipollenti dell’autorizzazione paesistica
in quanto attengono ad immobili che non sono
soggetti a vincolo paesistico. Infatti ai
sensi dell’art. 35 delle Norme di Attuazione
del Piano Territoriale Paesistico Regionale
(P.T.P.R.) approvato con d.C.R. 06.03.2001,
n. 43749 nelle aree assoggettate a specifica
tutela paesaggistica di legge, la procedura
preordinata al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica di cui all’articolo 146 del
d.lgs. 42/2004, e succ. mod. ed int.,
sostituisce l’esame paesistico.
Ne consegue che tale atti non sono idonei a
fondare l’affidamento del privato nella
formazione di un titolo paesistico per la
differenza di oggetto e di procedura.
Né tanto meno può ritenersi formato un
affidamento fondato sul mancato controllo
della DIA per diversi anni, non essendo, il
titolo edilizio, mai divenuto efficace.
Infatti più volte la giurisprudenza
amministrativa ha affermato che, in presenza
di zona vincolata, si impone la previa
acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica e che l’assenza della stessa
rende doverosa l’applicazione della sanzione
demolitoria, tenuto conto che non può
attribuirsi alcun rilievo all’inoltro di una
previa DIA, poiché essa, in mancanza del
prescritto parere dell’autorità preposta
alla tutela del vincolo, è da ritenersi
priva di effetti ai sensi dell’art. 23,
comma 3, T.U. Edilizia (ex plurimis
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza
04/01/2019 n. 56).
Né tanto meno deve ritenersi necessario che,
in presenza di un vincolo paesistico,
l’amministrazione debba motivare l’ordine di
demolizione con riferimento alla mancanza di
autorizzazione, dando compiutamente conto
delle ragioni di pubblico interesse che
depongono per il ripristino dello stato dei
luoghi.
Infatti la giurisprudenza (TAR Piemonte,
Sez. II, sentenza 17.04.2014 n. 642) alla
quale il Collegio si conforma, afferma che
in presenza di un illecito paesaggistico,
l’ordine di demolizione di un’opera edilizia
abusiva costituisce atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né infine una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto e attuale
alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.
Come è stato
ulteriormente precisato, il fatto che
l’abuso ricada in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico identifica per ciò solo un
preminente interesse pubblico,
costituzionalmente rilevante ex art. 9,
comma 2, Cost., rispetto al quale
l'interesse privato è necessariamente
recessivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1523 -
link a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che
"l’impossibilità del ripristino di cui
all’art. 33 D.P.R. 380/2001 (come pure
quella di cui all’art. 34), può essere fatta
valere dall'interessato solo nella fase
esecutiva, e, non come nel caso di specie,
in relazione all'ingiunzione, a carattere
diffidatorio contenuta nel provvedimento
gravato, che precede l'ordine di
demolizione. La valutazione della
possibilità o meno del ripristino deve,
infatti, essere compiuta, ad opera
dell’ufficio tecnico comunale, in sede di
esecuzione dell’ingiunzione di demolizione.
La correttezza di siffatta conclusione si
evince infatti da una lettura del combinato
disposto dei primi due commi dell’art. 33
D.P.R. 380/2001 a mente dei quali “gli
interventi e le opere di ristrutturazione
edilizia di cui all’articolo 10, comma 1,
eseguiti in assenza di permesso o in totale
difformità da esso, sono rimossi ovvero
demoliti e gli edifici sono resi conformi
alle prescrizioni degli strumenti
urbanistico-edilizi entro il congruo termine
stabilito dal dirigente o del responsabile
del competente ufficio comunale con propria
ordinanza, decorso il quale l'ordinanza
stessa è eseguita a cura del comune e a
spese dei responsabili dell'abuso. Qualora,
sulla base di motivato accertamento
dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il
dirigente o il responsabile dell’ufficio
irroga una sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento di valore dell'immobile,
conseguente alla realizzazione delle opere,
determinato, con riferimento alla data di
ultimazione dei lavori, in base ai criteri
previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392 e
con riferimento all'ultimo costo di
produzione determinato con decreto
ministeriale, aggiornato alla data di
esecuzione dell'abuso, sulla base
dell'indice ISTAT del costo di costruzione,
con la esclusione, per i comuni non tenuti
all'applicazione della legge medesima, del
parametro relativo all'ubicazione e con
l'equiparazione alla categoria A/1 delle
categorie non comprese nell'articolo 16
della medesima legge. Per gli edifici
adibiti ad uso diverso da quello di
abitazione la sanzione è pari al doppio
dell'aumento del valore venale
dell'immobile, determinato a cura
dell'agenzia del territorio”.
Detta conclusione risulta condivisa peraltro
anche dalla giurisprudenza, sia in relazione
all’applicazione dell’art. 33, comma 2,
D.P.R. 380/2001 (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I,
17.04.2007, n. 3327 secondo cui “la sanzione
pecuniaria per interventi ristrutturativi
risulta essere misura eccezionale,
alternativa alla demolizione solo ove
risulti l'impossibilità del ripristino.
Detta impossibilità può essere rilevata
d'ufficio o fatta valere dall'interessato,
ma comunque in una fase successiva
all'ingiunzione, a carattere diffidatorio,
che precede l'ordine di demolizione -quest'ultimo
da emettere sulla base di specifici
accertamenti dell'ufficio tecnico comunale,
chiamato ad intervenire nella fase
esecutiva-”), sia in relazione
all’applicazione dell’art. 34, comma 2,
D.P.R. 380/2001.
Pertanto l’ordine di demolizione adottato
nei confronti del responsabile dell’opera
abusiva, affinché provveda spontaneamente
alla eliminazione della situazione
illegittima nel termine prefissato
nell’ordinanza sindacale –ora dirigenziale–
ha natura di atto di diffida, prodromico
alle valutazioni e alle determinazioni che
la p.a. dovrà adottare nell’eventualità che
il destinatario non ottemperi spontaneamente".
---------------
5. Occorre ora passare al quinto motivo
del ricorso principale, con il quale i
ricorrenti contestano un altro aspetto
dell’ordine di demolizione, cioè la sua
illegittimità per non aver valutato
l’impossibilità della demolizione.
Il motivo è infondato in quanto tale profilo
attiene esclusivamente alla fase esecutiva
della demolizione e non alla fase di
accertamento dell’abuso.
La giurisprudenza (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 16.05.2014 n. 2718; TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza
18.11.2015 n. 1726) ha infatti chiarito che
"l’impossibilità del ripristino di cui
all’art. 33 D.P.R. 380/2001 (come pure
quella di cui all’art. 34), può essere fatta
valere dall'interessato solo nella fase
esecutiva, e, non come nel caso di specie,
in relazione all'ingiunzione, a carattere
diffidatorio contenuta nel provvedimento
gravato, che precede l'ordine di
demolizione. La valutazione della
possibilità o meno del ripristino deve,
infatti, essere compiuta, ad opera
dell’ufficio tecnico comunale, in sede di
esecuzione dell’ingiunzione di demolizione.
La correttezza di siffatta conclusione si
evince infatti da una lettura del combinato
disposto dei primi due commi dell’art. 33
D.P.R. 380/2001 a mente dei quali “gli
interventi e le opere di ristrutturazione
edilizia di cui all’articolo 10, comma 1,
eseguiti in assenza di permesso o in totale
difformità da esso, sono rimossi ovvero
demoliti e gli edifici sono resi conformi
alle prescrizioni degli strumenti
urbanistico-edilizi entro il congruo termine
stabilito dal dirigente o del responsabile
del competente ufficio comunale con propria
ordinanza, decorso il quale l'ordinanza
stessa è eseguita a cura del comune e a
spese dei responsabili dell'abuso.
Qualora,
sulla base di motivato accertamento
dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il
dirigente o il responsabile dell’ufficio
irroga una sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento di valore dell'immobile,
conseguente alla realizzazione delle opere,
determinato, con riferimento alla data di
ultimazione dei lavori, in base ai criteri
previsti dalla legge 27.07.1978, n. 392 e
con riferimento all'ultimo costo di
produzione determinato con decreto
ministeriale, aggiornato alla data di
esecuzione dell'abuso, sulla base
dell'indice ISTAT del costo di costruzione,
con la esclusione, per i comuni non tenuti
all'applicazione della legge medesima, del
parametro relativo all'ubicazione e con
l'equiparazione alla categoria A/1 delle
categorie non comprese nell'articolo 16
della medesima legge. Per gli edifici
adibiti ad uso diverso da quello di
abitazione la sanzione è pari al doppio
dell'aumento del valore venale
dell'immobile, determinato a cura
dell'agenzia del territorio”.
Detta conclusione risulta condivisa peraltro
anche dalla giurisprudenza, sia in relazione
all’applicazione dell’art. 33, comma 2,
D.P.R. 380/2001 (cfr. TAR Lazio-Roma, sez. I,
17.04.2007, n. 3327 secondo cui “la sanzione
pecuniaria per interventi ristrutturativi
risulta essere misura eccezionale,
alternativa alla demolizione solo ove
risulti l'impossibilità del ripristino.
Detta impossibilità può essere rilevata
d'ufficio o fatta valere dall'interessato,
ma comunque in una fase successiva
all'ingiunzione, a carattere diffidatorio,
che precede l'ordine di demolizione -quest'ultimo
da emettere sulla base di specifici
accertamenti dell'ufficio tecnico comunale,
chiamato ad intervenire nella fase
esecutiva- cfr. in tal senso TAR Lombardia,
Brescia, 09.12.2002, n. 2213”), sia in
relazione all’applicazione dell’art. 34,
comma 2, D.P.R. 380/2001 (Consiglio Stato,
sez. V, 21.05.1999 , n. 587; TAR Campania
Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244).
Pertanto l’ordine di demolizione adottato
nei confronti del responsabile dell’opera
abusiva, affinché provveda spontaneamente
alla eliminazione della situazione
illegittima nel termine prefissato
nell’ordinanza sindacale –ora dirigenziale–
ha natura di atto di diffida, prodromico
alle valutazioni e alle determinazioni che
la p.a. dovrà adottare nell’eventualità che
il destinatario non ottemperi spontaneamente
(C.d.S, sez. VI, 28.02.2000, n. 1055; TAR
Calabria, 02.06.1999, n. 735; TAR Sardegna,
10.06.1999, n. 767)".
In considerazione di tali rilievi è da
escludere la violazione dell’art. 33, comma
2, D.P.R. 380/2001 e la censura va rigettata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.07.2019 n. 1523 -
link a www.giustizia-amministrativa). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell’istanza di sanatoria determina un arresto temporaneo
dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista la sua efficacia nel
caso di rigetto della domanda di sanatoria.
Ne consegue che in caso di rigetto esplicito o implicito della domanda di
accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 il Comune non deve
riattivare un nuovo procedimento amministrativo e riadottare l’Ordinanza di
demolizione, perché in tal modo verrebbe riconosciuto al soggetto privato,
autore di abusi edilizi non sanabili, il potere di paralizzare il potere
sanzionatorio comunale.
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Mentre, va rilevata l’infondatezza del terzo motivo del ricorso
introduttivo, in quanto la presentazione dell’istanza di sanatoria determina
un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva, che riacquista
la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
Ne consegue che in caso di rigetto esplicito o implicito della domanda di
accertamento di conformità ex art. 36 DPR n. 380/2001 il Comune non deve
riattivare un nuovo procedimento amministrativo e riadottare l’Ordinanza di
demolizione, perché in tal modo verrebbe riconosciuto al soggetto privato,
autore di abusi edilizi non sanabili, il potere di paralizzare il potere
sanzionatorio comunale (cfr. da ultimo nell’anno 2018: C.d.S. Sez. IV Sent.
n. 5124 del 31.08.2018; C.d.S. Sez. VI Sentenze n. 4671 del 30.07.2018, n.
3058 del 22.05.2018 e n. 1171 del 27.02.2018; TAR Napoli Sez. II Sent. n.
5059 del 30.07.2018; TAR Napoli Sez. III Sentenze n. 4420 del 04.07.2018, n.
1670 del 16.03.2018, n. 595 del 26.01.2018 e n. 8 del 02.01.2018; TAR Lecce
Sez. I Sent. n. 646 del 13.04.2018; TAR Molise Sent. n. 135 del 12.03.2018;
TAR Napoli Sez. VII Sent. n. 1233 del 26.02.2018; TAR Bari Sez. III Sent. n.
124 del 29.01.2018; contra TAR Lecce Sez. III Sentenze n. 1293 del
09.08.2018, n. 1173 del 16.07.2018, n. 792 del 09.05.2018, n. 628 del
12.04.2018, n. 572 del 09.04.2018, n. 122 del 30.01.2018, n. 69 del
19.01.2018 e n. 16 dell’11.01.2018; TAR Reggio Calabria Sent. n. 406 del
03.07.2018; TAR Napoli Sez. VII Sent. n. 1 del 02.01.2018).
Aderendo all’opposta tesi, secondo cui la mera presentazione dell’istanza di
sanatoria ex art. 13 L. n. 47/1985 fa perdere ogni effetto al precedente
provvedimento di demolizione, anche il secondo provvedimento di demolizione
(emanato dopo la reiezione dell’istanza di sanatoria) potrebbe essere
neutralizzato da un’altra istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001 e così via, in
un continuo alternarsi di ingiunzioni di demolizioni e istanze di sanatoria,
paralizzante l’azione amministrativa di repressione degli abusi edilizi
(TAR Basilicata,
sentenza 01.07.2019 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della
realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non
determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta
in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in
quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la
posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere
abusivo dell’intervento.
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere
adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì
che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di
demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato
alla permanenza in loco dell’opus.
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale
sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un
notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto
laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di
un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore
realizzata contra legem.
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non
richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione
fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco
dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva
che il tempo non può in alcun modo legittimare.
---------------
Per quanto poi attiene al profilo inerente alla carenza di motivazione in
punto di interesse pubblico alla demolizione, atteso il lungo lasso di tempo
di esistenza dell’immobile, appare sul punto sufficiente richiamare quanto
ribadito dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n. 9), ovvero che il tempo
trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione
dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina
l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo
all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il
decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione
giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo
dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.03.2017, n. 1386; 06.03.2017, n. 1060).
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere
adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì
che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di
demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato
alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.03.2017, n. 1267).
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale
sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un
notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento
tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto
laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di
un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore
realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n.
908; VI, 13.12.2016, n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non
richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione
fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco
dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva
che il tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato, 28.02.2017, n.
908; IV, 12.10.2016, n. 4205; 31.08.2016, n. 3750).
Peraltro, nel caso di specie, la pressoché costante interlocuzione con la
P.A. a far data dalla presentazione della domanda di condono, e i molteplici
procedimenti giudiziari avviati dalla Bonaldo, escludono radicalmente che in
capo alla ricorrente possa dirsi maturato un qualche affidamento
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 28.06.2019 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 non impone nel provvedimento conclusivo
del procedimento la puntale e analitica confutazione delle singole
argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della
sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a
sostegno dell'atto.
---------------
8.
Infondato è anche il quinto motivo, con cui si deduce il vizio di violazione
dell’art. 10-bis L. 241/1990 ed il difetto di motivazione sulle
controdeduzioni effettuate dal ricorrente.
L'art. 10-bis, l. 07.08.1990, n.
241 non impone nel provvedimento conclusivo del procedimento la puntale e
analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte
privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una
motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell'atto (Cons.
Stato, V, 25.07.2018, n. 4523), che nella specie è ravvisabile
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 28.06.2019 n. 781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Disciplina delle terre e rocce da scavo -
Applicabilità della normativa speciale - Limiti -
Giurisprudenza - Presenza di materiali non rappresentati
unicamente da terriccio e ghiaia - Artt. 152 e 256 d.lgs. n.
152/2006.
In materia di terre di rocce e scavo, va
esclusa l'applicabilità della speciale disciplina in
presenza di materiali non rappresentati unicamente da
terriccio e ghiaia, ma provenienti dalla demolizione di
edifici o dal rifacimento di strade e, quindi, contenenti
altre sostanze, quali asfalto, calcestruzzo o materiale
cementizio o di risulta in genere, plastica o materiale
ferroso (Cass.
Sez. 3, n. 25206 del 16/05/2012; Sez.3, n. 17126 del 2015;
Sez. 3, n. 19942 del 2013; Sez. 3, n. 37195 del 2010) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.06.2019 n. 28181 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Discarica abusiva - Confisca dell'area - Potere di
ordinare la bonifica ed il ripristino dello stato dei luoghi
- Natura di sanzione amministrativa irrogata dal giudice
penale - Attribuzione di funzioni speciali aventi carattere
amministrativo - Giurisprudenza - Artt. 152, 240, 242, 256,
257, d.lgs. n. 152/2006 - Patteggiamento ex art. 444 cod.
proc. pen. - Riserva di legge - Art. 23 Cost..
L'art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152/2006,
prevede che alla sentenza di condanna per la realizzazione
e/o gestione di discarica non autorizzata, o alla decisione
emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen, consegue la
confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica
abusiva, se di proprietà dell'autore o del compartecipe al
reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica e di ripristino
dello stato dei luoghi.
Ne consegue che, ponendosi il potere del Giudice di ordinare
la bonifica (ed il ripristino dello stato dei luoghi) in
parallelo all'autorità amministrativa titolare di autonomo
potere, deve affermarsi che tale misura abbia natura di
sanzione amministrativa irrogata dal giudice penale.
Sicché, in materia di ambiente e territorio, viene conferito
al giudice il potere di emanare un ordine finalizzato alle
conseguenze dell'illecito, con attribuzione di funzioni
speciali aventi carattere amministrativo, sebbene esercitate
in sede di giurisdizionale, come reiteratamente affermato
sia in relazione all'ordine di demolizione urbanistica, di
cui all'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, che in relazione
all'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi
in tema di tutela del paesaggio, di cui all'art. 181 d.lgs.
n. 42/2004 (cfr.
ex multis, per la natura di sanzione amministrativa avente
carattere ripristinatorio, dell'ordine di demolizione, Sez.
3, n. 36387 del 07/07/2015 e per l'analoga di natura di
sanzione amministrativa dell'ordine di rimessione in
pristino dello stato dei luoghi, Sez. 3, n. 1158 del
08/11/2016, dep. 11/01/2017).
Tuttavia, tale potere non può esercitarsi
al di fuori delle ipotesi in cui è espressamente consentito,
stante il disposto dell'art. 23 Cost., che istituisce una
riserva relativa di legge in tema di imposizioni personali i
patrimoniali.
...
RIFIUTI - INQUINAMENTO DEL SUOLO - DANNO AMBIENTALE -
Eliminazione delle conseguenze del danno ambientale - Poteri
del giudice - Subordine della sospensione condizionale della
pena alla bonifica del sito - Controllo dell'autorità
giudiziaria o di un organo tecnico appositamente delegato.
In tema di bonifiche, nel caso in cui il
Giudice applica il principio generale di cui all'art. 165
cod. pen., e subordini la sospensione condizionale della
pena alla bonifica del sito, la bonifica con la quale
subordinare il beneficio penale non sarà necessariamente
quella proceduralizzata dal d.lgs. n. 152 del 2006, ma potrà
coinciderà con quella stabilita concretamente dal giudice
per eliminare le conseguenze del danno ambientale prodotto,
soggetta al controllo dell'autorità giudiziaria o di un
organo tecnico appositamente delegato e che potrà
eventualmente essere verificata ex post dal giudice della
esecuzione (cfr.
Sez. 3, n. 13456 del 20.11.2006, Gritti, Sez. 3, n. 35501
del 30.5.2003, Spadetto; nonché Sez. 3, n. 37280 del
12/06/2008, che ribadendo il principio ha, però, precisato
che, in caso di condanna, o sentenza di patteggiamento della
pena, per il reato di inquinamento previsto dall'art. 257
D.Lgs. n. 152 del 2006 il giudice può subordinare la
concessione del predetto beneficio alla bonifica del sito
inquinato esclusivamente secondo le procedure regolamentate
dallo stesso decreto legislativo, in virtù della norma
specifica prevista del medesimo art. 257, comma 3, d.lgs. n.
152/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.06.2019 n. 28175 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Principio
di rotazione.
Va confermato il
principio di carattere generale in virtù del
quale va riconosciuta l’obbligatorietà del
principio di rotazione per le gare di
lavori, servizi e forniture negli appalti
cd. “sotto soglia”;
Invero, il principio di rotazione –che per
espressa previsione normativa deve orientare
le stazioni appaltanti nella fase di
consultazione degli operatori economici da
invitare a presentare le offerte– è
finalizzato a evitare il consolidamento di
rendite di posizione in capo al gestore
uscente (la cui posizione di vantaggio
deriva dalle informazioni acquisite durante
il pregresso affidamento e non invece dalle
modalità di affidamento, di tipo “aperto”,
“ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei
mercati in cui il numero di operatori
economici attivi non è elevato.
Pertanto, anche al fine di scoraggiare
pratiche di affidamenti senza gara –tanto
più ove ripetuti nel tempo– che ostacolino
l’ingresso delle piccole e medie imprese e
di favorire, per contro, la distribuzione
temporale delle opportunità di
aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei, il principio in
questione comporta, in linea generale, che
ove la procedura prescelta per il nuovo
affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso”
(recte, negoziato), l’invito all’affidatario
uscente riveste carattere eccezionale.
Rileva, quindi, il fatto oggettivo del
precedente affidamento in favore di un
determinato operatore economico, non anche
la circostanza che questo fosse scaturito da
una procedura di tipo aperto o di altra
natura: per l’effetto, ove la stazione
appaltante intenda comunque procedere
all’invito del precedente affidatario, dovrà
puntualmente motivare tale decisione,
facendo in particolare riferimento al numero
(eventualmente) ridotto di operatori
presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del
precedente rapporto contrattuale ovvero al
peculiare oggetto e alle caratteristiche del
mercato di riferimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.06.2019 n. 599 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. È fondata l’argomentazione con la quale
parte ricorrente deduce la violazione, ad
opera della Stazione appaltante, del
principio di rotazione.
1.1 Va, innanzi tutto, confermato il
principio di carattere generale (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 05.03.2019 n. 1524 e
13.12.2017 n. 5854; sez. VI, 31.08.2017 n.
4125) in virtù del quale va
riconosciuta l’obbligatorietà del principio
di rotazione per le gare di lavori, servizi
e forniture negli appalti cd. “sotto
soglia”.
Il principio di rotazione
–che per espressa previsione normativa deve
orientare le stazioni appaltanti nella fase
di consultazione degli operatori economici
da invitare a presentare le offerte– è
finalizzato a evitare il consolidamento di
rendite di posizione in capo al gestore
uscente (la cui posizione di vantaggio
deriva dalle informazioni acquisite durante
il pregresso affidamento e non invece dalle
modalità di affidamento, di tipo “aperto”,
“ristretto” o “negoziato”),
soprattutto nei mercati in cui il numero di
operatori economici attivi non è elevato.
Pertanto, anche al fine di
scoraggiare pratiche di affidamenti senza
gara –tanto più ove ripetuti nel tempo– che
ostacolino l’ingresso delle piccole e medie
imprese e di favorire, per contro, la
distribuzione temporale delle opportunità di
aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei, il principio in
questione comporta, in linea generale, che
ove la procedura prescelta per il nuovo
affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso”
(recte, negoziato), l’invito all’affidatario
uscente riveste carattere eccezionale.
Rileva quindi il fatto oggettivo del
precedente affidamento in favore di un
determinato operatore economico, non anche
la circostanza che questo fosse scaturito da
una procedura di tipo aperto o di altra
natura: per l’effetto, ove la stazione
appaltante intenda comunque procedere
all’invito del precedente affidatario, dovrà
puntualmente motivare tale decisione,
facendo in particolare riferimento al numero
(eventualmente) ridotto di operatori
presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del
precedente rapporto contrattuale ovvero al
peculiare oggetto ed alle caratteristiche
del mercato di riferimento.
1.2 Secondo quanto sostenuto dalla
controinteressata (cfr. memoria di
costituzione in giudizio, depositata il
13.06.2019), “non sussiste un divieto
assoluto di invito del gestore uscente, non
assurgendo il principio di rotazione a
regola inderogabile”.
Piuttosto, sempre secondo la prospettazione
dell’aggiudicataria –che, in proposito,
riprende e conferma quanto dalla Stazione
appaltante motivato in sede di affidamento
del servizio– “in capo alla stazione
appaltante non vi è spendita di potere
discrezionale alcuno, avendo invitato la
totalità degli operatori economici che hanno
manifestato il proprio interesse entro il
termine perentorio previsto dall'avviso
pubblico aperto a chiunque, nel pieno
rispetto dei principi di concorrenza,
trasparenza, non discriminazione, e
imparzialità dell'agere amministrativo".
Tale tesi vieppiù rileverebbe in presenza di
due sole imprese partecipanti alla procedura
selettiva: ipotesi nella quale il mancato
invito a partecipare rivolto all'operatore
uscente (sì da pretesamente garantire il
confronto concorrenziale) sarebbe funzionale
ad escludere (attraverso un’applicazione
rigida del principio di rotazione) una
irragionevole ed ingiustificata compressione
della concorrenza, che, appunto nel caso di
due soli operatori, verrebbe del tutto
esclusa, in contrasto con la ratio sottesa
allo stesso principio di rotazione, di cui
si pretende l'applicazione.
1.3 Tale ultima argomentazione, invero, non
appare condivisibile, atteso che una
corretta applicazione del principio di che
trattasi avrebbe dovuto indurre la S.A.,
ab initio, a non estendere l’avviso
esplorativo nei confronti del precedente
affidatario del servizio (Au.Di.Ca.); le
successive vicende (manifestazione di
interesse da parte di due soli destinatari
del predetto avviso, ovvero le parti
dell’odierno giudizio) risultando appieno
irrilevanti ai fini di che trattasi, ove si
consideri che l’impresa poi risultata
aggiudicataria non avrebbe tout court
essere destinataria di invito a prendere
parte alla selezione de qua.
La norma di cui all’art. 36
del D.Lgs. 50 del 2016
(a mente del quale “l'affidamento e
l'esecuzione di lavori, servizi e forniture
di importo inferiore alle soglie di cui
all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei
principi di cui agli articoli 30, comma 1,
34 e 42, nonché del rispetto del principio
di rotazione degli inviti e degli
affidamenti e in modo da assicurare
l'effettiva possibilità di partecipazione
delle microimprese, piccole e medie imprese”):
- se, con ogni
evidenza, è preordinata a scongiurare la
creazione (e/o il consolidamento) di
posizioni di rendita anticoncorrenziali in
capo al contraente uscente (la cui posizione
di vantaggio deriva soprattutto dalle
informazioni acquisite durante il precedente
affidamento) e di rapporti esclusivi con
determinati operatori economici; favorendo,
per converso, l’apertura al mercato più
ampia possibile sì da riequilibrarne (e
implementarne) le dinamiche competitive
- si riferisce non solo agli affidamenti ma anche agli inviti,
orientando le stazioni appaltanti nella fase
di consultazione degli operatori economici
da interpellare e da invitare per presentare
le offerte ed assumendo quindi nelle
procedure negoziate il valore di una sorta
di contropartita al carattere “fiduciario”
della scelta del contraente allo scopo di
evitare che il carattere discrezionale della
scelta si traduca in uno strumento di
favoritismo
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.06.2019 n.
3831 e sez. III, 12.09.2014, n. 4661).
1.4 Come sopra ribadita l’obbligatoria
applicabilità del principio all’esame,
risultano condivisibili i rilievi mossi
all’operato dell’Amministrazione comunale,
nella misura in cui ha inadeguatamente
appalesato i motivi che hanno indotto
all’estensione dell’avviso esplorativo anche
nei confronti dell’affidatario “uscente”
del servizio.
Se è vero che, “ove
la stazione appaltante intenda comunque
procedere all’invito di quest’ultimo (il
gestore uscente), dovrà puntualmente
motivare tale decisione, facendo in
particolare riferimento al numero
(eventualmente) ridotto di operatori
presenti sul mercato, al grado di
soddisfazione maturato a conclusione del
precedente rapporto contrattuale ovvero
all’oggetto e alle caratteristiche del
mercato di riferimento
(in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016,
n. 1097 dell’Autorità nazionale
anticorruzione, linee guida n. 4)”
(ex multis: Cons. Stato, sez. V,
13.12.2017, n. 5854; id., sez. V,
03.04.2018, n. 2079; id., sez. VI,
31.08.2017, n. 4125), è
parimenti vero che:
- l’anzidetto avviso è stato rivolto, anche, nei confronti di
Au.Di.Ca. (consumandosi, con tale atto, una
violazione del principio di rotazione, in un
momento, anteriore alla manifestazione di
interesse, nel quale la S.A. non poteva
conoscere quanto operatori avrebbero
favorevolmente corrisposto all’avviso
medesimo);
- la motivazione risulta ostesa nell’atto con cui si è proceduto
all’affidamento, laddove le ragioni
(eventualmente derogatorie) all’applicazione
del principio in discorso avrebbero dovuto
essere esternate fin dal primo atto
riguardante la manifestazione della volontà
di individuare un privato contraente per
l’affidamento del servizio di che trattasi.
1.5 Quanto sopra osservato, la Stazione
Appaltante aveva in definitiva solo due
possibilità: non invitare il gestore uscente
o, in caso contrario, motivare attentamente
le ragioni per le quali riteneva di non
poter invece prescindere dall’invito.
Escluso che la motivazione nella fattispecie
dispiegata –peraltro esplicitata solo in
esito allo svolgimento della procedura
selettiva– riveli profili di apprezzabile
condivisibilità, l’esercizio dell’opzione
verso la prima delle indicate soluzioni
(nella fattispecie, non esercitata) avrebbe
consentito di annettere all’attività della
Stazione Appaltante quel carattere di
legittimità, invece escluso dal modus
procedendi da quest’ultima prescelto.
Va, in proposito, ulteriormente ribadito
come l’obbligo di applicazione del principio
di rotazione negli affidamenti sotto-soglia
sia volto –intrinsecamente– a tutelare le
esigenze della concorrenza, in un settore
nel quale è maggiore il rischio del
consolidarsi, ancor più a livello locale, di
posizioni di rendita anticompetitiva da
parte di singoli operatori del settore
risultati in precedenza aggiudicatari della
fornitura o del servizio.
Con la conseguenza che
l’impresa, che in precedenza abbia svolto un
determinato servizio, non può vantare alcuna
legittima pretesa ad essere invitata ad una
nuova procedura di gara per l’affidamento di
un contratto pubblico di importo inferiore
alle soglie di rilevanza comunitaria, né a
risultare aggiudicataria del relativo
affidamento
(ex multis, Cons. Stato, sez. V,
13.12.2017 n. 5854 e 31.08.2017 n. 4142).
2. Quanto sopra esposto, consente al
Collegio di dare atto della fondatezza delle
censure dalla parte ricorrente dedotte
avverso l’ammissione alla procedura
selettiva della controinteressata Au.Di.Ca.:
la quale, come in precedenza spiegato, non
avrebbe dovuto essere invitata a partecipare
alla gara in ragione dell’applicazione del
principio di rotazione, ex art. 36 del D.Lgs.
50/2016. |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di parete finestrata.
L'art. 9 del D.M. n.
1444 del 1968, in materia di distanze tra
edifici, fa espresso ed esclusivo
riferimento alle pareti finestrate, per tali
dovendosi intendere unicamente le pareti
munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle
quali si aprono semplici luci.
L’operatività della previsione è, quindi,
condizionata dalla natura delle aperture.
---------------
Si ha veduta quando è
consentita non solo una comoda "inspectio"
-senza l'uso di mezzi artificiali- sul fondo
del vicino ma anche una comoda, agevole e
sicura "prospectio", cioè la possibilità di
affaccio -con sporgenza del capo- per poter
guardare di fronte, lateralmente e
obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal
legislatore nella definizione delle vedute,
è il porsi l'osservatore di normale altezza,
comodamente, senza pericolo e senza
l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col
petto, protetto dall'opera, a livello
superiore a quello massimo dell'opera stessa
nel punto di osservazione, in modo da poter
sporgere oltre tale livello il capo e
vedere, anche obliquamente e lateralmente,
l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da
poter esser visto dall'esterno.
Per poter distinguere una veduta prospettica
da una finestra lucifera, bisogna accertare,
avuto riguardo non all'intenzione del
proprietario, ma alle caratteristiche
oggettive ed alla destinazione dei luoghi,
se essa adempie alla funzione, normale e
permanente non esclusiva, di dare aria e
luce all'ambiente e di permettere la "inspectio"
e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui,
in modo da determinare un inequivoco e
durevole assoggettamento di quel fondo a
tale peso.
Non può sussistere veduta quando, pur
essendo possibile l'affaccio attraverso
un'apertura, non possa attuarsi normalmente,
e cioè agevolmente e senza pericoli, la
sporgenza del capo per guardare di fronte,
obliquamente e lateralmente sul fondo del
vicino.
---------------
MASSIMA
2. Venendo al merito, occorre premettere che
la Sezione aderisce all’orientamento
giurisprudenziale (TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 30/11/2018 n. 2706) secondo il
quale “…
"l'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in
materia di distanze tra edifici, fa espresso
ed esclusivo riferimento alle pareti
finestrate, per tali dovendosi intendere
unicamente le pareti munite di finestre
qualificabili come vedute, senza
ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci” (Consiglio di Stato, sez. IV,
05.10.2015, n. 4628; cfr., nella
giurisprudenza civile, Cassazione civile,
sez. II, 20.12.2016, n. 26383).
L’operatività della previsione è, quindi,
condizionata dalla natura delle aperture…”
(v. anche TAR Lombardia, Milano, sez. II,
23/05/2019 n. 1168).
Va quindi respinta la difesa
dell’amministrazione nella parte in cui
sostiene che le distanze previste dalla
norma si applicherebbero anche alle “luci”
e quindi la distinzione con le “vedute”
sarebbe irrilevante.
Occorre inoltre precisare che dall’esame del
provvedimento impugnato risulta che le
inferriate sono state collocate dopo
l’accertamento effettuato in data
11.01.2017, come più volte affermato dal
Comune.
A ciò si aggiunge che la Relazione tecnica
che accompagna la domanda di permesso di
costruire in sanatoria, datata settembre
2017, chiarisce che "Per regolarizzare al
meglio tale situazione, in accordo con le
proprietà di entrambi i lotti edificati, si
è intervenuto su tali aperture inserendo
delle apposite inferriate che impediscano
l'affaccio al fine di confermare la natura
di luci delle stesse. Si allega alla
presente una documentazione fotografica che
dimostra l'avvenuto posizionamento di tali
inferriate".
Accertato quindi che l’apposizione delle
inferriate, elemento dirimente per
attribuire carattere di “luce” alle
finestre in questione, è una sopravvenienza
di fatto rispetto alla situazione
precedente, occorre rammentare che
l’istituto della sanatoria edilizia trova
compiuta disciplina ex art. 36 del relativo
testo unico, il quale dispone che il
permesso in sanatoria può essere ottenuto se
l’intervento abusivo risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente
sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione
della domanda (cd. doppia conformità).
L’accertamento della doppia conformità
costituisce quindi condicio sine qua non
per il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria (ex multis: Cons. Stato,
VI, 02.01.2018, n. 2; 20.11.2017, n. 5327;
13.10.2017, n. 4759; 18.07.2016, n. 3194;
Cons. Stato, IV, 05.05.2017, n. 2063).
Ora dall’esame delle fotografie presentate
dalle parti, dalle quali è possibile
desumere le caratteristiche delle finestre
prima della loro chiusura parziale con le
inferriate, risulta chiaro che esse sono
delle “vedute”.
In merito l’art. 900 c.c. stabilisce che le
finestre o altre aperture sul fondo del
vicino sono di due specie: luci, quando
danno passaggio alla luce e all'aria, ma non
permettono di affacciarsi sul fondo del
vicino; vedute o prospetti, quando
permettono di affacciarsi e di guardare di
fronte, obliquamente o lateralmente.
Secondo la giurisprudenza (TAR Puglia-Bari,
Sez. III, sentenza 22.04.2015 n. 641) "Si
ha veduta quando è consentita non solo una
comoda "inspectio" -senza l'uso di mezzi
artificiali- sul fondo del vicino ma anche
una comoda, agevole e sicura "prospectio",
cioè la possibilità di affaccio -con
sporgenza del capo- per poter guardare di
fronte, lateralmente e obliquamente.
Affacciarsi, nell'uso corrente recepito dal
legislatore nella definizione delle vedute,
è il porsi l'osservatore di normale altezza,
comodamente, senza pericolo e senza
l'ausilio di alcun mezzo artificiale, col
petto, protetto dall'opera, a livello
superiore a quello massimo dell'opera stessa
nel punto di osservazione, in modo da poter
sporgere oltre tale livello il capo e
vedere, anche obliquamente e lateralmente,
l'immobile altrui e, nello stesso tempo, da
poter esser visto dall'esterno. Per poter
distinguere una veduta prospettica da una
finestra lucifera, bisogna accertare, avuto
riguardo non all'intenzione del
proprietario, ma alle caratteristiche
oggettive ed alla destinazione dei luoghi,
se essa adempie alla funzione, normale e
permanente non esclusiva, di dare aria e
luce all'ambiente e di permettere la "inspectio"
e la "prospectio" sul contiguo fondo altrui,
in modo da determinare un inequivoco e
durevole assoggettamento di quel fondo a
tale peso. Non può sussistere veduta quando,
pur essendo possibile l'affaccio attraverso
un'apertura, non possa attuarsi normalmente,
e cioè agevolmente e senza pericoli, la
sporgenza del capo per guardare di fronte,
obliquamente e lateralmente sul fondo del
vicino".
Nel caso di specie risulta dalle fotografie
e non è contestato dalle parti che, se
libere dalle inferriate poi installate, le
finestre in questione, ed in particolare
quella del secondo piano, interessata più
direttamente dalla sopraelevazione del
vicino, non svolgono solo la funzione di
dare luce ed aria all’appartamento ma
permettono anche agli occupanti una comoda
prospectio, sia per l’altezza alla
quale è posizionata che per le sue
dimensioni, integrando quindi i requisiti
della “veduta”.
Ne consegue che l’eventuale eliminazione
della “veduta” mediante l’apposizione
della grata non è idonea ad escludere
l’esistenza della violazione edilizia,
almeno al momento della realizzazione
dell’abuso, e ciò determina l’insussistenza
del requisito della c.d. doppia conformità.
Per tali ragioni il primo e il secondo
motivo di ricorso, assorbiti gli ulteriori
aspetti, vanno respinti. L’impugnato diniego
di sanatoria, in effetti, si regge anche
solo sul difetto di conformità edilizia al
momento di realizzazione dell’abuso,
esonerando il Collegio dall’approfondire in
fatto la natura dell’apertura dopo
l’installazione delle inferriate (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 1484 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell’istanza di sanatoria –sia
essa di accertamento di conformità sia essa
di condono– produce l’effetto di rendere
inefficace l’ordinanza di demolizione delle
opere abusive e, quindi, improcedibile
l’impugnazione della stessa per sopravvenuta
carenza di interesse.
Invero il riesame dell’abusività dell’opera
provocato dalla predetta istanza di
sanatoria comporta la necessaria formazione
di un nuovo provvedimento (esplicito od
implicito, di accoglimento o di rigetto) che
vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
Infatti nell’ipotesi di rigetto dell’istanza
l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, con
l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere. Del pari nel caso di positiva
delibazione dell’istanza non si avrebbe più
interesse alla definizione del giudizio,
essendo stato sanato il lamentato abuso, con
effetto estintivo anche delle sanzioni
acquisitive eventualmente già adottate.
---------------
1. In primo luogo occorre respingere
l’eccezione di sopravvenuta carenza di
interesse a ricorrere sollevata dal Comune
per non aver, il ricorrente, impugnato
l’ordinanza di demolizione anteriore al
diniego di accertamento di conformità.
In merito occorre rammentare che, secondo la
giurisprudenza della Sezione, "la
presentazione dell’istanza di sanatoria –sia
essa di accertamento di conformità sia essa
di condono– produce l’effetto di rendere
inefficace l’ordinanza di demolizione delle
opere abusive e, quindi, improcedibile
l’impugnazione della stessa per sopravvenuta
carenza di interesse. Invero il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dalla
predetta istanza di sanatoria comporta la
necessaria formazione di un nuovo
provvedimento (esplicito od implicito, di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque
a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell’impugnativa. Infatti
nell’ipotesi di rigetto dell’istanza
l’Amministrazione dovrà adottare un nuovo
provvedimento sanzionatorio, con
l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere. Del pari nel caso di positiva
delibazione dell’istanza non si avrebbe più
interesse alla definizione del giudizio,
essendo stato sanato il lamentato abuso, con
effetto estintivo anche delle sanzioni
acquisitive eventualmente già adottate (cfr.,
TAR Lombardia, Milano, II, 11.06.2019, n.
1319; 03.05.2019, n. 1003; 23.11.2018, n.
2635; TAR Lombardia, Brescia, I, 10.07.2017,
n. 904; TAR Molise, I, 26.02.2016, n. 105)"
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 1484 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può giustificare la
violazione dell'articolo 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, citato, la circostanza
che la costruzione del ricorrente sarebbe
stata realizzata a propria volta in
violazione della stessa norma.
Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza
anche costituzionale l'obbligo di rispettare
le distanze tra edifici, perseguendo il
pubblico interesse (igiene, decoro,
sicurezza e assetto urbanistico) trova
applicazione anche con riferimento ad un
precedente fabbricato realizzato in tutto o
in parte abusivamente od illegittimamente.
---------------
3. Anche il terzo motivo è infondato.
In merito occorre specificare che il
ricorrente paventa l’esistenza di un abuso
simmetrico al tempo della realizzazione
dell’edificio prospiciente. Si tratta però
di un fatto totalmente privo di prova in
quanto non è chiara la situazione di fatto
al tempo della costruzione del primo dei due
immobili.
A ciò si aggiunge che l’amministrazione ha
chiarito che le distanze sono state misurate
con riferimento ad una parte dell’edificio
coperta da valido titolo edilizio ed in
relazione alla destinazione d’uso dei locali
previsti nei titoli.
In ogni caso occorre rammentare che, secondo
la giurisprudenza (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza
30.03.2006 n. 348) "non può giustificare
la violazione dell'articolo 9 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, citato, la circostanza
che la costruzione del ricorrente sarebbe
stata realizzata a propria volta in
violazione della stessa norma. Infatti, come
chiarito dalla giurisprudenza anche
costituzionale (Corte Costituzionale n. 120
del 18.04.1996) l'obbligo di rispettare le
distanze tra edifici, perseguendo il
pubblico interesse (igiene, decoro,
sicurezza e assetto urbanistico) trova
applicazione anche con riferimento ad un
precedente fabbricato realizzato in tutto o
in parte abusivamente od illegittimamente"
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 1484 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Similmente
a quanto avviene in sede di adozione delle
ordinanze di demolizione di manufatti
realizzati abusivamente, la motivazione
relativa alla rilevata difformità delle
opere edilizie si rinviene con
l’accertamento della loro realizzazione, in
assenza dei presupposti titoli edilizi o in
difformità dagli stessi, mentre il carattere
del tutto vincolato dell’attività di
contrasto alle violazioni in ambito
edilizio, quale conseguenza delle sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non
richiede una particolare motivazione né con
riguardo all’interesse pubblico sotteso a
tale determinazione e all’ipotetico
interesse del privato alla permanenza in
loco dell’opera edilizia, né con riguardo
alla puntuale indicazione delle norme
violate, allorquando dalla descrizione delle
stesse emerga la natura e la consistenza
dell’abuso.
---------------
L’assenza del requisito della
doppia conformità, ossia della conformità
dell’intervento edilizio realizzato senza
titolo sia alla disciplina urbanistica
vigente all’atto della sua realizzazione che
a quella vigente al momento della richiesta
di sanatoria impedisce il rilascio del
permesso in sanatoria.
Il diniego di sanatoria, motivato con
l’avvenuta realizzazione di s.l.p.
(superficie lorda di pavimento) abusiva,
risulta pertanto conforme alle prescrizioni
legali, atteso che il carattere del tutto
vincolato dell’ordine di demolizione (e
anche dell’eventuale presupposto diniego di
sanatoria), da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non
richiede una particolare motivazione circa
l’interesse pubblico sotteso a tale
determinazione e nemmeno rispetto ad un
ipotetico interesse del privato alla
permanenza in loco dell’opera edilizia o
alla necessità di tutelare il suo legittimo
affidamento.
A tal fine è stato evidenziato come nelle
ipotesi “di edificazioni radicalmente
abusive e giammai assistite da alcun titolo,
il richiamo alla figura, peraltro ambigua e
controversa, dell’interesse pubblico in re
ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
- da un lato, come si è detto, il rilevato carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento
esclude la pertinenza del richiamo alla
motivazione dell’interesse pubblico;
- dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi
interessi risulta compiuta –per così dire–
‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale
ha sancito in via indefettibile l’onere di
demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del
d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando
l’amministrazione dall’onere di svolgere –in
modo esplicito o implicito– una siffatta
ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti”.
---------------
Con riguardo all’eccezione legata
all’impossibilità della riduzione in
pristino e del grave pregiudizio che
potrebbe derivare alle parti legittime
dell’immobile, va ribadito che un onere
siffatto grava sulla parte privata, visto
che, laddove sia accertato un abuso
edilizio, deve essere motivato il ricorso
alla sanzione alternativa pecuniaria e non
anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio
di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del
2001.
Oltretutto l’eventualità di sostituire la
sanzione demolitoria con quella pecuniaria
può essere apprezzata dalla sola P.A. nella
fase esecutiva del procedimento
sanzionatorio, che è successiva e autonoma
sia rispetto al diniego di sanatoria che
all’ordine di demolizione.
---------------
MASSIMA
4. Con la seconda e la terza
censura, da trattare congiuntamente in
quanto strettamente connesse, si assume
l’illegittimità del diniego di sanatoria,
poiché lo stesso non risulterebbe motivato
in maniera puntuale rispetto all’asserito
contrasto con la pianificazione urbanistica
vigente e nemmeno sarebbero state
considerate le peculiarità della fattispecie
concreta, ossia la realizzazione del
soppalco contestualmente alla costruzione
dell’immobile, la sua originaria
assentibilità e il pregiudizio per le parti
legittimamente edificate in caso di
rimozione.
4.1. Le doglianze sono infondate.
Similmente a quanto avviene in sede di
adozione delle ordinanze di demolizione di
manufatti realizzati abusivamente, la
motivazione relativa alla rilevata
difformità delle opere edilizie si rinviene
con l’accertamento della loro realizzazione,
in assenza dei presupposti titoli edilizi o
in difformità dagli stessi, mentre il
carattere del tutto vincolato dell’attività
di contrasto alle violazioni in ambito
edilizio, quale conseguenza delle sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non
richiede una particolare motivazione né con
riguardo all’interesse pubblico sotteso a
tale determinazione e all’ipotetico
interesse del privato alla permanenza in
loco dell’opera edilizia, né con riguardo
alla puntuale indicazione delle norme
violate, allorquando dalla descrizione delle
stesse emerga la natura e la consistenza
dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II,
06.08.2018, n. 1946; 02.05.2018, n. 1190).
In tal senso, appare pienamente satisfattiva
la motivazione posta a supporto dell’atto
impugnato, che, seppure in maniera
sintetica, ha evidenziato come “l’intervento
proposto comporta l’incremento di S.L.P. in
contrasto con le N.T. del Piano delle Regole
del PGT vigente”.
Del resto, come riconosciuto anche dalla
parte ricorrente, l’assenza del requisito
della doppia conformità, ossia della
conformità dell’intervento edilizio
realizzato senza titolo sia alla disciplina
urbanistica vigente all’atto della sua
realizzazione che a quella vigente al
momento della richiesta di sanatoria
impedisce il rilascio del permesso in
sanatoria (TAR Lombardia, Milano, II,
27.05.2019, n. 1199; 08.01.2019, n. 31).
Il diniego di sanatoria, motivato con
l’avvenuta realizzazione di s.l.p.
(superficie lorda di pavimento) abusiva,
risulta pertanto conforme alle prescrizioni
legali, atteso che il carattere del tutto
vincolato dell’ordine di demolizione (e
anche dell’eventuale presupposto diniego di
sanatoria), da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non
richiede una particolare motivazione circa
l’interesse pubblico sotteso a tale
determinazione e nemmeno rispetto ad un
ipotetico interesse del privato alla
permanenza in loco dell’opera edilizia o
alla necessità di tutelare il suo legittimo
affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen.,
17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II,
31.01.2018, n. 267).
A tal fine è stato evidenziato come nelle
ipotesi “di edificazioni radicalmente
abusive e giammai assistite da alcun titolo,
il richiamo alla figura, peraltro ambigua e
controversa, dell’interesse pubblico in re
ipsa, appare improprio.
Ciò perché:
- da un lato, come si è detto, il rilevato carattere
sanzionatorio e doveroso del provvedimento
esclude la pertinenza del richiamo alla
motivazione dell’interesse pubblico;
- dall’altro, la selezione e ponderazione dei sottesi
interessi risulta compiuta –per così dire–
‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale
ha sancito in via indefettibile l’onere di
demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del
d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando
l’amministrazione dall’onere di svolgere –in
modo esplicito o implicito– una siffatta
ponderazione di interessi in sede di
adozione dei propri provvedimenti”
(Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017,
n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 03.05.2018,
n. 1198).
...
4.2. Infine, con riguardo all’eccezione
legata all’impossibilità della riduzione in
pristino e del grave pregiudizio che
potrebbe derivare alle parti legittime
dell’immobile, va ribadito che un onere
siffatto grava sulla parte privata, visto
che, laddove sia accertato un abuso
edilizio, deve essere motivato il ricorso
alla sanzione alternativa pecuniaria e non
anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio
di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380 del
2001 (cfr., ex multis, TAR Lombardia,
Milano, II, 25.05.2017, n. 1170); oltretutto
l’eventualità di sostituire la sanzione
demolitoria con quella pecuniaria può essere
apprezzata dalla sola P.A. nella fase
esecutiva del procedimento sanzionatorio,
che è successiva e autonoma sia rispetto al
diniego di sanatoria che all’ordine di
demolizione (Consiglio di Stato, VI,
04.06.2018, n. 3371; TAR Lombardia, Milano,
II, 18.01.2019, n. 106; 06.08.2018, n.
1946).
4.3. Ne discende il rigetto anche delle
suesposte censure.
5. In conclusione, all’infondatezza delle
scrutinate doglianze, segue il rigetto del
ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 1482 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: a)
«nel nostro ordinamento non si rinviene alcun dato normativo positivo da cui
inferire che la vendita all’asta nell’ambito di una procedura espropriativa
importerebbe effetto sanante degli eventuali illeciti edilizi realizzati.
Tale conclusione, peraltro, non può trarsi nemmeno facendo applicazione del
principio generale del cd effetto purgativo derivante dalla natura di
acquisto a titolo originario del bene, effetto che riguarda più propriamente
i diritti, i pesi e le limitazioni legali gravanti sul bene, e non già lo
stato di fatto materiale e antigiuridico in cui in ipotesi si trovi il bene.
L’unico aspetto espressamente preso in considerazione dal legislatore per
l’ipotesi che il bene acquistato sia affetto da illeciti edilizi riguarda la
scansione dei tempi per attivare la procedura di sanabilità delle opere.
Ai sensi dell’art. 40, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985, infatti,
“nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di
cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante
da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro
centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni
di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore
all’entrata in vigore della presente legge”»;
b) l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti costituiscono atti vincolati e, pertanto, non
richiedono alcun altra motivazione in ordine alle ragioni che impongono la
rimozione dell’abuso, neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso;
c) la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria dev’essere valutata nella fase esecutiva del procedimento,
successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
---------------
Premesso che:
- con ordinanza n. 59 dell’08.03.2019, è stata ingiunta ai
ricorrenti la demolizione di opere abusive riguardanti l’abitazione in
contrada ... n. 47, identificata in Catasto al fl. 5, part. 150, sub 7 e
consistenti in: 1) corpo di fabbrica in muratura ordinaria di mq. 85; 2)
tettoia chiusa su tre lati della superficie complessiva di mq. 15,87; 3)
vano ripostiglio in struttura metallica; 4) tettoia chiusa su due lati della
superficie complessiva di mq. 27,90;
Rilevato che il ricorso deduce:
- l’affidamento incolpevole, dimostrato dal fatto che l’immobile è
stato acquistato mediante asta giudiziaria e che gli abusi risalgono a
svariati anni prima;
- la mancata valutazione dell’applicabilità di una sanzione
pecuniaria, ai sensi dell’art. 33 del T.U. edilizia;
Ritenuto che il ricorso è manifestamente infondato, in quanto:
a) «nel nostro ordinamento non si rinviene alcun dato normativo
positivo da cui inferire che la vendita all’asta nell’ambito di una
procedura espropriativa importerebbe effetto sanante degli eventuali
illeciti edilizi realizzati. Tale conclusione, peraltro, non può trarsi
nemmeno facendo applicazione del principio generale del cd effetto purgativo
derivante dalla natura di acquisto a titolo originario del bene, effetto che
riguarda più propriamente i diritti, i pesi e le limitazioni legali gravanti
sul bene, e non già lo stato di fatto materiale e antigiuridico in cui in
ipotesi si trovi il bene.
L’unico aspetto espressamente preso in considerazione dal legislatore per
l’ipotesi che il bene acquistato sia affetto da illeciti edilizi riguarda la
scansione dei tempi per attivare la procedura di sanabilità delle opere. Ai
sensi dell’art. 40, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985, infatti,
“nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di
cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante
da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro
centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni
di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore
all’entrata in vigore della presente legge”» (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
02.05.2017 n. 1996);
b) l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi è
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti costituiscono atti vincolati e, pertanto, non
richiedono alcun altra motivazione in ordine alle ragioni che impongono la
rimozione dell’abuso, neanche nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso (cfr.
Cons. Stato, Ad. plen., 17.10.2017 n. 9 e Sez. VI, 20.11.2018 n. 6566; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 19.03.2019 n. 584);
c) la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella
pecuniaria dev’essere valutata nella fase esecutiva del procedimento,
successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 31.08.2018 n. 5128)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 1305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Appartiene
alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP),
prevista dall'art. 143, R.D. 1775/1933, la controversia relativa a
provvedimenti assunti in tema di concessione edilizia sotto qualunque
profilo, laddove si contesti la violazione della fascia di rispetto di dieci
metri dal piede dell'argine, ai sensi dell'art. 96, lett. f), R.D. 523/1904.
Detto provvedimento, infatti, ancorché emanato da un'autorità diversa da
quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, incide direttamente
sul regolare regime delle acque pubbliche, la cui tutela ha carattere
inderogabile in quanto informata alla ragione pubblicistica di assicurare la
possibilità di sfruttamento delle acque demaniali e il libero deflusso delle
acque scorrenti dei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici.
---------------
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Esiste un costante orientamento dei TAR circa il difetto di giurisdizione in
controversie come quella in esame.
In più occasioni è stato affermato che appartiene alla giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche, prevista dall'art. 143, R.D.
1775/1933, la controversia relativa a provvedimenti assunti in tema di
concessione edilizia sotto qualunque profilo, laddove si contesti la
violazione della fascia di rispetto di dieci metri dal piede dell'argine, ai
sensi dell'art. 96, lett. f), R.D. 523/1904; detto provvedimento, infatti,
ancorché emanato da un'autorità diversa da quelle specificamente preposte
alla tutela delle acque, incide direttamente sul regolare regime delle acque
pubbliche, la cui tutela ha carattere inderogabile in quanto informata alla
ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle
acque demaniali e il libero deflusso delle acque scorrenti dei fiumi,
torrenti, canali e scolatoi pubblici
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.06.2019 n. 965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: - secondo la giurisprudenza più recente, quando viene presentata la domanda
di sanatoria degli abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei
lavori): infatti, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto anzitutto ad
esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono, effettuando
comunque una nuova valutazione della situazione, mentre, dal punto di vista
processuale, la documentata presentazione dell’istanza di condono comporta
l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse nei confronti dei
pregressi provvedimenti repressivi, stante la necessità di una riedizione
del potere sanzionatorio.
Pertanto, la P.A. ha il dovere di procedere prioritariamente all’esame della
domanda di condono, che comporta l’esigenza di una nuova valutazione e
determinazione sugli illeciti edilizi ed il superamento degli originari
provvedimenti repressivi, posto che, in caso di accoglimento, l’abuso
compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego l’autorità amministrativa è
comunque tenuta a reiterare l’ingiunzione di demolizione, fissando un nuovo
termine per l’ottemperanza da parte dell’interessato;
- a tale orientamento aderisce la giurisprudenza di questa Sezione, la quale
ancora di recente ha avuto modo di precisare che la presentazione, da parte
del destinatario di un ordine di demolizione, di una domanda di condono o
sanatoria per le opere sanzionate, comporta in ogni caso l’improcedibilità
del ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione, perché, determinando
l’obbligo per il Comune di valutare l’istanza, con la conseguente necessità
di assumere un nuovo provvedimento favorevole o sfavorevole in esito alla
definizione della richiesta di sanatoria, fa perdere efficacia
all’originario provvedimento repressivo, il quale non può più essere portato
ad esecuzione.
---------------
Secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente, la
presentazione dell’istanza di condono
delle opere abusive comporta la perdita di efficacia dell’ordinanza di demolizione: quest’ultima, nonostante la mancanza, nel giudizio di annullamento proposto
avverso di essa dal privato, di un’ordinanza cautelare che ne avesse sospeso
l’efficacia, è stata comunque privata dei suoi effetti dalla pendenza della
domanda di condono, che ne ha precluso ogni ulteriore possibilità di
esecuzione.
Per conseguenza, una volta respinta la domanda di sanatoria, il Comune
deve adottare una nuova ordinanza di demolizione (in sostituzione
della precedente), anziché emanare illegittimamente il provvedimento di
esecuzione d’ufficio dell’ordine demolitorio ormai privato dei suoi effetti.
Né si potrebbe obiettare che si tratterebbe di un distinguo soltanto
formale, dovendo comunque procedersi alla rimozione delle opere abusive non
sanate: infatti,
l’emanazione ad opera della P.A. di un nuovo provvedimento demolitorio consente
all'istante, eventualmente, di ottemperarvi spontaneamente, prima di
vedersi destinatario di un ordine coattivo.
E la differenza tra le due
ipotesi (rimozione spontanea dell’abuso – esecuzione coattiva) si coglie con
facilità sul piano sanzionatorio (cfr. art. 7 della l. n. 47/1985, ed ora
art. 31 del d.P.R. n. 380/2001).
---------------
In disparte tale eccezione (senz’altro condivisibile, in linea di
principio), osserva però il Collegio che i motivi aggiunti sono fondati e da
accogliere nella parte in cui –terzo motivo aggiunto– è con essi dedotta
l’illegittimità dell’ordine di esecuzione d’ufficio, in quanto non preceduto
da una rinnovata ordinanza di demolizione, che il Comune avrebbe dovuto
adottare a seguito del rigetto dell’istanza di concessione in sanatoria.
Ed invero, come ricordato da un recentissimo precedente della Sezione (cfr.
TAR Veneto, Sez. II, 08.04.2019, n. 427):
-
“secondo la giurisprudenza più recente, quando viene presentata la domanda
di sanatoria degli abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizione, inibitorie, ordini di sospensione dei
lavori): infatti, sul piano procedimentale, il Comune è tenuto anzitutto ad
esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono, effettuando
comunque una nuova valutazione della situazione, mentre, dal punto di vista
processuale, la documentata presentazione dell’istanza di condono comporta
l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse nei confronti dei
pregressi provvedimenti repressivi, stante la necessità di una riedizione
del potere sanzionatorio. Pertanto, la P.A. ha il dovere di procedere
prioritariamente all’esame della domanda di condono, che comporta l’esigenza
di una nuova valutazione e determinazione sugli illeciti edilizi ed il
superamento degli originari provvedimenti repressivi, posto che, in caso di
accoglimento, l’abuso compiuto viene sanato, mentre in caso di diniego
l’autorità amministrativa è comunque tenuta a reiterare l’ingiunzione di
demolizione, fissando un nuovo termine per l’ottemperanza da parte
dell’interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 04.01.2018, n. 44);
- a tale orientamento aderisce la giurisprudenza di questa Sezione, la quale
ancora di recente ha avuto modo di precisare che la presentazione, da parte
del destinatario di un ordine di demolizione, di una domanda di condono o
sanatoria per le opere sanzionate, comporta in ogni caso l’improcedibilità
del ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione, perché, determinando
l’obbligo per il Comune di valutare l’istanza, con la conseguente necessità
di assumere un nuovo provvedimento favorevole o sfavorevole in esito alla
definizione della richiesta di sanatoria, fa perdere efficacia
all’originario provvedimento repressivo, il quale non può più essere portato
ad esecuzione (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 21.01.2019, n. 56)”.
Da quanto esposto emerge chiaramente che, secondo l’orientamento
giurisprudenziale assolutamente prevalente ed al quale si ritiene qui di
aderire, la presentazione ad opera del sig. Vi. dell’istanza di condono
delle opere abusive ha comportato –al contrario di quanto assume il Comune– la perdita di efficacia dell’ordinanza di demolizione del
09.08.1993: quest’ultima, nonostante la mancanza, nel giudizio di annullamento proposto
avverso di essa dal privato, di un’ordinanza cautelare che ne avesse sospeso
l’efficacia, è stata comunque privata dei suoi effetti dalla pendenza della
domanda di condono, che ne ha precluso ogni ulteriore possibilità di
esecuzione.
Per conseguenza, una volta respinta la domanda di sanatoria, il Comune
avrebbe dovuto adottare una nuova ordinanza di demolizione (in sostituzione
della precedente), anziché emanare illegittimamente il provvedimento di
esecuzione d’ufficio dell’ordine demolitorio ormai privato dei suoi effetti.
Né si potrebbe obiettare che si tratterebbe di un distinguo soltanto
formale, dovendo comunque procedersi alla rimozione delle opere abusive non
sanate: infatti, come ben evidenzia nel terzo motivo aggiunto il ricorrente,
l’emanazione ad opera della P.A. di un nuovo provvedimento demolitorio gli
avrebbe consentito eventualmente di ottemperarvi spontaneamente, prima di
vedersi destinatario di un ordine coattivo. E la differenza tra le due
ipotesi (rimozione spontanea dell’abuso – esecuzione coattiva) si coglie con
facilità sul piano sanzionatorio (cfr. art. 7 della l. n. 47/1985, ed ora
art. 31 del d.P.R. n. 380/2001).
Sussisteva, dunque, un indubbio interesse del privato all’adozione, da parte
della P.A., di una nuova ordinanza di demolizione, onde evitare le
conseguenze sanzionatorie ora accennate. Di qui, in ultima analisi, la
fondatezza del terzo motivo aggiunto, che deve essere quindi accolto (con
assorbimento di tutte le ulteriori censure), non potendosi condividere in
alcun modo le argomentazione avanzate sul punto dalla difesa comunale: in
particolare, erra il Comune lì dove argomenta che la reiterazione del
procedimento sanzionatorio si sarebbe rivelata un’inutile ed antieconomica
duplicazione dell’agire amministrativo.
In conclusione, pertanto, mentre il ricorso originario è complessivamente
infondato e da respingere, quello per motivi aggiunti è fondato e da
accogliere, attesa la fondatezza del terzo motivo aggiunto e con
assorbimento degli altri.
Per conseguenza, va annullato il provvedimento
comunale con il quale è stata disposta l’esecuzione d’ufficio della
demolizione delle opere abusive, gravato –come detto– a mezzo dei motivi
aggiunti
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.06.2019 n. 768 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti pericolosi e non
pericolosi non autorizzata - Area su cui terzi depositino in
modo incontrollato rifiuti - Responsabilità del proprietario
- Doveri di diligenza per la mancata adozione di tutte le
misure necessarie per evitare illeciti - Fattispecie:
contratto di locazione e attività di
autoriparazioni/carrozzeria - Art. 42 Costituzione - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006.
Il proprietario di un'area su cui terzi
depositino in modo incontrollato rifiuti, è penalmente
responsabile dell'illecita condotta di questi ultimi in
quanto tenuto a vigilare sull'osservanza da parte dei
medesimi delle norme in materia ambientale e ciò in quanto,
in tema di rifiuti, la responsabilità per l'attività di
gestione non autorizzata non attiene necessariamente al
profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta,
potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di
diligenza per la mancata adozione di tutte le misure
necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione.
E' stato, infatti, affermato che risponde del reato di
gestione non autorizzata di rifiuti il proprietario che
conceda in locazione un terreno a terzi per svolgervi
un'attività di smaltimento di rifiuti, in quanto incombe sul
primo, anche al fine di assicurare la funzione sociale della
proprietà (art. 42 Cost.), l'obbligo di verificare che il
concessionario sia in possesso dell'autorizzazione per
l'attività di gestione dei rifiuti e che questi rispetti le
prescrizioni contenute nel titolo abilitativo
(Sez. 3, n. 36836 del 09/07/2009, Riezzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.06.2019 n. 27911 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nessuna
indennità per il settimo giorno lavorativo al comandante-dirigente della
polizia locale.
Al comandante della polizia locale, con qualifica dirigenziale, non spetta
alcuna indennità o risarcimento per il lavoro prestato oltre il sesto
giorno, anche se imposto dall'ente in ragione del principio di
onnicomprensività della sua retribuzione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
25.06.2019 n. 17000.
Infatti la prestazione effettuata nel settimo giorno
consecutivo di lavoro, con riposo compensativo sul giorno successivo, esige,
per la sua particolare onerosità, uno specifico compenso che, trovando causa
nello stesso rapporto di lavoro, ha natura di retribuzione e non di
risarcimento o di indennizzo.
La vicenda
Il comandante della polizia locale aveva chiesto al proprio ente la
remunerazione del lavoro prestato oltre il sesto giorno lavorativo, senza
aver fruito di alcun riposo compensativo, a causa di un ordine del sindaco e
dell'assessore di assicurare la presenza in servizio anche il sabato e la
domenica. Inoltre, il comandante ha reclamato anche l'indennità di
vigilanza. Mentre il tribunale di primo grado ha accolto la sua domanda, la
Corte d'appello l'ha rigettata, precisando che il dirigente ha piena
autonomia nell'organizzare e gestire il proprio orario di lavoro.
Il
comandante ha proposto, allora, ricorso in Cassazione, deducendo l'errore
dei giudici d'appello che non hanno adeguatamente tenuto conto dell'obbligo
del comandante, anche se dirigente, di seguire le direttive organizzative e
di servizio impartite alla polizia municipale dal sindaco e dall'assessore,
suoi diretti superiori gerarchici.
Le indicazioni dell'Aran e del contratto
In merito all'indennità di vigilanza, l'Aran nei suoi orientamenti
applicativi ha avuto modo di precisare che, la retribuzione del dirigente -a differenza degli altri dipendenti- è composta di una retribuzione di
posizione e di risultato, corrisposta secondo la graduazione disposta
dall'ente locale. Pertanto, dal momento della istituzione della posizione
dirigenziale relativa al settore della polizia municipale, con
l'attribuzione al titolare delle funzioni stabilite dalla legge 65/1986,
l'ente avrebbe dovuto già inserire tra le risorse generali destinate al
finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato anche quelle
connesse al finanziamento dell'indennità di vigilanza (810,84 euro annui),
in virtù delle previsioni dell'articolo 37 del contratto del 10.04.1996.
In merito alle giornate lavorative oltre il sesto giorno, il contratto
collettivo della dirigenza degli enti locali nulla dispone su retribuzioni
supplementari o indennità, a differenza dei dirigenti della sanità dove il
contratto collettivo prevede che, nel caso in cui il dirigente sia chiamato
sul luogo di lavoro per prestare la propria attività nel settimo giorno
lavorativo (domenica o festività), ha diritto, oltre al recupero della
giornata, anche al compenso per il lavoro straordinario prestato o
all'eventuale recupero delle ore lavorate.
La conferma della Cassazione
I giudici della Cassazione confermano le conclusioni della Corte d'appello
precisando che, in merito alla dirigenza, è sufficiente richiamare la natura
onnicomprensiva della retribuzione secondo cui il trattamento economico dei
dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti secondo il
contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito
dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa, incluso
anche il lavoro prestato nel settimo giorno lavorativo o l'indennità di
vigilanza
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva: natura giuridica.
La giurisprudenza ha chiarito
che l’acquisizione gratuita costituisce un’autonoma sanzione che segue
l’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
In altre parole, l’acquisizione gratuita rappresenta una sanzione autonoma,
avente come presupposto un illecito diverso dall’abuso edilizio, che
consiste nella mancata ottemperanza all’ordine di demolizione in precedenza
emesso dall’amministrazione.
Presupposto essenziale affinché possa configurarsi l’acquisizione gratuita è
la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione dell’immobile abusivo
entro il termine di novanta giorni fissato dalla legge.
Più precisamente, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e
costituisce l’effetto automatico della mancata ottemperanza all’ingiunzione
a demolire. In coerenza con tale assunto, secondo un consolidato
orientamento della giurisprudenza, il provvedimento di acquisizione presenta
una natura meramente dichiarativa, non implicando alcuna valutazione
discrezionale.
La giurisprudenza ha precisato che l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’opera abusiva per la quale non si sia ottemperato
all’ordinanza di rimessione in pristino non può essere disposta nei
confronti del proprietario solo quando questi risulti, in modo
inequivocabile, estraneo all’abuso commesso, ovvero quando risulti che egli,
dopo esserne venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli
strumenti offertigli dall'ordinamento.
---------------
L’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e costituisce effetto
automatico dell’omessa ottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Il formale provvedimento di acquisizione è funzionale all'immissione nel
possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari e deve essere
preceduto dall’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Per scrupolo si sottolinea che, tenuto conto dei principi già innanzi
espressi a proposito della natura dell’atto di acquisizione, deve ritenersi
non necessaria la notifica del verbale di accertamento di inottemperanza
all'ordinanza di demolizione, proprio in forza della natura automatica
dell’acquisto da parte dell’amministrazione, a fronte dell’inadempimento del
privano (inadempimento neppure messo in discussione in questa sede). In
altri termini, il verbale di accertamento non assume portata lesiva degli
interessi del privato; ne consegue la non impugnabilità di tale verbale e la
sostanziale irrilevanza della sua notificazione.
---------------
Per consolidato orientamento giurisprudenziale,
l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un’opera edilizia abusiva
consegue all’inottemperanza all’ordine di demolizione come atto dovuto e non
necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento.
Più in generale, ai sensi del comma 3 dell’art. 31 citato, l’amministrazione
è tenuta a verificare solo se la demolizione è avvenuta, mentre gli effetti
dell’inottemperanza sono già prestabiliti dalla legge.
Per tale ragione,
tale procedimento non deve essere necessariamente preceduto da una
comunicazione di avvio, trattandosi di un’azione amministrativa dovuta e
rigidamente vincolata, con riferimento alla quale non sono richiesti apporti
partecipativi del privato.
---------------
6 – L’appello è infondato per le ragioni di seguito esposte.
La giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 4479 del 2018) ha chiarito
che l’acquisizione gratuita costituisce un’autonoma sanzione che segue
l’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
In altre parole, l’acquisizione gratuita rappresenta una sanzione autonoma,
avente come presupposto un illecito diverso dall’abuso edilizio, che
consiste nella mancata ottemperanza all’ordine di demolizione in precedenza
emesso dall’amministrazione (cfr. Corte Cost. n. 82 del 1991 e n. 345 del
1991).
Presupposto essenziale affinché possa configurarsi l’acquisizione gratuita è
la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione dell’immobile abusivo
entro il termine di novanta giorni fissato dalla legge.
Più precisamente, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso iure e
costituisce l’effetto automatico della mancata ottemperanza all’ingiunzione
a demolire. In coerenza con tale assunto, secondo un consolidato
orientamento della giurisprudenza, il provvedimento di acquisizione presenta
una natura meramente dichiarativa, non implicando alcuna valutazione
discrezionale (cfr. Cons. St., sez. IV, 07.07.2014, n. 3415).
6.1 - La giurisprudenza ha precisato che l’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell’opera abusiva per la quale non si sia ottemperato
all’ordinanza di rimessione in pristino non può essere disposta nei
confronti del proprietario solo quando questi risulti, in modo
inequivocabile, estraneo all’abuso commesso, ovvero quando risulti che egli,
dopo esserne venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli
strumenti offertigli dall'ordinamento (cfr. Cons. St., sez. VI, 358 del
2016).
7 – In fatto, nel caso di specie, è vero che l’acquisizione è stata disposta
nei confronti di un soggetto giuridico diverso rispetto all’autore
dell’abuso e rispetto al destinatario dell’ordine di demolizione.
Tuttavia, l’identità soggettiva tra il destinatario dell’ordine demolitorio
emesso nel 1997 e l’attuale legale rappresentante della Società appellante
(Lu.Ch.) dimostrano inequivocabilmente come anche la Società, terzo
acquirente, attraverso le persone titolari delle cariche sociali, fosse –sostanzialmente- a conoscenza dell’abuso e della notifica dell’ordine di
demolizione avvenuta proprio nei confronti di Luciano Chiesi.
Potrebbe altrimenti assai facilmente eludersi la cogenza di un ordine di
demolizione attraverso trasferimenti di comodo a società riconducibili ai
medesimi titolari degli immobili sui quali insiste l’abuso edilizio.
7.1 - Ne consegue che la prospettazione dell’appellante, secondo cui tale
circostanza sarebbe ininfluente a dimostrare la conoscenza dell’ordinanza di
demolizione da parte della società appellante, appare strumentale e
destituita di riscontro.
Appare infatti ragionevole considerare conosciuta l’ordinanza di demolizione
dalla persona giuridica, anche se a questa non notificata, in quanto
pacificamente nella cognizione dal soggetto che riveste la carica di legale
rappresentante e titolare dei poteri gestori dell’ente (art. 2475-bis c.c.),
ovvero dall’organo con cui l’ente si interfaccia all’esterno e che è
titolare della gestione societaria.
7.2 – Da un altro punto di vista, è infatti vero che il legale rappresentate
della società non potrebbe disporre del patrimonio sociale uti dominus,
tuttavia, tale soggetto ben avrebbe potuto attivarsi, nel rispetto della
disciplina legale e statutaria che governa la società, per eliminare
l’abuso.
7.3 - Nel peculiare caso in esame, deve sottolinearsi che, a far data dalla
declaratoria di perenzione del ricorso avverso il provvedimento di
demolizione (2011), e dunque dalla cessazione degli effetti della
sospensiva, sono decorsi ben sei anni, senza che l’appellante abbia in alcun
modo provveduto ad attivarsi per ovviare all’abuso edilizio. Ne consegue che
ben può essere ravvisata un’inerzia colpevole da parte della Società
appellante, seppur terza acquirente del manufatto e non autrice dell’abuso.
8 – Deve essere rigettato anche il secondo motivo di appello con cui si
deduce l’erroneità dalla sentenza per omessa rilevazione della violazione e
falsa applicazione dell'art. 31 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 nella parte in
cui ha disatteso il secondo motivo di ricorso, che denunciava l’inosservanza
dello schema procedimentale previsto dalla legge.
Al riguardo, l’appellante valorizza il quarto comma dell’art. 31 del D.P.R.
380/2001 secondo cui “l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione
a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato,
costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei
registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.
8.1 – Come già accennato, l’effetto traslativo della proprietà avviene ipso
iure e costituisce effetto automatico dell’omessa ottemperanza
all’ingiunzione a demolire.
Il formale provvedimento di acquisizione è funzionale all'immissione nel
possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari e deve essere
preceduto dall’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Nel caso di specie non è in discussione che l’amministrazione abbia
proceduto a quest’ultimo accertamento tramite il sopraluogo degli agenti
comunali e la redazione del relativo verbale.
Per scrupolo si sottolinea che, tenuto conto dei principi già innanzi
espressi a proposito della natura dell’atto di acquisizione, deve ritenersi
non necessaria la notifica del verbale di accertamento di inottemperanza
all'ordinanza di demolizione, proprio in forza della natura automatica
dell’acquisto da parte dell’amministrazione, a fronte dell’inadempimento del
privano (inadempimento neppure messo in discussione in questa sede). In
altri termini, il verbale di accertamento non assume portata lesiva degli
interessi del privato; ne consegue la non impugnabilità di tale verbale e la
sostanziale irrilevanza della sua notificazione (cfr. Cons. St., Sez. V,
17.06.2014, n. 3097).
9 – Deve essere disattesa anche la censura alla sentenza gravata nella parte
in cui, rigettando il terzo motivo di ricorso, ha ritenuto legittimo il
provvedimento gravato ritenendo che “per consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di
un’opera edilizia abusiva consegue all’inottemperanza all’ordine di
demolizione come atto dovuto e non necessita della previa comunicazione di
avvio del procedimento”.
Secondo l’appellante, attese anche le peculiarità del caso di specie, la
comunicazione di avvio del procedimento sarebbe invece stato atto dovuto
alla Società appellante, in ragione del fatto che la stessa non ha mai
conosciuto né avuto notizia del provvedimento demolitorio del 1997.
11.2 – Ad escludere la meritevolezza della censura valgono le considerazioni
già svolte circa la natura vincolata ed automatica dell’istituto
dell’acquisizione.
Più in generale, ai sensi del comma 3 dell’art. 31 citato, l’amministrazione
è tenuta a verificare solo se la demolizione è avvenuta, mentre gli effetti
dell’inottemperanza sono già prestabiliti dalla legge. Per tale ragione,
tale procedimento non deve essere necessariamente preceduto da una
comunicazione di avvio, trattandosi di un’azione amministrativa dovuta e
rigidamente vincolata, con riferimento alla quale non sono richiesti apporti
partecipativi del privato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.06.2019 n. 4336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione
di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata
al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
----------------
12 – Con il quarto motivo di appello si lamenta la mancata
valorizzazione dell’affidamento di cui sarebbe titolare l’odierna appellante
e rinvenibile nel fatto che l’immobile de quo è pervenuto nella
disponibilità della stessa nel 1998, senza che l’amministrazione notificasse
alcunché in relazione all’abuso.
Inoltre, secondo l’appellante la sospensione giudiziale della demolizione
per un lungo tempo (nel caso di specie oltre quattordici anni) comporterebbe
la necessità dell’Amministrazione di porre in essere una nuova valutazione
della determinazione illo tempore assunta, al fine di verificare la
concretezza e l’attualità dell’interesse pubblico all’esecuzione dello
stesso.
12.1 - La censura è infondata.
In primo luogo, non può essere messa in discussione la conoscenza da parte
dell’appellante della natura abusiva dell’opera, né dell’ordine di
demolizione che la colpiva, dal momento che il legale rappresentante della
stessa era il precedente proprietario dell’immobile e colui che aveva
proposto ricorso avverso l’ordine di demolizione.
Inoltre, nella materia in questione, non è in alcun modo predicabile una
valutazione da parte dell’amministrazione circa l’attualità dell’interesse
pubblico alla repressione degli abusi edilizi anche a distanza di tempo
dalla realizzazione degli stessi, trattandosi di una materia rigidamente
vincolata al ricorrere dei relativi presupposti di legge.
12.2 – Per la medesima ragione, deve escludersi la necessità di esaminare la
posizione del destinatario del provvedimento repressivo.
La giurisprudenza, seppur in riferimento alla sanzione demolitoria, ha
infatti avuto modo di chiarire che: “il provvedimento con cui viene
ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo, per
la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il
principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino” (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.06.2019 n. 4336 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
natura non edilizia dell’installazione di una tenda parasole o pergotenda.
Trattasi di una “pergotenda” quell'opera che, secondo il
condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a
soddisfare esigenze precarie, non necessità di titolo abilitativo in
considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della
sua funzione".
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR
06/06/2001, n. 380, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli
“interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera (nella
fattispecie esaminata in alluminio anodizzato) destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale
elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad
una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la
conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi
una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a rimanere
costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile,
onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e
la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di
fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda,
onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente
configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la
creazione di nuovo volume o superficie.
L’esposta conclusione trova conforto anche nell’allegato al D.M. 02/03/2018
avente ad oggetto il “glossario contenente l'elenco non esaustivo delle
principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia
libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, il quale, al n. 50, include le pergotende tra gli
interventi realizzabili in regime di edilizia libera”.
---------------
Ai sensi dell'art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 31/2017, “Non può disporsi la
rimessione in pristino nel caso di interventi e opere ricompresi nell'ambito
di applicazione dell'art. 2 del presente decreto e realizzati anteriormente
alla data di entrata in vigore del presente regolamento non soggette ad
altro titolo abilitativo all'infuori dell'autorizzazione paesaggistica”,
sicché l’opera in questione non si profila illegittima neppure su quest’altro
versante.
---------------
5.2 Il motivo di ricorso è parzialmente fondato.
Giova esaminare ciascuna delle opere per le quali è stato domandato
l’accertamento di conformità da parte dell’interessato, nell’ordine dedotto
dall’interessato, iniziando quindi dalle tende parasole o pergotende.
Rispetto a questa tipologia di opera, va ricordato quanto di recente
affermato dal Consiglio di Stato, sez. VI, 3.04.2019 n. 2206: “Trattasi,
quindi, di una “pergotenda”, ovvero di un’opera che, secondo il
condivisibile orientamento di questa Sezione, pur non essendo destinata a
soddisfare esigenze precarie, non necessità di titolo abilitativo in
considerazione della consistenza, delle caratteristiche costruttive e della
sua funzione" (Cons. Stato, Sez. VI, 09/07/2018, n. 4777; 25/01/2017, n. 306;
27/04/2016, n. 1619).
Infatti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR
06/06/2001, n. 380 e 15 della L.R. 06/06/2008, n. 16 (applicabile ratione
temporis), sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli
“interventi di nuova costruzione”, che determinano una “trasformazione
edilizia e urbanistica del territorio”, mentre una struttura leggera (nella
fattispecie esaminata in alluminio anodizzato) destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
L'opera principale non è, infatti, l’intelaiatura in sé, ma la tenda, quale
elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad
una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la
conseguenza che l’intelaiatura medesima si qualifica in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Quest'ultima, poi, integrata alla struttura portante, non può considerarsi
una “nuova costruzione”, anche laddove per ipotesi destinata a rimanere
costantemente chiusa, posto che essa è in materiale plastico e retrattile,
onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e
la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di
fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda,
onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente
configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la
creazione di nuovo volume o superficie.
L’esposta conclusione trova conforto anche nell’allegato al D.M. 02/03/2018
avente ad oggetto il “glossario contenente l'elenco non esaustivo delle
principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia
libera, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222, il quale, al n. 50, include le pergotende tra gli
interventi realizzabili in regime di edilizia libera”.
5.2.1 Il richiamato precedente, dal quale non v’è motivo di discostarsi, ha
espressamente statuito la natura non edilizia dell’installazione di una
tenda parasole, sicché, effettivamente, si profila illegittimo il
provvedimento gravato, nella parte in cui non riconosce la conformità
urbanistica ed edilizia di un’opera che non necessita, per la sua
installazione, neppure di un’autorizzazione espressa.
5.2.2 Da un punto di vista paesaggistico, va peraltro ricordato come, ai
sensi dell'art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 31/2017, “Non può disporsi la rimessione in pristino nel caso di interventi e opere ricompresi nell'ambito
di applicazione dell'art. 2 del presente decreto e realizzati anteriormente
alla data di entrata in vigore del presente regolamento non soggette ad
altro titolo abilitativo all'infuori dell'autorizzazione paesaggistica”,
sicché l’opera in questione non si profila illegittima neppure su quest’altro
versante (per questa conclusione, vedi Consiglio di Stato, Sez. VI,
05/10/2018, n. 5737).
5.2.3 Si ritiene, peraltro, che la superiore statuizione non possa mutare in
considerazione della circostanza dedotta dall’ente locale a sostegno del
diniego, ossia che le tende sono state apposte su di un immobile oggetto di
non meglio precisate plurime violazioni edilizie.
Questa circostanza, quand’anche circostanziata e dimostrata da parte del
Comune (e non è questo il caso), non muta, infatti, la natura delle opere
installate, e non rende ciò che, per consistenza e dimensioni, non ha le
caratteristiche proprie dell’attività edilizia necessitante di
un’autorizzazione, e dunque rientrare nel novero delle opere che invece la
presuppongono.
5.2.4 In definitiva, può dunque accogliersi la censura e pronunciarsi
l’annullamento del diniego con riferimento alle opere elencate nei punti 1,
2, 4 e 6
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.06.2019 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
posa di un "cancello".
L’apposizione di un cancello costituisce,
tradizionalmente, espressione della facoltà di godimento del proprietario e,
in particolare, dello jus escludendi alios connaturato a questo diritto,
cosicché anch’essa non necessita di un titolo abilitativo edilizio e non
sottostà al regime dell’autorizzazione paesaggistica.
Invero, “L'apposizione di un cancello non comporta trasformazione
urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di
costruire. Inoltre, in quanto attività edilizia libera o al più integrante
intervento di mera manutenzione ordinaria, esula dall'assoggettamento ad
autorizzazione paesaggistica in ossequio all'art. 149 del D.Lgs. n. 42 del
2004, non potendosi conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto,
la sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata previa
acquisizione”.
Si può dunque pronunciare l’annullamento del provvedimento gravato
nella parte in cui, al punto 7, dispone il diniego di accertamento di
conformità per quest’opera.
---------------
5.3 Continuando l’esame della censura, va delibata quella inerente
all’apposizione di un cancello a chiusura della proprietà della ricorrente.
5.3.1 Come rilevato anche in precedenti di questa Sezione (cfr. TAR Campania-Salerno, Sez. II, 04/03/2019, n. 358; TAR Campania–Salerno, Sez. II, 13/11/2018, n. 1623; TAR Campania–Salerno, Sez. II,
31/08/2018, n. 1235) l’apposizione di un cancello costituisce,
tradizionalmente, espressione della facoltà di godimento del proprietario e,
in particolare, dello jus escludendi alios connaturato a questo diritto,
cosicché anch’essa non necessita di un titolo abilitativo edilizio e non
sottostà al regime dell’autorizzazione paesaggistica.
5.3.2 L’assunto è corroborato anche da altre decisioni del Giudice
Amministrativo.
Secondo quanto affermato dal TAR Campania-Napoli Sez. III, 11/05/2015,
n. 2600, “L'apposizione di un cancello non comporta trasformazione
urbanistica ed edilizia tale da richiedere il rilascio del permesso di
costruire. Inoltre, in quanto attività edilizia libera o al più integrante
intervento di mera manutenzione ordinaria, esula dall'assoggettamento ad
autorizzazione paesaggistica in ossequio all'art. 149 del D.Lgs. n. 42 del
2004, non potendosi conseguentemente comminare ex art. 167 stesso decreto,
la sanzione della riduzione in pristino per la sua mancata previa
acquisizione” (cfr., altresì, TAR Basilicata–Potenza, Sez. I,
31/05/2016, n. 575; TAR Umbria–Perugia, Sez. I, 11/06/2014, n. 307).
5.3.3 Si può dunque pronunciare l’annullamento del provvedimento gravato
nella parte in cui, al punto 7, dispone il diniego di accertamento di
conformità per quest’opera
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.06.2019 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'installazione
di una "ringhiera in ferro battuto in sostituzione di un parapetto in
pietra".
Non può accogliersi la doglianza prospettata che concerne l’installazione di una ringhiera in
ferro battuto in sostituzione di un parapetto in pietra.
L’opera infatti incide sul c.d. prospetto dell’edificio, poiché va a mutare
quella che è la sua conformazione estetica fruibile dall’esterno.
Un simile intervento, per poter essere effettuato, è soggetto a permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 10, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001.
E’ legittimo dunque, in questo caso, il diniego opposto dal Comune e motivato in ragione dell’inedificabilità della zona in cui si
situa l’immobile, nella quale, in virtù del P.R.G. e del P.U.T., sono
possibili soltanto interventi di manutenzione ordinaria, di consolidamento
statico, di eliminazione delle barriere architettoniche e relativi
all’adeguamento funzionale degli alberghi e delle altre strutture ricettive,
nonché degli edifici adibiti alla produzione di beni e servizi, nei termini
strettamente necessari ad ottemperare a disposizioni di norme di legge
specifiche, mentre quello compiuto dalla ricorrente, in forza dell’art. 10,
lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, poc’anzi richiamato, è sussumibile
all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia.
---------------
5.4 Non può invece accogliersi la doglianza prospettata, relativamente al
punto 8) del provvedimento, che concerne l’installazione di una ringhiera in
ferro battuto in sostituzione di un parapetto in pietra.
L’opera infatti incide sul c.d. prospetto dell’edificio, poiché va a mutare
quella che è la sua conformazione estetica fruibile dall’esterno.
Un simile intervento, per poter essere effettuato, è soggetto a permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 10, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001 (TAR
Calabria–Catanzaro, Sez. I, 26/01/2018, n. 244).
5.4.1 E’ legittimo dunque, in questo caso, il diniego opposto dal Comune di
Positano e motivato in ragione dell’inedificabilità della zona in cui si
situa l’immobile, nella quale, in virtù del P.R.G. e del P.U.T., sono
possibili soltanto interventi di manutenzione ordinaria, di consolidamento
statico, di eliminazione delle barriere architettoniche e relativi
all’adeguamento funzionale degli alberghi e delle altre strutture ricettive,
nonché degli edifici adibiti alla produzione di beni e servizi, nei termini
strettamente necessari ad ottemperare a disposizioni di norme di legge
specifiche, mentre quello compiuto dalla ricorrente, in forza dell’art. 10,
lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001, poc’anzi richiamato, è sussumibile
all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.06.2019 n. 1125 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
il licenziamento per l'affidamento senza gara di servizi extra convenzione
Consip.
È legittimo il licenziamento del dirigente che abbia affidato a una Spa
alcuni servizi extra convenzione Consip senza il rispetto della procedura a
evidenza pubblica, con conseguente duplicazione del corrispettivo versato.
Ad affermarlo è la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la
sentenza 24.06.2019 n. 16842 che ha ritenuto
proporzionata la massima sanzione disciplinare rispetto alla gravità della
condotta contestata, e altresì considerato non rilevante, ai fini della
validità del provvedimento, la violazione del termine di cinque giorni per
la trasmissione della notizia del fatto all'ufficio competente per i
procedimenti disciplinari da parte del dirigente responsabile.
La vicenda
La decisione della Suprema corte riguarda la legittimità del licenziamento
per giusta causa intimato da un'azienda ospedaliera romana a un suo
dirigente, reo di aver affidato a una Spa servizi extra convenzione Consip
senza rispettare la procedura a evidenza pubblica, determinando così una
duplicazione della spesa per l'azienda ospedaliera.
Il lavoratore impugnava
la sanzione disciplinare sia nel merito, ritenendo eccessivamente grave il
provvedimento adottato, sia nella forma, in quanto il responsabile della
struttura aveva segnalato la notizia del fatto ben oltre i cinque giorni
previsti dall'articolo 55, comma 3, del Dlgs 165/2001.
I giudici di merito, in entrambi i gradi di giudizio, confermavano la bontà
del licenziamento ritenendo proporzionata la misura rispetto al fatto,
nonché non rilevante la violazione del termine per la segnalazione
all'ufficio competente, in quanto trattasi di termine non perentorio.
La decisione
La questione arriva così in Cassazione che conferma la legittimità della
massima sanzione disciplinare e sottolinea, in particolare, la correttezza
della valutazione, da parte dei giudici di merito, della condotta contestata
«di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro».
Quanto all'aspetto formale della vicenda, inoltre, i giudici di legittimità
precisano che il termine per la trasmissione della notizia di comportamenti
punibili da parte del dirigente della struttura all'ufficio competente per i
procedimenti disciplinari ha natura soltanto sollecitatoria e non anche
perentoria. Ciò significa che l'inosservanza dell'articolo 55, comma 3, del
Dlgs 165/2001, che impone al dirigente della struttura amministrativa di
trasmettere la notizia del fatto entro cinque giorni, «non comporta di per
sé l'illegittimità della sanzione inflitta».
La violazione di tale termine, precisa infine il Collegio, «assume
rilievo solo allorché la trasmissione degli atti venga ritardata in misura
tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto di difesa»,
circostanza questa non allegata né provata dal dirigente nel corso dei
giudizi di merito
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio non ignora che in linea di principio è inammissibile il rilascio di
un provvedimento abilitativo che
consenta di realizzare opere edilizie in contrasto con la normativa
urbanistica, atteso che o viene in considerazione un’opera avente natura
precaria, ed allora non si rende conseguentemente necessario altro titolo
abilitativo, o viene in rilievo un’opera avente carattere di stabilità, ed
allora necessita in ogni caso il rispetto della normativa urbanistica.
Pertanto, il comune non può, mediante l’inserimento nel titolo abilitativo
di clausole o condizioni, permettere la realizzazione, in contrasto con la
programmazione di settore, di opere che siano in grado di alterare in modo
permanente l’assetto urbanistico.
Invero, non può essere
rilasciata una concessione edilizia cd. “in precario” con la quale
l’amministrazione comunale consenta una situazione di palese abuso edilizio
sulla base del solo impegno del costruttore di rimuovere in futuro i
manufatti contrastanti con le indicazioni di piano regolatore generale su
semplice richiesta dello stesso comune e breve preavviso, in quanto, oltre a
snaturare la tipicità della concessione di costruzione, non potrebbe avere
altra funzione che quella di tollerare una situazione di evidente abuso
edilizio.
Nondimeno, all’epoca del rilascio del titolo in precario di cui trattasi,
vigeva l’originario testo dell’art. 31 della l. 17.08.1942 n. 1150 che –di per sé– non contemplava il divieto di apporre limiti temporali alle
licenze edilizie.
E se è dunque vero che –alla stregua dell’attuale assetto normativo della
materia– l’istituto del permesso di costruire “in precario” non è previsto
dall’ordinamento perché il permesso di costruire postula ex se la
sussistenza di una trasformazione del territorio che abbia natura di
prevedibile stabilità, risulta altrettanto innegabile che nella vigenza
dell’originaria disciplina contenuta nell’art. 31 della l. 1150 del 1942 –e
ben prima, dunque, dell’entrata in vigore dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis),
del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che attualmente disciplina in via generale
quale “attività edilizia libera” le fattispecie di edificazione non
permanente- le amministrazioni comunali utilizzavano diffusamente la prassi
–talvolta codificandola anche nei propri regolamenti edilizi- di
rilasciare permessi di costruire provvisori (ovvero “in precario”) in
fattispecie pure dissimili tra loro ma per lo più per assentire opere non
conformi alle prescrizioni dello strumento urbanistico ma alle quali, per
natura e destinazione, veniva riconosciuta una durata limitata e
predeterminabile.
---------------
4.3. Il Collegio rimarca -da ultimo- che è inesatto il rilievo
dell’appellante contenuto a pag. 15 dell’atto introduttivo del presente
grado di giudizio secondo il quale l’impugnata ingiunzione di demolire
dovrebbe reputarsi illegittima poiché la costruzione di cui trattasi non
sarebbe stata realizzata in maniera abusiva.
Come accennato dianzi, certamente tale costruzione non era abusiva al
momento del rilascio del titolo con il quale ne era stata assentita la
realizzazione, ma lo è divenuta dopo il decorso del termine previsto per la
sua rimozione.
Né l’attuale appellante può ora ragionevolmente sostenere che la licenza con
la quale era stata autorizzata la costruzione stessa era illegittima in
quanto contemplava una scadenza.
Sotto questo specifico profilo, il Collegio non ignora che in linea di
principio è inammissibile il rilascio di un provvedimento abilitativo che
consenta di realizzare opere edilizie in contrasto con la normativa
urbanistica, atteso che o viene in considerazione un’opera avente natura
precaria, ed allora non si rende conseguentemente necessario altro titolo
abilitativo, o viene in rilievo un’opera avente carattere di stabilità, ed
allora necessita in ogni caso il rispetto della normativa urbanistica;
pertanto, il comune non può, mediante l’inserimento nel titolo abilitativo
di clausole o condizioni, permettere la realizzazione, in contrasto con la
programmazione di settore, di opere che siano in grado di alterare in modo
permanente l’assetto urbanistico (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.03.2000,
n. 1507 e 18.03.1991, n. 280; cfr., altresì, il puntuale precedente di
Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 363, secondo il quale non può essere
rilasciata una concessione edilizia cd. “in precario” con la quale
l’amministrazione comunale consenta una situazione di palese abuso edilizio
sulla base del solo impegno del costruttore di rimuovere in futuro i
manufatti contrastanti con le indicazioni di piano regolatore generale su
semplice richiesta dello stesso comune e breve preavviso, in quanto, oltre a
snaturare la tipicità della concessione di costruzione, non potrebbe avere
altra funzione che quella di tollerare una situazione di evidente abuso
edilizio).
Nondimeno, all’epoca del rilascio del titolo in precario di cui trattasi,
vigeva l’originario testo dell’art. 31 della l. 17.08.1942 n. 1150 che –di per sé– non contemplava il divieto di apporre limiti temporali alle
licenze edilizie.
E se è dunque vero che –alla stregua dell’attuale assetto normativo della
materia– l’istituto del permesso di costruire “in precario” non è previsto
dall’ordinamento perché il permesso di costruire postula ex se la
sussistenza di una trasformazione del territorio che abbia natura di
prevedibile stabilità, risulta altrettanto innegabile che nella vigenza
dell’originaria disciplina contenuta nell’art. 31 della l. 1150 del 1942 –e
ben prima, dunque, dell’entrata in vigore dell’art. 6, comma 1, lett. e-bis),
del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 che attualmente disciplina in via generale
quale “attività edilizia libera” le fattispecie di edificazione non
permanente- le amministrazioni comunali utilizzavano diffusamente la prassi
–talvolta codificandola anche nei propri regolamenti edilizi- di
rilasciare permessi di costruire provvisori (ovvero “in precario”) in
fattispecie pure dissimili tra loro ma per lo più per assentire opere non
conformi alle prescrizioni dello strumento urbanistico ma alle quali, per
natura e destinazione, veniva riconosciuta una durata limitata e
predeterminabile
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 4315 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
realizzazione di box ex lege 122/1989 e sulla loro pertinenzialità
delle singole unità immobiliari.
La disciplina dell'art. 9 l. n. 122/1989 va interpretata
rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto
risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità”
in modo tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di
parcheggi anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di
unità immobiliare residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen.,
05.12.2011, n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la
realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L.
n. 122 del 1989, art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche
non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a
condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione
della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione
pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi
in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria
disciplina urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione
della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in
questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso
che devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i
parcheggi medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente
fruibili soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità
immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una
relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè, da evocare un
nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità tra il
fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo servizio.
---------------
4.3. Ciò posto, risulta del tutto assodato che l’attuale appellante ha
chiesto il rilascio dell’assenso a costruire un’autorimessa, composta da più
box e parcheggi aperti, a’ sensi dell’art. 9 della l. 122 del 1989, ossia
un’opera che per l’espresso tenore letterale di tale articolo di legge può
essere realizzata esclusivamente dai proprietari di immobili nel sottosuolo
degli immobili medesimi ovvero nei locali ubicati al piano terreno dei
fabbricati di loro proprietà, ad uso esclusivo dei residenti e -sempre e
comunque- quale pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti (cfr. il testo
dell’art. cit.).
Giova a tale riguardo precisare che la disciplina testé riassunta va
interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel
cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità”
in modo tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di
parcheggi anche quando sia scollegata ab origine dalla fruizione di
unità immobiliare residenziali (cfr. sul punto, ad es., Cass., Sez. III pen.,
05.12.2011, n. 45068 e 18.03.2009, n. 26327, secondo le quali la
realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L.
n. 122 del 1989, art. 9 può anche avvenire ad opera di terzi e in aree anche
non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili, sempre peraltro “a
condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione
della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione
pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi
in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria
disciplina urbanistica ed edilizia”).
Risulta in ogni caso incontrovertibile che agli effetti dell’applicazione
della disciplina di cui all’art. 9 della l. 122 del 1989 i parcheggi in
questione devono essere inderogabilmente “pertinenziali”, nel senso
che devono essere al servizio di “singole unità immobiliari”: i
parcheggi medesimi devono essere pertanto sicuramente ed esclusivamente
fruibili soltanto da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità
immobiliari; e tale rapporto presuppone pertanto indefettibilmente una
relazione di “pertinenzialità” c.d. “materiale”, tale, cioè,
da evocare un nesso di immediata e in alcun modo contestabile funzionalità
tra il fabbricato principale e l’area che è con ciò destinata al suo
servizio (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 23.03.2016 n. 2116.
Orbene, il Collegio non ignora la giurisprudenza citata dall’appellante
secondo la quale -come si è detto innanzi, e in modo anche divergente dalle
anzidette sentenze della Cassazione penale- “ai fini della realizzazione
di un parcheggio interrato, non si deve ritenere necessario che il numero di
proprietari di immobili siti nelle vicinanze sia individuato nel momento
della proposizione della domanda o della costruzione di questo,
richiedendosi solo che il vincolo pertinenziale venga previsto e poi
effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte , senza che il
vincolo stesso debba preesistere” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26.05.2003,
n. 2852 e 09.10.2006, n. 5954 citate dall’appellante, cui va aggiunta anche
il primo e del tutto consonante precedente di Cons. Stato, Sez. V,
15.06.2001, n. 3176)
Ma, a ben vedere, nella presente fattispecie non rileva il momento nel quale
il vincolo pertinenziale viene ad essere effettivamente costituito, bensì la
sussistenza degli stessi presupposti per formalmente costituirlo.
E risulta oltremodo significativa la circostanza che l’attuale appellante
non solo nel procedimento che si è concluso con l’adozione del provvedimento
di diniego, ma anche durante l’intero e quanto mai consistente lasso di
tempo occupato dai due gradi di processo non è stato in grado di comprovare
il carattere pertinenziale dell’opera che parrebbe a tutt’oggi intenzionato
a realizzare.
Se difetta –per così dire– “a monte” il materiale requisito della
pertinenzialità dell’opera e non è offerta neppure nel contraddittorio
processuale una prova sulla sua sussistenza, allora è del tutto evidente che
l’attuale appellante e già ricorrente in primo grado difetta di una propria
legitimatio ad causam e, quindi, essendo carente dello stesso, necessario
presupposto per poter ottenere il titolo necessario alla realizzazione
dell’opera, non ha evidentemente interesse a’ sensi dell’art. 100 c.p.c. ad
adire la presente sede giudiziale.
Discende da questo contesto che è di per sé impraticabile qualsivoglia
censura di disparità di trattamento rispetto alla posizione di altro
proprietario che –a dire dell’appellante- avrebbe intrapreso la
realizzazione di analoga opera in area finitima senza che gli sia stata
chiesta già all’atto della presentazione del progetto la dimostrazione della
pertinenzialità dell’opera, nonché con riguardo alla posizione dello stesso
attuale appellante, il quale per altra consimile opera da lui realizzata
riferisce di aver ottenuto il parere favorevole della Commissione Edilizia
senza la preventiva imposizione della comprova della pertinenzialità dei
posti auto da lui realizzati.
Va infatti evidenziato a tale riguardo che il medesimo appellante non
comprova se poi a tali realizzazioni abbia fatto seguito l’effettiva
costituzione del vincolo di pertinenzialità; e va soprattutto rimarcato, in
via del tutto assorbente, che nella presente fattispecie rileva solo ed
esclusivamente la dianzi rilevata carenza di dimostrazione della
pertinenzialità dell’opera qui in esame.
Preme inoltre evidenziare che nella specie non ricorre l’ipotesi di
motivazione postuma circa il difetto del requisito della pertinenzialità
disposta dall’amministrazione comunale in sede processuale, mediante la
propria relazione istruttoria e le proprie memorie defensionali.
Il requisito della pertinenzialità doveva infatti intendersi in re ipsa
imprescindibile per il solo fatto che il tecnico incaricato dal Ta. ha
chiesto di realizzare l’opera secondo la disciplina contemplata dall’art. 9
della l. 122 del 1989: e ciò –si badi– anche a prescindere da come e quando
la medesima amministrazione comunale ha chiesto di verificare la sussistenza
del requisito in questione.
La stessa amministrazione comunale, poi, nel respingere il progetto, nel
provvedimento qui impugnato ha comunque inserito expressis verbis nel
contesto delle prescrizioni imposte per la riproposizione del progetto
medesimo una non equivoca richiesta: “nel caso di riproposizione del
progetto l’intervento è subordinato all’effettiva documentazione di
pertinenzialità agli edifici posti nel contorno del perimetro individuato in
progetto”.
L’attuale appellante, come si è visto innanzi, reputa che tale richiesta non
sia riconducibile a motivo del diniego, costituendo essa a suo avviso
soltanto una “puntualizzazione” per l’eventuale presentazione di un
nuovo progetto, e non già –come viceversa è– una puntuale prescrizione di un
sottostante ed imprescindibile requisito che –si ribadisce– egli si è
sistematicamente astenuto dal comprovare.
Ma è proprio tale asseritamente mera “puntualizzazione” che nella
specie mette a nudo –anche al di là della sua collocazione formale nel
contesto del provvedimento impugnato- quel difetto di interesse del Ta. che
del tutto correttamente il giudice di primo grado ha colto, laddove –per
l’appunto– dalla mancata comprova della “pertinenzialità” dell’opera,
inderogabilmente richiesta quale conditio sine qua non per la sua
realizzazione, ha fatto ivi testualmente discendere, quale fulcro
motivazionale della propria pronuncia, la conseguenza che “difetta
pertanto il requisito dell’interesse alla proposizione della domanda, posto
che l’eventuale annullamento dell’atto impugnato comporterebbe pur sempre
l’obbligo per la p.a. di riesaminare la domanda che, essendo carente del
presupposto indicato, non potrebbe sortire esito positivo per l’interessato”
(cfr. ivi).
5. La conferma della sentenza in rito di inammissibilità resa in primo grado
determina l’assorbimento, anche nel presente giudizio d’appello, di tutte le
censure che l’attuale appellante ha dispiegato con riguardo all’intrinseca
legittimità del provvedimento da lui impugnato innanzi al TAR
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 4305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'intervenuta presentazione della domanda di accertamento di conformità non
paralizza i poteri sanzionatori comunali e non determina, pertanto, alcuna
inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell'ingiunzione di
demolizione, comportando che l'esecuzione della sanzione è da considerarsi
solo temporaneamente sospesa.
Ciò anche al fine di evitare che pur in presenza del rigetto dell'istanza di
sanatoria l'amministrazione debba reiterare l'ordine di demolizione.
---------------
7.1. In primo luogo, il diniego deliberato dall'amministrazione
sulla istanza di accertamento di conformità richiede che il giudizio si
concentri su tale ultima determinazione dato che, ove fosse confermata, si
confermerebbe anche la validità dell'ordine di demolizione.
Pertanto, non è
rilevante che tale ultimo provvedimento sia stato notificato successivamente
alla istanza di sanatoria, dato che il Comune ha poi stabilito che le opere
non fossero sanabili in quanto non conformi alle norme vigenti.
La giurisprudenza amministrativa ha infatti chiarito da tempo che
"l'intervenuta presentazione della domanda di accertamento di conformità non
paralizza i poteri sanzionatori comunali e non determina, pertanto, alcuna
inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell'ingiunzione di
demolizione, comportando che l'esecuzione della sanzione è da considerarsi
solo temporaneamente sospesa" (Cons. Stato, Sez. VI, nn. 6233 del 2018, 1909
del 2013).
Ciò anche al fine di evitare che pur in presenza del rigetto dell'istanza di
sanatoria l'amministrazione debba reiterare l'ordine di demolizione (Cons.
Stato, Sez. VI, nn. 6233 del 2018, 446 del 2015)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 24.06.2019 n. 4304 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Avvalimento,
impegno dell’impresa ausiliaria. Dichiarazione per
soccorso istruttorio.
La dichiarazione di impegno dell'impresa ausiliaria in una gara d'appalto
pubblico è elemento essenziale per la corretta applicazione dell'istituto
dell'avvalimento; inapplicabile il soccorso istruttorio in caso di assenza.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sec. II, con la
sentenza 21.06.2019, n. 8121 in merito alla disciplina dettata dal'articolo
89 del codice dei contratti pubblici. In particolare, i giudici hanno
affermato che la dichiarazione d'impegno dell'ausiliaria rappresenta un «atto
essenziale, ai fini dell'operatività dell'istituto dell'avvalimento, in
quanto costituisce lo strumento attraverso il quale l'ausiliaria assume un
obbligo giuridico diretto nei confronti della stazione appaltante».
La sentenza declina anche la natura di questo impegno giuridico che è
essenziale ai fini dell'applicazione delle misure previste dall'art. 80,
comma 12 del codice appalti (segnalazione all'Anac e, se del caso,
iscrizione nel casellario informatico) nel caso di falsità delle
dichiarazioni dei sottoscrittori e, quindi, dell'ausiliaria. Inoltre, la
stessa caratteristica di essenzialità è connessa alla operatività della
solidarietà dell'ausiliaria nei confronti della stazione appaltante in
relazione alle prestazioni oggetto del contratto (disciplinata dall'art. 89,
comma 5, del codice).
Infine, la dichiarazione di impegno rileva anche per le verifiche in fase
esecutiva che coinvolgono direttamente l'ausiliaria alla quale vanno inviate
le comunicazioni di cui all'articolo 52 e quelle inerenti all'esecuzione dei
lavori.
In generale, poi la sentenza ribadisce da un lato che le dichiarazioni
dell'impresa ausiliaria e il contratto di avvalimento sono atti diversi, per
natura, contenuto, finalità, costituendo la dichiarazione un atto di
assunzione unilaterale di obbligazioni precipuamente nei confronti della
stazione appaltante e il contratto di avvalimento l'atto bilaterale di
costituzione di un rapporto giuridico patrimoniale, stipulato tra l'impresa
partecipante alla gara e l'impresa ausiliaria, contemplante le reciproche
obbligazioni delle parti e le prestazioni da esse discendenti.
Se la dichiarazione d'impegno dell'ausiliaria è un elemento necessario ai
fini del perfezionamento dell'avvalimento, conclude la sentenza, deve
ritenersi che essa non possa essere acquisita attraverso il soccorso
istruttorio
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2019). |
APPALTI:
Punteggio premiale negli appalti di servizi solo se non snatura
la prestazione richiesta.
Nell'ambito dell'affidamento dei servizi è ammissibile un punteggio premiale
aggiuntivo nel caso di proposte oggettivamente migliorative delle
prestazioni richieste, ma non anche l'offerta di ulteriori servizi in grado
di alterare la prestazione richiesta dalla stazione appaltante.
Ciò è quanto emerge da due sentenze degli ultimi giorni che si esprimono in
modo opposto: il TAR Lazio-Roma - Sez. II-ter -
sentenza 21.06.2019 n.
8121 e il TAR Lombardia-Milano - Sez. IV -
sentenza 12.06.2019 n.
1327.
Sull'ammissibilità del criterio premiale anche per i
servizi
In senso favorevole si pronuncia il Tar Lazio. Il ricorrente ha contestato
il criterio di valutazione che prevedeva l'assegnazione di un punteggio, tra
gli altri, per l'incremento delle ore di pulizia. La tesi è che tali criteri
sarebbero illegittimi perché diretti a valorizzare «esclusivamente l’aspetto
quantitativo e non anche quello qualitativo dell’offerta tecnica»
costituendo «un’indiretta forma di ribasso economico attraverso il
riconoscimento di ore di servizio aggiuntive rispetto a quelle programmate».
Il giudice respinge la doglianza statuendo la legittimità del criterio
utilizzato perché «pertinente rispetto alla natura e all’oggetto
dell’appalto, come richiesto dall’articolo 95, comma 6, Dlgs n. 5016, in
quanto (…) finalizzato ad un miglioramento oggettivo della prestazione e,
quindi, attiene a un aspetto qualitativo (e non già quantitativo come,
invece, dedotto da parte ricorrente) della stessa».
A nulla è valso il
richiamo da parte del ricorrente al precedente del Tar Umbria n. 581/2018
che ha invece annullato gli atti di gara per l'offerta migliorativa
consistente in un «surplus di ore di lavoro messo a disposizione e
liberamente utilizzabile dall’amministrazione in base alle proprie esigenze»
che sostanzialmente non deteterminava, secondo il giudice capitolino, alcun
miglioramento qualitativo della prestazione da rendere.
E la tesi contraria dell'inammissibilità
Di diverso avviso, invece, il Tar Lombardia, - sezione IV - n. 1327/2019 che
annulla gli atti di gara per diversi vizi di legittimità ma, per ciò che in
questa sede interessa, per la violazione dell'articolo 95, comma 14-bis, del
codice.
Secondo la ricorrente il bando –tra gli altri– doveva ritenersi
illegittimo per la previsione di un punteggio premiale, rispetto alle
previsioni del capitolato capitolato, per prestazioni ulteriori da rendere
gratuitamente.
Il giudice, pur in modo non chiarissimo, ritiene persuasive le doglianze
evidenziando che «il comma 14-bis, articolo 95, del Dlgs n. 50/2016 per come
formulato, limita il divieto di prevedere un punteggio premiale per
l’offerta di prestazioni aggiuntive da rendere gratuitamente agli appalti di
lavori (Tar Veneto - Sezione I - sentenza n. 105/2018)».
La disposizione parla testualmente «di "opere aggiuntive" e di "progetto
esecutivo a base d’asta": elementi questi incompatibili con la struttura di
un appalto di servizi quale quello oggetto di causa».
È, però, proprio la sentenza del Tar Veneto, richiamata da questo giudice,
che introduce il chiarimento sulla possibilità di offrire un punteggio
premiale per prestazioni aggiuntive nei servizi. Il richiamo al comma 14-bis
(aggiunto dal Dlgs n. 56/2017 all'articolo 95 del Dlgs n. 50/2016), si deve
ritenere non appropriato in quanto precipuamente riferito agli affidamenti
di lavori (come risulta dal letterale richiamo a "opere aggiuntive" rispetto
a quanto previsto nel "progetto esecutivo" a base d'asta), ma non anche ai
servizi per i quali difficilmente si può parlare di "opere aggiuntive", o di
un "progetto esecutivo" posto a base d'asta.
È il principio, alla base della norma, che può essere oggetto di estensione
analogica. E tale principio si sostanzia -semplicemente- nel generale
divieto di «evitare che il singolo operatore possa alterare i caratteri
essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis con proposte che
si traducano in una diversa ideazione del contratto in senso alternativo
rispetto a quanto voluto dalla Pa», ma ciò non impedisce che possa essere
attribuito un punteggio aggiuntivo «solo in relazione al miglioramento e
all’implementazione degli stessi servizi oggetto di gara» e non anche per
servizi aggiuntivi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Opere sottoposte ad autorizzazione edilizia
e paesaggistica - Assenza o difformità delle autorizzazioni
prescritte - Valutazione del giudice - Causa di non
punibilità per particolare tenuità del fatto - Pluralità dei
comportamenti - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Principio di
correlazione tra accusa e sentenza - Rapporto di continenza
- Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 - Art. 44, D.P.R. n.
380/2001 - Artt. 131-bis, 133 cod. pen..
Ai fini dell'applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e
paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data
da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive-
costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo
rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la
destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico
urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più
disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva
con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo
abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il
rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi
dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione
dell'intervento.
Sicché, ai fini dell'applicabilità della causa di esclusione
della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista
dall'art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità
dell'offesa dev'essere effettuato con riferimento ai criteri
di cui all'art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è
necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione
previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli
ritenuti rilevanti
(Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone).
Inoltre, il principio di correlazione tra
accusa e sentenza non è violato quando tra il fatto
contestato e quello ritenuto dal giudice sussiste un
rapporto di continenza, con la conseguenza che non è nulla
la pronuncia con cui l'imputato, che sia stato tratto a
giudizio per rispondere del reato di esecuzione dei lavori
in assenza del permesso di costruire e di autorizzazione
paesaggistica, sia stato invece condannato per la totale
difformità delle opere eseguite rispetto ai titoli
abilitativi già rilasciati (in specie era stato rigettato il
ricorso sul presupposto che le difformità edilizie erano
state precisamente individuate e contestate nel capo di
imputazione) (Sez.
3, n. 15820 del 25/11/2014, dep. 2015, Picariello) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2019 n. 27523 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Direttore dei lavori - Onere di vigilare - Assenza dal
cantiere - Responsabilità - Art. 29 D.P.R. n. 380/2001.
L'assenza dal cantiere non esclude la
penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore
dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla
regolare esecuzione delle opere edilizie ed il dovere di
contestare le irregolarità riscontrate, se del caso
rinunziando all'incarico
(Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Crescenzi; Sez. 3, n. 34602
del 17/06/2010, Ponzio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2019 n. 27523 - link a www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Prevenzione degli infortuni sul lavoro - Impresa strutturata
come persona giuridica - Destinatario delle normativa
antinfortunistica - Responsabilità - Individuazione - Legale
rappresentante - Onere della prova - Giurisprudenza.
In materia di prevenzione degli
infortuni sul lavoro, in una impresa strutturata come
persona giuridica, il destinatario delle normativa
antinfortunistica è il suo legale rappresentante, essendo la
persona fisica per mezzo della quale l'ente collettivo
agisce nel campo delle relazioni intersoggettive e sulla
quale ricade l'onere di dimostrare che dalla sua qualifica
non discende anche quella di datore di lavoro
(Sez. 3, n. 2580 del 21/11/2018, dep. 2019, Slabu; quanto al
soggetto attivo del reato di omesso versamento delle
ritenute, cfr. identicamente Sez. 3, n. 2741 del 10/10/2017,
dep. 2018, Turina) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2019 n. 27523 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sebbene
in giurisprudenza possano rinvenirsi affermazioni, più o meno incidentali,
sulla natura sanzionatoria dell’ordine di demolizione, è del pari vero che si è affermato che
“l'ordine di demolizione -avendo natura ripristinatoria- prescinde dalla
valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore, applicandosi anche a
carico di chi non abbia commesso la violazione”.
Pertanto, si deve dare continuità
all’orientamento già espresso dal primo giudice e pacifico in materia,
secondo il quale il responsabile dell’abuso edilizio è sempre tenuto a
risponderne, a nulla valendo la circostanza dell’avvenuta alienazione
dell’immobile in cui il suddetto abuso è stato realizzato ai fini della
configurazione di questo tipo di responsabilità.
Infatti, nel caso di
specie, non è la passata titolarità del diritto di proprietà sul bene a
venire in rilievo, ma la circostanza che l’appellante sia l’esecutrice e la
committente delle opere abusive.
Va quindi ribadita la legittimità dell’operato del Comune
che, all’interno dell’ordinanza impugnata e di cui si controverte, ha
indicato la precedente proprietaria e ricorrente quale soggetto responsabile
dell’abuso e, per questo motivo, obbligato a rimuoverlo.
---------------
Il fine perseguito dalla norma -il ripristino dello stato dei luoghi e la
modifica degli immobili per renderli conformi agli strumenti urbanistici– è
raggiunto tramite gli interventi imposti dall’autorità amministrativa -la
demolizione o la rimozione delle opere abusive– ma senza che questo implichi
che l’onere spettante ai soggetti obbligati si limiti unicamente ad una
attività reale.
Va infatti evidenziato come le demolizioni implichino in sé lo svolgimento
di una pluralità di atti giuridicamente rilevanti, che vanno dalla
stipulazione dei negozi di diritto privato con i soggetti tecnici incaricati
delle operazioni, all’approntamento delle provviste economiche, alla
eventuale richiesta di interventi da parte di altre autorità pubbliche
(quale, ad esempio, il pubblico ministero in caso di immobili sottoposti a
sequestro, ecc.).
Non tutte queste operazioni devono essere ricondotte
all’azione esclusiva della proprietà del manufatto da demolire, ben potendo
il soggetto non più proprietario concorrere in uno degli altri modi sopra esemplificativamente indicati.
Pertanto, l’esistenza di obblighi solidaristici -che la giurisprudenza ha
riconosciuto tramite la possibilità dell’azione di regresso- ricadenti in capo al
soggetto a cui si ascrive la realizzazione dell’abuso edilizio nei confronti
di altro soggetto subentrato nella titolarità dell’immobile su cui gravano
tali abusi impongono, da un lato, una partecipazione attiva di tutti gli
obbligati al conseguimento del risultato giuridicamente utile ed
evidenziano, dall’altro, l’esistenza di possibilità concrete di concorso
anche da parte del soggetto non proprietario.
---------------
2.1. La doglianza non ha pregio.
Va in primo luogo rimarcata la perplessità che pone l’introduzione di un
elemento di discrimine tra l’attività conformativa e quella ripristinatoria
dell’amministrazione, entrambe in tema di demolizione dei manufatti edilizi
abusivi, trattandosi invece di due entità che, quand’anche ritenute
concettualmente diverse, vengono invece in rilievo giuridicamente in un
unico provvedimento, ossia l’ordine di demolizione, e senza alcuna diversità
disciplinare (e, in verità, nelle norme di legge dove si trovano indicati le
diverse nozioni –ad esempio, nell’art. 134 della l.r. Toscana n. 1 del 2005– il ripristino dello stato dei luoghi e la modifica degli immobili per
renderli conformi agli strumenti urbanistici appaiono gli obiettivi a cui
mirano, teleologicamente, la demolizione o la rimozione delle opere abusive,
dando evidenza di un mero rapporto di strumentalità).
Il che evidenzia
l’inutilità argomentativa della proposta differenziazione, secondo il
principio che frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora.
La detta inutilità appare ancora più marcata ove si osserva che, quand’anche
questa differenza –giuridica e non concettuale- fosse predicabile, non
porterebbe ad alcuna delle conseguenze ipotizzate dall’appellante.
Infatti, sebbene in giurisprudenza possano rinvenirsi affermazioni, più o
meno incidentali, sulla natura sanzionatoria dell’ordine di demolizione (da
ultimo, Cons. Stato, IV, 22.06.2016, n. 2758; Cons. Stato, VI, 06.09.2017, n. 4243), è del pari vero che, proprio in relazione alla
ricostruzione propugnata dalla difesa appellante, si è affermato che
“l'ordine di demolizione -avendo natura ripristinatoria- prescinde dalla
valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore, applicandosi anche a
carico di chi non abbia commesso la violazione” (da ultimo, Cons. Stato, VI,
07.11.2018, n. 6285; Cons. Stato, VI, 01.03.2018, n. 1263).
Pertanto, anche a voler accedere alla ricostruzione operata dalla difesa
appellante, il risultato non cambierebbe, dovendosi dare continuità
all’orientamento già espresso dal primo giudice e pacifico in materia,
secondo il quale il responsabile dell’abuso edilizio è sempre tenuto a
risponderne, a nulla valendo la circostanza dell’avvenuta alienazione
dell’immobile in cui il suddetto abuso è stato realizzato ai fini della
configurazione di questo tipo di responsabilità.
Infatti, nel caso di
specie, non è la passata titolarità del diritto di proprietà sul bene a
venire in rilievo, ma la circostanza che l’appellante sia l’esecutrice e la
committente delle opere abusive.
Va quindi ribadita la legittimità dell’operato del Comune di Lastra a Signa,
che, all’interno dell’ordinanza impugnata e di cui si controverte, ha
indicato la precedente proprietaria e ricorrente quale soggetto responsabile
dell’abuso e, per questo motivo, obbligato a rimuoverlo.
2.2. Anche la dedotta questione di costituzionalità deve essere dichiarata
manifestamente infondata.
Occorre evidenziare come, nel rapporto teleologico sopra evidenziato, il
fine perseguito dalla norma -il ripristino dello stato dei luoghi e la
modifica degli immobili per renderli conformi agli strumenti urbanistici– è
raggiunto tramite gli interventi imposti dall’autorità amministrativa -la
demolizione o la rimozione delle opere abusive– ma senza che questo
implichi che l’onere spettante ai soggetti obbligati si limiti unicamente ad
una attività reale.
Va infatti evidenziato come le demolizioni implichino in sé lo svolgimento
di una pluralità di atti giuridicamente rilevanti, che vanno dalla
stipulazione dei negozi di diritto privato con i soggetti tecnici incaricati
delle operazioni, all’approntamento delle provviste economiche, alla
eventuale richiesta di interventi da parte di altre autorità pubbliche
(quale, ad esempio, il pubblico ministero in caso di immobili sottoposti a
sequestro, ecc.). Non tutte queste operazioni devono essere ricondotte
all’azione esclusiva della proprietà del manufatto da demolire, ben potendo
il soggetto non più proprietario concorrere in uno degli altri modi sopra
esemplificativamente indicati.
Pertanto, l’esistenza di obblighi solidaristici -che la giurisprudenza ha
riconosciuto tramite la possibilità dell’azione di regresso, su cui da
ultimo, Cons, Stato, IV, 06.04.2016, n. 1378- ricadenti in capo al
soggetto a cui si ascrive la realizzazione dell’abuso edilizio nei confronti
di altro soggetto subentrato nella titolarità dell’immobile su cui gravano
tali abusi impongono, da un lato, una partecipazione attiva di tutti gli
obbligati al conseguimento del risultato giuridicamente utile ed
evidenziano, dall’altro, l’esistenza di possibilità concrete di concorso
anche da parte del soggetto non proprietario.
Sempre al fine di giustificare la manifesta infondatezza, va ricordato che
la Corte Costituzionale, con la sentenza 15.07.1991, n. 345,
nell’escludere che l'acquisizione gratuita al comune dell'opera, dell'area
di sedime e di quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a
quella abusiva possa operare in danno del proprietario estraneo all'abuso,
ha parimenti evidenziato come esista una scissione tra la possibilità di
eseguire la demolizione, anche d’ufficio, e la previa acquisizione di
proprietà dell’area.
E tali argomentazioni, che incidono sui poteri autoritativi dell’amministrazione, ben possono essere riportate nella
fattispecie in esame, sottolineando come siano molteplici le opportunità di
azione che anche la parte non più proprietaria possa porre in essere per
eliminare l’abuso da lei stessa commesso.
La questione di legittimità costituzionale proposta è quindi manifestamente
infondata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.06.2019 n. 4251 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Obbligo per il Comune di aderire alla convenzione stipulata dal
soggetto aggregatore regionale.
Se il soggetto aggregatore ovvero la centrale di committenza regionale ha
stipulato una convenzione, la pubblica amministrazione non può avviare una
autonoma procedura di gara soprattutto se non esprime una adeguata
motivazione.
Ad affermarlo è il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 19.06.2019 n. 4190.
La vicenda
La ricorrente, affidataria dell'accordo quadro stipulato con il soggetto
aggregatore regionale per la fornitura di «servizi integrati di vigilanza
armata, portierato e altri servizi» e del «servizio di vigilanza
passiva (con portierato e accoglienza)», ha impugnato gli atti relativi
al procedimento di gara «autonomo» avviato dal Comune.
Secondo il ricorrente, le motivazioni addotte dalla stazione appaltante
dovevano ritenersi inadeguate e generiche, in particolare il riferimento per
giustificare l'appalto autonomo «ai propri specifici bisogni» e per
mantenere la «stabilità occupazionale del personale impiegato negli
appalti» come «da apposito protocollo d'intesa sottoscritto con le
organizzazioni sindacali».
Queste motivazioni, a detta dell'appaltatore, non potevano essere ritenute
sufficienti a fondare la deroga all'obbligo della pubblica amministrazione,
in relazione a un certo tipo di prestazioni (come da Dpcm 24.12.2015, pur
non citato in sentenza) e, nel caso, di specie relativamente all'appalto del
servizio «di presidio e ricevimento del pubblico» (ritenuto
riconducibile all'oggetto della convenzione).
La sentenza
Palazzo Spada ha accolto le censure in quanto, in presenza di una
convenzione stipulata con accordo quadro bandita dalla centrale unica
regionale per servizi sostanzialmente analoghi a quelli di specie, non è
emersa dagli atti del procedimento «una motivazione sufficientemente
idonea a costituire il presupposto dell'esercizio del potere di indizione di
una gara autonoma, ai sensi dell'articolo 1, comma 510, della legge 208/2015».
Nelle determinazioni del procedimento, non sono state evidenziate «le
ragioni per le quali il servizio oggetto di convenzione non sarebbe»
risultato idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali.
È parsa inadeguata e generica, in particolare, la stessa motivazione adotta
circa la necessità di applicare la clausola sociale per l'assorbimento, con
mantenimento delle stesse condizioni economiche, del personale già operante
nel servizio.
In realtà, come si legge in sentenza, l'applicazione della convenzione, «e
in particolare l'articolo 12 della stessa», avrebbe comunque consentito
l'assorbimento del personale precedentemente impegnato nel servizio, «senza
che vi fosse la necessità di ricorrere a nuove assunzioni».
La decisione di non aderire alla convenzione non è quindi apparsa supportata
da adeguati richiami idonei a superare i vincoli imposti dall'articolo 9,
comma 3, del decreto-legge 66/2014, convertito con modificazioni dalla legge
89/2014, e del successivo Dpcm del 24.12.2015.
Disposizioni che impongono l'obbligo per la pubblica amministrazione (e in
certi casi anche per i Comuni), per alcuni tipi di prestazioni, di aderire
alle convenzioni stipulate dal soggetto aggregatore regionale. A esempio,
nel caso dei servizi di guardiania e vigilanza armata l'obbligo di adesione,
si ripete, anche per i Comuni, insiste nel caso di appalto per importi pari
o superiori, come nel caso di specie, ai 40mila euro (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 28.06.2019). |
URBANISTICA: Sebbene
in molte pronunce si affermi che i termini di validità del piano attuativo
decorrono dalla stipula della convenzione, costituendo essa condizione di
efficacia del piano attuativo, è stato, altresì, precisato, da altra
avveduta giurisprudenza che tale principio potrebbe trovare applicazione
soltanto nei casi in cui la convenzione sia stata stipulata entro un termine
ragionevole dall’approvazione del piano e non nelle ipotesi, quale quella in
esame, in cui la stipula della convenzione sia stata per lungo tempo
ritardata.
In tal caso, infatti, si determinerebbe un differimento sine die della
scadenza del termine di validità del piano attuativo che, oltre a
confliggere con il chiaro disposto dell’art. 16, quinto comma, della L.
17.08.1942 n. 1150 -che fissa in un "tempo, non maggiore di anni dieci”
quello entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato- si
pone in contrasto con la ratio della previsione di un termine finale alla
validità dei piani attuativi, ovvero garantire l'adeguatezza e rispondenza
delle previsioni in esso contenute agli interessi pubblici e privati
coinvolti nelle scelte urbanistiche.
Tali conclusioni ricevono ulteriore conferma nei principi giurisprudenziali
secondo cui "il termine massimo di dieci anni di validità del piano di
lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure
sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso
procedimento di formazione del piano attuativo. Ciò in quanto la convenzione
è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune
con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non
può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante
strumento di pianificazione secondaria".
Diversamente opinando, si verificherebbe un’inammissibile inversione logica,
condizionandosi l’efficacia del piano attuativo a quella della convenzione
ad esso accessoria, mentre è la scelta pianificatoria a poter incidere sui
rapporti instaurati con la convenzione.
---------------
Sebbene in molte pronunce si affermi che i termini di validità del piano
attuativo decorrono dalla stipula della convenzione, costituendo essa
condizione di efficacia del piano attuativo, è stato, altresì, precisato, da
altra avveduta giurisprudenza (cfr. ex multis TAR Sardegna, sez. II,
22/01/2018, n. 36, TAR Perugia, (Umbria) sez. I, 28/11/2016, n. 745,
Consiglio di Stato sez. VI, 05/12/2013, n. 5807) che tale principio potrebbe
trovare applicazione soltanto nei casi in cui la convenzione sia stata
stipulata entro un termine ragionevole dall’approvazione del piano e non
nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui la stipula della convenzione
sia stata per lungo tempo ritardata.
In tal caso, infatti, si determinerebbe un differimento sine die
della scadenza del termine di validità del piano attuativo che, oltre a
confliggere con il chiaro disposto dell’art. 16, quinto comma, della L.
17.08.1942 n. 1150 -che fissa in un "tempo, non maggiore di anni dieci”
quello entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato- si
pone in contrasto con la ratio della previsione di un termine finale alla
validità dei piani attuativi, ovvero garantire l'adeguatezza e rispondenza
delle previsioni in esso contenute agli interessi pubblici e privati
coinvolti nelle scelte urbanistiche.
Tali conclusioni ricevono ulteriore conferma nei principi giurisprudenziali
secondo cui "il termine massimo di dieci anni di validità del piano di
lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure
sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso
procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV,
11.03.2003 n. 1315). Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto
accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti
tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli
adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla
validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria" (Consiglio di Stato n. 1574/2013).
Diversamente opinando, si verificherebbe un’inammissibile inversione logica,
condizionandosi l’efficacia del piano attuativo a quella della convenzione
ad esso accessoria, mentre è la scelta pianificatoria a poter incidere sui
rapporti instaurati con la convenzione (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.06.2019 n. 743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’art.
30, c. 3-bis, DL 69/2013 si riferisce testualmente ai termini di validità
delle convenzioni urbanistiche e non a quelli dei piani attuativi (“3-bis.
Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell'ambito
delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla
legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre
anni.”.).
La norma ha natura eccezionale ed è di stretta interpretazione (“la
previsione di precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e
di termini per l'avvio e il completamento dei lavori risponde a rilevanti
esigenze di interesse pubblico, ossia alla necessità per la collettività di
poter contare sulla realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e
definito, con la conseguenza che un differimento ex lege di tale termine
presenta un evidente carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema
e l'interpretazione restrittiva di norme quali, ad esempio, il comma 3-bis
dell'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 è imposta innanzitutto dal principio
generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale con
riferimento a tutte le norme eccezionali”.
Non può, quindi, esserne estesa l’applicazione anche al termine previsto
dall’art. 17 L. 1150/1942.
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Né ha inciso sul termine di efficacia del piano la proroga ex lege
disposta dall’art. 30, c. 3-bis, DL 69/2013.
La disposizione, infatti, si riferisce testualmente ai termini di validità
delle convenzioni urbanistiche e non a quelli dei piani attuativi (“3-bis.
Il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori nell'ambito
delle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla
legislazione regionale, stipulati sino al 31.12.2012, sono prorogati di tre
anni.”.).
La norma ha natura eccezionale ed è di stretta interpretazione (“la
previsione di precisi termini di validità delle convenzioni urbanistiche e
di termini per l'avvio e il completamento dei lavori risponde a rilevanti
esigenze di interesse pubblico, ossia alla necessità per la collettività di
poter contare sulla realizzazione delle opere entro un tempo ragionevole e
definito, con la conseguenza che un differimento ex lege di tale termine
presenta un evidente carattere eccezionale e derogatorio rispetto al sistema
e l'interpretazione restrittiva di norme quali, ad esempio, il comma 3-bis
dell'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 è imposta innanzitutto dal principio
generale sancito dall'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale con
riferimento a tutte le norme eccezionali” TAR Campania Napoli Sez. II,
Sent., (ud. 23/01/2018) 14.02.2018, n. 1010.
Non può, quindi, esserne estesa l’applicazione anche al termine previsto
dall’art. 17 L. 1150/1942 (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 19.06.2019 n. 743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Illeciti
professionali, decide l’appaltante.
Esclusione anche in pendenza di ricorsi.
La stazione appaltante può comunque escludere da una gara un'impresa che si
sia resa colpevole di gravi illeciti professionali, anche in pendenza di un
ricorso che contesti i fatti oggetto dell'illecito professionale.
È quanto ha affermato la Corte di giustizia europea nella
sentenza 19.06.2019 - causa C-41/18 che, con riguardo ad un
appalto per l'affidamento di un servizio (refezione scolastica), ha ritenuto
la normativa italiana in contrasto con la direttiva 2014/24.
L'articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice (nella versione precedente lo
Sblocca cantieri) autorizza a escludere dalla gara un operatore economico
qualora, in particolare, si dimostri, con mezzi adeguati, in primo luogo,
che lo stesso operatore si è reso colpevole di gravi illeciti professionali
tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità; in secondo luogo,
che i medesimi gravi illeciti professionali, che possono risultare da
significative carenze verificatesi nell'esecuzione di un precedente appalto
pubblico, hanno dato luogo alla risoluzione del contratto concluso dal
medesimo con l'amministrazione aggiudicatrice, a una condanna al
risarcimento del danno o ad altre sanzioni e, in terzo luogo, che tale
risoluzione non è stata contestata in giudizio o è stata confermata
all'esito di un giudizio.
Nella direttiva appalti (2014/24) l'articolo 57, comma 4, lettera c) e g),
prevede invece la facoltatività dell'esclusione che verrebbe, diversamente,
minata dalla semplice proposizione da parte di un candidato o di un
offerente di un ricorso diretto contro la risoluzione di un precedente
contratto di appalto pubblico di cui era firmatario, quand'anche il suo
comportamento fosse risultato tanto carente da giustificare tale
risoluzione.
Da qui, la decisione della Corte di ritenere contraria al diritto
eurounitario una normativa come quella italiana in forza della quale la
contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di
appalto pubblico assunta da un'amministrazione aggiudicatrice per via di
significative carenze verificatesi nella sua esecuzione impedisce
all'amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d'appalto di
effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli
offerenti, sull'affidabilità dell'operatore cui la suddetta risoluzione si
riferisce (articolo ItaliaOggi del 28.06.2019). |
APPALTI: Illeciti
negli appalti, più potere alla PA. L’esclusione dalle gare per macchie nel
curriculum è discrezionale. Bianchi (Ance): «Troppe incertezze, servono
altre correzioni al Codice».
L’esclusione dalle gare, operata sulla base del curriculum delle imprese, va
configurata come un potere discrezionale della pubblica amministrazione. E
non può essere agganciata in nessun caso ad automatismi, come la pronuncia
di una sentenza di condanna.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea ieri (sentenza
19.06.2019 - causa C-41/18) ha esaminato uno dei passaggi più
contestati della storia dell’ultimo Codice appalti (Dlgs 50/2016):
l’articolo 80, comma 5, lettera c). Un passaggio, peraltro, analizzato da
una larghissima giurisprudenza italiana, sia dei Tar che del Consiglio di
Stato, e integralmente riscritto di recente dal decreto semplificazioni (Dl
135/2018). I giudici lussemburghesi, va sottolineato, hanno esaminato la
versione precedente del testo, dichiarandone il contrasto con i principi
comunitari. Ma sono giunti a conclusioni che, comunque, sono destinate ad
avere un impatto fortissimo sull’applicazione futura di queste regole.
La norma sui gravi illeciti professionali è di derivazione comunitaria:
nasce da una direttiva (2014/24/Ue, articolo 57, paragrafo 4) che punta a
dare alle stazioni appaltanti la possibilità di escludere da una gara
operatori economici che, nella loro storia professionale, si siano
dimostrati inaffidabili in diversi modi. La vecchia versione dell’articolo
80, secondo il giudice del rinvio (il Tar Campania), avrebbe azzerato il
potere discrezionale della Pa, agganciando in modo automatico l’esclusione a
situazioni come la risoluzione di un contratto contestata in giudizio.
Anche se l’ultima versione della norma è stata in parte corretta, la
sentenza di ieri raggiunge conclusioni comunque molto rilevanti: soprattutto
le linee guida n. 6 dell’Anac hanno, infatti, già provato a tipizzare le
situazioni che possono portare all’esclusione delle imprese (anche se l’Anac
-va sottolineato anche questo- ha sempre parlato di potere discrezionale
pieno della Pa).
Ora la Corte di Giustizia Ue traccia una linea netta e afferma chiaramente
un principio, opposto a quello della tipizzazione: la possibilità di
escludere un’impresa per gravi illeciti è un potere discrezionale della Pa e
non può essere paralizzato dalle prerogative di soggetti terzi. Ad esempio,
la semplice decisione di contestare in giudizio a un’impresa carenze di
esecuzione di un appalto non può portare obbligatoriamente all’esclusione
automatica. È la Pa che indice la sua gara ad essere completamente padrona
della selezione dei suoi offerenti, senza vincoli esterni.
«Questa decisione -spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente Ance con
delega alle opere pubbliche- conferma, ancora una volta, che questa norma
è nata male, per effetto delle richieste che ci sono arrivate dall’Europa, e
ha creato una marea di problemi applicativi». L’interpretazione della
Corte Ue, per Bianchi, procede su questa china: «Affermare la piena
discrezionalità è negativo per le imprese, perché non dà certezze, ma anche
per le pubbliche amministrazioni, perché nessuna Pa si prenderà adesso la
responsabilità di avviare un’esclusione, esponendosi a un ricorso e al
blocco immediato dell’appalto». Il meccanismo potrebbe essere
sostenibile per gli uffici legali delle Pa più strutturate ma, di certo, non
per i piccoli Comuni.
L’articolo 80, quindi, nonostante le indicazioni che arrivano dall’Europa,
dovrebbe essere oggetto di altre correzioni. Per l’Ance, «serve una
tipizzazione, anche non esaustiva, dei casi che possono portare
all’esclusione. E bisogna circoscrivere le situazioni che possono essere
considerate rilevanti, almeno al livello delle sentenze di primo grado».
Non è possibile, cioè, escludere un operatore che sia soltanto indagato. La
riforma continua sui gravi illeciti professionali non sembra, insomma,
destinata ad arrestarsi dopo questa pronuncia (articolo Il Sole 24 Ore
del 20.06.2019).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
L’articolo 57, paragrafo 4, lettere c) e g), della
direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio
2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve
essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza
della quale la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un
contratto di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice
per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione,
impedisce all’amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara
d’appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della
selezione degli offerenti, sull’affidabilità dell’operatore cui la suddetta
risoluzione si riferisce. |
APPALTI: Per
la CGUE la contestazione in giudizio della risoluzione per illecito
professionale non preclude alla p.a. di valutare l’affidabilità
dell’operatore.
La Corte di giustizia UE ha affermato la non conformità alle direttive
europee del Codice dei contratti pubblici nella parte in cui prevede che la
contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di
appalto pubblico, assunta da un'amministrazione aggiudicatrice per via di
significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisce
all'amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d'appalto di
effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli
offerenti, sull'affidabilità dell'operatore cui la suddetta risoluzione si
riferisce.
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Contratti pubblici – Gara – Grave illecito professionale – Risoluzione
anticipata del contratto di appalto – Esclusione dell’operatore solo in caso
di non contestazione o conferma in sede giudiziale della risoluzione –
Principio di proporzionalità – Violazione.
L’articolo 57, paragrafo 4, lettere c) e g), della
direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014,
sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere
interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza della
quale la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto
di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice per via di
significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisce
all’amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d’appalto di
effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli
offerenti, sull’affidabilità dell’operatore cui la suddetta risoluzione si
riferisce (1).
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(1) I. - Il rinvio pregiudiziale del
Tar per la Campania, sez. IV, ordinanza 13.12.2017 n. 5893
(oggetto della
News US in data 19.12.2017, al quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti) è stato occasionato da una controversia in materia di
affidamento di un servizio per la refezione scolastica in cui una impresa
concorrente ha contestato, ai sensi dell’art. 120, commi 2-bis e 6-bis,
c.p.a., la mancata esclusione di altra concorrente, già destinataria, in una
precedente gara, di un provvedimento di risoluzione contrattuale per grave
inadempimento (tossinfezione alimentare), successivamente impugnato dinanzi
al competente giudice civile.
Il Tar aveva dubitato della compatibilità della disciplina interna contenuta
nell’art. 80, comma 5, lettera c), del d.lgs. n. 50 del 2016 con i principi
comunitari di tutela del legittimo affidamento, certezza del diritto, parità
di trattamento, non discriminazione, proporzionalità ed effettività, di cui
alla direttiva n. 2014/24/UE, nonché con la disposizione di cui all’art. 57,
comma 4, lettere c) e g), di detta direttiva, nella parte in cui tale
disposizione consente l’ammissione automatica, in assenza di qualsiasi
valutazione di affidabilità e senza che sia stata dimostrata l’adozione di
misure di self cleaning, di un’impresa che abbia precedentemente
commesso illeciti professionali e che abbia contestato in giudizio la
precedente risoluzione del contratto intervenuta per via di tali illeciti.
Il Tar aveva evidenziato che:
a) i principi di proporzionalità e di effettività dovrebbero
proibire qualsiasi automatismo in caso di impossibilità di escludere un
operatore economico;
b) l’art. 80, comma 5, del Codice dei contratti pubblici violerebbe
i succitati principi e, quindi, la direttiva 2014/24/UE poiché impedisce
all’amministrazione aggiudicatrice di effettuare una valutazione motivata
sulla gravità dell’illecito professionale all’origine della risoluzione di
un precedente contratto per il motivo che la risoluzione del medesimo è
contestata dinanzi a un giudice civile;
c) l’art. 57, paragrafo 4, lettera g), della direttiva in questione
non richiederebbe in alcun modo una statuizione definitiva della
responsabilità dell’aggiudicatario.
II. – Con la sentenza in rassegna la Corte di giustizia UE, dopo aver
analizzato la normativa di riferimento, ha affermato che:
d) le cause di esclusione facoltative devono
essere valutate secondo il principio di proporzionalità (art. 57, par. 4,
della direttiva 2014/24/UE) il quale non consente al legislatore nazionale
di considerare automaticamente irrilevanti, ai fini dell’ammissione ad una
nuova gara, gli illeciti professionali che hanno dato luogo ad una
precedente risoluzione contrattuale avverso la quale sia stato proposto
ricorso e lo stesso sia ancora pendente;
e) in ragione del tenore dei considerando 101 e
102 della direttiva n. 2014/24/UE, nell’applicare motivi di esclusione
facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero prestare
particolare attenzione al principio di proporzionalità;
f) in base all’art. 57, par. 4, della direttiva
n. 2014/24/UE, che è sostanzialmente sovrapponibile all’art. 45, paragrafo
2, della direttiva 2004/18/CE:
f1) il compito di valutare
se un operatore economico debba essere escluso da una procedura di
aggiudicazione di appalto appartiene alle amministrazioni aggiudicatrici e
non a un giudice nazionale;
f2) la facoltà di cui
dispone qualsiasi amministrazione aggiudicatrice di escludere un offerente
da una procedura di aggiudicazione di appalto è destinata in modo
particolare a consentirle di valutare l’integrità e l’affidabilità di
ciascuno degli offerenti;
f3) i due motivi di
esclusione previsti dall’art. 57, paragrafo 4, lettere c) e g), si basano su
un elemento essenziale del rapporto tra l’aggiudicatario dell’appalto e
l’amministrazione aggiudicatrice, vale a dire l’affidabilità del primo,
sulla quale si fonda la fiducia che vi ripone la seconda (“il
considerando 101, primo comma, della direttiva in parola prevede che le
amministrazioni aggiudicatrici possono escludere gli «operatori economici
che si sono dimostrati inaffidabili», mentre il suo secondo comma prende in
considerazione, nell’esecuzione degli appalti pubblici precedenti,
«comportamenti scorretti che danno adito a seri dubbi sull’affidabilità
dell’operatore economico”, cfr. punto 30);
f4) le amministrazioni
aggiudicatrici devono poter escludere un operatore economico in qualunque
momento della procedura e non solo dopo che un organo giurisdizionale abbia
pronunciato una sentenza che accerti l’esistenza del grave illecito
professionale;
f5) se un’amministrazione
aggiudicatrice dovesse essere automaticamente vincolata da una valutazione
effettuata da un terzo, le sarebbe probabilmente difficile accordare
un’attenzione particolare al principio di proporzionalità al momento
dell’applicazione dei motivi facoltativi di esclusione;
g) in relazione al perimetro della
discrezionalità del legislatore interno, in un assetto normativo in cui gli
Stati membri sono chiamati a specificare le condizioni di applicazione della
disciplina nel rispetto del diritto dell’Unione:
g1) il potere discrezionale
degli Stati membri non è assoluto e, “una volta che uno Stato membro
decide di recepire uno dei motivi facoltativi di esclusione previsti dalla
direttiva 2014/24, deve rispettarne gli elementi essenziali, quali ivi
previsti. Precisando che gli Stati membri specificano «le condizioni di
applicazione del presente articolo» «nel rispetto del diritto dell’Unione»,
l’articolo 57, paragrafo 7, della direttiva 2014/24 osta a che gli Stati
membri snaturino i motivi facoltativi di esclusione stabiliti in tale
disposizione o ignorino gli obiettivi o i principi ai quali è ispirato
ciascuno di detti motivi”;
g2) “quando è stata
chiamata a interpretare i motivi facoltativi di esclusione, come quelli
previsti all’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d) o g), della
direttiva 2004/18, le uniche disposizioni che non comportavano alcun rinvio
al diritto nazionale, la Corte si è basata sull’articolo 45, paragrafo 2,
secondo comma, della medesima direttiva, in forza del quale gli Stati membri
precisano, nel rispetto del diritto dell’Unione, le condizioni di
applicazione del suddetto paragrafo 2, per circoscrivere più rigorosamente
il potere discrezionale di tali Stati e definire, a sua volta, la portata
della causa facoltativa di esclusione controversa (v., in particolare,
sentenza del 13.12.2012, Forposta, C-465/11, in www.curia.europa.eu, punti
da 25 a 31)”;
h) dal testo dell’art. 57, paragrafo 4, della
direttiva n. 2014/24/UE risulta che il legislatore dell’Unione ha inteso
affidare all’amministrazione aggiudicatrice, e a essa soltanto, nella fase
della selezione degli offerenti, il compito di valutare se un candidato o un
offerente debba essere escluso da una procedura di aggiudicazione di
appalto;
i) l’art. 80, comma 5, lettera c), del Codice dei
contratti pubblici non è conforme all’ordinamento europeo per la parte in
cui limita la possibilità per l’amministrazione di escludere da una
procedura d’appalto un operatore economico qualora, in particolare, essa
dimostri, con mezzi adeguati che:
i1) in primo luogo, lo
stesso operatore si è reso colpevole di gravi illeciti professionali tali da
rendere dubbia la sua integrità o affidabilità;
i2) in secondo luogo, i
medesimi gravi illeciti professionali, che possono risultare da
significative carenze verificatesi nell’esecuzione di un precedente appalto
pubblico, hanno dato luogo alla risoluzione del contratto concluso dal
medesimo con l’amministrazione aggiudicatrice, a una condanna al
risarcimento del danno o ad altre sanzioni;
i3) in terzo luogo, tale
risoluzione non è stata contestata in giudizio o è stata confermata
all’esito di un giudizio;
j) tale disposizione non è idonea a preservare
l’effetto utile della previsione dell’art. 57, paragrafo 4, lettera c) o g),
della direttiva n. 2014/24/UE poiché il potere discrezionale
dell’amministrazione è paralizzato dalla proposizione di un ricorso contro
la risoluzione di un precedente contratto d’appalto di cui l’offerente era
firmatario “quand’anche il suo comportamento sia risultato tanto carente
da giustificare tale risoluzione” (punto 38);
k) l’art. 80, comma 5, lettera c), del Codice dei
contratti pubblici non incoraggia un aggiudicatario nei cui confronti è
stata emanata una decisione di risoluzione di un precedente contratto di
appalto pubblico ad adottare misure riparatorie (self cleaning), le
quali consentirebbero all’operatore economico di prendere provvedimenti per
dimostrare di essere affidabile e meritevole di fiducia nonostante ricorra
un motivo di esclusione.
III. – Per completezza si segnala che:
l) nella giurisprudenza nazionale, con specifico
riferimento alla contestazione giudiziale della risoluzione per grave
illecito professionale, si vedano, tra le altre:
l1) nel senso che la
contestazione giudiziale non si traduca in un’automatica ammissione:
Consiglio di Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299 (in Urbanistica e
appalti, 2018, 657, con nota di CONTESSA; in Giur. it., 2018, 1681, con nota
di FOÀ, RICCIARDO CALDERARO; in Foro amm., 2018, 441, in Appalti &
Contratti, 2018, fasc. 3, 78, e in Gazzetta forense, 2018, 335), secondo
cui: “l’esistenza di una contestazione giudiziale della risoluzione non
implica che la fattispecie concreta ricada esclusivamente nell’ipotesi
esemplificativa, con applicazione del relativo regime operativo; difatti, il
“fatto” in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto rilevante ai
fini dell’individuazione di un grave illecito professionale, secondo
l’ipotesi generale”. Invero, “sussistendo una relazione di genus ad
speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso generale, la stazione
appaltante non può avvalersi dell’effetto presuntivo assoluto di gravità
derivante dalla sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso,
l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante giuridico il
comportamento contrattuale indiziato” (in termini Tar per la Campania,
sez. I, 29.05.2019, n. 2885);
l2) nel senso che, laddove
la gara rientri nel campo di applicazione del d.lgs. n. 50 del 2016, viene a
configurarsi un ineludibile obbligo legale di ammissione del concorrente,
qualora la anticipata risoluzione del contratto sia stata contestata in
giudizio si vedano, tra le altre: Tar per la Sicilia, 03.11.2017, n. 2511;
Tar per la Puglia, sez. III, 18.07.2017, n. 828; Cons. Stato, sez. V,
27.04.2017, n. 1955 (in Guida al dir., 2017, fasc. 21, 94, con nota di
PONTE); Tar per la Puglia, sez. I, 30.12.2016, n. 1480; Tar per la
Puglia–Lecce, sez. III, 22.12.2016, n. 1935 (in Foro it., 2017, 1735); Tar
per la Calabria, sez. I, 19.12.2016, n. 2522 (in Foro it., 2017, 1735);
l3) sulla specifica
questione della necessaria definitività della disposta risoluzione del
pregresso rapporto contrattuale per procedere alla esclusione dalla gara:
Cons. Stato, sez. V, 11.12.2017, n. 5818; Cons Stato, sez. V, 25.05.2012, n.
3078; Cons. Stato, sez. V, 21.01.2011, n. 409 (in Riv. amm. appalti, 2011,
227, con nota di PIGNATTI);
m) nella giurisprudenza europea, le pronunce rese
sull’art. 45, comma 2, della direttiva 2004/18 (Corte
di giustizia UE, sez. IV, 14.12.2016, causa C-171/15, Taxi Services BV,
in Foro amm., 2016, 2890, nonché oggetto della
News US, in data 09.01.2017, ai cui approfondimenti si rinvia;
idem, sez. X, 18.12.2014, C-470/13, in Foro amm., 2014, 3034 e in
www.curia.europa.eu, 2014; idem, sez. III, 13.12.2012, C-465/11, in
www.curia.europa.eu, 2012) rifiutano ogni automatismo in materia di cause di
esclusione facoltativa nel caso di grave errore professionale, dovendo la
relativa determinazione ispirarsi a criteri di proporzionalità; ne discende
che analogo principio, contrario ad ogni automatismo, deve valere in ipotesi
di meccanismi che abbiano il contrario effetto di precludere l’esclusione;
n) il tema della compatibilità della disciplina
delle cause di esclusione previste dall’art. 80, comma 5, del decreto
legislativo n. 50 del 2016 ha costituito oggetto di ulteriori rinvii
pregiudiziali:
n1)
Cons. Stato, sez. V, ordinanza 23.08.2018, n. 5033 (oggetto della
News US in data 07.09.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) e
Cons. Stato, sez. V, ordinanza, 03.05.2018, n. 2639 (oggetto
della
News US in data 08.05.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) con
le quali il giudice d’appello ha rimesso nuovamente la analoga questione
della compatibilità, con il diritto dell’Unione europea, della normativa
interna sulle cause di esclusione del concorrente dalla partecipazione a una
procedura di gara, in caso di grave illecito professionale che abbia causato
la risoluzione anticipata di un contratto di appalto, nella parte in cui
richiede che l’operatore possa essere escluso solo se la risoluzione
non sia contestata giudizialmente o sia confermata all’esito di un giudizio;
n2) sotto altro profilo, in
tema di errore professionale quale causa di esclusione della gara, la
Corte di giustizia UE, sez. IX, ordinanza, 04.06.2019, C-425/18, Consorzio
Nazionale Servizi Società Cooperativa (CNS), emessa a seguito di
rinvio pregiudiziale del
Tar per il Piemonte, sez. I, ordinanza 21.06.2018, n. 770
(rispettivamente oggetto della
News US n. 81 in data 16.07.2019 e
News US in data 02.07.2018, ai cui approfondimenti si rinvia) ha
affermato che “l’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettera d), della
direttiva 2004/18/CE […], deve essere interpretato nel senso che esso osta a
una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, che è interpretata nel senso di escludere dall’ambito di
applicazione dell’«errore grave» […] i comportamenti che integrano una
violazione delle norme in materia di concorrenza, accertati e sanzionati
dall’autorità nazionale garante della concorrenza con un provvedimento
confermato da un organo giurisdizionale, e che preclude alle amministrazioni
aggiudicatrici di valutare autonomamente una siffatta violazione per
escludere eventualmente tale operatore economico da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico”;
o) in dottrina, per una accurata ricostruzione
della nuova disciplina dell’esclusione basata sul grave illecito
professionale, delle differenze fra vecchio e nuovo regime europeo e
nazionale, delle linee guida A.N.A.C. e sulla rilevanza del c.d. self
cleaning, si vedano, tra gli altri: R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti
pubblici, Bologna, 2017, 854 ss. (cui si rinvia per ampia trattazione anche
delle modifiche disciplinari rispetto alla pregressa normativa di cui al
d.lgs. n. 163 del 2006), secondo cui la circostanza che il legislatore
italiano abbia scelto di disciplinare l’esclusione per grave illecito
professionale in termini di obbligatorietà (esercitando l’opzione concessa
dalle direttive del 2014 e costruendo tale figura come un genus
all’interno del quale collocare una nutrita serie di fattispecie) è conforme
al diritto europeo ed ai principi espressi dalla menzionata sentenza della
Corte di giustizia UE, sez. IV, 14.12.2016, cit., e fa propendere per il
carattere esemplificativo del catalogo sancito dall’art. 80, comma 5,
lettera c), del nuovo codice dei contratti pubblici; A. AMORE, Le cause di
esclusione di cui all’art. 80 d.lgs. n. 50/2016 tra Linee guida dell’ANAC e
principi di tassatività e legalità, in Urbanistica e appalti, 2017, 6, 763;
M. DIDONNA, Gravi illeciti professionali, morosità del concorrente e
garanzie <difensive> in Urbanistica e appalti, 2018, 4, 538; id.,
Revoca di
precedenti affidamenti e <gravi illeciti professionali> nel d.lgs. n.
50/2016, in www.Italiappalti.it, 19.01.2017; id., Il <grave
errore professionale>, tra attuale incertezza e imminente prospettiva
europea, in Urbanistica e appalti, 2016, 1, 61; F. MASTRAGOSTINO, Motivi di
esclusione e soccorso istruttorio dopo il correttivo al codice dei contratti
pubblici, in Urbanistica e appalti, 2017, 6, 745. Sulle Linee guida ANAC n.
6 adottate, in attuazione dell’art. 80, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016, con
determinazione n. 1293 del 16.11.2016 (su cui si veda il parere del Cons.
Stato, comm. speciale, 03.11.2016, n. 2286/2016) e modificate con
determinazione n. 1008 dell’11.10.2017 (su cui si veda il parere del Cons.
Stato, comm. speciale, 25.09.2017, n. 2042/2017) cfr. L. MAZZEO e L. DE
PAULI, Le linee guida dell’ANAC in tema di gravi illeciti professionali, in
Urbanistica e appalti, 2018, 2, 155. MANGANARO, M. GERMANO’, Nuove
disposizioni normative sulle cause di esclusione da una procedura di appalto
pubblico, in Urbanistica e appalti, 2019, 3, 301;
p) sulla natura esemplificativa delle ipotesi di “grave
errore professionale” indicate dall’art. 80, comma 5, lettera c), d.lgs.
n. 80 del 2016 cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.09.2018, n. 5142; Cons. Stato,
sez. V, 02.03.2018, n. 1299, che ha esaminato la disposizione anche alla
luce dell’art. 57, par. 4, direttiva del 2014/24/UE del 26.02.2014; Cons.
Stato, sez. V, 27.04.2017, n. 1955 (in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 699);
q) la soluzione divisata dalla sentenza in
rassegna era stata anticipata dall'art. 5, comma 1, d.l. 14.12.2018, n. 135,
convertito, con modificazioni, dalla l. 11.02.2019, n. 12, che ha
sostituito, nel corpo dell’art. 80, comma 5 cit., l'originaria lettera c),
con le lettere c), c-bis) e c-ter);
r) l'art. 1, comma 20, lettera o), della
legge n. 55 del 2019 (di conversione del d.l. c.d. “sblocca
cantieri”, oggetto della
News normativa n. 74 del 10.07.2019) ha introdotto nell’art. 80,
comma 5, del decreto legislativo n. 50 del 2016 la lettera c-quater, ai
sensi della quale l’amministrazione appaltante deve disporre l’esclusione
dell’operatore economico che abbia commesso “grave inadempimento nei
confronti di uno o più subappaltatori, riconosciuto o accertato con sentenza
passata in giudicato”.
Si tratta di una causa di esclusione obbligatoria, introdotta autonomamente
dal legislatore nazionale, non essendo prevista dalle direttive europee, e
che può essere ricondotta al più ampio genus del grave illecito
professionale.
Come osserva, puntualmente, R. DE NICTOLIS, Le novità sui contratti pubblici
recati dal d.l. n. 32/2019, in corso di pubblicazione in Urbanista e
Appalti, il d.l. interviene anche sulla materia della durata massima delle
cause ostative di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, sia con
riguardo alle condanne penali, al fine di coordinare la disciplina del
Codice dei contratti pubblici con la legge n. 3 del 2019 in tema di delitti
contro la p.a., sia con riguardo alle violazioni dell’art. 80, quinto comma,
al fine di dare migliore attuazione alle direttive europee, in particolare
con riguardo alla decorrenza della causa ostativa.
Con riguardo agli illeciti penali indica una durata variabile della causa di
esclusione in base alla tipologia di reato e all’entità della condanna, se
la sentenza penale di condanna definitiva non fissa la durata della pena
accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.
Nel caso in cui ricorra una delle ipotesi descritte al quinto comma
dell’art. 80, la durata della causa ostativa è di tre anni, decorrenti dalla
data di adozione del provvedimento amministrativo di esclusione ovvero, in
caso di contestazione in giudizio, dalla data di passaggio in giudicato
della sentenza.
Tuttavia, in caso di contestazione in giudizio, non vi è un totale
congelamento della causa di esclusione, che piuttosto, da obbligatoria,
diviene facoltativa. Si stabilisce infatti che, nel tempo occorrente alla
definizione del giudizio, la stazione appaltante deve tenere conto di tale
fatto ai fini della propria valutazione circa la sussistenza dei presupposti
per escludere dalla partecipazione alla procedura l’operatore economico che
l’abbia commesso (art. 80, comma 10-bis, ultimo periodo). Il d.l., superando
i problemi ermeneutici emersi con la formulazione previgente (ma sul punto
si veda R. DE NICTOLIS, op. ult. cit.), fa decorrere la durata del termine
della causa ostativa dall’accertamento del fatto, che o è contenuto nel
provvedimento amministrativo non contestato, ovvero, in caso di
contestazione, nella condanna giudiziale passata in giudicato.
Per il caso di contestazione giudiziale, come anticipato, si ipotizza una
causa di esclusione facoltativa e non obbligatoria, al fine di evitare che
la lunghezza del giudizio congeli sine die la causa di esclusione (CGUE,
Sez. IV,
sentenza 19.06.2019, C-41/18 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assenteisti,
la Cassazione conferma il danno all’immagine della PA.
Chi si assenta illegittimamente dal posto di lavoro non procura all'ente di
appartenenza soltanto un danno patrimoniale ma lede anche l'immagine
dell'amministrazione.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza 18.06.2019 n. 26956 che si è occupata del caso di un
vigile urbano di un piccolo centro pugliese.
L'agente di polizia municipale -si racconta nella sentenza- «con artifici
e raggiri consistiti nell'attestare la propria presenza in ufficio
ininterrottamente per tutto l'orario di servizio, con timbratura all'inizio
ed alla fine del turno, ometteva di registrare i suoi allontanamenti dal
posto di lavoro, procurandosi un ingiusto profitto, consistito nella
retribuzione e nei suoi accessori, ai danni della pubblica amministrazione».
Richiamando la propria giurisprudenza secondo cui l'assenza reiterata
dell'imputato aveva determinato un danno patrimoniale per l'ente, chiamato a
retribuire una frazione della prestazione giornaliera non effettuata, la
Corte ha osservato che non è necessario che il danno venga provato nel suo
preciso ammontare.
Ma ha sottolineato che «deve ritenersi significativo il danno
all'immagine per il Comune ... derivante dalla reiterata assenza dal posto
di lavoro ... siccome percepita dai cittadini, che hanno avuto anche la
possibilità di notarli sulla pubblica via o, peggio, in pubblici locali in
orari lavorativi» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
19.06.2019).
-----------------
MASSIMA
2.3 Quanto ai rimanenti motivi di ricorso, la giurisprudenza di questa
Corte ha più volte precisato che è inammissibile il ricorso per cassazione
fondato su motivi che si risolvono nella ripetizione di quelli già dedotti
in appello, motivatamente esaminati e disattesi dalla corte di merito,
dovendosi i motivi stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti,
in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la
sentenza oggetto di ricorso (vedi Cass., Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Rv.
243838)
Sono inoltre precluse alla Corte di legittimità sia la rilettura degli
elementi di fatto posti a fondamento delle decisione impugnata che
l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una
maggiore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare al controllo se la
motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di
rappresentare e spiegare l'iter logico seguito (Sez. Un., sent. n. 12 del
31/05/2000, Jakani, Rv. 216260).
Nel caso in esame, l'eccezione relativa alla considerazione che non è stato
quantificato il danno economico non considera quanto motivatamente
considerato dalla Corte territoriale, e cioè che "deve
ritenersi significativo il danno all'immagine per il Comune di Villa
Castelli derivante dalla reiterata assenza dal posto di lavoro dei due
imputati siccome percepita dai cittadini, che hanno avuto anche la
possibilità di notarli sulla pubblica via o, peggio, in pubblici locali in
orari lavorativi" (pag. 4
sentenza impugnata), richiamando la giurisprudenza di questa Corte secondo
cui l'assenza reiterata dell'imputato aveva determinato un
danno patrimoniale per l'ente, chiamato a retribuire una frazione della
prestazione giornaliera non effettuata, e che non è necessario che il danno
venga provato nel suo preciso ammontare;
nessuna contestazione specifica è infine stata sollevata sui servizi di
osservazione svolti dai carabinieri, per cui l'ultimo motivo di ricorso è
inammissibile in quanto generico. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
qualifica di coordinatore dei vigili non è attribuibile nei piccoli Comuni
con meno di sette addetti.
La legge quadro della polizia locale divide l'organizzazione in profili
professionali (articolo 7, comma 3, legge 65/1986) che prevedono la figura
del comandante, degli addetti alle attività di coordinamento e controllo e
degli operatori (vigili). A sua volta il contratto collettivo ha attratto
nella categoria D la figura professionale di addetto al coordinamento e
controllo, anche a fronte della qualifica di diritto attribuitagli dalla
medesima legge quadro (articolo 5, comma 1), di agente di polizia
giudiziaria.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
18.06.2019 n. 16312 ha stabilito che nei piccoli Comuni le
funzioni di addetto al coordinamento e controllo eventualmente, pur
formalmente attribuite dall'ente non possono fare riferimento alle
disposizioni della legge quadro, in quanto applicabili esclusivamente in
caso di elevazione a corpo di polizia municipale per la quale serve
l'appartenenza di almeno sette addetti, con la conseguenza che nessuna
mansione superiore può essere esercitata, e quindi richiesta, dal dipendente
cui l'incarico sia stato conferito.
I motivi di contestazione
In un piccolo Comune di soli due addetti alla polizia locale,
l'amministrazione nominava uno dei due quale coordinatore per affidare
successivamente le funzioni al segretario comunale. Il dipendente
estromesso, dalle funzioni di coordinatore, adiva il giudice del lavoro
reclamando il demansionamento per essere stato privato delle funzioni di
coordinamento. Non avendo avuto esito positivo nei due gradi di giudizio, il
lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo che, nei casi in cui
non sussistano i presupposti per la costituzione del corpo di polizia
municipale e per l'attribuzione delle qualifiche di comandante, coordinatore
e vigile semplice, il Comune può sempre istituire i richiamati profili
professionali, esercitando poteri organizzativi di natura discrezionale, che
incontrano come unico limite il divieto di assegnare il dipendente a
mansioni inferiori rispetto alla qualifica posseduta.
Pertanto, a dire del ricorrente, una volta che l'ente ha previsto figura
apicale del coordinatore dei vigili urbani, non aveva alcun potere
successivamente di privare il dipendente nominato della funzione di
coordinamento ormai attribuitagli. Nel contratto decentrato, inoltre, era
stata riconosciuta un'indennità di specifiche responsabilità, evidentemente
volta a compensare la maggiore professionalità richiesta per l'espletamento
della funzione assegnata.
La revoca dell'incarico, poi, avendo natura sanzionatoria, era da
considerarsi nulla per violazione dello statuto dei lavoratori, avendo
l'ente adottato il provvedimento senza l'obbligatorio esercizio del diritto
di difesa da parte del dipendente. Il dipendente ha quindi chiesto alla
Corte di cassazione la riparazione del danno subito per il demansionamento.
L'analisi della Corte
La Cassazione ha confermato il rigetto del ricorso, sostenendo che il
provvedimento attuato dall'ente ha natura organizzativa e non sanzionatoria.
Infatti, l'articolo 7 della legge 65/1986, che disciplina le condizioni per
l'istituzione del corpo di polizia municipale, si applica esclusivamente
alle realtà territoriali più estese, dovendosi escludere, quanto ai Comuni
di piccole dimensioni, non solo che la norma, ancorata al tassativo
presupposto che il servizio sia svolto da almeno sette addetti, sia
suscettibile di interpretazione estensiva, ma anche che possa farsi ricorso
all'analogia.
In questo contesto, inoltre, il medesimo contratto collettivo nazionale
delle autonomie locali prevede che l'inquadramento nella categoria superiore
possa essere disposta esclusivamente per gli addetti al coordinamento e
controllo che, come disposto dalla legge quadro, non risulta attuabile nei
comuni di piccole dimensioni.
In altri termini, un eventuale potere unilaterale del datore di lavoro
pubblico sarebbe nullo in quanto disposto in violazione della declaratoria
contrattuale, ossia con attribuzioni di benefici migliorativi al dipendente
pubblico non previsti dalla contrattazione (articolo Quotidiano Enti
Locali & Pa del 27.06.2019).
---------------
MASSIMA
12. è infondato il terzo motivo, con il quale il ricorrente si
duole della violazione delle leggi nn. 65/1986 e 142/1990;
12.1. la Corte territoriale ha escluso che l'incarico di coordinamento
implicasse lo svolgimento di mansioni superiori e l'attribuzione di un
profilo professionale diverso da quello dell'agente di polizia municipale ed
ha correttamente ritenuto che l'appellante non potesse invocare l'art. 7
della legge n. 65/1986, nella parte in cui prevede, al comma 3, che
l'ordinamento del Corpo di polizia municipale «si articola di norma in:
a) responsabile del Corpo (comandante); b) addetti al coordinamento e al
controllo; c) operatori (vigili)»;
12.2. il Collegio intende dare continuità all'orientamento, già espresso da
questa Corte, secondo cui l'art. 7 della legge n. 65 del
1986, che disciplina le condizioni per l'istituzione del corpo di polizia
municipale, si applica esclusivamente alle realtà territoriali più estese,
dovendosi escludere, quanto ai comuni di piccole dimensioni, non solo che la
norma, ancorata al tassativo presupposto che il servizio sia svolto da
almeno sette addetti, sia suscettibile di interpretazione estensiva, ma
anche che possa farsi ricorso all'analogia
(Cass. n. 16580/2010);
12.3. infatti, ove risulti inapplicabile per difetto del
requisito numerico la norma speciale (alla quale rinvia l'art. 70, comma 2,
del d.lgs. n. 165/2001), la disciplina dell'organizzazione degli uffici
degli enti locali va tratta dal d.lgs. n. 267/2000 che, nell'abrogare la
legge n. 142/1990, erroneamente invocata dal ricorrente, ha attribuito alla
potestà regolamentare degli enti territoriali l'ordinamento degli uffici e
del personale, precisando, peraltro, che la potestà stessa, in ragione
dell'affermata applicabilità del «d.lgs. 03.02.1993 n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni» nonché delle «altre disposizioni di
legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni»
(art. 88), deve essere esercitata «tenendo conto di quanto demandato alla
contrattazione collettiva nazionale» ( art. 88, comma 2);
12.4. il richiamato rapporto fra le fonti è stato ribadito
dal d.lgs. n. 165/2001 che ha previsto, all'art. 70, comma 3, che «il
rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali è disciplinato dai
contratti collettivi previsti dal presente decreto nonché dal d.lgs.
18.08.2000 n. 267»;
12.5. anche per il personale del comparto autonomie locali,
pertanto, il legislatore ha affidato la materia degli inquadramenti allo
speciale sistema di contrattazione collettiva del settore pubblico
(Cass. S.U. n. 16038/2010), limitando il potere unilaterale
del datore di lavoro pubblico, il quale «ha solo la possibilità di
adattare i profili professionali, indicati a titolo esemplificativo nel
contratto collettivo, alle sue esigenze organizzative, senza modificare la
posizione giuridica ed economica stabilita dalle norme pattizie, in quanto
il rapporto è regolato esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi
sul rapporto di lavoro privato», con la conseguenza che «è nullo
l'atto in deroga anche in melius alle disposizioni del contratto collettivo,
sia quale atto negoziale, per violazione di norma imperativa, sia quale atto
amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi
dell'art. 21-septies della legge 07.08.1990 n. 241, dovendosi escludere che
la RA. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla
contrattazione collettiva» (
Cass. S.U. n. 21744/2009);
12.6. ne discende che il motivo è infondato nella parte in cui sostiene che,
seppure in difetto dei presupposti richiesti dall'art. 7 della legge n.
65/1986, il Comune, nell'esercizio del suo potere regolamentare, poteva
istituire una «figura apicale di coordinatore dei vigili urbani»,
atteso che il potere organizzativo trova limite, quanto all'organizzazione
ed alla gestione del personale, nella classificazione operata dalle parti
collettive, alla quale il ricorso non fa cenno, tanto che si ignora persino
in quale area il La. fosse inquadrato e quale posizione economica lo stesso
avesse acquisito;
12.5. si deve poi aggiungere che il ricorrente, pur dolendosi dell'omessa
considerazione delle determinazioni assunte dall'ente nell'esercizio della
sua potestà regolamentare, non indica con quale atto sarebbe stato istituito
il profilo di coordinatore e solo indirettamente richiama, nel corpo della
quarta censura, l'art. 13 del regolamento del servizio di Polizia
Municipale, regolamento rispetto al quale non risultano assolti gli oneri di
specificazione e di allegazione, perché il La. non ne riporta il contenuto
né precisa se lo stesso sia stato o meno acquisito agli atti del giudizio; |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Segretario
comunale: affidamento del servizio di coordinamento di polizia locale.
Nei micro comuni il coordinatore può essere il segretario che non assume la
qualifica di comandante ma solo la direzione generale.
In presenza di due soli operatori di polizia municipale il sindaco può
affidare il coordinamento del servizio al segretario comunale e il
precedente incaricato al coordinamento non ha titolo per rivendicare alcuna
prevaricazione.
---------------
2. la Corte territoriale ha premesso che con delibera del 28.03.2007 la
direzione della Polizia Municipale, alla quale erano addetti solo due
dipendenti, era stata attribuita ad interim al segretario comunale, al fine
di garantire un «sereno e pacifico svolgimento delle delicate funzioni
connesse alle precipue attività d'ufficio» e di assicurare il raccordo
con l'esecutivo e con le altre articolazioni municipali;
3. il giudice d'appello ha escluso che il provvedimento perseguisse finalità
sanzionatorie nei confronti del Laudari, perché l'amministrazione,
nell'attribuire ad un organo esterno le funzioni di direzione, aveva posto a
fondamento dell'atto esigenze organizzative e non la necessità di reagire
alla violazione di comportamenti, tenuti dallo stesso Laudari, contrari alle
direttive ed agli ordini di servizio ricevuti;
4. ha evidenziato, inoltre, che non poteva essere ravvisato un illegittimo
demansionamento, perché la nomina del Laudari a coordinatore aveva la
finalità di individuare un unico interlocutore nei rapporti fra gli uffici
comunali e la Polizia Municipale e di garantire al tempo stesso che i due
vigili svolgessero l'attività in modo coordinato, ma non implicava
l'attribuzione della qualifica prevista dalla legge n. 65/1986, applicabile
nei soli casi di formale istituzione del Corpo di Polizia Municipale, non
avvenuta nella fattispecie, nella quale faceva difetto la condizione,
richiesta dal legislatore, dell'assegnazione al servizio di almeno sette
dipendenti;
...
12. è infondato il terzo motivo, con il quale il ricorrente si duole
della violazione delle leggi nn. 65/1986 e 142/1990;
12.1. la Corte territoriale ha escluso che l'incarico di coordinamento
implicasse lo svolgimento di mansioni superiori e l'attribuzione di un
profilo professionale diverso da quello dell'agente di polizia municipale ed
ha correttamente ritenuto che l'appellante non potesse invocare l'art. 7
della legge n. 65/1986, nella parte in cui prevede, al comma 3, che
l'ordinamento del Corpo di polizia municipale «si articola di norma in:
a) responsabile del Corpo (comandante); b) addetti al coordinamento e al
controllo; c) operatori (vigili)»;
12.2. il Collegio intende dare continuità all'orientamento, già espresso da
questa Corte, secondo cui l'art. 7 della legge n. 65 del 1986, che
disciplina le condizioni per l'istituzione del corpo di polizia municipale,
si applica esclusivamente alle realtà territoriali più estese, dovendosi
escludere, quanto ai comuni di piccole dimensioni, non solo che la norma,
ancorata al tassativo presupposto che il servizio sia svolto da almeno sette
addetti, sia suscettibile di interpretazione estensiva, ma anche che possa
farsi ricorso all'analogia (Cass. n. 16580/2010);
12.3. infatti, ove risulti inapplicabile per difetto del requisito numerico
la norma speciale (alla quale rinvia l'art. 70, comma 2, del d.lgs. n.
165/2001), la disciplina dell'organizzazione degli uffici degli enti locali
va tratta dal d.lgs. n. 267/2000 che, nell'abrogare la legge n. 142/1990,
erroneamente invocata dal ricorrente, ha attribuito alla potestà
regolamentare degli enti territoriali l'ordinamento degli uffici e del
personale, precisando, peraltro, che la potestà stessa, in ragione
dell'affermata applicabilità del «d.lgs. 03.02.1993 n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni» nonché delle «altre disposizioni di
legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni»
( art. 88), deve essere esercitata «tenendo conto di quanto demandato
alla contrattazione collettiva nazionale» ( art. 88, comma 2);
12.4. il richiamato rapporto fra le fonti è stato ribadito dal d.lgs. n.
165/2001 che ha previsto, all'art. 70, comma 3, che «il rapporto di
lavoro dei dipendenti degli enti locali è disciplinato dai contratti
collettivi previsti dal presente decreto nonché dal d.lgs. 18.08.2000 n. 267»;
12.5. anche per il personale del comparto autonomie locali, pertanto, il
legislatore ha affidato la materia degli inquadramenti allo speciale sistema
di contrattazione collettiva del settore pubblico (Cass. S.U. n.
16038/2010), limitando il potere unilaterale del datore di lavoro pubblico,
il quale «ha solo la possibilità di adattare i profili professionali,
indicati a titolo esemplificativo nel contratto collettivo, alle sue
esigenze organizzative, senza modificare la posizione giuridica ed economica
stabilita dalle norme pattizie, in quanto il rapporto è regolato
esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro
privato», con la conseguenza che «è nullo l'atto in deroga anche in
melius alle disposizioni del contratto collettivo, sia quale atto negoziale,
per violazione di norma imperativa, sia quale atto amministrativo, perché
viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell'art. 21-septies
della legge 07.08.1990 n. 241, dovendosi escludere che la RA. possa
intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla
contrattazione collettiva» ( Cass. S.U. n. 21744/2009);
12.6. ne discende che il motivo è infondato nella parte in cui sostiene che,
seppure in difetto dei presupposti richiesti dall'art. 7 della legge n.
65/1986, il Comune, nell'esercizio del suo potere regolamentare, poteva
istituire una «figura apicale di coordinatore dei vigili urbani»,
atteso che il potere organizzativo trova limite, quanto all'organizzazione
ed alla gestione del personale, nella classificazione operata dalle parti
collettive, alla quale il ricorso non fa cenno, tanto che si ignora persino
in quale area il La. fosse inquadrato e quale posizione economica lo stesso
avesse acquisito;
12.5. si deve poi aggiungere che il ricorrente, pur dolendosi dell'omessa
considerazione delle determinazioni assunte dall'ente nell'esercizio della
sua potestà regolamentare, non indica con quale atto sarebbe stato istituito
il profilo di coordinatore e solo indirettamente richiama, nel corpo della
quarta censura, l'art. 13 del regolamento del servizio di Polizia
Municipale, regolamento rispetto al quale non risultano assolti gli oneri di
specificazione e di allegazione, perché il La. non ne riporta il contenuto
né precisa se lo stesso sia stato o meno acquisito agli atti del giudizio (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza
18.06.2019 n. 16312). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Non
decade il consigliere assenteista se la giustificazione è tardiva ma valida.
In tema di decadenza dalla carica di consigliere di ente locale per assenza
alle sedute dell'organo assembleare consiliare dice la sua il Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza
17.06.2019 n. 4047, fornendo
rilevanti precisazioni sulle cause giustificative della mancata
partecipazione alle adunanze e circa la disciplina procedimentale
applicabile.
Interesse successivo
Oltre a demandare allo statuto dell'ente la previsione dei casi di decadenza
per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure,
l'articolo 43, comma 4, del Tuel impone di garantire il diritto del
consigliere a far valere le cause giustificative dell'assenza all'adunanza
consiliare.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, queste ultime possono esser invocate
anche dopo l'esito dell'eventuale procedimento di decadenza per reiterata e
continuata assenza, come accade -nel caso specifico- per l'ipotesi di tardività della convocazione alle sedute non presenziate (violazione in
realtà idonea a sottrarre queste sedute dal computo della continuità).
Infatti non sussiste un interesse a impugnare le delibere dell'adunanza
disertata (che non costituiscono atti presupposti della delibera di
decadenza) né un onere di immediata giustificazione (cioè la contestazione
della tardiva convocazione), sorgendo invece l'interesse solo
successivamente in via strumentale quando la mancata partecipazione è
assunta a concorrente presupposto della dichiarata decadenza.
Primato dello statuto
I magistrati d'appello risolvono anche il conflitto fra disposizioni
contraddittorie emanate in sede locale (statuto e regolamento del
consiglio), stabilendo una gerarchia tra le fonti normative secondarie.
È chiarito che le previsioni statutarie disciplinanti i casi di decadenza
per assenza ingiustificata prevalgono sulle difformi (e più restrittive)
previsioni regolamentari, perché, da una parte, è allo statuto che la fonte
primaria rimette la formulazione delle fattispecie decadenziali e,
dall'altra, poiché in generale i regolamenti comunali disciplinano i settori
dell'attività amministrativa sulla base proprio delle linee essenziali
indicate dall'atto statutario.
Nel caso specifico, la prevalenza dello statuto, che valorizza la
partecipazione alle sedute straordinarie come elemento interruttivo della
continuità delle assenze, è affermata anche per un motivo sostanziale: in
ossequio al principio di ragionevolezza nell'adozione di misure decadenziali
limitative della funzione rappresentativa, va attribuito rilievo alle
assenze solo quando mostrano un chiaro atteggiamento insistito di
disinteresse per intendimenti futili o inadeguati rispetto agli impegni
assunti con l'incarico pubblico elettivo, non ravvisabile nell'espressione
di fattiva adesione alle attività consiliari mostrata comunque con la
partecipazione alle sedute straordinarie.
Astensione dal voto
Il Consiglio di Stato, inoltre, si occupa di delimitare l'ambito soggettivo
di applicazione della norma (articolo 78, comma 2, del Tuel) recante il
dovere di astensione in capo agli amministratori dal prendere parte alla
discussione e votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado.
Al riguardo statuisce che, avendo il procedimento decadenziale natura
sanzionatoria, sussiste un conflitto d'interessi (con obbligo di astensione)
in ipotesi di accertata grave inimicizia (nel caso di specie: per
l'esistenza di situazione di conflitto determinata da ragioni personali a
causa di iniziative giudiziarie), tra il consigliere votante e quello
suscettibile di decadenza, tale da compromettere la serenità e neutralità di
giudizio e vulnerare la presunzione di imparzialità
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019).
---------------
SENTENZA
5.1. Le appellanti contestano la sentenza dove ha respinto i cinque motivi
di ricorso, e sostanzialmente ripropongono le doglianze di primo grado e
censurano la dichiarazione di irricevibilità del terzo motivo del ricorso (tardività
della censura di irritualità e di mancato rispetto dei termini nella
consegna degli avvisi di convocazione), eccepita dal Comune.
5.2. L’appello è fondato.
5.3. Giova in primo luogo evidenziare come, per costante giurisprudenza bene
richiamata dal primo giudice “le assenze per mancato
intervento dei consiglieri dalle sedute del consiglio comunale non devono
essere giustificate preventivamente di volta in volta. Ciò in quanto possono
essere fornite successivamente, anche dopo la notificazione all'interessato
della proposta di decadenza, ferma restando l'ampia facoltà di apprezzamento
del Consiglio comunale in ordine alla fondatezza e serietà ed alla rilevanza
delle circostanze addotte a giustificazione delle assenze”
(Cons. Stato, V 20.02.2017, n. 743); è stato pure chiarito che “le
assenze danno luogo a revoca quando mostrano con ragionevole deduzione un
atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli
impegni assunti con l’incarico pubblico elettivo…” ed inoltre “che la
mancanza o l’inconferenza della giustificazione devono essere obiettivamente
gravi per assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi
accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi”
(cfr. Cons. Stato, V, 09.10.2007, n. 5277).
5.4. Nondimeno, la sentenza, pur muovendo da tali logiche e corrette
premesse, non perviene ad esiti condivisibili.
5.5. Invero, alla luce dei citati indirizzi, il Collegio rileva come meriti
anzitutto accoglimento, con rilievo assorbente, il secondo motivo di appello
che contesta la violazione degli artt. 7, 29 e 35, comma 1, lett. a), Cod.
proc. amm., la violazione dell’art. 43, comma 4, d.lgs. n. 267 del 2000,
dell’art. 10, comma 3, dello Statuto del Comune, e dell’articolo 39, comma
1, del Regolamento del Consiglio comunale.
5.5.1. I ricorrenti di prime cure, premesso che la decadenza era stata
dichiarata per accertata assenza a più sedute consecutive di consiglio
comunale, avevano dedotto che, per due di tali sedute (quelle del 31.05.2017
e del 05.08.2017), l’avviso di convocazione era stato comunicato in ritardo,
ovvero in violazione del termine di cinque giorni (sì che l’assenza non
avrebbe potuto essere imputata ai fini della continuità).
5.5.2. La sentenza ha ritenuta inammissibile la doglianza perché la
tardività della convocazione andava fatta tempestivamente valere, impugnando
la delibera approvata nella relativa seduta alla quale i consiglieri non
avrebbero potuto partecipare in conseguenza del ritardo nella comunicazione
degli avvisi: e, comunque, la ha stimata infondata (non trattandosi di
termini liberi).
5.5.3. Sotto entrambi i profili, gli assunti sono errati.
5.5.4. Deve, in primo luogo, rilevarsi come gli odierni appellanti non
avevano un interesse ad impugnare gli esiti deliberativi della seduta per la
quale era contestata l’assenza (id est: a contestare la validità
delle varie deliberazioni assunte in quelle adunanze) né sussisteva l’onere
di immediata contestazione della tardività della loro convocazione:
interesse che, invece, è sorto solo, in via strumentale, quando la mancata
partecipazione anche alla sedute in esame è stata assunta a concorrente
presupposto della dichiarata decadenza.
5.5.6. Invero non vi è correlazione tra la validità delle deliberazioni
assunte dal Consiglio comunale nell’assenza dei consiglieri appellanti e la
questione della posizione istituzionale dei medesimi in seno al Consiglio
comunale, ai fini del mantenimento della carica pubblica, in relazione alla
natura delle assenze contestate e alle giustificazioni addotte, costituente
invece il thema decidendum del presente giudizio.
5.5.7. La delibera adottata in absentia dei consiglieri all’esito delle
sedute per le quali si contesta la tardività delle convocazioni non è,
infatti, atto presupposto della delibera di decadenza, oggetto di
impugnazione. Infatti la disposta decadenza, per l’addebito dell’assenza e
per il suo carattere ingiustificato, non si fonda sui contenuti della
deliberazione assunta nell’adunanza per la quale si sostiene l’invalidità
della convocazione.
5.5.8. Sotto altro concorrente profilo, è il caso di evidenziare che il
consigliere non sarebbe stato tenuto all’immediata giustificazione
dell’assenza la quale ha assunto rilievo, ai fini della decadenza, solo in
ragione della natura continuativa e reiterata: di talché i consiglieri ben
potevano far valere eventuali cause di giustificazione in via postuma,
all’esito dell’eventuale dichiarazione di decadenza e nel corso di quel
procedimento (come difatti avvenuto nella fattispecie, in sede di
osservazioni, con la memoria del 04.11.2017).
5.6. In secondo luogo, non sono condivisibili le statuizioni della sentenza
che hanno considerato infondata la doglianza in esame sull’assunto per cui
il computo dei giorni ai fini del termine di convocazione “in mancanza di
espressa deroga …andrebbe effettuato ai sensi degli artt. 1187 e 2963 c.c.
in modo da non contare il dies a quo e contare, invece, il dies ad quem, con
conseguente tempestività delle convocazioni”.
5.6.1. Al riguardo, soccorrono le piane previsioni dell’articolo 39, comma
1, del Regolamento del consiglio comunale adottato con deliberazione
consiliare n. 2 del 19.02.2000 (di seguito “il Regolamento”), a mente
del quale «l’avviso di convocazione per le adunanze deve essere consegnato
ai consiglieri almeno cinque giorni prima della riunione».
5.6.2. Tale previsione non può che essere intesa nel senso che
il termine di
cinque giorni, stabilito per la consegna ai consiglieri dell’avviso di
convocazione alle adunanze, è termine costituito da giorni liberi e interi,
che devono interamente decorrere prima dello svolgimento dell’attività cui
sono preordinati e tale da non comprendere né il giorno iniziale della
convocazione né quello finale dell’adunanza, in conformità alla
giurisprudenza che ha chiarito che ciò garantisce lo svolgimento con
pienezza di funzioni del ruolo elettivo da parte del consigliere, garantendo
effettiva e consapevole partecipazione ad ogni attività del Consiglio (cfr.
pareri Cons. Stato, I, 15.01.2014, n. 461/2014; Cons. Stato, I, 22.01.2010,
n. 2261/2009).
5.6.3. Pertanto, acclarata l’effettiva tardività della convocazione per le
due sedute, l’assenza alle medesime dei consiglieri (che peraltro, come da
memoria defensionale depositata nel procedimento amministrativo, avevano
fatto affidamento sul consolidato orientamento quanto al computo dei
termini) non poteva essere censurata né sanzionata, né assurgere a
concorrente presupposto ai fini della decadenza, non integrando in tal caso
l’assenza, determinata dalla violazione dei termini di preavviso comportante
lesione delle prerogative dei consiglieri, manifestazione di noncuranza
rispetto agli impegni derivanti dall’incarico pubblico elettivo.
5.7. Rilevato dunque che le assenze alle due sedute del 31.05.2017 e del
05.08.2017 era giustificata e venuto meno, con effetto assorbente, il
presupposto costituito dall’assenza a tre sedute consiliari consecutive ai
fini della decadenza, deve poi evidenziarsi come sia fondato e meriti
accoglimento anche il terzo motivo di appello che censura la sentenza dove
ha dichiarato inammissibili per difetto di interesse e non ha esaminato nel
merito il secondo motivo del ricorso di prime cure (proprio in ragione dell’irricevibilità
del terzo motivo e del rigetto del terzo e in parte qua del quinto motivo).
5.7.1. Assume infatti rilievo, ai fini dell’interruzione della continuità
delle assenze, anche la presenza di due dei quattro consiglieri odierni
appellanti alla seduta straordinaria del 17.10.2016.
5.7.2. A tale conclusione si perviene sulla base dello Statuto del Comune al
quale le fonti primarie (art. 43, comma 4, del D.lgs. n. 267 del 2000: «Lo
statuto stabilisce i casi di decadenza e le relative procedure, garantendo
il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative») rimettono
di stabilire i casi di decadenza dei consiglieri per assenza ingiustificata:
l’art. 13, comma 3, dello Statuto prevede, infatti, che «I consiglieri
comunali che non intervengono alle sessioni per tre volte consecutive senza
giustificato motivo sono dichiarati decaduti con deliberazione del consiglio
comunale», senza operare distinzioni tra sessioni ordinarie e sessioni
straordinarie.
5.7.3. Dette previsioni statutarie prevalgono sulle difformi e più
restrittive previsioni regolamentari che attribuiscono rilievo al solo
mancato intervento dei consiglieri alle sedute ordinarie: ciò non solo
perché, in generale, i regolamenti comunali disciplinano i settori
dell’attività amministrativa sulla base delle linee essenziali indicate
dallo Statuto (le cui previsioni devono prevalere in caso di contrasto), ma,
soprattutto, per ragioni sostanziali.
Le circostanze che possono dar luogo alla decadenza dal ruolo elettivo
devono, infatti, essere lette con rigore in ragione del carattere
restrittivo della funzione rappresentativa che è proprio della severa
misura: a tal fine va dato rilievo alle assenze solo quando mostrano con
ragionevole deduzione un atteggiamento insistito di disinteresse per motivi
futili o inadeguati rispetto agli impegni assunti con l’incarico pubblico
elettivo (vale rammentare che l’art. 51, terzo comma, Cost. afferma: «chi è
chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo
necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro»).
5.7.4. In conclusione, non è ragionevole escludere la rilevanza, ai fini del
computo delle assenze per dichiarare la decadenza dalla carica, delle sedute
straordinarie, costituendo l’intervento alle medesime espressione di fattiva
partecipazione e adesione alle attività del Consiglio comunale.
5.8. Sono, infine, fondate anche le censure di cui al primo e al quinto
motivo di impugnazione con cui le appellanti sono tornate a dolersi della
violazione del dovere di astensione di cui all’art. 78, comma 2, d.lgs. n.
267 del 2000 (ove si dispone che “gli amministratori di cui all’articolo 77,
comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione e votazione di
delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini fino al
quarto grado” ) -per avere preso parte alla discussione e votazione della
decadenza sia il Sindaco (versante in situazione di conflitto con il
consigliere Fi.) sia il Presidente del Consiglio Comunale (legato da
rapporto di parentela con il consigliere Pe.)- e del difetto di
istruttoria e di motivazione quanto alle giustificazioni addotte dai
consiglieri alle assenze contestate.
5.8.1. In relazione alla prima censura, è da osservare che,
avendo il
procedimento natura sanzionatoria, sussiste l’obbligo di astensione in caso
di grave inimicizia tale da vulnerare la presunzione di imparzialità e che
tale situazione ricorreva in concreto nel caso di specie per l’esistenza
(allegata e provata dalla signora Fi.) di un’obiettiva situazione di
conflitto e di contrasto, determinata da ragioni personali, con il Sindaco
del Comune (a causa delle iniziative giudiziarie intraprese dalla stessa Fi., costituitasi parte civile nel processo penale pendente dinanzi
al Tribunale di Rieti a carico del Sindaco): non può dunque ritenersi che quest’ultimo si trovasse in una posizione di serenità e neutralità personale
rispetto ad una decisione discrezionale, quale sicuramente è quella della
identificazione e valutazione dei presupposti per dichiarare la decadenza
dei consiglieri; né peraltro può assumere rilevanza per escludere
l’esistenza di una situazione di conflitto la titolarità dell’interesse,
proprio o del Comune, in forza del quale è stata esercitata l’azione civile
in quel giudizio penale.
5.8.2. Avrebbe dovuto poi ugualmente astenersi il
Presidente del Consiglio Comunale dalla discussione e votazione della
decadenza del fratello, per l’ovvia considerazione per cui, a prescindere
dagli esiti di tale partecipazione rispetto al consigliere, la violazione
dell’obbligo di astensione in presenza di un siffatto legame di parentela
risultava presuntivamente idonea a minare l’esercizio imparziale della
funzione amministrativa.
5.9. Con riferimento poi alle doglianze di carenza di istruttoria e di
motivazione, non sono condivisibili le statuizioni della sentenza che, da un
lato, affermano che i ricorrenti si sarebbero limitati nel caso in questione
ad allegare considerazioni estremamente sommarie e generiche (“ragioni di
lavoro”, “motivi di lavoro”, “ferie”), ovvero indimostrate o indimostrabili
(quale il dissenso politico), in assenza di supporti probatori; dall’altro
rilevano che la delibera impugnata conterrebbe un adeguato contemperamento
tra il carattere del voto -segreto- e l’esigenza di dare conto della
situazione prodottasi in relazione a ciascun consigliere, delle osservazioni
formulate, della normativa vigente e della sua interpretazione.
5.9.1. Deve, per converso, rilevarsi come i consiglieri appellanti abbiano
giustificato, di volta in volta nell’imminenza delle sedute, prima, e nel
corso del procedimento di decadenza, poi, le proprie assenze, adducendo
ragioni idonee e specifiche rispetto alla mancata partecipazione: quali
motivi di salute e malattia (comprovati anche mediante la presentazione di
relativa certificazione medica per i relativi periodi: cfr. giustificazioni
fornite dai consiglieri Pe. e Am.), ragioni di lavoro, di servizio o
esigenze di fruire di periodi di ferie o, infine, circostanze obiettive
correlate all’impossibilità di partecipare alle sedute con cognizione di
causa (per la mancata disponibilità della documentazione necessaria in
relazione agli argomenti posti all’ordine del giorno, anche in violazione
del diritto di accesso e in assenza di riscontro alle motivate richieste
formulate dai consiglieri, come avvenuto per la seduta del 21.04.2017).
5.9.2. In presenza di tali specifiche giustificazioni, né apodittiche né
tautologiche ma agevolmente verificabili nella fondatezza, serietà e
rilevanza, si imponeva al Comune una altrettanto specifica e puntuale
motivazione sulle cause addotte (al fine di esternare le ragioni che
palesavano un effettivo e concreto disinteresse rispetto agli impegni
assunti sì da escludere un utilizzo improprio e distorto dello strumento
sanzionatorio). Ma nel caso di specie è invece del tutto mancata nella
delibera impugnata: che non può, pertanto, essere integrata in via postuma e
nel corso del giudizio.
Ed invero, a parte il generico rinvio alle giustificazioni fornite dai
consiglieri, non è rinvenibile nella delibera alcuna esternazione, seppure
sintetica, delle motivazioni di inidoneità delle giustificazioni medesime
che consenta di verificare se l’Amministrazione ne abbia in concreto tenuto
conto sì da rendere chiaramente evidenti dal contesto o, comunque, intuibili
le ragioni per cui esse dovessero essere disattese e andasse invece disposta
la decadenza.
5.9.3. È pacifica, dunque, la violazione dell’art. 13, comma 3, dello
Statuto del Comune a mente del quale il Consiglio delibera sulla decadenza
«tenuto adeguatamente conto delle cause giustificative presentate da parte
del consigliere comunale».
6. Per le ragioni esposte, l’appello va accolto. Consegue, in riforma
dell’impugnata sentenza, l’annullamento della deliberazione del Consiglio
Comunale impugnata dalle ricorrenti in primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA: La
ratio dell'art. 8 DM 1444/1968, nel riferirsi all’altezza “degli edifici
preesistenti e circostanti”, è quella di porre a riferimento della nuove
costruzioni, o dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli
immobili contigui al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto
e già consolidato (la zona urbanistica è classificata come “residenziale
satura”) caratteristiche di omogeneità.
Pertanto, nel caso in cui la disciplina urbanistico-edilizia prescriva che
l'altezza massima degli edifici di nuova costruzione non possa superare
l'altezza di quelli “preesistenti circostanti”, il Collegio ritiene che tale
parametro (gli edifici “circostanti”) non può che riferirsi agli edifici
limitrofi a quello costruendo, coerentemente con la ratio della norma,
preordinata ad evitare che fabbricati contigui o strettamente vicini
presentino altezze marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei
gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.
---------------
8. L’unica censura spiegata, afferente alla corretta individuazione del
parametro di riferimento per le altezze degli edifici è, peraltro, infondata
sotto un diverso ed ulteriore profilo.
Il richiamato articolo 8 del DM 1444/1968 prevede per la zona B un'altezza
massima non superiore “all'altezza degli edifici preesistenti e
circostanti”.
Il ricorrente sostiene che il Comune avrebbe erroneamente preso a
riferimento l’altezza degli edifici in aderenza mentre nella più ampia area
di prossimità sarebbero presenti fabbricati la cui altezza è superiore a
quella del progetto respinto dagli uffici comunali.
Il rilievo non può essere condiviso.
La giurisprudenza ha, invero, affermato al riguardo che “la ratio della
norma richiamata, nel riferirsi all’altezza “degli edifici preesistenti e
circostanti”, sia quella di porre a riferimento della nuove costruzioni, o
dell’ampliamento di costruzioni esistenti, l’altezza degli immobili contigui
al fine di mantenere, in un assetto edilizio circoscritto e già consolidato
(la zona urbanistica è classificata come “residenziale satura”)
caratteristiche di omogeneità. Pertanto, nel caso in cui la disciplina
urbanistico-edilizia prescriva che l'altezza massima degli edifici di nuova
costruzione non possa superare l'altezza di quelli “preesistenti
circostanti”, il Collegio ritiene che tale parametro (gli edifici
“circostanti”) non può che riferirsi agli edifici limitrofi a quello
costruendo, coerentemente con la ratio della norma, preordinata ad evitare
che fabbricati contigui o strettamente vicini presentino altezze
marcatamente differenti e a far sì che restino omogenei gli assetti
costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (cfr. da ultimo per un
analogo iter argomentativo Cons. Stato n. 4553/2014, n. 3184/2013)” (TAR
Napoli, sez. VII, sentenza n. 4102 del 26.08.2016)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 17.06.2019 n. 387 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratto
di avvalimento.
Il Consiglio di Stato
riassume i principi in materia di contratto
di avvalimento così come codificati dalla
giurisprudenza prevalente e precisa:
- nel caso di avvalimento c.d. “tecnico od operativo”, ovvero
avente a oggetto requisiti diversi rispetto
a quelli di capacità economico-finanziaria,
sussiste sempre l’esigenza di una messa a
disposizione in modo specifico di risorse
determinate: onde è imposto alle parti di
indicare con precisione i mezzi aziendali
messi a disposizione dell’ausiliata per
eseguire l’appalto (art. 88 del regolamento
di esecuzione del previgente codice dei
contratti pubblici, riferimento normativo
ora da individuarsi nell’ultimo inciso
dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50 del
2016, aggiunto dal d.lgs. n. 56 del 2017);
- in parte diversa è invece la figura dell’avvalimento c.d. “di
garanzia”, nel quale l’impresa ausiliaria si
limita a mettere a disposizione il suo
valore aggiunto in termini di solidità
finanziaria e di acclarata esperienza di
settore e nel quale non è conseguentemente
necessario, in linea di massima, che la
dichiarazione negoziale costitutiva
dell’impegno contrattuale si riferisca a
specifici beni patrimoniali o a indici
materiali atti a esprimere una certa e
determinata consistenza patrimoniale, ma è
sufficiente che dalla ridetta dichiarazione
emerga l’impegno contrattuale a prestare e a
mettere a disposizione dell’ausiliata la
complessiva solidità finanziaria e il
patrimonio esperienziale, così garantendo
una determinata affidabilità e un concreto
supplemento di responsabilità;
- resta, comunque, fermo in ogni caso che, anche al di là della
tipologia di requisito prestato (capacità
economico-finanziaria o capacità
tecnico-professionale), va esclusa la
validità del contratto di avvalimento che
applichi formule contrattuali del tutto
generiche, ovvero meramente riproduttive del
dato normativo o contenenti parafrasi della
clausola della lex specialis descrittiva del
requisito oggetto dell’avvalimento stesso;
- l’indagine sull’efficacia del contratto allegato al fine di
attestare il possesso dei relativi titoli
partecipativi deve essere svolta in
concreto, seguendo i criteri ermeneutici del
testo contrattuale dettati dalla decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 23 del 2016, la
quale ha richiamato le regole generali
dell’ermeneutica contrattuale e,
segnatamente, i canoni enunciati dal codice
civile di interpretazione complessiva e
secondo buona fede delle clausole
contrattuali (artt. 1363 e 1367 Cod. civ.)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.06.2019 n. 4024 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
9.4. Questa Sezione del Consiglio di Stato
ha recentemente rilevato (V, 05.04.2019, n.
2243) che, secondo la giurisprudenza
prevalente, nel caso di avvalimento c.d. “tecnico
od operativo”, ovvero avente a oggetto
requisiti diversi rispetto a quelli di
capacità economico-finanziaria, sussiste
sempre l’esigenza di una messa a
disposizione in modo specifico di risorse
determinate: onde è imposto alle parti di
indicare con precisione i mezzi aziendali
messi a disposizione dell’ausiliata per
eseguire l’appalto (art. 88 del regolamento
di esecuzione del previgente codice dei
contratti pubblici, riferimento normativo
ora da individuarsi nell’ultimo inciso
dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. n. 50 del
2016, aggiunto dal d.lgs. n. 56 del 2017).
In parte diversa è invece la figura dell’avvalimento
c.d. “di garanzia”, nel quale
l’impresa ausiliaria si limita a mettere a
disposizione il suo valore aggiunto in
termini di solidità finanziaria e di
acclarata esperienza di settore e nel quale
non è conseguentemente necessario, in linea
di massima, che la dichiarazione negoziale
costitutiva dell’impegno contrattuale si
riferisca a specifici beni patrimoniali o a
indici materiali atti a esprimere una certa
e determinata consistenza patrimoniale, ma è
sufficiente che dalla ridetta dichiarazione
emerga l’impegno contrattuale a prestare e a
mettere a disposizione dell’ausiliata la
complessiva solidità finanziaria e il
patrimonio esperienziale, così garantendo
una determinata affidabilità e un concreto
supplemento di responsabilità (Cons. Stato,
V, 30.10.2017, n. 4973; III, 11.07.2017, n.
3422; V, 15.03.2016, n. 1032).
Resta, comunque, fermo in ogni caso (da
ultimo, Cons. Stato, V, n. 6651/2018 cit.)
che, anche al di là della tipologia di
requisito prestato (capacità
economico-finanziaria o capacità
tecnico-professionale), va sicuramente
esclusa la validità del contratto di
avvalimento che applichi formule
contrattuali del tutto generiche, ovvero
meramente riproduttive del dato normativo o
contenenti parafrasi della clausola della
lex specialis descrittiva del requisito
oggetto dell’avvalimento stesso.
Si è anche osservato (C. Stato, V, n. 2243
del 2019, cit.) come l’indagine
sull’efficacia del contratto allegato al
fine di attestare il possesso dei relativi
titoli partecipativi debba essere svolta in
concreto, seguendo i criteri ermeneutici del
testo contrattuale dettati dalla decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 23 del 2016, la
quale ha richiamato le regole generali
dell’ermeneutica contrattuale e,
segnatamente, i canoni enunciati dal codice
civile di interpretazione complessiva e
secondo buona fede delle clausole
contrattuali (artt. 1363 e 1367 Cod. civ.). |
APPALTI:
Screenshot per verificare obbligo di firma digitale.
In una gara d'appalto l'apposizione della firma digitale sui documenti può
essere attestata anche con screenshot e può essere riferita anche a un
momento successivo a quello in cui il seggio di gara ha controllato la
documentazione.
Lo ha precisato il TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la
sentenza 13.06.2019 n. 7673.
Il disciplinare di gara non imponeva l'obbligo di presentare files
contenenti la documentazione di gara entro determinati limiti dimensionali,
ma stabiliva che essi dovessero necessariamente essere di formato «Cades» o
«Pades». Inoltre, non era consentito firmare digitalmente una cartella
compressa contenente uno o più documenti privi di firma digitale (cfr. il
punto B del disciplinare). Uno dei concorrenti aveva prodotto i files
allegati all'offerta tecnica inserendoli in una cartella compressa; i files
erano tutti muniti di firma digitale, in modalità «Cades».
Il seggio di gara aveva verbalizzato l'avvenuto controllo di quelle firme
che la piattaforma non era in grado di controllare automaticamente, a causa
dell'eccessiva dimensione del file, e il positivo esito dei controlli è
stato riportato nel verbale del 21.02.2018, ove si afferma che «tutti i
concorrenti hanno regolarmente inserito all'interno del plico digitale tutti
i documenti richiesti dalla lex specialis».
A fronte dell'assenza di indicazioni specifiche della lex specialis circa le
modalità di verifica dei files di grandi dimensioni il Tar ha ritenuto
dimostrata la presenza di una firma digitale valida a tutta la
documentazione di gara della ricorrente principale. Rimaneva da risolvere il
punto della mancata allegazione dei report riguardanti il positivo esito
delle verifiche effettuate dal seggio di gara sulla cartella. A tale
proposito il Tar riconosce che la stazione appaltante ha potuto dimostrare,
attraverso il deposito di taluni screenshots, che gli allegati in questione
risultano regolarmente sottoscritti.
Inoltre, dice il Tar, non è rilevante che il positivo riscontro della
verifica della firma attestato dagli screenshots si riferisca a un momento
successivo a quello in cui il seggio di gara ha controllato la
documentazione perché i file una volta caricati sul portale di gara, non
potevano essere successivamente modificati
(articolo ItaliaOggi del 21.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Concessione
scaduta, addio lido. Reato usare la spiaggia. Scatta il sequestro penale. La
Cassazione sulla direttiva Bolkestein: l'Ue impone di disapplicare la
proroga.
Nuvole nere sull'estate italiana. Rischiano il sequestro
penale gli stabilimenti balneari che hanno le concessioni scadute. E ciò
grazie alla direttiva Bolkestein dell'Unione europea e alla sentenza della
Corte di giustizia Ue, secondo cui il privato deve vincere una gara pubblica
per poter sfruttare economicamente un bene demaniale come la spiaggia: va
dunque disapplicata la norma del dl enti locali 2016 che finisce per
stabilizzare gli effetti della proroga automatica delle concessioni al 2020
bocciata dai giudici eurounitari. Esclusa l'applicazione analogica della
normativa comunitaria a danno dell'indagato.
È quanto emerge dalla
sentenza 12.06.2019 n. 25993 della
III Sez. penale della Corte di Cassazione: c'è un unico
precedente che risale a un anno fa, sul sequestro di un circolo di vela in
Sicilia, la sentenza n. 21281/2018, pure pubblicata dalla terza sezione
penale. A rischio sono anche gli approdi e i porti turistici e le strutture
sui laghi.
I fatti. Accolto
il ricorso proposto dal procuratore della repubblica di Genova contro il no
del Tribunale al sequestro preventivo impeditivo: a essere interessata è
l'area demaniale nella disponibilità dell'imprenditore indagato per
l'occupazione abusiva di cui all'articolo 1161 del codice della navigazione.
Si tratta del titolare di un lido, ma il principio vale per ogni altra
struttura turistico-ricreativa sul demanio marittimo: la concessione per
sfruttare l'area risale al 1998 e risulta scaduta il 31.12.2009 senza
che il titolo sia stato oggetto di legittime proroghe tacite, che sono
escluse dalla normativa vigente. E tanto basta a integrare il reato di
abusiva occupazione dello spazio demaniale marittimo, senza che rilevi il
fatto che prima la spiaggia era in concessione e l'istanza di rinnovo
risulta presentata in modo tempestivo: il diritto ha natura costitutiva,
mentre il provvedimento di concessione non solo carattere di autorizzazione.
È il decreto legge 194/2009 a prorogare al 21.12.2020 le concessioni
sulle spiagge in essere al 30.09.2009, data di entrata in vigore del
dl, e in scadenza entro il 31.12.2015. Ma la sentenza C-458/14 della
Corte di giustizia ha dichiarato euroincompatibile la normativa interna: il
rinnovo automatico delle concessioni contrasta con i principi di libera
concorrenza e libertà di stabilimento nell'Unione europea, mentre per
rilasciare l'autorizzazione a sfruttare il demanio marittimo bisogna bandire
procedure pubbliche alle quali possano partecipare tutti gli operatori
interessati.
Congelare la situazione esistente penalizza le imprese di altri
Paesi Ue interessate al business del mare italiano. Il dl enti locali 113/2016
non adempie la sentenza della Corte europea e quindi va disapplicato perché
in contrasto con il trattato di funzionamento Ue. L'applicazione analogica a
danno dell'indagato è esclusa in quanto non si può ipotizzare una violazione
del principio di legalità e tassatività: la fattispecie criminosa risulta
prevista in precedenza e la norma penale incriminatrice completa in tutti
gli aspetti essenziali.
I precedenti. Già
nel 2011 la Corte costituzionale ha chiarito, con la sentenza 213/2011, che la
proroga contenuta all'articolo 1, comma 18, del decreto legge ha carattere
transitorio in attesa di una riforma della materia. Il giudice delle leggi
si è pronunciato sulla legittimità di alcune disposizioni delle autonomie
territoriali: l'intesa va raggiunta in sede di Conferenza stato-regioni. E
fra i principi da rispettare ci sono anche la valorizzazione delle attività
imprenditoriali e la tutela degli investimenti, oltre che quelli della
concorrenza.
Secondo la Consulta, dunque, il legislatore vuole solo
consentire ai titolari degli stabilimenti balneari di completare
l'ammortamento degli investimenti fino al riordino della materia. Insomma:
le disposizioni del decreto legge 194/2009 si riferiscono esclusivamente alle
concessioni nuove, ovvero a quelle sorte dopo la legge 88/2001, e comunque
valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al decreto legge
400/1993, come modificato dalla legge 88/2001, introdotta nel 1993 e abrogata
nel 2001. Un'interpretazione diversa sarebbe in contrasto con i principi
europei.
D'altronde la proroga legale al 31.12.2020 non opera
automaticamente: presuppone invece una richiesta dell'interessato per
consentire all'autorità di verificare i requisiti per il rinnovo. E la
«moratoria» risulta applicabile soltanto ad alcune tipologie di attività:
l'amministrazione deve controllare l'esistenza di una concessione valida e
ancora in essere. Servono quindi un titolo valido a monte e la permanenza
dei requisiti.
Sono stati poi il Tar Lombardia e il Tar Sardegna a sollevare la questione
pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia europea, che ha bocciato la
proroga automatica di concessioni demaniali marittime perché determinava una
disparità di trattamento fra operatori del settore. Sullo stop pesa la
circostanza secondo cui le autorizzazioni per lo sfruttamento economico
delle aree demaniali sono state attribuite quando già era stato stabilito
che tale tipo di contratto doveva essere soggetto a un obbligo di
trasparenza. Ma i giudici hanno fornito una serie di aperture che finora non
sono state raccolte.
La concessione della spiaggia assegnata senza
trasparenza viola la concorrenza soltanto se sull'attività c'è un «interesse
transfrontaliero certo», quindi ci sono imprese di altri Paesi europei
pronti a investire. E per stabilirlo, si legge nella sentenza C-568/14,
bisogna fare riferimento ai tutti i criteri rilevanti: l'importanza
economica e la natura dell'appalto; le caratteristiche tecniche; il luogo
dell'esecuzione. La Corte di Lussemburgo lascia uno spiraglio aperto: la
disparità fra operatori può essere giustificata «da motivi imperativi di
interesse generale».
Per esempio la necessità di rispettare il principio
della certezza del diritto e, dunque, il legittimo affidamento del
concessionario uscente. Spetta al giudice nazionale verificare se le
concessioni della Bolkestein devono essere oggetto di un numero limitato di
autorizzazioni perché le risorse naturali sono per definizione scarse. E
quindi l'accertamento va compiuto caso per caso, sulla base di criteri
oggettivi, che fanno riferimento al territorio.
Nulla di tutto questo c'è nel decreto enti locali, addirittura definito
«irrilevante» rispetto alle norme bocciate dalla Corte di giustizia europea.
È il Consiglio di stato con la sentenza 873/2018 che ha imposto di disapplicare la normativa interna sulle proroghe automatiche perché serve
una valutazione in concreto, rapportata alla fattispecie specifica che di
volta in volta viene in rilievo, rispetto alle esigenze che possono derogare
al principio di evidenza pubblica, cioè alla necessità di bandire le gare
per aggiudicarsi le spiagge, funzionale all'apertura del mercato. E la
giurisprudenza amministrativa si allinea. La parola, intanto, passa al
giudice del rinvio
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.06.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: L’inciso
“nonché quelli volti al ripristino di edifici…purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”, è stato introdotto dal D.L.
69/2013, convertito con modificazioni nella L. n. 98/2013, con l’obiettivo
di semplificare gli oneri a carico del privato interessato ad intraprendere
un’iniziativa edilizia.
In questo senso, il legislatore ha ampliato la casistica degli interventi
rientranti nella nozione di “ristrutturazione edilizia”, a svantaggio
di quelli annoverabili, fino a quel momento, in quella di “nuova
costruzione", per i quali è sempre necessario acquisire il permesso a
costruire.
---------------
Si rammenta che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza,
prima della novella legislativa dell'art. 3 d.p.r. 380/2001, la
ristrutturazione dei ruderi era considerata intervento di nuova costruzione
Invero, per una fattispecie interessante un intervento su un
fabbricato rurale a fini abitativi e precedente alla modifica legislativa, è
stato statuito che “La
ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell’alveo della
ristrutturazione edilizia e neppure in quello del risanamento conservativo,
integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza
di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche
dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da
alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture
orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente".
In virtù della novella legislativa, pertanto, il recupero dei ruderi -sempre
che “sia possibile accertarne la preesistente consistenza”- va
inquadrato ormai nell’ambito della ristrutturazione edilizia ed è quindi
sottratto alla categoria della nuova costruzione, ma di certo non può
rientrare in quello del restauro e risanamento conservativo.
Questo anche qualora l'organismo edilizio versi in uno stato precario di
conservazione comunque tale da consentire la sua fedele ricostruzione.
---------------
Nel caso di specie il rudere interessato dall’intervento ha una consistenza
consolidata nei muri perimetrali e nella quota del solaio di calpestio,
tuttavia non ha più il solaio di copertura, che presenta il solo “alloggio
putrelle”.
Giova rammentare che, secondo una recente indicazione della Corte di
Cassazione, la semplice "ristrutturazione" si
verifica ove gli interventi, nel comportare modificazioni esclusivamente
interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano
inalterate le componenti essenziali, quali: i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura.
---------------
2.2.2.- Per il secondo aspetto, relativo allo scopo della norma, l’inciso in
esame, “nonché quelli volti al ripristino di edifici…purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”, è stato introdotto dal D.L.
69/2013, convertito con modificazioni nella L. n. 98/2013, con l’obiettivo
di semplificare gli oneri a carico del privato interessato ad intraprendere
un’iniziativa edilizia.
In questo senso, il legislatore ha ampliato la casistica degli interventi
rientranti nella nozione di “ristrutturazione edilizia”, a svantaggio
di quelli annoverabili, fino a quel momento, in quella di “nuova
costruzione", per i quali è sempre necessario acquisire il permesso a
costruire.
Si rammenta che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza,
prima della novella legislativa dell'art. 3 d.p.r. 380/2001, la
ristrutturazione dei ruderi era considerata intervento di nuova costruzione
(si confronti in questo senso, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.09.2017,
n. 1167, secondo cui, per una fattispecie interessante un intervento su un
fabbricato rurale a fini abitativi e precedente alla modifica legislativa: “La
ricostruzione di un rudere non è riconducibile nell’alveo della
ristrutturazione edilizia e neppure in quello del risanamento conservativo,
integrando in sostanza un'attività di nuova costruzione, attesa la mancanza
di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche
dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da
alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture
orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente").
In virtù della novella legislativa, pertanto, il recupero dei ruderi -sempre
che “sia possibile accertarne la preesistente consistenza”- va
inquadrato ormai nell’ambito della ristrutturazione edilizia ed è quindi
sottratto alla categoria della nuova costruzione, ma di certo non può
rientrare in quello del restauro e risanamento conservativo (TAR Toscana,
Firenze, Sez. I, 16.05.2017, n. 692; TAR Campania, Salerno, Sez. I,
28.07.2015, n. 1764).
Questo anche qualora l'organismo edilizio versi in uno stato precario di
conservazione comunque tale da consentire la sua fedele ricostruzione (Tar
Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; Tar Lombardia, Brescia,
sez. I, 18.03.2013, n. 258).
3.- Nel caso di specie –secondo quanto riportato dalla stessa ricorrente
nella memoria di controdeduzioni ai motivi ostativi al rilascio del
nulla-osta– il rudere interessato dall’intervento ha una consistenza
consolidata nei muri perimetrali e nella quota del solaio di calpestio,
tuttavia non ha più il solaio di copertura, che presenta il solo “alloggio
putrelle”.
Giova rammentare che, secondo una recente indicazione della Corte di
Cassazione, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli
interventi, nel comportare modificazioni esclusivamente interne, abbiano
interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le
componenti essenziali, quali: i muri perimetrali, le strutture orizzontali,
la copertura (Cass. civ., sez. II, 10.01.2019, n. 473).
Ne consegue che, se la Suprema Corte ha valutato intervento di
ristrutturazione quello che interessa un edificio da rinnovare, il quale
comunque presenti ancora l’originaria copertura, a maggiore ragione non può
che rientrare nella stessa categoria il rifacimento dell’edificio che
richiede la ricostruzione ex novo della copertura, ormai non più
esistente
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.06.2019 n. 3162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Usufruttario non committente -
Responsabililità e limiti - Elementi sintomatici della
compartecipazione anche solo morale - Necessità - Artt. 29,
44, D.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi,
l'individuazione del comproprietario -ma lo stesso vale per
l'usufruttuario- non committente quale soggetto responsabile
dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi
di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale,
alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla
presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse
specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di
parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla
presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di
attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal
regime patrimoniale dei coniugi
(Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a.; Sez. 3, n.
25669 del 30/05/2012, Zeno e a.).
Pena la sostanziale applicazione del
ripudiato principio della responsabilità formale per il mero
possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la
prova della responsabilità in tali casi non può essere
desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare
la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi,
sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla
realizzazione del manufatto quali quelli più sopra indicati
(Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanato).
...
Immobile abusivamente realizzato - Comproprietario
dell'immobile o mera qualifica d'usufruttuario -
Individuazione dell'eventuale corresponsabilità
dell'usufruttuario - Responsabilità del committente,
direttore dei lavori, appaltatore - Soggetti indicati
nell'art. 29 T.U.E. - Altrui condotta illecita - Inerzia di
chi non rivesta una posizione di garanzia.
In tema di reati edilizi, la mera
qualifica d'usufruttuario dell'immobile abusivamente
realizzato è insufficiente ai fini dell'affermazione della
responsabilità penale per il reato di cui all'art. 44 T.U.E.
in quanto è necessario un "quid pluris" che consenta
l'attribuzione al medesimo della qualifica di committente
ovvero di compartecipe con quest'ultimo nella commissione
del reato. Ai predetti fini, i criteri che presiedono
all'individuazione della corresponsabilità
dell'usufruttuario non differiscono con riguardo al
comproprietario che non sia committente. Sicché, l'inerzia
di chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi
dell'art. 29 d.P.R. T.U.E. non ha rilievo penale.
La vera natura di tale disposizione, di fatti, non è quella
di individuare i soggetti attivi di un presunto reato
proprio che, salvo specifiche ipotesi, tale invece non è
(Cass. Sez. 3, n. 45146 del 08/10/2015, Fiacchino e a.),
bensì quella di estendere la responsabilità penale
delle figure indicate nel caso di omesso, costante,
controllo, anche sulla condotta altrui, circa la conformità
delle opere in corso d'esecuzione ai parametri di legalità
sostanziale contenuti nel titolo, negli strumenti
urbanistici, nelle disposizioni di legge.
Tale forma di responsabilità non può dunque essere ascritta
a soggetti diversi da quelli indicati nell'art. 29 T.U.E., e
non può riguardare il (com)proprietario dell'immobile sul
quale si eseguono i lavori abusivi, ovvero l'usufruttuario,
che - non rivestendo alcuna delle altre qualità indicate
nella disposizione - resti del tutto inerte rispetto
all'altrui condotta illecita.
Tuttavia, in conclusione, non si può escludere la possibile
responsabilità penale del proprietario o dell'usufruttuario
che -pur non essendo committente, costruttore o titolare del
permesso di costruire (né, ovviamente, direttore dei
lavori)- ponga in essere qualche contributo, materiale o
anche soltanto morale, all'attività di illecita
trasformazione del territorio posta in essere direttamente
da terzi.
...
Reati urbanistici - Conformità dell'opera al permesso di
costruire - Responsabilità del titolare della permesso
edilizio del committente del costruttore e del direttore dei
lavori - Obbligo giuridico di impedire o di denunciare
l'attività illecita di costruzione abusiva - Esclusione
della responsabilità del proprietario inerte.
Il proprietario di un'area su cui viene
realizzata una costruzione abusiva (e lo stesso può dirsi
per l'usufruttuario), il quale sia rimasto estraneo alla
relativa attività edificatoria anche in veste di semplice
committente dei lavori, non ha -perché non impostogli da
alcuna norma di legge- l'obbligo giuridico di impedire o di
denunciare l'attività illecita di costruzione abusiva da
altri su detta area posta in essere.
Anzi, la previsione oggi contenuta nell'art. 29 del D.P.R.
n. 380/2001, che la legge, «pur indicando alcuni soggetti
(il titolare della concessione edilizia, il committente, il
costruttore, il direttore dei lavori) che sono tenuti a
garantire la conformità dell'opera alla concessione edilizia
e pertanto sono da ritenere responsabili dell'eventuale
costruzione in assenza di concessione, tra essi non include
il proprietario del terreno.
Pertanto, non v'è alcuna norma di legge che impone a carico
del proprietario dell'area l'obbligo di impedire la
costruzione abusiva, è da escludere che un tale soggetto
possa rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto
inerte dinanzi all'illecito commesso da altri (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2019 n. 25546 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per
gli incarichi dirigenziali a tempo obbligatoria l'esperienza concreta.
Con la
sentenza
07.06.2019 n. 15514, la Corte di
Cassazione, Sez. lavoro, ha chiarito che, in materia di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, le attitudini e le capacità professionali
del candidato, opportunamente documentati, devono coesistere con la concreta
esperienza di lavoro di tipo dirigenziale o ad essa equiparabile, in ragione
della lettera dell’art. 19, comma 6, del Dlgs 165/2001 e della ratio legis.
Il fatto
Il caso giunto all’esame della Suprema Corte riguarda una procedura di
selezione pubblica per l’assunzione di un dirigente a tempo determinato, da
assegnare al servizio verde e tutela ambientale, indetta dal Comune di
Rovereto (Tn). Una partecipante alla procedura selettiva, a seguito della
pronuncia di difetto di giurisdizione del Trga, aveva adito il Tribunale di
Rovereto, contestando di aver appreso che il comune di Rovereto aveva
assegnato l’incarico, a suo parere illegittimamente, ad un altro
partecipante, senza che l’interessata fosse sottoposta ad alcun colloquio e
sulla base di una verifica dei curricula eseguita senza attribuire punteggi,
compiere comparazioni e predisporre verbali.
Il Tribunale aveva accolto la
domanda ed aveva disposto l’annullamento dell’atto di conferimento
dell’incarico, con conseguente risoluzione del contratto sottoscritto dal
vincitore, condannando l’Ente a ripetere la valutazione dei soli
partecipanti alla procedura in possesso dei requisiti di cui all’art. 19,
comma 6, Dlgs 165/2001.
La Corte d’Appello di Trento, con la sentenza n. 127/2012, ha rigettato
l’impugnazione proposta dal Comune di Rovereto avverso la sentenza emessa
dal giudice di prime cure, richiamando, anzitutto, l’art. 65, Dpr 670/1972,
che in materia di personale dei comuni impone a questi ultimi l’osservanza
dei principi generali fissati con leggi regionali e, nel caso di specie, di
conseguenza, con disposizioni legislative nazionali, considerato che la
potestà legislativa in materia di dirigenza è rimessa in via esclusiva allo
Stato.
Pertanto, ha confermato la decisione del Tribunale in ragione dei
principi enunciati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 324/2010 ed
evidenziando che, dall’interpretazione del citato art. 19 Dlgs 165/2001
vigente ratione temporis, la sussistenza del requisito professionale doveva
essere desunto anche da un’esperienza di tipo dirigenziale o ad essa
equiparabile, che il candidato vincitore non risultava avere maturato.
Le considerazioni della Corte
Prima di esaminare i motivi del ricorso, la Corte di Cassazione ha
evidenziato che nella procedura selettiva pubblica, indetta dal comune, tra
i requisiti era prescritto, oltre il titolo di studio, anche il requisito
professionale, che poteva essere integrato con esperienza di servizio di
almeno cinque anni presso pubbliche amministrazioni, oppure con mansioni
direttive presso Enti, aziende pubbliche o private, ovvero con l’aver
conseguito una particolare specializzazione professionale attestata dalla
formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni
scientifiche, ovvero nell’ambito della ricerca e/o della docenza
universitaria.
Inoltre, come stabilito dal Regolamento del comune di
Rovereto, il conferimento dell’incarico si doveva basare sulla valutazione
del curriculum e dei requisiti culturali e professionali, previo avviso al
pubblico contenente la funzione dirigenziale, i requisiti richiesti, il
trattamento economico base e il termine per la presentazione delle domande.
Passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo il comune ha
contestato, anche alla luce del quadro dei rapporti competenziali tra Stato
e Regione Autonoma Trentino-Alto Adige, come la Corte d’Appello avesse,
erroneamente, ricondotto il caso alla materia “ordinamento civile”, senza
considerare l’ordinamento degli Enti locali e la disciplina del relativo
personale, rimessi alla potestà legislativa regionale. Con il secondo ha
contestato il convincimento della Corte territoriale riguardo l’obbligo di
sussistenza di tutti i requisiti di cui all’art. 19, comma 6, in capo al
concorrente vincitore, che, diversamente, il comune riteneva alternativi.
Le conclusioni
La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto entrambi i motivi infondati. Anzitutto,
la fattispecie in esame, sebbene regolata dalle disposizioni contenute nel
Regolamento comunale, è anche soggetta al dettato dell’art. 19, comma 6, in
quanto la disciplina degli incarichi dirigenziali, per quanto attiene ai
profili normativi del rapporto, è materia attratta all’ordinamento civile e,
in quanto tale, rimessa alla potestà esclusiva dello Stato dall’art. 117,
comma 2, lett. l), Costituzione (cfr. Corte cost. n. 324/2010 e n. 62/2019).
Inoltre, come affermato dalla medesima Corte (v. Corte Cost. n. 231/2017, n.
77/2013), la competenza statale esclusiva in materia di “ordinamento civile”
vincola gli Enti ad autonomia differenziata anche con riferimento alla
disciplina del rapporto di lavoro con i propri dipendenti e ciò trova
conferma nella circostanza che, in materia di personale addetto agli uffici
regionali, la potestà legislativa primaria della Regione Trentino-Alto
Adige, ai sensi dell’art. 4 dello stesso Statuto, è esercitata nei limiti
dei “principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica”.
Altresì, la Corte d’Appello, nell’interpretare il citato art. 19, comma 6,
ha correttamente affermato che, in ragione della lettera della disposizione
e della ratio legis, nonché in ragione del confronto tra i testi normativi
succedutisi nel tempo, la concreta esperienza di lavoro doveva coesistere
con quella scientifica e doveva essere dirigenziale o ad essa equiparabile.
In sintesi, i requisiti stabiliti dal bando di selezione, che richiamava
l’art. 119 del Regolamento comunale, non erano conformi all’art. 19, comma
6, Dlgs 165/2001, vigente ratione temporis, con la conseguenza che è
stato ritenuto correttamente illegittimo il bando di selezione e la relativa
procedura, nonché l’atto di conferimento dell’incarico per il quale era
stato disposto l’annullamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.06.2019). |
APPALTI: Principio
di rotazione, nelle procedure negoziate la PA deve giustificare l'invito al
gestore uscente.
Nelle procedure negoziate ove la stazione appaltante intenda comunque
procedere all’invito del gestore uscente, dovrà puntualmente motivare tale
decisione, facendo, in particolare, riferimento al numero (eventualmente)
ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione
maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale, ovvero
all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento.
Lo stabilisce il Consiglio di Stato con la
sentenza
06.06.2019 n.
3831 della Sezione V.
Il caso
Il caso si riferisce ad una gara di servizi, svolta mediante procedura
negoziata per l’affidamento della manutenzione e riparazione di veicoli
comunali. Nella specie il ricorrente denunciava la violazione del principio
di rotazione fissato dall’articolo 36 del Dlgs n. 50 del 2016, stante
l’invito a partecipare alla procedura rivolto anche al gestore uscente.
Sia
il Giudice di primo grado che il Consiglio di Stato hanno ritenuto fondata
la censura accertando il mancato rispetto da parte della stazione appaltante
del principio in questione.
Nel caso di specie la stazione appaltante non ha palesato le ragioni che
l’hanno indotta a derogare al principio. Il che –a giudizio del Consiglio
di Stato– ha reso illegittima per ciò solo la procedura e l’aggiudicazione
del contratto al concorrente che non avrebbe dovuto partecipare.
La decisione
Il Consiglio di Stato ha chiarito che il principio di rotazione non è un
requisito soggettivo di partecipazione. Con esso non si contesta la qualità
di gestore uscente, bensì il mancato rispetto da parte della stazione
appaltante di un principio posto a presidio della trasparenza e della
concorrenza nei pubblici affidamenti.
Il principio, fissato dall’articolo 36 Dlgs n. 50/2016 per gli appalti sotto
soglia (quale, per l’appunto, l’appalto in esame), mira a evitare il crearsi
di posizioni di rendita anticoncorrenziali e a consentire, di contro,
l’apertura più ampia possibile del mercato agli operatori (si veda Tar
Veneto, Sezione I, sentenza n. 320/2018).
Per la giurisprudenza amministrativa il principio di rotazione si riferisce
propriamente non solo agli affidamenti ma anche agli inviti, orientando le
stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da
interpellare e da invitare per presentare le offerte, ed assumendo, quindi,
nelle procedure negoziate il valore di una sorta di contropartita al
carattere ‘fiduciario’ della scelta del contraente allo scopo di evitare che
il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di
favoritismo, e, infine, di assicurare l’avvicendamento delle imprese
affidatarie.
Quindi, è onere della stazione appaltante motivare adeguatamente in ordine
alla ricorrenza di elementi che, eccezionalmente, consentono di invitare il
gestore uscente e per i quali ritiene di non poter prescindere dall’invito.
In sostanza, ove l’Amministrazione si determini a invitare anche il
precedente gestore, deve spiegare l’apparente contrasto con il principio di
rotazione, poiché esso costituisce il contrappeso normativo alla massima
economicità e semplificazione procedimentale che caratterizza le procedure
informali e che, appunto, tende ad evitare che la posizione peculiare del
gestore uscente possa costituire ragione di reale o presunto favoritismo (si
veda Consiglio di Stato, sentenza n. 4661/2014)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2019).
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9.1. La censura è infondata.
9.2. Giova anzitutto richiamare la norma di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 50
del 2016, a mente del quale “l'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi
e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35
avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e
42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli
affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di
partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese”.
9.3. Alla luce del piano tenore letterale della norma non meritano
condivisione le critiche appuntate alla sentenza appellata in quanto
effettivamente il principio ivi affermato mira ad evitare il crearsi di
posizioni di rendita anticoncorrenziali in capo al contraente uscente (la
cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite
durante il precedente affidamento) e di rapporti esclusivi con determinati
operatori economici, favorendo, per converso, l’apertura al mercato più
ampia possibile sì da riequilibrarne (e implementarne) le dinamiche
competitive.
9.4. Il principio di rotazione si riferisce propriamente non solo agli
affidamenti ma anche agli inviti, orientando le stazioni appaltanti nella
fase di consultazione degli operatori economici da interpellare e da
invitare per presentare le offerte ed assumendo quindi nelle procedure
negoziate il valore di una sorta di contropartita al carattere “fiduciario”
della scelta del contraente allo scopo di evitare che il carattere
discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo (cfr.
Cons. di Stato, III, 12.09.2014, n. 4661, ove si rilevava che il
principio di rotazione non avesse ragion d’essere in rapporto alle concrete
caratteristiche della procedura in cui l’ente appaltante, pur avendo fatto
richiamo all’art. 125 del previgente codice dei contratti, aveva impostato
la procedura come una gara vera e propria, in ragione dell’ampissima
apertura al mercato e dell’elevatissimo numero di ditte invitate e, dunque,
senza alcuna discrezionalità né alcuna negoziazione) e di assicurare
l’avvicendamento delle imprese affidatarie.
Pertanto detto principio rotazione trova applicazione non solo per gli
affidamenti diretti sotto soglia (come sostiene l’appellante), ma anche per
le procedure negoziate di lavori, servizi e forniture negli appalti cd.
“sotto soglia” (quale è quello in esame), rispetto alle quali il principio
di rotazione è stato già ritenuto obbligatorio dalla giurisprudenza di
questo Consiglio.
9.5. Anche a voler conferire rilievo al fatto che il gestore uscente non sia
stato invitato alla procedura dalla stazione appaltante, ma abbia
partecipato per adesione spontanea, il dato si infrange irrimediabilmente
sul chiaro tenore testuale della norma citata che impone il rispetto del
principio di rotazione sia negli inviti, sia negli affidamenti, in modo da
assicurare l’effettiva (e più ampia) partecipazione delle imprese
concorrenti: sicché, anche in presenza di una manifestazione di interesse
del gestore uscente, la stazione appaltante ben avrebbe potuto (e dovuto),
in ossequio al disposto di cui all’art. 36 del D.Lgs. n. 50 del 2016, non
invitarlo alla procedura (o motivare adeguatamente in ordine alla ricorrenza
di elementi che, eccezionalmente, lo consentivano e per le quali riteneva di
non poter prescindere dall’invito.).
9.6. Risultano condivisibili i rilievi mossi all’operato
dell’Amministrazione comunale, nella misura in cui “non ha palesato le
ragioni che l’hanno indotta a derogare a tale principio”: ciò in linea con i
principi giurisprudenziali per cui “ove la stazione appaltante intenda
comunque procedere all’invito di quest’ultimo (il gestore uscente), dovrà
puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al
numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado
di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale
ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal
senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale
anticorruzione, linee guida n. 4)” (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2017, n. 5854; id., Sez. V,
03.04.2018, n. 2079; id., Sez. VI,
31.08.2017, n. 4125).
9.7. Nella fattispecie in esame, per vero, in disparte l’assenza di
giustificazione sulla deroga al principio in questione, non ricorreva
neanche l’ipotesi di un numero ridotto di operatori economici presenti sul
mercato (avendo lo stesso Comune, per sua stessa ammissione, provveduto a
implementare l’elenco dei partecipanti sino a dieci operatori, numero che
tuttavia non costituiva indice di un’effettiva apertura al mercato tale da
rendere non pertinente il richiamo alla rotazione), risultando pure
irrilevanti, e comunque inidonei a compensare la mancata osservanza del
principio di rotazione (funzionale, come si è detto, ad assicurare i
principi di concorrenzialità e massima partecipazione degli operatori
economici alle procedure di affidamento), gli accorgimenti procedurali
predisposti dalla stazione appaltante (quali l’esperimento della procedura
in via telematica attraverso la piattaforma digitale, la pubblicazione
dell’avviso pubblico, l’espletamento di una preventiva indagine di mercato).
Infatti, come chiarito dalla richiamata giurisprudenza, il suddetto avviso
non costituisce atto di indizione di una procedura di gara concorsuale, ma
un’indagine conoscitiva di mercato non vincolante tesa ad individuare
operatori economici da invitare alla successiva procedura negoziata sicché,
già nella fase successiva dell’invito, per espressa statuizione dell’art. 36
del d.lgs. n. 50 del 2016, si innesta la regola dell’esclusione del gestore
uscente: in definitiva, lo strumento della manifestazione di interesse, pur
strumentale a garantire la più ampia partecipazione possibile agli operatori
economici da invitare, non rende affatto superflua la rotazione.
9.8. A ciò si aggiunga poi che, come chiarito dalla giurisprudenza,
la norma
in oggetto da un lato non si pone in contrasto con i principi di cui
all’art. 41 Cost. in quanto “in senso contrario è dirimente rilevare che
l’art. 36 cit. contiene una norma pro-competitiva che favorisce l’ingresso
delle piccole e medie imprese nei mercati ristretti, e che comprime, entro i
limiti della proporzionalità, la parità di trattamento che va garantita
anche al gestore uscente, al quale -salvo motivate eccezioni- si impone
soltanto di “saltare” il primo affidamento, di modo che alla successiva gara
esso si ritrovi in posizione paritaria con le altre concorrenti”, dall’altro
garantisce quelli di cui all’ art. 97 Cost, poiché “l’aumento delle chances
di partecipazione dei competitors “esterni” (assicurata dal principio di
rotazione) favorisce l’efficienza e l’economicità dell’approvvigionamento
dei servizi” (Cons. Stato, Sez. VI, 31.08.2017, n. 4125).
10. Il secondo motivo di appello è, invece, incentrato sulla pretesa tardività dell’impugnazione della censura inerente la violazione del
principio di rotazione ex art. 36 del d.lgs. n. 50 del 2016, censura che,
pur conosciuta dal Consorzio sin dalla partecipazione del precedente
aggiudicatario e dal momento in cui l’Amministrazione aveva formalizzato e
pubblicato l’elenco degli operatori economici da invitare alla procedura
negoziata, è stata proposta solo con il ricorso per motivi aggiunti ed oltre
il termine di trenta giorni previsto dall’art. 120, comma 2-bis c.p.a.: alla
fallace conclusione di infondatezza dell’eccezione il giudice di prime cure
sarebbe pervenuto ritenendo erroneamente che il principio di rotazione negli
inviti non integrerebbe un requisito di partecipazione.
10.1. Anche tale motivo è infondato.
10.2. Il principio di rotazione non è un requisito soggettivo di
partecipazione: invero ciò che si contesta non è certo la qualità di gestore
uscente, nota sin dall’inizio alla ricorrente, né quindi il difetto del
corrispondente requisito negativo soggettivo, bensì il mancato rispetto da
parte della stazione appaltante di un principio, quello di rotazione, posto
a presidio della trasparenza e della concorrenza nei pubblici affidamenti.
La pretesa applicabilità della disciplina e dei termini di impugnazione del
rito super-accelerato, in assenza dei presupposti di legge, non può dunque
inferirsi dall’assunto di parte appellante, secondo cui la lesione
dell’interesse degli altri operatori emergerebbe nella sua portata concreta
già al momento dell’invio delle lettere di invito: tanto più poi che, nel
caso di specie, il verbale del 09.11.2017 (recante l’aggiudicazione
provvisoria a M&D) risultava sprovvisto, come evidenziato, di qualsivoglia
motivazione (secondo quanto invece richiesto ai fini del decorso dei termini
dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.) in ordine all’invito e all’ammissione
del gestore uscente.
10.3. Anche in relazione a tale profilo è pertanto corretta la motivazione
della sentenza impugnata lì dove, muovendo dal carattere eccezionale del
rito ex art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm. applicabile esclusivamente
alle ipotesi ivi previste ovvero “le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei
requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico professionali”,
conclude per la deducibilità della violazione del principio in esame, non
integrante un requisito di partecipazione e soggetto all’ordinaria
condizione dell’interesse ad agire, solo con l’atto conclusivo della
procedura (id est: con l’aggiudicazione dell’appalto ad altra concorrente).
11. Parimenti non meritano favorevole considerazione le critiche appuntate e
proposte in via autonoma dall’appellante incidentale avverso il capo della
sentenza appellata che ha disposto la mera riattivazione della procedura e
non l’aggiudicazione diretta in favore del Consorzio, in relazione
all’esercizio di residui poteri discrezionali, che nella fattispecie ancora
sussistono, dovendo la stazione appaltante provvedere ad effettuare la fase
di verifica dei requisiti prima di procedere all’aggiudicazione definitiva:
tale atto potrà essere adottato in presenza dei presupposti di legge e
previa verifica, da parte della stazione appaltante, circa la sussistenza
dei requisiti di capacità economica finanziaria e tecnico professionale in
capo all’odierna appellata.
12. Corretta risulta poi la sentenza nella parte in cui non ha ritenuto
riconoscibile alcun risarcimento del danno per equivalente monetario, ben
potendo il Consorzio appellante incidentale ancora acquisire il bene della
vita (l’aggiudicazione della procedura cui aspira): il Comune non ha infatti
dato seguito nelle more del giudizio di primo grado alla stipula del
contratto con M&D.
13. Il rigetto dell’appello principale esime la Sezione dall’esame dei
motivi del ricorso incidentale proposti in subordine, da ritenersi
assorbiti, dovendo al riguardo osservarsi, per mera completezza, che le
censure dedotte con tali mezzi risultano comunque infondate per le
motivazioni già esposte nelle precedenti decisioni di questa Sezione (rese
in casi analoghi su ricorso in appello dello stesso Consorzio odierno
appellato) a cui integralmente si rinvia (Cons. di Stato, V, 18.02.2019, n. 1099; V, 24.01.2019, n. 605) nelle quali si è affermata la
legittimità del ricorso al criterio del prezzo più basso in gare analoghe
stante la natura standardizzata delle prestazioni oggetto dell’appalto e non
ricorrendo nella fattispecie neppure un servizio ad alta intensità di
manodopera, risultando pure assolto l’onere motivazionale sulle ragioni
della scelta di tale criterio.
14. Per le ragioni esposte, gli appelli, principale e incidentale, vanno
entrambi respinti. |
EDILIZIA PRIVATA: Per ius
receptum, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, per la sua natura di
atto urgente dovuto e rigorosamnte vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè,
su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto
interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in
relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso,
posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni
definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive;
Tanto più
che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare
applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non
annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento,
qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente
enucleato.
---------------
12. Privo di pregio è, ancora, l’ordine di doglianze volto a denunciare
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento repressivo-ripristinatorio
e dell’invito a conformare le attività contestate alla normativa violata (cfr.
retro, sub n. 3.a).
12.1. Sotto il primo profilo, è qui sufficiente rammentare che, per ius
receptum, l’ingiunta misura repressivo-ripristinatoria, per la sua natura di
atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè,
su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo del soggetto
interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo (nella
specie, peraltro, reso avveduto delle contestazioni rivoltegli mediante
l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 8 del 21.01.2008: sul punto, cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 4533/2017; n. 399/2019; TAR
Campania, Napoli, sez. VIII, n. 4272/2011; sez. II, n. 1082/2012; sez. VI,
n. 2368/2017; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 7156/2018), il quale, in
relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso,
posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni
definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più
che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare
applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non
annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento,
qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente
enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, n. 6071/2012; sez.
VI, n. 2873/2013; n. 4075/2013; sez. V, n. 3438/2014; sez. III, n.
2411/2015; sez. VI, n. 3620/2016; TAR Campania, Napoli, sez. III, n.
107/2015; Salerno, sez. II, n. 69/2015; Napoli, sez. IV, n. 685/2015; sez.
II, n. 1534/2015; Salerno, sez. II, n. 664/2015; n. 1036/2015; Napoli, sez.
III, n. 4392/2015; n. 4968/2015; sez. VIII, n. 1767/2016; sez. IV, n.
4495/2016; n. 4574/2016; sez. III, n. 121/2017; n. 677/2017; sez. VI, n.
995/2017; sez. IV, n. 2320/2017; sez. VIII, n. 4122/2017; sez. III, n.
5967/2017; Salerno, sez. II, n. 24/2018; Napoli, sez. III, n. 898/2018; n.
1093/2018; sez. IV, n. 1434/2018; n. 1719/2018; n. 2241/2018; TAR Lazio,
Roma, sez. I, n. 2098/2015; n. 10829/2015; n. 10957/2015; n. 2588/2016; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, n. 1708/2016; n. 1552/2017)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 05.06.2019 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rimessa
alla Consulta la questione delle progressioni interne a posizioni
organizzative.
Con l’ordinanza
03.06.2019 n. 7067, il TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter, ha sottoposto alla Corte questioni di
legittimità costituzionale riguardo:
1. l’articolo 1, comma 93, lettere a), b), c) e d), della Legge
205/2017, in quanto l’istituzione di posizioni organizzative nuove,
caratterizzate da marcati poteri di natura dirigenziale e destinate ad
essere ricoperte con procedure selettive interne, potrebbe risultare elusiva
del giudicato scaturente dalla sentenza della Corte Costituzionale n.
37/2015, con possibile violazione dell’art. 136 della Costituzione;
2. l’articolo 1, comma 93, lettere a), b), c) e d), della Legge
205/2017, perché le posizioni organizzative prefigurate dal legislatore, per
le funzioni ed il trattamento giuridico ed economico ad esse connesso,
integrerebbero una vera e propria progressione di carriera alla quale
dovrebbe accedersi con concorso pubblico e non con una selezione interna,
con possibile violazione degli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione;
3. l’art. 1, comma 93, lettera e), Legge 205/2017, poiché le deroghe
alla disciplina ordinaria per l’accesso alla qualifica dirigenziale previste
dalla disposizione in esame –e relative all’esonero dalla prova preselettiva, alla valutazione di titoli in relazione alle esperienze
lavorative pregresse e alla riserva di posti in favore degli interni nella
misura fino al 50% dei posti messi a concorso– attribuirebbero un vantaggio
competitivo ingiustificato in favore degli interni destinatari di funzioni
dirigenziali delegate, o di incarichi di posizione organizzative speciali, e
si porrebbero in contrasto con gli artt. 3, 51, 97 e 136 della Costituzione.
La rilevanza della questione, anche in riferimento alla prospettata
illegittimità propria dell’art. 12 del Regolamento, deriva dal fatto che la
questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto la norma attributiva
del potere, mentre l’ipotetico annullamento per il vizio proprio dell’atto
non sarebbe completamente satisfattivo per la parte ricorrente, residuando
la rilevanza della questione in relazione alla prospettata illegittimità
delle deroghe alla disciplina per l’accesso alla carriera dirigenziale.
Da un lato, emerge la prassi dell’Amministrazione di reiterare il
conferimento di incarichi dirigenziali a propri funzionari, avvalendosi di
un’apposita norma regolamentare poi annullata in sede giurisdizionale,
dall’altro l’introduzione della previsione legislativa censurata, il cui
vero obiettivo è rivelato dal secondo periodo della norma in questione, ove,
da un lato, si fanno salvi i contratti stipulati in passato tra le Agenzie e
i propri funzionari, dall’altro si consente ulteriormente che, nelle more
dell’espletamento delle procedure concorsuali, da completare entro il 31.12.2013, le Agenzie attribuiscano incarichi dirigenziali a propri
funzionari, mediante la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato,
la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura
del posto vacante tramite concorso.
Conseguentemente, la Corte ha ritenuto l’articolo 8, comma 24, Dl 16/2012
costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 51 e 97
Costituzione, avendo contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di
un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza
provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei
vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica.
Ma ciò che maggiormente viene in rilievo, ai fini della valutazione di non
manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, è che,
indubbiamente, la posizione organizzativa disciplinata dall’art. 1, comma
93, lettere a), b), c) e d), Legge 205/17 costituisce una vera e propria
progressione di carriera verticale per i dipendenti appartenenti alla terza
area, proprio perché la nuova funzione è caratterizzata dall’esercizio di
poteri non riconducibili all’area in esame.
Con la sentenza n. 37/2015, la Corte Costituzionale ha precisato che non
solo il conferimento di incarichi dirigenziali, ma anche il passaggio ad una
fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro
corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura
di reclutamento, alla regola del pubblico concorso». Anche un nuovo
inquadramento di dipendenti già in servizio, pertanto, è soggetto alla
regola del pubblico concorso (Corte Cost. n. 217/2012). Secondo il Tar, l’art.
93, comma 1, lettera e) della Legge n. 205/2017, nella parte in cui prevede
l’esonero dalla prova preselettiva per i dipendenti interni correlata ad
un’elevata riserva di posti in favore dei dipendenti medesimi:
- risulta non coerente con il principio della necessità del pubblico
concorso, di cui agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, in quanto
attribuisce una posizione privilegiata nell’accesso ai dipendenti interni
non logica, anche alla luce della contestuale previsione di una cospicua
riserva di posti;
- si pone in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3
della Costituzione, perché l’esonero dalla prova preselettiva è previsto non
solo per coloro che sono in possesso di particolari requisiti di
qualificazione, derivanti dalla natura dell’attività svolta (nella
fattispecie identificata con l’espletamento per due anni di funzioni
dirigenziali e, comunque, di incarichi di responsabilità), ma anche per
coloro che vantano la sola anzianità decennale nella terza area alle
dipendenze delle Agenzie fiscali e ciò può costituire un’ingiustificata
discriminazione rispetto ad altri dipendenti di altre amministrazioni in
possesso di analoghi requisiti;
- si pone in contrasto anche con il principio di buon andamento
dell’attività amministrativa, oggetto dell’art. 97 della Costituzione, in
quanto l’esonero non risponde né all’esigenza di agevolare la speditezza
della procedura concorsuale né di selezionare, comunque, sulla base di
criteri obiettivi, i candidati più meritevoli
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il
consigliere comunale revocato non può essere risarcito per il danno
all'immagine.
Quando la percezione collettiva viene influenzata
dall’irrompere di eventi di natura penale ovvero dalla presenza di indagini
sfociate in arresti e processi in sede penale, in relazione a fatti di
notevole allarme sociale, oltre che rilevanti per la dimensione politica del
reo, il Consigliere comunale revocato per tali fatti non può accedere ad
alcun risarcimento per danno all’immagine.
Questa è la tesi emergente dalla
sentenza 03.06.2019 n. 3731
del Consiglio di Stato, Sez. III.
Il fatto
Con decreto del ministro dell’Interno veniva rimosso dalla carica un
Consigliere comunale in conseguenza di due ordinanze di custodia cautelare,
emesse dal Tribunale del luogo, per fatti di concussione.
Entrambe le misure cautelari venivano, poi, successivamente revocate dal
Tribunale del riesame, con due separate ordinanze.
Il provvedimento di revoca veniva impugnato dinanzi al Giudice
amministrativo che lo annullava e, successivamente, l’interessato proponeva
un nuovo ricorso dinanzi al Tar, per chiedere la condanna del ministero
dell’Interno al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali
subiti per l’effetto del provvedimento amministrativo dichiarato illegittimo
dal Tar.
La richiesta di risarcimento veniva respinta; il rigetto è stato confermato
con la sentenza in rassegna.
La decisione
Il Collegio giudicante non ha ravvisato la possibilità di stabilire un
risarcimento da danno non patrimoniale per atto amministrativo illegittimo.
In conformità alla decisione di primo grado, il Consiglio di Stato ravvisa
che deve tenersi conto del condivisibile orientamento giurisprudenziale
secondo cui, in casi analoghi, il risarcimento del danno derivante dalla
mancata percezione dell'indennità di carica è destituito di fondamento, in
quanto la corresponsione di tale emolumento è correlata all'effettivo
svolgimento delle funzioni di Consigliere comunale, allo scopo di compensare
le eventuali diminuzioni patrimoniali subite, con riferimento all'esercizio
dell'attività lavorativa propria del Consigliere, impegnato nelle sedute
assembleari.
In ogni caso, immediatamente dopo l’adozione del provvedimento lesivo nei
confronti del ricorrente, l’intero Consiglio comunale era stato sciolto, per
cui era evidente che, anche se non fosse mai stato adottato il provvedimento
individuale di revoca, il Consigliere non avrebbe potuto più percepire
l’indennità, essendo venuto meno l’organo collegiale di cui avrebbe dovuto
continuare a far parte.
Conclusioni
Quanto al danno all’immagine, il Consiglio di Stato ha rimarcato che il
pregiudizio all’immagine e alla carriera politica, più che dal provvedimento
ministeriale di rimozione dal Consiglio comunale, è derivato dai
procedimenti penali nei quali il revocato è stato coinvolto, oltre che dalle
ordinanze di custodia cautelare che l’hanno colpito in una fase storica
nella quale vicende simili hanno compromesso l’immagine e la carriera
politica della maggior parte degli esponenti politici dell’epoca, in
conseguenza di un sentimento ampiamente diffuso nell’opinione pubblica che,
comunque lo si voglia giudicare, ha provocato un profondo rivolgimento
politico e istituzionale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.07.2019). |
APPALTI SERVIZI: L’art.
212 del D.Lgs. n. 152/2006 (Norme in materia ambientale) al comma 5 così
testualmente dispone: “L’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento
delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica dei siti, di
bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio e di intermediazione dei
rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi”.
Sicché, partecipando ad una gara d'appalto ed in carenza di tale iscrizione,
non può che conseguire l’esclusione dalla gara stessa per carenza di un
requisito abilitativo per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporto
rifiuti, rientrante nel novero dei requisiti speciali di idoneità
professionale in relazione alle attività oggetto di appalto, che, come
affermato dalla giurisprudenza e dall’Autorità Nazionale Anticorruzione,
costituisce requisito di partecipazione alla gara (e, come tale, va
posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte), e
non soltanto di esecuzione del servizio.
Pertanto, nel caso di appalto avente ad oggetto le attività di cui all’art.
212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, anche a voler ritenere che la stazione
appaltante non avesse previsto nella legge di gara tra i requisiti di
partecipazione quello dell’iscrizione all’Albo in parola, la disciplina di
gara, avuto riguardo allo specifico oggetto dell’appalto, dovrebbe ritenersi
automaticamente etero-integrata dal diritto nazionale vigente, colmandosi le
lacune del provvedimento adottato dalla Pubblica Amministrazione secondo un
meccanismo analogo a quello di cui agli artt. 1374 e 1339 c.c.
Sarebbe quindi irrilevante la collocazione nel Capitolato della richiesta
del requisito che doveva essere posseduto anche a prescindere da una
specifica previsione nella lex specialis.
---------------
Il requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali è un requisito
di natura soggettiva relativo alla idoneità professionale degli operatori a
norma dell’art. 83, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016, e costituisce
titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti
dei rifiuti pericolosi e non, sì che “il relativo possesso determina quindi
l’abilitazione soggettiva all’esercizio della professione e costituisce
pertanto, un requisito che si pone a monte dell'attività di gestione dei
rifiuti, pacificamente rientrando nell’ambito dei requisiti di
partecipazione e non di esecuzione”, risultando poi la presenza soggettiva
di siffatto requisito per poter concorrere a gare aventi ad oggetto dette
attività “conforme all’immanente principio di ragionevolezza e di
proporzionalità – in specie, quanto a necessarietà e adeguatezza”.
---------------
5.1. Come esposto in narrativa l’appellante ripropone con l’odierno gravame
solo le censure attinenti all’asserita carenza del requisito dell’iscrizione
all’Albo dei Gestori Ambientali in capo al RTI aggiudicatario, impugnando le
relative statuizioni della sentenza di prime cure che hanno respinto il
motivo sul presupposto che venisse in rilievo un mero requisito di
esecuzione ( richiesto “nell’ambito dell’appalto e delle attività
relative alla gestione dei rifiuti in esso comprese”), non necessario ai
fini della ammissione alla gara: ciò si ricaverebbe, ad avviso del primo
giudice, dalla previsione del requisito in esame nel solo Capitolato, e
dalla circostanza che la lex specialis, non impugnata sul punto dalla
ricorrente, non lo indicasse espressamente tra quelli richiesti, a pena di
esclusione, per la partecipazione alla gara; sotto altro concorrente
profilo, sarebbe poi dirimente il riferimento contenuto nel Capitolato
all’impresa appaltatrice (il che presupporrebbe appunto l’intervenuta
aggiudicazione) e la possibilità di delega del servizio di trasporto dei
rifiuti (per la quale era richiesta l’iscrizione all’Albo nella categorie 4F
e 5F) ad un’impresa terza (di cui la ditta appaltatrice può appunto
avvalersi).
5.2. L’appellante contesta una siffatta ricostruzione, rilevando anzitutto
come la circostanza che oggetto dell’appalto in questione fosse, tra
l’altro, anche l’attività di raccolta dei rifiuti e trasporto di essi presso
gli impianti di smaltimento imponesse l’applicazione alla fattispecie
dell’art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale) che
al comma 5 così testualmente dispone: “L’iscrizione all’Albo è requisito
per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di
bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio e
di intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi”.
5.3. Conformemente a tale previsione di legge, pertanto, il Capitolato,
integrando sul punto il bando, ha richiesto che le concorrenti fossero in
possesso del requisito minimo dell’iscrizione all’Albo dei Gestori
Ambientali categoria 2-bis, nonché 4F e 5F (pag. 65): in particolare
l’operatore economico avrebbe dovuto essere in possesso della categoria
2-bis richiesta dal D.M. n. 120 del 03.06.2014 per il produttore di rifiuti
(che è per l’appunto l’operatore economico affidatario della commessa),
nonché delle ulteriori categorie 4F e 5F richieste per l’operatore economico
che effettua l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi
(categoria 4) e pericolosi (categoria 5); solo per tali ultime due categorie
(4F e 5F) il Capitolato avrebbe consentito, sempre ad avviso
dell’appellante, che, qualora l’attività di raccolta e trasporto rifiuti
pericolosi fosse stata svolta in regime di subappalto, fosse il
subappaltatore a possedere l’iscrizione, fermo restando l’obbligo in capo
all’operatore economico concorrente di possedere (ai fini della
partecipazione alla gara) comunque il requisito dell’iscrizione nell’Albo
Gestori Ambientali per la categoria 2-bis.
5.4. Sennonché nella specie né la mandatari I.C. Se. né la mandante Il Ri.
erano iscritte nell’Albo: da qui non poteva che conseguire, secondo La Lu.,
l’esclusione dalla gara per carenza di un requisito abilitativo per
l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporto rifiuti, rientrante nel
novero dei requisiti speciali di idoneità professionale in relazione alle
attività oggetto di appalto, che, come affermato dalla giurisprudenza (Cons.
di Stato, Sez. V, 22.10.2018, n. 6032; id., V, 19.04.2017, n. 1825) e
dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (delibera ANAC del 28.03.2018, n
324), costituisce requisito di partecipazione alla gara (e, come tale, va
posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte), e
non soltanto di esecuzione del servizio.
5.5. Pertanto, nel caso di appalto avente ad oggetto le attività di cui
all’art. 212 del D.Lgs. n. 152 del 2006, anche a voler ritenere che la
stazione appaltante non avesse previsto nella legge di gara tra i requisiti
di partecipazione quello dell’iscrizione all’Albo in parola, la disciplina
di gara, avuto riguardo allo specifico oggetto dell’appalto, dovrebbe
ritenersi automaticamente etero-integrata dal diritto nazionale vigente,
colmandosi le lacune del provvedimento adottato dalla Pubblica
Amministrazione secondo un meccanismo analogo a quello di cui agli artt.
1374 e 1339 c.c.
5.6. Sarebbe quindi irrilevante la collocazione nel Capitolato della
richiesta del requisito che doveva essere posseduto anche a prescindere da
una specifica previsione nella lex specialis.
...
6.1. Devono anzitutto richiamarsi le
previsioni di cui all’art. 212, comma 5 e 6, del d.lgs. 152 del 2006 recante
Norme in materia ambientale (di seguito “T.U.A.” o “Codice dell’ambiente”)
in base alle quali: “L'iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento
delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da
terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti,
di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei
rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti
di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di
impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti, nei limiti di cui
all'articolo 208, comma 15. Sono esonerati dall'obbligo di cui al presente
comma le organizzazioni di cui agli articoli 221, comma 3, lettere a) e c),
223, 224, 228, 233, 234, 235 e 236, a condizione che dispongano di evidenze
documentali o contabili che svolgano funzioni analoghe, fermi restando gli
adempimenti documentali e contabili previsti a carico dei predetti soggetti
dalle vigenti normative.
6. L'iscrizione deve essere rinnovata ogni cinque anni e costituisce titolo
per l'esercizio delle attività di raccolta, di trasporto, di commercio e di
intermediazione dei rifiuti; per le altre attività l'iscrizione abilita alla
gestione degli impianti il cui esercizio sia stato autorizzato o allo
svolgimento delle attività soggette ad iscrizione.”
6.2. Richiamate tali previsioni, giova in primo luogo evidenziare come vero
è che, in base al consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa che la Sezione condivide ed a cui intende dare continuità, il
requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali è un requisito di
natura soggettiva relativo alla idoneità professionale degli operatori a
norma dell’art. 83, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016, e costituisce
titolo autorizzatorio per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti
dei rifiuti pericolosi e non, sì che “il relativo possesso determina
quindi l’abilitazione soggettiva all’esercizio della professione e
costituisce pertanto, un requisito che si pone a monte dell'attività di
gestione dei rifiuti, pacificamente rientrando nell’ambito dei requisiti di
partecipazione e non di esecuzione” (Consiglio di Stato, Sez. V,
22.10.2018, n. 6032), risultando poi la presenza soggettiva di siffatto
requisito per poter concorrere a gare aventi ad oggetto dette attività “conforme
all’immanente principio di ragionevolezza e di proporzionalità – in specie,
quanto a necessarietà e adeguatezza” (Cons. di Stato, V, 19.04.2017, n.
1825)
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.06.2019 n. 3727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono in modo incontrollato dei rifiuti -
Associazione dilettantistica senza scopo di lucro -
Associazione di tiro a volo - Nozione di Ente - Condotta di
abbandono - Illecita gestione - Attività di smaltimento
mediante combustione - Condotta sanzionata riferibile a
chiunque - In assenza di titolo abilitativo - Assoluta
occasionalità - Differenza tra artt. 256, comma 2 e 256,
comma 1, lett. b), d.lgs. 152/2006 n. 152/2006.
Si configurano i reati di cui agli artt.
256, comma 2 e 256, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152/2006,
nei confronti del presidente di un'associazione di tiro a
volo, per abbandono in modo incontrollato dei rifiuti nelle
aree dove viene svolta l'attività di tiro ed in quelle
limitrofe, quali piattelli rotti, borre, bossoli di cartucce
vuote e pallini in piombo ed, inoltre, nella fattispecie,
per aver illecitamente smaltito mediante combustione parte
di tali rifiuti.
Pertanto, nella nozione di enti cui fa riferimento l'art.
256, comma 2, d.lgs. n. 152/2006 rientrano anche le
associazioni ed integra il reato sanzionato da tale
disposizione l'abbandono, da parte del rappresentante di
un'associazione sportiva dilettantistica di tiro al volo dei
rifiuti derivanti da tale attività. Tali considerazioni
valgono esclusivamente per la condotta di abbandono, mentre
per ciò che attiene all'illecita gestione, pure contestata
per lo smaltimento mediante combustione, ciò che rileva è la
mera mancanza di titolo abilitativo, atteso che, riguardo al
reato di cui all'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, si è
chiarito come la condotta in esso sanzionata sia riferibile
a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo
abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili
ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216
del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o
consequenziale all'esercizio di una attività primaria
diversa, che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli
abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità
(Sez. 3, n. 29992 del 24/6/2014, P.M. in proc. Lazzaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2019 n. 23794 - link a www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Cantieri - Prevenzione degli infortuni sul lavoro -
Lavorazioni da eseguire ad altezza superiore ai due metri -
Obbligo di parapetti, impalcature, ponteggi o altre opere -
Sostituzione con uso di cinture di sicurezza - Impossibilità
- Attuazione della direttiva 92/57/CEE concernente le
prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei
cantieri temporanei o mobili - Fattispecie.
L'obbligo del datore di lavoro, nel caso
di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di
apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre
opere provvisionali non può essere sostituito dall'uso delle
cinture di sicurezza, previsto solo sussidiariamente o in
via complementare.
Sicché, in tema di infortuni sul lavoro, l'uso delle cinture
di sicurezza -misura di carattere generale e imperativo-
deve essere adottato in tutti i casi in cui il lavoratore
sia esposto al rischio di caduta dall'alto, con la sola
esclusione della ipotesi di presenza di impalcati di
protezione e di parapetti idonei a scongiurare del tutto il
rischio di caduta: ne consegue che l'esonero dalla
protezione delle cinture non è previsto allorché tali
parapetti siano idonei soltanto a facilitare il lavoro, o,
tutt'al più, ad attenuare soltanto il rischio.
...
Cantiere e piani di sicurezza (PSC, POS, PSS) -
Responsabilità del datore di lavoro o del committente,
appaltatore o del concessionario - Responsabile dei lavori e
sicurezza - Sussistenza - Giurisprudenza.
I vari piani di sicurezza (Piano di
Sicurezza e Coordinamento (i cui contenuti minimi sono
definiti dagli artt. 2, 3 e 4, d.P.R. 222/2003), redatto dal
committente o dal responsabile dei lavori; il Piano di
Sicurezza Sostitutivo, redatto a cura dell'appaltatore e del
concessionario; il Piano Operativo di Sicurezza, redatto da
ciascun datore di lavoro delle imprese esecutrici) sono
strumenti che non si sostituiscono, ma si integrano,
nell'ottica di una sicurezza del cantiere che il legislatore
tende a garantire sempre con maggiore rigore.
La giurisprudenza ha delineato gli ambiti di responsabilità
anche del committente
(dal quale, peraltro, non può esigersi un controllo
pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e
sull'andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto
quale sia stata l'incidenza della sua condotta
nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei
lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da
eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la
scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua
ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o
del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed
immediata percepibilità, da parte del committente, di
situazioni di pericolo; tra le altre, Sez. 4, n. 27296 del
02/12/2016, Vettor, Rv. 270100; Sez. 4, n. 44131 del
15/07/2015, Heqimi, Rv. 264974), senza
tuttavia rimuovere alcun profilo di responsabilità in capo
al datore di lavoro, primo destinatario della posizione di
garanzia nei confronti dei propri dipendenti, allorquando -
anche a fronte di competenze altrui - destini gli stessi a
mansioni oggettivamente pericolose, in ragione del generale
contesto in cui si svolgono.
...
Infortuni sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro -
Comportamento negligente o imprudente del lavoratore -
Irrilevanza - Cautele insufficienti.
In tema di infortuni sul lavoro, non
vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il
comportamento negligente del lavoratore infortunato che
abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da
ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che,
se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il
rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente
(Sez. 4, n. 7364 del 14/01/2014, Scarselli: fattispecie
relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore
nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla
configurabilità della responsabilità del datore di lavoro
che non aveva predisposto un'idonea impalcatura -"trabattello"-
nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non
facendo uso dei tiranti di sicurezza) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.05.2019 n. 23140 - link a www.ambientediritto.it). |
VARI: Notaio
non responsabile se omette le visure ipotecarie poiché esonerato dalle
parti.
Il notaio incorre in responsabilità professionale se non
adempie correttamente la propria prestazione, atteso che la dovuta diligenza
non si sostanzia solo nella redazione dell’atto richiesto dalle parti, ma
comprende anche le cd. attività preparatorie (tra le quali rientra il
compimento delle visure catastali e ipotecarie).
Tuttavia, detta responsabilità è esclusa qualora le parti, per ragioni
d’urgenza, lo abbiano da ciò espressamente esonerato.
---------------
1. Ro.Cr. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, il notaio Fe.
De Pa. e —sulla premessa di aver acquistato, con scrittura privata
autenticata dal convenuto, alcune porzioni immobiliari che erano risultate
poi gravate da ipoteca giudiziale, sicché ella si era vista costretta a
versare l'ulteriore somma di curo 330.000 per liberare gli immobili— chiese
che il professionista fosse condannato al risarcimento dei relativi danni.
Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda e condannò l'attrice al pagamento delle
spese di giudizio, rilevando che le parti avevano, con apposita previsione
del contratto di compravendita, esonerato il notaio dalle verifiche
ipotecarie e catastali.
...
Tanto premesso, il Collegio rileva che la Corte romana ha correttamente
richiamato il precedente di cui alla sentenza 13.06.2013, n. 14865, il
quale, inserendosi in un orientamento che può definirsi consolidato, ha
stabilito che il notaio incorre in responsabilità
professionale qualora non adempia correttamente la propria prestazione; tale
dovuta diligenza non si espleta solo nella redazione dell'atto richiesto
dalle parti, ma comprende anche le c.d. attività preparatorie (tra cui il
compimento delle visure catastali e ipotecarie); tale responsabilità è però
da escludere qualora tutte le parti che procedono alla stipula lo abbiano
espressamente esonerato da tali attività.
Nella specie la Corte di merito, con un accertamento in fatto non più
riesaminabile in questa sede, ha verificato che le parti avevano
esplicitamente esonerato il notaio dall'onere di compiere le dovute visure
ipotecarie e catastali, per ragioni improrogabili di urgenza; e che non era
stato dimostrato in alcun modo che il notaio fosse già a conoscenza
dell'esistenza di formalità pregiudizievoli (v., in tal senso, la sentenza
02.07.2010, n. 15726), mentre l'attrice non aveva dimostrato che per le
visure il notaio avesse ugualmente ricevuto un compenso.
A fronte di tale motivazione le argomentazioni della ricorrente, generiche e
comunque ripetitive di quelle già poste in sede di merito, ipotizzando anche
che il notaio non abbia dimostrato la correttezza del suo comportamento, si
rivelano non idonee a superare la ratio decidendi della sentenza
impugnata e tendenti ad ottenere in questa sede un nuovo e non consentito
esame del merito.
2. Il ricorso, pertanto, è rigettato (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 24.05.2019 n.
14169). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del
giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98,
comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati
previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle
violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e
non anche per le violazioni meramente formali.
---------------
In tema di reati edilizi, il conseguimento
del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla
normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio.
---------------
E' pur vero che l'ordine di
demolizione può essere irrogato
solo per le violazioni sostanziali e non per quelle formali: «In
tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del
giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98,
comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati
previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle
violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e
non anche per le violazioni meramente formali»
(Sez. 3, n. 6371 del 07/11/2013 - dep. 11/02/2014, De Cesare, Rv. 25889901).
Ma questo è rilevante prima dell'ordine di demolizione di cui alla sentenza
di condanna; successivamente l'adeguamento alla normativa antisismica, per
la revoca dell'ordine di demolizione, deve risultare completo.
Infatti il permesso di costruire in sanatoria comporta l'estinzione dei
reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche ma non anche di
quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato
cementizio: «In tema di reati edilizi, il conseguimento
del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla
normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio»
(Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017 - dep. 07/08/2017, Rizzo, Rv. 27079201;
vedi anche Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018 - dep. 07/12/2018, CARDELLA LUCA,
Rv. 27421201 e Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017 - dep. 13/03/2018, Franchino
e altri, Rv. 27254601)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
23.05.2019 n. 22580). |
ENTI LOCALI: Per cambiare nome alla città serve sempre il referendum.
Per cambiare denominazione al comune serve sempre il referendum. Anche se il
mutamento del nome dell'ente consiste solo nell'aggiunta della parola
«terme» a quello del comune. La consultazione preventiva delle popolazioni
interessate è infatti una «fase obbligatoria» che non può essere sostituita
dalla presentazione ex post di una petizione da parte dei cittadini
dissenzienti volta a congelare il cambio di nome.
Lo ha affermato la Corte
Costituzionale nella
sentenza 23.05.2019 n. 123 che ha bocciato
una legge regionale della Sicilia (n. 1/2018) in quanto in contrasto con
l'art. 133 della Costituzione e con lo stesso statuto della regione.
La legge impugnata dalla presidenza del consiglio consentiva ai comuni sui
cui territori insistono insediamenti e/o bacini termali la possibilità di
aggiungere la parola «terme» alla propria denominazione, previa
deliberazione del consiglio comunale adottata a maggioranza di due terzi dei
consiglieri. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della delibera nell'albo
pretorio, i cittadini avrebbero potuto esprimere il proprio dissenso
presentando una petizione sottoscritta da almeno un quinto degli elettori.
La mancata presentazione della petizione avrebbe reso definitivo il cambio
di nome. In questo modo secondo la regione si sarebbe risparmiato tempo e
denaro rendendo solo eventuale, e non più obbligatorio, il coinvolgimento
delle popolazioni interessate. Ma la Consulta non è stata dello stesso
avviso. Secondo la Corte, attribuire alla mancata presentazione della
petizione l'effetto implicito di adesione alla modifica del nome è «inammissibile»
perché «ad una semplice inerzia non può essere riconosciuto alcun valore
giuridico, meno che mai quello di adesione alla modifica, all'esito di una
assai singolare consultazione tacita».
A sua volta singolare, osserva la Corte, risulta l'attribuzione di un
effetto di «veto» alla presentazione di una petizione, sottoscritta
da almeno un quinto di elettori dissenzienti rispetto alla deliberazione
adottata dal consiglio comunale. Una scelta che, osserva la Consulta, «assegna
un incongruo potere di blocco a una minoranza, pur a fronte dell'asserito
significato adesivo alla proposta di modifica, assegnato al comportamento di
coloro (la maggioranza) che tale petizione non abbiano sottoscritto»
(articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanza
minima da osservarsi tra edifici.
Le previsioni di cui
all'art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444
—riguardanti la distanza minima da
osservarsi tra edifici— essendo funzionali a
garantire non tanto la riservatezza, quanto
piuttosto l'igiene e la salubrità dei luoghi
e la formazione di intercapedini dannose,
devono considerarsi assolutamente
inderogabili da parte dei Comuni, che si
devono attenere ad esse in sede di
formazione e revisione degli strumenti
urbanistici.
Inoltre, traendo le norme del succitato d.m.
n. 1444 del 1968 la propria efficacia
dall'art. 41-quinquies comma 8, l.
17.08.1942, n. 1150 —in tale parte non
abrogato dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380— le
relative previsioni devono considerarsi
avere una efficacia immediatamente
precettiva e tale da potersi sostituire alle
eventuali norme di piano regolatore ad esse
non conformi.
Pertanto, ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite è
illegittima e va annullata ove oggetto di
impugnazione o comunque disapplicata, stante
la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte
sovraordinata
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.05.2019 n. 3280 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3. In ordine al primo ordine di
motivi, con cui si invoca la risalenza del
manufatto e la conseguente rilevanza
dell’originario sedime anche rispetto alle
norme sulle distanze, la tesi appellante non
è suscettibile accoglimento, né in linea
generale, né in relazione al caso di specie.
Sul primo versante va ribadito il principio
per cui le previsioni di cui all' art. 9,
d.m. 02.04.1968, n. 1444 —riguardanti la
distanza minima da osservarsi tra edifici—
essendo funzionali a garantire non tanto la
riservatezza, quanto piuttosto l'igiene e la
salubrità dei luoghi e la formazione di
intercapedini dannose, devono considerarsi
assolutamente inderogabili da parte dei
Comuni, che si devono attenere ad esse in
sede di formazione e revisione degli
strumenti urbanistici; inoltre, traendo le
norme del succitato d.m. n. 1444 del 1968 la
propria efficacia dall' art. 41-quinquies
comma 8, l. 17.08.1942, n. 1150 —in tale
parte non abrogato dal d.P.R. 06.06.2001, n.
380— le relative previsioni devono
considerarsi avere una efficacia
immediatamente precettiva e tale da potersi
sostituire alle eventuali norme di piano
regolatore ad esse non conformi; pertanto,
ogni previsione regolamentare in contrasto
con l'anzidetto limite è illegittima e va
annullata ove oggetto di impugnazione o
comunque disapplicata, stante la sua
automatica sostituzione con la clausola
legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr.
ad es.. Consiglio di Stato, sez. IV,
30/10/2017 , n. 4992).
Conseguentemente, a fronte di una
difformità, dal titolo rilasciato, in
violazione delle distanze, il conseguente
abuso va sanzionato, senza che possa in
contrario valere un eventuale accordo fra
privati. Né un titolo edilizio sopravvenuto,
rispetto all’originaria prima costruzione,
può tacitamente legittimare una violazione
delle distanze stesse.
Sul secondo versante, nel caso di specie
assume rilievo dirimente sul punto la
accertata difformità dal titolo assentito.
Infatti, la necessità del rispetto della
distanza di 4,30 mt dalla proprietà del
controinteressato Br. era direttamente
stabilita nel progetto di ristrutturazione
approvato, con la conseguenza, preliminare
ed assorbente nel caso in esame, del fatto
che l’opera accertata costituisce abuso in
quanto in diretto contrasto con il progetto
approvato. |
EDILIZIA PRIVATA: Costituisce
jus receptum il principio a mente del quale
la sanzione ripristinatoria costituisce atto
vincolato, per la cui adozione non è
necessaria la valutazione specifica delle
ragioni di interesse pubblico, né la
comparazione di questi con gli interessi
privati coinvolti, né tanto meno una
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo in alcun modo
ammissibile l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva.
---------------
4. Prima facie infondato è il
secondo ordine di motivi.
In proposito, infatti, costituisce jus
receptum il principio a mente del quale
la sanzione ripristinatoria costituisce atto
vincolato, per la cui adozione non è
necessaria la valutazione specifica delle
ragioni di interesse pubblico, né la
comparazione di questi con gli interessi
privati coinvolti, né tanto meno una
motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo in alcun modo
ammissibile l'esistenza di un affidamento
tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva (cfr. ex
multis Consiglio di Stato, sez. VI,
17.07.2018, n. 4368) (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 21.05.2019 n. 3280 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche gli interventi edilizi
eseguiti in parziale difformità dal permesso
di costruire soggiacciano alla sanzione
demolitoria, a meno che, non potendo essa
avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità, si debba applicare
la sanzione pecuniaria.
Più in generale, resta salvo il principio a
mente del quale, con riguardo agli
interventi e alle opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di
costruire, la possibilità di sostituire la
sanzione demolitoria con quella pecuniaria,
disciplinata dall'art. 34 invocato, deve
essere valutata dall'Amministrazione
competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva e autonoma rispetto
all'ordine di demolizione. In quella sede,
le parti ben possono dedurre in ordine alla
situazione di pericolo di stabilità del
fabbricato.
---------------
5. Parimenti infondato è il terzo ordine
di rilievi.
In linea generale deve ritenersi che anche
gli interventi edilizi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire
soggiacciano alla sanzione demolitoria, a
meno che, non potendo essa avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in
conformità, si debba applicare la sanzione
pecuniaria (cfr. ad es. Consiglio di Stato,
sez. VI, 04/06/2018, n. 3371).
Nel caso di specie, gli elementi invocati al
riguardo da parte appellante appaiono del
tutto generici, in specie rispetto alla
pluralità e gravità delle difformità
contestate, in gran parte rilevanti anche
rispetto ad interessi fondamentali quali
quelli tutelati dalle norme sulle distanze.
Più in generale, resta salvo il principio a
mente del quale, con riguardo agli
interventi e alle opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di
costruire, la possibilità di sostituire la
sanzione demolitoria con quella pecuniaria,
disciplinata dall'art. 34 invocato, deve
essere valutata dall'Amministrazione
competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva e autonoma rispetto
all'ordine di demolizione. In quella sede,
le parti ben possono dedurre in ordine alla
situazione di pericolo di stabilità del
fabbricato (cfr. Consiglio di Stato, sez.
VI, 09/07/2018, n. 4169) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 21.05.2019 n. 3280 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accordi
di programma e accordi ex art. 15 legge n.
241 del 1990.
Se per gli accordi di
programma ex art. 34 il principio della
necessaria unanimità consensuale trova
fondamento –e, prima ancora, logica
giustificazione– nelle peculiarità che
assistono la configurazione di tale istituto
(nonché la prefigurazione funzionale dello
stesso all’attuazione delle finalità per
esso previste), non assimilabile ratio
assiste gli accordi –ex art. 15 della legge
241, piuttosto che ex art. 30 del T.U.E.L.–
diversamente preordinati ad esigenze di
carattere organizzativo-funzionale, con
ricadute anche di carattere finanziario, che
consentono alle Amministrazioni di imprimere
ai servizi e alle attività alle medesime
facenti capo modalità attuative e di
svolgimento coinvolgenti una pluralità di
attori istituzionali
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.05.2019 n. 497 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
4. Ciò osservato, con il primo dei due
motivi di gravame dalla parte ricorrente
identicamente articolati per i tre ricorsi
all’esame, il Comune di Canneto sull’Oglio
contesta la violazione del principio di
“immodificabilità” della Convezione, laddove
non veicolata dal “consenso unanime da
parte di tutte le amministrazioni coinvolte”.
4.1 Fonda parte ricorrente tale rilievo
sulla portata dell’art. 15 della legge 241
del 1990; il quale, nel prevedere che “le
amministrazioni pubbliche possono sempre
concludere tra loro accordi per disciplinare
lo svolgimento in collaborazione di attività
di interesse comune” (comma 1),
stabilisce (al successivo comma 2) che “per
detti accordi si osservano, in quanto
applicabili, le disposizioni previste
dall'articolo 11, commi 2 e 3”.
Tale ultima disposizione, a sua volta,
prevede che per detti accordi “si
applicano, ove non diversamente previsto, i
principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti in quanto
compatibili”.
Dal che, il fondamento giustificativo della
posizione di parte ricorrente, che individua
nel “mutuo consenso” –evidentemente
veicolato dall’unanime decisione di tutti i
soggetti partecipanti all’accordo– l’unica
modalità elettivamente preordinata ad
apportare interventi modificativi al
disposto convenzionale; in difetto del
quale, conseguentemente, l’accordo medesimo
si dimostrerebbe insuscettibile di essere
inciso per effetto di determinazioni assunte
“a maggioranza” dagli Enti
partecipanti.
4.2 Tale ordine di considerazioni non
rivela, ad avviso del Collegio, persuasivi
profili di condivisibilità.
E ciò in quanto, come correttamente
sostenuto dalla difesa delle resistenti
Amministrazioni, la norma dal ricorrente
Comune invocata non preclude che, in sede di
determinazione della disciplina
convenzionale dell’accordo stipulato per la
gestione di servizi di comune interesse, le
parti diversamente disciplinino (o non
disciplinino) le modalità modificative dello
stesso; così come alle parti stesse, ben è
consentito (rectius; non è affatto
preclusa) l’individuazione di peculiari
modalità attuative del diritto di recesso
dalla convenzione stessa da parte dei
partecipanti (recesso che, è opportuno
rilevare, ex se integra una modificazione
della convenzione ex art. 15, per come
realizzata dalla fuoriuscita di uno o più
degli originari aderenti, con riveniente
modificabilità contenutistica dell’accordo
non soltanto sotto il profilo soggettivo,
ma, derivativamente e conseguentemente,
anche sotto il profilo della disciplina
degli obblighi e dei diritti, quale ricaduta
proprio della ridisegnata platea dei
soggetti concorrenti all’attuazione del
modulo convenzionale).
Va, in proposito, sottolineato come l’art.
15 sopra citato, così come l’art. 30 del
D.Lgs. 267/2000, non precludano la
possibilità di pervenire –a maggioranza; e
non all’unanimità– ad interventi con portata
modificativa dell’accordo.
Anzi, la disposizione da ultimo citata (a
differenza della generale disposizione ex
art. 15) non reca alcun rinvio, ob
relationem, alla disciplina civilistica.
E lo stesso Testo Unico degli Enti Locali
individua (art. 34, comma 4) la necessità
dell’unanimità soltanto per gli Accordi di
programma disciplinati da tale disposizione.
Previsione, questa, che anche questo
Tribunale ha (correttamente) interpretato
nel senso che “il tipo di interessi sotteso
ad un procedimento amministrativo regolato
da un accordo di programma è, per
definizione, non disponibile da una sola
amministrazione proprio perché il
legislatore ne ha attributo la competenza in
modo ripartito ad una pluralità di esse”:
con la conseguenza che “la non disponibilità
da parte di una singola amministrazione
degli interessi pubblici sottesi all’azione
amministrativa esercitata in forma
consensuale è, per definizione, pertanto,
caratteristica degli accordi di programma”
(sentenza Sez I, 30.04.2010 n. 1635).
4.3 Se per gli accordi di programma ex art.
34 il principio della necessaria unanimità
consensuale trova fondamento –e, prima
ancora, logica giustificazione– nelle
peculiarità che assistono la configurazione
di tale istituto (nonché la prefigurazione
funzionale dello stesso all’attuazione delle
finalità per esso previste), non
assimilabile ratio assiste gli accordi –ex
art. 15 della legge 241, piuttosto che ex
art. 30 del T.U.E.L.– diversamente
preordinati ad esigenze di carattere
organizzativo-funzionale, con ricadute anche
di carattere finanziario, che consentono
alle Amministrazioni di imprimere ai servizi
ed alle attività alle medesime facenti capo
modalità attuative e di svolgimento
coinvolgenti una pluralità di attori
istituzionali.
E, in difetto di alcuna preclusione
normativamente fissata, non è dato
comprendere la ragione, anche per siffatta
modalità convenzionale, di stabilire il
principio di una necessaria unanimità di
consensi ai fini di apportare alla comune
disciplina eventuali interventi
modificativi: i quali, laddove la
prospettazione sul punto esposta dalla parte
ricorrente dovesse trovare apprezzamento, si
vedrebbero di fatto “paralizzati” (ancorché
in presenza di una favorevole componente
maggioritaria) da quello che verrebbe a
configurarsi quale vero e proprio “diritto
di veto” (suscettibile di essere azionato
anche da uno solo dei soggetti partecipanti
al fine di scongiurare qualsivoglia immutazione all’accordo, quantunque
presidiata dal consenso di (tutti i; o la
maggior parte dei) soggetti parimenti parte
dell’accordo.
Potrebbe, specularmente, sostenersi che la
modificabilità a maggioranza di quest’ultimo
è suscettibile di esporre la posizione del
soggetto “dissenziente” alla volontà della
maggioranza degli altri aderenti.
In disparte dalla riscontrabilità, nel
meccanismo di funzionamento della volontà
maggioritaria, di una coordinata
pacificamente trasversale alle modalità
formative della volontà di soggetti aventi
plurima composizione, va osservato come
funzione di garanzia per il soggetto in
disaccordo sia rappresentata dalla potestà,
al medesimo riconosciuta (anche nella
fattispecie all’esame) di recedere
dall’accordo: svincolando, per l’effetto, la
propria posizione (e, conseguentemente,
rescindendo il vincolo associativo), laddove
al modulo convenzionale siano stati, in sede
modificativa dell’originario testo, impressi
contenuti con condivisi e/o non accettabili.
5. Esclusa, alla stregua di quanto esposto
al precedente punto, la condivisibilità
delle argomentazioni esposte con il primo
motivo di ricorso, anche la seconda delle
doglianze sviluppata dalla parte ricorrente
non si presta a favorevole considerazione.
Non consta, infatti, che le avversate
determinazioni si pongano in violazione del
principio di leale collaborazione, per come
dalla parte stessa sostenuto.
Il processo modificativo della Convenzione
di che trattasi ha, infatti, formato oggetto
non solo di necessaria
procedimentalizzazione, ma anche di estesa
ed articolata discussione fra i Comuni
partecipanti, come adeguatamente comprato
dalla copiosa documentazione dalla parti
versata in atti: di tal guisa che non appare
utilmente argomentabile –secondo un lettura
dinamicamente orientata (e necessariamente
commisurata alla caratterizzazione della
vicenda) dell’art. 97 Cost.– né una lesione
delle prerogative partecipative, né, tanto
meno, una vulnerazione dei principi di
corretto svolgimento dell’iter
procedimentale.
6. La constatata infondatezza degli
esaminati motivi di ricorso, impone il
rigetto delle impugnative, come sopra
riunite. |
URBANISTICA: Vincoli
conformativi ed espropriativi.
La distinzione tra
vincoli conformativi ed espropriativi non
discende dalla collocazione del vincolo in
una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma va operata in relazione agli
effetti dell'atto di pianificazione.
Se quest’ultimo mira ad una zonizzazione
dell'intero territorio comunale o di parte
di esso, sì da incidere su di una generalità
di beni, nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione
della destinazione dell'intera area in cui i
beni ricadono e in ragione delle sue
caratteristiche intrinseche, il vincolo ha
carattere conformativo, mentre, ove imponga
solo un vincolo particolare incidente su
beni determinati, in funzione della
localizzazione di un'opera pubblica, lo
stesso va qualificato come preordinato alla
relativa espropriazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2019 n. 3190 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
15. Nel primo motivo di appello, il signor
De Lu. contesta la decisione del Tar che
non ha considerato la natura espropriativa e
quindi la decadenza del vincolo di
destinazione a verde pubblico attrezzato
dell’area interessata alla realizzazione
dell’impianto di carburanti.
15.1. La censura non è fondata.
Il Tar ha
correttamente ritenuto che il vincolo in
esame avesse natura conformativa in
relazione alla circostanza che le opere
relative alla destinazione impressa all’area
potessero essere realizzate anche ad
iniziativa privata o promiscua pubblico–privato ai sensi dell’art. 19, comma 3,
delle NTA del PRG del comune di Molfetta
(verde pubblico attrezzato con opere che
possono essere realizzate e gestite anche da
privati tramite apposita convenzione con il
Comune).
15.2. D’altra parte, come ha avuto modo di
evidenziare la giurisprudenza del Consiglio
di Stato, i vincoli conformativi non
comportano la perdita definitiva della
proprietà privata, ma impongono limitazioni
e condizioni restrittive agli interventi
edilizi in funzione degli obiettivi di
tutela dell'interesse pubblico e, a
differenza, dei vincoli espropriativi, pur
limitando e condizionando l'attività
edificatoria, non comportano indennizzi per
le limitazioni previste dallo strumento
urbanistico e non hanno scadenza temporale (cfr.
ex multis, Cons. Stato sez. IV, 22.10.2018, n. 5994).
15.3. I vincoli di destinazione imposti dal
piano regolatore generale per attrezzature e
servizi, quali ad esempio verde pubblico
attrezzato, realizzabili anche ad iniziativa
privata o promiscua in regime di economia di
mercato, pur avendo carattere particolare,
sfuggono pertanto allo schema ablatorio e
alle connesse garanzie costituzionali in
termini di alternatività fra indennizzo e
durata predefinita, e non costituiscono
vincoli espropriativi, bensì soltanto
conformativi, funzionali all'interesse
pubblico generale (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
22.06.2011, n. 3797 e 24.05.2018, n.
3116).
...
Per completezza va, comunque, osservato che
anche ove il vincolo fosse qualificato come
espropriativo, seguendo la ricostruzione
proposta dall’appellante, tuttavia tale
qualificazione non comporterebbe l’attuale
assentibilità dell’intervento, in quanto il
vincolo espropriativo sarebbe comunque
decaduto e la zona sarebbe divenuta “zona
bianca”, sicché l’intervento sarebbe
comunque non assentibile perché eccedente i
ridotti limiti di edificabilità previsti per
tali zone. Ove decada un vincolo espropriativo, per inutile decorso del
tempo, non si verifica infatti alcuna
reviviscenza della pregressa disciplina in
ordine agli indici di edificabilità. L'area
necessita invece dell’esercizio, a tale
fine, del potere pianificatorio
dell’Amministrazione comunale (cfr. Cons.
Stato, sez. IV. 24.08.2016, n. 3684).
15.8. Più in generale, in relazione alla
compatibilità della previsione del piano
particolareggiato rispetto a quelle del PRG,
che invece poneva chiaramente un vincolo
conformativo, va rilevato che
la distinzione
tra vincoli conformativi ed espropriativi
non discende dalla collocazione del vincolo
in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma va operata in relazione agli
effetti dell'atto di pianificazione.
Se quest’ultimo mira ad una zonizzazione
dell'intero territorio comunale o di parte
di esso, sì da incidere su di una generalità
di beni, nei confronti di una pluralità
indifferenziata di soggetti, in funzione
della destinazione dell'intera area in cui i
beni ricadono e in ragione delle sue
caratteristiche intrinseche, il vincolo ha
carattere conformativo, mentre, ove imponga
solo un vincolo particolare incidente su
beni determinati, in funzione della
localizzazione di un'opera pubblica, lo
stesso va qualificato come preordinato alla
relativa espropriazione (cfr. Cass. civile,
sez. I, 18.06.2018, n. 16084). |
TRIBUTI:
Area edificabile anche senza indice.
Cassazione: la mancata indicazione incide solo sul valore.
«Parimenti irrilevante è che il Piano strutturale comunale non indichi
l'indice di fabbricabilità, incidendo questo aspetto solo sul quantum del
valore venale e, dunque, sulla base imponibile».
Questa la conclusione cui giunge la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza
15.05.2019 n. 12938 e
ordinanza 15.05.2019 n.
12937 ove era chiamata a dirimere la questione inerente
l'assoggettamento ad imposta delle aree inquadrate tra quelle urbanizzabili
nel Piano strutturale comunale (Psc) disciplinato dalla legge regione
Emilia-Romagna, n. 20 del 2000, e non inserite nel Piano operativo comunale
(Poc).
Oltre a ribadire l'assoggettamento ad Ici, e quindi ad Imu, per tali aree,
come già emerso in altre pronunce sul Psc ove si rimarcava la differenza tra
funzioni urbanistiche e fiscali indipendentemente dalle diverse
denominazioni date agli strumenti urbanistici dalle norme regionali, la
Corte si spinge ancor più in là ritenendo che anche l'area edificabile,
appartenente alle zone urbanizzate o urbanizzabili secondo lo strumento
urbanistico, priva di un indice edificatorio è da attrarre alla definizione
di area edificabile, ciò in quanto l'assenza dell'indice si riflette non
nella determinazione della natura dell'oggetto d'imposta bensì ai fini della
determinazione della base imponibile.
A ben vedere la Corte evidenzia un principio che può apparire scontato:
mentre è l'articolo 2, comma 1, lettera b), dlgs n. 504 del 1992 a dare la
definizione di area edificabile, e qui nessun accenno viene fatto all'indice
di edificabilità, l'attributo viene, invece, a far parte degli elementi
tassativi ai fini della quantificazione della base imponibile come previsto
dal successivo articolo 5, comma 5; come a dire: una cosa è l'area altra
cosa è il suo valore.
La conclusione dei giudici non solo conferma l'operato di quei comuni che
hanno optato per la tassazione delle aree comprese nel Psc in assenza di Poc,
ma offre una definizione di area edificabile ancor più allargata
comprendendo in essa anche quelle porzioni di territorio che, sebbene prive
di indice edificatorio, non possono essere considerate per tale motivo
esenti dal tributo perché «non edificabili».
Seguendo tale insegnamento occorrerà attribuire un valore ai fini Imu anche
a tali aree, le quali, a dire il vero, da sempre sono qualificate come
edificabili ai fini del calcolo delle imposte sulle compravendite o sui
redditi da plusvalenza.
Le pronunce in commento hanno, quindi, il pregio di allineare ancor più la
definizione di area edificabile tra le varie imposte che gravano su tale
bene come già il legislatore aveva stabilito con l'art. 36, comma 2, dl n.
223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2006, il
quale aveva, di fatto, sancito il formale distacco tra la nozione di area
edificabile ai fini urbanistici e quella, ben più ampia, valida ai fini
fiscali
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2019). |
APPALTI: Gare, è illegittima
la preferenza territoriale. Vìola il principio della par condicio.
È
illegittima per violazione della par condicio la clausola di un bando di
gara che preveda una specifica localizzazione dei soggetti affidatari e
preclude la partecipazione di operatori che, seppure ubicati nel territorio,
non si trovino nelle sole frazioni indicate dal disciplinare di gara.
Lo ha
affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentnza
15.05.2019 n. 3147.
La vicenda riguardava l'affidamento del servizio di
manutenzione ordinaria e straordinaria degli automezzi di proprietà comunale
per tre anni (2018-2020) con procedura negoziata, preceduta da avviso
esplorativo, indetta sulla base del criterio del prezzo più basso. Negli
atti di gara si prevedeva una «clausola di territorialità» imponente, per la
partecipazione, che il concorrente disponesse di una sede operativa in un
determinato comune o ad una distanza minima dalle sedi dell'amministrazione
comunale.
In primo grado, la sentenza in forma semplificata aveva ritenuto
illegittima la clausola di territorialità a pena di esclusione, in quanto in
violazione del criterio della par condicio tra gli operatori. Il giudizio di
appello ha confermato la pronuncia di primo grado.
In particolare, la
clausola della lex specialis di gara disponeva che «i soggetti affidatari
dei servizi in questione devono essere localizzati, per ovvie ragioni di
economicità, in prossimità delle sedi dell'amministrazione comunale, e che
la partecipazione alla procedura dovrà essere limitata agli operatori
economici che operano in tali zone»; si trattava di alcune ben individuate
zone abitate e industriali del comune e di una frazione comunale con
esclusione di altre frazioni. Il bando prevedeva che sarebbero state
«ammesse a partecipare le ditte che hanno la sede operativa localizzata in
comuni limitrofi entro la distanza indicativa di 0,5 km dal confine
comunale».
I giudici hanno ritenuto che si trattasse di una clausola irragionevole, al
di là del corredo motivazionale sotteso. L'irragionevolezza è stata
ravvisata nella ristrettezza degli eterogenei parametri fissati dalla
lettera di invito, che, per quanto finalizzati all'economicità, violano in
modo non proporzionato i principi di libera concorrenza e di massima
partecipazione, di matrice anche eurounitaria, i quali vietano ogni
discriminazione dei concorrenti in base all'elemento territoriale (articolo ItaliaOggi del 24.05.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Autovelox
fuori strada non fa multe.
Non è possibile attivare un controllo automatico della velocità sul lato
opposto di marcia rispetto a quello scelto dalla prefettura. Infatti non
sono valide le multe accertate con un misuratore posizionato in maniera
errata.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
09.05.2019 n. 12309.
Un utente stradale incorso nei rigori dell'autovelox ha proposto con
successo censure fino ai giudici del palazzaccio evidenziando la posizione
irregolare del misuratore. In pratica il decreto che autorizza il comune al
controllo dell'eccesso di velocità indica la possibilità di controllo solo
in un senso di marcia. Ovvero nella direzione opposta a quella percorsa dal
trasgressore.
Gli Ermellini hanno confermato le decisioni dei giudici di merito. Anche se
la norma non richiede che il decreto del prefetto individui un singolo senso
di marcia è evidente che se l'autorizzazione del rappresentante governativo
è finalizzata ad attivare il controllo solo da un lato non vale
l'accertamento effettuato sul lato opposto
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2019). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La
parcella va sudata. IL LEGALE DIMOSTRI IL LAVORO SVOLTO.
Il legale ha l'onere di dimostrare l'attività svolta
nell'ipotesi in cui il cliente contesti la parcella e ciò quand'anche quest'ultima
sia stata vistata dall'Ordine di appartenenza:
è quanto ha asserito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza
06.05.2019 n. 11790 intervenendo sul ricorso di una donna che, in sede di
merito, aveva proposto opposizione a decreto ingiuntivo nei confronti del
suo difensore: in primo grado, ne era stata dichiarata l'improponibilità
stante il fatto che era stata «formulata tardivamente»; in secondo, invece,
la stessa opposizione non poteva considerarsi fondata perché basata sulla
«mera contestazione» del compenso richiesto, «senza, tuttavia, assolvere
all'onere di indicare su quali aspetti del credito azionato erano state
formulate le critiche attinenti all'an e al quantum».
Invero, spiegano i giudici della VI-2 sezione civile, la Corte di appello
aveva «illegittimamente» respinto il gravame ritenendo sufficiente, a
fondamento della pretesa del professionista, la mera allegazione della
documentazione che lo stesso aveva prodotto in sede monitoria, con ciò
venendo meno ad un orientamento, ormai pacifico e confermato da diverse
pronunce giurisprudenziali, secondo il quale «in tema di opposizione a
decreto ingiuntivo per il pagamento di diritti e onorari di avvocato o
procuratore, la contestazione comunque mossa dell'opponente circa la pretesa
fatta valere dall'opposto sulla base della parcella corredata dal parere del
Consiglio dell'Ordine non deve necessariamente avere carattere specifico,
essendo sufficiente una contestazione anche di carattere generico a
investire il giudice del potere/dovere di dar corso alla verifica della
fondatezza della contestazione e, correlativamente, a determinare l'onere
probatorio a carico del professionista in ordine all'attività svolta quanto
alla corretta applicazione della pertinente tariffa».
Ne consegue che pur a
fronte di una siffatta contestazione generica, il professionista è
«comunque» tenuto ad assolvere il relativo onere probatorio inerente tanto
all'an quanto al quantum. Così argomentando hanno cassato la sentenza
impugnata e rinviato la questione ad altra corte di appello in diversa
composizione (articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Natura
della diffida.
La giurisprudenza
amministrativa distingue tra diffide “in
senso stretto” e atti che, ancorché
formalmente qualificati come diffide, sono
tuttavia costitutivi di effetti giuridici
sfavorevoli per i destinatari (come, ad
esempio, gli “ordini”).
Le diffide in senso stretto consistono nel
formale avvertimento –indirizzato ad un
soggetto (pubblico o privato), tenuto
all’osservanza di un obbligo in base ad un
preesistente titolo (legge, sentenza, atto
amministrativo, contratto)- di ottemperare
all’obbligo stesso; esse, dunque, non hanno
carattere novativo di tale obbligo e
usualmente il loro effetto consiste nel far
decorrere un termine dilatorio per
l’adozione di provvedimenti sfavorevoli nei
confronti dei soggetti destinatari, i quali,
nonostante l’intimazione, siano rimasti
inosservanti del proprio obbligo.
Ne consegue che, proprio per il loro
carattere ricognitivo di obblighi che
l’amministrazione assume come preesistenti e
per il fatto di non vincolare la successiva
azione amministrativa, le diffide in senso
stretto non sono immediatamente lesive della
sfera giuridica del destinatario, a
differenza dei successivi provvedimenti
sfavorevoli, e -come tali- non sono ritenute
atti immediatamente impugnabili.
A diverse conclusioni si deve pervenire
quando l’atto, comunque denominato, sia
idoneo a produrre direttamente
(immediatamente) effetti giuridici, facendo
sorgere un obbligo prima non sussistente o
assegnando in modo definitivo ad un bene o
ad una condotta una nuova qualificazione
giuridica o vincolando (anche solo per
alcuni profili) l’amministrazione alla
successiva adozione di atti sfavorevoli;
tale è, ad esempio, la diffida a demolire
opere abusive
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 02.05.2019 n. 984 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1) Riferisce la ricorrente, attualmente in
liquidazione, di avere esercitato sino al 21
dicembre 2012 l’attività di recupero di
rifiuti inerti non pericolosi (operazioni
R13, R3 ed R5) in un impianto ubicato in
parte sul territorio del Comune di Besano
(R13 ed R3) ed in parte sul territorio del
Comune di Viggiù (R13 ed R5).
Alla scadenza dell’autorizzazione, avendo
deciso di cessare l’attività, l’esponente ha
presentato alla Provincia di Varese la
comunicazione all’uopo prescritta per lo
svolgimento di una campagna di attività,
finalizzata allo smaltimento e recupero dei
rifiuti ancora presenti sul sito, mediante
vagliatura e triturazione con impianto
mobile.
Conclusa con esito positivo tale campagna di
attività, la ricorrente ha presentato alla
Provincia di Varese una proposta di indagine
ambientale preliminare, al fine di
verificare l’eventuale contaminazione del
sito, allegando relazione tecnica, rapporti
di prova e report finale della campagna. La
ricorrente ha, in sintesi, concluso che,
stando ai rilievi svolti, i valori
riscontrati risultavano conformi ai limiti
di legge (di cui all’Allegato 5, Tabella 1,
del titolo V, Parte IV del T.U. 152/2006);
conseguentemente, essa ha richiesto alla
Provincia lo svincolo della fideiussione a
suo tempo prestata per il corretto
ripristino dello status quo ante.
Al fine di riscontrare la richiesta della
ricorrente, la Provincia ha -a sua volta-
richiesto ai Comuni di Besano e di Viggiù di
comunicare l’esistenza di eventuali motivi
ostativi al predetto svincolo.
Ha, in un primo tempo, risposto soltanto il
Comune di Besano, precisando che nulla
ostava allo svincolo della polizza.
In assenza di riscontro ad opera della
competente Provincia, Besano Ambiente ha
ulteriormente sollecitato, da un lato, il
Comune di Viggiù, a riscontrare la nota
della Provincia, e, dall’altro, la stessa
amministrazione provinciale, a svincolare la
garanzia.
Soltanto con nota del 19/09/2014 il Comune di Viggiù ha risposto, preannunciando la
sussistenza di un motivo ostativo, poiché la
ricorrente avrebbe erroneamente ritenuto di
applicare i limiti fissati dalla tabella 1,
colonna B, dell’Allegato V, parte IV del
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, dovendosi
invece applicare i parametri di cui alla
colonna A. Con la stessa comunicazione il
Comune ha assegnato alla ricorrente un
termine di 10 giorni per le osservazioni,
decorso il quale ha preannunciato l’adozione
del “provvedimento finale”.
A fronte delle osservazioni di parte
ricorrente, il Comune di Viggiù, con nota
del 15/10/2014, richiamando la nota del
19/09/2014, ha invitato Besano Ambiente al
deposito del Piano di Caratterizzazione.
Con successiva nota del 24/06/2015 lo stesso
Comune, richiamando la nota del 15/10/2014,
ha diffidato la ricorrente alla
presentazione del Piano, precisando che, in
difetto, avrebbe effettuato la segnalazione
all’AG per omessa bonifica.
Con ulteriore nota del 04/09/2015 il Comune,
dopo avere specificato che “anche alla data
di inizio attività di recupero di rifiuti
autorizzata dalla Provincia di Varese la
destinazione urbanistica era riconducibile
all’agricolo” (ragion per cui i parametri
applicabili erano quelli di cui alla citata
Colonna A) ha ribadito “quanto nella nota prot. 4963 del 24.06.2015, altresì
relativamente alla tempistica”.
...
5.2) Sulla eccezione d’inammissibilità del
ricorso per carenza di interesse, sollevata
dal resistente facendo leva sul carattere
non provvedimentale degli atti impugnati, il
Collegio osserva quanto segue.
La giurisprudenza amministrativa (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.01.2018,
n. 62; TAR Veneto, III, 01.08.2016, n.
925) distingue tra diffide “in senso
stretto” ed atti che, ancorché formalmente
qualificati come diffide, sono tuttavia
costitutivi di effetti giuridici sfavorevoli
per i destinatari (come, ad esempio, gli
“ordini”).
Le diffide in senso stretto «consistono nel
formale avvertimento –indirizzato ad un
soggetto (pubblico o privato), tenuto
all’osservanza di un obbligo in base ad un
preesistente titolo (legge, sentenza, atto
amministrativo, contratto)- di ottemperare
all’obbligo stesso.
Esse, dunque, non hanno carattere novativo
di tale obbligo e usualmente il loro effetto
consiste nel far decorrere un termine
dilatorio per l’adozione di provvedimenti
sfavorevoli nei confronti dei soggetti
destinatari, i quali, nonostante
l’intimazione, siano rimasti inosservanti
del proprio obbligo» (Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.01.2018, n. 62).
Ne consegue che, proprio per il loro
carattere ricognitivo di obblighi che
l’amministrazione assume come preesistenti e
per il fatto di non vincolare la successiva
azione amministrativa, le diffide in senso
stretto non sono immediatamente lesive della
sfera giuridica del destinatario, a
differenza dei successivi provvedimenti
sfavorevoli, e -come tali- non sono ritenute
atti immediatamente impugnabili (Cons.
Stato, sez. V, 20.08.2015 n. 2215; Cons.
Stato, sez. IV, 09.11.2005 n. 6257).
A diverse conclusioni si deve pervenire
quando l’atto, comunque denominato, sia
idoneo a produrre direttamente
(immediatamente) effetti giuridici, facendo
sorgere un obbligo prima non sussistente o
assegnando in modo definitivo ad un bene o
ad una condotta una nuova qualificazione
giuridica o vincolando (anche solo per
alcuni profili) l’amministrazione alla
successiva adozione di atti sfavorevoli;
tale è, ad esempio, la diffida a demolire
opere abusive.
5.3) Nel caso di specie, l’atto di diffida
impugnato (la nota prot. 4693 del 24.06.2015) adottato dal Comune di Viggiù, ha
natura di diffida in senso stretto. Ed
infatti:
- in primo luogo, esso si pone in termini meramente ricognitivi di
obblighi che, secondo lo stesso Comune,
discendono a carico dell’interessata, in
termini generali ed astratti, direttamente
da una norma di legge, quale l’art. 242,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (richiamato
nella nota prot. 6192 del 15.10.2014, a sua
volta integralmente richiamata nel preambolo
della diffida impugnata);
- in secondo luogo, l’accertamento dell’inadempimento a tali
obblighi ha carattere meramente preliminare
rispetto alle definitive valutazioni di
competenza (ex art. 242, commi 12 e 13, d.lgs. n. 152/2006) della Regione e della
Provincia competenti. A tal fine, occorre
osservare che la nota in esame non vincola
di per sé Regione e Provincia all’adozione
necessitata di conseguenti provvedimenti per
il caso di superamento del termine indicato
in diffida, poiché a tal fine è necessaria
una nuova determinazione da parte di un
organo diverso da quello che ha adottato la
diffida medesima e che provvede solo dopo
aver sentito in conferenza di servizi,
all’uopo convocata, le amministrazioni di
cui all’art. 242, comma 13, d.lgs. citato
(nella specie, in forza dell’art. 5, comma 1,
della legge regionale 27/12/2006, n. 30,
come richiamata dalla Delib. G.R. Lombardia
24/01/2007, n. 8/4033, allegato 1,
trattandosi di sito che ricade nel
territorio di due Comuni, non ha luogo il
trasferimento al Comune delle funzioni
relative alle procedure operative e
amministrative inerenti gli interventi di
bonifica, ma si applicano le procedure
operative ed amministrative di cui al Titolo
V - parte quarta - del D.Lgs. n. 152/2006);
- in terzo luogo, l’adozione dell’atto di diffida non priva in
alcun modo l’amministrazione destinataria
del potere, di cui alla norma statale da
ultimo citata, di adottare gli atti di
propria competenza.
5.4) Nel contesto così come innanzi
descritto, la mera indicazione nell’atto di
diffida di un termine puntuale per adempiere
agli obblighi ritenuti sussistenti a carico
della ricorrente non muta la natura
dell’atto prot. 4693 (diffida in senso
stretto), quale atto avente natura
endoprocedimentale, non immediatamente
lesivo. Si tratta peraltro, giova osservare
ad abundantiam, di termine già ampiamente
decorso al momento della proposizione del
ricorso in epigrafe senza che alcun effetto
giuridico sfavorevole si sia direttamente
(immediatamente) prodotto nella sfera
giuridica dell’istante.
Va, pertanto, ribadita l’inammissibilità
dell’impugnazione rivolta avverso la
predetta nota prot. 4693 del 24/6/2014.
6) A fortiori è inammissibile per
difetto d’interesse, per le stesse
considerazioni sin qui esposte,
l’impugnazione in epigrafe, sia laddove si
dirige alla nota prot. 5735 del 04.09.2015, mediante cui il Responsabile
dell’Ufficio tecnico del Comune di Viggiù ha
in sostanza ribadito la diffida del 24.06.2015, sia ove rivolta alla nota prot.
6192 del 15.10.2014, recante un mero
“invito” al deposito del piano di
caratterizzazione.
7) Per le suesposte considerazioni, quindi,
il ricorso in epigrafe specificato è
inammissibile. |
PATRIMONIO:
Cimiteri, illegittima la riserva agli islamici.
È illegittima la clausola di una convenzione con la quale un comune ha
stabilito che nel reparto islamico del cimitero debbano essere accolti solo
i defunti di quella religione, appositamente attestata da un Centro
islamico.
Lo ha sancito il TAR Lombardia–Brescia, Sez. II, con la
sentenza 20.04.2019 n. 383.
Comune di Bergamo e Centro culturale islamico onlus avevano stipulato una
convenzione che designava quest'ultima come assegnataria di un'area sulla
quale essa avrebbe provveduto alla realizzazione del reparto cimiteriale
riservato e separato, a sua cura e spese.
Tale convenzione prevedeva che il
Centro si impegnasse ad accogliere nel proprio cimitero tutti i defunti di
quella religione. In seguito, per fare fronte all'incremento della richiesta
di sepolture islamiche, il comune aveva previsto l'inclusione nel reparto
speciale islamico –appositamente ed opportunamente orientato e organizzato
secondo le esigenze della liturgia coranica– di un'ulteriore area.
In
occasione di tale ampliamento, però, il comune aveva parzialmente modificato
il contenuto della convenzione, prevedendo che nel reparto islamico del
cimitero venissero accolti tutti i defunti di quella religione con la
preventiva attestazione della professione della fede islamica da parte del
Centro culturale islamico di Bergamo. In mancanza dell'attestazione il
comune avrebbe disposto l'ordinaria inumazione nel campo comune del cimitero
di Bergamo.
Con ricorso alcune associazioni islamiche avevano subito
impugnato tale modifica, che avrebbe violato i principi costituzionali
relativi al diritto di libertà dell'espressione religiosa, subordinando la
sepoltura nel settore islamico all'attestazione della fede islamica
demandata a un soggetto privato quale l'Associazione centro culturale
islamico onlus, senza, peraltro, fissare criteri o vincoli. Il Tar accoglie
il ricorso.
Deve, infatti, ritenersi illegittima la clausola successivamente
apposta dall'ente locale. In particolare il collegio ha osservato che tale
clausola è in contrasto con i principi costituzionali che garantiscono la
libertà di religione e della sua professione. Libertà che risulta
chiaramente violata nel momento in cui la possibilità di accedere al rito
funebre islamico per il deceduto è subordinata all'acquisizione, da parte
dei parenti, di una certificazione attestante la fede islamica dello stesso,
rilasciata da un soggetto privo di alcuna legittimazione in tal senso,
trattandosi di una mera associazione privata
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.05.2019). |
APPALTI:
Esclusione, la 231 non basta.
Per escludere la società dalla procedura d'appalto non basta il rinvio a
giudizio chiesto per la 231 laddove l'ex amministratore è accusato di
corruzione e turbata libertà degli incanti. Risulta insufficiente la
contestazione all'ente della responsabilità amministrativa non aver saputo
adottare modelli adeguati a combattere il malaffare perché anche dopo il dl
semplificazioni spetta sempre più alla stazione appaltante motivare il grave
illecito professionale che legittima l'estromissione dalla gara.
Così la
sentenza
18.04.2019 n. 897 del TAR Lombardia-Milano, Sez.
I.
Nelle more il gip dichiara estinto l'illecito amministrativo contestato alla
società, ma contro l'amministratore si apre il processo, nel quale peraltro
lo stesso comune si costituisce parte civile.
Non c'è dubbio che anche di
fronte alla richiesta del pubblico ministero l'amministrazione possa
decidere di estromettere l'impresa dalla procedura, ma deve giustificare con
un'adeguata spiegazione l'esercizio dei più ampi poteri discrezionali che le
sono riconosciuti. Lo stesso dl semplificazioni che ha modificato l'art. 80
del codice appalti prevede la motivazione sul tempo trascorso dalla
violazione oltre che sulla gravità della condotta.
Il punto di equilibrio
fra concorrenza e trasparenza risulta spostato in favore delle
amministrazioni pubbliche. Nella specie l'onere non viene adempiuto: nella
comunicazione imposta dalla legge 241/1990 il comune esclude la società dai
lavori di bonifica dell'area dall'amianto limitandosi a ricordare che pende
il procedimento penale. L'ente locale non spiega perché i fatti contestati a
società e amministratore integrino l'illecito professionale, ma nel verbale
sottolinea che il reato addebitato è un grave delitto contro la pubblica
amministrazione: un dato di fatto e non una motivazione.
È vero: il comune
si trova a disagio perché l'impresa risulta indagata in una vicenda che lo
coinvolge e intende agire per tutelare l'interesse pubblico. Ma la p.a. si
appiattisce sull'indagine penale e sarebbe contro i principi di Costituzione
e Cedu estromettere l'azienda senza che il gip si sia pronunciato sulle
accuse. Spese compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2019). |
TRIBUTI: Impianti
elettrici accatastabili. E tassabili. Comuni a
caccia di nuove basi imponibili.
La crisi economica oramai decennale,
insieme ai sempre minori trasferimenti da parte dello Stato, spinge gli enti
locali, al fine di non aggravare il carico impositivo con maggiori aliquote
nei confronti dei soggetti già stabilmente accertati quali contribuenti, a
verificare la correttezza nei confronti di questi ultimi delle loro basi
imponibili ma, soprattutto, a ricercarne di nuove.
Un esempio, al riguardo, è rappresentato dai soggetti proprietari di
impianti, costituiti da cabine e reti per la distribuzione dell'energia
elettrica i quali avrebbero dovuto includere nella stima di detti impianti
gli elementi caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio,
tale da realizzare un unico bene complesso, prescindendo dalla transitorietà
di detta connessione (per esempio le ciminiere, le pompe, i ventilatori, le
caldaie, le turbine).
Tali soggetti, approfittando di un contrasto giurisprudenziale (poi risolto
dal dl 44/2005) e di prassi (risolto dalla circolare dell'Agenzia del
Territorio n° 6/T del 30/11/2012), hanno spesso ritenuto di non essere
tenuti a presentare alcuna dichiarazione di aggiornamento catastale al fine
di includere nel classamento già accettato dall'Agenzia del Territorio gli
elementi, sui quali non vi era la citata uniformità di prassi e di
giudicato.
Già da alcuni anni, però, diversi enti locali hanno cercato di tradurre in
base imponibile la rilevanza dell'insistenza su un'area di detti impianti
(caratterizzati da una connessione strutturale con l'edificio accatastato)
applicando un concetto già presente nel Regio decreto 652 del 1939, secondo
il quale si considera unità immobiliare urbana ogni parte dell'immobile che
di per sé stessa è utile a produrre un reddito proprio (autonomia funzionale
e reddituale).
Questo ha portato alla formulazione di ricorsi contro le pretese impositive
degli enti locali: dopo giudizi ondivaghi da parte dei magistrati tributari,
un punto fermo sembra sia stato conseguito attraverso la
sentenza 11.04.2019 n. 10125 della Corte di
Cassazione, Sez. V civile, la quale ha stabilito che «il mancato
accatastamento determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto
irragionevole) esenzione dall'Ici, in contraddizione con il principio
costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva
capacità contributiva».
Pertanto bene ha fatto il comune, una volta constatata la rilevanza
catastale degli impianti, a procedere con l'emissione degli avvisi di
accertamento. E' comunque da sottolineare il fatto che i giudici hanno
riconosciuto l'incertezza normativa: ciò ha comportato la non applicazione
delle sanzioni.
Prima che si formasse tale orientamento da parte della Cassazione, tuttavia,
è intervenuto il legislatore a ridurre l'impatto economico sugli operatori
con la legge 208/2015 (cosiddetta «svuotaimpianti»), la quale prevede
che la rendita degli opifici non debba comprendere gli impianti stabilmente
infissi al suolo (cosiddetti «imbullonati»): in tal modo tale rendita
viene significativamente ridotta.
Analogo contrasto in giurisprudenza e nella prassi, si ritrova a proposito
della classificazione catastale di cave, miniere, saline, laghi, stagni da
pesca e tonnare, che l'articolo 18 del Regio decreto 08.10.1931 n. 1572
esclude dalla stima fondiaria e che l'Agenzia del territorio, con nota prot.
75779 del 04.11.2008, ritiene debbano essere iscritte al catasto fabbricati
in base a quanto disposto dall'articolo 2 del decreto ministeriale 28/1998:
in esso si precisa che l'unità immobiliare è costituita da una porzione di
fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da “un'area”,
che, nello stato in cui si trova e secondo l'uso locale, presenta
potenzialità di autonomia funzionale e reddituale.
Appare pertanto utile che gli enti locali tentino di recuperare attraverso
gli accertamenti tributari il gettito sinora non accertato su tutte queste
fattispecie (articolo ItaliaOggi del 29.06.2019).
---------------
MASSIMA
4. Il motivo è privo di pregio.
Occorre premettere che, come emerge dagli scritti difensivi
e dalla stessa sentenza impugnata, la società Enel presentò la
dichiarazione Docfa con riferimento ai soli edifici che contengono
la centrale di produzione idroelettrica e, sulla base della rendita
allora proposta, la società ricorrente versò l'imposta comunale per
l'anno 2005, omettendo di versare l'imposta comunale per gli
impianti e gli immobili serventi la centrale, non denunciati con la
menzionata procedura.
In assenza di rendita attribuita sia pure provvisoriamente a
detti impianti (sbarramento del Ba., area serbatoio
Ba., canale di raccolta e area esterna), il criterio utilizzabile
per determinare la base imponibile dell'Ici con riferimento a detti beni era
quello fondato sul valore di bilancio alla stregua del
disposto dell'art. 5 cit., secondo il quale la base imponibile Ici di
immobili ad uso industriale, appartenenti al gruppo D, deve
essere determinata attraverso il criterio del valore contabile ossia
sull'ammontare al lordo delle quote di ammortamento che risulta
dalle scritture contabili.
Sennonché, in mancanza della dedotta produzione da parte
dell'Enel della documentazione contabile richiesta
dall'amministrazione comunale, quest'ultima ha provveduto alla
determinazione della rendita sulla base di una stima redatta da
un professionista incaricato da Bim che ha determinato il valore
adottando il criterio comparativo con immobili similari agli
impianti non dichiarati, come consentito dal quarto comma
dell'art. 5 cit., che è stato abrogato solo con la legge finanziaria
n. 296/2006.
L'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504,
stabilisce che, per i fabbricati non iscritti in catasto (diversi da
quelli di cui al precedente comma 3), il valore va determinato
"con riferimento alla rendita dei fabbricati similari già iscritti".
Per la determinazione del valore degli immobili classificati in
cat. D non iscritti e privi di rendita la mancanza della "distinta
contabilizzazione in bilancio" non permette, difatti, il calcolo del
valore secondo la previsione di cui all'art. 5, terzo comma, del
d.lgs. n. 504 del 1992, ma consente solo l'applicazione della
regola residuale ivi contenuta nell'art. 5, quarto comma, secondo
la quale il valore ai fini I.C.I. deve essere stabilito con riferimento
a fabbricati "similari" già iscritti in catasto (Cass. n. 6609/2013;
Cass. n. 16916 del 2009).
Ed invero -quando trattasi di immobili classificati in cat. D non
iscritti privi di rendita- deve esser riaffermato il principio per cui
deve ritenersi che il legislatore abbia inteso prevedere due criteri tra di
loro subordinati. E cioè dapprima
viene il cosiddetto criterio contabile ex art. 5, comma 3, d.lgs. n.
504 del 1992 e secondariamente il più generale criterio di cui
all'art. 5, comma 4, stesso d.lgs. del calcolo della rendita a mezzo
del confronto con immobili "similari" già censiti.
5. Quanto alla dedotta insussistenza del potere impositivo
dell'ente comunale, in virtù dei commi 335 e 336 della l. n. 311
del 2004 e della l. n. 662 del 1996, art. 3, comma 58, alla
stregua dei quali il comune richiede agli interessati la
presentazione di atti di aggiornamento e se i soggetti interessati
non ottemperano alla richiesta, gli uffici dell'Agenzia del territorio
provvedono alla iscrizione in catasto dell'immobile non
accatastato, si osserva quanto segue.
Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. nn.
5784, 10489 e 21532 del 2013; n. 11477/2018) dalla quale non
vi sono ragioni per discostarsi, il classamento può avvenire
alternativamente o in forza della I. n. 662 del 1996, art. 3, comma
58, oppure ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, commi 335 e
336.
L'opposta interpretazione fa leva sulle disposizioni normative
introdotte dall'art. 1, commi 337 e 336, della legge
30.12.2014 nr. 311 (finanziaria 2005) che avrebbero
«definitivamente sancito la configurazione del sistema dei
rapporti tra contribuente ed amministrazioni preposte alla
determinazione delle rendite catastali nel senso che la deroga alla
efficacia ex nunc degli atti di attribuzione e modificazioni delle
rendite decorrente solo dalla loro notificazione, a cura dell'ufficio
del territorio competente, ai soggetti intestatari della partita, ai
sensi dell'art 74 - è prevista ai fine di sanzionare la renitenza
all'obbligo di presentazione della denuncia catastale».
In realtà le norme citate consentono ai Comuni di avvalersi motu
proprio di uno strumento procedurale per promuovere
l'adeguamento catastale alla reale situazione del patrimonio
immobiliare al fine di garantire maggiore equità fiscale e
contrastare fenomeni di evasione fiscale.
Ne consegue che, come insegna questa Corte (cfr. Cass.
4336/2015), la disciplina di cui all'art. 1, commi 336 e 337, l. 311
del 2004 si applica nel caso in cui sia il Comune a richiedere ai
titolari dei diritti reali la presentazione di atti di
aggiornamento per immobili non dichiarati in catasto.
Nella fattispecie in esame non si verte nella suesposta ipotesi in
quanto l'attribuzione catastale agli immobili di proprietà della
società Enel non è avvenuta su richiesta del Comune secondo la
procedura disciplinata dall'art. 1, comma 336, legge citata.
Nel caso di specie, come in quello considerato nella sentenza n.
19196 del 2006, il Comune «non si è affatto sostituito all'Ufficio
competente nel potere a questi spettante di attribuzione della
nuova rendita all'immobile», ma, constatata la rilevanza catastale
degli impianti, si è mantenuto nell'esercizio dei suoi poteri di
liquidazione e di accertamento dell'imposta, limitandosi a non
riconoscere l'esenzione dei beni in questione (cfr. anche Cass. n.
1706/2016).
La disposizione che impone al comune l'obbligo di richiedere
all'ufficio competente l'attribuzione della rendita nell'ipotesi di
negligenza del contribuente, non esclude il potere del Comune di
provvedere alla determinazione della rendita provvisoria ex art. 5
cit.
L'omessa dichiarazione di taluni beni e il mancato accatastamento
determinerebbe il riconoscimento di una aprioristica (quanto
irragionevole) esenzione dall'ICI, in contraddizione con il principio
costituzionale che vuole che le imposte siano parametrate alla effettiva
capacità contributiva.
Alla luce del doveroso rispetto di
siffatto principio, l'omessa dichiarazione non può (e non poteva
nemmeno prima del 2006) costituire un impedimento al
riconoscimento della sua imponibilità, in particolare ove tale
mancato accatastamento sia stato determinato da un'omissione
del contribuente, che non abbia provveduto a denunciare al
Catasto i cespiti (Cass. n. 19196 del 2006).
Nelle ipotesi di debenza dell'ICI a seguito di omessa
presentazione della dichiarazione relativamente a immobili non
iscritti in catasto, il Comune può procedere ad accertamento
senza dover preventivamente chiedere l'atto di classamento
all'Agenzia del Territorio (Cass. n. 15534 del 2010): né risulta, o
viene dedotto, che vi sia stata una richiesta da parte della società
contribuente di un accatastamento diverso da quello (o di una
variazione di quello) sulla cui base agisce il Comune ai fini della
determinazione della base imponibile. Sotto questo profilo non
sussiste un difetto di legittimazione passiva del Comune.
Per tali ragioni anche detto motivo è infondato.
Per quanto attiene alla censura specifica relativa all'assenza di
redditualità degli impianti, vale osservare che con l'articolo 1-quinquies del DL n. 44/2005 è stato disposto che "ai sensi e per
gli effetti dell'art. 1, comma 2, della Legge n. 212/2000, l'art. 4
del regio decreto n. 652/1939, convertito con modificazioni dalla
Legge 1249/1939, limitatamente alle centrali elettriche, si
interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono
costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse,
anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi
mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico
bene complesso. Pertanto, concorrono alla determinazione della
rendita catastale, ai sensi dell'art. 10 del citato regio decreto
legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili
costruiti per le speciali esigenze dell'attività industriale di cui al
periodo precedente anche se fisicamente non incorporati al
suolo".
Tanto precisato, i giudici di legittimità hanno affermato che, in
virtù di quanto disposto dal sopra menzionato articolo 1-quinquies
(norma di natura strettamente interpretativa), le centrali
elettriche non possono escludere gli impianti mobili dal computo
della rendita catastale ai fini dell'Ici, in quanto esse costituiscono
una parte essenziale dell'impianto fisso, senza le quali verrebbe
meno la classificabilità dell'unità immobiliare come centrale
elettrica.
In buona sostanza, questa Corte ha ritenuto che i serbatoi, le
ciminiere, le pompe, i ventilatori, le caldaie, i canali sono elementi
essenziali costitutivi del bene "centrale elettrica", ovvero impianti
necessari al ciclo di produzione dell'energia elettrica, in quanto è
"impossibile separare l'uno dall'altro senza la sostanziale
alterazione del bene complesso... che non sarebbe più nel caso di
specie, una centrale elettrica" (Cass. n. 24060/2006; n.
4030/2012), poiché anch'essi costituiscono una componente
strutturale ed essenziale della centrale stessa, sicché questa
senza quelle non potrebbe più essere qualificata tale, restando
diminuita nella sua funzione complessiva ed unitaria ed
incompleta nella sua struttura (v. Cass. n. 3354 del 2015).
Precisando, altresì, che "In tema di classamento di immobili e
con riferimento all'attribuzione della rendita catastale alle centrali idroelettriche, il D.L. 31.03.2005, n. 44, art.
1-quinquies
convertito in L. 31.05.2005, n. 88, includendo nella stima gli
elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili caratterizzati
da una connessione strutturale con l'edificio, tale da realizzare un
unico bene complesso, e prescindendo dalla transitorietà di detta
connessione nonché dai mezzi di unione a tal fine utilizzati, impone di
tener conto, nel calcolo della rendita, anche del valore
delle turbine, le quali si configurano come elementi essenziali
della centrale, incorporati alla stessa e non separabili senza una
sostanziale alterazione del bene complesso".
Tale disposizione, in quanto volta a dirimere un contrasto
ermeneutico insorto relativamente alla situazione specifica delle centrali elettriche, non appare irragionevole né introduce
un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri beni
classificabili nel gruppo catastale D, tenuto conto della
disomogeneità degl'immobili inclusi in tale categoria, né infine
contrasta con il principio della capacità contributiva, la cui
violazione non è prospettabile in riferimento alla determinazione
della rendita catastale, che non costituisce un'imposta né un
presupposto d'imposta (Cass. n. 13319 del 2006).
Questa
impostazione ermeneutica è stata sostanzialmente seguita anche
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2008,
allorché è stata investita della questione dì legittimità
costituzionale del ricordato del D.L. 31.03.2005, n. 44, art.
1-quinquies.
In proposito, il giudice delle leggi ha affermato che "il
legislatore ha inteso risolvere il contrasto interpretativo con
riferimento alle centrali elettriche (che si era determinato nella
giurisprudenza della Corte di Cassazione), senza innovare il
concetto di immobile per incorporazione, quale emergente dalla
normativa esistente ed evidenziato dalla giurisprudenza in
precedenza richiamata. L'unico effetto (del D.L. 31.03.2005,
n. 44, art. 1-quinquies) è quello di considerare immobili le centrali
elettriche, senza alcuna possibilità per il giudice di fornire una
diversa interpretazione, ma non anche quello di escludere dal
novero degli immobili per incorporazione le altre costruzioni pure
se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che
naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.
Tutte le infrastrutture diverse dai fabbricati delle centrali, come
gallerie, pozzi, laghi, dighe, turbine, condotte etc., che non
costituivano pertinenze delle stesse, sono beni da sottoporre ad
imposizione".
6. Con la seconda censura, si lamenta violazione degli artt. 1 e 25
del R.D. 1775/1933 e dell'art. 18 del R.D. 08.10.1931, ex art. 360
n. 3 c.p.c., per avere i giudici territoriali escluso la rilevanza, ai
fini impositivi, della gestione in concessione delle opere
idrauliche, in quanto le norme citate escludono dalla stima
fondiaria i laghi con superficie stabilmente occupata per la relativa
industria, ragion per cui le opere idrauliche in questione non sono
suscettibili di attribuzione di rendita catastale.
Deduce la
ricorrente che le sorgenti, fluenti e lacuali, anche se
artificialmente estratte dal suolo acquistano attitudine ad usi di
pubblico interesse e quindi inglobati nelle acque pubbliche, il che
consente il ritorno allo stato, al temine della concessione, delle
opere di raccolta e di derivazione delle acque, degli adduttori delle
acque.
7. Anche detta censura è priva di pregio.
Nel caso di specie, le aree cd. "scoperte", lo sbarramento e il
canale, risultano indispensabili al concessionario del bene
demaniale per svolgere la propria attività imprenditoriale; ciò che
conta ai fini ICI è che ogni area sia suscettibile di costituire
un'autonoma unità immobiliare, potenzialmente produttiva di
reddito.
In particolare, la censura riguarda l'insussistenza dei presupposti per l'imposizione tributaria ai fini ICI ex artt. 1 e 3
della legge 504 del 1992 perché i beni per i quali è stata rilevata
l'omessa presentazione della dichiarazione ICI, in particolare gli
impianti (sbarramento e area serbatoio Baghetto, canale
raccolta e area esterna), attraverso i quali l'ente sfrutta in concessione
le risorse idriche, appartengono al demanio dello
Stato e non alla società concessionaria che non sarebbe quindi
soggetto passivo di imposta.
9. Sennonché, con la l. 1643/1962 le acque pubbliche sono
state affidate ex lege in concessione all'Enel e secondo l'art. 18
legge 23/12/2000 nr. 388 in caso di concessioni su aree demaniali
il concessionario di un bene è soggetto passivo ai fini del
pagamento dell'imposta comunale sugli immobili, come
espressamente prevede la norma. Pertanto appare corretto e
dovuto il recupero dell'imposta ICI da parte del Comune
sussistendone i presupposti impositivi.
Del resto, la CTR ha accertato, con valutazione di fatto, non
censurabile in sede di legittimità, che la concessione per derivare
acqua non ha alcuna attinenza con le opere in questione. |
EDILIZIA PRIVATA: Deve
ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di
tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di
preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di
precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile
alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
---------------
A questo proposito, occorre rammentare che <<la precarietà di
un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione
edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va,
quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale dell'opera>>.
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso
di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e
non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non
possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
---------------
Proprio con riferimento alle tettoie, è stato di recente affermato
che deve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione
di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di
preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di
precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile
alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite
(in questo senso, TAR Napoli, sez. III, 29/05/2018, n. 3545).
A questo proposito, peraltro, occorre rammentare che <<la precarietà di
un manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione
edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va,
quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale dell'opera>> (C. Stato, sez. IV, 26/09/2018, n. 5525; nello
stesso senso, C. Stato, sez. VI, 11/01/2018, n. 150).
La precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso
di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e
non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non
possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli rivolti ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante (TAR Brescia, sez. I, 07/08/2018, n. 800)
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 11.04.2019 n. 458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Scadenza
di un termine a ritroso nella giornata di
sabato.
In base
all’interpretazione più restrittiva alla
quale aderisce il TAR Piemonte se un termine
calcolato a ritroso cade di sabato, il
termine ultimo è il venerdì precedente (se è
un giorno lavorativo)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.03.2019 n. 354 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. – Va, preliminarmente, rilevata la
tardività del deposito della memoria di
replica effettuato dall’Azienda ospedaliera
Santa Croce e Carle di Cuneo in data
27.10.2018.
Invero, ai sensi dell'art. 73, comma 1, del
codice del processo amministrativo, le parti
possono produrre memorie di replica fin a
venti giorni liberi prima dell'udienza (nel
rito per gli appalti il termine è
dimezzato).
Il termine dimezzato (di dieci giorni liberi
prima dell’udienza), nel caso di specie, da
parte dell’Azienda ospedaliera Santa Croce e
Carle di Cuneo, non è stato rispettato.
Invero, dieci giorni liberi prima
dell’udienza pubblica fissata per il giorno
07.11.2018, vengono a coincidere con il
26.10.2018 (il 27.10.2018 infatti è un
sabato e in base all’interpretazione più
restrittiva alla quale aderisce questo
Collegio se un termine calcolato a ritroso
cade di domenica o di sabato, il termine
ultimo sarà sempre il venerdì precedente (se
è un giorno lavorativo) mentre, come sopra
evidenziato, la memoria di replica è stata
depositata solo in data 27.10.2018.
Di tale memoria non può, pertanto, tenersi
conto ai fini della decisione.
La giurisprudenza è, difatti, concorde nel
ritenere che i termini fissati dall'art. 73
comma 1, del codice del processo
amministrativo, per il deposito di memorie
difensive e documenti abbiano carattere
perentorio, in quanto espressione di un
precetto di ordine pubblico processuale
posto a presidio del contraddittorio e
dell'ordinato lavoro del giudice; sicché la
loro violazione conduce all'inutilizzabilità
processuale delle memorie e dei documenti
presentati tardivamente, che vanno
considerati tamquam non essent
(Consiglio di Stato, sez. III, 25.03.2013,
n. 1640; sez. IV, 15.02.2013, n. 916; sez.
V, 13.02.2013, n. 860). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Trasformazione di un’area destinata
a verde in un insediamento residenziale – Carattere di reato
permanente – Perdurante attentato al bene giuridico protetto
– Fattispecie.
La lottizzazione abusiva consistente
nella trasformazione di un’area destinata a verde in un
insediamento residenziale assume carattere di reato
permanente quando va al contempo a confliggere con vincoli
ambientali dovuti alla presenza di una risorsa naturale
destinata dalla pubblica amministrazione all’uso pubblico
oppure di vincoli connessi a ragioni di sicurezza pubblica.
Il questi casi l’offesa tipica del reato di lottizzazione
abusiva si rinnova fin tanto che persiste il vincolo e la
situazioni di fatto che lo giustifica (nella fattispecie
l’area lottizzata, destinata dal PRG a verde agricolo, era
gravata da vincolo dovuto alla presenza di pozzi di acqua
potabile, connessi alla rete dell’acquedotto comunale, ed
inoltre gravata da vincolo aeroportuale).
Tale affermazione appare coerente col principio espresso
nell’importante sentenza della Cassazione sez. III penale,
n. 44836, dell’08.10.2018
(Pres Cavallo, Est. Di Nicola) secondo cui:
“Il reato di lottizzazione abusiva è un reato di durata ed
ha natura di reato progressivo nell’evento. Nondimeno, nella
lottizzazione abusiva cosiddetta “materiale”, non sempre il
reato si risolve e si consuma con la sola realizzazione di
opere, in quanto la condotta lottizzatoria può perdurare
ininterrottamente nel tempo, alla stessa stregua del reato
permanente, allorché, indipendentemente dall’avvenuto
completamento delle opere programmate ed eseguite, o da
ulteriori condotte criminose del lottizzatore o di terzi,
essa consenta, come nel caso in esame, l’uso o lo
sfruttamento del territorio da parte di terzi,
correlativamente impedendo o rendendo più difficoltoso la
concreta fruizione del bene da parte della collettività,
privata del verde pubblico e del servirsi dei parcheggi,
secondo la destinazione impressa alla zona dalla pubblica
amministrazione. In tale caso, la situazione antigiuridica
innescata dall’iniziale condotta lottizzatoria si protrae
nel tempo in considerazione del perdurante attentato al bene
giuridico protetto dall’incriminazione, con la conseguenza
che anche il solo mantenimento della situazione contra ius
è, in tal caso, sufficiente a perpetuare e ad approfondire
l’offesa”
(TRIBUNALE di
Palermo, Sez. III penale,
sentenza 26.03.2019 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia,
18 mesi per contestare le opere.
Diciotto mesi è il termine entro cui il privato
controinteressato può chiedere all'amministrazione di verificare la
legittimità delle opere edilizie realizzate a seguito di una Scia
(segnalazione certificato inizio attività).
È stata la Corte costituzionale con
sentenza 13.03.2019 n. 45 a risolvere la complessa vicenda della mancanza di un termine
indicato nella norma che consente al privato (art. 19, comma 6-ter, della
legge n. 241/1990), di chiedere all'amministrazione di sanzione le opere
realizzate con una Scia.
Il Tar Toscana aveva sollevato la questione di
costituzionalità di questa norma per violazione non solo degli artt. 3, 11,
97 e 117 della Costituzione ma anche dell'art. 1 del protocollo addizionale
alla Cedu, perché sarebbe comunque necessario un termine. La Corte
costituzionale, facendo comunque salva la discrezionalità del legislatore,
ha tuttavia ritenuto di avvalersi di una pronuncia additiva di principio
che, senza invadere la sfera riservata al legislatore, fornisce comunque uno
strumento per dare una soluzione costituzionalmente corretta alla lettura di
una determinata norma.
La Corte ha così ritenuto che trova comunque sempre
applicazione il termine dell'esercizio della tutela di cui all'art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990, che dispone appunto un termine
massimo di 18 mesi dal titolo abilitativo in quanto deve essere
necessariamente essere salvaguardato il principio di tutela dell'affidamento
del soggetto che ha presentato la Scia e realizzato i lavori, perché non può
essere esposto sine die al rischio dell'inibizione della relativa attività
edificatoria oggetto di Scia.
Questo termine certo di 18 mesi, ritiene la
Corte, è richiamato dall'art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 in quanto è
norma generale secondo cui le verifiche cui è chiamata l'amministrazione in
ordine alla Scia devono essere esercitate entro i 60 gg. o 30 dalla
presentazione della Scia stessa e poi entro i successivi 18 mesi (art. 19,
comma 4, che rinvia all'art. 21-nonies della legge n. 241/1990), per
l'eventuale contestazione anche da parte di terzi.
Decorsi questi termini,
la situazione soggettiva di colui che ha presentato la Scia si consolida
definitivamente nei confronti dell'amministrazione, ormai priva di poteri, e
quindi anche del terzo controinteressato. Quest'ultimo, infatti, è pur
sempre titolare dell'interesse legittimo pretensivo all'esercizio del
controllo amministrativo e, quindi, venuta meno la possibilità di dialogo
con il corrispondente potere, anche l'interesse si estingue.
Restano, ovviamente, sempre salvi i casi di dichiarazioni mendaci o false
attestazioni in relazione alle quali si può trovare applicazione del termine
dei 18 mesi
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.07.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione
a chiedere il titolo edilizio per opere
finalizzate alla gestione di un servizio
riservato per legge a determinati soggetti.
L’art. 11 del DPR
380/2001 stabilisce che il permesso di
costruire è rilasciato al proprietario
dell’immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo.
Tale
legittimazione, che vale anche per gli altri
titoli edilizi previsti dalla normativa
nazionale e regionale, non trova limite nel
fatto che le opere edilizie siano
finalizzate alla gestione di un servizio che
la legge riserva solo a determinati soggetti
in quanto lo jus aedificandi non si confonde
con lo jus utendi, fruendi et abutendi del
bene realizzato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.03.2019 n. 519 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2. Venendo al merito, il primo motivo
di ricorso è infondato.
L’art. 11 del DPR 380/2001 stabilisce che il
permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell’immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo.
Tale legittimazione vale anche per gli altri
titoli edilizi previsti dalla normativa
nazionale e regionale, come si rileva dal
successivo art. 23, comma 1.
Essa inoltre non trova limite nel fatto che
le opere edilizie siano finalizzate alla
gestione di un servizio che la legge riserva
solo a determinati soggetti in quanto lo
jus aedificandi non si confonde con lo
jus utendi, fruendi et abutendi
del bene realizzato.
Ne consegue che la controinteressata, in
qualità di soggetto attuatore del piano, ben
poteva chiedere di realizzare edifici
destinati a servizi facenti parte di altri
settori economici, riferendosi l’art. 42,
comma 1, del regolamento regionale n. 6 del
2004 al diverso ambito dell’organizzazione
ed erogazione dei servizi per il commiato. |
EDILIZIA PRIVATA:
La SCIA e la DIA non
vanno impugnate nel termine decadenziale,
quasi fossero un provvedimento
amministrativo, ma l’unica tutela
riconosciuta dalla legge ai terzi che si
ritengano lesi dai lavori iniziati a seguito
di una segnalazione certificata di inizio
attività o di una denuncia o dichiarazione
di inizio attività è quella di sollecitare
l’utilizzo dei poteri inibitori del Comune,
che le ricorrenti hanno effettivamente
richiesto, e poi impugnare l’atto di
vigilanza comunale se non favorevole (v.
art. 19, co. 6-ter, legge 07.08.1990, n.
241).
---------------
1. Per quanto riguarda le eccezioni
pregiudiziali, esse sono infondate.
Il fatto che anche le ricorrenti abbiano
sottoscritto la convenzione urbanistica per
l’attuazione del Piano di recupero non
costituisce una causa escludente la
legittimazione ma, al contrario, il titolo
per chiederne la corretta applicazione.
Deve escludersi anche la tardività
dell’azione in quanto la SCIA e la DIA non
vanno impugnate nel termine decadenziale,
quasi fossero un provvedimento
amministrativo, ma l’unica tutela
riconosciuta dalla legge ai terzi che si
ritengano lesi dai lavori iniziati a seguito
di una segnalazione certificata di inizio
attività o di una denuncia o dichiarazione
di inizio attività è quella di sollecitare
l’utilizzo dei poteri inibitori del Comune,
che le ricorrenti hanno effettivamente
richiesto, e poi impugnare l’atto di
vigilanza comunale se non favorevole (v.
art. 19, co. 6-ter, legge 07.08.1990, n.
241).
Pertanto, il fatto stesso che
l’Amministrazione si sia nella fattispecie
pronunciata sull’istanza delle ricorrenti
–quale che sia il termine entro il quale
quell’istanza era stata presentata– dà di
per sé loro titolo ad impugnare l’atto
sfavorevole emesso dall’ente locale.
Le eccezioni di rito vanno quindi respinte
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.03.2019 n. 519 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sul piano civilistico, con la
convenzione di lottizzazione i proprietari
dei terreni interessati alla urbanizzazione
pongono in essere un negozio di consorzio
urbanistico volontario -con assunzione delle
obbligazioni a fini organizzativi e con
costituzione degli effetti reali necessari
per conferire al territorio l'assetto
giuridico conforme al progetto approvato
dalla amministrazione- il quale consorzio,
come tale, è assoggettato alla disciplina
della comunione dettata dal codice civile,
in proporzione alle relative quote ex art.
1101, comma 2.
In particolare, si
tratta di “negozio (interno) di costituzione
di un consorzio urbanistico volontario.
---------------
2. Il secondo motivo di ricorso è
infondato.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez.
IV, sentenza 02.08.2011 n. 4576) ha chiarito
che “Sul piano civilistico, con la
convenzione di lottizzazione i proprietari
dei terreni interessati alla urbanizzazione
pongono in essere un negozio di consorzio
urbanistico volontario -con assunzione delle
obbligazioni a fini organizzativi e con
costituzione degli effetti reali necessari
per conferire al territorio l'assetto
giuridico conforme al progetto approvato
dalla amministrazione- il quale consorzio,
come tale, è assoggettato alla disciplina
della comunione dettata dal codice civile,
in proporzione alle relative quote ex art.
1101, comma 2”. In particolare, si
tratta di “negozio (interno) di costituzione
di un consorzio urbanistico volontario”
(così Cass. civ. Sez. I, 26/04/2010, n.
9941).
Il carattere meramente interno della
ripartizione delle quote comporta che la
ripartizione delle stesse non condiziona la
validità degli atti autorizzatori comunali e
che la sua violazione produce effetti solo
tra le parti del consorzio urbanistico.
Infatti è da escludere che la violazione di
tale ripartizione violi l’interesse pubblico
al corretto sviluppo urbanistico della città
che il Comune persegue con il rilascio dei
titoli edilizi.
Per quanto riguarda poi l’individuazione
delle c.d. attività compatibili (piccoli
interventi commerciali e/o di terziario,
come studi professionali, attività sportive
e ricreative, attività commerciali legate
all’agriturismo) e la loro localizzazione
(distribuite in modo omogeneo per ogni
edificio e collocate in linea generale al
piano terra dei fabbricati), è chiaro che la
previsione ha un carattere meramente
indicativo/descrittivo e non reca i
parametri stringenti che le ricorrenti
invocano, sì da residuare un significativo
margine di autonomia ai vari soggetti in
sede di attuazione del piano.
Il primo profilo del motivo va quindi
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.03.2019 n. 519 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la natura
dell’attività esercitata nella c.d. "Casa del
commiato", si tratta di una prestazione
di servizi.
Tale
attività, alla luce delle destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti indicate
dall’art. 23-ter del DPR 380/2001, è
compatibile con la destinazione d’uso
commerciale, essendo notorio che l’attività
commerciale in genere comprende la
prestazione di servizi.
Da ultimo occorre specificare che la "Casa
del commiato" non è destinata alla
tumulazione ma ai servizi funerari di
accompagnamento delle salme, con la
conseguenza che non appare manifestamente
incompatibile con la funzione residenziale
delle aree limitrofe e con le altre funzioni
ammesse nel comparto, salvi i circoscritti
limiti legati alle distanze.
---------------
Ugualmente deve dirsi per quanto riguarda la
contestata violazione del regime della
comunione tra i soggetti attuatori in
quanto, come sopra indicato, non rileva in
questa sede se sia stata effettivamente
violata la proporzione tra le relative
quote, purché risultino rispettate le soglie
di volumetria/s.l.p. previste dal piano.
Per quanto poi si riferisce alla natura
dell’attività esercitata nella c.d. "Casa del
commiato", si tratta di una prestazione di
servizi. Infatti l’art. 42 del Regolamento
regionale 09.11.2004, n. 6 stabilisce che 1.
I soggetti autorizzati allo svolgimento di
attività funebre possono realizzare e
gestire propri servizi per il commiato. A
sua volta il c. 6 stabilisce che il gestore
della sala per il commiato trasmette al
comune il tariffario delle prestazioni
concernenti i servizi per il commiato.
Tale
attività, alla luce delle destinazioni d’uso urbanisticamente rilevanti indicate
dall’art. 23-ter del DPR 380/2001, è
compatibile con la destinazione d’uso
commerciale, essendo notorio che l’attività
commerciale in genere comprende la
prestazione di servizi.
L’impossibilità di equiparare la "Casa del
commiato" ad una destinazione d’uso illecita
comporta poi che è irrilevante stabilire se
le altre parti lo avessero saputo oppure no.
Per quanto attiene alla quantificazione
della slp residua, deve escludersi che le
ricorrenti abbiano subito un danno dalla
realizzazione della Casa del Commiato in
quanto non risulta provata la saturazione
dell’attività commerciale e l’impossibilità
di convertire volumetria residenziale in
commerciale. Il Comune ha infatti
evidenziato che tutte le richieste delle
ricorrenti sono state soddisfatte.
Da ultimo occorre specificare che la "Casa
del commiato" non è destinata alla
tumulazione ma ai servizi funerari di
accompagnamento delle salme, con la
conseguenza che non appare manifestamente
incompatibile con la funzione residenziale
delle aree limitrofe e con le altre funzioni
ammesse nel comparto, salvi i circoscritti
limiti legati alle distanze.
Peraltro
l’Amministrazione ha ragionevolmente
evidenziato che “il fabbricato destinato
a Casa del Commiato ha un corpo di fabbrica
isolato, e posto ad una distanza dagli
edifici più vicini dei rispettivi ricorrenti
> di 35/40 m. e inoltre risulta marginale al
rimanente contesto residenziale del Piano di
Recupero” (in questi termini la nota del
18.02.2016).
In definitiva quindi il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 11.03.2019 n. 519 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Apertura
buste telematiche in seduta non pubblica.
La mancata apertura
delle buste telematiche in seduta pubblica
non comporta la
violazione dei principi di trasparenza e
pubblicità codificati negli artt. 4 e 30 del Dlgs.
50/2016.
Per il TAR, nella
fattispecie, la stazione appaltante si è
comportata correttamente, in quanto la
lettera di invito aveva previsto la
trasmissione delle buste (amministrativa ed
economica) in via telematica, su piattaforma Sintel.
Queste modalità di trasmissione sono
assistite, secondo il collegio, da garanzie
oggettive fornite da operatori esterni alla
stazione appaltante e dunque sono per sé
idonee a escludere la possibilità di
manipolare il contenuto delle offerte, una
volta pervenute alla stazione appaltante,
senza lasciare tracce informatiche.
Di
conseguenza, non è necessario, e
costituirebbe anzi un inutile aggravio
procedurale, aggiungere ulteriori
adempimenti, a maggior ragione se si tratta
di precauzioni pensate in origine per
salvaguardare il contenuto di plichi
cartacei
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.02.2019 n. 152 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Sull’integrazione dell’offerta
18. Non è possibile superare la mancata
previsione di una delle prestazioni
necessarie per il corretto svolgimento del
servizio. Il problema non è evidentemente il
solo costo aggiuntivo da sommare al resto
della spesa, ma l’assunzione dell’obbligo
giuridico di erogare la prestazione omessa.
Un atto d’obbligo formulato a posteriori con
effetto sanante non sarebbe solo
chiarificatore, ma equivarrebbe a una
modifica dell’offerta. Se tale opportunità
fosse concessa, vi sarebbe un trattamento
privilegiato rispetto ai concorrenti che
hanno fin dall’inizio impostato le loro
offerte nel senso voluto dalla stazione
appaltante.
19. La procedura di verifica di anomalia ex
art. 97 del Dlgs. 50/2016 non può
trasformarsi in uno strumento di convalida
delle offerte incomplete attraverso la
dimostrazione della sostenibilità economica
delle stesse, una volta integrate con i
contenuti giuridici mancanti. Il fatto che
nello specifico l’incompletezza dell’offerta
del RTI Se. sia stata individuata nella
procedura di verifica di anomalia (così
qualificata nella deliberazione del
direttore generale n. 1631/2018, punto 8) è
quindi irrilevante.
20. In concreto, si possono presentare
situazioni variegate. Nelle fattispecie al
confine tra integrazione e chiarimento, ad
esempio, si potrebbero aggiungere
all’offerta gli elementi mancanti che
abbiano un costo oggettivo stabilito da
un’autorità pubblica o da un soggetto
imparziale.
21. Nel caso in esame, tuttavia, non solo si
può osservare un’omissione che richiederebbe
una vera e propria integrazione
dell’offerta, per sé problematica, come si è
visto sopra, ma mancano anche dei parametri
che consentano di condurre in modo oggettivo
la prova di resistenza sul costo delle
prestazioni.
La quantificazione della spesa
per una singola guardia medica in 30 €/ora,
infatti, è una semplice ipotesi di Se.
2000 So.Co.So., oltretutto
elaborata (v. doc. 19) a partire dal
compenso orario per la reperibilità (3
€/ora) e dal gettone per i singoli accessi
alla struttura ospedaliera (50
€/intervento).
Mancano statistiche
attendibili che rendano omogenei i dati, e
verifiche provenienti da un’autorità
pubblica o da un soggetto imparziale.
Occorre poi sottolineare che la voce “Spese
generali e utile di impresa” non è
interamente a disposizione della
scomposizione e ricomposizione dei costi
dell’offerta, in quanto una provvista
ragionevole deve sempre rimanere integra per
le spese generali, e occorre inoltre che
sopravviva in qualche misura anche l’utile
di impresa.
Sul criterio di aggiudicazione
22. La scelta del criterio del minor prezzo
ai sensi dell’art. 95, comma 4, del Dlgs.
50/2016 è coerente con l’urgenza alla base
della gara e con il carattere standardizzato
delle prestazioni richieste.
Poiché la gara
non è finalizzata a individuare il
concessionario dell’intera UO di
Riabilitazione ma un fornitore di
prestazioni medico-infermieristiche, con
alcune attività accessorie, e poiché le
prestazioni medico-infermieristiche devono
essere conformi a protocolli omogenei allo
scopo di tutelare la salute dei pazienti,
non vi sono i presupposti per chiedere ai
concorrenti l’elaborazione di un’offerta
tecnica.
L’aggiudicazione è necessariamente
determinata dall’abbattimento del costo del
lavoro, che la stessa stazione appaltante
nella lettera di invito indica come la voce
di spesa di gran lunga prevalente.
23. Il fatto che si tratti di un appalto di
servizi sanitari non modifica la realtà
sostanziale, e dunque non impone
l’applicazione del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa ai sensi
dell’art. 142, comma 5-septies, del Dlgs.
50/2016 in mancanza di una qualsiasi utilità
per la stazione appaltante. Non è
ragionevole aggravare la procedura di gara
cercando di individuare il miglior rapporto
qualità/prezzo se, per la specificità delle
prestazioni richieste, il numeratore è fisso
per tutti i concorrenti.
24. Parimenti, il fatto che vi sia un’alta
intensità di manodopera non fa ricadere
automaticamente l’appalto tra quelli che
richiedono particolari protezioni ai sensi
dell’art. 50 del Dlgs. 50/2016. Nel caso in
esame, la competizione avviene in effetti
sul costo del lavoro, ma, viste le
professionalità coinvolte, non nella parte
più bassa della curva delle retribuzioni.
Non vi è quindi alcuna ragione per adottare
il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa come forma tutela preventiva dei
lavoratori.
Sull’apertura delle buste telematiche
25. Per quanto riguarda la mancata apertura
delle buste telematiche in seduta pubblica,
si ritiene che tale circostanza non comporti
la violazione dei principi di trasparenza e
pubblicità codificati negli artt. 4 e 30 del Dlgs. 50/2016.
26. In realtà, la stazione appaltante si è
comportata correttamente, in quanto la
lettera di invito aveva previsto la
trasmissione delle buste (amministrativa ed
economica) in via telematica, su piattaforma
Sintel.
Queste modalità di trasmissione sono
assistite da garanzie oggettive fornite da
operatori esterni alla stazione appaltante,
e dunque sono per sé idonee a escludere la
possibilità di manipolare il contenuto delle
offerte, una volta pervenute alla stazione
appaltante, senza lasciare tracce
informatiche.
Di conseguenza, non è
necessario, e costituirebbe anzi un inutile
aggravio procedurale, aggiungere ulteriori
adempimenti, a maggior ragione se si tratta
di precauzioni pensate in origine per
salvaguardare il contenuto di plichi
cartacei. |
URBANISTICA: In
giurisprudenza si tende a escludere la possibilità di configurare posizioni
di controinteressato al ricorso giurisdizionale proposto contro atti di
pianificazione generale, atteso che l'interesse qualificato, che costituisce
la premessa per il riconoscimento della posizione di controinteressato, deve
essere espressamente tutelato dal provvedimento ed oggettivamente
percepibile come un vantaggio, indipendentemente dall'interesse perseguito
dal ricorrente, e tali requisiti non ricorrono nel caso dello strumento
urbanistico generale, poiché la sua funzione esclusiva è quella di
predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dalle
posizioni dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o svantaggi che ad
essi possono derivare dalla pianificazione, salvo i possibili casi di
titolarità di posizioni differenziate, autonomamente individuabili e
tutelabili.
Tuttavia, la regola generale sopra enunciata, secondo cui nel caso
d’impugnazione di atti di pianificazione urbanistica, rivestendo essi natura
di atti generali, non vi sono controinteressati dal punto di vista formale,
subisce un'eccezione quando sia impugnato un piano o una variante
urbanistica avente un oggetto circoscritto, nonché nei casi in cui sia
evidente l'esistenza di posizioni specifiche in capo a soggetti interessati
al mantenimento dell'atto, che determinano la loro qualità di
controinteressati.
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7.1. In giurisprudenza si tende a escludere la possibilità di configurare
posizioni di controinteressato al ricorso giurisdizionale proposto contro
atti di pianificazione generale, atteso che l'interesse qualificato, che
costituisce la premessa per il riconoscimento della posizione di
controinteressato, deve essere espressamente tutelato dal provvedimento ed
oggettivamente percepibile come un vantaggio, indipendentemente
dall'interesse perseguito dal ricorrente, e tali requisiti non ricorrono nel
caso dello strumento urbanistico generale, poiché la sua funzione esclusiva
è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale,
prescindendo dalle posizioni dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o
svantaggi che ad essi possono derivare dalla pianificazione, salvo i
possibili casi di titolarità di posizioni differenziate, autonomamente
individuabili e tutelabili (C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 914/2017, C.d.S.,
Sez. IV, sentenza n. 4092/2015).
Deve, infatti, ricordarsi in proposito che, secondo un orientamento della
giurisprudenza amministrativa condiviso dal Collegio, la regola generale
sopra enunciata, secondo cui nel caso d’impugnazione di atti di
pianificazione urbanistica, rivestendo essi natura di atti generali, non vi
sono controinteressati dal punto di vista formale, subisce un'eccezione
quando sia impugnato un piano o una variante urbanistica avente un oggetto
circoscritto, nonché nei casi in cui sia evidente l'esistenza di posizioni
specifiche in capo a soggetti interessati al mantenimento dell'atto, che
determinano la loro qualità di controinteressati (così, ad es., C.d.S. Sez.
III, sentenza n. 652/2017; TAR Marche, sentenza n. 549/2016; TAR Genova,
sentenza n. 578/2016; TAR Piemonte, sentenza n. 1326/2015; TAR Toscana,
sentenza n. 1406/2014; TAR Molise, sentenza n. 469/2013, TAR Sardegna,
sentenza. n. 959/2913; TAR Piemonte, sentenza n. 3734/2010)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 13.02.2019 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Decorrenza
del termine per impugnare l’ammissione ad
una gara d’appalto.
La disposizione di cui
all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. –ai sensi
del quale il provvedimento che determina le
esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni ad essa all'esito della
valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali
va impugnato nel termine di trenta giorni,
decorrente dalla sua pubblicazione sul
profilo del committente della stazione
appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma
1, del codice dei contratti pubblici
adottato in attuazione della legge
28.01.2016, n. 11- non implica l’assoluta
inapplicabilità del generale principio
sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma
5, ultima parte, del c.p.a., per cui, in
difetto della formale comunicazione
dell'atto (o in mancanza di pubblicazione di
un autonomo atto di ammissione sulla
piattaforma telematica della stazione
appaltante) il termine decorre, comunque,
dal momento dell'intervenuta piena
conoscenza del provvedimento da impugnare,
ma ciò a patto che l’interessato sia in
grado di percepire i profili che ne rendano
evidente la lesività per la propria sfera
giuridica in rapporto al tipo di rimedio
apprestato dall'ordinamento processuale.
Nella decisione il Collegio dà atto della
presenza di un opposto orientamento, secondo
cui la pubblicazione degli atti della
procedura, ai sensi dell’art. 29, comma 1,
del d.lgs. n. 50 del 2016, è incombente
necessario riservato alla stazione
appaltante, che non può surrogare la
comunicazione “ufficiale” in seduta
pubblica, pur se avvenuta alla presenza dei
rappresentanti delle imprese, ma non ritiene
che il principio generale della piena
conoscenza dell’ammissione di ditte
concorrenti venga in realtà derogato dalle
disposizioni sopra richiamate
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.02.2019 n. 947 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
L’art. 120, comma 2-bis, del c.p.a. prevede
che: “Il provvedimento che determina le
esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni ad essa all'esito della
valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali
va impugnato nel termine di trenta giorni,
decorrente dalla sua pubblicazione sul
profilo del committente della stazione
appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma
1, del codice dei contratti pubblici
adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11”.
Risponde a quanto documentato negli atti di
causa la versione dei fatti fornita
dall’appellante, ovverosia che vi è stata
prima la fase di ammissione che si è
conclusa il 25.09.2017 e quindi
quella della valutazione delle offerte
chiusasi l’11.12.2017; il 22
settembre, in presenza di rappresentanti di
alcune delle concorrenti, tra questi
segnatamente An.Vu. e Pa.Ma.
per l’a.t.i. Vu.Ta., sono state aperte
le buste A relative alla documentazione
amministrativa relativa ai requisiti
soggettivi e pubblicato il relativo
contenuto, passaggio necessario per
l’ammissione all’esame delle buste B e C,
offerta tecnica ed offerta economica e
quindi la seduta è stata aggiornata al 25
settembre successivo nella quale la
documentazione presentata è stata
riconosciuta completa e conforme con la
conseguente ammissione alla fase di esame
dell’offerta per quattro concorrenti, tra
cui l’a.t.i. Fe..
Tali determinazioni sono state suggellate
con la decisione di procedere all’esame
delle offerte delle concorrenti ammesse e
ciò sempre in presenza di An.Vu. e
An.Vi., rappresentanti ufficiali
dell’a.t.i. Vu.Ta..
Ora, l’unico motivo del ricorso introduttivo
dell’a.t.i. Vu.Ta. consisteva nella
contestazione nei confronti
dell’aggiudicataria di aver presentato
corredata da cauzione provvisoria, prestata
dalla Ma.Fi.Ca. s.p.a., non più
iscritta nell’elenco speciale di cui
all’articolo 106 del d.lgs. 01.09.1993, n. 385 (TUB), abilitato a prestare, in
via esclusiva o prevalente, garanzie nei
confronti del pubblico, ai sensi del DM n.
53/2015, così come invece richiesto, a pena
di esclusione, tra le “Condizioni di
partecipazione” al punto “III.1.6).
Tale situazione è necessariamente emersa
nelle sedute di commissione del 22 e del 25.09.2017 ai rappresentanti della Vu.Ta. al momento della pubblicazione dei
contenuti delle buste A delle concorrenti e
costoro erano pienamente al corrente della
situazione della Ma.Fi.Ca. s.p.a.
secondo quanto emerge dalla nota del 19.03.2018 della stessa Ma., nota
depositata agli atti del ricorso di primo
grado, in cui la Ma. lamentava oltre al
mancato pagamento da parte della Vu.Ta. di una serie di polizze ad essa
rilasciate, anche delle doglianze della Vu. nel ricorso al Tribunale
amministrativo napoletano avverso
l’aggiudicazione ad a.t.i. capeggiato da
Fe. nella gara de quo, fondato
unicamente sulla mancanza di autorizzazione
della Ma. ad emettere cauzioni, a fronte
di un rapporto di prestazioni di garanzie
tra Vu. e Ma. che procedeva da almeno
due anni, ivi compresa cauzione provvisoria
per l’appalto identico a quello in causa per
il periodo immediatamente precedente.
Dunque, se non fossero state sufficienti le
presenze dei rappresentanti della Vu. alle
predette sedute, da quest’ultima nota emerge
che quanto rappresentato dalla Vu. era in
piena conoscenza di questa ed andava
contestato, ammessa e non concessa la
fondatezza delle tesi, nei termini di cui
all’art. 120, comma 2-bis, del codice del
processo amministrativo e non
successivamente all’aggiudicazione.
Come già argomentato dalla giurisprudenza (cfr.
Cons. St. n. 1843 del 2018; Cons. St. 5870
del 2017), la disposizione in parola non
implica l’assoluta inapplicabilità del
generale principio sancito dagli artt. 41,
comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del
c.p.a., per cui, in difetto della formale
comunicazione dell'atto -o, per quanto qui
interessa, in mancanza di pubblicazione di
un autonomo atto di ammissione sulla
piattaforma telematica della stazione
appaltante- il termine decorre, comunque,
dal momento dell'intervenuta piena
conoscenza del provvedimento da impugnare,
ma ciò a patto che l’interessato sia in
grado di percepire i profili che ne rendano
evidente la lesività per la propria sfera
giuridica in rapporto al tipo di rimedio
apprestato dall'ordinamento processuale.
In altri termini, “la piena conoscenza
dell’atto di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in
assenza della sua pubblicazione sul profilo
telematico della stazione appaltante, può
dunque provenire da qualsiasi fonte e
determina la decorrenza del termine
decadenziale per la proposizione del
ricorso” (Cons. St. 5870 del 2017).
Ciò sulla scorta generale di quanto
precisato dall’Adunanza plenaria con la
pronuncia n. 4 del 26.04.2018, secondo
cui la previsione di cui all’art. 120, comma
2-bis, è finalizzata a consentire la pronta
definizione del giudizio prima che si giunga
al provvedimento di aggiudicazione e,
quindi, a definire la platea dei soggetti
ammessi alla gara in un momento antecedente
all’esame delle offerte e alla conseguente
aggiudicazione.
Il legislatore ha quindi
inteso evitare che con l’impugnazione
dell’aggiudicazione possano essere fatti
valere vizi attinenti alla fase della
verifica dei requisiti di partecipazione
alla gara, il cui eventuale accoglimento
farebbe regredire il procedimento alla fase
appunto di ammissione, con grave spreco di
tempo e di energie lavorative, oltre al
pericolo di perdita di eventuali
finanziamenti, il tutto nell’ottica dei
principi di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di proporzionalità
del procedimento di gara.
Tale norma pone evidentemente un onere di
immediata impugnativa dei provvedimenti in
questione, a pena di decadenza, non
consentendo di far valere successivamente i
vizi inerenti agli atti non impugnati;
l’omessa attivazione del rimedio processuale
entro il termine preclude al concorrente la
possibilità di dedurre le relative censure
in sede di impugnazione della successiva
aggiudicazione, ovvero di paralizzare,
mediante lo strumento del ricorso
incidentale, il gravame principale proposto
da altro partecipante avverso la sua
ammissione alla procedura
Perciò non può che concludersi che le
circostanze ventilate che a parere
dell’appellata avrebbero dovuto determinare
l’esclusione dell’a.t.i. Fe. dovevano
ritenersi note non oltre la seduta del 25.09.2017 quale termine ultimo, in cui
si è chiuso l’esame della busta A
concernente la documentazione
amministrativa, formalmente riconosciuta
l’ammissione dei concorrenti asseritamente
in regola e deciso di procedere all’apertura
delle buste tecniche e successivamente
economiche.
Il Collegio conosce i precedenti in senso
contrario, ripresi nella sentenza impugnata,
secondo cui la pubblicazione degli atti
della procedura, ai sensi dell’art. 29, comma
1, del d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 5
bis del d.lgs. 07.03.2005 n. 82, è
incombente necessario riservato alla
stazione appaltante, che non può surrogare
la comunicazione “ufficiale” in seduta
pubblica, pur se avvenuta alla presenza dei
rappresentanti delle imprese, ma non ritiene
che il principio generale della piena
conoscenza dell’ammissione di ditte
concorrenti venga in realtà derogato,
soprattutto alla luce degli elementi che
hanno caratterizzato la vicenda in esame ora
passati in rassegna.
E la specificazione contenuta già nel bando
di gara secondo cui la cauzione provvisoria
era da costituirsi all’atto della
presentazione dell’offerta, non lascia
spazio a differenti interpretazioni sulla
sua natura di requisito essenziale di
partecipazione, visto che il disciplinare
stabiliva l’esclusione dalla gara in caso di
mancata costituzione (per tutte, Cons.
Stato, VI, 09.07.2018 n. 4180). |
EDILIZIA PRIVATA: -
la nozione di “pertinenza urbanistica” può sostenersi riguardo ad un’opera
sfornita di autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di volume
e cubatura e comunque dotata di un volume minimo;
- come già accennato, la nozione amministrativa di pertinenza è
divergente dall’accezione civilistica di pertinenza e più ristretta di
quest’ultima, essendo circoscritta a quei manufatti che non alterano in modo
significativo l’assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte
rispetto alla cosa cui ineriscono;
- in altre parole, per giurisprudenza costante la nozione di
pertinenza urbanistica, assoggettata ad un regime edilizio alquanto semplice
e favorevole, concerne solo opere di modesta entità ed accessorie rispetto
ad un’opera principale, come i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici, e non può riguardare opere le quali, dal punto di
vista delle dimensioni e della funzione, possano avere una loro autonomia
rispetto all’opera principale.
Pertanto, non può parlarsi di pertinenza
sotto il profilo urbanistico, ove le dimensioni e la destinazione dell’opera
ne mettano in luce l’autonoma rilevanza anche funzionale dal punto di vista
edilizio.
---------------
- osserva, tuttavia, il Collegio che il cd. "fabbricatino” adibito a
garage ha caratteristiche dimensionali e volumetriche (superficie coperta di
mq. 45,44, pari a mt. 6,4 X 7,10; altezza di mt. 2,30; cubatura di mc.
104,51) tali da escludere che lo stesso possa essere qualificato come
“pertinenza”.
Ed invero, secondo la giurisprudenza, la nozione di
“pertinenza urbanistica” può sostenersi riguardo ad un’opera sfornita di
autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di volume e cubatura e
comunque dotata di un volume minimo (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 23.03.2016, n. 1521; id., Sez. II,
02.07.2004, n. 9876);
- come già accennato, la nozione amministrativa di pertinenza è
divergente dall’accezione civilistica di pertinenza e più ristretta di
quest’ultima, essendo circoscritta a quei manufatti che non alterano in modo
significativo l’assetto del territorio, cioè di dimensioni modeste e ridotte
rispetto alla cosa cui ineriscono (TAR Piemonte, Sez. I, 04.09.2009, n. 2247);
- in altre parole, per giurisprudenza costante la nozione di
pertinenza urbanistica, assoggettata ad un regime edilizio alquanto semplice
e favorevole, concerne solo opere di modesta entità ed accessorie rispetto
ad un’opera principale, come i piccoli manufatti per il contenimento di
impianti tecnologici, e non può riguardare opere le quali, dal punto di
vista delle dimensioni e della funzione, possano avere una loro autonomia
rispetto all’opera principale.
Pertanto, non può parlarsi di pertinenza
sotto il profilo urbanistico, ove le dimensioni e la destinazione dell’opera
ne mettano in luce l’autonoma rilevanza anche funzionale dal punto di vista
edilizio (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 30.06.2014, n. 487; TAR
Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 05.11.2008, n. 4473; cfr., altresì,
C.d.S., Sez. V, 28.04.2014, n. 2196, che sottolinea che il manufatto deve
essere di dimensioni ridotte e modeste, affinché sia configurabile come
pertinenza sotto il profilo urbanistico)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 28.01.2019 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di autorimesse e di parcheggi non ubicati totalmente al di
sotto del piano naturale di campagna è soggetta alla disciplina urbanistica
dettata per le ordinarie costruzioni fuori terra.
Invero, “la
realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l.
n. 122 del 1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel
sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui i parcheggi da
destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di
sotto dell’originario piano naturale di campagna. Qualora, invece, non si
rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi
realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina
urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal
P.R.G.”.
---------------
- né, in proposito, può richiamarsi –come fa la ricorrente– l’art.
9 della l. n. 122/1989, atteso che la realizzazione di autorimesse e di
parcheggi non ubicati totalmente al di sotto del piano naturale di campagna
è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie costruzioni
fuori terra (C.d.S., Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 21.12.2013, n. 964).
Ancora di recente si è affermato che “la
realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l.
n. 122 del 1989 è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel
sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui i parcheggi da
destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di
sotto dell’originario piano naturale di campagna. Qualora, invece, non si
rispetti tale condizione, la realizzazione di un'autorimessa non può dirsi
realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina
urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal
P.R.G.” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 31.01.2018, n. 274)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 28.01.2019 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
assenza di una definizione normativa, la nozione di "sagoma" è stata
costantemente identificata con la conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale,
ovvero con il contorno che viene ad assumere l'edificio con ogni punto
esterno e non solamente le superfici verticali con particolari requisiti di
continuità, quali le pareti chiuse, cosicché non rilevano le sole aperture
che non prevedano sporgenze, mentre il prospetto si riferisce alla
superficie e alla facciata della costruzione e quindi al suo profilo
estetico-architettonico.
Ne consegue che l'apertura di nuovi balconi su un edificio ricostruito in
sostituzione di un precedente manufatto che ne era del tutto sprovvisto non
incide solo sull'aspetto architettonico della costruzione ma ne modifica i
punti esterni e la superficie verticale.
Sono esclusi, quindi, dal calcolo delle distanze solo gli sporti con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria (come le mensole,
i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), non anche le sporgenze
degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza, specie ove la normativa locale non preveda un diverso regime
giuridico per le costruzioni accessorie.
---------------
Come già stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, nell'ambito delle
opere edilizie la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli
interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano
interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le
componenti essenziali (quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali,
la copertura), mentre è ravvisabile la "ricostruzione" allorché
dell'edificio preesistente dette componenti siano venute meno, per evento
naturale o per volontaria demolizione, e l'intervento si traduca nell'esatto
ripristino del manufatto preesistente senza alcuna variazione rispetto al
precedente stato di fatto.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze
vigente al momento della medesima, nel suo complesso, ove lo strumento
urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle
maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle
ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti
eccedenti le dimensioni dell'edificio originario.
---------------
A parere della ricorrente, pur essendo indubbio che la ricostruzione
mediante demolizione dovesse attuarsi nel rispetto della sagoma della
costruzione precedente, quest'ultima, per quanto previsto dall'art. 3, comma
primo, lettera d), D.P.R. 380/2001, rappresentando l'involucro esterno o
contorno del fabbricato, non era stata alterata dalla realizzazione di
balconi, i quali incidevano sul prospetto e quindi sul solo aspetto
architettonico ed estetico del fabbricato. Di conseguenza la distanza andava
calcolata dai muri perimetrali dell'edificio ricostruito, senza considerare
gli elementi aggettanti.
Tale assunto non merita di essere condiviso.
L'art. 31, comma primo, lettera d), L. 457/1978 qualificava come interventi
di ristrutturazione edilizia quelli rivolti a trasformare i manufatti
mediante un insieme sistematico di opere idonee a condurre ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, con formula idonea ad
includere non soltanto le opere che riguardassero un fabbricato ancora
esistente (e, cioè, un'entità dotata quanto meno di murature perimetrali, di
strutture orizzontali e di copertura), ma anche la ricostruzione con la
fedele demolizione di un precedente fabbricato nel rispetto della sagoma,
del volume e delle superfici preesistenti (cfr., in motivazione, Cass.
14786/2017; Cass. s.u. 21578/2011; Cass. 22688/2009; Cass. 2009/3391).
La ricostruzione previa demolizione è stata, di seguito, espressamente
contemplata dal successivo l'art. 3, comma primo, lett. d), del D.P.R.
380/2001, ma lasciando inalterato, con previsione in parte qua non
innovativa, l'obbligo di conservare la medesima sagoma e volumetria
dell'edificio demolito (cfr., art. 1, D.Lgs. 301/2002, in vigore dal
05.02.2003), conformemente a quanto già disposto dall'art. 31, L. 457/1978.
In assenza di una definizione normativa, la nozione di sagoma è stata
costantemente identificata con la conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale,
ovvero con il contorno che viene ad assumere l'edificio con ogni punto
esterno e non solamente le superfici verticali con particolari requisiti di
continuità, quali le pareti chiuse, cosicché non rilevano le sole aperture
che non prevedano sporgenze, mentre il prospetto si riferisce alla
superficie e alla facciata della costruzione e quindi al suo profilo
estetico-architettonico (Corte cost. 309/2011; Cass. pen. 3849/1998; Cass.
8081/1994; Cass. pen. 25.11.1987; Cass. pen. 20846/2015).
Ne consegue che l'apertura di nuovi balconi su un edificio ricostruito in
sostituzione di un precedente manufatto che ne era del tutto sprovvisto non
incide solo sull'aspetto architettonico della costruzione ma ne modifica i
punti esterni e la superficie verticale.
Sono esclusi, quindi, dal calcolo delle distanze solo gli sporti con
funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria (come le mensole,
i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), non anche le sporgenze
degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da
solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed
ampiezza, specie ove la normativa locale non preveda un diverso regime
giuridico per le costruzioni accessorie (Cass. 19932/2017; Cass. 18282/2016;
Cass. 859/2016; Cass. 1406/2013).
In definitiva, come già stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte,
nell'ambito delle opere edilizie la semplice "ristrutturazione" si
verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente
interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano
inalterate le componenti essenziali (quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura), mentre è ravvisabile la "ricostruzione"
allorché dell'edificio preesistente dette componenti siano venute meno, per
evento naturale o per volontaria demolizione, e l'intervento si traduca
nell'esatto ripristino del manufatto preesistente senza alcuna variazione
rispetto al precedente stato di fatto.
In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze
vigente al momento della medesima, nel suo complesso, ove lo strumento
urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle
maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle
ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti
eccedenti le dimensioni dell'edificio originario (cfr., per tutte, Cass.
s.u. 21578/2011)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.01.2019 n. 473). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifica giurisprudenza, in materia edilizia la
legittimazione a impugnare i titoli edilizi in capo ai soggetti terzi, non
direttamente destinatari del provvedimento, è riconosciuta nel settore in
questione in base al criterio della vicinitas, vale a dire quando vi sia
stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello
interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem
un'alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, o incidono
sull'equilibrio urbanistico del contesto e l'armonico e ordinato sviluppo
del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su
immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quello qui in
discussione.
---------------
Si asserisce che i ricorrenti non sarebbero legittimati a ricorrere in
quanto sono solo residenti su via pubblica ove insiste l'edificio oggetto di
concessione (cosa questa che non attribuisce legittimazione a ricorrere).
Non si dice se i ricorrenti siano proprietari; sarebbero residenti in
pubblica via ma non confinanti; dovrebbe essere accertata la struttura
complessiva dell’edificio da ricostruire per accertare se c’è stata una
lesione della sfera giuridica dei ricorrenti.
5.1. Il mezzo è infondato.
Per pacifica giurisprudenza in materia edilizia la legittimazione a
impugnare i titoli edilizi in capo ai soggetti terzi, non direttamente
destinatari del provvedimento, è riconosciuta nel settore in questione in
base al criterio della vicinitas, vale a dire quando vi sia stabile
collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato
dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem
un'alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, o incidono
sull'equilibrio urbanistico del contesto e l'armonico e ordinato sviluppo
del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su
immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quello qui in
discussione (cfr. in tal senso per il principio, fra le tante, Cons. St.,
sez. IV, 11.06.2015, n. 2861; 23.06.2015, n. 3180; 19.11.2015, n. 5278; sez.
III, 17.11.2015, n. 5357; sez. VI, 21.03.2016, n. 1156).
Alla luce di tali coordinate che presiedono alla preliminare ricognizione
delle condizioni dell'azione, deve ritenersi che nel caso specifico la
sussistenza del rapporto di vicinitas tra le rispettive proprietà dei
ricorrenti e l’opera edilizia contestata è idoneo e sufficiente a
giustificare la sussistenza della legittimazione a ricorrere, consistente
nella titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata,
meritevole di tutela giuridica, quando, come nel caso di specie, si lamenti
che il titolo edilizio rilasciato sia in violazione e falsa applicazione
dell’art. 16 del r.d. n. 274/1929, e degli articoli 9-bis e 28 del
regolamento edilizio comunale del Comune di Bronte (Cons. St., sez. VI,
05.01.2015, n. 11)
(CGARS,
sentenza
31.12.2018 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: I
troppi intrecci creano conflitto. Il Consiglio di
stato sul codice dei contratti.
La concomitante presenza in commissione di ben due commissari che hanno
avuto rapporti –direttamente o indirettamente– con uno dei concorrenti
appare integrare l'ipotesi di conflitto di interessi di cui all'art. 42 del
codice dei contratti.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III con la
sentenza 07.11.2018 n. 6299.
Nel caso in esame una commissione di gara era composta, tra gli altri, da un
commissario che era stato 14 anni prima un dipendente dell'aggiudicataria e
un altro con un figlio che era –sia pure tramite società interinale–
dipendente della stessa impresa. Pertanto, una delle ditte partecipanti
aveva impugnato la nomina della commissione sopra citata.
I giudici di primo grado avevano ritenuto infondata la «violazione degli
obblighi di segnalazione e di apprezzamento delle situazioni potenzialmente
incidenti sulla legittimità dell'atto di nomina» con riguardo ai due membri
della commissione poiché i fatti evocati avrebbero semmai potuto comportare
solo una causa di astensione facoltativa.
Il Consiglio di stato, al contrario, accoglie il ricorso, annulla la
delibera di designazione dei componenti della commissione e,
conseguentemente gli atti successivi della procedura. Dispone, quindi, la
nuova nomina della Commissione di gara e la riedizione delle valutazioni.
I giudici di Palazzo Spada ritengono, infatti, che la compresenza nella
medesima Commissione di due commissari legati (seppure in passato o
indirettamente per tramite del figlio) alle imprese concorrenti rafforza la
percezione di compromissione dell'imparzialità che, invece, la disciplina
vuole garantire al massimo livello, al fine di scongiurare il ripetersi
nelle gare pubbliche di fenomeni distorsivi della par condicio e di una
«sana» concorrenza tra gli operatori economici.
Tale interpretazione risulta, peraltro, confermata dalla molteplicità di
strumenti che il nostro ordinamento ha predisposto con finalità di
prevenzione dei fenomeni corruttivi e dell'azione della criminalità
organizzata, strumenti che hanno passato il vaglio del giudice
sovrannazionale proprio in considerazione della peculiarità della situazione
nazionale
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
VARI: L'acquirente
prevale sul comodatario.
Il contratto di comodato di un bene stipulato dall'alienante di esso in
epoca anteriore al suo trasferimento non è opponibile all'acquirente del
bene stesso.
La
sentenza 31.10.2018 n. 27938, nel ribadire che la
posizione del comodatario sia, in linea generale, meno protetta rispetto a
quella del conduttore, richiama precedenti arresti della giurisprudenza di
legittimità in materia di acquisto, da parte di terzi, del bene oggetto di
comodato.
In tali ipotesi, atteso che le disposizioni dell'articolo 1599 del codice
civile non sono estensibili, per il loro carattere eccezionale, a rapporti
diversi dalla locazione (Cass. n. 5454 del 1991), l'acquirente a titolo
particolare della cosa data in precedenza dal venditore in comodato «non
può risentire alcun pregiudizio dall'esistenza di tale comodato e ha,
pertanto, il diritto di far cessare, in qualsiasi momento, a suo libito, il
godimento del bene da parte del comodatario e di ottenere la piena
disponibilità della cosa» (Cass. n. 664 del 2016).
La sentenza evidenzia peraltro che, allo stesso modo, «il contratto di
comodato è inopponibile in caso di trasferimento coattivo del bene, stante
la mancanza di una norma che stabilisca, come l'art. 2923 cod. civ. prevede
in favore del conduttore, l'opponibilità del diritto personale di godimento
all'aggiudicatario».
Il principio dell'inopponibilità del contratto di comodato al terzo
acquirente della cosa, derivante dalla regola generale di relatività degli
effetti contrattuali di cui all'articolo 1372 del codice civile, non
implica, dunque, che il contratto esaurisca automaticamente i propri effetti
al momento del trasferimento, ma solo che il comodatario non possa
pretendere di fare valere questi effetti nei confronti del terzo
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
APPALTI: Gare,
accesso difensivo solo se è indispensabile. Tutela di segreti industriali da
provare.
In una gara d'appalto chi, per la tutela di segreti
tecnici o commerciali, esercita il cosiddetto «accesso difensivo» sugli atti
di gara, deve dimostrare la diretta strumentalità del diniego di
divulgazione.
Lo ha affermato il Consiglio di
Stato, Sez. III, con la
sentenza 26.10.2018 n. 6083
che tratta la tematica dell'accesso difensivo (divieto di divulgare atti di
gara che potrebbero essere oggetto di riservatezza).
I giudici hanno ricordato che, in particolare, in tema di diritto
all'accesso alle offerte le norme del codice, nell'individuare un punto di
equilibrio tra esigenze di riservatezza e trasparenza, fanno prevalere le
ovvie esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione,
prevedendo un vero e proprio divieto di divulgazione.
Tale divieto viene poi superato ripristinando la fisiologica dinamica
dell'accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per «le
informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della
medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione
dell'offerente, segreti tecnici o commerciali».
Il punto è quindi come contemperare la contrapposizione degli interessi,
tema per il quale i giudici hanno precisato che occorre fare riferimento al
parametro della «stretta indispensabilità» (previsto all'art. 24,
comma 7, secondo periodo, della legge 241/1990) contemplato come idoneo a
giustificare la prevalenza dell'interesse di una parte, mossa dall'esigenza
di «curare o difendere propri interessi giuridici» rispetto
all'interesse di un'altra parte, altrettanto mossa dall'esigenza di curare o
difendere interessi giuridici legati ai dati sensibili che la riguardano e
che possono essere contenuti nella documentazione chiesta in sede di
accesso.
Pertanto, nel quadro del bilanciamento tra il diritto alla tutela dei
segreti industriali ed il diritto all'esercizio del cosiddetto «accesso
difensivo» ai documenti della gara cui l'impresa richiedente l'accesso
ha partecipato, per i giudici risulta necessario l'accertamento
dell'eventuale nesso di strumentalità esistente tra la documentazione
oggetto dell'istanza di accesso e le censure formulate. In tali casi,
infine, l'onere della prova del nesso di strumentalità incombe, secondo i
principi generali del processo, su chi agisce (articolo ItaliaOggi del 09.11.2018). |
APPALTI:
Il Rup può essere anche commissario di gara.
Il Rup può essere anche commissario di gara. Nella vigenza del nuovo codice
dei contratti, ai sensi dell'art. 77, comma 4, dlgs n. 50 del 2016, nelle
procedure di evidenza pubblica, il ruolo di responsabile unico del
procedimento può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la
concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da
una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli
stessi.
Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 26.10.2018 n. 6082.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un concorrente impugnava gli
esiti di una gara ad evidenza pubblica indetta dal Comune di Carpi - Unione
delle Terre d'Argine per l'individuazione di un concessionario di servizio
farmaceutico per una farmacia comunale di nuova istituzione, lamentando la
violazione dell'art. 77 del dlgs n. 50/2016 per avere un unico soggetto
ricoperto le cariche, tra loro asseritamente incompatibili, di dirigente
della centrale unica di committenza oltre che di presidente della
commissione giudicatrice. Chiamato a decidere la controversia, il consiglio
di stato ha avuto modo di ribadire, in concorde indirizzo con l'autorità
nazionale anticorruzione (Anac), l'inesistenza di una automatica causa di
incompatibilità tra i ruoli, a meno che non sussista la concreta
dimostrazione di una comprovata ragione di interferenza e di condizionamento
tra gli stessi. La soluzione così avallata, afferma la sentenza, costituisce
l'esito maggiormente coerente con l'opzione interpretativa che il
legislatore ha inteso consolidare con le modifiche apportate al codice dei
contratti pubblici con il dlgs n. 56/2017.
Ed infatti, integrando il disposto dell'art. 77, comma 4, con l'inciso «la
nomina del Rup a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento
alla singola procedura», si è esclusa ogni automatica incompatibilità
conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la
valutazione della sussistenza o meno dei presupposti affinché il Rup possa
legittimamente far parte della commissione gara
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: La
voce del portiere non basta. Il messo deve verificare la sede del
destinatario dell’atto. La Cassazione distingue, nell’ordinanza 27035, tra
irreperibilità relativa e assoluta.
Il messo notificatore non può fidarsi solo della
parola del portiere. Deve, infatti, svolgere accurate ricerche per
verificare l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che
quest'ultima non abbia più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel
comune sede del proprio domicilio fiscale, non potendosi ritenere
sufficiente, a tal fine, la generica dichiarazione rilasciata dal portiere
dello stabile.
A
statuire il principio è stata la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con l'ordinanza
24.10.2018 n. 27035.
Provvedimento risulta utile per delineare contorni giuridici e disciplina
delle due possibili ipotesi di irreperibilità: quella relativa e quella
assoluta.
Il caso. La
controversia sottoposta al giudizio del supremo collegio ha a oggetto
l'impugnazione proposta dal contribuente avverso un avviso di intimazione di
pagamento notificato dall'agente della riscossione alla società per omessa
notifica della prodromica cartella di pagamento, recante l'iscrizione a
ruolo dell'Iva dovuta a seguito di controllo automatizzato della
dichiarazione per l'anno di imposta 2003.
La società, in particolare, ha richiesto il giudizio degli ermellini, sulla
scorta di un unico motivo, per cassare la sentenza della Commissione
tributaria regionale con cui era stato rigettato l'appello, dalla medesima
proposto, nei confronti della sfavorevole sentenza di primo grado.
La Ctr aveva, infatti, ritenuto regolare la notifica della cartella di
pagamento in base a quanto sancisce l'art. 60 del dpr n. 600 del 1973 che
non prevede l'invio della raccomandata informativa di cui all'articolo 140
del codice di procedura civile, nell'ipotesi, come quella presuntivamente
verificatasi nella fattispecie, di irreperibilità assoluta del destinatario.
Irreperibilità relativa e assoluta.
La Cassazione, nel rigettare, preliminarmente, l'eccezione di difetto di
legittimazione passiva sollevata dall'Agenzia delle entrate, considerato che
la stessa è stata parte nei giudizi di merito in cui la società contribuente
aveva contestato anche la fondatezza della pretesa erariale, ha effettuato
una nitida e netta distinzione tra le due ipotesi di irreperibilità.
Infatti, nel caso di specie, non si è verificato, a differenza di quanto
sostiene l'ufficio notificante, un caso di irreperibilità assoluta, in cui,
legittimamente, non è previsto l'invio della raccomandata informativa, ma
un'ipotesi di irreperibilità relativa: come sostenuto dal ricorrente, il
messo notificatore non ha svolto tutte le ricerche dirette a verificare
l'irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest'ultima
non avesse più né l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede
del proprio domicilio fiscale, limitandosi ad attenersi, ritenendola
sufficiente ai fini della corretta notifica, alla generica dichiarazione
acquisita direttamente dal portiere dello stabile.
La decisione. La
Ctr aveva ritenuto idonee a giustificare il ricorso alla notifica a soggetto
assolutamente irreperibile, di cui alla lett. e), primo comma, dell'art. 60,
dpr n. 600 del 1973, la dichiarazione del portiere dello stabile ove era
ubicato il domicilio fiscale della società contribuente. Il custode aveva,
infatti, dichiarato di non conoscere la società oggetto della controversia.
Dichiarazione riconosciuta dai giudici di legittimità non idonea allo scopo,
circostanza, anzi, che avrebbe dovuto spingere, a maggior ragione,
l'ufficiale notificante a compiere ulteriori e specifiche verifiche per
accertare se l'indicazione del domicilio della società destinataria
dell'atto fosse corretto o se lo stesso non fosse mutato. Verifiche che
nella fattispecie concreta, risultanze processuali alla mano, erano state
del tutto omesse.
Sulla base di tali considerazioni, il ricorso è stato accolto, senza rinvio,
non ricorrendo l'esigenza del compimento di ulteriori accertamenti di fatto
né quella di procedere all'esame di altre questioni che la nullità della
notifica della cartella di pagamento, prodromica all'avviso di intimazione
di pagamento, anch'esso impugnato, ha reso del tutto superflue. L'agente
della riscossione controricorrente, peraltro, è stato condannato al
pagamento in favore della ricorrente delle spese del giudizio di
legittimità, mentre sono state compensate le spese processuali con l'Agenzia
delle entrate e quelle dei giudizi di merito.
Notifica da codice di procedura civile nell'ipotesi di
irreperibilità relativa. La
notifica degli atti impositivi va effettuata in base all'articolo 140 del
codice di procedura civile nelle ipotesi di irreperibilità relativa. Ossia,
nei casi in cui non sia possibile eseguire la consegna per irreperibilità o
per incapacità o rifiuto, l'ufficiale giudiziario è tenuto a depositare la
copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affiggere
avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o
dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, deve, infine, dare notizia di
tali adempimenti tramite raccomandata con avviso di ricevimento.
La Corte di cassazione aveva già in passato giudicato sul tema, sancendo
tale principio. In particolare, la suprema corte, con sentenza n. 16696 del
03/07/2013, confermata anche dalla sentenza n. 5374 del 18/03/2015, aveva
chiarito che «la notificazione degli avvisi e degli atti tributari
impositivi, nel sistema delineato dall'art. 60 del dpr 29.09.1973, n. 600,
va effettuata secondo il rito previsto dall'art. 140 cod. proc. civ. quando
siano conosciuti la residenza e l'indirizzo del destinatario, ma non si sia
potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile
consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, per essere ivi
temporaneamente irreperibile, mentre va effettuata secondo la disciplina di
cui all'art. 60 cit., comma 1, lett. e), quando il messo notificatore non
reperisca il contribuente perché risulta trasferito in luogo sconosciuto,
accertamento, questo, cui il messo deve pervenire dopo aver effettuato
ricerche nel comune dov'è situato il domicilio fiscale del contribuente, per
verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero
mutamento di indirizzo nell'ambito dello stesso comune».
Tale sentenza ricorda anche che «rispetto a tali principi, nulla ha
innovato la sentenza della Corte costituzionale del 22.11.2012, n. 258 la
quale nel dichiarare «in parte qua», con pronuncia di natura «sostitutiva»,
l'illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente
all'attualmente vigente quarto comma) dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n.
602, ovvero la disposizione concernente il procedimento di notifica delle
cartelle di pagamento, ha soltanto uniformato le modalità di svolgimento di
detto procedimento a quelle già previste per la notificazione degli atti di
accertamento, eliminando una diversità di disciplina che non appariva
assistita da alcuna valida «ratio» giustificativa e non risultava in linea
con il fondamentale principio posto dall'art. 3 della Costituzione».
Altro provvedimento da ricordare in materia è l'ordinanza della Cassazione
n. 24260 del 13/11/2014 secondo cui «è illegittima la notificazione degli
avvisi e degli atti tributari impositivi (nella specie, cartella di
pagamento) effettuata ai sensi dell'art. 60, primo comma, lett. e), del dpr
29.09.1973, n. 600, laddove il messo notificatore abbia attestato la sola
irreperibilità del destinatario nel comune ove è situato il domicilio
fiscale del contribuente, senza ulteriore indicazione delle ricerche
compiute per verificare che il trasferimento non sia un mero mutamento di
indirizzo all'interno dello stesso comune, dovendosi procedere secondo le
modalità di cui all'art. 140 cod. proc. civ. quando non risulti
un'irreperibilità assoluta del notificato all'indirizzo conosciuto, la cui
attestazione non può essere fornita dalla parte nel corso del giudizio».
Tali principi sono stati ribaditi dalla recente ordinanza della Cassazione
n. 2877 del 07/02/2018 che ha affermato che «in tema di notificazione
degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità
previste dall'art. 60, comma 1, lett. e), del dpr n. 600 del 1973 in luogo
di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l'ufficiale
giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l'irreperibilità
assoluta del contribuente, ossia che quest'ultimo non abbia più né
l'abitazione né l'ufficio o l'azienda nel comune già sede del proprio
domicilio fiscale» (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
TRIBUTI:
No rendita no Ici. Esenti fabbricati e aree edificabili. La Ctp
di Trento si allinea alla tesi della Cassazione.
Sui fabbricati privi di rendita i contribuenti non
pagano l'Ici, e quindi anche l'Imu e la Tasi, né sui fabbricati né sulle
aree edificabili sottostanti.
Lo ha affermato la commissione
tributaria di primo grado di Trento, II Sez., con la sentenza 05.10.2018
n. 166.
I giudici di merito, dunque, si allineano alla tesi espressa dalla
Cassazione sull'intassabilità delle cosiddette aree edificate.
I fabbricati, cosiddetti collabenti, non pagano le imposte locali non perché
manca il presupposto impositivo, ma perché non può essere determinata la
base imponibile considerato che il loro valore economico è pari a zero.
Tuttavia, questo non autorizza l'amministrazione comunale a richiedere il
pagamento dei tributi sull'area edificabile poiché si tratta di un'area che
è stata già edificata.
La Corte di cassazione (sentenza 17815/2017) ha chiarito che «il
fabbricato iscritto in categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol
perché collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed
improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir meno in capo
all'immobile -fino all'eventuale sua completa demolizione- la tipologia
normativa di fabbricato».
La categoria «F/2 (unità collabenti)»
viene attribuita ai fabbricati che non sono suscettibili di fornire reddito,
come le costruzioni non abitabili o non agibili a causa di dissesti statici,
fatiscenza o inesistenza di elementi strutturali e impiantistici, e comunque
nel caso in cui la concreta utilizzabilità non sia conseguibile con soli
interventi edilizi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Se le effettive condizioni dell'immobile siano tali da renderlo totalmente
inutilizzabile, a meno di radicali interventi viene disposto anche
l'azzeramento della rendita catastale. E agli atti viene conservata l'unità
immobiliare e i relativi identificativi con l'attribuzione della categoria
F/2. Non si può tassare, però, l'area edificabile in presenza di un
fabbricato regolarmente iscritto in catasto, anche se privo di rendita,
perché per ragioni contingenti inagibile. Sul tema ci sono pochi precedenti
della Cassazione.
Con sentenza n. 10735/2013 ha stabilito che ai fini Ici «la nozione di
fabbricato, di cui al dlgs 30.12.1992, n. 504, art. 2, rispetto all'area su
cui esso insiste, è unitaria, nel senso che, una volta che l'area
edificabile sia comunque utilizzata, il valore della base imponibile ai fini
dell'imposta si trasferisce dall'area stessa all'intera costruzione
realizzata». Ciò che rileva è il fabbricato e non l'area edificabile.
Con la sentenza 23347/2004 ha sostenuto che le aree edificabili sono
soggette a imposizione fino a quando venga realizzata una prima costruzione,
in quanto da tale momento oggetto di imposta è la costruzione mentre l'area
fabbricabile diviene area pertinenziale esente. Pertanto, non sono tenuti a
pagare le imposte locali gli immobili in corso di costruzione e tutti quelli
privi di rendita (articolo ItaliaOggi del 09.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Certificato
di abitabilità e compravendita.
«In tema di compravendita immobiliare, qualora il venditore ometta di
consegnare il certificato di abitabilità e, tuttavia, si accerti
l'utilizzabilità del bene, il compratore non può chiedere il risarcimento
del danno commisurato all'importo dei canoni di locazione perduti, atteso
che il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze
amministrative relative alla destinazione d'uso di un bene immobile o alla
sua abitabilità non è in sé di ostacolo alla valida costituzione di un
rapporto locatizio».
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile (ordinanza
18.05.2018 n. 12226)
(articolo ItaliaOggi del 05.06.2019).
---------------
MASSIMA
1 Con il primo motivo si denunzia ai sensi dell'art. 360, n. 3, cpc
la violazione ed errata applicazione degli artt. 1477, 1453 e 1455 cc. per
avere la Corte d'Appello ritenuto che la mancata consegna del certificato di
abilità costituisse un inadempimento di scarsa importanza, discostandosi in
tal modo dal prevalente orientamento giurisprudenziale.
2 Con il secondo motivo la ricorrente deduce ai sensi dell'art. 360
n. 3 cpc la violazione ed errata applicazione degli artt. 1218, 1453, 1455 e
2697 cc rimproverando alla Corte di Appello di avere invertito l'onere
probatorio violando la tradizionale regola secondo cui spettava al convenuto
di fornire la prova dell'esatto adempimento oppure che l'inadempimento era
stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a
lui non imputabile.
Ad avviso della ricorrente spettava ai venditori di provare perché non erano
stati in grado di adempiere alla loro obbligazione oppure che il certificato
potesse essere rilasciato, restando assolutamente irrilevante, rispetto
alla inesistenza della agibilità, l'eventuale perfezionamento di
procedimenti urbanistici di sanatoria. Richiama il principio della
presunzione di colpa dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1218 cc.
Queste due censure, da esaminarsi congiuntamente perché collegate al
problema dell'incidenza del certificato di abitabilità nel sinallagma
contrattuale, sono manifestamente infondate.
Secondo la prevalente e più recente giurisprudenza di questa Corte,
in tema di compravendita immobiliare, la mancata consegna al
compratore del certificato di abitabilità non determina, in via automatica,
la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore,
dovendo essere verificata in concreto l'importanza e la gravità
dell'omissione in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene,
sicché, ove in corso di causa si accerti che l'immobile promesso in vendita
presentava tutte le caratteristiche necessarie per l'uso suo proprio e che
le difformità edilizie rispetto al progetto originario erano state sanate a
seguito della presentazione della domanda di concessione in sanatoria, del
pagamento di quanto dovuto e del formarsi del silenzio-assenso sulla
relativa domanda, la risoluzione non può essere pronunciata
(v. tra le varie, sez. 2, Ordinanza n. 29090 del 05/12/2017 Rv. 646535; Sez.
6 - 2, Ordinanza n. 22561 del 2014; Sez. 2, Sentenza n. 13231 del 31/05/2010
Rv. 613156).
Il principio, affermato in tema di risoluzione del
contratto preliminare, vale logicamente anche per il contratto definitivo.
Ebbene, nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato che la
mancanza di agibilità non incide sulla funzione economico-sociale del bene e
ha tratto tale convincimento dal fatto, pacifico tra le parti e attestato
anche nel rogito notarile, "che non constano irregolarità sul piano
edilizio-urbanistico (la costruzione risale a data anteriore al 10.09.1967
ed è subentrata concessione in sanatoria in data 03.04.1998 con cambio di
destinazione, ora commerciale)".
Come si vede, l'apprezzamento in fatto sulla assenza di elementi ostativi al
rilascio del certificato di abitabilità, si rivela conforme ai principi di
diritto affermati da questa Corte sugli effetti della mancata consegna del
certificato di abitabilità e non si pone neppure in contrasto col precedente
citato dalla ricorrente (Ordinanza n. 2438/2016): in quel caso, infatti, il
rifiuto dei promissari acquirenti di procedere alla stipula del definitivo
era stato ritenuto giustificato in quanto il dato oggettivo della mancata
consegna del certificato di destinazione urbanistica -il cui obbligo grava
ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ.-
non risultava suffragato da alcun elemento che potesse in qualche modo far
ritenere sussistente l'idoneità del bene ad assolvere la funzione
economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè
la fruibilità e la commerciabilità del bene. |
PUBBLICO IMPIEGO: Licenziato
chi registra colleghi. Rischia chi detiene (non autorizzato) le
conversazioni. La conclusione a cui si giunge
esaminando due pronunce della Corte di cassazione.
Rischia il licenziamento il dipendente che registra occultamente
conversazioni tra colleghi. È questa la conclusione a cui si giunge sulla
base delle due pronunce, di segno opposto, pubblicate dalla Cassazione lo
scorso maggio, a distanza di sei giorni l'una dall'altra. La legittimità
delle registrazioni occulte di conversazioni tra colleghi e la loro
utilizzabilità in giudizio sono da tempo oggetto di opposti orientamenti
giurisprudenziali, come emerge anche dalle due recenti pronunce in commento.
Con la
sentenza 10.05.2018 n. 11322, la Corte
di Cassazione -Sez. lavoro- ha confermato l'illegittimità
del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver
consegnato al datore di lavoro, nell'ambito di un procedimento disciplinare,
una chiavetta Usb contenente registrazioni di conversazioni tra colleghi
durante l'orario di lavoro, a loro insaputa, e per averne effettuate altre,
anche video, in assenza della loro autorizzazione.
Poiché la registrazione costituisce trattamento di dati personali, ai fini
della decisione la Cassazione ha esaminato la contestazione, anzitutto,
sulla base della normativa sulla privacy. Secondo la Suprema corte, le
registrazioni sarebbero state effettuate dal lavoratore al solo fine di
tutelare la propria posizione, messa a rischio da contestazioni disciplinari
«non proprio cristalline» e da un contesto di conflitto con i colleghi: il
che costituirebbe trattamento legittimo, ancorché in assenza del consenso e
a insaputa degli interessati, in quanto funzionale alla tutela di un
diritto.
Il lavoratore avrebbe inoltre adottato tutte le cautele per non diffondere
le registrazioni e il trattamento che ne è derivato sarebbe stato pertinente
e non eccedente le finalità difensive che lo hanno giustificato. Oltre a
queste motivazioni, la Cassazione ha richiamato anche il principio
giurisprudenziale secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio
da parte di chi vi assiste o partecipa, rientrando tra le riproduzioni
meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile, nel
processo sia civile che penale (Cass. civ. n. 27424/14 e Cass. pen. n.
31342/11).
La Cassazione ha così confermato l'illegittimità del recesso e, in
accoglimento del ricorso incidentale del lavoratore, ha applicato la tutela
reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori in
quanto l'addebito, ancorché materialmente sussistente, è stato ritenuto
privo di illiceità.
Con l'ordinanza 16.05.2018 n. 11999,
pronunciata in una fattispecie simile, la Suprema corte -Sez. lavoro- è giunta invece ad una conclusione opposta, confermando la legittimità del
licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver registrato
occultamente una conversazione telefonica tra il datore di lavoro e un
collega, nonché altre conversazioni avvenute durante una riunione aziendale.
Anche in questo caso, le registrazioni -secondo la prospettazione del
lavoratore- erano giustificate da finalità di tutela dei propri diritti,
ossia nell'ottica di sporgere querela per le condotte mobbizzanti subite.
La Cassazione, però, ha ritenuto illegittima la condotta del lavoratore per
due ordini di ragioni: da un lato, ha richiamato l'opposto orientamento
giurisprudenziale secondo cui la registrazione di conversazioni tra presenti
all'insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla
riservatezza, tale da legittimare il licenziamento (Cass. civ. n.
16629/2016); dall'altro lato, ha ritenuto carenti di prova -e dunque
assenti- le condotte mobbizzanti addotte dal lavoratore per giustificare la
finalità difensiva delle registrazioni.
Com'è evidente, la linea di confine tra registrazioni occulte legittime o
illegittime è molto sottile. La valutazione dipende da diversi fattori e
deve pertanto essere condotta caso per caso: certo, il lavoratore dovrà
curarsi, soprattutto, di fornire idonee prove della finalità difensiva alla
base delle registrazioni e di farne ponderato utilizzo, vista la posta in
gioco
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Perché possa ricorrere l’ipotesi di
esenzione del contributo di costruzione di cui
all’art. 17 DPR 380/2001, occorre che gli
interventi da realizzare costituiscano attuazione di
norme o di provvedimenti amministrativi che
espressamente li prevedono (e non siano invece
effetto di una scelta volontaria del soggetto, sia
pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che
siano stati adottati a seguito di eventi
eccezionali, dannosi o pericolosi per la
collettività, tali da richiedere l’esercizio di
poteri straordinari.
---------------
4. Nel merito, il Collegio ritiene opportuno
rilevare –anche al fine di meglio circoscrivere le
ragioni per le quali l’appello deve essere accolto-
che sia il motivo con il quale si censura la
sentenza impugnata per non aver considerato
applicabili, nel caso di specie, gli artt. 16, co. 1,
e 17, co. 3, DPR n. 380/2001, recante quest’ultimo
(lett. d) l’esenzione per la ricostruzione a seguito
di “pubbliche calamità” (motivo sub lett. a)
dell’esposizione in fatto), sia il motivo con il
quale si censura la sentenza per non aver ricondotto
le opere alla manutenzione straordinaria, anziché
alla ristrutturazione edilizia (sub lett. b1)
dell’esposizione in fatto), sono infondati e devono
essere, pertanto, respinti.
4.1. Quanto al primo, occorre premettere che il
permesso di costruire è provvedimento naturalmente
oneroso (da ultimo, Corte Cost., 03.11.2016 n.
231), di modo che le norme di esenzione devono
essere interpretate come “eccezioni” ad una regola
generale (e da considerarsi, quindi, di stretta
interpretazione), non essendo consentito alla stessa
potestà legislativa concorrente di ampliare le
ipotesi al di là delle indicazioni della
legislazione statale, da ritenersi quali principi
fondamentali in tema di governo del territorio
(Corte Cost., n. 231/2016 cit.).
L’art. 17, co. 3, lett. d), DPR n. 380/2001 prevede
la esenzione dal contributo di costruzione “per gli
interventi da realizzare in attuazione di norme o di
provvedimenti emanati a seguito di pubbliche
calamità”.
Si tratta di due distinte ipotesi, ambedue sorrette
dal presupposto della “pubblica calamità”. Quest’ultima deve essere intesa come un evento
imprevisto e dannoso che, per caratteristiche,
estensione, potenzialità offensiva sia tale da
colpire e/o mettere in pericolo non solo una o più
persone o beni determinati, bensì una intera ed
indistinta collettività di persone ed una pluralità
non definibile di beni, pubblici o privati.
Ciò che caratterizza, dunque, il carattere
“pubblico” della calamità e la differenzia da altri
eventi dannosi, pur gravi, è la riferibilità
dell’evento (in termini di danno e di pericolo) a
una comunità, ovvero ad una pluralità non definibile
di persone e cose, laddove, negli altri casi,
l’evento colpisce (ed è dunque circoscritto) a
singoli, specifici soggetti o beni e, come tale, è
affrontabile con ordinarie misure di intervento.
Se, dunque –come sostenuto dall’appellante–
l’evento deve caratterizzarsi per straordinarietà,
imprevedibilità e una portata tale da essere “anche
solo potenzialmente pericoloso per la collettività”,
ciò non è, tuttavia, sufficiente a qualificarlo
quale “calamità pubblica”, posto che deve comunque
trattarsi di un evento non afferente a beni
determinati e non affrontabile e risolvibile con
ordinari strumenti di intervento, sia sul piano
concreto che su quello degli atti amministrativi.
In senso riconducibile al concetto ora espresso, gli
artt. 2, co. 1, lett. c) e 5 l. 24.02.1992 n.
225, prevedono il conferimento di poteri
straordinari di ordinanza per il caso di “calamità
naturali” (e, come tali, “pubbliche”), e l’art. 54
DPR 08.08.2000 n. 267, conferisce al Sindaco,
quale Ufficiale di Governo, il potere (delegabile
nei limiti previsti dal medesimo articolo) di
emanare ordinanze contingibili ed urgenti “al fine
di prevenire e di eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza
urbana”; potere di ordinanza che va tenuto distinto
da quello, di carattere “ordinario” e riferito al
Sindaco quale rappresentante della comunità locale,
previsto dall’art. 50 del medesimo Testo Unico degli
Enti locali.
In conclusione, perché possa ricorrere l’ipotesi di
esenzione di cui all’art. 17 cit., occorre che gli
interventi da realizzare costituiscano attuazione di
norme o di provvedimenti amministrativi che
espressamente li prevedono (e non siano invece
effetto di una scelta volontaria del soggetto, sia
pure in conseguenza di provvedimenti emanati), e che
siano stati adottati a seguito di eventi
eccezionali, dannosi o pericolosi per la
collettività, tali da richiedere l’esercizio di
poteri straordinari.
Nel caso di specie, l’incendio che ha colpito
l’immobile della società ricorrente, se pur grave e
tale da poter divenire fonte di pericolo per la
collettività, ove non tempestivamente circoscritto,
tuttavia si caratterizza quale evento che ha colpito
beni specifici e che, per dimensioni,
caratteristiche ed intensità, è stato tale da non
richiedere particolari interventi di contrasto o
esercizio di poteri straordinari.
Ne consegue, quindi, la inapplicabilità
dell’esenzione di cui all’art. 17, co. 3, lett. d),
DPR n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2017 n. 2567 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ciò che
caratterizza gli interventi di manutenzione straordinaria è la preesistenza (e
presenza in atto) di un edificio sul quale si
interviene al fine di rinnovarlo o parzialmente
sostituirlo, onde renderlo più idoneo all’uso cui lo
stesso è finalizzato.
Laddove, invece, si interviene mediante demolizione
(anche parziale) di un edificio e sua ricostruzione,
può ricorrere sia l’ipotesi di ristrutturazione
edilizia (laddove si rispettino le condizioni di cui
all’art. 3, co. 1, lett. d), DPR n. 380/2001, sia,
in difetto di queste ultime, un’ipotesi di nuova
costruzione.
---------------
4.2. Quanto al secondo profilo del secondo motivo
innanzi indicato, occorre osservare che la natura
dell’intervento da realizzare fuoriesce dall’ambito
della “manutenzione straordinaria”, come definita
sia dall’art. 3, co. 1, lett. b), DPR n. 380/2001,
sia dall’art. 27, co. 1, lett. b), l.reg. Lombardia
n. 12/2005 (norma, in particolare, evocata dalla
ricorrente).
La disposizione legislativa statale qualifica gli
interventi di manutenzione straordinaria, tra
l’altro, come “le opere e le modifiche necessarie
per rinnovare e sostituire parti anche strutturali
degli edifici”, mentre la disposizione regionale
qualifica tali, in particolare, “le opere e le
modifiche riguardanti il consolidamento, il
rinnovamento e la sostituzione di parti anche
strutturali degli edifici”.
Per quel che interessa ai fini della presente
decisione, ciò che caratterizza gli interventi di
manutenzione straordinaria è la preesistenza (e
presenza in atto) di un edificio sul quale si
interviene al fine di rinnovarlo o parzialmente
sostituirlo, onde renderlo più idoneo all’uso cui lo
stesso è finalizzato.
Laddove, invece, si interviene mediante demolizione
(anche parziale) di un edificio e sua ricostruzione,
può ricorrere sia l’ipotesi di ristrutturazione
edilizia (laddove si rispettino le condizioni di cui
all’art. 3, co. 1, lett. d), DPR n. 380/2001: v.
Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017 n. 443), sia,
in difetto di queste ultime, un’ipotesi di nuova
costruzione.
Nel caso di specie, l’intervento oggetto del
richiesto permesso di costruire concerneva la
“ricostruzione del fabbricato totalmente crollato in
quanto investito dall’incendio del 20.09.2012” (v. pagg. 3 – 4 app.),
di modo che, alla luce delle considerazioni esposte,
non può ricorrere una ipotesi di manutenzione
straordinaria (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.05.2017 n. 2567 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Allorché sia controversa
la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità
di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l'accertamento
dell'inattaccabilità anche di una sola di esse vale a
sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in
sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le
doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni, con
salvezza degli atti impugnati.
---------------
4. Con gli ulteriori motivi di ricorso, che possono essere
esaminati congiuntamente, per comunanza delle relative
censure, deduce il ricorrente l’illegittimità dell’impugnato
provvedimento, in quanto adottato sulla base di un
presupposto –l’avvenuta, totale distruzione del bene– non
rispondente all’obiettiva realtà fattuale.
Gli assunti sono infondati.
4.1. Premette anzitutto il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza amministrativa, “allorché sia controversa
la legittimità di un provvedimento fondato su una pluralità
di ragioni di diritto tra loro indipendenti, l'accertamento
dell'inattaccabilità anche di una sola di esse vale a
sorreggere il provvedimento stesso, sì che diventano, in
sede processuale, inammissibili per carenza di interesse le
doglianze fatte valere avverso le restanti ragioni, con
salvezza degli atti impugnati” (C.d.S, IV, 17.09.2012,
n. 4924. In termini confermativi, cfr. altresì, ex multis,
C.d.S, III, 12.09.2012, n. 4850; C.d.S, IV, 30.05.2005, n.
2767; TAR Puglia, Lecce, I, 03.04.2008, n. 981)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 09.03.2017 n. 393 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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